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11 marzo 2013 STORIA DEL CRISTIANESIMO 1. Il basso Medioevo Il periodo denominato basso Medioevo è indicativamente compreso tra il XIII e il XV secolo. È un periodo difficile durante il quale si assiste a molti scontri politici, filosofici e fisici. Caratterizzante dell’epoca è la crisi economica che causò una prolungata caduta della produzione e degli scambi. Possibili cause della cattiva congiuntura economica sono da riscontrare nel fattore demografico – all’aumento della popolazione non corrispose un adeguato aumento della produzione di derrate alimentari – ma anche in crisi locali, circoscritte, dovute a squilibri politici, che avevano però conseguenze sul commercio e la finanza. A provocare ulteriori guai arrivò dall’Oriente nel 1347 la peste nera 1 , che imperversò per ben cinque anni, fino al 1352, e che ridusse la popolazione europea di circa il cinquanta per cento. La pestilenza spesso colpiva i giovani, rendendo ancor più lenta la ripresa demografica perché venivano a mancare le possibilità di procreazione. In Inghilterra, ad esempio, nel 1348 erano in 3.750.000 abitanti, nel 1430 erano in 2.100.000 (- 44%). Crisi economica e sanitaria ebbero ulteriori conseguenze sulla popolazione, che nutriva un profondo e smodato bisogno di salvezza. Si ebbero moltissimi episodi di razzismo soprattutto contro gli Ebrei che erano accusati di aver avvelenato i pozzi ed aver così diffuso la peste. Avvennero vere e proprie stragi in 1 La peste è una malattia dei roditori trasmessa all’uomo dalle pulci che hanno ingerito sangue di topi infetti. In Europa si presentò nella doppia forma bubbonica, mortale al 70%, e polmonare, mortale al 99.9%, che inoltre è trasmissibile da uomo a uomo. 1

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11 marzo 2013

STORIA DEL CRISTIANESIMO

1. Il basso Medioevo

Il periodo denominato basso Medioevo è indicativamente compreso tra il XIII e il XV secolo. È un periodo difficile durante il quale si assiste a molti scontri politici, filosofici e fisici.

Caratterizzante dell’epoca è la crisi economica che causò una prolungata caduta della produzione e degli scambi. Possibili cause della cattiva congiuntura economica sono da riscontrare nel fattore demografico – all’aumento della popolazione non corrispose un adeguato aumento della produzione di derrate alimentari – ma anche in crisi locali, circoscritte, dovute a squilibri politici, che avevano però conseguenze sul commercio e la finanza.

A provocare ulteriori guai arrivò dall’Oriente nel 1347 la peste nera1, che imperversò per ben cinque anni, fino al 1352, e che ridusse la popolazione europea di circa il cinquanta per cento. La pestilenza spesso colpiva i giovani, rendendo ancor più lenta la ripresa demografica perché venivano a mancare le possibilità di procreazione. In Inghilterra, ad esempio, nel 1348 erano in 3.750.000 abitanti, nel 1430 erano in 2.100.000 (- 44%).

Crisi economica e sanitaria ebbero ulteriori conseguenze sulla popolazione, che nutriva un profondo e smodato bisogno di salvezza. Si ebbero moltissimi episodi di razzismo soprattutto contro gli Ebrei che erano accusati di aver avvelenato i pozzi ed aver così diffuso la peste. Avvennero vere e proprie stragi in Spagna, in Svizzera e nell’impero germanico. Si svilupparono però anche forme pubbliche di penitenza e di devozione collettiva (processioni che in realtà rinfocolavano le pestilenze). Ci fu la ripresa del movimento dei Flagellanti, nato in Italia nel XIII secolo, per i quali l’auto-flagellarsi in pubblico era fonte di sicura salvezza. Si ebbero mutamenti nelle arti figurative in cui sempre più spesso la morte veniva raffigurata come uno scheletro dal sorriso ironico impegnata in danze macabre.

Il crollo demografico apportò significativi mutamenti anche nella società medievale. I nobili e i ricchi proprietari terrieri non avevano più interesse a gestire direttamente le loro aziende agricole perché i salari dei braccianti erano diventati molto alti e quindi i guadagni ne erano fortemente diminuiti. I proprietari preferirono così affidare i loro terreni, divisi in appezzamenti, a famiglie contadine che si legarono al proprietario attraverso contratti di mezzadria (più diffusi nell’Europa mediterranea, mentre a nord era anche molto presente l’affitto). La mezzadria

1 La peste è una malattia dei roditori trasmessa all’uomo dalle pulci che hanno ingerito sangue di topi infetti. In Europa si presentò nella doppia forma bubbonica, mortale al 70%, e polmonare, mortale al 99.9%, che inoltre è trasmissibile da uomo a uomo.

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comportava la divisione dei raccolti al 50% tra proprietari e lavoratori. Per i contadini era positivo il non dover pagare salari, perché erano impegnati nell’azienda con tutta la famiglia, il fattore di rischio era sicuramente dato dall’incertezza dei raccolti. I proprietari, inurbati, non si dovevano più preoccupare della gestione dei fondi, da cui comunque percepivano un guadagno, e si potevano perciò dedicare ad altre attività quali l’amministrazione delle città, dei principati e degli emergenti Stati nazionali.

Nelle città si assistette alla formazione di due nuovi ceti sociali: 1. il patriziato, nobili e borghesi ricchi, che cercano di uniformare i loro comportamenti e che, attraverso politiche matrimoniali e famigliari, cercano di aumentare i loro privilegi; 2. il proletariato urbano formato dagli artigiani che erano andati concentrandosi nelle città e che cercavano di proteggere i loro interessi attraverso la formazione delle corporazioni.

2. La politica ecclesiastica

Le istituzioni ecclesiastiche durante tutto questo periodo erano più concentrate sulle loro sorti politiche che sulla cura d’anime.

Innocenzo III e Bonifacio VIII cercarono di continuare la politica ierocratica già iniziata da Gregorio VII ma vennero ostacolati da diversi fattori:

a. l’affermazione delle monarchie nazionali in Inghilterra, Spagna, Francia e Germania.

b. il lungo periodo di crisi della chiesa istituzionale, e conseguente scisma della durata di circa 40 anni che vide due serie di papi affiancati da un proprio collegio cardinalizio e da una propria amministrazione.

c. crisi di credibilità del clero che viveva nel fasto e con un’eccessiva rilassatezza dei costumi e che suscitò tra i credenti la necessità di una riforma generale della Chiesa.

Gli ultimi due punti generarono scontento tra i fedeli e molte furono le voci che si alzarono chiedendo di togliere il potere temporale alla Chiesa. Tra i più noti: Marsilio da Padova e Guglielmo di Occam.

Per Marsilio (1275-1342) il potere temporale derivava dal popolo che ha il diritto di deporre i suoi rappresentanti e i re hanno il diritto di governare gli ecclesiastici. Inoltre la suprema autorità ecclesiastica non è il papa bensì il concilio, che è l’organo in cui la comunità cristiana si esprime collettivamente.

Contemporaneo di Marsilio era Guglielmo di Occam, un francescano inglese, che attaccò l’autorità del papato sostenendo che al di sopra del papa c’è la Chiesa, identificata non nella gerarchia, ma nella comunità dei credenti, in cui si mescolano chierici e laici, illetterati e dotti. Per Occam

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l’autorità dei governanti deriva da Dio ma sono gli uomini a fare da tramite e hanno quindi la facoltà di deporre i rappresentanti non degni.

Marsilio da Padova e Guglielmo di Occam condividono quindi l’idea che le autorità non godono di un potere assoluto, ma limitato dal popolo che ne è la fonte.

3. La crisi della e nella Chiesa

Agli inizi del Trecento il sogno della ierocrazia apparteneva ormai al passato, la mutata situazione politica la rendeva ormai irrealizzabile. Se ne dovette accorgere, dolorosamente Bonifacio VIII (1294-1303) che andò a scontrarsi con il re di Francia Filippo IV il Bello (1285-1314). Il re, necessitando di maggiori introiti per consolidare il suo regno, decise di far pagare le tasse anche al clero. Bonifacio VIII si oppose dando inizio ad una serie di scontri con la Francia. Il papa scrisse una prima bolla nel 1301 e una seconda nel 1302 in cui rispolverava le posizioni ierocratiche di Gregorio VII e Innocenzo III: una sola era la santa Chiesa cattolica titolare del potere spirituale e di quello temporale che veniva però da essa delegato ai principi – ogni uomo, re o principe che fosse, era quindi sottomesso al papa. Filippo IV il Bello si rivolse in un primo momento ad alcuni giuristi perché dimostrassero l’indipendenza del potere temporale da quello spirituale, poi passò al contrattacco accusando il papa di aver usurpato il titolo papale ai danni del suo predecessore, Celestino V (il papa del gran rifiuto nominato anche da Dante in un canto dell’Inferno), e con l’appoggio della famiglia Colonna, nel 1303 lo fece arrestare ad Anagni (dove uno dei Colonna si dice lo schiaffeggiò. Episodio passato alla storia come lo schiaffo di Anagni). L’umiliazione dell’arresto mise fine alle velleità di supremazia del papato.

La morte di Bonifacio VIII non segnò la fine dei suoi problemi. Filippo IV il Bello era infatti intenzionato a processarlo anche dopo la sua morte. Suo intento era di erigersi a difensore della cristianità dimostrando di aver liberato la Chiesa da un pastore indegno, dimostrazione possibile solo in seguito ad una condanna di Bonifacio VIII. Il di lui successore, Clemente V, non poteva assolutamente permetterlo, perché avrebbe aperto la strada ad una serie di giudizi ed ingerenze sull’operato della Chiesa. Si dimostrò quindi accomodante su altre questioni2 pur di impedire questo processo postumo.

Ci furono lunghi negoziati in terra francese tra Clemente V e Filippo IV e il papa decise così, nel 1305, di trasferire la corte papale ad Avignone, dove restò fino al 1377. Questi settant’anni furono visti dai contemporanei come un tempo di decadenza della Chiesa a causa dell’eccessiva influenza della corte francese e del fasto e della corruzione presenti nella curia. Per non peggiorare ulteriormente la situazione fu deciso di tornare a Roma per l’elezione del nuovo papa. I cardinali si divisero però in due correnti che, non riuscendo a trovare un candidato comune, elessero due papi. La corrente filofrancese elesse Clemente VII (1378-1394), mentre quella antifrancese Urbano VI (1378-1389). Da qui ebbe inizio il Grande Scisma durato circa 40 anni, durante i quali si ebbero 2 Il re, sempre bisognoso di nuove entrate, voleva impossessarsi delle ricchezze dell’Ordine dei Templari e li accusò di eresia e di tutta un’altra serie di gravi crimini; il papa sciolse l Templari cosicché Filippo IV potesse incamerare i loro beni a titolo di risarcimento del processo sostenuto contro di loro.

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due serie di papi, due di amministrazioni curiali e due di collegi cardinalizi. La cristianità ne rimase profondamente turbata e disorientata.

La ricomposizione dello scisma avvenne durante il concilio di Costanza (1414-1418) in cui la corrente conciliarista, secondo la quale il concilio è superiore al papa in quanto depositario dell’autorità e della fede, riuscì ad avere la meglio e a far deporre entrambi i pontefici in carica, facendo eleggere Martino V. Venne inoltre stabilito che i futuri concili sarebbero avvenuti a cadenza regolare. Il conciliarismo vinse la battaglia ma non la guerra perché il papato tendeva a riacquistare il suo potere assoluto e a vanificare le conclusioni conciliariste di Costanza. Martino V avrebbe dovuto infatti aprire un concilio nel 1430 ma preferì ritardarlo e fu così il suo successore, Eugenio IV, nel 1431, a convocarlo a Basilea. Il concilio fu in breve sospeso perché il papa voleva spostarlo in Italia togliendo forza alla corrente conciliarista, che in Svizzera vantava molti sostenitori. I cardinali conciliaristi si rifiutarono di trasferire i lavori a Ferrara e diedero il via ad un secondo scisma, lo scisma di Basilea, deponendo Eugenio IV ed eleggendo il duca Amedeo di Savoia con il nome di Felice V. Dopo alcuni anni però molti cardinali si riavvicinarono a Eugenio IV e Felice V nel 1449 abdicò. Ciò decretò la sconfitta del conciliarismo; da troppo tempo ormai la cattolicità si era abituata ad avere il pontefice al vertice della gerarchia e troppi interessi si intrecciavano attorno alla curia pontificia.

Chiusa la fase scismatica la crisi ecclesiastica continuò perché la curia ecclesiastica perseverò con la sua condotta di vita poco evangelica. Avidità e fasto, molto criticati anche dai contemporanei (Francesco Petrarca e Caterina da Siena tra gli altri), necessitavano di continue entrate: iniziò la vendita delle indulgenze. Prima per guadagnarsi la salvezza dell’anima, il fedele, doveva o partecipare alle crociate a rischio della vita, oppure affrontare faticosi pellegrinaggi, ora era sufficiente che pagasse una somma di denaro stabilita dalla gerarchia ecclesiastica in base e alla gravità dei peccati e all’agiatezza del peccatore.

La condotta del clero aveva altre ripercussioni sul tessuto diocesano. Molti ecclesiastici accumulavano benefici (diocesi e parrocchie di competenza di cui quindi gestivano decime, oboli e tutti i guadagni) ma non vi risiedevano affidando gli incarichi a preti poveri, poco istruiti e mal pagati. Altri vivevano invece con una concubina, giocavano d’azzardo, ballavano, frequentavano taverne …

Il rilassamento dei costumi colpiva anche gli ordini mendicanti e quelli monastici più antichi, dando vita ad una profonda crisi di credibilità delle istituzioni ecclesiastiche ad ogni livello e nella borghesia, la diffidenza verso il clero, divenne anticlericalismo.

Si faceva strada l’idea che servisse una grande riforma della Chiesa.

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4. La riforma

A partire dal Trecento e soprattutto dal concilio di Vienne, 1311-1312, si fece strada la necessità di una riforma all’interno della Chiesa che riguardasse il vertice e le membra, ossia la Chiesa globalmente. Il tema della riforma dominerà la vita ecclesiastica per tre secoli circa, dal XIV al XVI.

Ci furono alcuni tentativi di riforma attuati da studiosi e teologi, che elaborarono tesi eterodosse e che suscitarono un certo seguito tra i fedeli, ma che vennero ostacolate fin da subito perché viste come eretiche. La diffusione delle eresie era arginata dalla stretta collaborazione tra potere spirituale (che con l’inquisizione le scovava facilmente) e potere secolare che agiva con la forza. Questa collaborazione ebbe anche un peso notevole nell’agire contro le dottrine di Giovanni Wycliff, un professore di Oxford, tanto brillante da esser chiamato “il fiore di Oxford”. Egli contestava la vendita delle indulgenze e il dogma dell’eucarestia (negava la transustanziazione) ed inoltre definiva Chiesa solo l’insieme invisibile delle anime destinate a godere della visione di Dio nel paradiso. La Chiesa visibile, sosteneva, doveva vivere nell’umiltà e nella povertà e doveva favorire la conoscenza delle Scritture tra il popolo, che invece ne veniva escluso data l’assenza di testi tradotti nelle lingue correnti. Tutte queste dottrine furono giudicate eretiche e Wycliff fu accusato di essere tra i sostenitori della rivolta inglese del 1381. Pur prendendo le distanze dai rivoltosi, lui e i suoi seguaci furono perseguitati. La paura della rivolta sociale rafforzò l’alleanza del potere regio con l’episcopato.

Un altro caso che ebbe strascichi più duraturi fu quello di Giovanni Hus, teologo dell’università di Praga, gran predicatore che riuscì a trasmettere ai fedeli la sua indignazione per la vendita delle indulgenze e per la corruzione del clero. Nel 1415 fu condannato al rogo in quanto giudicato eretico, ma alla sua condanna seguì un’insurrezione del popolo boemo, che espresse la propria autonomia religiosa ed ecclesiastica attraverso alcune affermazioni religiose: i cosiddetti 4 articoli di Praga – 1. libertà totale della Parola predicata ovunque in quanto Evangelo del Cristo; 2. critica ed eliminazione dei peccati pubblici contro la legge divina a partire dai detentori del potere; 3. comunione eucaristica sotto le due specie; 4. espropriazione dei beni ecclesiastici e abolizione del potere secolare del clero. Dall’ussitismo prese le mosse il movimento dei taboriti che spostarono la protesta anche sul piano sociale, politico e militare. Contro gli eretici boemi e taboriti fu indetta una crociata. Sebbene gli eretici furono quasi sterminati (la lotta durò circa 20 anni), i quattro articoli, seppur in forma attenuata, rimasero a identificare la chiesa nazionale boema.

Nonostante questi tentativi, giudicati appunto eretici, era convinzione generale che una riforma per essere efficace dovesse incominciare dall’alto, presso il capo, dal papa, dai cardinali e quindi dalla curia romana (chi deve riformare deve prima togliere la trave dal proprio occhio). Tutti i concili ecumenici dell’epoca si espressero in questo senso: Costanza, Basilea, Firenze … La necessità di riforma, presente in tutta Europa ebbe due risposte: protestante e cattolica.

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4.1 La riforma cattolica

In campo cattolico, prima che si attuasse la Riforma protestante, si assistette ad alcuni tentativi di migliorare la situazione, senza però mai giungere ad un’azione organica ed incisiva perché le cariche più elevate ne restarono sempre staccate. Si possono comunque fare esempi interessanti.

Alcuni ordini monastici (ad es. quello Benedettino) cercarono di riformarsi riservando nelle loro mansioni quotidiane più tempo alla meditazione e allo studio (Devotio moderna), e rendendo le cariche abbaziali limitate nel tempo.

La riforma degli ordini mendicanti iniziò nel 1400 quando si organizzò al loro interno un movimento di “osservanza” che si contrappose, in alcuni casi fino alla rottura, a quello dei conventuali. L’Osservanza indicava il rinnovamento delle istituzioni e della vita religiosa, morale e sociale (era più una restaurazione) . Questo movimento non creò rotture durature tra i domenicani, gli agostiniani e i carmelitani – crearono monasteri autonomi – ma per i francescani fu diverso. L’ordine del Poverello d’Assisi si divise nel 1446 in due congregazioni autonome (conventuali e osservanti), due famiglie, la Cismontana e la Trasmontana, ma con un unico ministro generale. Nel 1517 vennero invece fondati due ordini separati: i conventuali e i frati minori, cui nel 1537 si aggiunsero i cappuccini, residenti, in povertà austera, in romitori di 12 frati al massimo, consacrati alla missione e alla predicazione.

In Francia e in Italia si fondarono collegi per la formazione del clero, nel tentativo di porre rimedio alla sua cattiva, e a volte assente, preparazione.

Vi furono poi figure di eminenti vescovi animati da grande zelo pastorale e sostenuti da una forte religiosità: Lorenzo Giustiniani (1381-1456), Gaspare Contarini (1483-1542) e Gian Matteo Giberti (1495-1543). Attraverso il loro esempio e i loro scritti cercarono di dare maggior impulso alla vita nelle diocesi, sottolineando la necessità di un impegno personale di vescovi e cardinali, che dovevano quindi risiedere nelle sedi loro affidate e non nelle corti nobiliari , e dedicando maggior tempo alla cura della religiosità del popolo e dei poveri.

Questi aspetti emersero anche dai concili tenutisi all’epoca e anche in scritti di altre eminenze cattoliche, purtroppo però ebbero seguito solo grazie al concilio di Trento e quindi sotto la spinta protestante.

All’interno del mondo cristiano vi furono anche altre figure che si espressero in modo molto più critico rispetto ai vescovi summenzionati. Uno fra tutti Erasmo da Rotterdam (1469-1536), umanista e filosofo. Egli rifiutava la scolastica3, ossia la filosofia-teologia cristiana medievale, e si espresse, anche in modo molto ironico, contro lo sfarzo e l’ignoranza presenti nel clero secolare e monastico (Laus stultitiae e Dialoghi). Suo scopo era quello di riportare il mondo al vero cristianesimo e alla vera pietà. Per tornare ad un cristianesimo originario era indispensabile la buona conoscenza dei testi sacri. Da buon umanista, era chiamato il principe degli umanisti,

3 La filosofia scolastica cercava di conciliare la fede cristiana con un sistema di pensiero razionale, specialmente con quello della filosofia greca. Tra i maggiori rappresentanti Tomaso d’Aquino e Bonaventura da Bagnoregio.

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Erasmo si auspicava un ritorno alle fonti, per cui era necessario che il clero conoscesse le tre lingue bibliche (latino, greco ed ebraico) e anche le regole della grammatica e della retorica. Erasmo stesso tradusse il Vangelo dal greco al latino e ne scrisse alcune parafrasi pratiche, comprensibili e semplici (1517-1524) per favorire la predicazione. A causa della sua ironia non veniva ben accolto negli ambienti cattolici, ma lui stesso ammise, in un secondo tempo, di aver provocato coi suoi scritti più danni che voglia di riforma4. Si dichiarò però sempre contrario alla Riforma protestante tanto che con Lutero entrò anche in aperta polemica, pur non giudicandola mai alla stregua di un’eresia.

4.2 La Riforma protestante

La Riforma iniziata da Lutero e che diede vita alla confessione luterana ed evangelica non è, a mio avviso, in alcun modo separabile dalle vicende politiche e sociali dell’epoca. Il suo successo è legato a filo doppio a quello dei principi tedeschi.

4.2.1 Martin Lutero (1483-1546) e il luteranesimo

Lutero fu esegeta e predicatore. Fin dagli anni universitari a Erfurt, dove, nel 1505, prese il dottorato in filosofia, si dimostrò essere un uomo dall’animo inquieto, mai soddisfatto. Figlio della sua epoca, nella quale la ricerca della salvezza spirituale era un tema assai presente, Lutero iniziò ben presto ad additare come peccato ogni manifestazione della concupiscenza, quindi del desiderio di cose materiali e terrene. Un giorno poi, mentre da Mansfeld, dove vivevano i genitori, tornava ad Erfurt, il gruppo con cui viaggiava fu colpito da un fulmine ed egli, colto dalla paura, promise a sant’Anna di farsi monaco se lei l’avesse salvato. Così, contro il parere del padre che voleva vederlo sposato, si fece monaco agostiniano (1505-1506). La sua irrequietezza spirituale non si calmò affatto, anzi, anche come monaco era sempre alla ricerca della perfezione e pure nel sacramento della confessione non trovava mai soddisfazione. Si dedicò da subito allo studio delle Sacre Scritture, proprio nella speranza di cogliervi un aiuto divino. E così fu. In quella che dallo stesso Lutero venne indicata, in uno scritto postumo, come l’esperienza della torre, mentre leggeva la Bibbia ebbe l’illuminazione che cercava e desiderava da sempre: la giustizia di Dio non è quella che giudica ma quella che giustifica: giustificazione per fede, ossia giustificazione che si riceve per grazia immotivata, immeritata e incondizionata ricevuta per fede. Il concetto di “giustizia di Dio” inteso, prima come punitivo nei confronti dell’uomo peccatore, ora è invece inteso come misericordia di Dio che giustifica il peccatore che crede.

Questa nuova visione della salvezza è quella che porterà il monaco Lutero a scontrarsi con la vendita delle indulgenze. L’occasione fu data nel 1517 dalla predicazione di Johannes Tetzel dell’indulgenza giubilare per la costruzione di San Pietro in Roma, voluta prima da Giulio II e poi da

4 Scrive infatti in una sua lettera datata 24 dicembre 1533: << Se avessi previsto ciò che sarebbe avvenuto, cioè una simile epoca, non avrei scritto ciò che ho scritto, oppure lo avrei scritto diversamente […]. Comunque ammetto in parte la mia sconsideratezza>>.

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Leone X. Tetzel, predicatore dalle grandi capacità oratorie, affermava che non appena il soldo tintinnava nella cassa, l’anima era libera dal purgatorio5. Lutero, venuto a conoscenza delle esagerazioni di Tetzel, decise di rispondere con le sue famosissime “95 tesi”. Queste riguardavano la prassi e la teologia della penitenza: il cristiano deve abbracciare la croce, dedicarsi alla carità verso i poveri e non affidarsi a pratiche esteriori (culto delle reliquie, dei santi, indulgenze …) per sperare nella salvezza. Le 95 tesi furono pubblicate a Lipsia, Basilea, Norimberga.

Negli anni tra il 1517 e il 1521 l’atteggiamento di Lutero si radicalizzò, l’attacco si rivolse anche all’ecclesiologia e ai sacramenti. Rivolgendo le sue attenzioni all’autorità giuridica e magisteriale della Chiesa, del papa e dei concili Lutero attirò su di sé lo sguardo di Roma e del resto d’Europa. La sua non era più un’azione locale, ma di largo respiro.

Nel 1518 Lutero fu accusato di eresia e si chiese al generale degli agostiniani di bloccarlo. Lutero avrebbe dovuto anche presentarsi a colloquio a Roma, ma, per assecondare i desideri del principe elettore della Sassonia, Federico, si decise di inviare una delegazione pontificia guidata dal cardinal Caietano. Dal colloquio Lutero uscì con la convinzione che era necessario separarsi da Roma, in quanto capì che la sua avversione al papato e a ciò che rappresentava era una via senza ritorno, anzi, per la prima volta Lutero dichiarò che il papa era l’Anticristo.

Alle tesi di Lutero e di Carlostadio, uno dei suoi primi seguaci, si oppose Giovanni Eck, vice-cancelliere dell’università di Ingolstadt, e si decise che i tre si sarebbero incontrati pubblicamente a Lipsia per discutere del “libero arbitrio “ e del “primato papale”. Eck, grande oratore dalla formidabile memoria, dimostrò la sua superiorità, e la disputa si volse a suo netto vantaggio. In ogni caso Lutero, grazie a questa disputa, si convinse ancor di più di quanto già sosteneva, la negazione dell’infallibilità del magistero papale e conciliare, ai quali era da opporre la Sacra Scrittura, l’unica veramente infallibile. Egli giunse a negare la visibilità della Chiesa. Il papa Leone X, nel giugno del 1520, reagì con la bolla Exurge Domine, alla cui stesura lavorarono Caietano e Eck, con la quale si criticavano gli scritti di Lutero e se ne proibiva la stampa e la circolazione. Nel dicembre dello stesso anno Lutero bruciò la bolla e i volumi di diritto canonico.

Da Lipsia in poi Lutero si espresse sempre più in lingua tedesca e si rivolse maggiormente ai laici. I suoi testi vengono pubblicati in piccolo formato e scritti in modo più semplice, proprio per favorirne la circolazione tra tutti gli strati sociali. La Riforma diviene “globale”.

Lutero nel 1520 scrisse Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca (An den christlichen Adel deutscher Nation), il De captivitate Babylonica ecclesiae (Cattività babilonese della chiesa) e il De libertate cristiana (Libertà del cristiano) , in cui esplicitava il suo pensiero sul sacerdozio universale (non è vero che esiste uno stato spirituale e uno mondano, esiste solo quello spirituale in cui tutti sono uguali, e tutti sono papa, vescovo e sacerdote. Solo le funzioni sono diverse ma comunque determinate dalla comunità, che sceglie i propri pastori); sul diritto di ogni cristiano di esegesi personale della Bibbia, è la fede vissuta che dà la capacità di capire (Sola Scriptura); sui sacramenti

5 La dottrina del Purgatorio fu definita nel secondo concilio di Lione del 1274, ripresa in quello di Firenze nel 1438 e infine ribadita al concilio di Trento nel 1563. Il purgatorio è da intendere non come un luogo fisico ma come uno stato dell’anima cui Dio concede un’altra possibilità di purificazione.

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(di cui inizialmente mantiene battesimo, penitenza ed eucarestia, per poi affermare che l’unico sacramento è l’annuncio del perdono dei peccati che si divide nei tre segni- battesimo, penitenza ed eucarestia).

Nel 1521 Lutero fu scomunicato e in seguito alla dieta di Worms, durante la quale si rifiutò di ritrattare le sue tesi, fu anche bandito dall’impero. Si rifugiò, grazie al suo protettore Federico di Sassonia, nel castello di Coburg.

Durante la latitanza Lutero si dedicò alla traduzione in tedesco del Nuovo Testamento e all’approfondimento dei suoi studi: negazione dei voti monastici e, per quanto riguarda l’Eucarestia, negazione della transustanziazione a favore della consustanziazione (il corpo e il sangue di Cristo sono presenti nel pane e nel vino pur non trasformandosi in essi).

Nel 1525 avvennero tre fatti salienti: si sposò con Caterina von Bora (solo dopo la morte del suo protettore che era contrario al matrimonio dei pastori); si espresse negativamente nei confronti della rivolta contadina – più di 100.000 morti – perché il cristiano rivendica ma non insorge e davanti al tiranno invoca Dio - ; si scontrò con Erasmo sulla questione del libero e del servo arbitrio. Erasmo sosteneva la libertà dell’uomo di scegliere tra il bene e il male, quindi l’uomo è moralmente responsabile delle proprie azioni. Lutero rispose che il libero arbitrio riguarda solo le questioni terrene, ma non Dio e la salvezza. L’uomo non è libero di dire sì a Dio, è libero quando dice sì alla sua chiamata (predestinazione).

Fin da subito le idee di Lutero riscossero molto successo nelle zone germanofone, anche a Zurigo dove la figura dominante della Riforma era Ulrico Zwingli (1484-1531). I due erano perfettamente d’accordo sul principio del Sola Scriptura, ma proprio sull’interpretazione della Scrittura stessa, nei passi riguardanti la santa Cena, avvenne la prima frattura della riforma. Zwingli, umanista, sosteneva che quando nel Vangelo si legge “Questo è il mio corpo” si deve intendere in senso metaforico, ossia la Cena è solo un ricordo della morte e della risurrezione di Cristo. Per Lutero invece si indica la presenza in spirito di Cristo (consustanziazione).

Al 1527 circa si fa risalire l’opera luterana di ricostruzione della chiesa nei territori che avevano aderito alla Riforma: opera di “alfabetizzazione cristiana” a cominciare dalla famiglia. Lutero si dedicò alla stesura del Piccolo e del Grande Catechismo e nel 1534 pubblicò anche la traduzione completa della Bibbia in tedesco: per molti studiosi quest’opera rappresenta la colonna portante del luteranesimo tedesco.

Quando nel 1521 Lutero fu prima scomunicato e poi bandito molti cristiani dovettero scegliere da che parte schierarsi, con Lutero o con Roma? Gli Stati tedeschi cattolici si unirono in una Lega (1524), così da organizzare le loro forze nel tentativo di arginare il protestantesimo. L’esempio fu seguito dai luterani che a Torgau si unirono contro i cattolici (1526). L’imperatore, Carlo V, avversò sempre la Riforma, sebbene cercasse, quando necessitava dell’appoggio dei principi protestanti, di non farlo troppo apertamente. Nel 1526 fu indetta la Dieta6 di Spira in cui i principi si accordarono sul principio cujus regio ejus religio, secondo il quale era il principe a

6 Il termina dieta sta ad indicare, nel Sacro Romano Impero, l’assemblea in cui re e principi si ritrovano per legiferare.9

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stabilire quale fosse la confessione da seguire all’interno del suo territorio; i sudditi potevano seguire il principe o vendere i loro possedimenti e trasferirsi in un altro Stato. Nel 1529 si ebbe però una seconda dieta a Spira, dove l’imperatore e i principi cattolici cercarono di togliere ai protestanti il diritto di scelta. I principi protestanti, seguendo gli usi del tempo, scrissero una Protestatio - da cui il termine protestanti -, ossia un documento in cui dichiaravano solennemente che i diritti della coscienza e quelli della Parola di Dio, di cui essi intendevano garantire la libera predicazione, erano inviolabili. Nel 1530 con la dieta di Augusta si cercò di riportare l’unità all’interno dell’impero ma risultò impossibile perché, se da un lato, i cattolici si dimostrarono per nulla disposti a fare compromessi, dall’altro, i protestanti si presentarono con tre diverse confessioni di fede (la Confessione Augustana, scritta da Melantone, giudicata troppo ricca di concessioni ai cattolici, divenne il testo confessionale fondamentale del luteranesimo).

Nel 1545 il pontefice Paolo III convocò a Trento il concilio, al quale però i protestanti non parteciparono. L’Occidente era ormai diviso in due confessioni.

4.2.2 La Riforma in Svizzera

La Svizzera si interessò alle idee di Lutero fin dagli albori. Inizialmente le due città in cui ebbero maggior seguito furono Zurigo e Berna. Questa seconda città svolse un importante ruolo organizzativo, ad esempio fu Osvaldo Miconio, che vi risiedeva, a scrivere la prima confessione di fede svizzera, e fu sempre questa città, forte, a sostenere la Riforma nei cantoni francesi. Ma fu Zurigo a rivestire inizialmente il ruolo di guida, grazie a Zwingli. Determinante per l’introduzione della Riforma in Svizzera fu inoltre il compito svolto dai consigli cittadini. Questi organi politici svolgevano sui cristiani anche funzioni di cura e vigilanza nei periodi in cui i vescovi, titolari dei poteri, risiedevano lontano dalle loro sedi.

Zwingli era un umanista, erede di Erasmo, di cui adottò l’assioma principale della sua philosophia Christi: Cristo è ciò che ha insegnato, la sua vita è la sua dottrina, la sua “filosofia” è la sua vita. Zwingli abbracciava quindi l’idea che fosse strettamente necessario tornare al Vangelo. La sua conversione avvenne gradualmente, non d’impeto come per Lutero, infatti nella sua vita non sono riscontrabili punti di svolta. Per Zwingli alla Parola Biblica, che è l’unica che salva, si accompagna l’azione interiore dello Spirito che, nell’animo di ciascuno, dà vita alla lettera, la quale, a sua volta, dà voce allo Spirito. È lo Spirito che suscita la fede, la Parola la nutre.

Tra i riformatori Zwingli fu quello più politico perché egli intendeva la politica come parte integrante del discorso di fede e della missione stessa del cristianesimo. Per Lutero il regno di Dio è solo interiore, per Zwingli è anche esteriore ed egli inoltre sottolineava il fatto di come la legge, come il Vangelo, salvasse la vita umana dall’autodistruzione.

Anima del corpo sociale e ecclesiale è lo studio comunitario della Bibbia. Zwingli perciò sostituì la messa, dal 1525, con la Prophezey, ovvero la lettura comunitaria di un testo biblico (in lingua originale!), cui seguiva la traduzione, la spiegazione e il commento attraverso il quale si cercava di

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collegarlo alla vita quotidiana. La Cena veniva celebrata quattro volte all’anno in piatti e calici di legno, onde evitare il rischio di tornare agli antichi sfarzi.

Nei cantoni di lingua francese troviamo, come riformatori della prima ora, a Ginevra e Neuchâtel, Guglielmo Farel (1489-1565, convinse Calvino a fermarsi a Ginevra e i Valdesi ad aprirsi alla Riforma. Scrisse anche il primo compendio delle dottrine riformate in francese), e nel canton Vaud, Pietro Viret (1511.1571, che dal 1559 si rasferì nal sud della Francia contribuendo a diffondervi il pensiero riformato). A Ginevra, a Riforma già introdotta, fu determinante l’opera svolta da Giovanni Calvino (Jehan Cauvin, 1509-1564). Grazie a lui Ginevra rivestì dopo la morte di Lutero (1546) e il conseguente tramonto di Wittenberg, il ruolo di città simbolo del Protestantesimo.

Non si sa quando Calvino aderì alla Riforma, ma era già sicuramente protestante quando, nel 1534, rinunciò ai benefici ecclesiastici procuratigli dal padre, rompendo così col sistema romano. Calvino non voleva fare il riformatore ma accettò il suo ufficio come una vocazione, come un “dovere da vivere con riverenza e coscienza”.

Il riformatore ginevrino scrivendo nel 1536 la sua Istituzione della religione cristiana diede una valenza militante al suo operato. Nello scritto spiegava i fondamenti del cristianesimo (i 10 comandamenti, il Credo, il Padre Nostro …), ma premetteva una lettera dedicatoria a Francesco I, affinché si adoprasse in difesa degli evangelici e che quindi smettesse di perseguitarli in Francia. Nel 1536 partecipò inoltre con Farel alla discussione sulla Cena che vedeva loro contrapposto il consiglio cittadino. I primi sostenevano che gli indegni dovevano esserne esclusi, mentre il consiglio era di parere opposto. Il consiglio vinse e Calvino andò in esilio a Strasburgo. Gli anni (1538-1541) che vi trascorse si rivelarono molto proficui per lo sviluppo del suo pensiero. A Strasburgo poté frequentare Bucero e Capitone e da loro imparò molto sulla chiesa visibile, sul suo ordinamento, sulla sua disciplina, sull’articolazione e funzione dei ministeri. Tutte cose che applicò per la riforma della chiesa ginevrina. A Ginevra venne totalmente abbandonato l’ordine ecclesiastico preesistente e lo si sostituì con una struttura ministeriale collegiale formata da pastori, col compito di predicare e amministrare i sacramenti; i dottori, col compito di insegnare nelle scuole e, più tardi, di formare i pastori; gli anziani, che dovevano vigilare sulla vita della comunità per mantenervi la disciplina; i diaconi, che si dividevano tra compiti amministrativi e di cura dei poveri e dei bisognosi. Il rigorismo morale e disciplinare imposto da Calvino (puritanesimo calvinista) non fu da tutti ben accettato nella città, dove venne fondato il partito dei “libertini”, che rappresentava lo spirito libertario della città.

Calvino si adoperò sempre molto per l’unità dei riformati e nel 1541 scrisse il Piccolo trattato sulla santa Cena nel quale presentava un’interprestazione a metà strada tra quella di Lutero e quella di Zwingli. Sosteneva infatti la presenza in spirito di Cristo.

A macchiare il suo curriculum di riformatore e mostrarlo come figlio del suo tempo furono due avvenimenti: nel 1545 ci fu un focolaio di peste a causa, secondo Calvino e i ginevrini, del maleficio di alcune streghe, che vennero arrestate ed arse, e la condanna a morte di Michele Serveto, uomo di cultura spagnolo, che si espresse contro il trinitarismo e altri concetti basilari del cristianesimo.

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Egli fu in un primo momento giudicato e condannato dall’Inquisizione e, poi, riconosciuto a Ginevra arrestato e ucciso.

4.2.3 La Chiesa anglicana

La Chiesa anglicana nacque inizialmente dalle forti spinte indipendentiste della sua monarchia. Il 3 novembre 1534 fu infatti promulgato l’Atto di supremazia, atto con cui il parlamento inglese dichiarava che da quel momento in poi il sovrano diventava il capo supremo della chiesa anglicana. In quanto capo si sarebbe adoperato a favore del cristianesimo, favorendone la diffusione e difendendolo da tutti gli errori e le eresie. L’Atto di supremazia fu preceduto da tutta una serie di altri atti, tutti finalizzati all’ottenimento da parte del re, Enrico VIII (1491-1547), del potere giurisdizionale sulla chiesa, e i suoi possedimenti, in territorio inglese - l’Atto di sottomissione: i pronunciamenti del clero avrebbero avuto forza di legge solo dopo l’approvazione di una commissione nominata dalla corona; l’Atto di limitazione: il re aveva il diritto di incamerare le “annate”, ossia le tasse annuali dovute alla curia romana; l’Atto di proibizione: si proibiva al papa di giudicare su questioni relative al clero inglese, e ai nuovi arcivescovi inglesi il diritto di ricevere e trasmettere al clero le bolle papali-. Tutti questi atti, pur stabilendo l’indipendenza della chiesa inglese, non erano ancora Riforma. Enrico VIII non criticava la dottrina cattolica, voleva restare in comunione con Roma, ma non esserne governato.

L’occasione, per liberare l’Inghilterra dal potere pontificio, si offrì al re quando decise di chiedere l’annullamento del suo matrimonio con Cristina d’Aragona, annullamento che il papa, Clemente VII, non poteva concedere sia per motivi di diritto canonico, sia perché la regina era la zia di Carlo V, protettore del pontefice. Enrico VIII divorziò comunque dalla moglie e sposò Anna Bolena (seconda moglie, cui ne seguì una terza, Jane Seymour).

Decisiva per lo sviluppo in direzione protestante fu la scelta di Enrico VIII di affidare la diocesi di Canterbury a Thomas Cranmer, seguace di Lutero. Vi era in Inghilterra un gruppo di estimatori di Lutero e delle sue opere, che si incontrava regolarmente in una locanda, chiamata per questo little Germany, di cui anche Cranmer faceva parte. Questo gruppo, oltre che per Lutero, nutriva ammirazione per le idee di Wycliff, soprattutto del suo desiderio di mettere la Bibbia in mano ai laici. Dal 1538 si impose l’obbligo di avere in ogni chiesa inglese una copia della Bibbia tradotta affinché fosse letta e spiegata ai fedeli.

Nel 1536 una delegazione inglese si incontrò in Germania con Melantone, e da questo incontro nacquero gli Articoli di Wittenberg. Questi articoli influenzarono i 10 Articoli, ovvero il primo documento dottrinale della chiesa anglicana, il quale si presentava come una via di mezzo tra il cattolicesimo, di cui conservava molti contenuti, e il protestantesimo, di cui adottava in sostanza solo il principio base della giustificazione per sola grazia attraverso la fede.

Nel 1537 seguì un secondo documento, il Bishop’s Book, anch’esso a metà strada tra le due confessioni, cui però Enrico VIII non concesse il placet regale. Tanto meno lo concesse ai 13 Articoli del 1538, che invece si presentavano più luteraneggianti dei precedenti. Di questo documento si

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trova traccia nei 42 Articoli pubblicati da Cranmer al tempo di Edoardo VI (1537-1553; in carica dal 1547), il successore di Enrico VIII. Questi a loro volta servirono alla stesura dei 39 Articoli della chiesa anglicana, opera di Matteo Parker, arcivescovo di Canterbury, approvati dal parlamento nel 1571, sotto Elisabetta I a otto anni dalla loro stesura, e da allora il più importante documento dottrinale dell’anglicanesimo fino ai giorni nostri. Il documento, pur presentandosi in forma più breve rispetto alle confessioni di fede protestanti, serviva proprio per fissare i punti base della nuova confessione anglicana: Trinità, Incarnazione, salvezza per sola fede, rifiuto del Purgatorio e Santa cena secondo i canoni protestanti (l’anglicanesimo si ispirò molto prima a Lutero poi a Calvino, dal quale ereditò, tra le altre cose, il puritanesimo). La fede, la pietà e la spiritualità anglicana trovarono la loro più autentica espressione nel Book of Common Prayer, la cui composizione iniziò nel 1549, ma l’edizione definitiva, promulgata da Carlo II, è del 1562. In questo testo si ritrovano le preghiere e la liturgia della confessione anglicana, la quale, a parte i brevi 39 Articoli, non ritenne necessario né scrivere un proprio Catechismo né una propria confessione di fede.

I sovrani succedutisi dopo Enrico VIII, che tentò inutilmente di riportare il regno alla cattolicità, furono alternatamente più cattolici (Maria Tudor) o protestanti (Edoardo VI) fino ad arrivare a Elisabetta I (1558-1603), che pur non essendo profondamente protestante, ma neppure filo-cattolica, ristabilì la supremazia della corona sulla chiesa, apportando però una modifica all’Atto di supremazia: sostituì la formula che descriveva il re come capo della chiesa, con quella in cui veniva presentato come supremo governatore, in quanto capo della chiesa è solo Cristo. La regina necessitò di quest’atto in quanto erano venute radicalizzandosi le posizioni dei filo-cattolici e quelle dei puritani, che si auspicavano una riforma di tipo ginevrino, e che destabilizzavano il Paese.

Nella chiesa anglicana convivevano, e convivono senza scontrarsi né annullarsi, spirito cattolico e princìpi protestanti.

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