12 Incontri - teknotre.org · dalla società [salvo pochissime eccezioni quali quella di Aspasia,...

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1 “L‟eterno femminino ci attira in alto … accanto a sé oltre il tempo” (Goethe, Faust) Donne ispirate o ispiratrici, nel bene come nel male, volti luminosi od oscuri tra mito e storia, protagoniste drammatiche della cultura e nella vita Con letture esemplificative di Simonetta Scaccabarozzi e Livia Casagrande 12 Incontri PROGRAMMA 1. Medea 2. Aspasia di Mileto 3. Ipazia di Alessandria 4. Ildegarda di Bingen 5. Elòisa di Parigi 6. Lucrezia Borgia 7. Lady Macbeth 8. Madre Courage 9. Artemisia Gentileschi 10. Anita Garibaldi 11. Elena Blavatsky 12. Simone Weil Leonardo Sola: studioso del pensiero filosofico e religioso d’Oriente e d’Occidente. Conferenziere e autore di saggi su Teosofia, Buddhismo, Gnosi antica, attualmente responsabile del Centro Studi Teosofici H P Blavatsky di Torino. e-mail: [email protected] Tel 0113294421

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“L‟eterno femminino ci attira in alto … accanto a sé oltre il tempo” (Goethe,

Faust)

Donne ispirate o ispiratrici, nel bene come nel male, volti luminosi od oscuri tra mito e storia, protagoniste drammatiche della cultura e nella vita

Con letture esemplificative di Simonetta Scaccabarozzi e Livia Casagrande

12 Incontri

PROGRAMMA

1. Medea 2. Aspasia di Mileto 3. Ipazia di Alessandria 4. Ildegarda di Bingen 5. Elòisa di Parigi 6. Lucrezia Borgia 7. Lady Macbeth 8. Madre Courage 9. Artemisia Gentileschi 10. Anita Garibaldi 11. Elena Blavatsky 12. Simone Weil

Leonardo Sola: studioso del pensiero filosofico e religioso d’Oriente e d’Occidente. Conferenziere e autore di saggi su Teosofia, Buddhismo, Gnosi antica, attualmente responsabile del Centro Studi Teosofici H P Blavatsky di Torino. e-mail: [email protected] Tel 0113294421

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Simonetta Scaccabarozzi Sola: insegnante, attrice, regista, coordinatrice di gruppi teatrali e di lettura espressiva e scenica. Livia Casagrande: cantante e attrice. Collaboratrice e organizzatrice di spettacoli.

INCONTRI QUINDICINALI LUNEDI’ dalle ore 16 alle 18

a partire dal 6 Novembre 2017 “Eterno Femminino”

1. Medea: archetipo della “madre assassina”, o simbolo dello straniero disadattato per rifiuto, o emblema della libertà di scelta dell’individuo?

Come è noto, Medea è la mitica protagonista dell‟omonima tragedia di Euripide, la

quale va in scena ad Atene nel 431 a C in occasione della festa delle Grandi Dionisie. La tragedia fa parte di una tetralogia cui appartengono anche le due tragedie perdute Filottete e Ditti e il dramma satiresco I mietitori. Euripide è stato uno dei primi a mettere in scena il mito di Medea, in particolare la parte che riguarda il suo soggiorno nella città di Corinto. In realtà, pochi anni prima l‟ha già fatto il tragediografo Nefrone, autore appunto di una Medea. Dai frammenti rimasti si esclude tuttavia che l‟opera di Euripide, nonostante le affinità, sia direttamente ispirata a questa.

La leggenda originaria entro cui si colloca l‟infelice storia di Medea è la spedizione degli Argonauti (vedi oltre) ma è già presente nei poemi omerici: nell‟Odissea ad esempio viene indicata la genealogia di Esone, padre di Giasone e di Pèlia (XI, 256 e sgg.), e nel Canto XII il riferimento agli Argonauti è più preciso (l‟argomento, comunque, è dato come già ben noto al lettore).

Il nome Medea appare invece per la prima volta nella Teogonia di Esiodo (v 956 e sgg.) dove viene ricordato l‟amore di lei per Giasone e il successivo matrimonio con lui. Secondo Esiodo, Medea gli avrebbe dato un solo figlio (Medeo) e non due.

Grazie a Pausania (Guida alla Grecia, II, 3, 11) abbiamo notizia della seconda parte del racconto mitico, quella che riguarda più strettamente Medea e l‟azione della tragedia euripidea: Medea avrebbe ereditato dal padre Eete, figlio di Helios il dio del Sole, il possesso della città di Corinto, governandola insieme a Giasone, dopo il loro ritorno in Grecia.

Secondo il racconto di Eumeolo, riferito da Pausania, nel tentativo di assicurare l‟immortalità ai figli, Medea dopo la loro uccisione li avrebbe seppelliti nel tempio di Hera. Scoperto l‟inganno, Giasone ritorna a Iolco e, alla fine, anche Medea lascia Corinto.

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Altra versione è quella data da Creofilo nel suo poema La presa di Ecalia: Medea dopo aver assassinato il re Creonte fugge ad Atene facendo riparare i figli nel Santuario di Hera Acraia; ma la famiglia di Creonte li uccide ed attribuisce la colpa alla donna. Anche Pausania riferisce un‟altra versione analoga del mito (a queste originarie versioni del mito si rifà l‟opera moderna di Christa Wolf, Medea – Voci, vedi oltre). Sta di fatto che nel V secolo a C, quando Euripide scrive la sua Medea i punti essenziali della vicenda erano già fissati e ben noti e anche le due varianti sulla morte dei figli di Medea.

Per comprendere appieno il contenuto della tragedia di Medea è necessario premettere alcune notizie concernenti la leggenda di Giasone e degli Argonauti, che partono dalla Grecia per la lontana Colchide, sulla costa meridionale del Mar Nero (Ponto Eleusino) alla conquista del “Vello d‟Oro”. Secondo Apollodoro (Le argonautiche), il “Vello d‟Oro” è una pelle di montone dorata, appesa ad un albero del bosco sacro ad Ares ed è sorvegliata da un feroce drago. Chi spinge l‟eroe Giasone a intraprendere questa spedizione è Pèlia, figlio di Tiro e del dio del mare Poseidone, ed ha come padre umano Creteo. Secondo una delle versioni del racconto, Pèlia, appena nato, viene esposto col suo fratello gemello Neleo, in una strada alla mercè dei viandanti, dalla stessa madre, Tiro, che nulla vuol far sapere di questi figli, frutti dei suoi amori con un dio. Una giumenta che tira un carro di mercanti, passando colpisce uno dei due infanti abbandonati, lasciando sul suo corpo un marchio livido che in greco si dice pelion (da cui il nome Pelia dato al piccolo colpito). Pèlia e il fratello divenuti adulti si disputano la successione al trono: Neleo è espulso e si rifugia in Messenia, mentre Pèlia rimane in Tessaglia signore di Iolco.

Il racconto mitico narra che un giorno, mentre Pelia sulla riva del mare sta compiendo un sacrificio al dio Poseidon, giunge dalla campagna suo nipote Giasone (figlio di Esone, a sua volta figlio umano di Tiro e di Creteo) il quale, poichè attraversando un corso d‟acqua ha perduto un calzare, è costretto a partecipare alla cerimonia celebrata dallo zio con un solo piede calzato. Questo fatto (che a noi può apparire banale) desta in realtà l‟allarme in Pèlia che è stato precedentemente avvertito dall‟Oracolo di Delfi di guardarsi da un uomo che gli si presenterà con un solo piede calzato. Pèlia chiede allora al nipote che cosa mai farebbe se fosse di fronte ad un uomo che minacci di detronizzalo: Giasone risponde che lo invierebbe alla conquista del “Vello d‟Oro”, impresa ritenuta estremamente rischiosa! E così fa Pèlia per sbarazzarsi del nipote; poi, per rimanere padrone assoluto, fa morire il padre di Giasone (il suo fratellastro Esone), sua madre Polimena ed anche un suo altro fratello!

Giasone dunque, parte insieme a molti compagni detti Argonauti, dal nome della loro nave Argo (il nome argos in greco significa veloce e tale è anche il nome del suo costruttore), costruita col legno delle foreste dei monti della Tessaglia. Gli Argonauti sono 50 o 55. Tra i più noti, oltre a Giasone che è il comandante della spedizione (e pure il medico in quanto è stato allevato dal Centauro Chirone che gli ha insegnato l‟arte della medicina) e allo stesso costruttore della nave, ci sono Orfeo, il mitico cantore tracio che con

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la sua voce accompagnata dalla cetra batte il ritmo per i rematori (in pratica è il timoniere), l‟indovino Anfiarao, e Càstore e Pollùce i due gemelli figli di Leda e di Zeus.

Superate con l‟aiuto della dea Athena, le rupi Simpleiadi (due rocce animate poste all‟entrata del Bosforo che urtando l‟una contro l‟altra impediscono il passaggio alle navi fracassandole), gli Argonauti, dopo varie peripezie, giungono nella Colchide. Con l‟aiuto di Medea, figlia di Eeta sovrano del Paese, innamoratasi di Giasone (per volontà di Afrodite), il giovane condottiero riesce a superare tutte le prove postegli dal Re; infine sottrae il “Vello d‟Oro” dall‟albero cui è appeso, mentre il terribile drago suo custode giace addormentato grazie agli incantamenti di Medea, la quale è dotata di grandi poteri magici.

Giasone e i suoi compagni ripartono in fretta portando con loro Medea e riescono a sfuggire all‟inseguimento di Eeta, ancora grazie alle arti di Medea. Tornato dopo quattro mesi a Iolco, Giasone apprende della morte dei genitori e chiede vendetta; allora Medea promette di ringiovanire Pèlia se le sue figlie lo faranno a pezzi per poi bollirli in un calderone e queste si lasciano convincere dalle sue parole ingannatrici, causando l‟orrenda morte del padre. La maga infatti, non pronuncia come invece ha promesso, la formula magica che deve ridare la giovinezza al Re Pèlia. Così le figlie, infelici piangono il padre da loro stesse ucciso. L‟unica figlia di Pèlia che si è astenuta dal delitto è la gentile e dolce Alcesti (eroina di un'altra tragedia, omonima, di Euripide). Giasone, compiuta in tal modo la vendetta grazie all‟aiuto determinante di Medea, lascia il trono di Iolco ad Acasto figlio di Pelia e parte alla ricerca di un regno più grande giungendo dapprima ad Orcomeno in Beozia e infine a Corinto, paese d‟origine del padre di Medea, dove si svolge l‟azione della vera e propria tragedia euripidea.

La scelta di Euripide Nella tragedia di Euripide, Medea che, come s‟è visto, si è macchiata dei più gravi

delitti per aiutare Giasone, dopo avergli dato anche due figli, attende ora che l‟eroe mantenga la promessa fattale di sposarla, ma Giasone si è invaghito di Glauce (o Creusa) la figlia di Creonte re di Corinto, e periò decide di abbandonare Medea. Per di più lo stesso Creonte, temendo le arti magiche di Medea, la vuole scacciare da Corinto insieme ai figli, anche perchè sa delle minacce da lei profferite contro Giasone e la sua nuova fiamma. Medea accetta di andare al bando, solo chiede per sé un giorno di tempo e, avutolo, se ne rallegra con il coro delle donne corinzie perché ciò le permette di attuare la propria vendetta.

Giunge a questo punto Giasone che cerca di giustificare, tra il disprezzo di Medea, il proprio operato e promette comunque di aver cura di lei e dei figli. Giunge poi Egeo, Re di Atene che garantisce asilo, se necessario, a Medea stessa.

Ora finalmente Medea attua la vendetta: chiama Giasone e finge di sottomettersi al proprio destino invocando tuttavia per i comuni figli, il permesso di continuare a vivere in Corinto. Per ottenerlo Medea invia alla figlia di Creonte i suoi bimbi con un peplo e un serto d‟oro in dono; ma dopo un certo tempo accorre un servo gridando che la principessa

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Glauce è morta di veleno, non appena rivestito il peplo e il serto donatale. Con lei muore pure Creonte, che si è precipitato a soccorrerla.

Medea rientra in casa e il coro ode le urla strazianti dei figli uccisi dalla madre furiosa. Troppo tardi accorre Giasone per salvare i suoi figli: Medea, su di un cocchio

trascinato da draghi alati, dopo aver rinfacciato a Giasone le sue colpe che lo fanno responsabile di quanto avvenuto, si solleva alla vista, portando con sè i corpi dei figlioli invano richiesti dal padre.

Euripide di fatto rimaneggia ulteriormente la variante originaria, secondo la quale è stata Medea stessa a provocare inconsapevolmente la morte ai propri figli, modificandone l‟intero significato con l‟attribuire alla donna una precisa ed autonoma volontà d‟azione. Originale è invece il tema della vendetta amorosa, che la spinge all‟assassinio di Creonte e di Glauce con il veleno insinuato ed intriso nel tessuto delle vesti.

Euripide fa di ogni suo personaggio un profondo lo studio psicologico. Secondo Jager:

“Euripide è il primo psicologo. E‟ lo scopritore dell‟anima in un nuovo significato del termine, l‟esploratore dell‟agitato mondo dei sentimenti e delle passioni dell‟uomo”

La donna, tanto profondamente studiata e spesso esaltata dal poeta per le sue virtù e per i suoi sacrifici, comincia ad acquistare per merito proprio quella dignità e quella libera personalità che le permettono poi nella società ellenistica di avere una posizione ben diversa da quella che ha nell‟Atene del V secolo a C, dove vive completamente segregata dalla società [salvo pochissime eccezioni quali quella di Aspasia, la compagna di Pericle, il grande legislatore democratico di Atene, figura che vedremo nel nostro prossimo incontro].

Con la Medea di Euripide è la prima volta che nel teatro greco è protagonista la passione di una donna, una passione violenta, feroce, che rende Medea una donna debole e forte allo stesso tempo: forte perchè padrona della sua vita e non disposta a piegarsi davanti a nessuno e allo stesso tempo debole perché è sola, disperata e intenzionata a distruggere tutto quello che rappresenta il suo passato. Medea contiene dentro di sé due figure contrastanti, una vuole uccidere i figli, l‟altra li vuole risparmiare. La sua è perciò una mente scissa e conflittuale.

Le tragedie di Euripide si ripiegano su uomini e casi comprensibili all‟uomo comune; le dolenti morti premature di alcuni suoi personaggi prediletti, le unanimi passioni violente della gelosia, rendono Euripide assai vicino all‟animo dello spettatore per la rappresentazione di vicende, drammatiche e tragiche, della vita di ogni giorno. In questo senso, per la profonda umanità dei temi e per l‟afflato poetico con cui sa porgerli al suo pubblico, Euripide è l‟autentico predecessore del dramma borghese della cosiddetta commedia nuova e di gran parte del teatro moderno: è la straordinaria potenza umana dei suoi drammi e la capacità che essi hanno di evocare, sin dalle più riposte fibre, i sentimenti più autentici.

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Medea è forse la tragedia dove l‟uomo Euripide esprime con maggior forza d‟accusa i motivi del suo malessere all‟interno di una società che non sa riconoscere i propri errori.

Nella figura della maga barbara, insofferente verso i condizionamenti che le impongono di uniformarsi ad un modello di comportamento estraneo alla sua natura, Euripide rivela l‟offesa disperazione di uno spirito che trova intorno a sé il vuoto dell‟incomprensione e della ripulsa. Come la straniera Medea è circondata dal sospetto della società che intuisce quei germi di eversione destinati a sconvolgere e a smascherare le ingiustizie su cui è fondato l‟ordine politico e sociale, così Euripide rimane un isolato all‟interno di una comunità che non vuole vedere messe in dubbio le regole morali ormai canonizzate.

Il personaggio di Medea assume perciò un duplice grado di simbolicità: da un lato essa rappresenta l‟insieme di tutti quei valori che un certo strato della società greca ha negato e allontanato da sé come fonte di disordine e che invece si riconoscono nell‟idea di libera estrinsecazione della personalità individuale; dall‟altro, Medea impersona la voce dell‟ intellettuale vero, che le mistificazioni e le convenienze culturali del potere non hanno ancora corrotto e che sconta con l‟esilio spirituale i suoi tentativi di ricondurre la civiltà ateniese a modelli morali più genuini.

Per bocca di Medea, Euripide si batte contro la mistificazione della cultura sofistica, accusata di propagandare un tipo di realtà volutamente fasullo che nega i valori concreti dell‟uomo e della sua esistenza, per praticare una continua opera di assoggettamento spirituale del più debole. Tale volontà di sopraffazione investe la stessa giustizia, falso orgoglio della Grecia e di Atene in modo particolare, che sotto la maschera di una equa e generosa severità spesso schiaccia i diritti umani più fondamentali, per assicurare l‟ordine di uno Stato basato, di fatto, anche se non di nome, sulla forza.

Un altro bersaglio è la posizione di inferiorità etica e civile in cui la società ateniese relega la donna, rifiutando attenzione a una sfera diversa e disprezzata che potrebbe, invece, contribuire con i suoi messaggi profondamente umani a rinsaldare e rinnovare le leggi ormai stantie e di una convivenza improntata all‟indifferente mancanza di scambi spirituali.

Medea è il grande inno alla libertà dell‟uomo che ritrova la sua vera natura, a lungo soffocata, nella sublimità della solitudine: senza più dei che guidano il suo cammino, senza più necessità di integrarsi in un mondo che mina alle basi i valori dell‟individualità, senza più affetti, disperatamente stroncati, che inducono a rinnegare se stessi per amore…

Il messaggio di Euripide è grave e di profondo pessimismo: realizzazione della propria personalità significa per l‟uomo estraniamento dalla sfera sociale; tuttavia, proprio nella volontà di votare se stessi alla causa della verità, perseguendo un ideale che comporta il rischio estremo dell‟autodistruzione, l‟individuo ritrova l‟intatta grandezza della sua umanità che gli deriva dalla libera scelta d‟azione, nel bene come nel male. Ma ciò che Euripide vuole indicare con la Medea all‟intera comunità ateniese (e all‟umanità stessa) è anche il pericolo che la negazione dell‟individualità porta con sé: la disperazione e la rabbiosa ansia di chi non può più sopportare di essere ingiustamente escluso dalla civiltà,

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rischiano di erompere violente e inaspettate, portando allo sconvolgimento e alla rovina le strutture di un mondo colpevole di scarsa fiducia nei valori dell‟uomo.

Euripide giudica colpevole non solo Medea, esecutrice materiale dei delitti (in particolare quello dei propri figli), ma anche, soprattutto, Giasone, reo di averla ingannata per un “letto migliore”. Domina nell‟opera la straripante personalità di Medea. Fortemente emotiva e passionale, la donna esibisce un‟ampia gamma di stati d‟animo, che culminano negli omicidi della giovane nuova sposa di Giasone (Glauce o Creusa, a seconda della variante) e dei propri figli, atti caratterizzati sì da grande ferocia, ma non privi di dubbi e di tentazioni di desistere, talvolta manifestati nell‟ambito della stessa scena, in un continuo alternarsi di propositi omicidi e di pentimenti (vedi ad esempio il monologo di Medea nel V Episodio, vss. 1021-1080 della tragedia, preceduto da un breve dialogo con il maestro (il pedagogo) dei figlioletti, ignaro dei propositi omicidi della donna nei loro confronti:

Maestro pedagogo Mia Signora, ecco i tuoi figli! Glauce, la Regina, novella sposa di Giasone, li ha prosciolti dall‟esilio. Di buon grado ha accolto i tuoi doni: il serto, il peplo, consegnati con le loro tenere mani. Ora nella reggia c‟è “pace per i figli tuoi”… (gemiti e pianto di Medea)

Perché getti lo sguardo a terra e piangi così? Medea Ne ho ben ragione, fedele vecchio, istruttore dei miei figli. Gli dei, ed io stessa – sconsiderata! – abbiamo ordito questa penosa trama…

Maestro pedagogo … fatti animo! Un giorno, quando i tuoi figli saranno ben cresciuti, tu tornerai, per loro intercessione...

Medea … ma prima, altri, guiderò nell‟oltretomba – me sciagurata!

Maestro pedagogo Non sei l‟unica madre che viene allontanata dai suoi figli. Rassegnati: ai mortali è dato di dovere sopportar disgrazie…

Medea … è così farò … ma tu rientra a Palazzo e appronta per i piccoli ciò che loro necessita, giorno per giorno. O figli, figli miei, ora avete una città e una dimora,

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in cui, lasciando me sventurata, abiterete per sempre, ma orfani di vostra madre! Cacciata in esilio, in un paese straniero, ancor pima di aver gioito di voi e di avervi visti felici … prima di avervi dato una sposa, di aver preparato per voi il talamo e levata alta la vostra fiaccola nuziale! Ah! me misera per la mia superbia… Invano, figli, vi ho allevato; invano ho patito tormenti per voi, dopo le doglie crudeli che la vita vi han dato! Me infelice! Quante speranze in voi ho riposto: sostegno alla mia vecchiaia, pietosa sepoltura alla mia morte … con le vostre stesse mani. Speranze d‟una sorte degna d‟invidia! Invece… triste addio a questi dolci pensieri; una vita ancor più triste e misera mi attende, senza di voi! I vostri cari occhi più non vedranno chi vi ha nutrito, così lontani in una vita tutta diversa. Aah! Perché, perché mi guardate con quegli occhi?! Perché quell‟ultimo sorriso sul vostro tenero viso? Aaah! Che fare? Il cuore, il cuore mi manca quando vedo il volto sereno di questi fanciulli! No! non posso! Addio miei oscuri propositi di morte per loro! Condurrò via i miei figli da questa terra. Perché far patire al padre le loro sventure? Duplice per me sarebbe il soffrire.

Ma che mi succede?! E‟ giusto che io sia derisa se impuniti lascio i miei nemici? Devo osare, sì! … la mia viltà non deve accogliere nel mio cuore, parole miti! Rientrate in casa, figli. Chi non può assistere a questo sacrificio, se ne vada pure, la mia mano non verrà meno! Ah! mio cuore, no, no, non farlo! Lasciali vivere, sciagurata! Risparmia i tuoi figli! Con te vivendo, gioia ti daranno, ovunque tu vada. No, per i demoni inferi dell‟Ade! Non sia mai che io lasci i miei figli all‟oltraggio dei miei nemici! Devono morire, è necessario! Io li ucciderò… io stessa che li ho generati! Questo ormai è il decreto del fato… Già Glauce, la nuova sposa di mio marito indossato ha il peplo e cinto il serto, veleniferi. (Ormai è morta, ne sono certa) Vado verso una via infelice quanta nessun altra e ad una ancor più infelice ora conduco i figli miei… Datemi figli, datemi le vostre mani perché le baci! O mani carissime, o volti carissimi! Nobile aspetto dei miei figli! Siate felici, laggiù … nell‟Ade! La vita, con le sue gioie, ve la toglie il vostro padre infame! O dolci abbracci, tenere carni, soavissimo respiro… figli! Andate, andate in casa! Più non posso guardarvi ... vinta ormai sono dalla sventura! (i bambini rientrano in casa)

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Le sfaccettature del personaggio sono tante e tali che la Medea di Euripide può essere vista, di volta in volta come feroce e vendicativa assassina, o vittima di pulsioni interne incontrollabili, o anche come moglie così addolorata per l‟abbandono da parte del marito da arrivare a perdere ogni raziocinio.

Giasone è invece una figura decisamente sminuita nella tragedia, tanto da fargli ottenere la fama di seduttore. Egoista e meschino, per lui l‟amore rappresenta soltanto uno strumento per la conquista del potere, convinto di poter giustificare il proprio operato solo per mezzo della sua capacità oratoria. Dante lo colloca nell‟Inferno nel Canto XVIII vss. 82-96:

LETTURA [L‟ottavo cerchio o Malebolge, è diviso in 10 bolge concentriche ove sono puniti i fraudolenti.

Nella prima bolgia Dante e Virgilio incontrano i ruffiani e i seduttori (Giasone), nella seconda i lusingatori]

E „l buon maestro, sanza mia dimanda, mi disse : „Guarda quel grande che vene, e per dolor non par lagrime spanda: quanto aspetto reale ancor ritene! Quelli è Iasòn, che per cuore e per senno li Colchi del monton privati féne. Ello passò per l‟isola di Lenno poi che l‟ardite femmine spietate tutti li maschi loro a morte dienno. (*) Ivi con segni e con parole ornate Isifile ingannò, la giovinetta che prima avea tutte l‟altre ingannate. Lasciolla quivi, gravida, soletta; tal colpa a tal martirio lui condanna; e anche di Medea si fa vendetta‟.

(*) Lemno è un „isola greca dell‟Egeo settentrionale, tra il monte Athos e l‟Ellesponto. Il mito narra che le donne erano solite vendicarsi dei mariti che le trascuravano perché sempre impegnati in imprese di guerra. Ifilide riuscì a ingannare le altre compagne salvando dalla morte, per nobile affetto, il padre Toante, re di Lemno. Sulla via verso la Colchide, Giasone passato da Lemno, con atti („segni‟) e con lusinghe („parole ornate‟) la seduce, lasciandola, sola e abbandonata, rimasta incinta di due figli. Due personaggi molto importanti all‟interno dell‟opera, i figli di Medea, sono sempre

muti e con questo Euripide intende sottolineare la loro condizione di bambini inermi, destinati a subire una sorte atroce senza colpa alcuna.

Anche la promessa sposa di Giasone - nel mito ha il nome di Glauce o Creusa, figlia di Creonte sovrano di Corinto - non appare mai in scena e neppure il suo nome viene pronunciato, anche lei condannata a subire una morte terribile.

Si può concludere: Euripide vuole mettere in evidenza che sono sempre gli innocenti a pagare il prezzo più alto… e la tragedia contiene una forma di critica al modello familiare tradizionale in uso nella Atene del V secolo a C. Ciò risulta chiaramente dal fatto che di fronte allo sdegno e alla disperazione di Medea per le nuove nozze del marito, Giasone

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contrappone motivazioni che all‟ateniese medio possono apparire sensate: la necessità di generare nuovi figli per la città. La procreazione era considerata l‟attività in assoluto più importante, soprattutto per motivi bellici [“fate figli per mandarli in guerra”] e per la trasmissione del potere. Le donne che non avevano figli maschi erano considerate in modo negativo nell‟antica Grecia. Altra motivazione di Giasone riguardo al proprio comportamento è quella di assicurarsi una posizione sociale adeguata sposando la figlia del re; inoltre la convinzione di aver già fatto molto per Medea, portandola via dalla Colchide, il mondo barbaro in cui viveva prima, e in tal modo renderle onore. Tra i due avviene, lungo l‟arco della tragedia, un dialogo, assai serrato in cui, tra l‟altro, Medea enumera i rischi del matrimonio (I Episodio vss: 214-266), mentre Giasone l‟accusa di essere, come tutte le donne, attaccata solo al talamo e non considerare i vantaggi che le sue nuove nozze con la figlia di Creonte porterà ai loro stessi figli (II Episodio, vss: 446-575)

Primo Episodio (vss 214-266)

Medea (al coro: le donne di Corinto) Donne di Corinto, esco dal Palazzo del Re, affinchè su di me non gettiate il vostro biasimo. Conosco molti uomini superbi, sia qui sotto i nostri occhi sia fra gli stranieri i quali, per non aver mosso piede, si acquistano cattiva fama di indifferenza. Negli occhi dei mortali non vi è giustizia, se a prima vista, senza averne conosciuto esattamente l‟animo, odiano chi neppure li ha offesi! È necessario, certo, che una straniera, quale sono io, si adegui ai costumi della città in cui giunge; tuttavia non lodo un cittadino arrogante che si rende inviso agli altri per mancanza di comprensione. La sciagura imprevista che si è abbattuta su di me, ha distrutto l‟anima mia! Per me è finita, ho perduto ogni gioia di vivere, desidero solo morire! Il mio sposo, colui nel quale ho riposto tutto, è diventato il peggiore degli uomini! Fra tutti gli esseri che hanno anima e ragione, noi donne siamo la razza più sventurata. Noi, che anzitutto, dobbiamo comprarci con una ricca dote, uno sposo che è, ad un tempo, padrone del nostro corpo… fra i mali questo è certo il peggiore! Gravissimo rischio è avere un marito, cattivo o buono che sia. Alle donne, la separazione non porta buona fama e neppure possono ripudiare il marito! Una donna che entra in un ambiente con leggi e usanze per lei nuove, deve essere un‟indovina, per sapere quale compagno di letto le toccherà mai! Se tale ricerca ci riesce bene e lo sposo convive, portando di buon grado il giogo coniugale, allora certo siamo da invidiare! Se no, meglio è la morte! L‟uomo, quando è sazio di starsene in famiglia, se ne esce e dà tregua alla sua noia in compagnia di un amico o di un coetaneo; noi invece siamo costrette ad avere davanti agli occhi una persona sola per tutta la vita.

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Dicono poi gli uomini, che, mentre combattono in guerra, in casa loro noi donne viviamo una vita senza pericoli. Ma io vorrei impugnare tre volte la spada, piuttosto che partorire anche un sola volta! Ma questo discorso conviene a me, non a voi, donne di Corinto, chè qui avete la patria, la casa paterna, gli agi della vita, la compagnia dei vostri cari; io invece, sola e senza patria, tolta come una preda catturata da una terra barbara, vengo offesa da mio marito e non ho dove trovar rifugio a conforto dei miei affanni, né presso mia madre, nè da mio fratello, nè da parente alcuno. Questo solo, vorrei da voi: che serbiate il silenzio, se trovo la via e il mezzo per far pagare il prezzo di questi mali, a mio marito, a chi gli ha dato la fiducia e a quella stessa che sposato lo ha! La donna è piena di paure, vile di fronte alla forza e alla vista di un‟arma; se però le accade d‟essere offesa nei diritti del suo letto, non esiste altro essere più micidiale di lei! Corifea Lo faremo, Medea! E‟ naturale che tu soffra per queste offese, e giustamente punirai tuo marito! Secondo Episodio (vss 446-575)

Giasone (a Medea e alla Corifea) Non solo ora, ma sovente, ho visto che un‟indole aspra è un male che non si può curare. Tu, Medea, che pure hai avuto questa terra e questa casa, sopportando di buon animo la volontà di chi è più forte, sei invece cacciata per i tuoi folli discorsi contro il re Creonte, ma questo non è affar mio; ripeti anche di continuo a tutti che io, Giasone, sono il peggiore degli uomini… Per quello che hai detto contro i Sovrani, reputati pure molto fortunata, se ti puniscono solo con l‟esilio. Mentre io mi adopro per placare lo sdegno dei sovrani, desiderando che tu rimanga, tu, invece, non desisti dalla tua follia, sempre ingiuriando i Signori di questa città. Così vieni bandita dal Paese. Eppure, anche dopo tutto

ciò, io non sono qui, ora, per ripudiare chi mi è caro, ma mi preoccupo, donna, che tu non sia cacciata insieme ai figli, bisognosa e priva di risorse. Molti mali ti accompagnano all‟esilio! Anche se ora mi odi, io non potrò mai volerti male.

Medea (sdegnata e superba) Grandissimo scellerato! Questo è l‟ingiurio più grande che la mia lingua può pronunciare contro la tua vita. Sei venuto da me, sei venuto, essere

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odioso agli dei, a me e a tutti gli esseri umani! Non è coraggio né ardire, guardare in faccia gli amici, ai quali si è fatto del male, questa sfrontatezza è la colpa peggiore per un uomo! Bene hai fatto a venire… insultandoti farò più leggero il mio cuore e tu soffrirai fin dal principio, ad ascoltare le mie parole. Io ti ho salvato, come bene sanno tutti gli Elleni che con te s‟imbarcarono sulla nave Argo, quando sei stato invitato da mio padre, re della Colchide, a domare e aggiogare i tori spiranti fuoco, e a seminare i solchi mortali, con i denti di drago rimasti, che Cadmo aveva già seminato a Tebe. E pure grazie a me hai superato le prove vincendo i guerrieri nati da quei semi, e quando quelli rimasti, in perenne lotta tra di loro, si sono sterminati. Con i miei poteri ti ho aiutato contro il drago insonne che custodisce il Vello d‟Oro avvolgendolo nelle sue spire; l‟ho ucciso io, dopo averlo addormentato e reso innocuo. Così per te è sorta la luce della salvezza! Ed ancora io, dopo aver tradito mio padre e la mia casa, più per impulso del cuore d‟amante che della mia ragione, sono venuta con te a Iolco sulle pendici del monte Pèlio e ho fatto perire Pèlia, nel modo più terribile che sai: per mano delle sue stesse figlie, e in tal modo ti ho liberato da ogni paura. Tutto questo hai avuto da me, e tu, in cambio, mi tradisci, il più malvagio tra gli uomini, procurandoti un nuovo talamo nuziale, pure essendoci i nostri figli! Forse avrei perdonato il tuo desiderio per quest‟altro letto, se essi non ci fossero stati. Svanita è la fede nei tuoi giuramenti, e non posso sapere se credi che gli dei d‟un tempo regnino ancora o che ora valgano per gli uomini nuove leggi: tu, comunque, sei ben consapevole di essere spergiuro verso di me! O mia destra mano, quante volte fosti stretta nelle sue! O mie ginocchia, che invano allacciaste un malvagio! Come ci siamo ingannate nelle nostre speranze! E sia! A te mi rivolgo come un amico, ma qual bene penso di poter da te ricevere? Ancor più infame apparirai, alle mie domande! Dove posso volgermi ora? Forse alla casa del padre che per seguirti ho tradito insieme alla mia patria? O alle misere figlie di Pèlia? Forse che accoglierebbero bene chi ha ucciso il loro padre? Ormai l‟odio dei miei famigliari su di me si sparge e nemici mi sono coloro che per amor tuo ho offeso. E tu, forse mi hai reso felice? Ho forse io un marito eccellente e fedele, se bandita sono da questa terra, misera, senza amici, e sola con i soli figli? Bel vanto per un novello sposo, che i suoi figli e la loro madre che lo ha salvato, vaghino errando come pezzenti! O Zeus! Tu che dai agli umani prove sicure per scoprire il falso oro, perché ai mortali non lasci alcun segno per riconoscere il malvagio?

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Giasone Quando qui sono giunto, a Corinto, venendo dalla terra di Iolco, tante sciagure irreparabili mi sono tirato dietro! Dunque, quale soluzione più felice, posso trovare, io, un esule, che sposare la figlia del Re? Non per odio al tuo letto, Medea, o perché colpito dalla brama di una nuova sposa, come tu pensi invece tormentandoti, neppure per l‟ambizione di avere molti miei figli – quelli che ho mi bastano e non me ne lamento. Ho fatto questa scelta – e ciò è la cosa più importante – perché così avremo una dimora sicura e non ci mancherà nulla… So che anche un amico fugge lontano da un poveraccio. L‟ho fatto per allevare i miei figli in maniera degna della mia stirpe e generando dei loro fratelli non nati da te, li pongo nella stessa condizione, ben felice di unire così le stirpi. Ma tu, che bisogno hai dei figli? Io, invece, devo essere loro utile per mezzo di quelli che verranno. E‟ forse questo un malvagio disegno? Tu non lo chiameresti così se non ti tormentasse la gelosia del talamo. Voi donne credete di possedere tutto, quando il letto va bene; se poi arriva qualche problema in tal senso, allora le cose migliori vi diventano ostili. I mortali dovrebbero poter generare figli da qualsiasi parte e la razza delle donne non dovrebbe esistere, così non ci sarebbe alcun male per gli uomini!

Corifea Giasone, tu hai ben esposto e in bell‟ordine le tue ragioni. Mi sembra però che tradendo tua moglie non hai compiuto il giusto! Giasone A quanto pare, bisogna che io sia ancor più bravo a parlare… e che ammaini la cima della vela, come fa un buon timoniere per sfuggire alle tue impudenti parole, donna! Tu esalti tanto i tuoi amorosi benefici nei miei confronti, ma io ritengo che tra tutti gli dei e gli uomini, Afrodite soltanto, ispirando il tuo amore, ha salvato la mia impresa… Ti è odioso ammettere che è stato Eros, con i suoi dardi sottili, che ti ha costretta a salvarmi … Quale che sia il modo, ammetto che mi è andata bene. Ma tu, dalla mia salvezza hai avuto più di quanto mi hai dato! Te lo dimostro: per prima cosa, ora abiti nell‟Ellade invece che in un paese barbaro, ora sai cos‟è la giustizia e godi delle sue leggi, senza ricorrere alla violenza. Poi, tutti gli Elleni sanno ora della tua sapienza che fama ti ha dato tra di loro. Chi direbbe di te se abitassi ancora laggiù agli estremi confini del mondo? Nessuno,

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stai certa! Nella mia casa non voglio nè oro, né voce più armoniosa d‟Orfeo, se non s‟accompagnano alla mia rinomanza, che vale ancor di più! Tu mi hai provocato e questo ti rispondo sulle mie passate imprese. Mi rinfacci le mie nozze regali? Ebbene, questa è stata una abile scelta, che porta con sè rispetto e amicizia per te e per i tuoi figli. Te lo dimostro subito, sei ti calmi, finalmente!

Medea (alla Corifea) Io, per molte cose, sono diversa dalla maggior parte dei mortali, perché penso che se uno è malvagio, anche se è abile nell‟usar la lingua a sua discolpa, è giusto che si meriti la massima pena. Vantandosi di celare bene le sue iniquità, ha l‟ardire di commettere qualsiasi crimine; ma non è abbastanza sapiente in

questo.

(a Giasone)

Così, anche tu, non venirtene davanti a me tutto solenne ed eloquente! Un solo mio dire ti stenderà a terra! Se tu non fossi un miserabile, avresti fatto questo matrimonio dopo avermi persuasa, è invece hai chiuso la bocca con i tuoi cari!

Giasone Che? Davvero avresti accettato un simile discorso se ti avessi detto di queste mie nozze? Tu, che nemmeno ora sei capace di deporre il grave sdegno del tuo cuore!

Medea La tua reticenza è dovuta solo al fatto che il letto di una donna barbara ti avrebbe portato una vecchiaia disonorevole!

Giasone Sappi bene che non per una donna mi son preso questo talamo regale ma, come già detto, per salvare te e generare figli regali dello stesso mio seme, come baluardo alla casa.

Medea Non voglio una vita comoda, ma piena di dolore, nè ricchezza che tormenti il mio cuore!

Giasone Ora ti spiego come puoi mutare consiglio e apparire più saggia: mai il bene ti deve apparire triste, e se sei fortunata, mai devi credere invece di essere sventurata. E‟ semplice…

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Medea Oltraggiami pure, tu che hai un rifugio, mentre io devo andarmene da questa terra in esilio, tutta sola!

Giasone Tu l‟hai scelto, non gettar colpa su altri! Medea Che ho fatto? Ti ho forse tradito con nozze con altro uomo?

Giasone Parole maledette hai lanciato contro i sovrani di questa terra!

Medea E maledico pure la tua casa! Giasone Più non voglio discutere con te, di tali cose! Ma se un aiuto vuoi per i figli dalle mie ricchezze, chiedi pure: son pronto a donare con mano generosa e a mandare segni di riconoscimento ai miei amici che ben ti accoglieranno. Se neppure questo vuoi, donna, allora sei pazza. Reprimi l‟ira e ci guadagnerai …

Medea Mai andrò dai tuoi amici e nulla accetterò da loro! Non darmi nulla… Non giovano i doni di un malvagio!

Giasone Chiamo gli dei a testimoni: voglio assistere in ogni modo te e i figli. Se i benefici non ti piacciono e respingi superba chi ti è amico, ancor più soffrirai.

Medea Vattene! La brama della nuova sposa ti prenderà se indugi fuori casa! Sposati pure… se un dio m‟ascolta, farai nozze tali da doverle presto rinnegare!!! Nel corso dei secoli, molti Autori dopo Euripide, si sono cimentati con il suo dramma

creandone versioni che differiscono più o meno ampiamente dal modello originale, inserite ciascuna nel proprio contesto storico-sociale. Nella letteratura latina, delle numerose versioni solo una ci è giunta integra: la Medea di Seneca. Anche Ovidio, tra il 12 a C e l‟8 d C, ne scrive una versione che ha un buon successo, ma che è andata perduta, così come la Medea di Ennio.

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Tra le opere moderne, una versione interessante e quella di Franz Grillparzer (1821) che pone maggiormente l‟accento sul fato e sulle circostanze avverse che spingono Medea ad agire così tragicamente; mentre nel 1949 Corrado Alvaro, nella sua Lunga notte di Medea, mette in evidenza la condizione di Medea come quella di una donna estranea in una comunità chiusa e di conseguenza, aggredita e discriminata.

Da ricordare anche la Medea di Jean Anouil (1946) e, soprattutto il romanzo Medea - Voci, (1996) della scrittrice tedesca Christa Wolf, in cui la situazione di Medea a Corinto viene letta come metafora dello spaesamento dei cittadini della Repubblica Democratica Tedesca (DDR) dopo la caduta del muro di Berlino e la riunificazione delle due Germanie.

L‟elenco completo delle opere letterarie su Medea è il seguente (in ordine alfabetico): Argonautiche (Le), poema di Apollonio Rodio Medea, tragedia di Pierre Corneille Medea, tragedia di Lodovico Dolce Medea, tragedia di Ennio Medea, tragedia di Richard Glover Medea, tragedia di Ernst Legouvé Medea, tragedia di Bernard del Longepierre Medea, tragedia di Jean Bastier de la Péruse Medea, tragedia di Lucio Anneo Seneca Medea, Voci, Romanzo di Christa Wolf

L‟elenco delle composizioni musicali è il seguente: Medea, opera di George Benda (su libretto di Friedrich Wilhelm Gotter) Medea, opera di Marc-Antoine Charpentier (1693) Medea, opera di Luigi Cherubini (1797) Medea, opera di Johann Naumann Medea, opera di Giovanni Pacini (1843) Medea, cantata di Jean-PhilippeRameau Medea, opera di Vincenzo Tommasini Medea, opera di Adriano Guarnieri (2002)

Le opere cinematografiche: Medea, film diretto da Pier Paolo Pasolini e interpretato da Maria Callas (1969) Medea, film diretto da Lars von Trier (1988)

Un’altra Medea? (Medea-Voci di Christa Wolf) (dalla postfazione di Anna Chiarloni)

“Medea non è una fattucchiera e tantomeno un‟ ‟infanticida‟. Questo, in sintesi, il senso del romanzo di Christa Wolf. Un‟interpretazione del tutto controcorrente, in quanto da Euripide in poi, il mito di Medea rappresenta l‟esito di un tragico scontro tra il mondo

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arcaico e istintuale della Colchide e quello “civile” e raziocinante dei Greci. Così ci è nota la storia come tramandata dal drammaturgo ateniese. Un intreccio di amore, gelosia, e tradimento.

Il mito è stato riletto soprattutto a partire dal romanticismo, in funzione di un crescente interesse per la sfera del sentimento accompagnato da un certo scetticismo nei confronti della techne ellenica, sentita come espressione di una cinica volontà di dominio.

Anche nel film di Pasolini (Medea, 1969) il furto del “Vello d‟Oro” diventa simbolo della moderna rapina nei confronti di un mondo primigenio e inerme. Giasone è la “mens momentanea”, il tecnico dell‟oggi, circoscritto nell‟opaca prassi razionale. Medea rappresenta invece il tumulto del cuore emergente da un mondo integro che ancora conosce la dimensione metaforica.

Malgrado le diverse impostazioni, la lettura del mito corre fin qui in quell‟alveolo prestabilito da Euripide che sfocia nell‟infanticidio, quel dato sconcertante dell‟atroce violenza perpetrata dalla barbara della Colchide sulla propria prole. Ora, è proprio questo che il romanzo di Christa Wolf mette in discussione.

La scrittrice, ripercorrendo i variegati sentieri del mito fino alle fonti precedenti alla versione euripidea, soprattutto Apollonio Rodio, rintraccia una figura diversa: Medea, una donna travagliata sì dall‟amore, ma ancor più dall‟incapacità degli abitanti di Corinto di integrare una cultura come quella della Colchide, per sua natura non incline alla violenza. Non un‟infanticida dunque, ma, al contrario, una donna forte e generosa, depositaria di un remoto sapere del corpo e della terra, che una società intollerante emargina e annienta negli affetti fino a lapidagli i figli.

Come ci ricorda il grande studioso di miti, Robert Graves, pare certo che Euripide abbia manipolato la vicenda per assolvere gli abitanti di Corinto colpevoli, in realtà, di aver massacrato i figli di Medea - ciò emerge anche dalla storiografia antica – onorario compreso: 15 talenti d‟argento sarebbero stati versati infatti al drammaturgo per questa sorta di disinvolta cosmesi di stato, utile per rappresentare al meglio Corinto sulla scena del teatro greco durante le feste di Dioniso.

L‟asse portante del romanzo della Wolf è l‟indagine sull‟origine della violenza, colta nel transito di Medea da un mondo primitivo a una società più avanzata. Muovendosi dall‟etimo positivo del nome Medea, ossia “colei che porta consiglio” (la radice med-, cfr. il latino medicus, è presente in tutta l‟area indoeuropea), linguisticamente Medea è affine ad altre eroine; Agameda, Idiomeda, Polimeda, Perimeda, etc., tutti nomi che evocano la capacità di “guarire” [la suprema arte magica: cfr. l‟antico persiano magh-, megh -, med-, “sapiente, saggio”], un etimo aderente alle raffigurazioni più antiche che vogliono la donna della Colchide, dea e successivamente, guaritrice [med-dea, „guaritrice‟ „dea‟, per contrazione medea],

I motivi dello scadere di questa figura a emblema di una passione selvaggia e disumana, nel corso dei millenni, stanno, secondo la Wolf, “nel bisogno patriarcale di denigrare la specificità femminile; ma, Medea … non poteva essere un‟infanticida perché una donna proveniente da una cultura matriarcale, non avrebbe mai ucciso i suoi figli …”.

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La Wolf così dipinge Medea:

“Fiera e ardente, trasgressiva nel viso e nelle brune chiome sciolte, la barbara della Colchide – benchè ormai espulsa con i figli dal palazzo reale di Corinto – conserva una sua propria orgogliosa vitalità primaria che si alimenta di un sapere istintivo, mutuato dall‟ordine materno…”

Medea non rappresenta, per la Wolf, l‟oscuro inabissamento nell‟irrazionale, al contrario essa rivendica l‟archetipo della chiarezza, lo scandalo della ragione. Donna di semenza vigile e ostinata, la barbara della Colchide non si lascia irretire … da chi la vorrebbe ligia e devota a una liturgia del potere destinata a nascondere i crimini del palazzo. Negando la separazione tra pubblico e privato, non riconosce altra autorità che quella del proprio intuito… per cui, penetrando fin nelle viscere della casa reale, scopre il segreto murato nel sottosuolo: nel timore di perdere il trono, il re Creonte ha ucciso la figlia primogenita Ifinoe. Perciò, quel regno che si pretende vessillo di gesta gloriose è fondato su di un crimine.

E proprio questa scoperta a travolgere Medea. Corinto reagisce prima con la diffamazione poi, devastata dalla peste, identifica in lei, nella donna diversa, irriducibile alla norma dei potenti, il capro espiatorio. Aizzata dalla Corte, sarà la folla a lapidarle i figli…

Scarso rilievo, invece, viene dato dalla Wolf, alla gelosia coniugale, alla solitudine della barbara della Colchide e al compianto per la donna abbandonata, dettato nel mito dal tradimento di Giasone, e correda Medea di un secondo, rigenerante amore nella persona, inventata dalla scrittrice, di Oistros, un‟artista scultore venuto da Creta…”

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