1. L’imposta sul valore aggiunto IVA

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0 1. L’imposta sul valore aggiunto (I.V.A.) Chi vende qualcosa, se è un’azienda di produzione, deve documentarela vendita, cioè deve emettere un documento in cui descrive l’operazione compiuta, documento che può essere la fatturao la ricevuta fiscaleo lo scontrino fiscale. A essere interessati a questo documento (cioè alla fattura o alla ricevuta fiscale o allo scontrino), a essere cioè interessati a che la vendita sia documentata, non sono solo le partidel contratto di compravendita (il “cedente” e il “cessionario”, sinonimi di venditore e il compratore), bensì anche lo stato. Lo stato, infatti, vuole sapere da ogni azienda cosa, a che prezzo e a quali altre aziende vende, e questo per potere così incassare gran parte delle imposte, cioè i soldi che gli servono per finanziare le spese pubbliche (costruire scuole e stipendiare insegnanti e bidelli, comprare medicine e stipendiare i medici e gli infermieri degli ospedali, costruire tribunali e prigioni e stipendiare i magistrati e i secondini, comprare “volanti” e “gazzelle” e stipendiare poliziotti e carabinieri ecc. ecc.). Tra le tante imposte e tasse esistenti, le due più importanti sono limposta sul reddito e l’I.V.A., cioè l’imposta che si applica su gran parte delle compravendite e di cui parleremo a lungo e non solo in questi appunti. 2. L’I.V.A. è un’imposta sul consumo (ed è anche un’imposta sugli acquisti). Dire che l’IRPEF (acronimo di Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche) è un’imposta sul reddito, cioè è un’imposta che colpisce il reddito delle persone, ha senso, è ragionevole in quanto la frase è comprensibile, ed è comprensibile perché tutti hanno un’idea (sebbene spesso non del tutto corretta) di cosa è il reddito. I.V.A. è l’acronimo di Imposta sul Valore Aggiunto, ma se alla domanda cosa è l’IVA?tu mi rispondi l’IVA è l’imposta sul valore aggiunto!io ti boccio, a meno che tu mi sappia dire, e per ora è impossibile, cosa è il valore aggiunto. [E se poi credi o, peggio ancora, mi dici che il valore aggiunto è l’importo che si aggiunge al prezzo da pagare quando si acquista qualcosaallora prima di bocciarti ti picchio, perché è una idiozia intollerabile: equivale a dire che l’IVA è un’imposta su sé stessa]. Molto meglio, quindi, se alla domanda che cos’è l’IVArispondi, ad esempio, che l’IVA è un’imposta con cui lo stato preleva circa 130 miliardi l’anno { e quindi, considerando che in Italia siamo in 60 milioni, ognuno di noi mediamente dà allo stato 180 € al mese a testa di IVA [130.000 / (60 x 12)] } e che colpisce gli acquisti fatti per il consumo. Resta però da chiarire cosa si intende con acquisto fatto per il consumo, e per questo ti può essere utile tornare al punto 1.8 a pagina 8 e riguardare la distinzione fra aziende di produzione e aziende di erogazione. Fatto? Se sì, allora ti dovrebbe essere chiaro che l’IVA colpisce solo le famiglie e le altre aziende di erogazione e quindi non grava (= non pesa) sulle aziende di produzione le quali, però, la versano allo stato dopo averla raccolta dalle aziende di erogazione. L’IVA, quindi, la paga chi acquista e la deve ricevere lo stato (che, come già detto, con i soldi così ricevuti paga lo stipendio a Massa, ai giudici del tribunale, ai poliziotti e agli altri “dipendenti pubblici”; li usa anche per costruire carceri, per pagare le pensioni a chi è troppo vecchio per lavorare, per costruire le strade, i carri armati ecc.), ma lo stato, non volendo far vedere al consumatore quanta imposta sta pagando e per non dargli anche il disturbo di versargli l’imposta, pretende allora che sia il venditore a portargliela: l’azienda che vende, quindi, è obbligata dallo stato a farsi pagare da chi compra non solo il prezzo del bene bensì anche l’I.V.A. (pari a una certa percentuale del prezzo, cioè una certa percentuale dell’ “ imponibile IVA”), e poi deve versare allo stato l’imposta ricevuta dal compratore.

Transcript of 1. L’imposta sul valore aggiunto IVA

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1. L’imposta sul valore aggiunto (I.V.A.)

Chi vende qualcosa, se è un’azienda di produzione, deve “documentare” la vendita, cioè deve

emettere un documento in cui descrive l’operazione compiuta, documento che può essere la

“fattura” o la “ricevuta fiscale” o lo “scontrino fiscale”.

A essere interessati a questo documento (cioè alla fattura o alla ricevuta fiscale o allo scontrino), a essere cioè

interessati a che la vendita sia “documentata”, non sono solo le “parti” del contratto di

compravendita (il “cedente” e il “cessionario”, sinonimi di venditore e il compratore), bensì anche lo stato.

Lo stato, infatti, vuole sapere da ogni azienda cosa, a che prezzo e a quali altre aziende

vende, e questo per potere così incassare gran parte delle “imposte”, cioè i soldi che gli servono per finanziare le spese pubbliche (costruire scuole e stipendiare insegnanti e bidelli, comprare

medicine e stipendiare i medici e gli infermieri degli ospedali, costruire tribunali e prigioni e stipendiare i magistrati e i secondini, comprare “volanti” e “gazzelle” e stipendiare poliziotti e carabinieri ecc. ecc.).

Tra le tante imposte e tasse esistenti, le due più importanti sono l’imposta sul reddito e l’I.V.A.,

cioè l’imposta che si applica su gran parte delle compravendite e di cui parleremo a lungo e non

solo in questi appunti.

2. L’I.V.A. è un’imposta sul consumo (ed è anche un’imposta sugli acquisti).

Dire che l’IRPEF (acronimo di Imposta sul Reddito delle Persone Fisiche) è un’imposta sul reddito, cioè è un’imposta

che colpisce il reddito delle persone, ha senso, è ragionevole in quanto la frase è comprensibile,

ed è comprensibile perché tutti hanno un’idea (sebbene spesso non del tutto corretta) di cosa è il “reddito”.

I.V.A. è l’acronimo di Imposta sul Valore Aggiunto, ma se alla domanda “cosa è l’IVA?” tu mi

rispondi “l’IVA è l’imposta sul valore aggiunto!” io ti boccio, a meno che tu mi sappia dire, e per

ora è impossibile, cosa è il “valore aggiunto”. [E se poi credi o, peggio ancora, mi dici che il “valore aggiunto è

l’importo che si aggiunge al prezzo da pagare quando si acquista qualcosa” allora prima di bocciarti ti picchio, perché è una idiozia

intollerabile: equivale a dire che l’IVA è un’imposta su sé stessa].

Molto meglio, quindi, se alla domanda “che cos’è l’IVA” rispondi, ad esempio, che l’IVA è

un’imposta con cui lo stato preleva circa 130 miliardi l’anno { e quindi, considerando che in Italia siamo

in 60 milioni, ognuno di noi mediamente dà allo stato 180 € al mese a testa di IVA [130.000 / (60 x 12)] } e che colpisce gli

acquisti fatti per il consumo. Resta però da chiarire cosa si intende con “acquisto fatto per il

consumo”, e per questo ti può essere utile tornare al punto 1.8 a pagina 8 e riguardare la

distinzione fra aziende di produzione e aziende di erogazione. Fatto? Se sì, allora ti dovrebbe

essere chiaro che l’IVA colpisce solo le famiglie e le altre aziende di erogazione e quindi non grava (= non pesa) sulle aziende di produzione le quali, però, la versano allo stato dopo averla raccolta dalle aziende di erogazione.

L’IVA, quindi, la paga chi acquista e la deve ricevere lo stato (che, come già detto, con i soldi così ricevuti

paga lo stipendio a Massa, ai giudici del tribunale, ai poliziotti e agli altri “dipendenti pubblici”; li usa anche per costruire carceri, per

pagare le pensioni a chi è troppo vecchio per lavorare, per costruire le strade, i carri armati ecc.), ma lo stato, non volendo

far vedere al consumatore quanta imposta sta pagando e per non dargli anche il disturbo di

versargli l’imposta, pretende allora che sia il venditore a portargliela: l’azienda che vende,

quindi, è obbligata dallo stato a farsi pagare da chi compra non solo il prezzo del bene bensì

anche l’I.V.A. (pari a una certa percentuale del prezzo, cioè una certa percentuale dell’ “imponibile IVA”), e poi deve

versare allo stato l’imposta ricevuta dal compratore.

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3. L’I.V.A. è un’imposta sul consumo che funziona in modo complicato.

a) Lo stato vuole che l’I.V.A. colpisca i consumi, e i consumi sono solo delle famiglie e

delle altre aziende di erogazione (perché le aziende di produzione, come già detto, comprano per trasformare, non per

consumare); attenzione! Non confondete i “consumi”, l’utilizzo, dei fattori produttivi impiegati dalle

aziende di produzione (e cioè i costi) con i “consumi” che lo stato vuole tassare con l’IVA:

quest’ultimi sono i consumi effettuati solo dalle famiglie e dalle altre aziende di erogazione allo

scopo di soddisfare le proprie esigenze, non allo scopo di produrre altri beni per la vendita.

L’IVA “pesa” solo sui beni comprati dalle aziende di erogazione (lo zucchero, il frigo e

l’abbonamento a Netflix comprati dalla nonna), non su quelli di produzione (lo zucchero, il frigorifero e

l’abbonamento a Netflix comprato dal ristorante).

b) Lo stato, però, non vuole che il consumatore sia disturbato, vuole cioè che non si accorga

che paga l’imposta, e quindi lo stato incarica le aziende di produzione di prelevare l’imposta di

nascosto ai consumatori e poi di versarla a lui (più avanti vedremo che lo stato vuole anche incassare l’imposta prima

ancora che il consumatore acquisti il bene).

Da a) e b) discende che l’imposta potrebbe funzionare in questo modo semplice: le aziende che

vendono ai consumatori (i supermercati, i negozi, i ristoranti, gli artigiani ecc.) aggiungono l’imposta al prezzo

del bene o del servizio venduto pretendendo così dalle famiglie un prezzo “gonfiato”, cioè

comprensivo di IVA, dopo di che, periodicamente (magari una volta al mese), le stesse aziende girano

allo stato quanto incassato “di troppo” (l’IVA). Tutto semplice: il consumatore paga l’imposta

senza accorgersene, le aziende coinvolte sono poche, (sono solo quelle che vendono ai consumatori), lo stato

incassa l’imposta sul consumo e lo studente deve impegnarsi meno per capire come questa

imposta sul consumo funziona.

Purtroppo per voi (che dovete studiare l’IVA) e per le aziende di produzione (che la devono applicare) lo stato è

così affamato di soldi che vuole incassare buona parte dell’IVA ancor prima che il consumatore

acquisti il bene, e questo complica il funzionamento dell’imposta. Infatti, per incassare un po’

prima l’IVA lo stato ha pensato di coinvolgere nell’applicazione di questa imposta sul consumo

non solo le aziende che vendono ai consumatori ma anche tutte le altre, cioè anche le aziende

che vendono alle altre aziende di produzione [come la Ferrero che vende la Nutella ai supermercati (non la vende certo

direttamente a noi consumatori) o come l’IVECO i cui camion sono tutti acquistati da aziende di produzione e non certo dalle famiglie].

Per capire meglio, vediamo uno stesso, semplice, esempio (la pila che ho comprato ieri al supermercato) nei

tre casi in cui: 1. Non esiste l’imposta sul consumo; 2. L’imposta sul consumo c’è e funziona

nel modo semplice; 3. L’imposta sul consumo è l’IVA e allora funziona nel modo complicato.

1. Seguiamo il percorso della pila che ieri ho comprato all’Esselunga. (i dati sono di fantasia)

Quella pila è stata prodotta da un’azienda in Cambogia e importata in Italia dalla Duracell

per 0,40 €, trasporto fino in Italia compreso. La Duracell l’ha poi venduta all’Esselunga per

1,00 €, (con un ricarico – cioè un aumento di prezzo rispetto a quello di acquisto – quindi di 0,60 €), e

l’Esselunga l’ha venduta a 1,50 € (ricaricando quindi a sua volta di 0,50 €). Se l’IVA non

esistesse, lo stato avrebbe incassato nulla, io avrei pagato 1,50 €, all’Esselunga sarebbe

rimasto 0,50 € (1,50 – 1,00), alla Duracell 0,60 € (1,00 – 0,40) e all’azienda cambogiana 0,40 €.

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2. Con un’imposta sul consumo “semplice” e con un’aliquota (= una percentuale) ad esempio del 20% le

cose andrebbero così (in realtà ora in Italia l’aliquota IVA normale è il 22%, ma con il 20% i numeri diventano più “tondi”):

Duracell paga 0,40 € al cambogiano e incassa 1,00 da Esselunga: le rimangono 0,60 € (1,00 – 0,40);

Esselunga paga 1,00 a Duracell e incassa 1,80 € da me (1,50 di prezzo + 0,30 di iva, che è il 20% di 1,50), e

poi versa 0,30 allo stato e così le rimangono, come prima nel caso 1., 0,50 € (1,80 – 1,00 – 0,30);

Io pago 1,80 € all’Esselunga, di cui 1,50 di prezzo e 0,30 € (1,5 x 20% = 0,30) di iva, e così sopporto

il costo dell’imposta di 0,30 €, cioè il 20% del valore del mio consumo;

Lo stato incassa dall’Esselunga gli 0,30 € di imposta da me pagati: l’azienda di produzione

Esselunga svolge, solo lei, il compito di “esattore” (cioè di colui che preleva le imposte per conto dello stato).

3. Con il sistema “complicato” dell’I.V.A., l’imposta sul consumo funziona così:

Quando la pila entra fisicamente in Italia lo stato italiano dice all’importatore (la Duracell):

“Quella pila cambogiana che stai importando sarà consumata in Italia, e quindi se vuoi farle passare la dogana in modo che diventi utilizzabile in Italia devi pagarmi l’IVA, pari al 20% di quanto vale adesso, cioè di quanto l’hai pagata all’azienda cambogiana compreso il trasporto fino alla frontiera, e quindi mi devi dare 0,08 € (0,40 x 20%)”

Così la Duracell versa subito allo stato 0,08 € per “sdoganare” la merce (= per importare la pila).

Quando poi la Duracell vende per 1,00 € la pila all’Esselunga è obbligata dallo stato a farsi

pagare non 1,00 ma 1,20 €, cioè il prezzo per la pila (1,00 €) più l’I.V.A. (il 20% del prezzo, cioè 0,20 €).

Quando, infine, l’Esselunga mi vende la pila, per ricavare 1,50 € deve scrivere sullo scaffale

– ma questo capitava anche nel caso di funzionamento “semplice” – che il prezzo è di 1,80 € (e non 1,50 €) perché lo

stato le impone di pretendere oltre al prezzo vero di 1,50 € anche 0,30 € di I.V.A. (cioè il 20% di 1,50).

Lo stato poi riceverà i 30 centesimi di IVA [cioè il 20% del valore che la pila ha quando viene acquistata (da me) per

il consumo], suddivisi fra tutte le aziende coinvolte (la Duracell e l’Esselunga) e non solo da quella che

ha venduto al consumatore (l’Esselunga).

Ogni azienda coinvolta nel percorso che ha portato la pila fino a me deve infatti versare allo stato non tutta l’IVA che ha incassato ma solo la differenza fra l’IVA incassata con la vendita e l’IVA pagata all’acquisto (o alla importazione). Infatti lo stato riceve:

0,10 € di iva dall’Esselunga: i 30 centesimi di iva che il supermercato ha incassato dal

cliente (io) sulla vendita meno i 20 centesimi pagati al fornitore Duracell all’acquisto;

0,12 € di iva dalla Duracell: i 20 centesimi di iva che la Duracell ha incassato dall’Esselunga

meno gli 8 cent. di iva che sempre la Duracel ha pagato alla dogana per importare la pila;

0,08 € di iva ricevuti sempre dalla Duracell al momento dell’importazione (sono gli 8 centesimi

pagati dalla Duracell in dogana al momento dell’importazione in Italia della pila proveniente dalla Cambogia).

Alla fine il risultato è uguale a quello visto con il sistema semplice, e cioè:

- io (consumatore) ho sopportato il costo dell’imposta (0,30 €) avendo dovuto pagare 1,80 € la

pila che, senza l’imposta sul consumo, mi sarebbe invece costata solo 1,50 €;

- lo stato ha incassato i 30 cent. di imposta che voleva, vale a dire il 20% del valore del mio

mio acquisto fatto per il consumo (1,50 x 20% = 0,30), ma non tutti da Esselunga, bensì come

somma di 8+10+12 cent.

- le aziende che hanno permesso alla pila di arrivare nel mio spazzolino elettrico (la Duracell e

l’Esselunga) pur versando l’iva allo stato (0,20 € la prima e 0,10 € l’Esselunga) non ci hanno rimesso, nel

senso che non hanno sopportato alcun costo: all’Esselunga infatti restano 0,50 € (1,80 – 1,20 – 0,10)

e alla Duracell 0,60 € (1,20 – 0,40 – 0,12 – 0,08), quelli che sarebbero rimasti se l’IVA non fosse

esistita o se avesse funzionato nel modo “semplice”.

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Come già detto, i principali motivi che hanno spinto il legislatore a scegliere la strada

complessa quando quella semplice portava a risultati identici: a) perché con il sistema

complicato lo stato incassa un po’ prima l’imposta: invece di aspettare che il bene sia comprato

dal consumatore, una parte dell’IVA gli arriva prima (al momento dell’importazione e in quello della vendita da

un’azienda all’altra); b) perché coinvolgendo nell’operazione tutte le aziende (e non solo quelle che vendono

alle famiglie e alle altre aziende di erogazione) lo stato riesce meglio a controllare le aziende di produzione;

c) perché complicando le cose a tutte le aziende riesce a incassare più sanzioni sugli errori che

queste inevitabilmente compiono in più.

4. I “soggetti Iva” e la “partita Iva”.

I “soggetti IVA” (detti anche “soggetti passivi”) sono i “soggetti alla legge IVA”, coloro che

devono rispettare le norme della legge IVA, che versano l’IVA allo stato ma, come rivedremo,

non ne sopportano il costo, e questi sono le aziende di produzione. Quando una persona

comincia a svolgere in modo continuativo un’attività economica autonoma (cioè non come lavoratore

alle dipendenze di qualcuno, ma come produttore in proprio di beni o servizi da vendere a chi li richiede) allora deve “aprire la

partita iva”, cioè richiedere allo stato un codice che lo individui come “soggetto iva”. Questo

codice si chiama “partita iva” e, almeno in Italia, è formato da 11 cifre. Questo codice va ad

affiancarsi al codice fiscale di cui tutti, esseri umani e “persone giuridiche” (cioè società, associazioni,

enti, condomini ecc.) sono in possesso fin dalla loro nascita (le persone fisiche) o dalla loro costituzione (le

persone giuridiche). In altre parole:

- quando un bambino nasce (e quando una persona giuridica viene costituita) lo stato lo marchia con un

codice, il codice fiscale (ad esempio il mio è MSSCRL56P27H223B, e il vostro, se già non lo sapete a memoria, imparatelo: vi verrà

richiesto sempre più spesso perché lo stato vorrà sempre più puntualmente sapere quello che i suoi cittadini fanno) che per tutta la sua

vita lo individuerà e segnalerà tra tutti gli altri esseri umani (e le persone giuridiche);

- se e quando quell’essere umano (o quella persona giuridica) comincerà ad operare come azienda di

produzione, allora lo stato lo marchierà una seconda volta con un secondo codice (di 11 caratteri tutti

numerici), che è, appunto, la partita iva (sempre come esempio, quella della società Max Mara è 01397620350).

Si può quindi dire, e ripeterò cose appena scritte, che la legge IVA divide il mondo in due:

1. i soggetti IVA, detti anche “soggetti passivi”, sono coloro che hanno la “partita iva”, versano

l’imposta allo stato e che devono fare tutte le altre cose che la legge IVA impone, ma non

sopportano il costo dell’imposta (e, come ho già scritto, questi soggetti sono le “aziende di produzione”, che possono

essere sia persone fisiche – come il vostro dentista – sia persone giuridiche – come la FIAT, la SETA, l’Enel o la Max Mara –); e

2. i non soggetti IVA, che non hanno la partita iva, devono fare nulla, possono anche non

sapere che esiste l’IVA e tanto meno cosa dice la legge IVA; sono, però, coloro che sopportano il

costo dell’imposta perché la pagano ai soggetti iva quando acquistano da loro qualche bene o

qualche servizio e nessuno gliela restituisce più (e i “non soggetti IVA” sono i “consumatori”, cioè siamo tu e io e le

altre aziende di erogazione, le quali possono essere sia persone fisiche – come la vostra nonna – sia persone giuridiche – come la Casa

della Carità di S. Girolamo o l’Associazione Volontari Italiana Sangue –).

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5. Le “operazioni IVA” e le operazioni non IVA (dette anche “fuori campo IVA” o “escluse”).

Affinché un’operazione, cioè un atto compiuto da una persona (fisica o giuridica), abbia qualcosa a che fare con l’I.V.A. sono necessarie tutte e tre le seguenti condizioni:

1) deve essere le vendita di un bene o di un servizio (è il requisito “oggettivo” dell’operazione): se un rivenditore d’auto sportive di lusso mi consegna una Ferrari Testarossa

non perché me la vende o noleggia, ma perché me la fa solo provare gratuitamente per un

pomeriggio, questo suo atto c’entra nulla con la legge IVA, il concessionario non compie

un’operazione iva, quell’operazione è “fuori campo IVA” per la mancanza del requisito

oggettivo in quanto non è né una vendita di un bene né una prestazione di servizio;

2) deve essere compiuta da un “soggetto IVA” (è il requisito “soggettivo” dell’operazione): se nella giornata di ricevimento genitori tu e altri alunni vendete delle torte,

sebbene vendiate dei beni (e quindi il requisito “oggettivo” c’è), non fate nulla che c’entri con l’IVA perché

voi non siete soggetti che professionalmente, abitualmente, commerciate in alimentari: quella

vendita è un’operazione “fuori campo IVA” per la mancanza del requisito soggettivo;

3) deve essere compiuta in Italia (è il requisito “territoriale” dell’operazione): se la

Barilla vende un’attrezzatura che ha nel suo stabilimento a Istanbul ad una azienda turca,

sebbene quell’operazione sia una vendita e sia compiuta da un soggetto IVA (e quindi i requisiti oggettivo

e soggettivo ci sono entrambi), c’entra nulla con la legge IVA perché non è stata fatta in Italia; quella

vendita sul territorio turco è un’operazione “fuori campo IVA” per la mancanza del requisito

territoriale.

Affinché un’operazione (un atto compiuto) sia un’operazione IVA e quindi obblighi chi la

compie a osservare tutte le regole che la legge IVA prevede nei suoi tantissimi articoli (che

riempiono una cinquantina di pagine scritte fitte) è necessario che i tre requisiti (l’oggettivo, il soggettivo e il territoriale)

siano tutti soddisfatti: basta che ne manchi uno e allora chi compie quell’operazione non dovrà

farsi pagare l’iva, non dovrà registrare alcun documento (come la fattura o lo scontrino o la ricevuta fiscale) su

nessun registro IVA, non dovrà versare l’imposta allo stato ecc. .

Quando sarete più grandi e se vi capiterà di occuparvi di questioni fiscali in una qualche

azienda, vedrete che, in realtà, ci sono non poche eccezioni a questa regola; una, ad esempio, è

quello del fornaio o del barista che regalano un pezzo di pane o un cappuccino con brioche a un

mendicante affamato: fornaio e barista dovranno “emettere lo scontrino” come se il pane o la

brioche li avessero venduti, e questo nonostante che a quell’atto di carità, non essendo una

“vendita di beni”, manchi uno dei tre requisiti necessari (quello “oggettivo”).

Per quest’anno, comunque, possiamo ignorare tutte le eccezioni e le tante altre complicazioni di

questa complicatissima imposta e limitarci a imparare, e soprattutto a capire, le regole generali

dell’IVA: sarebbe già un risultato straordinariamente positivo.

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6. Le operazioni “imponibili”, le operazioni “non imponibili” e le operazioni “esenti”.

Le “operazioni I.V.A.” (e cioè, come si è visto appena sopra, quelle che hanno tutti tre i requisiti – oggettivo, soggettivo e

territoriale –) possono essere di tre tipi: a) “imponibili”, b) “non imponibili” e c) “esenti”.

Sulle operazioni “imponibili” il compratore deve pagare l’imposta, sulle non imponibili e

sulle esenti, invece, il compratore non si vede addebitata dal venditore alcuna imposta.

Essendo però tutte e tre “operazioni IVA”, il venditore dovrà comunque fare ciò che prevede la

legge IVA (e quindi emettere i documenti obbligatori e annotarli su particolari registri, inviare allo stato particolari dichiarazioni

ecc.). La differenza sostanziale fra le operazioni imponibili e le operazioni non imponibili o

quelle esenti è che nelle prime il venditore deve farsi pagare l’IVA dal cliente mentre nelle altre

due (le non imponibili e le esenti) il venditore non deve farsi dare l’IVA dal cliente.

a) Le operazioni IVA imponibili sono le “normali”, nel senso che sono tutte le operazioni IVA che non fanno parte delle due altre categorie. Resta, quindi, da vedere che operazioni rientrano

nelle due categorie “particolari”, cioè le operazioni non imponibili e le operazioni esenti.

b) Le operazioni IVA non imponibili sono le vendite di beni con consegna al di fuori del

territorio italiano, e si suddividono a loro volta in due tipi:

b1) le “esportazioni” che sono le vendite con consegna fuori dall’Italia e dal territorio della

U.E. (Unione Europea) e quindi, ad esempio, le vendite con consegna negli Stati Uniti (U.S.A.) o in

Svizzera o in India o in Marocco ecc.;

b2) le “cessioni intracomunitarie” che sono le vendite di beni con consegna fuori dall’Italia

ma dentro al territorio della U.E., e quindi ad esempio le vendite con consegna in Germania o in

Spagna o in Polonia.

Attenzione! Nelle operazioni non imponibili (siano esse esportazioni o cessioni intraUE) il requisito territoriale c’è: la vendita, infatti, è effettuata nel territorio italiano, nel senso che

il bene, al momento della vendita, si trova in Italia; il fatto che la merce poi esca dal territorio

italiano rende quell’operazione “non imponibile” (e quindi il venditore non addebita l’IVA al cliente), ma

rimane pur sempre una “operazione IVA” nel senso visto nel paragrafo precedente.

Riattenzione! Molti libri di testo, qualche pseudo esperto e vari siti Internet scrivono che “le

operazioni non imponibili mancano del presupposto territoriale”: in questo modo dicono una

castroneria sesquipedale (= sciocchezza colossale, sbagliano clamorosamente).

c) Le operazioni IVA esenti sono quelle elencate nell’articolo 10 della legge IVA e si tratta di

vendite di beni ma soprattutto di servizi che lo stato dichiara di voler privilegiare o a causa del

loro carattere assolutamente non voluttuario, oppure per motivi economici che non vale la pena

spiegare. Tra le operazioni esenti più importanti ci sono i servizi medici e di cura, i servizi

scolastici ed educativi, i servizi funerari, i servizi di finanziamento (prestito di denaro) e i servizi

assicurativi.

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7. L’IVA “nascosta” sulle operazioni esenti.

I libri di testo, i docenti (non tutti ma quasi), gli organi d’informazione e i politici (almeno quei pochi che sanno

dell’esistenza delle operazioni esenti IVA) sottolineano la delicatezza che mostra lo stato nel non pretendere

un’imposta sui consumi tendenti a soddisfare bisogni particolari come quelli sanitari, educativi-

formativi, funebri, assicurativi-previdenziali ecc.; raccontano, infatti, la storiella che lo stato

vuole, sì, il 22% del valore della birra, dello smartphone ecc. che compri, ma nulla pretende da

te se sei costretto a spendere dei soldi per darli al dentista perché un molare ti tortura o

all’agenzia funebre perché la bisnonna ti ha lasciato per sempre.

Invece, non è così: lo stato, dichiarando “esenti” da IVA quei consumi, fa solo finta di essere

comprensivo, perché in realtà si cucca lo stesso una buona parte del 22% della tua spesa per il

dentista, per il funerale ecc..

Cambia solo la modalità con cui il fisco ti spenna, ma ti spenna anche se spendi per curarti, per

seppellire i tuoi cari, per assicurarti sulla vita (in modo da proteggere i tuoi figli nel caso fossero loro a doverti seppellire),

se ti iscrivi a un corso d’istruzione ecc. . Supponiamo che tu abbia concordato con un’agenzia

funebre il compenso di 3.000 € per il funerale della bisnonna Adalgisa (morta non prematuramente a 106 anni):

è vero che non devi dare all’agenzia funebre i 660 € di IVA (pari al 22% dei 3.000 € di prezzo del servizio da lei

prodotto e da te acquistato) e che quindi il funerale ti costerà solo 3.000 € e non 3.660, ma è anche vero

che l’agenzia funebre ti ha fatto pagare qualche centinaio di euro in più (forse 400 €) perché lo stato

le ha impedito di considerare a credito tutta l’IVA che lei ha dovuto pagare ai suoi fornitori per

l’acquisto della bara, del carro funebre, della benzina, dei fiori ecc. .

È questo, infatti, il modo nascosto con cui lo stato incassa una buona parte dell’IVA anche sulle

operazioni esenti: impedisce alle aziende che operano in quei settori di detrarre l’IVA sui loro acquisti: in questo modo l’IVA pagata ai fornitori diventa per quelle aziende un costo,

e le costringe a tenerne conto nel prezzo di vendita aumentandolo dell’IVA che non hanno

potuto detrarre (nell’esempio, l’agenzia funebre ti ha fatto pagare 3.000 € e non 2.600 perché ha dovuto “coprire”, nel

senso di recuperare, i 400 € di costo aggiuntivo per l’IVA pagata ai fornitori ma che non ha potuto detrarre; con i dati dell’esempio, se le spese funebri non fossero esenti ma imponibili al 22% il funerale ti sarebbe costato 2.600 + 572 (il 22% x

2.600) = 3.172 € e non certo 3.600: lo stato ha rinunciato, quindi, solo a 88 € di IVA (660 - 572), e non certo a 660 €.

Quando un’azienda fa abitualmente sia operazioni esenti sia operazioni “normali”, allora può

detrarre l’iva sugli acquisti applicando il cosiddetto “pro-rata di detraibilità”, cioè

moltiplicando l’IVA pagata sugli acquisti per il rapporto fra il valore delle operazioni normali e le

operazioni totali (normali + esenti) effettuate nell’anno.

Un esempio per chiarire: supponiamo che la “Imperitura s.r.l.” svolga sia l’attività di

agenzia funebre (quindi operazioni esenti da IVA) sia quella di imbalsamazione di animali (operazione soggetta

a IVA del 22%); nel 2019 ha effettuato servizi funebri per 700.000 € e servizi di imbalsamazione di

animali per 300.000 € (per un tot. di 1.000.000).

Nello stesso periodo, la Imperitura s.r.l. ha effettuato acquisti per un totale di 500.000 € tutti con

IVA al 22%, registrando quindi IVA su acquisti per 110.000 € (500.000 x 22%). Se questi sono i dati,

l’IVA per lei detraibile non è più 110.000 € ma:

110.000 x 300.000 / (200.000 + 800.000) = 33.000 €, e i restanti 77.000 € (110.000 - 33.000) di IVA pagata da

Imperitura ai fornitori sugli acquisti, si trasformano da credito verso lo stato in un costo,

obbligando l’azienda ad aumentare i prezzi di vendita.

Page 8: 1. L’imposta sul valore aggiunto IVA

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8. Le operazioni “non imponibili” (esportazioni e cessioni intracomunitarie).

Se tenete presente che l’IVA è un’imposta che colpisce i consumi (e non la produzione o il reddito o il

patrimonio o altro), allora dovreste facilmente capire perché sulle vendite di beni che sono destinati a

uscire dal territorio nazionale non si applica l’imposta; si comprende cioè il motivo in base al

quale la legge IVA impone alle aziende venditrici di farsi pagare l’IVA dai clienti che sono in

Italia ma non da quelli che risiedono all’estero.

La ragione, chiaramente, è perché uno stato può imporre degli obblighi solo a coloro che sono

nel suo territorio, mentre nulla può pretendere da chi risiede fuori dai confini: se lo stato

italiano potesse tassare gli abitanti degli U.S.A., del Giappone, della Germania ecc., allora

saremmo a cavallo: potrebbe finanziare con quelle risorse la produzione di tantissimi beni e

servizi di ottima qualità tutti per noi residenti in Italia senza farci pagare alcuna imposta.

Riassumendo: l’IVA è una imposta sui consumi; i beni esportati sono consumati fuori dall’Italia;

quindi il loro consumo sarà colpito da IVA (o da un altro tipo di imposta sui consumi) nel paese e dallo stato

in cui sono stati consegnati.

Poiché chi vive su un certo territorio non può che consumare solo beni lì presenti, ecco che lo

stato pretende una percentuale (nell’esempio, il 22%) della somma tra il valore dei beni che lì sono

prodotti, più il valore dei beni che, prodotti fuori dal quel territorio, lì sono stati importati (e

quindi saranno utilizzati dai suoi cittadini) e meno il valore dei beni che, prodotti all’interno, escono dal

territorio (le esportazioni, beni che saranno usati da cittadini di altri stati).

Così si spiega perché la legge IVA dice: “L’imposta sul valore aggiunto si applica sulle

cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell’esercizio di imprese o nell’esercizio di arti e professioni e sulle importazioni da chiunque effettuate”

e, in un altro articolo, afferma poi che le esportazioni [pur essendo operazioni IVA in quanto comunque “cessioni

di beni effettuate nel territorio dello stato” (perché al momento della vendita il bene si trova sul territorio nazionale, e quindi chi le effettua deve emettere

fattura, registrarla, dichiararla ecc. come per le vendite all’interno)], sono però “operazioni non imponibili”, cioè su di

esse chi li effettua non deve farsi pagare l’IVA dal cliente-acquirente.

Da quanto detto risulta evidente l’interesse dello stato a controllare tutto ciò che entra nel suo

territorio: vuole l’imposta anche sul valore delle importazioni; ma il suo interesse si estende al

controllo anche di ciò che esce: è, infatti, solo su ciò che va all’estero che lo stato rinuncia

all’imposta, mentre da tutto il resto che viene prodotto e rimane sul suo territorio lui vuole

procurarsi il nutrimento (l’imposta), e allora vuole evitare che qualcuno venda in Italia ciò che lì ha

prodotto ma non gli versi l’IVA e, per giustificare il fatto che quel che ha prodotto non è più nel

suo magazzino, racconti la balla che l’ha venduto e consegnato a uno straniero residente in India

(che, in quanto tale, non è controllabile).

Ecco il principale motivo per cui lo stato ha istituito le “dogane”, le sue braccia, i suoi organi

che hanno la funzione principale di incassare l’IVA (ed eventuali altre imposte, come i dazi) sulle

importazioni e di verificare che tutto ciò che i sudditi dichiarano di vendere all’estero esca

effettivamente dal territorio nazionale.

A complicare la vita dell’italico - ma non solo - studente di economia aziendale ci si è messa

poi anche la partecipazione del suo paese alla Unione Europea, comunità attualmente (dicembre 2020, ma

tra poco la Gran Bretagna, in un modo o nell’altro, ci saluterà) costituita da 28 paesi che hanno concordato fra

loro, fra le tante cose, di eliminare qualsiasi ostacolo alla circolazione dei beni fra i residenti

all’interno di questa vasta e popolata area (ampia 4 milioni di km2 e abitata da oltre 500 milioni di persone).

Page 9: 1. L’imposta sul valore aggiunto IVA

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In virtù di questo accordo, le dogane non controllano più materialmente il passaggio dei beni

attraverso le varie frontiere intracomunitarie: il farlo costituirebbe un ostacolo alla libera

circolazione dei beni, mentre si vuole far sì che vendere a uno spagnolo di Toledo sia come

vendere a un carpigiano e che acquistare da una ditta bulgara di Ruse sia come comprare da

un’azienda con sede a Castelnovo di Sotto; ed ecco allora che i controlli fisici in dogana si

limitano alle entrate e alle uscite da e verso paesi non appartenenti alla U.E. .

Non per questo, però, il branco dei 28 (27, tra poco) stati ha rinunciato a controllare gli acquisti e le

vendite dei rispettivi sudditi: non potendo più farlo fisicamente in dogana, ora lo fanno in via

informatica, obbligando qualsiasi azienda che compri o venda da o a un’altra azienda della U.E.

a dichiarare sia da o a chi ha comprato o venduto, sia il valore delle varie operazioni compiute,

sia la loro natura, espressa anche sotto forma di “codice merceologico” del bene oggetto di

scambio. Tale dichiarazione, detta “elenco delle operazioni intracomunitarie” o, più

familiarmente, “dichiarazione intrastat” deve essere fatta mensilmente (trimestralmente se gli importi

complessivi sono inferiori a 50.000 € l’anno) e spedita via internet entro il 25 del mese successivo a quello cui le

operazioni si riferiscono.

Il controllo è reso possibile dal fatto che ogni stato ha a disposizione i dati delle dichiarazioni

presentate anche dalle aziende di ognuno degli altri 27 paesi, cosicché gli è possibile verificare

se ciò che il carpigiano X ha dichiarato di aver venduto al bulgaro Y coincide con quello che

quel bulgaro ha dichiarato di aver comprato dal quel carpigiano.

Di più: mentre le dogane si occupavano, e ancora per l’extraUE si occupano, solo degli scambi

“fisici”, cioè del passaggio delle merci, il sistema telematico dell’intrastat monitora anche gli

scambi di servizi. Si può senz’altro dire, quindi, che la circolazione dei beni e dei servizi fra

paesi UE è sì totalmente libera, ma è altrettanto totalmente sottoposta a controllo: ogni stato non

può né ostacolare né, tantomeno, impedire lo scambio di merci o servizi tra residenti nella UE,

ma impone a ognuno dei suoi sudditi di raccontargli dettagliatamente con chi, per che valore e

per quali beni fa affari.