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------ 118 ---- ---------------------------- -- ------ ----- LE ARTI innesto nel suo rigore cntlco e nel suo disegno preciso. I suoi rossi, i suoi azzurri, escono da quei fondi d'ombra, gravidi d'anima e, direi, dello sfuggente e del vago che Cantatore porta sempre con sè, a cui non può rinunciare senza perdere insieme il proprio incanto ed il proprio punto di fusione. La sua lievc tendcnza a dcfor- mare le figure non dipende poi tanto da una ripugnanza romantica contro una pittura edo- nistica, quanto da un pruriginoso bisogno di mantenersi alle origini ancora indistinte delle forme e delle invenzioni. Le riserve di questo pittore sembrano notevoli: ma per quello che ho detto, e per una sua lieve tendenza al sug- gestivo goyesco, non stupirei se la maturità lo portasse in una temperie diversa da quella d'og- gi, e più calda e cordiale. Gabriele Mucchi, che ha esposto naturc mor- te, paesaggi e un paio di ritratti, dei quattro è il meno lontano da una pittura impressionista. Ammesso che anche la sua è un'arte ad occhi chiusi, si trovcrà ch'essa ricerca nei sogni una maggiore sensualità e immediatezza, e nella fantasia soprattutto liquidità, delicatezza di to- no c sottigliezza di passaggi. Le nature morte di frutta, quasi sempre sul fondo di un pae- saggio immaginario, folto di colori assorbiti e perciò misteriosi, si avvicinano ad altre che adunano oggetti astratti, o meglio vaghi e ine- sistenti; di fronte ai quali la mente si arresta in una piacevole perplessità. Il Mucchi poi fa uscire alcuni oggetti (come i suoi grappoli di uva nera) con uno spicco irreale, e con molta bravura, da quegli sfondi che tendono a lique- farsi. Alla Mostra erano anche più che notevoli i bei paesaggi veneziani; Venezia è una città che gli si adatta. Ho lasciato, ultimo Birolli, perchè nclla com- pagnia mi sembra di una famiglia di pittori diversi. Come tutti i moderni, anch'cgli è critico e polemico; ma la sua critica e polemica sono di qualità romantica, impulsiva, direi insurrezio- nale; perciò suppongono non un temperamento incline all'intellettualismo, ma piuttosto al li- bero sfogo, che non vuole essere fermato. In al- tri pittori, come Rosai (o Carrà) i motivi critici e polemici sono così strettamente legati allo svolgimento dell'arte, che non sapresti separarli da essa, come in un corpo la carne dal sangue; in Birolli rimangono o anteriori o esteriori; è chiaro che la maturità va eliminandoli del tutto. È il solo che risenta del bell'ottocento francese, da cui ha preso il gusto del colore puro e dell'in- canto, quasi infondendo la mollezza di Renoir in una tecnica che richiama Cézanne. Tempera- mento di fondo tenero e idillico, come si com- piace nei bei colori senza dissonanza, si com- piace anche di rivelare in ogni quadro una vita edenica, avvolta di un'aura tremula che porta un senso di voluttà. Questa pittura si avvicina all'ultimo movimento, per me di grande inte- resse, della pittura giovanile a Milano, quello di Corrente; un movimento che, chiarito, si ri- velerà nettamente contrario alla pittura primi- tiva, intellettuale e novecentista; e forse farà nascere, insieme ad altri movimenti affini, nella pittura e scultura moderne in Italia, quei con- trasti e antagonismi di cui hanno bisogno. GUIDO PIOVENE. DE CHIRICO MET A FISICO AL « MILIONE l). Dopo vent'anni, che s'è combattuto a dritto e a rovescio sulla pittura metafisica, la Mostra dellc opere di De Chirico, che vanno dal 1910 al 1922, è apparsa isolata fra i viventi come se appartenesse ad un passato indefinitamente remoto, che neppure i contrastanti appelli d'una recentissima e fittizia polemica sono riusciti a richiamare indietro. Da campo di battaglia, la camera incantata è divenuto luogo di pio pel- legrinaggio. Veramente la successione è nor- male, ma dato il tono, assunto perfino da ri- viste correnti, di indistinto suffragio, un certo imbarazzo si forma in chi a tali opere aveva sempre guardato con rispetto, ma non si ri- trova sul piano sfalsato della posticcia ribalta sulla quale si vorrebbero ora far comparire. In- tanto il tentativo di assumerle senza ambagi nel cielo stesso della pittura antica italiana porta ad un travisamento del significato auten- tico di una pittura, che non intende certo va- lersi di quel manifesto purismo prospettico di sapore uccellesco, nel senso proprio che lo spa- zio geometrico trova nei fiorentini o per media- zione padovana nei ferraresi. A voler fare della pittura metafisica una specie di pollone riscop- piato da una ceppaia morta da secoli, si fini- rebbe per fraintenderne del tutto il significato nuovo ch'essa ha avuto al suo sorgere e che in parte mantiene tutt'ora. Gli alberi genealo- gici non si improvvisano; nella sutura diretta fra Cosmè Tura e De Chirico si arriverà solo a costruire un altro quadro metafisico, ma d'una specie assai meno severa di quelli, ne' quali un uovo di struzzo si unisce con la squadra. Per quanto si ritaglino pezzi arbitrari da Paolo Uccello o dal Tura, o si guardino con occhi me- tafisici le prospettive precipiti di Masolino, da ©Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo -Bollettino d'Arte

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innesto nel suo rigore cntlco e nel suo disegno preciso. I suoi rossi, i suoi azzurri, escono da quei fondi d'ombra, gravidi d'anima e, direi, dello sfuggente e del vago che Cantatore porta sempre con sè, a cui non può rinunciare senza perdere insieme il proprio incanto ed il proprio punto di fusione. La sua lievc tendcnza a dcfor­mare le figure non dipende poi tanto da una ripugnanza romantica contro una pittura edo­nistica, quanto da un pruriginoso bisogno di mantenersi alle origini ancora indistinte delle forme e delle invenzioni. Le riserve di questo pittore sembrano notevoli: ma per quello che ho detto, e per una sua lieve tendenza al sug­gestivo goyesco, non stupirei se la maturità lo portasse in una temperie diversa da quella d'og­gi, e più calda e cordiale.

Gabriele Mucchi, che ha esposto naturc mor­te, paesaggi e un paio di ritratti, dei quattro è il meno lontano da una pittura impressionista. Ammesso che anche la sua è un'arte ad occhi chiusi, si trovcrà ch'essa ricerca nei sogni una maggiore sensualità e immediatezza, e nella fantasia soprattutto liquidità, delicatezza di to­no c sottigliezza di passaggi. Le nature morte di frutta, quasi sempre sul fondo di un pae­saggio immaginario, folto di colori assorbiti e perciò misteriosi, si avvicinano ad altre che adunano oggetti astratti, o meglio vaghi e ine­sistenti; di fronte ai quali la mente si arresta in una piacevole perplessità. Il Mucchi poi fa uscire alcuni oggetti (come i suoi grappoli di uva nera) con uno spicco irreale, e con molta bravura, da quegli sfondi che tendono a lique­farsi. Alla Mostra erano anche più che notevoli i bei paesaggi veneziani; Venezia è una città che gli si adatta.

Ho lasciato, ultimo Birolli, perchè nclla com­pagnia mi sembra di una famiglia di pittori diversi. Come tutti i moderni, anch'cgli è critico e polemico; ma la sua critica e polemica sono di qualità romantica, impulsiva, direi insurrezio­nale; perciò suppongono non un temperamento incline all'intellettualismo, ma piuttosto al li­bero sfogo, che non vuole essere fermato. In al­tri pittori, come Rosai (o Carrà) i motivi critici e polemici sono così strettamente legati allo svolgimento dell'arte, che non sapresti separarli da essa, come in un corpo la carne dal sangue; in Birolli rimangono o anteriori o esteriori; è chiaro che la maturità va eliminandoli del tutto. È il solo che risenta del bell'ottocento francese, da cui ha preso il gusto del colore puro e dell'in­canto, quasi infondendo la mollezza di Renoir in una tecnica che richiama Cézanne. Tempera­mento di fondo tenero e idillico, come si com-

piace nei bei colori senza dissonanza, si com­piace anche di rivelare in ogni quadro una vita edenica, avvolta di un'aura tremula che porta un senso di voluttà. Questa pittura si avvicina all'ultimo movimento, per me di grande inte­resse, della pittura giovanile a Milano, quello di Corrente; un movimento che, chiarito, si ri­velerà nettamente contrario alla pittura primi­tiva, intellettuale e novecentista; e forse farà nascere, insieme ad altri movimenti affini, nella pittura e scultura moderne in Italia, quei con­trasti e antagonismi di cui hanno bisogno.

GUIDO PIOVENE.

DE CHIRICO MET A FISICO AL « MILIONE l).

Dopo vent'anni, che s'è combattuto a dritto e a rovescio sulla pittura metafisica, la Mostra dellc opere di De Chirico, che vanno dal 1910 al 1922, è apparsa isolata fra i viventi come se appartenesse ad un passato indefinitamente remoto, che neppure i contrastanti appelli d'una recentissima e fittizia polemica sono riusciti a richiamare indietro. Da campo di battaglia, la camera incantata è divenuto luogo di pio pel­legrinaggio. Veramente la successione è nor­male, ma dato il tono, assunto perfino da ri­viste correnti, di indistinto suffragio, un certo imbarazzo si forma in chi a tali opere aveva sempre guardato con rispetto, ma non si ri­trova sul piano sfalsato della posticcia ribalta sulla quale si vorrebbero ora far comparire. In­tanto il tentativo di assumerle senza ambagi nel cielo stesso della pittura antica italiana porta ad un travisamento del significato auten­tico di una pittura, che non intende certo va­lersi di quel manifesto purismo prospettico di sapore uccellesco, nel senso proprio che lo spa­zio geometrico trova nei fiorentini o per media­zione padovana nei ferraresi. A voler fare della pittura metafisica una specie di pollone riscop­piato da una ceppaia morta da secoli, si fini­rebbe per fraintenderne del tutto il significato nuovo ch'essa ha avuto al suo sorgere e che in parte mantiene tutt'ora. Gli alberi genealo­gici non si improvvisano; nella sutura diretta fra Cosmè Tura e De Chirico si arriverà solo a costruire un altro quadro metafisico, ma d'una specie assai meno severa di quelli, ne' quali un uovo di struzzo si unisce con la squadra. Per quanto si ritaglino pezzi arbitrari da Paolo Uccello o dal Tura, o si guardino con occhi me­tafisici le prospettive precipiti di Masolino, da

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questi spunti di un linguaggio pittorico, stra­volto dalla sua antica connessione, non scen­derà mai la luce decisa che, per il comporsi dell'accoppiamento fantastico e imprevisto, ve­ramente inscindibile dalla pittura metafisica, si avrà dal ritrovare una citazione come questa di Lautréamont: « Bello come l'incontro ina­spettato su una tavola di dissezione anatomica d'una macchina da cucire e d'un parapioggia! l).

E non si dimentichi quanto scriveva De Chi­rico verso il 1911-13 1), quando cioè le squadre e i manichini stavano per prendere convegno: « Non bisogna scordare che un quadro deve es­sere sempre il riflesso d'una sensazione profonda e che profondo vuoI dire strano e che strano vuoI dire poco noto o affatto ignoto». Questa ricerca dell'ignoto, come già l'incontro fortuito di Lautréamont, o lo hasard che cercava Ernst con il collage per andare « al di là della pittura », indicano esattamente, in precedenza al momen­to creativo, l'atteggiamento che intende assu­mere l'artista di fronte al mondo fenomenico: un simbolismo non analogico, d'investitura mo­mentanea, personale, in-iproducibile. Punto di partenza legittimo non meno di qualsiasi altro, purchè, o sia pittura o sia poesia quella si sta per fare, la giustificazione del caso, dell'incon­tro, dell' ignoto, avvenga nella parola o nel fatto pittorico, e che dall'arbitrio o dall'acci­dente fortuito la fantasia intessa un ordine nuovo. I principi che anche ora si sentono enun­ciare, da Eluard, ad esempio: « Tutto è para­gonabile a tutto: tutto trova la sua eco, la sua ragione, la sua rassomiglianza, la sua opposi­zione, il suo divenire, dappertutto» 2), che è poi il cc niente è incomprensibile» di Lautréamont; non sono principi di estetica da discutere, ma convincimenti d'una poetica in cui si. investe un oscuro, tormentato sentimento dell'essere.

Se si è accennato ai surrealisti, non è perchè De Chirico fosse allora un surrealista, chè nel 'lO surrealismo non esisteva, ma proprio perchè di questo è apparso ai numerosi accoliti (si sa il favore di cui il surrealismo gode ora in Ameri­ca) quasi il profeta, e come tale, e solo per quel breve periodo dal 'lO al '19, ancora celebrato dagli Eluard e dai Breton. Nessuna pittura più della sua poteva eccitare alla confusione sistema­tica (Ernst) o al déri1g1ement de tous les sens (Rimbaud), con quelle prospettive ripidissime e gli accozzi compositi e animanti di strumenti da disegno e di bambole da sarta. Nasceva il mistero laico, su cui Cocteau provava i son-

I) Riportato da P. ELUARD in Donner à voir (Galli­mard, 1939, pp. 119-120).

2) Op. cit., p. 134.

daggi della cntica indiretta. Ma cosÌ noi ve­dremmo De Chirico dal cannocchiale dei surrea­listi che, per quanto sia diretto da un punto di stazione più autorizzato, finisce per tener maggior conto degli sviluppi successivi, delle in­terpretazioni sovrapposte che dell'amalgama ori­ginario delle pitture metafisiche. D'altronde la posizione di estenuato, estremo romanticismo dai surrealisti assunta, e che trova riscontro anche nei poeti da loro diletti, come Y oung e Nerval, e nel chiaro ispirarsi (perfino in un ar­tista come Chagall) ai preraffaelliti inglesi, il loro disprezzo per la forma, distaccano sostan­zialmente la personalità di De Chirico da quella dei surrealisti. In questi l'evasionc dei primi romantici in tutto ciò che paresse remoto, fan­tastico, rispetto ad un presente ufficiale, con­trollato dai sensi e dalle leggi, diviene assorbi­mento recettivo, passivo, in qualcosa che è re­moto, ma non nel tempo, in uno spazio interno ad x dimensioni ed inattingibile. CosÌ l'interesse per l'epoca lontana e l'amore della natura, si fondono in un unico aspetto che comprende tutto ciò che nella natura umana è ignoto, sot­tratto al controllo della ragione; donde la pe­sca - nel torbido - nei sogni, nel subcosciente, e l'automatismo, la psicanalisi e, in ultimo, il litocronismo.

Ma questa non è mai stata la posizione di De Chirico, che infatti quando nel '19 scriveva in Valori Plastici 3) una nota contro l'impres­sionismo, e vi incrudeliva sopra come qualche recente e tardivo neofita, pensava ancora alla pittura, faceva proprio il processo alla [pretesa] mancanza diforma dell'impressionismo, e si met­teva fra quei quattro che, in Italia, si allonta­navano dalla c( cialtroneria della pittura moder­na». In quella rivolta è un pittore che parla e che, con un deciso antinaturalismo - seppure non fosse giusto mettere in fascio Courbet e Manet - indicava la via di ritorno ad una pittura che riponesse la fantasia dove si era voluto installare il vero. Di qui a lasciarsi por­tare dal flusso del subcosciente c'è una diffe­renza incalcolabile: e se Hebdomeros dice di « sentirsi instintivamente attirato dal lato enig­matico degli esseri e delle cose» 4), anche in quelle parole è l'indicazione del momento fan-­tastico, in cui l'apparenza fenomenica si inte­riorizza e produce folla di personaggi, ma creati dalla fantasia.

Dal crocicchio di un incontro fortuito, De Chi­rico e i surrealisti si distaccavano per non ritro-

3) Valori plastici, anno I, n.O VI-X, p. 25 (1919). ') G. DE CHIRICO, Hebdomeros (Paris, 1929, p. 16).

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varsi più, il primo per risalire verso la forma, gli altri per discendere vivi nel proprio inferno.

Ma è indubbio che il subitaneo favore, di cui godettero le composizioni metafisiche di De Chirico, facendo fungare una letteratura fer­tilissima, che le parafrasava in termini lirici o letterari, dovette aumentare l'equivoco sulla valutazione critica da darsi, come la diffidenza della critica stessa. Vi contribuirono anche al­euni scritti di De Chirico, le sue asserzioni sui pittori antichi, come Paolo Uccello o Masaccio (nelle quali per altro doveva vedersi, non una visione critica, ma un riflesso della sua riassun­zione fantastica) e infine i successivi sviluppi dell'artista, contraddittori e via via normaliz­zati, le sue preoccupazioni tecniche che quasi autorizzavano a parlare di incapacità pittorica per il primo periodo metafisico. Contro le dida­scalie esoteriche dei letterati parigini facilmente doveva allora avere ragione la critica 5) che, estirpato dalla pittura quanto non è pittura, fermò nelle opere metafisiche di De Chirieo l'a­spetto di complicato rebus, di puzzle, coglien­dovi solo una faticosa congerie di simboli o di riflessioni critiche su problemi formali, mentre ne giudicava assente un problema formale vero e proprio, sentito e determinante. Donde, posta la domanda se il soggeuo dei dipinti metafisici non potesse per avventura essere se non un pre­testo, come per ogni opera d'arte, un'occasione per incarnare dei valori figurativi, doveva logi­camente rispondersi che ciò non avviene per­chè in De Chirico vi è mancanza di forma.

È superfluo dire come questa severa critica non fosse affatto campata in · aria e anzi, par­tendo dai lati vulnerabili dei dipinti metafisici, ristabilisse anche per De Chirico il problema valutativo sulle sue vere basi.

I lati vulnerabili sono soprattutto quelli, ne' quali al subitaneo reperto fantastico si ag­giusta un'integrazione raziocinante: sono i fati­cosi, sbalestrati trofei, ne' quali le piatte indica­zioni delle squadre, riacquistando dagli spartiti cubistici sul piano una situazione prospettica, rimangono incerte fra la accezione cubista e il significato etimologico che vorrebbero recupe­rare. E quando ciò si produce, determina un insanabile attrito, una frattura formale, ed è inevitabile che il critico lo rilevi. Intorno ad un primo nucleo, che pure tiene, che faticoso in­gresso di ideuzze erratiche, strizzate fuori ad una ad una. Si può anzi aggiungere che il lavoro di lima, di ripensamento a freddo sulla trovata

6) Cfr. il saggio di C. L. RAGGHIANTI in Critica d'Arte, 1935, p. 52 sg., dove con estremo rigore viene esami­nata la pittura di De Chirico.

iniziale incide su quasi tutti i dipinti metafisici, e che da questo discende, pur nella diligente uniformità della realizzazione pittorica, un salto improvviso di tono, che certo è abilmente ma­scherato dal procedere prosastico, parco della stesura cromatica, ma vizia la forma per adul­terazione, per contraffazione sciente e volon­taria. Tutto ciò è innegabile nei dipinti m~ta­fisici: ma non c'è solo questo.

D'accordo sulla posizione critica, si può per altro dissentire sul valore da darsi ad alcuni elementi. Tutti hanno percepito, nei dipinti me­tafisici, l'aura di mistero, di enigma: ma non è essenziale, a questi dipinti, che l'enigma sia sciolto, il mistero svelato. Dal fatto che gli og­getti, squadre o manichini, siano raffigurati nella loro estrema schematica povertà, non si deduce necessariamente una sostituzione simbolica pre­eisa, traducibile, come in un rebus, in termini letterari. Se anche questo testo segreto si dimo­strasse esistere per ogni dipinto, ne darebbe la ragioneieonografica, non rappresenterebbe sen­z'altro un ostacolo all'affermarsi della forma. Non si potrebbe neppure sostenere che gli accozzi eterogenei di De Chirico abbiano solo valore di bizzarria ornamentale o satirica come nell'Ar­cimboldi (di cui però è bene ricordare che, prima degli attuali surrealisti, si estasiò il Lomazzo): l'isolamento di quelle forme in uno spazio senza aria costituisce un valore d'espressione innega­bile e tale espressione non si riporta ad un sim­bolo, ma ad una plaga deserta e sofferta dello spirito, ad una mancanza di intimità con le cose, che, quanto più sono astratte, tanto più sve­lano la loro nascita umana, nel cervello del­l'uomo, ma non proiettano nulla all'esterno, e restano passivi strumenti di lavoro. È questo un modo di sentire fantastico e non una conce­zione filosofica, e scaturisce non da un lambic­camento, ma proprio dal desiderio di distruggere il lato sensorio e nemico dello spettacolo visivo, donde - e ciò non potrebbe certo dirsi per Masson, Dali, Tanguy, Rivera, Matta, Sélig­man - l'assenza di allusioni sessuali. Di qui il vuoto irrespirabile che si forma, la frigidità, il distacco assoluto di questi dipinti metafisici, e quel mistero dichiarato e che non chiede spie­gazione, presente nel Trovatore, nelle Muse in­quietanti, come nella Natura morta evangelica o in Ettore e Andromaca. Il mistero non è pro­posto per soddisfare una curiosità enigmistica: sta nel circolo chiuso di una vita senza speranza, costretta in una fatalità ignota. Chi cosi sente e cerca di esprimerlo, non può certo confortarsi della coerenza allettante di un mondo fenome­nico, ed è indotto anzi a depurarne anche i mezzi

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espressivi, riducendo li ad una aridità assoluta. E noi vediamo infatti che dai dipinti del 1910 (Autoritratto del 1910 della Coli. Eluard, l'Enig­ma dell'Ora del 1910, della ColI. Feroldi di Bre­scia, esposto al Milione), in cui la pittura è, se non di larghi mezzi, ancora compresa di sug­gerimenti post-impressionistici, con accenni di materia cromatica più ricca e consenziente, De Chirico si restringe sempre più alle campi­ture quasi piatte, ai colori inerti, senza corre­lazioni impressionistiche, chiusi in linee nere, stentate, isolanti. In questi dipinti, e fino al Figliuol prodigo (1922 della Racc. Valdameri, esposto al Milione), non si dànno quasi mai di­scontinuità di visione, ma persiste uno stile arido, secco, rinunciatario, prosastico, la cui aderenza tuttavia può risultare ineccepibile.

E quando De Chirico suggerisce appena e poi rito glie l'illusione di una realtà tattile, ad esempio nei famosi biscotti, avviene come il pic­colo urto che fa gelare in blocco l'acqua ferma già portata sotto zero. L'initazione che tali frammenti producono (o anche le vedute delle fabbriche e i paesaggi che fanno finestra), di­mostra quanto sia fermo e coerente, nella sua voluta prosasticità decalcata, quel mondo for­male. La pittura si richiude intorno al minimo sprazzo di realtà, come l'ostrica sul granello di sabbia che ne irrita il plasma.

Si dica pure che quell' improvvisa discon­tinuità rappresenta un mezzo non pittorico, un elemento polemico: non sempre del resto De Chirico l'usò, sebbene se ne compiacesse: può dipendere inoltre (come La Cassata siciliana, dipinta quasi alla De Pisis, e immessa fra le piramidi mozze, da Diluvio di Paolo Uccello) da un moto libero della fantasia, che stacca il particolare, l'affigge, e in quel momento stesso, nella presentazione inopinata e isolante, lo depura.

Tuttavia, come si è già detto, si potrà spesso accusare l'accozzo degli oggetti che non stanno insieme, delle cose usuali, tolte alla servitù stru­m entale, come una ricerca stentata, voluta non per individuazione lirica, ma per associazione meccanica; e vedervi allora una specie di ver­balismo pittorico, in cui si perseguono parole nuove foggiate con l'etimo di una e il suffisso

di un'altra, cosÌ da far pensare all'equivalente figurativo di quelle che Joyce ha coniato, me­scolando disparati idiomi, in Anna Livia Plu­rabella.

E se il tormento creativo di un nuovo lin­guaggio si fosse soltanto rivolto alla formazione fittizia della parola, in fondo non ne sarebbe nato che una specie di esperanto pittorico, che di questo non avrebbe avuto neanche la pre­sunta giustificazione pratica. Ma poi l'individua­lità accanita, che conserva l'oggetto, esclude il riavvicinamento: chè, se mai, dovremmo pen­sare piuttosto ad una sorta di concettismo figu­rativo.

Nel concettismo vi è certo il filo della compa­razione che ricuce le immagini diverse, qui invece la comparazione si svolge, come deve avvenire in pittura, fra superfici piane o con­vesse, fra zone di colore piatto e la greve tor­nitura del chiaroscuro.

Se poi veniamo alle famigerate prospettive, sarebbe assurdo vedervi un illusionismò o una passiva citazione quattrocentesca, se proprio, con tutte le diversioni prospettiche che creano (e fin le squadre sventagliano sul piano verti­cale, come un impiantito in profondità) vi si annulla quello stesso spazio geometrico e razio­nale che evocano, allo stesso modo che nelle figurazioni di un trecentista si dissolve la clas­sicità del monumento romano o della statua antica vagheggiata.

Invece nelle apparizioni delle lunghe ombre di tramonto, è lo spunto naturalistico che è svuotato: valgono come forme geometriche pure, e il potere suggestivo, che acquistano, dipende unicamente dalla nuda spoglia raffigurazione pit­torica. Certo De Chirico ha scritto: cc C'è più enigmi nell'ombra di un uomo che cammina al sole che in tutte le religioni presenti passate e future (1911-13)), ed è l'esegeta di se stesso, non sempre felice, che parla. Ma le figurette nelle vedute delle fabbriche, piantate in terra come gnomoni di meridiana, daranno l'ombra immobile d'un'ora sottratta dal corso del tempo. L'enigma, nel corso della pittura si è sciolto, e per quella via nutrì a Ferrara molti degli arti­sti nostri; quasi tutti i migliori.

CESARE BRANDI.

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Fil! . I. (;1011\;10 nE (;IIIRlCO: Interno metafi"i .. o ('on piccola ollìeinn (1916) ("'1'",10 a )lilaIlll alla Gall,'ria <id .\lilione).

Fil!. 2. GIOIIGIO DE:CIIIRICO: N alura llIorta "on ca,,~ala ,;iciliaIli1 (1'119 (""1'0"1" a )Iila"o alla Galleria del M ili .. ",,).

T.w. LIII. ©Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo -Bollettino d'Arte

!"il!. 3. GIORCIO DE CHIRICO: <,II TrovaIOrC», 1917. Haccolta V"ldamerf, Milano.

l'i!!:. ,I. GIORGIO nE CHIRICO: Pittura « metafisi ca ». « La uat unt tuorta ~\ ·ungeli c.a» , 19.17.

Haceolta V aldameri, Milano.

Fil!. 5. GIOH';tO 1)E CHIRICO: Pittura « II.lClafi . ieu»

... « .Maniehini: Etlort~ c Andrtunaca» .. 1917. na,·(:o lta l'eroldi , Brescia.

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