12 — focus on L’amazzone Šárka e le antiche leggende ceche · Dicono le leggende che i futuri...

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Š árka e l episodio che la riguarda nelle leggende anti- che dovrebbe essere un fatto minore nell’ambito del- la lunga e vittoriosa «Guerra delle fanciulle» contro gli uomini, finita comunque con la sconfitta delle donne. Diciamo subito che, non avendo a che fare con fatti sto- ricamente documentati, siamo nel campo delle leggende. È però evidente che se queste vanno in una certa direzione che assegna fortissimi e privilegiati ruoli alle donne, un ca- so non può essere. D’altronde ciò accade anche in cicli che riguardano altre popolazioni slave (ad esempio i futuri po- lacchi) e in parte anche quelle germaniche. Dicono le leggende che i futuri cechi vennero a quelle terre, provenienti probabilmente da sudest, nei pressi del- la futura Praga guidate da un «praotec», progenitore, di no- me Čech, colui dal quale prende nome (nel 644? Probabi- le fantasia di cronachista) la regione (Čechy=Boemia; è un femminile pluralia tantum); un suo successore Krok (661-675: come sopra) ebbe tre figlie e la maggiore delle tre, Libuše (715-722: come sopra), dà inizio alla forte linea femminile della storia antica ceca. Dico «storia» perché le leggende, prima che vi sia storia nel senso moderno del ter- mine, fanno parte della storia delle idee, del costume, della cultura di un popolo. (Le Cronache che sono la nostra fon- te furono stese in ceco e latino dal 1000 al 1300 e trapassa- no da cronaca di leggende in storia documentata). Libuše è fondamentale per tre ragioni. È la principes- sa che guida, governa e giudica i cechi. È lei che ordina ai suoi di fondare la città di Praga, di cui predice la gloria. È lei che cede alle proteste degli uomini che non vogliono più una guida femminile e indica di andare a prendere un con- tadino, Př emysl, «aratore»: ne farà il proprio sposo e loro principe (722- 745: come sopra). Ciò dicendo, av- verte che «la ma- no di un uomo pic- chia più dura». Av- verte anche, prima, di non prendere mai una guida stra- niera (leggi: ger- manica): «češte své ač i krastavo», in li- bera ma chiara tra- duzione: «spulcia- tevi la capigliatura e le vostre cose da soli, senza stranie- ri, per quanto pul- ciose esse siano». Dalla cura con cui indica come trova- re e portare da lei Přemysl (basta se- guire il cavallo di Libuše...) si com- prende che costui altri non era che un contadino suo amante. Boř ivoj I, figlio del settimo suc- cessore leggen- dario di Přemysl (Hostivít), è il pri- mo regnante stori- camente attestato della dinastia dei Přemyslidi, la quale finisce con l’assassi- nio di Venceslao III nel 1306. Oppure, più probabilmen- te, il suo casato fu uno dei più potenti già durante la Gran- de Moravia (IX secolo). La seconda donna fondamentale delle leggende anticoce- che è Vlasta, ispiratrice e guida della ribellione delle don- ne al governo degli uomini di Přemysl, ormai vedovo di Libuše. Anche lei come Libuše amministra e giudica, oltre a combattere e sottomettere. Libuše e Krok potrebbero se- condo alcuni essere nomi forse celtici, poi latinizzati e ce- chizzati, Vlasta invece viene da «vlast», ceco per «patria». Šárka è una delle sue migliori guerriere amazzoni, ispira- trice e autrice del più noto episodio di quella lunga guerra L’amazzone Šárka e le antiche leggende ceche di Sergio Corduas Vitezlav Karel Maše, Libuše la profetessa (1893) 12 — focus on focus on

Transcript of 12 — focus on L’amazzone Šárka e le antiche leggende ceche · Dicono le leggende che i futuri...

Šárka e l’episodio che la riguarda nelle leggende anti-che dovrebbe essere un fatto minore nell’ambito del-la lunga e vittoriosa «Guerra delle fanciulle» contro

gli uomini, finita comunque con la sconfitta delle donne.

Diciamo subito che, non avendo a che fare con fatti sto-ricamente documentati, siamo nel campo delle leggende. È però evidente che se queste vanno in una certa direzione che assegna fortissimi e privilegiati ruoli alle donne, un ca-so non può essere. D’altronde ciò accade anche in cicli che riguardano altre popolazioni slave (ad esempio i futuri po-lacchi) e in parte anche quelle germaniche.

Dicono le leggende che i futuri cechi vennero a quelle terre, provenienti probabilmente da sudest, nei pressi del-la futura Praga guidate da un «praotec», progenitore, di no-me Čech, colui dal quale prende nome (nel 644? Probabi-le fantasia di cronachista) la regione (Čechy=Boemia; è un femminile pluralia tantum); un suo successore Krok

(661-675: come sopra) ebbe tre figlie e la maggiore delle tre, Libuše (715-722: come sopra), dà inizio alla forte linea femminile della storia antica ceca. Dico «storia» perché le leggende, prima che vi sia storia nel senso moderno del ter-mine, fanno parte della storia delle idee, del costume, della cultura di un popolo. (Le Cronache che sono la nostra fon-te furono stese in ceco e latino dal 1000 al 1300 e trapassa-no da cronaca di leggende in storia documentata).

Libuše è fondamentale per tre ragioni. È la principes-sa che guida, governa e giudica i cechi. È lei che ordina ai suoi di fondare la città di Praga, di cui predice la gloria. È lei che cede alle proteste degli uomini che non vogliono più una guida femminile e indica di andare a prendere un con-

tadino, Přemysl, «aratore»: ne farà il proprio sposo e loro principe (722-745: come sopra). Ciò dicendo, av-verte che «la ma-no di un uomo pic-chia più dura». Av-verte anche, prima, di non prendere mai una guida stra-niera (leggi: ger-manica): «češte své ač i krastavo», in li-bera ma chiara tra-duzione: «spulcia-tevi la capigliatura e le vostre cose da soli, senza stranie-ri, per quanto pul-ciose esse siano». Dalla cura con cui indica come trova-re e portare da lei Přemysl (basta se-guire il cavallo di Libuše...) si com-prende che costui altri non era che un contadino suo amante.

Bořivoj I, figlio del settimo suc-cessore leggen-dario di Přemysl (Hostivít), è il pri-mo regnante stori-camente attestato

della dinastia dei Přemyslidi, la quale finisce con l’assassi-nio di Venceslao III nel 1306. Oppure, più probabilmen-te, il suo casato fu uno dei più potenti già durante la Gran-de Moravia (IX secolo).

La seconda donna fondamentale delle leggende anticoce-che è Vlasta, ispiratrice e guida della ribellione delle don-ne al governo degli uomini di Přemysl, ormai vedovo di Libuše. Anche lei come Libuše amministra e giudica, oltre a combattere e sottomettere. Libuše e Krok potrebbero se-condo alcuni essere nomi forse celtici, poi latinizzati e ce-chizzati, Vlasta invece viene da «vlast», ceco per «patria».

Šárka è una delle sue migliori guerriere amazzoni, ispira-trice e autrice del più noto episodio di quella lunga guerra

L’amazzone Šárkae le antiche leggende ceche

di Sergio Corduas

Vitezlav Karel Maše, Libuše la profetessa (1893)

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(«di cinque anni»), quello in cui con «inganno femminile» le donne massacrano gli uomini, i loro uomini, seguito da quello in cui con «inganno maschile» gli uomini massacra-no, stuprano e sottomettono finalmente le (loro!) donne.

Vlasta aveva dato tre indicazioni alle sue amazzoni, dopo aver consigliato di bere poco «per perdere grasso». Quel-le «sagge» dovevano «sedere al castello» di Děvin (la radice di questo nome rimanda alle fanciulle), cioè amministrare la cosa comune. Quelle «belle» dovevano «farsi belle e im-parare a far discorsi intelligenti» perché così gli uomini le avrebbero temute. Le «terze» (significativamente non defi-nite con aggettivo) dovevano girare a cavallo armate di ar-co e «uccidere gli uomini come cani».

Šárka sta nella seconda specie, è la più bel-la e, dopo altri episodi a danno degli uomini in cui non figura da protagonista, si fa trovare da Ctirad (nome la cui radice è «čest»=onore) tutta sola, abbandonata al freddo, con mie-le (dentro il quale secondo leggende più tarde c’è un sonnifero) e con un corno. Piange. Di-ce di esser stata legata dalle compagne, dice di voler tradire Děvin, gli chiede di «rispettarla di volerla ricondurre da suo padre». Ctirad la consola, chiama i suoi, prende il miele, Šárka suona il corno: è il segnale. Accorrono le amazzoni e «prima che gli uomini rag-giungano le spade li uccidono come uc-celli». Sembra compiersi il volere di Vla-sta, «che Vlasta regni in tutto il paese e gli uomini restino all’aratro».

La risposta di Přemysl, che aveva invano più volte sconsigliato i propri uomini di ca-

dere nelle trappole e imboscate delle amazzoni, è un invito al primo e originario Castello, Vyšehrad (Castello alto: non è il Castello da tutti conosciuto, ma la fondamentale rocca přemyslide di Praga sulla riva destra della Vltava): vi invita le donne per trattative di pace, le fa maltrattare, stuprare o uccidere e comunque quelle «per la vergogna a Děvin più non tornarono». Vlasta viene avvertita dell‘inganno, si lan-cia con le sue donne all’assalto di Vyšehrad, «imprudente lascia le compagne» e assale «i nemici». È la fine: viene fat-ta a pezzi e data ai cani, altre duecento vengono uccise e le rimanenti fuggono invano verso Děvin, dove le attendo-no altri uomini già giunti al castello sguarnito e la morte.

Non compete a me e qui commentare che cosa ne hanno

tratto Smetana, Fibich, Dvořák o Janáček. Non posso non osservare che il

conflitto è tra «chi va a cavallo» (in origine gli uomini) e «chi ara la terra» (gli uomini). E che alle

origini del viaggio di Čech verso il monte Říp sta forse un delitto da lui

commesso, fatto peraltro comunissimo, così come alle origini di dinastie che giun-geranno agli onori dell’Europa tutta con Carlo IV, Re della Corona di Boemia e Im-peratore del Sacro romano impero sta, per le leggende ceche, un «contadino con l’ara-tro», probabile amante di una saggia princi-pessa. Infine, che cosa volevano le donne? Dicono le leggende, scritte naturalmente da uomini, una vita serena e senza guerre,

uomini che lavorassero di più e beves-sero meno. Troppo interessante... ◼

Šárka, Ctirad e le amazzoni in una dipinto popolare ottocentesco

Mikoláš Aleš, Fanciulla guerriera

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la vicenda di Šárka appartiene alla mitologia ceca. Al tempo in cui Janáček pone gli occhi sul sogget-to, la storia era già stata onorata dall’attenzione di

numerosi compositori. Tra questi Bedrich Smetana, che aveva evocato la figura dell’eroina nel poema sinfonico La mia Patria. Il libretto dell’opera di Janáček ha per autore Ju-lius Zeyer (nato nel 1841 e scomparso nel 1901). Poeta sim-bolista ceco di qualche spessore, Zeyer in realtà lo aveva originariamente concepito, nel 1879, su richiesta di Anto-nin Dvořák come adattamento della quarta parte – Cti-

rad – di un suo poema epico, Vyserhad. Ma la collaborazione tra Dvořák e Zeyer non do-veva aver fortuna: Dvořák era interessato a un soggetto di carattere meno «nazionale» che andasse incontro alle esigenze di un va-sto pubblico attratto dai suoi lavori sinfoni-ci. E così il libretto dovette attendere un’altra opportunità. Non fu nemmeno la successiva: vent’anni dopo fu proprio Smetana a esitare di fronte al libretto che quindi tornò anco-ra una volta nel cassetto di Zeyer. Ven-ne però pubblicato in tre diverse usci-te, tra gennaio e febbraio 1887, nella ri-vista teatrale «Sheska Thalia». E fu al-lora che Janáček lo lesse e ne fu inte-ressato. Sino a quel momento il gio-vane maestro non aveva mai contem-plato l’idea di una partitura teatrale: si era limitato ad affrontare compo-sizioni cameristiche, partiture co-

rali, musica sacra e pagine per strumenti solistici. Sicura-mente l’apertura a Brno di un teatro basato esclusivamente su un repertorio nazionale dovette persuaderlo che la crea-zione di un’opera in lingua ceca avrebbe rappresentato una grande e fertile svolta poetica. Già nell’agosto 1887 lo spar-tito di Šárka era stata scritto interamente. Janáček lo inviò all’amico Dvořák che di certo si stupì nel vedere musica-to il soggetto che un decennio prima aveva lui stesso ac-cantonato. Ma di questo stupore non resta traccia nell’epi-stolario tra i due musicisti: Dvořák riceve il plico, e tutta-via risponde solo nel tardo ottobre, caldeggiando a Leóš un incontro. Il confronto tra i due musicisti fu fruttuoso ma non privo di note critiche, tanto che Janáček volle ri-vedere ampiamente quanto già redatto. Nello stesso tem-po aveva scritto a Zeyer per ottenere il permesso di mette-re in musica il testo, evidentemente non aspettandosi l’in-dispettita reazione di Zeyer che ricusò fermamente. Qua-li fossero le ragioni di questa risposta ostile (un’ostilità per altro espressa epistolarmente con irato calore) non ci è da-

to sapere con certezza. Le ipotesi attribuiscono il diniego di Zeyer a giudizi negativi su Zeyer stesso che Janáček aveva firmato al tempo in cui era critico dell’«Hudebny Listy», una rivi-sta musicale. Più probabilmente Zeyer conta-

va su un ripensamento di Dvořák (ben più no-to del giovane Janáček) che in effetti in quegli

anni aveva dimostrato un ritorno d’inte-resse sul soggetto. Ma il «no» di Zeyer

non fermò Janáček. Sebbene le pos-sibilità di mandare in scena l’ope-ra fossero svanite, Janáček com-pletò lo spartito nel giugno del 1888, accingendosi di gran le-na al lavoro di orchestrazione. I primi due atti furono presto ultimati, ma al terzo il lavoro si interruppe. Alla fonte di que-sta pur sorprendente decisio-ne doveva esserci la staticità

A propositodi «Šárka»di Leóš Janáček

di Paolo Cossato

Leóš Janáček

Bedrich Smetana

Antonin Dvořák

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dell’azione del terzo atto, in netto contrasto con lo spirito di Janáček, allora coinvolto nello studio appassionato dei ritmi della musica popolare morava. E Šárka giacque silen-ziosa per i successivi trent’anni.

Giunse il 1918. Rovistando tra vecchie cose, Janáček si trovò tra le mani la partitura abbandonata e incompiuta. Questo ritrovamento non lo lasciò indifferente, ma non volle porvi mano direttamente. Chiese al suo discepolo Osvald Chlubna di orchestrare il terzo atto e si interessò presso l’Accademia delle Scienze ceca per ottenere i dirit-ti di quel libretto che Zeyer, morto diciassette anni prima, ora non era più in grado di rifiutargli. Il 28 dicembre 1918 l’agognato permesso arrivò.

Se in un primo tempo Janáček sembrava prendere questo «ritrovamento» alla leggera, appena giunse il sudato per-messo la sua disposizione d’animo mutò: si propose di mo-dificare radicalmente quanto già scritto, curando in prin-cipal modo le linee di canto. Ma anche il testo subì una re-visione. Lo slancio compositivo del giovane Janáček ave-va travalicato i limiti del testo di Zeyer e necessitava di una profonda rivisitazione. A realizzare questo complesso la-voro fu chiamato F. S. Prochazka, già librettista del Brou-cek. E l’opera giunse a un termine: l’11 novembre 1925 ven-ne rappresentata a Brno nella forma di una posticipata fe-sta per i settant’anni del compositore. Šárka rappresentava molto per il suo autore che sosteneva come ogni nota del-

la partitura fosse vicina ai suoi lavori più maturi. Afferma-zione ancor più eloquente in un musicista che non era cer-to propenso a concedere troppo ai lavori giovanili. L’ac-canimento con cui tentò sino all’ultimo di convincere gli editori a pubblicare la partitura dimostra la considerazio-ne con cui guardava alla sua prima opera.

Abbiamo già detto di interventi che Janáček stesso ri-chiese (al già ricordato discepolo Osvald Chlubka). Ma la presenza di Janáček nella partitura è cospicua: due intere versioni, l’orchestrazione di due atti su tre, un vigoroso la-voro di revisione nel biennio 1918-1919.

In che cosa consistette questo lavoro di revisione? In ge-nerale, il maestro lasciò intatto l’accompagnamento, dedi-candosi però a rivedere sensibilmente la parte vocale sul-la scia delle sue concezioni melodiche nate al seguito di Je-nufa, cioè del suo primo stile maturo e personale. Il risulta-to offre occasione a uno stimolante contrasto con i versi di Zeyer che ne esce superato dalle innovazioni della poetica musicale di Janáček.

L’opera, costruita in una struttura saldamente scandita, si basa su tre personaggi principali, un forte apporto di parti corali e, nel terzo atto, in un inatteso concertato. Le prefe-renze della critica vanno tuttavia al secondo atto, infuoca-to dall’atmosfera sensuale generata dal duetto tra Ctirad e Šarka, che ben risponde al carattere passionale del composi-tore, rimasto tale anche nella tarda stagione della sua vita. ◼

La trama dell’opera si affida a una vicenda presente nella mi-tologia ceca: la guerra delle fanciulle. Il potere delle donne

è declinato dopo le nozze e ancor più dopo la morte della prin-cipessa Libuše, che aveva lasciato al suo consorte Přemysl l’inte-ro comando delle terre ceche. Come atto di prote-sta, le donne, guidate dalla selvaggia Vlasta, ave-vano creato un esercito di donne guerriere, la più impavida delle quali era Šarka. La guerra tra i ses-si aveva segnato la fine di un’età dorata, un decli-no della civiltà, costernazione tra gli uomini. Que-sta la premessa. All’aprirsi del sipario Přemysl tra i suoi soldati piange la morte di Libuše. Giunge Cti-rad, giovane guerriero, che viene accolto con calo-re. È stato inviato dal padre in aiuto di Přemysl. A lui spettano la magica spada e lo scudo che giac-ciono nella tomba di Libuše. Ctirad, rimasto so-lo sulla scena, leva un canto nostalgico all’ormai perduto tempo dell’amore alla corte del padre. La sua aria è tuttavia interrotta dall’arrivo delle don-ne guerriere. Eroe senza paura, Ctirad si inoltra nell’antro dove si trova la tomba di Libuše, co-perta da un velo, la testa incoronata d’oro, al suo fianco le armi magiche tanto ambite. Cti-rad afferra le armi, implorando perdono per aver varcato le soglie della tomba. Guidate da Šarka, giungono le donne cui Šárka ordina di seguirla nella tomba senza porre doman-de. Ctirad si avvede del loro arrivo e si na-sconde. Le donne ammoniscono Šárka a non andare oltre. Ignorando il consiglio, la giovane protende la mano sulla corona di Libuše. Ma appare Ctirad, branden-do la spada. Šárka lascia cadere le armi, ma tenta ancora di afferrare la corona. Misteriosamente la regina morta si erge e poi svanisce terrorizzando le donne che fuggono. Ctirad, lasciato solo, can-

ta la bellezza di Šárka che lo ha fatalmente colpito. Il secondo at-to mostra l’inquietudine impaurita di Šárka e delle donne, che tuttavia ritrovano vigore. Šárka resta sola, immersa nell’ascolto dei suoni della foresta. Inatteso giunge Ctirad. Šarka, terrorizza-ta, lo implora di ucciderla, ma il giovane esita. Ctirad, impietosi-to, ascolta Šárka che gli narra di essere stata punita da Vlasta do-

po il fallimento dell’impresa sulla tomba di Libuše. Ctirad le confida il suo trasporto per lei, ma Šárka rifiuta di seguirlo come sposa: vuole solo morire. E tuttavia la sua ostile fermezza si attenua via via in

un clima di sensuale reciproca attrazione. Ctirad le dice che morirà per lei e la resistenza di Šárka vacil-la. Improvvisamente Šárka suona il corno, segnale di richiamo per le donne. Ctirad la difende, ma viene

mortalmente ferito. Sul punto di morire, esprime rimpianto per la sua giovinezza ed ancor più per il tradimento di Šarka. Ferocemente, le donne pongono fine alla sua agonia. Šárka ordina al-le donne di allontanarsi; lasciata sola cade af-franta sul corpo di Ctirad. Il terzo atto si apre nel crepuscolo; siamo a Vyserhad. Přemysl è

tra i suoi guerrieri. Al suo comando i can-celli si aprono lasciando entrare Lumir e altri guerrieri che portano una bara: il cor-teo funebre di Ctirad. Lumir narra di co-

me avvenne la sua morte. Gli uomini chie-dono vendetta. Si leva un lamento funebre.

Appare a quel punto una fanciulla misteriosa – Šárka – le cui armi fatate, sottratte a Ctirad, han-

no potuto dischiudere magicamente le porte. La fanciulla affianca la sua voce al lamento dei guerrieri. Poi, nello stu-pore generale, si getta sul fuoco della pira funebre accesa da Lumir che ora vede in quel fuoco un simbolo d’amore. E alla potenza dell’amore inneggiano Přemysl e il coro nell’apoteosi finale. ◼

Venezia – Teatro La Fenice11, 16, 18 dicembre, ore 19.00

13, 20 dicembre, ore 15.30Šárka di Leóš Janáček

libretto di Julius Zeyer dalla Cronaca di Dalimilregia Ermanno Olmi

scene Arnaldo Pomodoro

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cavalleria rusticana di Targioni-TozzeTTi, Me-nasci e Mascagni (1890)

ha sempre fatto discutere: am-miratori e detrattori, storici della musica e letterati hanno espres-so su quest’opera opinioni con-trastanti che l’hanno fatta in qualche modo diventare un ca-so nella storia dell’opera italiana; ben oltre le sue «umili» origini di

composizione destinata a un concorso per operisti esor-dienti. Lo stesso Masca-gni, del resto, ne presenti-va il destino quando scri-veva a Targioni-Tozzetti, il 26 ottobre 1888: «Questo concorso, forse, potrà essere il principio della mia fortu-na». Sarebbe stata una tra-volgente fortuna di pub-blico, ma tale da dar luo-go, nel tempo, a un dibatti-to critico mai banale.

Il 14 dicembre dello stesso anno, una volta caduta la scel-ta definitiva sul soggetto di Verga, il musicista salutava il la-voro come il compimento di un vecchio desiderio, risalen-te al 1884 («La Cavalleria rusticana era già nei miei progetti da quando si eseguì per la prima volta a Milano dalla Com-pagnia Pasta»). E il 17 gennaio 1889, a lavori ormai avanza-ti, esprimeva ai suoi librettisti riconoscenza e piena appro-vazione, insieme con la consapevolezza di fare cosa nuova (per esempio con un «Finale arditissimo»), destinata al suc-cesso in virtù della sua «efficacia» drammatica e magari ar-tisticamente ardua nella fedeltà al testo teatrale di Verga:

Caro Nanni,ho ricevuto – ottimamente.– Impossibile fare meglio.– Impos-

sibile indovinare maggiormente mio gusto.– Romanza sop.[so-prano] indovinatissima; finale grande efficacia.– Sortita carret-tiere forte, originale.– Già musicata.– Recit.[recitativo] versi sciol-ti, mia somma soddisfazione.– Preludio e 1° coro già completi. La-vorerò uso treno lampo.

Attendo con ansia il resto.– Penso con paura al Finale che ri-uscirà arditissimo, se, come credo (e forse spero), sarà man-tenuta la fedeltà al lavoro originale.– Bravi! Bravi!– Versi bellissimi.– Riusciremo!!–

Ringrazio di cuore e saluto affettuosamente.–

Il caso Cavalleria è già contenuto in queste lettere per al-cuni dei suoi temi principali, che si possono racchiudere in una formula: l’opera si colloca a uno snodo della storia ope-ristica italiana che la rende – senza intenzione – un concen-trato di contraddizioni, o quanto meno di convergenze an-titetiche: tutte brillantemente risolte sul piano dell’«effet-to» drammatico, cioè della comunicazione immediata. Il rapporto col pubblico è stato infatti da subito eccellente, e Cavalleria si trova da un centinaio d’anni ininterrottamen-

Pietro Mascagnie il codice d’onore rusticano

di Adriana Guarnieri

Pietro Mascagni

ristorante e caffetteria

Situato al pianterreno di Palazzo Querini Stampalia,il nuovo Qcoffee si apre in un incantevole giardino interno: armonico equilibrio d’acqua, pietra e verdeprogettato alla fine degli anni ‘50 da Carlo Scarpa. Gestito da Mariagrazia Cassan e Guglielmo Pilla,il caffè ristorante, disegnato da Mario Botta,offre i suoi servizi non solo a chi frequenta le mostre,il Museo e le attività della Fondazione Querini Stampalia,ma a chiunque desideri rilassarsi in uno spazio speciale.Lo chef prepara specialitàdella cucina tosco/venetae piatti di pesce, anche crudo.Ampia selezione di vini dall’Italia e dal mondo.

QcoffeeFondazione Querini Stampalia - Santa Maria FormosaCastello 5252 VENEZIA041 [email protected] domenica sera e lunedìby la colmbina

Enoteca Ristorante La ColombinaVia Contessa Beretta, 31Villanova di Farra, Gorizia0481 [email protected] martedì sera e mercoledì

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te ai primi posti della classifica mondiale delle opere più rappresentate.

Il successo era dunque l’obiettivo esplicito di quella col-laborazione; ma si trattava di un obiettivo che nascondeva una lacerazione, poiché Mascagni aveva allora nel casset-to un Guglielmo Ratcliff (un Heine originale tradotto da Maf-fei) decisamente sperimentale nella scrittura e nell’impian-to drammaturgico. Destinato per questo motivo a un dif-ficile rapporto col pubblico, Ratcliff si poneva in sostanza al polo opposto rispetto a Cavalleria quale teatro musicale di un autore autonomo rispetto alle attese degli spettatori, votato all’insucces-so per vocazione di avanguardia.

A quella contrad-d izione d i pro-grammi persona-li si affiancava in Mascagni l’inge-nuo pensiero di mantenere «for-se» la nuova ope-ra «fedele al lavoro originale» di Ver-ga. Quel dubbio avrebbe avuto un seguito nella famo-sa causa Verga con-tro Sonzogno, vin-ta dallo scrittore nel 1893 sulla base del principio giuri-dico di una premi-nenza dell’«idea» drammatica (del soggetto) su qual-siasi elaborazione, anche musicale. Proprio sul fron-te del soggetto ve-rist ico prendeva forma, d’altra par-te, una delle dico-tomie più ricche di future discussioni.

Cavalleria rustica-na, che si presen-ta storicamente come una delle ultime opere «a numeri» (rivolta dunque al passato), altrettanto storicamente «fon-da» (propone e lancia) il verismo musicale. La sua scrittura per certi versi minima (nella semplicità delle soluzioni ar-moniche e ritmiche, nella drammaturgia elementare di co-ri caratteristici alternati a soli caratteristici) si rivela però in grado, nella sua perspicuità, di traghettare l’esperienza del grand-opéra francese (mediata in Italia dalla cosiddetta «gran-de opera» di Ponchielli, maestro di Mascagni) dal passato reali-stico nel presente veristico di un soggetto basso, di passioni di-rompenti, di dinamiche aggres-sivamente contrastanti; di clau-sole affidate alla parola non into-nata e al gesto musicale violento; di una vocalità sforzata per l’in-sistere delle parti sulle «note di

passaggio» (da un registro all’altro); di un’orchestra cantan-te, infine, che appare diretta espressione dei personaggi, quasi lo «stile indiretto libero» individuato dagli studiosi come specifico della rivoluzione linguistica di Verga. Il tut-to è ingabbiato in una trama di coups de théâtre scenici e mu-sicali che realizza un fondamentale credo drammatico ma-scagnano (la necessità di «prendere il pubblico per il collo»).

Dentro questo congegno musicale a suo modo perfet-to pullulano, a propria volta, contraddizioni di dettaglio che possono spiazzare sia gli ascoltatori sia la critica qua-li una strumentazione ricca (nell’incontro con un’armo-

nia elementare), un sinfonismo rilevante (nell’incontro con un soggetto «plebeo»); oppure scelte drammaturgi-che sorprendenti quali la proposta – in un’opera tutta de-dita alla piena dei sentimenti – di un solo canto d’amore (la Siciliana di Turiddu), collocato oltretutto dentro un bra-no orchestrale (il Preludio). Il «duetto d’amore» di Santuz-za e Turiddu risulta infatti uno scambio continuamente in-terrotto da interventi esterni, ed anche un dialogo tra sor-

di: una donna disperata, furen-te e un uomo insensibile, incu-rante. Tutto questo riconduce, con coerenza, al titolo: dramma d’onore piuttosto che d’amo-re, Cavalleria rusticana si regge su passioni immerse – come in Verga – in un tessuto di con-suetudini sociali che è arbitro del destino dei personaggi. ◼

Cavalleria rusticana, bozzetto di Otto Müller-Godesberg, Coblenza, 1923.

Venezia – Teatro La Fenice11, 16, 18 dicembre, ore 19.00

13, 20 dicembre, ore 15.30Cavalleria rusticana

melodramma in un attolibretto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci

dal dramma omonimo di Giovanni Vergamusica di Pietro Mascagni

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È un accosTamenTo originale quello che conclude la stagio-ne lirica del Teatro La Fe-

nice: un dittico sulla carta piut-tosto eterogeneo, ma che sve-la, attraverso lontane affinità e stimolanti contrasti, la ric-chezza musicale dell’Europa nel passaggio tra il Roman-ticismo e il Novecento.

A entrare in felice col-lisione, Šárka di Leoš Janáček e Cavalleria ru-sticana di Pietro Ma-scagni: se della secon-da molto si sa, l’opera di Janáček – che non è mai stata rappresentata in Italia prima d’ora – ha avuto una vicenda piut-tosto singolare, venen-do accantonata per diver-si anni e poi rappresenta-ta solo nel 1925, per il set-tantesimo compleanno del compositore.

A dirigere il dittico, che vedrà la regia di un gran-de maestro come Erman-no Olmi, è stato chiamato Bruno Bartoletti, ar-tista di gran-de sensibi-lità ed espe-r ienza , per molti anni Di-rettore Stabi-le dell’Orchestra del Maggio Mu-sicale Fiorentino e con una particolare sensibilità al reper-torio novecentesco e contemporaneo.

Lo abbiamo raggiun-to per farci raccontare qualcosa di più di que-sta nuova sfida.

Maestro Bartoletti, dal punto di vista stilistico Šárka pone la sfida di rileg-gere Janáček, tenendo con-to non solo del forte collega-mento al nazionalismo di

Dvoràk e Smetana, ma ovviamente anche dei successivi sviluppi della sua stessa carriera. Come intende lavorare su questo?

Più che di rilettura, parlerei di una vera e propria «let-tura», dal momento che è la prima volta che dirigo Šárka e che quest’opera viene presentata in Italia. Trovo l’acco-stamento molto stimolante, perché comprende due lavo-

ri che sono le rispettive opere prime dei loro compositori, Janáček e Mascagni, due la-vori che per la loro lunghez-

za contenuta possono essere bene accostati.

Sono quindi contentissimo di poter diri-gere questo dittico: il problema principale per quanto

riguarda Šárka è che nella musica non si ritrova il testo del libretto, la musica popolareggiante di Janáček non è cer-to quella che un simile libretto, quasi wagneriano, potreb-be avere ispirato a un altro compositore coevo. L’opera-

zione diventa così davvero interessante e la possibili-tà di dirigere, per questa prima esecuzione, un cast

di cantanti di lingua originale, mi facilita molto il compito.

In quest’opera ritroviamo tutto il carattere di Janáček, quella sua capacità di essere libero, sin-

cero e popolare che raggiunge gli spettatori in mo-do efficace.La regia è affidata a Ermanno Olmi. Come si rapporta con

i registi solitamente?Il fatto che la regia sia affidata a Olmi è per me un ul-

teriore motivo di tranquillità e soddisfazione, perché si tratta di un vecchio amico: forse non tutti ricordano che il debutto alla regia di Olmi fu proprio in un trittico Puc-

ciniano da me diretto a Firenze, per il quale allestì il Tabarro, mentre le altre due opere ebbero la regia

di Monicelli e Piavoli.

A un regista chiedo il rispetto del testo, ma anche la capacità di invenzione, perché credo fermamente che si possa inventare molto anche senza bisogno di tradire

la musica. Porto sempre a esempio un allestimento della Cena delle beffe di Giordano, che facemmo a

Zurigo e Bologna con Liliana Cavani: la scel-ta della regista fu di ambientare l’opera in

una famiglia di oggi, attualizzando sen-za tradire né la musica né il testo, con

l’esito di renderla molto più viva ed efficace.

Mi aspetto quindi da Ol-mi una collaborazione

intensa e stimolante.A Šárka è affianca-ta Cavalleria rusti-

cana: come mette-rà in relazione

le due opere? Quali af-

Bruno Bartoletti dirige Janáčeke Mascagni

di Enrico Bettinello

Pietro Mascagnida Vanity Fair (1983)

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finità o quali contra-sti si deve aspettare il pubblico veneziano?

Il pubblico non troverà molte affi-nità, perché si trat-ta di due opere che appartengono a mondi decisamen-te lontani tra di lo-ro: per quanto ri-guarda Cavalleria rusticana, il mio ob-biettivo è quello di evitare tutti i mez-zucci, che trovo molto provinciali, che siamo abituati ad associare a que-sto titolo, per tor-nare a un lavoro quale lo pensò Ma-scagni dall’inizio, ritrovando la natu-ralezza delle prime edizioni. Si trat-ta di un’opera che ha centovent’anni, ma la musica è an-cora freschissima e ho sempre in mente la le-zione di Von Karajan che ne tolse gli accenti veristi per fare risaltare la raffi-natezza che questo lavo-ro richiede.

Lei è un direttore che si muo-ve con altrettanta sensibili-tà nel repertorio più classico (Puccini, Mascagni) così co-me in quello contemporaneo. Alla luce di questa sua espe-rienza, quali chiavi interpre-tative ritiene più stimolanti in uno scenario difficile come quel-lo odierno?

Sono particolarmente felice di dirigere questo primo lavo-ro di Janáček perché ne ho già di-retto i lavori successivi, Kát’a Ka-banová, L’affare Makropulos e Jenufa: mi interessa molto capire, studian-do quest’opera, come sia nato tutto quel mondo che co-nosco perfettamen-

te: in Šárka si sen-te quello che verrà, alcune cose in for-ma ingenua cer-to, ma comunque sono già presenti. Per quanto riguar-da Mascagni non posso che rilegger-lo da toscano, con quell’amore incre-dibile per il suo ta-lento immenso, un talento che espri-me in Cavalleria ru-sticana e che sap-piamo, con dispia-cere, che non sep-pe più replicare.

Dopo Venez ia , quali saranno i suoi prossimi impegni?

Dirigerò L’Heu-re Espagnole di Ra-vel ad Ancona, an-che in questo caso abbinata in un in-teressante dittico ad Andata e ritorno di Hindemith, poi

tornerò a Firenze per Adriana Lecou-vreur. Sono comunque tempi di

crisi e ci tengo a sottoline-are la professionalità con cui teatri come la Fenice o Torino mantengono i loro impegni, a conferma non solo della loro serietà, ma del fatto che qualcuno i conti li sa ancora fare. ◼

Leoš Janáček

Bruno Bartoletti

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in occasione della messinscena di Šárka di Leoš Janáček e Ca-valleria rusticana di Pietro Mascagni, in programma alla Fenice tra l’11 e il 20 dicembre, abbiamo incontrato il regista Ermanno Olmi. Cantore ne-

gli anni del boom di un’Italia arcaica, rurale e pura (Il posto, L’albero degli zoccoli) e alfiere di un cinema che affonda le proprie radici nell’istanza documen-taria ancorché narrativa, ha di recente ripudiato il cinema di finzione, che ha la-sciato in seguito all’amaro Centochiodi (2007), per tornare al cinema del rea-le. Suo il recente documentario Terra madre (2009), dedicato al cibo e al suo le-game indissolubile con la terra.

Maestro, qual è il suo rapporto con il teatro musicale?Parte da lontano. Quand’ero bambino non c’era la possibili-

tà che c’è oggi di ascoltare la musica registrata, era la gente del popolo che cantava. Tra questi canti si sentivano spessissimo arie d’opera, romanze. Avevo circa sei anni quando il MinCul-Pop proponeva per il popolo al Castello Sforzesco gli spettaco-li della Scala. I miei genitori ci andavano spesso ed è lì che ho sentito per la prima volta Pagliacci, o visto i primi balletti. Dun-que la mia scelta del teatro musicale non è razionale, nasce piut-tosto da una simpatia, da un’adesione spontanea coltivata sem-pre come gioia del canto.

Quindi lei riconduce il teatro d’opera alle origini del canto popolare...Sto leggendo la storia del teatro d’opera italiano di Lorenzo

Arruga (Lorenzo Arruga, ll Teatro d’opera Italiano. Una storia, Fel-trinelli, 2009, ndr.) che segnala tra l’altro come in questo genere teatrale la musica non sia un ornamento, ma un modo di inter-pretare la realtà. Si pensi del resto anche al teatro di prosa, dove la musicalità è nella parola. La canzone stessa, che nasce anco-ra prima del teatro d’opera non è che una poesia resa in canto.

Il racconto della realtà e le radici popolari sono due costanti della sua arte...

La definizione di arte popolare non è riduttiva ma rappre-sentativa di una cultura che non ha il miraggio del successo, del danaro. I canti del popolo nascono in condizioni di purez-za d’animo. Bellini ascoltava i canti delle filandere per com-porre La sonnambula, la musica di Verdi reinterpreta i canti del-la sua terra, lo stesso Mozart si ispirava ai canti delle osterie. Il popolo, nella sua espressione più genuina, è stato sempre fon-te di ispirazione per i compositori, il che dimostra che i grandi non vivevano nei templi della musica, ma nel tempio della re-altà quotidiana che è il tempio dell’universalità.

Nasce da qui la scelta di portare in scena due opere legate alla cultura po-polare: Šárka di Janáček, che reinterpreta un mito fondativo della tradi-zione ceca, e Cavalleria Rusticana di Mascagni, che è profondamente le-gato alla tradizione siciliana?

Sì, ma attenzione a non scambiare il folclore con l’arte e la cultura popolare. Il folclore è ciò che di un popolo resta in su-perficie, quando non si è in grado di coglierne la sostanza pro-fonda. I grandi maestri ricavano dal popolare l’aria della real-

tà, quell’aria che si respira nei luoghi originari. Oggi purtrop-po quei luoghi sono stati spazzati via come atto barbarico dal-la televisione. Oggi viviamo in una realtà fasulla. Persino il po-polo che appare in televisione finisce suo malgrado per reci-tare. È una follia.

Se il suo recupero del teatro avviene con quest’idea molto forte di racconto della realtà attraverso la musica del popolo, allora non è in contraddizione con la sua scelta recente di abbandonare il cinema di finzione...

Certo. Per me l’abbandono del cinema di finzione è neces-sario nel momento in cui la storia narrata è utilizzata al servi-zio del film come prodotto di mercato. Non sono contrario al mercato, ma alla scelta a priori di un prodotto che deve andare sul mercato. L’artigiano che costruiva una sedia non la costru-iva per il mercato, ma per il signore che gliel’aveva commissio-nata. Il consumismo ha un effetto deleterio perchè sta distrug-gendo il patrimonio della realtà naturale e soprattutto fa sì che ci circondiamo di oggetti fasulli. Tutta l’arte che nasce con i presupposti del supermercato è già condannata in partenza. ◼

Musica del realee cultura popolareErmanno Olmi raccontale sue regie per la Fenice

di Martina Buran e Riccardo Triolo

Ermanno OlmiTeneke di Fabio Vacchi

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La ben nota passione teatrale che da sempre accompagna il maestro Ar-naldo Pomodoro lo ha portato ad allestire scenografie per spettacoli tratti da autori tra loro assai diversi, da Marlowe a Pinter, da Genet a Eschi-lo, da Pavese a O’Neill, Kleist, Brecht, Gluck o Strauss…

È vero, come ha asserito Sam Hunter, che il teatro l’ha aiutata a «ride-finire e perfino a reinventare la sua arte»? In cosa essa ne ha «beneficiato» in questi reiterati incontri con il teatro e in particolare con l’opera lirica?

L’esperienza teatrale mi ha aperto nuovi orizzonti e mi ha incoraggiato e persino ispirato a sperimentare nuovi approc-ci e nuove idee per le sculture di grandi dimensioni, perché il teatro mi dà un senso di libertà creativa: mi sembra di po-ter materializzare la visionarietà. In alcuni progetti per la sce-

na, soprattutto nel caso di testi classici, ho realizzato gran-di macchine spettacolari da cui poi ho tratto vere e proprie sculture. In altri casi ho preso lo spunto da progetti di scul-ture non realizzate.

Dal primo allestimento lirico del 1982 a Roma per la Semiramide di Rossini, quanto e cosa è cambiato nel suo approccio scenico all’opera lirica?

Dopo Semiramide, per cui avevo progettato grandi macchi-ne che muovendosi davano diverse configurazioni alla scena e costumi studiati per una precisa funzionalità tonale e tim-brica dei colori, molti sono stati gli allestimenti nel campo del melodramma. Da Alceste di Gluck e da Oedipus rex di Stravin-sky e Cocteau, a Capriccio di Richard Strauss e a Madama Butter-fly di Puccini, fino a Un ballo in maschera di Verdi all’Oper Lei-pzig di Lipsia, con la regia di Ermanno Olmi e la direzione di Riccardo Chailly e a Teneke, un’opera nuova composta da Fa-bio Vacchi, tratta dall’omonimo racconto di Yashar Kemal e rappresentata nel 2007 alla Scala con regia di Ermanno Ol-mi e la direzione di Roberto Abbado. In questo caso lo spa-zio del palcoscenico era ricoperto da un grande rilievo ma-terico costituito da elementi mobili che, seguendo lo svilup-

po drammatico dell’azione, via via scomparivano e lasciava-no intravvedere ampie zone allagate dall’acqua.

In generale posso dire che ho sempre cercato di usare la for-za dell’astrazione per trascrivere nel linguaggio visivo il lin-guaggio musicale e verbale dell’opera, pur nella specificità dei singoli progetti. D’altra parte l’opera lirica è, per la sua stessa struttura, un assieme formato da diverse componenti, tutte imprescindibili l’una dall’altra, quella musicale, quella testua-le e quella visiva. Ed è questo l’aspetto che più mi affascina.

La sua già collaudata collaborazione con Ermanno Olmi si rafforza ora nell’allestimento, per il Teatro la Fenice, di ben due opere di musicisti tra loro molto diversi: Janáček e Mascagni. Musiche diverse per due ope-re coeve ma distanti per aree geografiche e vicende narrate; la tragica sto-ria di un’antica, indomabile eroina ceca e quella drammatica, ben nota, di Santuzza e Turiddu. Un lavoro stimolante dunque.

Sì, insieme a Ermanno Olmi stiamo preparando la messin-scena del dittico Šárka di Janáček e Cavalleria Rusticana di Ma-scagni per la Fenice di Venezia. La collaborazione con Olmi nel lavoro teatrale è ormai quasi una consuetudine. Lavorare

con lui è impegnativo e stimolante e mi auguro che anche in questa occasione veneziana riusciremo a realizzare una mes-sinscena delle due opere interessante e ricca di nuovi spunti di lettura e di interpretazione.

Le sue scenografie sono state spesso considerate «testi autonomi» che s’in-seriscono e procedono parallelamente a quelli letterari o teatrali messi in scena. Nel caso di un’opera lirica ci sono anche la musica, il canto… Si tratta dunque di una «lettura a più voci»?

Certamente, con il mio lavoro cerco di interpretare e appro-fondire passaggi musicali e testuali, dando così un apporto, che ritengo fondamentale, per comprendere questo straordi-nario fenomeno che è l’opera in musica. In particolare la sce-nografia con la sua inventività e fantasia può portare un ele-mento visionario di grande suggestione e importanza nello spettacolo d’opera. E credo che l’intervento degli artisti che hanno lavorato nell’ambito del melodramma, a partire dalle prime esperienze dei futuristi e dell’avanguardia storica, abbia contribuito al superamento delle vecchie strutture e all’evo-luzione in senso moderno del linguaggio scenografico. ◼

Il linguaggio visivodi Arnaldo Pomodoro

di Patrizia Parnisari

Modellino della scena di Arnaldo Pomodoro per TenekeTeatro alla Scala, Milano, 2007. Direttore d’orchestra Roberto Abbado, Regia di Ermanno Olmi ( foto di Carlo Orsi)Modellino della scena di Arnaldo Pomodoro per TenekeTeatro alla Scala, Milano, 2007. Direttore d’orchestra Roberto Abbado, Regia di Ermanno Olmi ( foto di Carlo Orsi)

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difficile parlare di ermanno Olmi, difficile far-ne un ritratto. Difficile e molto rischioso in quanto si tratta di uno di quei personaggi che, non solo in

campo cinematografico ma in quello più esteso dello spetta-colo o più semplicemente della cultura, hanno raggiunto una posizione tale da renderli molto simili a dei monumenti na-zionali. Parlare di Olmi, infatti, è come parlare del Colosseo, del Duomo di Milano o di Piazza San Marco. E il rischio che ne consegue è quello di ripetere le solite banalità, ovvero di non dire in fondo niente di nuovo oppure, in un malinteso

desiderio di essere a tutti i costi originali, di travisare la realtà.La cosa migliore credo sia quella di interrogarsi facendo

finta di non saperne nulla, ovvero, dimenticando davvero tutto. Fare cioè quello che farebbe Olmi stesso nella mede-sima situazione.

Via allora, per cominciare, tutti gli stereotipi che sono sta-ti costruiti su di lui e attorno a lui, non perché siano falsi ma perché sono, come detto, stereotipi. Via l’attenzione verso gli umili, via la milanesità, via il mondo del lavoro, via l’ere-dità del neorealismo. Parliamo invece, ad esempio, di liber-tà: di quella libertà autentica di pensiero, come di comporta-mento, che Olmi ha sempre dimostrato in ogni suo proget-to, in ogni suo lavoro. Di quella libertà, accompagnata sem-pre da quell’altrettanto autentica e viva curiosità, che ha fat-to sì che potesse lasciarsi guidare dal proprio sguardo, per-sonale ma mai preconcetto, sul mondo; che gli ha permesso di andare sempre ben oltre la superficie delle cose e coglier-ne il senso per la strada più semplice e diretta; senza paura di lasciarsi sorprendere dalle cose stesse ma lasciandosi da esse

guidare. E della capacità, che ne consegue, di leggere la real-tà e di raccontarla in modo personale, originale che non vuol dire strano, spettacolare se non addirittura esibizionistico.

Curiosità e irrequietezza dello sguardo, articolazioni di im-magini e di concetti, come una partita a tennis non scontata, non il solito tic-tac del «campo e controcampo» ma una vi-sione che, pur nell’estrema frammentazione dei piani, si può dire alla fine ologrammatica; attraverso una sapiente orche-strazione delle parti, imprevedibile ma, a posteriori, a cose fatte, soltanto semplicemente logica, e, questo, se è lecita la metafora musicale, nell’intervento degli «strumenti solisti» come delle «sezioni orchestrali».

Film come partitura, dunque. Partiture che si incontra-no: quelle dei ritmi e delle misure cinematografiche e quelle più propriamente tali delle musiche dei suoi film. Vedi Stra-vinskij, Bach, Telemann, Vacchi, Fresu… musica che ha e conserva la propria autonomia dall’immagine e da questa trae la sua energia dialogante; non si appoggia mai alla sce-

na ma le si pone di fronte dialetticamente e la vivifica. E, vi-vificandola, si vivifica.

Ricordo come spesso Tullio Kezich raccontasse con affet-tuosa ironia quanto Olmi fosse convinto di avere inventato, lui, il cinema. E non si può dire avesse torto: è proprio così. Forse non del tutto, forse Olmi non ha proprio inventato «il» cinema ma ha senz’altro inventato «il proprio» cinema; non solo per quanto riguarda un aspetto personale come lo sti-le ma anche per quanto concerne i modi realizzativi. Anzi, potremmo dire che l’ha inventato e reinventato a ogni film, trattando ogni singolo film come questo «meritava» e non secondo una regola generale, prefissata.

Non conosco (lo ammetto vergognosamente) il lavoro di Olmi nel campo della lirica ma è come se lo conoscessi per-ché penso senz’altro (mi si perdoni la presunzione) di sape-re cosa può aver fatto e cosa farà. Una strada praticabile (a questo punto, forse, la sola) potrebbe essere quella di tenta-re un’insolita critica preventiva, a priori, prima della visione dell’opera realizzata. Una critica che, al posto di parlare di

Ermanno Olmi:un ritratto tra immagini e suoni

di Mario Brenta

Ermanno Olmi

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ciò che si è fatto, parli invece delle aspettative di ciò che Ol-mi farà o, meglio, avrà fatto.

Avrà fatto senz’altro qualcosa di estremamente origina-le; perché estremamente naturale, perché attento all’essenza delle cose e sempre rispettoso nei confronti della realtà. La realtà non va violentata: va messa in condizione di esprimer-si, di parlarci. Non si sarà ovviamente ispirato a nulla se non alla propria esperienza personale, alla propria particolare vi-sione del mondo; non si sarà di certo peritato di documen-tarsi più di tanto su ciò che fanno o hanno fatto gli altri. Sarà salito sul palcoscenico con la sua candida semplicità un po’ sorniona e si sarà detto: bene, cos’è l’opera lirica? Qual è la sua realtà? È quella di una narrazione che certamente si ispi-ra e si conforma ai principi della drammaturgia teatrale ma, prima di tutto, alle esigenze della musica e del canto. Sono il canto e la musica che vanno messi in rilievo e l’aspetto squisi-tamente drammaturgico a questo si deve adattare; ma senza soffrirne, anzi. Si deve adattare senza tradire se stesso, sen-

za per questo essere in posizione subalterna. Adattarsi non vuol dire adeguarsi supinamente ma dialogare. Solo così la cosa funziona e i due aspetti si esaltano, senza sopraffazioni ma anche senza servilismi. È lo stesso procedimento che è auspicabile avvenga in un film tra immagine e suono. Origi-nalità e autonomia della musica – come si è detto – perché le immagini ne vengano esaltate ma, di riflesso, anche la mu-sica in quanto tale. Solo che qui si procede in senso inverso.

Cosa si è quasi sempre fatto e si fa nelle regie liriche? O l’omaggio passivo, supino o lo stravolgimento totale. O le scene di cartapesta, le spade di latta, i costumi polverosi o la distruzione totale, il vuoto. Cosa farà o, meglio, cosa può aver fatto allora Olmi? Avrà a mio avviso, come è sua abitu-dine, cercato il dialogo, la mediazione. Una spolverata alla scena l’avrà senz’altro data, ma dolcemente, con cura cercan-do di non fare danni, di non rompere nulla. Le avrà dato un nuovo respiro, nuova energia: le avrà dato nuova vita senza però stravolgerne l’intima vera essenza. Avrà operato, come sempre, anche e soprattutto con umiltà: nel senso letterale

del termine, nella sua accezione più etimologica. Umile da humus: terreno, aderente alla terra ma anche nel significato di umano di ciò che dalla terra deriva. Homo ha la stessa radice di humus (terra) e da questa proviene. Umano nel suo dire ma soprattutto nel suo fare; nello stare, cioè, con i piedi per terra.

Avrà operato con rispetto (lo si è detto) ma anche con l’ignara (e per questo innocente) spavalderia dell’umile che non consiste – come si sarebbe portati a credere – nel di-re «non sono all’altezza», «non sono capace» ma nel dire «si può fare». Tutto questo però senza presunzione, con fiducia nella propria sensibilità, nel proprio pensiero; cioè imparan-do, trovando umilmente la propria strada, il proprio percor-so nel mondo e cercando di comprenderlo (e di compren-dersi) attraverso l’emozione ma anche attraverso il ragiona-mento. Semplicemente.

È per questo motivo che Olmi è stato ed è tuttora innova-tore anche se molto spesso incompreso, perché vero inno-vatore. Basti pensare a E venne un uomo e a Il mestiere delle armi,

film che hanno aperto nuove strade alla narrazione cinema-tografica (tra fiction e documentario il primo, tra fiction e sag-gio il secondo) o a quasi tutta la sua produzione successiva a L’albero degli zoccoli che riesce magicamente – e soprattutto coraggiosamente – a coniugare i caratteri più immediati del realismo con quelli dell’universo simbolico della parabola e dell’allegoria. E lo sarà anche adesso in occasione di queste due opere di Mascagni e Janáček1. Staremo a vedere ma so-no sicuro che sarà così.

Perché in fondo, grazie a questo tipo di approccio, umile come si è detto ma consapevole, Olmi può fa-re qualunque cosa, cimentarsi in modo nuovo e origi-nale in qualunque disciplina. Perché la semplicità del pensiero e la trasparenza dello sguardo gli consento-no una comprensione chiara e immediata della mate-ria che ha davanti e delle possibilità dello strumento che gli viene dato e attraverso il quale la dovrà formare. ◼

1 Cavalleria rusticana e Šárka.

Sul set di Il mestiere delle armi (2001)

Sul set di L'albero degli zoccoli (1977) Con Raz Degan, Cento Chiodi (2007)

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