1. LA PRIM GUERRA MONDIALE - … · coscrizione obbligatoria e alle accresciute possibilità dei...

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1. LA PRIM GUERRA MONDIALE Il 28 giungo 1914 uno studente bosniaco, facente parte di un’organizzazione irredentista con base operativa in Serbia uccise l’erede al trono d’Austria, l’arciduca Francesco Ferdinando. Tanto bastò per suscitare la reazione del governo e dei circoli dirigenti austriaci, da tempo convinti della necessità di impartire una dura lezione ala Serbia. Un attentato terroristico si trasformò così in un caso internazionale che precipitò l’Europa in un conflitto di proporzioni mai viste, trasformando la società stessa, aprendo una fase di rivolgimenti durata più di 30 anni e conclusasi col definitivo tramonto della centralità europea. La vicenda di Sarajevo è un tipico esempio di come il corso della storia possa essere influenzato da eventi singoli; esistevano è vero tutte le premesse che rendevano possibile un conflitto: rapporti tesi fra le grandi potenze (Austria vs Russia, Francia vs Germania, Germania vs Inghilterra), corsa agli armamenti; ma queste non avevano come sbocco obbligato un conflitto europeo. L’Austria il 23 luglio inviò l’ultimatum alla Serbia; quest’ultima, forte dell’appoggio russo, l’accettò solo in parte, respingendo la clausola che prevedeva la partecipazioni di funzionari austriaci alle indagini sui mandanti dell’attentato. L’Austria giudicò la risposta insufficiente e il 28 luglio dichiarò guerra alla Serbia. Il giorno successivo il governo russo ordinò la mobilitazione delle forze armate, estesa all’intero confine occidentale (non solo alle frontiere con l’Austria-Ungheria), per prevenire un eventuale attacco da parte della Germania; tale mobilitazione fu interpretata dal governo tedesco come atto di ostilità e quest’ultimo inviò un ultimatum alla Russia per l’immediata sospensione dei preparativi bellici, cui seguì, dopo 1 giorno, la dichiarazione di guerra alla Germania e dopo 3 giorni (3 agosto) anche alla Francia, legata alla Russia da un trattato di alleanza militare. Fu dunque l’iniziativa del governo tedesco (che da tempo soffriva di un complesso di accerchiamento, si sentiva cioè soffocata nelle sue ambizioni internazionali) a far precipitare la situazione. Venne elaborato un piano di guerra, il “piano Schilieffen” (perché elaborato dall’allora capo di stato maggiore Alfred von Schilieffen), che prevedeva in primo luogo un massiccio e rapido attacco contro la Francia (poi contro la Russia). A tal fine era previsto che le truppe tedesche passassero attraverso il Belgio, nonostante la sua neutralità fosse garantita da un trattato internazionale sottoscritto anche dalla Germania. Il 4 agosto le truppe tedesche invasero il Belgio, ciò scosse non solo l’opinione pubblica, ma causò l’intervento britannico, che preoccupato dell’eventualità di un successo tedesco, non poteva tollerare l’aggressione a un paese neutrale che si affacciava sulla Manica, così il 5 agosto dichiarò guerra alla Germania. Mai come in questo momento grazie alla pratica della coscrizione obbligatoria e alle accresciute possibilità dei mezzi di trasporto i paesi belligeranti poterono mettere in campo eserciti di proporzioni enormi (es. Germania 1.500.000 uomini sul solo fronte occidentale) e che disponevano di nuovi armamenti (es. la mitragliatrice automatica). Eppure, nonostante queste novità, nessuna fra le potenze belligeranti aveva elaborato concezioni strategiche diverse da quelle che avevano ispirato le ultime guerre ottocentesche, fondate cioè sull’idea di “guerra di movimento” (vale a dire lo spostamento rapido di ingenti masse in vista di pochi e risolutivi scontri della durata di poche settimane). Tuttavia, dopo iniziali successi tedeschi sul fronte orientale (Russia e Prussia), nelle battaglie di Tannenberg e dei Laghi Masuri, sul fronte occidentale l’esercito francese comandato dal generale Joffre lanciò un improvviso contrattacco nella battaglia della Marna, che colse i tedeschi di sorpresa e causò il fallimento del piano tedesco, quello cioè di una guerra di movimento (rapida e risolutiva), ormai, dopo 4 mesi di conflitto, giunta in una situazione di stallo che si trasformò in una nuova realtà della guerra, cioè quella di logoramento o di usura (ovvero 2 schieramenti immobili che si affrontavano in una serie di sterili quanto sanguinosi attacchi inframezzati da periodi di stasi). A questo punto diventavano essenziali il ruolo della Gran Bretagna col suo impero coloniale e la sua superiorità navale, l’apporto della Russia col suo enorme potenziale umano, e le molte potenze minori che col loro intervento potevano modificare l’equilibrio delle forze in campo; di qui la tendenza del conflitto ad allargarsi fino ad assumere dimensioni mondiali. Nel ’14 il Giappone si unì ala Gran Bretagna vs la Germania, al fine di impadronirsi dei possedimenti tedeschi in Estremo Oriente; accanto alla Germania s schierò l Turchia, mentre nel ’15 l’Italia entrava in guerra contro L’Austria-Ungheria, quest’ultime affiancate da Bulgaria, Romania, Grecia e Portogallo. In ultimo decisivo fu l’intervento degli Stati Uniti a partire dal 1917. A guerra appena scoppiata il governo italiano presieduto da Antnio Salandra dichiarò la sua neutralità; decisione giustificata col carattere difensivo della Triplice Alleanza (l’Austria infatti non era stata attaccata né aveva consultato l’Italia prima di intraprendere l’azione militare contro la Serbia). Si iniziò però ad affacciare una linea interventista di sinistra democratica (sostenuta dai repubblicani, dai radicali e dai socialriformisti di Bissolati, ma anche dai nazionalisti -quest’ultimi sul versante opposto nello schieramento politico interno del governo - e sostenuti anche dai giovani intellettuali, sensibili ai valori patriottici, es. D’annunzio) a favore di un intervento proprio contro l’Austria, che avrebbe consentito all’Italia di portare a compimento il processo risorgimentale riunendo in patria Trento e Trieste, la fine del giolittismo e l’avvio di un radicale rinnovamento della politica italiana. Il presidente del consiglio Salandra e il Ministro degli Esteri Sidney Sonnino, pur essendo conservatori, temevano che una mancata partecipazione al conflitto in cui si decidevano le sorti dell’Europa, avrebbe gravemente compromesso la posizione internazionale dell’Italia e il prestigio stesso della monarchia; una guerra vittoriosa avrebbe dunque rafforzato le istituzioni e dato maggiore solidità al governo. C’era poi un’ala consistente schierata su una linea neutralista, che faceva capo a Giovanni Giolitti. Decisamente ostile all’intervento bellico era la linea

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1. LA PRIM GUERRA MONDIALE Il 28 giungo 1914 uno studente bosniaco, facente parte di un’organizzazione irredentista con base operativa in Serbia uccise l’erede al trono d’Austria, l’arciduca Francesco Ferdinando. Tanto bastò per suscitare la reazione del governo e dei circoli dirigenti austriaci, da tempo convinti della necessità di impartire una dura lezione ala Serbia. Un attentato terroristico si trasformò così in un caso internazionale che precipitò l’Europa in un conflitto di proporzioni mai viste, trasformando la società stessa, aprendo una fase di rivolgimenti durata più di 30 anni e conclusasi col definitivo tramonto della centralità europea. La vicenda di Sarajevo è un tipico esempio di come il corso della storia possa essere influenzato da eventi singoli; esistevano è vero tutte le premesse che rendevano possibile un conflitto: rapporti tesi fra le grandi potenze (Austria vs Russia, Francia vs Germania, Germania vs Inghilterra), corsa agli armamenti; ma queste non avevano come sbocco obbligato un conflitto europeo. L’Austria il 23 luglio inviò l’ultimatum alla Serbia; quest’ultima, forte dell’appoggio russo, l’accettò solo in parte, respingendo la clausola che prevedeva la partecipazioni di funzionari austriaci alle indagini sui mandanti dell’attentato. L’Austria giudicò la risposta insufficiente e il 28 luglio dichiarò guerra alla Serbia. Il giorno successivo il governo russo ordinò la mobilitazione delle forze armate, estesa all’intero confine occidentale (non solo alle frontiere con l’Austria-Ungheria), per prevenire un eventuale attacco da parte della Germania; tale mobilitazione fu interpretata dal governo tedesco come atto di ostilità e quest’ultimo inviò un ultimatum alla Russia per l’immediata sospensione dei preparativi bellici, cui seguì, dopo 1 giorno, la dichiarazione di guerra alla Germania e dopo 3 giorni (3 agosto) anche alla Francia, legata alla Russia da un trattato di alleanza militare. Fu dunque l’iniziativa del governo tedesco (che da tempo soffriva di un complesso di accerchiamento, si sentiva cioè soffocata nelle sue ambizioni internazionali) a far precipitare la situazione. Venne elaborato un piano di guerra, il “piano Schilieffen” (perché elaborato dall’allora capo di stato maggiore Alfred von Schilieffen), che prevedeva in primo luogo un massiccio e rapido attacco contro la Francia (poi contro la Russia). A tal fine era previsto che le truppe tedesche passassero attraverso il Belgio, nonostante la sua neutralità fosse garantita da un trattato internazionale sottoscritto anche dalla Germania. Il 4 agosto le truppe tedesche invasero il Belgio, ciò scosse non solo l’opinione pubblica, ma causò l’intervento britannico, che preoccupato dell’eventualità di un successo tedesco, non poteva tollerare l’aggressione a un paese neutrale che si affacciava sulla Manica, così il 5 agosto dichiarò guerra alla Germania. Mai come in questo momento grazie alla pratica della coscrizione obbligatoria e alle accresciute possibilità dei mezzi di trasporto i paesi belligeranti poterono mettere in campo eserciti di proporzioni enormi (es. Germania 1.500.000 uomini sul solo fronte occidentale) e che disponevano di nuovi armamenti (es. la mitragliatrice automatica). Eppure, nonostante queste novità, nessuna fra le potenze belligeranti aveva elaborato concezioni strategiche diverse da quelle che avevano ispirato le ultime guerre ottocentesche, fondate cioè sull’idea di “guerra di movimento” (vale a dire lo spostamento rapido di ingenti masse in vista di pochi e risolutivi scontri della durata di poche settimane). Tuttavia, dopo iniziali successi tedeschi sul fronte orientale (Russia e Prussia), nelle battaglie di Tannenberg e dei Laghi Masuri, sul fronte occidentale l’esercito francese comandato dal generale Joffre lanciò un improvviso contrattacco nella battaglia della Marna, che colse i tedeschi di sorpresa e causò il fallimento del piano tedesco, quello cioè di una guerra di movimento (rapida e risolutiva), ormai, dopo 4 mesi di conflitto, giunta in una situazione di stallo che si trasformò in una nuova realtà della guerra, cioè quella di logoramento o di usura (ovvero 2 schieramenti immobili che si affrontavano in una serie di sterili quanto sanguinosi attacchi inframezzati da periodi di stasi). A questo punto diventavano essenziali il ruolo della Gran Bretagna col suo impero coloniale e la sua superiorità navale, l’apporto della Russia col suo enorme potenziale umano, e le molte potenze minori che col loro intervento potevano modificare l’equilibrio delle forze in campo; di qui la tendenza del conflitto ad allargarsi fino ad assumere dimensioni mondiali. Nel ’14 il Giappone si unì ala Gran Bretagna vs la Germania, al fine di impadronirsi dei possedimenti tedeschi in Estremo Oriente; accanto alla Germania s schierò l Turchia, mentre nel ’15 l’Italia entrava in guerra contro L’Austria-Ungheria, quest’ultime affiancate da Bulgaria, Romania, Grecia e Portogallo. In ultimo decisivo fu l’intervento degli Stati Uniti a partire dal 1917. A guerra appena scoppiata il governo italiano presieduto da Antnio Salandra dichiarò la sua neutralità; decisione giustificata col carattere difensivo della Triplice Alleanza (l’Austria infatti non era stata attaccata né aveva consultato l’Italia prima di intraprendere l’azione militare contro la Serbia). Si iniziò però ad affacciare una linea interventista di sinistra democratica (sostenuta dai repubblicani, dai radicali e dai socialriformisti di Bissolati, ma anche dai nazionalisti -quest’ultimi sul versante opposto nello schieramento politico interno del governo - e sostenuti anche dai giovani intellettuali, sensibili ai valori patriottici, es. D’annunzio) a favore di un intervento proprio contro l’Austria, che avrebbe consentito all’Italia di portare a compimento il processo risorgimentale riunendo in patria Trento e Trieste, la fine del giolittismo e l’avvio di un radicale rinnovamento della politica italiana. Il presidente del consiglio Salandra e il Ministro degli Esteri Sidney Sonnino, pur essendo conservatori, temevano che una mancata partecipazione al conflitto in cui si decidevano le sorti dell’Europa, avrebbe gravemente compromesso la posizione internazionale dell’Italia e il prestigio stesso della monarchia; una guerra vittoriosa avrebbe dunque rafforzato le istituzioni e dato maggiore solidità al governo. C’era poi un’ala consistente schierata su una linea neutralista, che faceva capo a Giovanni Giolitti. Decisamente ostile all’intervento bellico era la linea

pacifista dei cattolici, con in primis il nuovo papa Benedetto XV; un atteggiamento questo che da un lato rispecchiava la preoccupazione per una guerra che vedesse l’Italia schierata a fianco della Francia Repubblicana e anticlericale contro la cattolica Austria-Ungheria. Stessa posizione ostile venne assunta dai partiti socialisti PSI e CGL, il cui motto era quello di “né aderire né sabotare”. L’unica defezione importante fu quella clamorosa di Mussolini, direttore dell’Avanti!, che dopo la presa di posizione di un’assoluta neutralità si schierò a favore dell’interventismo di sinistra. Ciò che decise l’esito dello scontro tra interventisti, neutralisti e pacifisti fu l’atteggiamento del capo del governo, del ministro degli esteri e del re. I primi due avevano allacciato segreti rapporti con l’Intesa (Francia, Inghilterra e Russia) firmando il 26 aprile del 1915 il cosiddetto “Patto di Londra” che prevedeva , in caso di vittoria, l’annessione per l’Italia, del Trentino, del Sud Tirolo, della Venezia Giulia, le isole della Dalmazia. La maggioranza neutralista con in testa Giolitti fu scavalcata dalle manifestazioni di piazza che nelle “radiose giornate di maggio del 1915, indisse la Camera ad approvare la linea interventista e fu così che l’Italia entrò nel conflitto mondiale nel 23 maggio del 1915 a fianco dell’Intesa contro l’impero austro-ungarico, fino ad allora suo alleato. Contro le truppe austro-ungariche le truppe italiane guidate dal generale Luigi Cadorna sferrarono 4 sanguinose offensive (le prime “quattro battaglie dell’Isonzo”), senza però riuscire a cogliere alcun successo. La controffensiva austriaca non tardò ad arrivare nel giungo del 1916, tentando di penetrare in Trentino e di dividere lo schieramento nemico. Quest’attacco è stato definito Stratefexpedition (ossia spedizione punitiva contro l’antico alleato ritenuto colpevole di tradimento). Gli italiani riuscirono ad arrestare la loro avanzata sugli altipiani di Asiago e nel contrattacco cadde prigioniero degli austriaci Cesare Battisti, condannato a morte per alto tradimento. Gli esiti di queste spedizioni furono soprattutto psicologici il governo Salandra fu costretto alle dimissioni e sostituito di coalizione nazionale (comprendente cioè tutte le forze politiche tranne i socialisti), presieduto da Paolo Boselli, che tuttavia non comportò alcun mutamento nella condizione militare della guerra. Da un punto di vista tecnico la vera protagonista della guerra fu la trincea, la più semplice e primitiva fra le fortificazioni difensive. Fossati scavati nel terreno e collegati da camminamenti, fungevano non solo come riparo ma anche come sede permanente dei reparti in prima linea. Il primo conflitto mondiale scoppiò al termine di un periodo di progresso scientifico e economico e si caratterizza per l’applicazione intensiva e sistematica dei ritrovati tecnologici alle esigenze della guerra. Del tutto nuova e sconvolgente fu l’introduzione delle armi chimiche (gas), ma la guerra sollecitò notevolmente anche lo sviluppo di settori relativamente giovani, come il settore automobilistico (il carro armato), l’aeronautica e la radiofonia (telecomunicazioni via radio o via filo). Ma fra le macchine belliche sperimentate in questi anni, una sola influì in modo significativo sul corso della guerra: il sottomarino. Furono soprattutto i tedeschi ad intuirne le possibilità e a attaccare navi nemiche o affondare navi mercantili (come il transatlantico inglese Lusitania). Il suo utilizzo però sollevava gravi problemi politici e morali e urtava in particolare gli interessi commerciali degli Stati Uniti. Il conflitto trasformò profondamente la vita civile dei paesi coinvolti; in campo economico l’intervento statale fu sempre maggiore, teso a garantire le risorse necessarie allo sforzo bellico. Tutta la società fu soggetta a un processo di militarizzazione e anche il potere del governo fu condizionato da quello militare. Strumento essenziale per la mobilitazione fu senza dubbio la propaganda che ha assunto una nuova capacità di penetrazione, più efficace e sofisticata, grazie allo sviluppo dei nuovi mezzi di comunicazione di massa. Col protrarsi del conflitto si rafforzarono i gruppi socialisti ad esso contrari, tanto che nelle conferenze socialiste internazionali di Zimmerwald (Svizzera, settembre ’15) e Keinthal (Svizzera, aprile ’16), si approvarono documenti in cui si rinnovava la condanna alla guerra “senza annessioni e senza indennità”. All’interno dei socialisti però esisteva una spaccatura, fra pacifismo della sinistra riformista (il loro obiettivo era la pace negoziata e un ritorno alla vita democratica) e il disfattismo rivoluzionario dei gruppi radicali (quali gli spartachisti tedeschi e i bolscevichi russi) intenti ad utilizzare la guerra come occasione per la rivoluzione. A tal proposito nel convegno di Zimmerwald Lenin propose la tesi secondo cui il movimento operaio doveva approfittare della guerra per affrettare il crollo dei regimi capitalistici. Il 1917 fu l’anno più difficile della guerra per L’Intesa e in cui si verificarono avvenimenti di decisiva importanza: molti furono i casi di manifestazioni popolari contro il conflitto (ad es. l’insurrezione di Torino fra il 22 e il 26 agosto quando una protesta originata dalla mancanza di pane si trasformò in un’autentica sommossa con forte partecipazione operaia) e di ribellione fra le stesse truppe, il tutto in un clima di stanchezza e demoralizzazione che si riscontrava anche in Italia; un malessere generale che provocò la disfatta di Caporetto quando il 24 ottobre un’armata austriaca per mezzo della nuova tattica dell’infiltrazione, penetrava e attaccava le linee italiane comandate del generale Diaz, che si ritirarono sulla nuova linea difensiva del Piave e sul Monte Grappa. Paradossalmente la svolta impostata dalla disfatta di Caporetto finì per avere ripercussioni positive sull’andamento della guerra italiana: i soldati si trovavano ora a combattere una guerra difensiva e ciò contribuì a rendere più comprensibili gli scopi del conflitto e ad aumentare il senso di coesione patriottica; si formò anche un nuovo governo di coalizione nazionale, ora presieduto non più da Cadorna, ma da Vittorio Emanuele Orlando. Il 6 aprile gli Stati uniti decidevano di entrare in guerra con l’Intesa, contro la Germania che aveva ripreso la guerra sottomarina indiscriminata. La guerra, soprattutto per la volontà del presidente Wilson, acquista una nuova cornice ideologica, viene dipinta come una lotta per un più giusto ordine interno e internazionale; prende corpo così l’idea della guerra democratica. L’idea di Wilson era quella di instaurare un nuovo ordine internazionale basato sulla pace e “sull’accordo fra i popoli liberi” e precisò queste sue linee

in un organico programma di pace in 14 punti, in cui si proponeva l’istituzione di un nuovo organismo internazionale, La Società delle Nazioni, per assicurare il mutuo rispetto delle norme di convivenza fra i popoli. Anche grazie alla superiorità militare conseguita con l’intervento americano, nel novembre del ’18 la guerra terminava con la vittoria dell’Intesa: un esito cui contribuirono in larga misura la dissoluzione interna dell’Austria-Ungheria, a causa del distacco delle diverse nazionalità (Cecoslovacchi e slavi diedero vita a Stati indipendenti) e la rivoluzione scoppiata in Germania dove gli operai diedero vita a consigli rivoluzionari e un socialdemocratico, Friederich Ebert fu proclamato capo del governo il 9 novembre, al posto di Kaiser fuggito in Olanda insieme con l’Imperatore d’Austria Carlo. I delegati del governo provvisorio tedesco l’11 novembre firmarono l’armistizio nel villaggio francese di Rethondes e nel 18 gennaio del 1919 a Versailles si aprirono i lavori del trattato di pace prolungati per oltre un anno e mezzo: risultò evidente il contrasto fra una pace democratica e l’obiettivo francese di una pace punitiva; si doveva ridimensionare l’intero assetto europeo che aveva visto crollare ben 4 imperi (tedesco, austro-ungarico, russo e turco) e ricostruire l’equilibrio sui principi di democrazia e giustizia internazionale. Ma l’ideale di Wilson in sostanza non si realizzò: la Società delle Nazioni nacque minata da profonde contraddizioni, anzitutto la mancata adesione degli Stati Uniti e l’esclusione dei paesi sconfitti.

2. LA RIVOLUZIONE RUSSA Nel marzo del ’17 la rivolta degli operai e dei soldati di Pietrogrado provocò la caduta dello zar e la formazione di un governo provvisorio dominato dalle forze liberal moderate. Nel maggio si formò un secondo governo provvisorio, cui parteciparono tutti i partiti, ad eccezione dei bolscevichi. Accanto al potere del governo, cresceva sempre più il potere dei Soviet, cioè i consigli (organismi rivoluzionari) eletti direttamente dai lavoratori (operai e soldati), che diventarono la struttura fondamentale dello Stato nato dalla rivoluzione bolscevica del novembre del ’17: Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (U.R.S.S. o Unione Sovietica), sorta nel 1922. I bolscevichi tentarono di accentuare sempre più la loro opposizione al governo provvisorio, chiedendo la pace immediata, la socializzazione della terra e il passaggio di tutti i poteri ai soviet, così come dichiarato da Lenin nelle cosiddette “tesi di aprile”. Il comandante dell’esercito generale Kornilov, con l’appoggio dei moderati, tentò un colpo di Stato, lanciando un ultimatum al governo presieduto da Kerenskij, chiedendo il passaggio dei poteri alle autorità militari. Il colpo di stato fu stroncato grazie all’appoggio dei bolscevichi che rafforzarono ulteriormente la loro posizione, principali organizzatori della mobilitazione popolare e, grazie alla determinazione di Lenin decisero di conquistare il potere con la forza, preparando un’insurrezione militare organizzata dal presidente dei Soviet di Pietrogrado, Trotzkij, e condotta nella notte tra il 6 e 7 novembre (24-25 ottobre del calendario russo - la cosiddetta Rivoluzione d’ottobre), che si concluse con la Presa del Palazzo d’Inverno, già residenza dello zar e sede del governo provvisorio, ad opera dei soldati rivoluzionari e delle guardie rosse (milizie operaie armate). Veniva così composto un nuovo governo rivoluzionario – detto Consiglio dei Commissari del Popolo - composto esclusivamente da bolscevichi e guidato da Lenin. La presa di potere da parte dei bolscevichi, incontrò però l’opposizione da parte della maggioranza politica (menscevichi, cadetti, socialrivoluzionari), che difatti riportò un grande successo nelle elezioni dell’Assemblea Costituente, ma questa fu subito sciolta dai bolscevichi e in tal modo il paese rompeva definitivamente con la tradizione democratica occidentale, ponendo le premesse per l’instaurazione di una dittatura di partito. A questo punto il paese si ritirò dal conflitto mondiale contro la Germania, stipulando la pace il 3 marzo 1918 nella città di Brest-Litovsk. Gravissime furono le conseguenze di questo trattato: le potenze dell’’Intesa considerarono la pace di Brest-Litovsk come un tradimento e appoggiarono i Bianchi, cioè l’opposizione al governo bolscevico (monarchici e conservatori) e ad alimentare così una guerra civile. Questa situazione spinse i bolscevichi ad instaurare una vera e propria dittatura che si esprimeva attraverso la creazione della Ceka (polizia politica), di un tribunale rivoluzionario centrale e dell’Armata Rossa degli operai e dei contadini (riorganizzazione dell’esercito), grazie ai quali il governo rivoluzionario riuscì a prevalere ed in questo clima Lenin decise di realizzare la sostituzione della vecchia Internazionale Socialista con una nuova Internazionale Comunista (detta 3° Internazionale), costituita nel marzo del 1919. L’Internazionale comunista creò in tutto il mondo una rete di partiti ricalcati sul modello bolscevico estendendo a tutto il movimento operaio europeo la frattura fra comunismo e socialdemocrazia. Nel ’18 il governo bolscevico attuò una politica economica più energica e autoritaria (definita “comunismo di guerra”), basata sulla centralizzazione delle decisioni e sulla statizzazione di gran parte delle attività produttive. Questa politica ebbe tuttavia scarsi risultati finendo con l’alimentare il malcontento dei contadini e operai. Nel marzo del ’21 ci fu un mutamento di rotta con la Nep (nuova politica economica, approvata nel X congresso del Partito comunista): basata su una parziale liberalizzazione delle attività produttive economiche la Nep stimolò la ripresa produttiva, ma ebbe anche effetti non previsti e non desiderati (crescita dei contadini ricchi, degli imprenditori e degli affaristi). Le condizioni della grande industria di Stato, e degli operai in essa impiegati, non migliorarono sensibilmente. Nell’aprile del 1922 Stalin viene nominato segretario generale del Partito Comunista dell’U.R.S.S.; nel 1924 a causa di una malattia muore Lenin; a questo punto i contrasti interni al partito si fecero più aspri fino ad assumere l’aspetto di una vera e propria guerra di successione tra Trotzkij, più autorevole e popolare, e Lenin. Il primo grande scontro fra i due

riguardava il problema della centralizzazione e burocratizzazione del partito: Trotzkij era fautore di una “rivoluzione permanente”: continuo sviluppo e continua estensione del processo rivoluzionario nell’Occidente capitalistico; contro questa tesi Stalin propose la teoria del “socialismo in un solo paese”: l’Unione Sovietica aveva in sé le forze sufficienti a fronteggiare l’ostilità del mondo capitalista, tesi questa che rappresentava una rottura con quanto era stato da sempre affermato dai bolscevichi ma offriva al paese lo stimolo di un potente richiamo patriottico che finì col rafforzare implicitamente le tesi di Stalin. Il secondo disaccordo era fornito dalla politica economica: i dirigenti della “sinistra storica” si pronunciarono per un’interruzione della Nep, che a loro avviso stava facendo nascere il capitalismo nelle campagne e per un deciso rilancio dell’industrializzazione a spese degli strati dei contadini privilegiati. La tesi di Stalin era invece favorevole alla prosecuzione della Nep e all’incoraggiamento della piccola impresa agricola e ottenne l’appoggio della maggioranza del partito e si rafforzava sempre più il suo potere personale.

3. L’EREDITà DELLA GRANDE GUERRA Ad eccezione degli USA, tutti i paesi belligeranti uscirono dal conflitto in condizioni di dissesto economico. L’inflazione modificava la distribuzione della ricchezza, mentre la nuova situazione del commercio internazionale vedeva ridotto il ruolo dell’Europa. Fu necessario nei vari paesi, di fronte ai problemi posti dal ritorno all’economia di pace, riprendere il nazionalismo economico e il protezionismo doganale, e mantenere in piedi le apparati burocratici d’intervento nell’economia (dal controllo ei prezzi all’approvvigionamenti alimentari). Durante il cosiddetto “Biennio rosso” (fine del ’18-estate del ’20), il movimento operaio europeo fu protagonista di una grande avanzata politica che assunse anche tratti di agitazione rivoluzionaria, sulla scia del mito della rivoluzione russa. L’ipotesi rivoluzionaria fallì ovunque (era stato possibile in Russia in presenza di un capitalismo debole e di una borghesia numericamente esigua), mentre si accentuò all’interno del movimento operaio l divisione tra riformisti e rivoluzionari, con la fondazione dell’internazionale comunista e di nuovi partiti in tutta Europa ispirati al modello bolscevico. Dopo l’armistizio e la caduta dell’impero, la Germania si trovava in una situazione simile a quella della Russia nel ’17. Ma la socialdemocrazia, il partito più forte e che controllava il governo repubblicano, si oppose a esperienze di tipo sovietico, trovando un terreno di convergenza con la vecchia classe dirigente al fine di evitare la rivoluzione ad opera delle correnti più radicali (es. Lega di Spartaco) che si opponevano alla convocazione della Costituente. Repressa nel sangue l’insurrezione spartachista che sancì l’affermazione della socialdemocrazia e del Centro cattolico, il 19 gennaio 1919 si tennero le elezioni dell’Assemblea Costituente, riunita a Weimar, che elaborò una costituzione fra le più avanzate dell’epoca (costituzione democratica che prevedeva il mantenimento della struttura federale dello Stato, il suffragio universale maschile e femminile e un presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo). Il biennio rosso si concluse con un riflusso delle agitazioni operaie e una ripresa delle forze moderate. La Francia degli anni ’20 vide sul piano politico un’egemonia di conservatori; alla stabilizzazione politica si accompagnò, nella seconda metà del decennio, una sensibile ripresa economica. Più difficile fu la situazione dell’economia britannica caratterizzata da una fase di ristagno per tutti gli anni ’20. La repubblica nata dalla costituente di Weimar rappresentò nell’Europa degli anni ’20 un modello di democrazia parlamentare aperta e avanzata. Lo stesso rigoglio di attività intellettuali, che fece della Germania weimariana il centro più vivace della cultura europea del tempo era strettamente legato al clima di libertà. Tuttavia la situazione politica era caratterizzata da una forte instabilità: accentuata frammentazione dei gruppi politici e assenza di una forza egemone in grado di guidare il paese; l’unica forza in grado di aspirare a questo ruolo era la socialdemocrazia, riunitasi in un unico partito nel ’22 SPD con l’appoggio di una maggioranza operaia ben organizzata. Le classi medie però si riconoscevano nel Centro cattolico e nei partiti borghesi (destra conservatrice e moderata) e nutrivano diffidenze per un sistema democratico - quello della Repubblica – associato alla sconfitta, all’umiliazione di Versailles e al problema delle riparazioni, con conseguente inflazione e svalutazione del marco (a differenza del periodo imperiale visto come un periodo di tranquillità, prosperità, rispetto delle gerarchie, potenza e prestigio della nazione tedesca). All’inizio del ’23 Francia e Belgio, col pretesto di alcune mancate riparazioni dalla Germania, occuparono il bacino della Rhur (la più ricca e industrializzata zona della Germania). Impossibilitato a intervenire militarmente il governo tedesco incoraggiò la resistenza passiva della popolazione, ma per le finanze tedesche l’occupazione significò il definitivo tracollo finanziario giungendo ad una vera polverizzazione della moneta. Vi furono inoltre tentativi insurrezionali da parte sia dell’estrema sinistra ad Amburgo, sia dell’estrema destra a Monaco (gruppo capeggiato da Hitler), ma il governo guidato da Stresmann riuscì a contrastarli ed inoltre era convinto che la rinascita della Germania dovesse passare attraverso un accordo con le potenze vincitrici; pertanto attuò un politica deflazionistica volta alla stabilizzazione monetaria (limitazione del credito e della spesa pubblica e aumento delle imposte), si riconciliò con la Francia (vedendo temporaneamente alleviato il suo onere per i debiti) e venne attuato il piano Dawes che prevedeva di far funzionare al meglio la macchina produttiva della Germania: pertanto l’entità della rete da pagar doveva essere rateizzata e la finanza interazionale, specie quella degli USA, doveva sovvenzionare lo stato tedesco con prestiti a lunga scadenza. La ripresa economica fu difatti rapida e consistente. Col piano Dawes iniziava una fase di distensione internazionale, confermata dagli accordi di

Lucarno del 1925, che normalizzavano i rapporti franco -tedeschi. Questa fase si interruppe alla fine del decennio in coincidenza con la crisi economica internazionale.

4. IL DOPOGUERRA IN ITALIA E L’AVVENTO DEL FASCISMO A guerra finita la classe dirigente liberale si trovò sempre più contestata e isolata e non si dimostrò in grado di dominare i fenomeni di mobilitazione di massa che il conflitto mondiale aveva suscitato e finì col perdere l’egemonia. Risultarono invece favorite quelle forze socialiste e cattoliche, che si consideravano estranee alla tradizione liberale dello Stato e non erano compromesse con le responsabilità del conflitto. Furono i cattolici a portare il primo e più importante fattore di novità, dando vita, nel gennaio del 1919 al PPI (Partito Popolare Italiano), avente come primo segretario don Luigi Sturzo, che si presentava con un programma politico di impostazione democratica ed era strettamente legato alla Chiesa. L’altra grande novità nl panorama politico italiano fu la crescita impetuosa del Partito Socialista, in cui era prevalente la corrente di sinistra, ora chiamata massimalista, rispetto a quella riformista. I massimalisti, aventi come leader il direttore dell’ “Avanti!” Giacinto Menotti Serrati, si ponevano come obiettivo immediato l’istaurazione della Repubblica socialista fondata sulla dittatura del proletariato e si dichiaravano ammiratori della rivoluzione bolscevica. Questa corrente, che all’interno del PSI forma gruppi di estrema sinistra, si schierava su posizioni apertamente rivoluzionarie e si preclusero ogni possibilità di collaborazione con le forze democartico-borghesi, spaventate dalla minaccia della dittatura proletaria e che si proponevano a loro volta di difendere i valori della vittoria. Fra questi ultimi movimenti faceva spicco quello fondato a Milano da Mussolini col nome di Fasci di Combattimento, protagonisti del primo grave episodio di guerra civile dell’Italia postbellica: lo scontro con un corteo socialista avvenuto a Milano il 15 aprile 1919 e conclusosi con l’incendio della sede dell’Avanti. In Italia alla fine della guerra, agli elementi di grave disagio sociale, si aggiunse la delusione per i risultati dei trattati di pace considerati insoddisfacenti e umilianti per l’Italia. Si diffuse perciò il mito della “vittoria mutilata”, uno degli elementi che resero possibile l’avventura fiumana di D’Annunzio. Il 2 settembre del 1919 D’Annunzio alla testa di gruppi volontari e di alcuni reparti ribelli all’esercito, occupò Fiume, ne proclamò l’annessione all’Italia e dichiarò costituita la Reggenza del Carnaro. L’impresa fu la realizzazione delle aspirazioni nazionalistiche ampiamente diffuse in Italia. I nazionalisti che volevano una politica di potenza e di affermazione imperialistica, con l’impresa di Fiume reagivano ai limiti che i trattati di pace avevano posto all’espansione territoriale italiana. L’impresa però, fu anche il segno di una grave crisi politica; il governo non era riuscito ad impedire l’iniziativa militare autonoma e dovette tollerare per circa un anno l’esistenza di una situazione anomala. Solo nel novembre del 1920 il nuovo governo Giolitti riuscì a risolvere la questione , con il Trattato di Rapallo con la Jugoslavia: in esso Fiume venne riconosciuta stato indipendente e l’Italia rinunciò alle pretese sulla Dalmazia. Le prime elezioni politiche del dopoguerra diedero misura delle trasformazioni avvenute rispetto al periodo prebellico ma mostravano anche la gravità delle fratture che mostrava il sistema politico. Furono queste le prime elezioni tenute col metodo della rappresentanza proporzionale con scrutinio di lista: metodo che prevedeva il confronto fra liste di partito (anziché fra singoli candidati) e che contrariamente al vecchio sistema del collegio uninominale assicurava alle varie liste un numero di seggio proporzionale ai voti ottenuti e favoriva i gruppi organizzati su base nazionale. L’esito fu disastroso per la vecchia classe dirigente ( i socialisti si affermarono come primo partito seguiti dai popolari). Il sistema proporzionale non favoriva la formazione di maggioranze omogenee. Dal momento che il PSI rifiutava ogni collaborazione coi gruppi borghesi, l’unica maggioranza possibile era quella basata sull’accordo fra popolari e liberaldemocratici. Su questa precaria coalizione si formarono gli ultimi governi dell’era liberale. Sul piano interno il ’19-’20 fu una fase di acute agitazioni sociali: moti contro il carovita, scioperi operai e agrari, occupazione delle terre. Nelle fabbriche di Torino gli operai diedero vita ad uno sciopero generale nella primavera del 1920. Gli industrial si erano già organizzati in associazione fondando nel 1919 la Confederazione dell’Industria. Tra gli operai aveva grande influenza il giornale socialista Ordine Nuovo, diretto da Gramsci, il quale spingeva gli operai all’azione rivoluzionaria ed erano centrati sui consigli di fabbrica (nucleo organizzativo con cui i lavoratori potevano assumere e gestire il potere politico). Nel corso delle agitazioni per il rinnovo del contratto gli industriali fecero ricorso alla serrata: lo scontro non era solo sindacale ma aveva un chiaro significato politico (gli operai intendevano dimostrare la loro capacità organizzativa e di gestione della produzione). All’interno del sindacato e del partito socialista la maggioranza fu contraria a sostenere l’occupazione delle fabbriche, a indire uno sciopero generale e a puntare alla rivoluzione. Si riprese perciò la via della trattativa mediante la quale gli operai ottennero buoni risultati per quanto riguardava il contratto di lavoro, anche grazie alla mediazione di Giolitti, allora capo del governo. Il gruppo di Gramsci e altri gruppi della sinistra socialista condannarono l’incapacità della maggioranza dei dirigenti socialisti di guidare con coerenza e chiarezza la forza del movimento operaio. Questa divergenza avrebbe influito sulla divisione del PSI e sulla nascita del PCI (Partito Comunista Italiano), nel gennaio del 1921al congresso di Livorno. In questa situazione il fascismo, che inizialmente non aveva una chiara ideologia, si poneva in sintonia con gli interessi dei ceti sociali e dei gruppi economici che avevano potuto sostenerlo, ovvero vasti settori della borghesia media e piccola, che nel dopoguerra scopriva di aver pagato pesanti costi in termini economici e di perdita del peso politico. Agli occhi di questa classe

sociale il fascismo si presentava come movimento politico in grado di imporre radicali cambiamenti e di ripristinare l’ordine che era stato sconvolto dalla guerra. Il fascismo mostrava di sostenere e rispettare gli ideali nazionalistici che nei ceti piccolo e medio borghesi erano molto sentiti; ma soprattutto riusciva a riscuotere l’approvazione di questi ceti in quanto si opponeva alle organizzazioni operaie, che con le loro rivendicazioni erano considerate elemento di crisi e disordine. Per questa sua contrapposizione al movimento operaio e contadino, il fascismo fu sostenuto da una consistente parte della borghesia industriale e della grande proprietà terriera. Questi gruppi economici si resero conto ben presto che la vocazione rivoluzionaria del fascismo non costituiva un serio rischio e che il movimento fascista poteva essere utile per contrastare l’azione delle organizzazione dei lavoratori. Le adesioni e il sostegno al fascismo erano anche una reazione al rischio di una rivoluzione socialista, sull’esempio di quella russa del ’17. Il fascismo trovò simpatie anche in parte della classe politico liberale, che pensava di utilizzarlo per ostacolare l’avanzata dei partiti popolari e poi neutralizzarlo. Trovò complicità e approvazione anche all’interno degli organismi statali che non ne bloccarono le azioni illegali e le iniziative di violenza. Tali iniziative di violenza, che colpivano i sindacati socialisti e cattolici, le cooperative e le sedi dei partiti, erano messe in atto dalle cosiddette squadracce (squadre d’azione fascista), le cui spedizioni miravano a bloccare ogni rivendicazione dei lavoratori e a far fallire le azioni di sciopero. Furono sostenute da grandi proprietari terrieri che intendevano in tal modo eliminare ogni forma di organizzazione sindacale dei contadini. Successivamente anche alcuni gruppi industriali diedero il loro sostegno alle squadre d’azione fasciste, che poterono contare anche su molte simpatie all’interno di quegli organi di stato che avrebbero dovuto impedire le azioni violente. Giolitti non valutò in pieno il potenziale eversivo del fascismo (nel frattempo era anche nato il PNF- Partito Nazionale Fascista); pensò che potesse essere utile per frenare il successo dei socialisti e che sarebbe stato poi possibile eliminarne le caratteristiche di violenza e incanalarlo nel sistema parlamentare. Giolitti ritenne che il momento fosse propizio per nuove elezioni che consentissero di ridurre, in Parlamento, la forza dei partiti di massa (PSI, PPI) e di rafforzare le forze librali. Il Parlamento fu sciolto e nel maggio 1921 si tennero le elezioni, ma le attese di Giolitti furono deluse, i partiti di massa si rafforzarono e al Parlamento giunsero anche 35 deputati fascisti. Giolitti si dimise e i governi che si succedettero (il primo guidato da Bonomi e i due successivi da Facta) furono troppo deboli e non riuscirono a controllare una situazione che diventava sempre più difficile, con le violenze fasciste che si moltiplicavano in varie parti d’Italia. Le forze liberali non riuscivano più ad esprimere un governo sufficientemente forte; socialisti e cattolici avevano una consistente rappresentanza in Parlamento, ma non entrarono a far parte delle maggioranze di governo. In questa situazione Mussolini cercava di accreditare una sua immagine di politico in grado di ripristinare l’autorità dello Stato e l’ordine sociale. Eliminò dai suoi programmi tutto ciò che poteva ancora essere ritenuto eccessivamente rivoluzionario, antimonarchico, anticlericale. Ritenne che il momento fosse propizio per un colpo di stato, e il 28 ottobre 1922, gruppi di fascisti marciarono su Roma, senza trovare alcuna resistenza. Facta, capo del governo aveva chiesto che il re firmasse lo stato d’assedio per poter disperdere i fascisti con l’impiego dell’esercito, ma il re rifiutò e anzi affidò a Mussolini l’incarico di formare il nuovo governo. Nei primi tre anni, fino al 1925, Mussolini puntò a trasformare gradualmente il modello istituzionale dello Stato italiano, cambiando l’equilibrio tra i diversi organismi e rafforzando il controllo fascista su di essi. Il Parlamento vide limitate le sue prerogative e la sua influenza sulla vita del paese; il governo, saldamente in mano ai fascisti, ampliò la sua sfera d’influenza ed estese i suoi poteri ai danni del Parlamento; nel 1922 venne costituito i Gran Consiglio del Fascismo, un organo del Partito Fascista, che però avrebbe avuto un ruolo sempre più importante nel governo del paese; nel 1923 venne istituita la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, un organismo paramilitare al dipendenze non dello Stato ma del Partito. La Milizia era chiamata a svolgere quella funzione di braccio armato della volontà del Partito che prima era stata svolta dalle squadre d’azione e che col fascismo al governo poteva essere regolarizzata; furono progressivamente limitate le libertà costituzionali di stampa, di sciopero, di associazione; con la legge Acerbo del 13 novembre 1923 fu modificato il sistema elettorale: fu abolito il sistema proporzionale e si stabilì che la forza politica che avesse superato il 25% dei voti e avesse ottenuto la maggioranza relativa, avrebbe avuto i 2/3 dei seggi in Parlamento. Il nuovo sistema elettorale fu applicato nelle elezioni tenutesi nell’aprile del 1924. La lista fascista (definita il listone) aveva ottenuto l’adesione anche di alcuni partiti liberali, mentre le forze politiche che si opponevano al fascismo non erano riusciti a trovare un accordo e si presentarono alle elezioni con diverse liste concorrenti. Ciò rendeva quasi impossibile una loro vittoria elettorale e per il sistema stabilito con la legge Acerbo le costringeva ad avere una rappresentanza molto esigua in Parlamento. Le elezioni si svolsero in un clima di violenze e intimidazioni e le squadracce riuscirono a condizionare le operazioni di voto. Nel Parlamento che si venne a formare i fascisti ebbero una schiacciante maggioranza dei seggi. Il 24 maggio del 1924 nella prima seduta della Camera dei deputati appena eletta, l’on. Matteotti, segretario del PSU (Partito Socialista Unitario guidato da Turati e separatosi dal PSI), accusò i fascisti di aver esercitato gravi pressioni e violenze durante la campagna elettorale e le operazioni di voto. Il 10 giugno l’on, Matteotti fu rapito da una squadra fascista il suo cadavere fu trovato circa 2 mesi dopo. Il rapimento dell’on. Matteotti scosse l’opinione pubblica italiana e segnò per il fascismo il più grave momento di crisi. Ci furono diverse manifestazioni di condanna dell’episodio e di indignazione nei confronti del fascismo e dei suoi metodi. Anche all’interno dello stesso partito fascista si ebbero reazioni contrastanti. Le opposizioni parlamentari (i

liberali guidati da Amendola, i socialisti di Turati e Treves, i popolari guidati da De Gasperi e i comunisti) decisero di abbandonare il Parlamento e dal 18 giungo 1924 attuarono la cosiddetta secessione dell’Aventino: intendevano in tal modo isolare il fascismo e costringerlo ad abbandonare il governo, ma tra gli aderenti alla secessione dell’Aventino c’era divisione sulle strategie politiche da adottare. Mentre i comunisti premevano perché si facesse appello alla popolazione per mobilitarla contro il fascismo, gli altri partiti politici intendevano muoversi con prudenza e nel pieno rispetto della legalità, volevano ottenere un intervento del re che preso atto della crisi liquidasse Mussolini e convocasse nuove elezioni col vecchio sistema proporzionale. In questa strategia la mobilitazione delle masse era da evitare perché avesse significato rischiare la guerra civile e suscitare reazioni negative e resistenze nel mondo industriale e nella stessa corte. Nonostante questa impostazione molto prudente adottata dai parlamentari dell’Aventino il re non prese in considerazione le circostanziate accuse contro il fascismo e decise di non intervenire. Mussolini comprese che la gravissima crisi poteva essere superata poiché gli oppositori non avevano la forza per rovesciarlo, senza l’intervento del re e che l’indignazione popolare si sarebbe attenuata col tempo. Il 3 gennaio 1925 Mussolini fece alla Camera un discorso col quale si assumeva personalmente la responsabilità “politica, morale, storica”, di quanto era accaduto. Con questo famoso discorso finì il primo periodo del fascismo al potere e iniziò la fase in cui più decisamente sarebbero state smantellate le istituzioni dello Stato liberale e sarebbe stato costruito il regime fascista. La costruzione del regime fu adottata con una serie di leggi definite fascistissime. Con le rime leggi fascstissime promulgate nel novembre del 1925 furono sciolti tutti i partiti politici ad eccezione di quello fascista e furono vietate tutte le associazione che non erano controllate dai fascisti. Nel dicembre dello stesso anno furono emanate radicali modificazioni agli ordinamenti istituzionali: il parlamento venne privato di ogni effettivo potere e al capo del governo venero attribuiti i poteri straordinari. Nel febbraio del ’26 furono abolite le autonomie locali, invece dei sindaci ci furono i podestà che non erano eletti dai cittadini ma nominati dal governo. A novembre fu istituito il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato che ebbe il compito di reperire il dissenso politico e di perseguire il oppositori del regime fascista. Tra gli strumenti adottati contro i dissidenti e gli antifascisti fu frequentemente applicato il confino di polizia. Nell’ottobre del ’25 col patto di Palazzo Vidoni erano state riconosciute come controparti esclusive nelle contrattazioni sindacali la Confederazione dell’Industria e la Confederazione delle corporazioni fasciste. Non erano più ammesse al tavolo delle trattative altri sindacati, né la CGIL della sinistra nella CIL cattolica. Le corporazioni furono le organizzazioni in cui vennero inquadrati i lavoratori ed erano controllate dallo stato fascista. Nell’aprile del ’26 vennero delineate le caratteristiche del corporativismo fascista che fu definito in maniera compiuta con a carta del lavoro (1927). Venne negata ai lavoratori la possibilità di intraprendere ogni fra di lotta sindacale. Le rappresentanze dei lavoratori e quelle degli imprenditori entrarono a far parte della Corporazione dei Produttori, all’interno della quale non potevano più esistere conflitti di classe ma solo un fine comune che doveva coincidere co i superiori interessi della nazione. Furono introdotti per leggi i contratti collettivi obbligatori e le controversie sindacali dovevano essere affrontate dalla magistratura del lavoro. I sindacati fascisti finirono per essere una forma di controllo dei lavoratori da parte dei ceti sociali più forti, uno strumento per far pesare sui lavoratori la logica di potenza dello stato fascista. Si era dato vita ad un nuovo regime: un regime a partito unico, in cui la separazione dei poteri era stata abolita e tutte le decisioni importanti erano concentrate nelle mani di un solo uomo. Un regime che si differenziava dagli antichi sistemi assolutistici perché non si accontentava di reprimere e controllare le masse ma pretendeva di inquadrarle in proprie organizzazioni.

5. LA GRANDE CRISI. ECONOMIA E SOCIETà NEGLI ANNI TRENTA Gli USA erano diventati una grande potenza economica e, in seguito la prima guerra mondiale, creditori di tutte le potenze europee: infatti ingenti capitali americani erano stati assorbiti dall’Europa, impegnata nel conflitto. La guerra aveva sconvolto i vecchi equilibri economici e finanziari. Tutti gli Stati avevano abbandonato il rapporto di cambio garantito tra la propria moneta e l’oro (gold standard) e avevano introdotto il corso forzoso delle monete, che non erano più garantite dalla possibilità di cambio con una quantità fissa d’oro. In questa situazione il loro valore di cambio poteva fluttuare ampiamente. La guerra aveva costretto i paesi europei belligeranti a sostenere un impegno economico gravoso e a contrarre debiti ingenti specie con gli USA. Gli Stati Uniti avevano dunque un ruolo centrale importantissimo nello scenario economico internazionale, ma avevano anche un sistema economico e finanziario per certi aspetti molto fragile e pieno di contraddizioni. Nel settore bancario degli Stati Uniti non esisteva un organismo centrale capace di controllare e indirizzare l’attività finanziaria secondo le linee di politica economica del governo federale; esistevano numerosissime piccole banche che agivano su aree territoriali circoscritte e non erano in grado do tener conto degli interessi finanziari generali del paese. La crescita produttiva statunitense era stata notevole per molti anni e si accentuò dopo il 1923. Crebbe la produttività (ossia la quantità di prodotti in relazione alla manodopera), crebbero i profitti degli imprenditori, che poterono perciò fare nuovi investimenti per produrre altri beni, ma non crebbero in maniera significativa i salari degli operai. Se i salari rimasero invariati il potere d’acquisto dei lavoratori non poté crescere come cresceva la quantità di beni presenti sul mercato. L’espansione produttiva avrebbe perciò trovato un freno proprio nel limitato potere d’acquisto dei

lavoratori, anche se per alcuni anni la vendita di beni di consumo fu resa possibile dai bassi tassi d’interesse che il sistema bancario americano offriva. Si sviluppò perciò il sistema delle vendite rateali; la particolare situazione dell’economia americana si ripercuoteva anche sulla Borsa Valori. Le quotazioni dei titoli di borsa aumentarono, così aumentò il volume degli scambi, cioè la quantità di titoli comprati e venduti. In una prima fase a partire dal 1924, ciò avvenne perché l’economia era in espansione; in seguito, visto che il valore delle azioni continuava a crescere, fu ancora più conveniente comprare le azioni perché il loro valore sarebbe aumentato e rivendendole si sarebbe realizzato un consistente guadagno. La crescita delle quotazioni delle azioni era così veloce e costante da convincere moltissimi cittadini americani a investire in borsa. Dal 1924 al 1929 il valore medio dei titoli azionari aumentò sempre più, ma il 29 ottobre, il “giovedì nero”, i prezzi crollarono: il crollo di Wall Street (la borsa di New York) si spiega col carattere speculativo che aveva avuto l’ascesa dei prezzi delle azioni. Tutti avevano comprato non per il valore delle aziende quotate in borsa, ma con la speranza di vendere a un prezzo più alto. Finché ci furono acquirenti disposti a comprare la crescita fu assicurata; ma appena si avvertirono i primi segni di calo dei prezzi, tutti si precipitarono a vendere e i prezzi delle azioni crollarono. Il crollo della borsa di Wall Street fu provocato dalla speculazione precedente, ma era anche legato alle condizioni dell’economia statunitense e ai rapporti commerciali e finanziari internazionali. Il crollo della borsa rese evidente quali difficoltà condizionavano l’apparato produttivo degli Stati Uniti. Molte banche entrarono in crisi per essersi esposte eccessivamente con prestiti e investimenti destinati ad acquistare titoli azionari. La crisi della borsa frenò la disponibilità a rischiare capitali in ogni genere di investimenti: ciò fece diminuire la quantità di denaro in circolazione e la vitalità del mercato nell’assorbire sia beni di consumo che d’investimento. In altre parole, diminuì la propensione a spendere; la quantità di moneta in circolazione fu infatti nettamente inferiore rispetto ai beni disponibili, perciò i prezzi dei prodotti calarono vertiginosamente fino a dimezzarsi e ciò rese meno convenienti le attività produttive che si ridussero della metà, ciò significò aumento del numero dei disoccupati e diminuzione della quantità di denaro che veniva dato come salario ai lavoratori e che poteva essere impiegato per acquisti. Si era innescata una spirale per cui il diminuito potere d’acquisto dei lavoratori aggravava la crisi, che era una crisi di sovrapproduzione. Il governo americano non riuscì a mettere in atto provvedimenti adeguati alla complessità che il sistema economico aveva raggiunto e alla gravità della crisi. Il presidente Hoover affrontò la crisi con la convinzione che il governo non dovesse intervenire nel settore dell’economia, ma dovesse lasciare agire i meccanismi spontanei di reazione che il sistema economico avrebbe liberamente fatto scattare. Il presidente repubblicano perse il sostegno elettorale dei ceti popolari, i più colpiti alla crisi e nel marzo del 1933, battuto alle elezioni presidenziali fu sostituito dal democratico Franklin Roosvelt. Roosvelt si impegnò a seguire un metodo diverso, cercò di creare un’ampia mobilitazione nel paese per risolvere i gravissimi problemi economici e si avvalse della collaborazione di un nutrito gruppo di studiosi ed esperti, costituito non solo da economisti ma anche sociologi e psicologi. La sua politica fu definita New Deal (nuovo patto o nuovo corso) perché puntava a cambiare radicalmente, col consenso della maggioranza dell’opinione pubblica, i tradizionali principi economici dell’assoluta libertà d’impresa e del rapporto tra potere politico e società. Nei primi mesi di presidenza Roosvelt adottò le principali misure volte a fronteggiare la crisi: avviò la riorganizzazione del sistema bancario (rafforzò infatti il potere dell’organismo centrale di controllo – la Federal Reserve Bank – creò un’assicurazione contro i fallimenti delle banche, riuscì a controllare la circolazione della moneta, agendo sull’espansione dei crediti); abbandonò il gold standard e poté aumentare perciò l’emissione della carta moneta; istituì la National Riserve Administration (NRA), un ente per la ripresa industriale che forniva aiuti statali a quelle industrie che si impegnavano a garantire i salari degli operai a livelli concordati e nuove assunzioni. Le industrie erano inoltre incoraggiate a stipulare accordi per sostenere i prezzi dei loro prodotti. Nel settore agricolo creò l’Agricutural Adjustement Administration (AAA) che intervenne nel settore del credito agrario agevolando il pagamento di ipoteche e debiti contratti dagli agricoltori. La AAA operò per sostenere i prezzi dei prodotti agricoli, ricorrendo anche alla distruzione di quote eccedenti dei raccolti e alla limitazione della produzione. Furono istituite agenzie federali Public Work Administration, Civil Work Administratione, Work Progress Administration che realizzarono opere pubbliche e fornirono occasioni di lavoro ai disoccupati. Realizzò progetti per il rilancio economico di intere regioni come il piano della Tennessee Valley Authority che si occupò di agricoltura, energia e industria. Accettò che il bilancio statale fosse in deficit. Le misure che Roosvelt adottò avevano lo scopo di far aumentare la circolazione di moneta e di accrescere la capacità di acquisto dei cittadini americani. Per ottenere i suoi scopi fu consapevole di dover accettare e utilizzare come strumenti di intervento economico sia un certo deficit del bilancio statale sia un certo di inflazione. Questo genere di manovra economica che considerava importanti i consumi ai fini della crescita economica aveva principi ispiratori che coincidevano con le teorie dell’economia inglese di J. Keynes. Roosvelt riuscì ad ottenere risultati soddisfacenti anche se l’economia americana non recuperò interamente i livelli di prosperità del periodo anteriore al 1929 fino alla vigilia della seconda guerra mondiale quando la spesa per armi e materiali bellici avrebbe dato nuovo slancio al sistema produttivo. Dal punto di vista politico di New Deal introdusse significativi cambiamenti. Lo stato federale assunse un ruolo completamente nuovo di regolamentazione e di controllo. Il governo federale rafforzò la sua autorità e a scapito del potere dei singoli stati. Il potere esecutivo diventò più forte e più autonomo rispetto a quello legislativo. Roosvelt ebbe il sostegno di larga

parte dell’opinione pubblica americana (fu eletto più volte alla carica di presidente) ma incontrò anche forti opposizioni soprattutto negli ambienti dell’alta finanza e in certi settori imprenditoriali. Gli veniva rimproverato d’aver favorito il rafforzamento dei sindacato, di aver attuato una politica a sostegno dell’occupazione, di aver fatto crescere il costo del lavoro, di aver fatto intervenire lo stato in economia contro i vecchi principi del liberismo economico. Roosvelt ebbe tra i suoi oppositori anche la corte suprema degli USA che esercitando il suo potere giudicò incostituzionale e annullò alcuni provvedimenti del presidente. Fu un lungo braccio di ferro provocato anche dal fatto che la corte suprema voleva contrastare l’intraprendenza e la crescita di prestigio del potere esecutivo. La crisi toccò anche paesi europei e fu particolarmente acuta in Germania la cui economia era allora molto legata all’afflusso di capitali esteri soprattutto americani. Fu molto grave anche in Italia a causa della fragilità del suo sviluppo e dell’indebitamento causato dalla guerra. Tutti gli stati cercarono di risolvere la difficile situazione economica adottando provvedimenti protezionistici ossia cercarono di impedire l’afflusso dall’estero di merci che potessero far concorrenza ai prodotti nazionali. Nei paesi europei si verificò proprio durante la grande crisi uno sviluppo di quei consumi di massa che si erano affermati in USA negli anni ’20. Grande diffusione ebbero la radio e il cinema, che divennero elementi caratteristici della società di massa: mezzi di svago, di informazione, ma anche della propaganda, essi contribuirono ad aumentare il lato spettacolare della politica. Negli anni ’20 e ’30 vennero fatte alcune scoperte scientifiche destinate a segnare la storia del XX secolo: anzitutto quella dell’energia nucleare (che avrebbe portato alla costruzione della bomba atomica). Sul piano delle applicazioni belliche della scienza, sono da ricordare anche i grandi sviluppi dell’aereonautica. Nella cultura europea si accentuarono allora di disgregazione e perdita dell’unità, tanto che nessuna delle correnti del periodo può essere assunta, da sola, come particolarmente significativa. Furono anni, per gli intellettuali, di grandi contrapposizioni ideologiche (liberalismo-comunismo,democrazia-fascismo) e di impegno politico. L’emigrazione degli intellettuali tedeschi durante il nazismo provocò un impoverimento culturale dell’Europa.

6. L’ETà DEI TOTALITARISMI Dopo la crisi del ’29 si diffuse in Europa il fenomeno della disaffezione verso la democrazia. Parallelamente si affermarono, negli anni ’30, regimi antidemocratici, sia di tipo tradizionale, sia di tipo “moderno” (cioè ispirati al fascismo e al nazismo). La novità del fascismo e del nazismo si evidenziò nel campo dell’organizzazione del potere, con quella ricerca di controllo totale sui cittadini (comune al regime staliniano) che ha fatto coniare il termine di totalitarismi. Il successo del nazismo è strettamente collegato alle conseguenze della grande crisi. Fu allora che la maggioranza dei tedeschi perse ogni fiducia nella Repubblica e nei partiti democratici e prestò ascolto in misura crescente, alla propaganda del nazismo, che prometteva il ritorno della Germania alla passata grandezza, indicando nelle sinistre e negli ebrei i responsabili delle difficoltà del paese. Hitler nell’immediato dopoguerra svolse l’attività di politica, fondando il Partito Nazionale Socialista, che all’inizio ottenne risultati trascurabili. Nel 1921 costituì le S.A. (Sturm Abteilungen, sezioni d’assalto), un’organizzazione paramilitare da impiegare contro le forze della sinistra. Nel 1923 inoltre tentò un colpo di Stato a Monaco, ma il tentativo fallì, gli autori del tentativo furono catturati e condannati a pene miti, mentre Hitler venne carcerato; proprio durante la sua detenzione scrisse il suo libro “Mein Kampf” (la mia battaglia), incentrato su un’utopia nazionalista e razzista. Una volta rilasciato nel 1925 si dedicò a riorganizzare il suo partito con un peso politico ancora molto ridotto. La travolgente crescita del nazionalsocialismo (o nazismo) è legata alla grande depressione del 1929. La crisi colpì la Germania con particolare durezza, perché la rapidissima ripresa economica, dal 1924 al 1928, era stata possibile grazie all’apporto di capitali in gran parte provenienti dagli USA, il paese che risultò più colpito dalla recessione del 1929. In Germania la crisi significò chiusura di banche e di fabbriche, fallimenti e soprattutto disoccupazione. Tanto più era cresciuto negli anni precedenti il numero degli occupati dell’industria, tanto più pesante fu la perdita di posti di lavoro dopo il 1929 (nel ’30 i disoccupati furono 5 milioni e nel ’33 6 milioni). I partiti politici più forti della Repubblica di Weimar, ossia il Partito Socialdemocratico e il Centro Cattolico, non seppero reggere all’urto della crisi economica e delle acute tensioni sociali che ne seguirono. Nelle elezioni del 1930, mentre era cancelliere il cattolico Bruning, il Partito nazionalsocialista ottenne 6 milioni di voti (il 18%), quello comunista, che si stava riorganizzando e rafforzando, ottenne 4 milioni di voti. I partiti di centro risultarono gravemente indeboliti da questa concentrazione di voti su due poli di schieramento politico, l’estrema destra nazionalsocialista e l’estrema sinistra comunista. La lotta politica e sociale si radicalizzò, gli scontri furono sempre più frequenti, le squadre armate naziste pesavano sulla scena politica con violenza e determinazione. Nelle elezioni presidenziali del 1932 fu eletto il maresciallo Hindenburg, che riuscì a superare Hitler ma con un ridotto numero di voti. Nelle successive elezioni del ’32 il Partito nazionalsocialista ottenne 230 seggi, più di ogni altra formazione politica: il nazismo era riuscito a conquistare il consenso elettorale di buona parte dei disoccupati e della piccola borghesia; aveva elettori anche tra gli operai; veniva finanziato e sostenuto anche dalla borghesia industriale e dagli agrari; incontrava le simpatie della gerarchia militare. Nel gennaio del 1933 il presidente Hindenburg affidò a Hitler l’incarico di formare il nuovo governo. Nell’arco di pochi mesi (diversamente da Mussolini che impiegò circa 4 anni) Hitler riuscì a riorganizzare il nuovo Stato tedesco, che ebbe il nome di Terzo Reich (3° Impero, dopo il Sacro Romano Impero di epoca

medievale e quello costituitosi nel 1870). Sciolto il Parlamento le elezioni furono indotte per il 5 marzo. In questo intervallo furono introdotte alcune misure per indebolire gli oppositori del nazismo: furono chiusi numerosi giornali, furono date istruzioni alla forza pubblica di non ostacolare le S.A., che intensificarono le loro azioni contro gli avversari politici. Il 27 febbraio il Palazzo del Reichstag (la camera dei rappresentanti) fu incendiato. In seguito sarebbe stata dimostrata la responsabilità dei nazisti, ma allora la colpa fu addossata all’opposizione comunista (che fu eliminata con migliaia di arresti) e fu proclamato un decreto eccezionale che sospendeva tutti i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione di Weimar (e tale sospensione non sarebbe più stata revocata). Nelle elezioni del 5 marzo, la destra egemonizzata dai nazisti, ebbe la maggioranza assoluta e nello stesso mese il paramento attribuì a Hitler i pieni poteri: ciò significava che il governo poteva promulgare leggi senza alcun controllo parlamentare. Contro l’attribuzione dei pieni poteri avevano votato solo i parlamentari socialisti che non erano stati liquidati con gli arresti o con la violenza; però vennero accusati di alto tradimento e la Spd, che era il partito operaio più forte d‘Europa, veniva annientato senza esprimere alcuna resistenza organizzata. Anche il Partito del centro cattolico si sciolse autonomamente: la Chiesa aveva stipulato un Concordato col nuovo regime, riuscendo a mantenere la propria autonomia di culto rinunciando ad ogni forma di impegno sindacale e politico. Nel maggio del 1933 le S. A. occuparono tutte le sedi sindacali e ne arrestarono i dirigenti; i sindacati furono sostituiti dal Fronte del Lavoro, un’organizzazione di tipo corporativo; tutto il mondo del lavoro fu sottoposto a radicale controllo e anche gli agricoltori furono inquadrati in corporazioni. A luglio il regime nazista mise fuori legge tutti i partiti, venne sancita l’esistenza di un unico partito, che si identificava con lo Stato. Hitler conquistò rapidamente e conservò saldamente il potere, facendo leva su una serie di spinte e esigenze presenti nella società tedesca: si era opposto, con tutta la forza delle squadre paramilitari, a una classe governativa considerata da molti tedeschi incapace di affrontare la difficile situazione economica e politica; aveva prospettato ai ceti moderati e conservatori il rapido ristabilimento dell’ordine e l’eliminazione delle conflittualità sociali; aveva enunciato principi anticapitalistici, ma aveva più concretamente attaccato ed eliminato le organizzazioni dei lavoratori; aveva esaltato le aspirazioni nazionalistiche e imperialistiche diffuse in alcuni settori della società tedesca, in particolare negli ambienti militari; era riuscito ad ottenere risultati tangibili con le misure adottate per contrastare gli effetti della grande crisi; aveva esercitato un controllo assoluto sulla forza lavoro e avevi vietato ogni forma di conflitto; aveva attuato un eccezionale piano di investimenti statali per gli armamenti e per le opere pubbliche; fu favorito anche dal consenso dato alla sua politica da parte dei ceti economicamente più forti; poté sfruttare il drastico calo dei prezzi delle materie prime sui mercati internazionali a causa della crisi. Il mito della superiorità della razza ariana è un elemento fondamentale nella teoria dello Stato nazista; l’organizzazione dello Stato aveva come fine la conservazione e l’affermazione della razza superiore. Ne derivava la legittimazione di ogni tipo di controllo da parte dello Stato nella vita dei privati, la costituzione perciò di un apparato totalitario. In questo modello di Stato viene riconosciuta una funzione determinante alla subordinazione gerarchica, ossia alla sottomissione della volontà dei singoli a quella dei superiori, in una scala di dipendenza che aveva ai suoi vertici la figura del Fhurer (Hitler, equivale al Duce). La teoria della superiorità e della purezza della razza giustificò la persecuzione contro gli ebrei, che in un primo tempo, con le leggi di Norimberga del 1935, furono esclusi dal diritto di voto, dalle cariche pubbliche, dall’esercizio delle libere professioni e del commercio. Successivamente dovettero subire la segregazione nei ghetti, le violenze, le deportazioni e lo sterminio nei campi di concentramento. Il regime seppe sfruttare le moderne tecniche di propaganda e di comunicazione per coltivare l’adesione della popolazione tedesca all’ideologia nazista. Furono sapientemente utilizzati il cinema, la radio, la stampa, totalmente controllati dal regime. Furono curate le organizzazioni giovanili, come la “gioventù hitleriana”, furono organizzate parate e adunate; fu istituito un potentissimo ministero della propaganda, affidato a Gobbels. Ogni forma di opposizione fu neutralizzata; molte personalità di spicco (Einstein, Brecht, Thomas Mann, ecc.) emigrarono per sottrarsi al regime nazista; per eliminare gli avversari del regime era stata allestita una serie di strumenti di repressione e indagine, come la Gestapo, potente polizia politica, le SS (Schutz Staffeln, squadre di difesa), i campi di concentramento. Nella notte del 3 giugno del 1934, la cosiddetta “notte dei lunghi coltelli”, le SS furono impiegate per massacrare le S.A. Il vertice del regime assicurava in tal modo il controllo assoluto su ogni settore del partito; appartenevano alle S.A. quegli esponenti del partito nazista che volevano un più radicale cambiamento della società tedesca e puntavano a una “seconda rivoluzione” destinata a eliminare il capitalismo privato. La soppressione di quest’ala sovversiva del nazismo rassicurò la borghesia capitalistica e le gerarchie militari che confermarono il loro sostegno a Hitler. Nell’agosto del 1934 morì Hinenburg e la carica di presidente venne assunta da Hitler; nelle sue mai furono concentrate le principali cariche dello Stato, furono posti sotto il suo controllo gli organismi statali e l’apparato di partito che si erano ormai integrati e fusi. Già nel corso degli anni ’20 i regimi autoritari si erano affermati in molti paesi: nell’Europa centro-orientale (Ungheria, Polonia), nei Balcani (Bulgaria, Jugoslavia) e nella penisola Iberica (Spagna e Portogallo); l’avvento del nazismo in Germania provocò un’ ulteriore diffusione di questi regimi (Austria, Grecia e Romania) e una loro radicalizzazione. Il 21 gennaio 1924 Lenin morì e divenne più aspro lo scontro fra Stalin, che dal 1922 era segretario del Partito, e Trotzkij che guidava un consistente gruppo di opposizione. Stalin sosteneva che dovesse essere

abbandonata l’idea di diffondere la rivoluzione fuori dalla Russia e occorreva dedicarsi alla costruzione del socialismo in un solo paese. Trotzkij era convinto che per consolidare il socialismo in Russia fosse necessario diffondere la rivoluzione negli altri paesi. Nel 1927 Trotzkij, perdente dallo scontro con Stalin, venne espulso dal partito e venne costretto ad abbandonare la Russia, infine ucciso nel 1940 in Messico da un sicario di Stalin. Stalin poté imporre senza problemi la sua linea d’azione: nel 1928 varò il primo piano quinquennale, col quale si concluse la NEP ed ebbe inizio la collettivizzazione dell’economia sovietica; nelle campagne fu eliminata ogni forma di proprietà privata e furono istituiti le fattorie collettive e le aziende agricole di proprietà dello Stato. I Kulaki, i contadini ricchi che si opponevano alle trasformazioni, vennero deportati o uccisi e moltissimi contadini vennero costretti a trasferirsi per colonizzare zone poco popolate o per lavorare nelle fabbriche che il paino prevedeva. Furono infatti investiti ingenti capitali per l’industrializzazione, specie per l’industria pesante che avrebbe fornito macchinari e materiali per lo sviluppo economico del paese. L’Unione sovietica divenne in poco tempo una potenza industriale. Per sostenere gli eccezionali ritmi di sviluppo si fece ampio ricorso alla propaganda che esaltava il lavoro e la produttività; di questa propaganda fece parte lo “stachanovismo”, l’esaltazione della figura di Stachanov, un minatore dalle eccezionali prestazioni lavorative. Il rigido controllo sul partito e nel paese fu mantenuto da Stalin con l’eliminazione dei suoi oppositori (es. Bucharin). Le purghe, cioè l’eliminazioni i migliaia di dirigenti e membri del partito, raggiunsero il culmine nel 1936-7. Un altro aspetto importante dello stalinismo fu il culto della personalità di Stalin, l’esaltazione della sua autorità e figura. Dopo la prima guerra mondiale in tuta Europa le organizzazioni dei lavoratori si rafforzarono enormemente e sentivano fortissimo il fascino della rivoluzione Russa. Nel marzo del 1919 venne fondata a Mosca la terza Internazionale (Komintern) che doveva essere uno strumento per la vittoria della rivoluzione comunista nei paesi capitalisti. Era diversa dalla Seconda Internazionale perché rifiutava il parlamentarismo e il riformismo, perché si poneva come obiettivo la rivoluzione secondo le tesi leniniste. Le prime iniziative hitleriane di politica estera (ritiro dalla Società delle nazioni, appoggio al tentativo dei nazisti austriaci di impadronirsi del potere) rappresentarono una minaccia all’equilibrio internazionale. A partire dal 1935 la causa della sicurezza collettiva trovò un sostegno alla nuova politica estera sovietica ispirata alla lotta al fascismo come principale nemico che incoraggiò la formazione di alleanze tra comunisti e forze socialiste e democratico-borghesi; nel 1936 governi di Fronte Popolare sorsero in Spagna e in Francia. I due paesi della Penisola Iberica già da molti anni erano rimasti in una posizione marginale rispetto ai rapporti di alleanza e ai conflitti del resto d’ Europa; la loro struttura economica era ancora fondata sulla netta prevalenza del settore agricolo con un ceto dominante di grandi proprietari terrieri (oltre il 40% del territorio era occupato dai latifondi) e solo in alcune parti si era innescato un processo di industrializzazione. In Spagna la lotta politica cedette il posto a una lunga e sanguinosa guerra civile. In questo paese agiva un forte movimento anarchico, con un suo sindacato; erano inoltre presenti le organizzazioni socialiste (partito e sindacato); si stava diffondendo un movimento democratico-repubblicano, specie nei ceti medi delle grandi città. Avevano un peso notevole anche le forti tradizioni autonomistiche che rivendicavano forme di autogoverno e di autonomia dal rigido centralismo dello stato spagnolo. Nel 1931 cadde il governo a carattere dittatoriale di Primo de Riveira e anche la monarchia venne abbattuta e il sovrano Alfonso XIII lasciò la Spagna. La Repubblica spagnola appena nata dovette affrontare una difficilissima situazione economica che provocò la crescita della disoccupazione e un’aspra opposizione politica; avviò una riforma agraria e la concessione dell’autonomia alla Catalogna ma dovette affrontare agitazioni popolari e l’opposizione dei vecchi gruppi dominanti costituiti dalla ricca proprietà agraria, dagli alti gradi dell’esercito, dalle potenti gerarchie ecclesiastiche. Il governo presieduto da repubblicano Azana non riuscì a gestire con successo la difficile situazione e nelle elezioni del 1933 prevalsero i conservatori che formarono un governo presieduto dal cattolico Gil Robles. Anche questa compagine governativa non seppe impostare una politica efficace per arginare la crisi economica. Nell’ottobre del 1934 scoppiarono moti operai nella zona delle Asturie, il cosiddetto “ottobre spagnolo” e il governo operò una sanguinosa repressione facendo intervenire i reparti dell’esercito al comando del generale Francisco Franco. In Spagna, la coalizione di centro-destra, indebolita dagli insuccessi, fu battuta, e nelle elezioni del ’36 trionfò il Fronte Popolare che era costituito dai repubblicani, dai socialisti, dai comunisti, da una parte degli anarchici. A ciò seguì una ribellione militare guidata dal generale Franco, con l’appoggio di Italia e Germania, mentre i repubblicani poterono contare solo su rifornimenti sovietici e sui reparti volontari antifascisti. La sconfitta dei repubblicani fu dovuta anche alle profonde divisioni esistenti al loro interno soprattutto fra comunisti e anarchici; nel ’39 la guerra civile terminava con la vittoria di Franco. Negli stessi anni della guerra di Spagna, la politica di arrendevolezza (appaeasement) praticata da Francia e Inghilterra nei confronti della Germania finì con l’incoraggiare la politica espansionistica del nazismo. Nel 1938 avveniva infatti l’annessione dell’Austria (Anschluss); subito dopo Hitler avanzava mire sul territorio cecoslovacco abitato dalla popolazione tedesca (sudeti). Nonostante gli accordi presi alla Conferenza di Monaco del 1938, al fine di garantire la pace, Hitler infranse gli accordi occupando la Cecoslovacchia e spianando la strada al nuovo conflitto mondiale.

7. L’ITALIA FASCISTA Nel regime fascista l’organizzazione dello Stato e quella del Partito venivano a sovrapporsi: fu la prima però (per volere di Mussolini) ad avere sempre la prevalenza, mentre la funzione del Pnf, sempre più burocratizzato, fu quella di occupare la società civile soprattutto attraverso le sue organizzazioni collaterali. Nella costruzione del regime un ruolo importante ebbe l’apparato propagandistico (cinema, radio, stampa, manifestazioni e parate) che cercò costantemente di ottenere il consenso degli italiani. A questo scopo furono molto curate le organizzazioni fasciste che raccoglievano e inquadravano i cittadini e che assunsero spesso caratteristiche paramilitari come l’Opera Nazionale Balilla. Una realizzazione del regime in campo giuridico fu l’emanazione del Codice Rocco col quale fu operata la riorganizzazione del diritto penale. Tutte le trasformazioni introdotte trasformarono radicalmente lo stato liberale: le organizzazioni del Partito erano diventate organismi dello stato e gli organi dello stato operavano anche per gli interessi e il rafforzamento del Partito. Mussolini, capo del governo, non incontrava perciò ostacoli o condizionamenti da parte di nessun organismo dello Stato e fu oggetto di esaltazione della sua persona, di culto della sua figura, di guida politica e di uomo. L’esaltazione del duce fu un preciso strumento di presa su larghi strati della società italiana. Nel 1928 viene introdotto il sistema elettorale plebiscitario che prevedeva la predisposizione da parte del Gran Consiglio del Fascismo di una lista unica di 400 candidati che gli elettori potevano approvare o respingere; scontato fu il successo per il regime. L’11 febbraio 1929 Mussolini firmò col Vaticano i Patti Lateranensi che comprendevano: un trattato fra i due stati (Regno d’Italia e Vaticano) i quali si riconoscevano reciprocamente; una convenzione finanziaria, che fissava l’ammontare del risarcimento che lo Stato italiano doveva versare alla Santa Sede per la perdita dei territori pontefici del 1870; un Concordato che regolava i rapporti fra Stato italiano e chiesa cattolica e comprendeva le clausole relative all’obbligo dell’insegnamento della dottrina cattolica nella scuola, alla validità civile del matrimonio religioso, all’esonero dei seminaristi e religiosi dal servizio militare, al divieto per i sacerdoti apostati di insegnare nelle scuole di Stato, al riconoscimento dell’Associazione Cattolica da parte dello Stato. I Patti Lateranensi posero fine alla storica questione romana e il concordato stravolgeva la tradizionale divisione tra le due sfere di influenza (stato e chiesa). Con la sottoscrizione del Concordato la chiesa cattolica ebbe la garanzia di poter svolgere una sua azione senza sottostare ai vincoli che il regime fascista aveva imposto a tutta la società italiana e poté occupare una posizione di preminenza e privilegio. Il fascismo ottenne il grande vantaggio di essere legittimato davanti alle masse cattoliche dal riconoscimento della Chiesa; anche nei rapporti internazionali fu molto avvantaggiato dal successo che le sue trattative diplomatiche avevano avuto col Vaticano. Durante la prima guerra mondiale e nel primo periodo di pace lo stato era intervenuto a regolamentare l’attività economica. Il fascismo nei primi anni di governo, invertì decisamente questa tendenza e adottò una politica nettamente liberista. Eliminò i vincoli per le imprese, procedette a sgravi fiscali, liberalizzò i movimenti di capitali dall’estero, cedette ai privati il servizio telefonico e le assicurazioni, abolì la nominatività dei titoli. In quegli anni l’economia italiana poté approfittare di una favorevole congiuntura internazionale. La crisi dei primi anni del dopoguerra era stata infatti superata e l’economia mondiale attraversava un periodo di ripresa. Gli USA erano al centro di un imponente movimento di capitali di cui beneficiavano anche gli altri paesi industriali. Gli stabilimenti produttivi erano stati riconvertiti dalle produzioni di guerra a quelle di pace; gli anni di crisi avevano favorito la concentrazione di imprese e il loro rafforzamento; nelle lavorazioni industriali era stato introdotto, con la catena di montaggio, il sistema della lavorazione in serie che assicurava l’aumento della produttività; crescevano i profitti e gli investimenti. In Italia inoltre il regime fascista eliminò ogni forma di rivendicazione sindacale e le retribuzioni dei lavoratori furono decisamente compresse. Gli investimenti aumentarono perché il costo del lavoro era basso e gli imprenditori potevano ricavare maggiori profitti e vendere i loro prodotti all’estero a prezzi più convenienti rispetto a quelli della concorrenza. Questa competitività e la favorevole situazione economica internazionale consentirono una notevole crescita delle esportazioni. Nel 1925 si manifestarono segni di cambiamento di questa situazione e ci fu una netta inversione nella politica economica del fascismo che non fu più liberista ma si propose di indirizzare e controllare l’attività produttiva e finanziaria. Il regime si impegnò nella difesa del valore della lira. In un primo tempo lo fece in maniera moderata e ancora compatibile con le condizioni dell’economia italiana, ma nel 1926 col discorso di Pesaro, Mussolini annunciò che il governo aveva deciso di rivalutare la lira rispetto all’oro e alle altre valute forti. In quegli anni veniva ancora rispettato il gold standard ossia la convertibilità della moneta in oro, garantita dall’autorità monetaria; pertanto bisognava fare in modo che non aumentassero eccessivamente le lire in circolazione. Ciò provocò una brusca deflazione, cioè una diminuzione della circolazione della moneta (e quindi i prodotti venivano venduti con maggiore difficoltà). Tale perdita fu fatta pesare sui lavoratori i cui salari furono più volte ridotti e aumentò il numero dei disoccupati. Il regime intervenne a compensare la diminuzione delle vendite fornendo finanziamenti e facendo acquistare da parte dello stato i prodotti dell’industria, soprattutto di quella pesante. Anche in agricoltura furono sentiti gli effetti della politica economica del governo; i salari furono compressi, si incoraggiò la produzione di grano e altri cereali per limitare l’importazione dall’estero. In tal modo però si scoraggiavano gli investimenti e le innovazioni produttive nella coltivazione della terra e si incentivava, grazie anche ai bassi salari, la grande proprietà latifondista e parassitaria. La grande crisi del ’29 ebbe

anche in Italia ripercussioni gravissime: la produzione industriale calò vistosamente, la disoccupazione aumentò, le difficoltà del sistema bancario sfociarono in una serie di fallimenti. Per fronteggiare la crisi furono attuati accordi e concentrazioni fra imprese, col sostegno della confederazione generale fascista dell’industria; si crearono perciò consorzi tra imprese che esercitarono un controllo di tipo monopolistico sul mercato e poterono decidere di diminuire la quantità di prodotti da destinare alla vendita e fissare i prezzi senza dover temere la concorrenza di altre imprese. La Grande Crisi aveva infatti caratteristiche deflazionistiche, ossia era provocata dall’insufficiente quantità di moneta rispetto alle merci presenti sul mercato, di conseguenza i prezzi calavano e le imprese produttive venivano gravemente danneggiate. Il sostengo ai prezzi e alle industrie in occasione della Grande Crisi in Italia aggravò vecchi difetti, ebbe infatti l’effetto negativo di rendere l’industria sempre più legata al sostengo dello Stato e di favorire l’industria pesante. Gli accordi tra le imprese non potevano essere sufficienti e lo stato intervenne direttamente per salvare banche e industrie dal fallimenti. Per attuare questo genere di interventi nel ’31 e nel ’33 furono costituito l’Istituto Mobiliare Italiano (IMI), che ebbe la funzione di finanziare le imprese con un’attività di credito che le banche stentavano a svolgere, e l’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI), che entrò in possesso di pacchetti azionari di banche e industrie. Il suo compito fu di risanare queste imprese e cederle poi ai privati. La vendita delle imprese ai privati fu attuata solo in parte e l’Ente di Stato continuò a detenere consistenti quote di proprietà di aziende. Nel 1937 l’ente divenne permanente; si realizzava così una forma sistematica di intervento dello stato nell’economia, in maniera da orientarne e controllarne più facilmente le linee di sviluppo. Lo stato italiano divenne proprietario di banche e industrie in misura maggiore di ogni altro stato europeo (a eccezione dell’URSS). Accanto alla concentrazione delle imprese private in gruppi monopolistici ci fu, quindi, la concentrazione di imprese sotto il controllo dell’Ente di Stato; la crisi economica aveva generato in Italia un sistema misto, privato e statale. La caratteristica particolare del sistema economico italiano fu la concentrazione del potere di controllo nelle mani di poche persone. Il fascismo assicurò alle imprese l’assoluto controllo della manodopera e un basso costo del lavoro. Aveva infatti eliminato ogni autonoma organizzazione dei lavoratori, che aveva poi inquadrato nelle corporazioni fasciste. I lavoratori non potevano più avanzare rivendicazioni e difenderle con azioni di sciopero, ma dovevano accettare che i loro interessi fossero subordinati alle scelte generali di politica economica del regime. Inquadrata questa strategia complessiva, il fascismo attuò nei confronti dei lavoratori una politica di assistenza e istituì enti mutualistici e pensionistici. Per contenere il consistente fenomeno della disoccupazione diede un forte impulso ai lavori pubblici, tra i quali la bonifica delle paludi pontine, interventi urbanistici a Roma, lo sviluppo della rete stradale e ferroviaria. Lo stato fascista si poneva perciò come regolatore dell’economia nazionale: tutelava i profitti dei gruppi economici dominanti, forniva assistenza ai lavoratori, cercava sbocchi occupazionali, imponeva bassi salari e vietava ogni conflitto sociale. Questo controllo sull’economia si accentuò con l’invasione dell’Etiopia e le sanzioni economiche che furono decretate dalla società delle nazioni contro l’Italia (ottobre 1935). Le sanzioni prevedevano la rottura delle relazioni economiche con l’Italia da parte delle nazioni aderenti alla Società delle Nazioni. Non furono mai applicate rigidamente, ma ebbero l’effetto di accentuare l’indirizzo autarchico che il fascismo aveva deciso di imporre all’economia italiana. Con l’autarchia si voleva realizzare nel più breve tempo possibile il massimo di autonomia nella vita economica del paese, soprattutto nel settore della difesa. Ciò significò accentuare il protezionismo nei rapporti con l’estero e intensificare l’intervento regolatore dello Stato nell’economia, anche per quanto riguardava la distribuzione delle materie prime nelle industrie e i consumi dei cittadini. Furono anche accresciuti gli sforzi per assicurare l’autosufficienza nella produzione di cereali, che aveva già precedentemente condizionato la scelta politica agraria e che nel 1925 aveva dato avvio alla cosiddetta battaglia del grano. Nell’ideologia fascista, così come si era venuta progressivamente formando, gli aspetti più importanti erano costituiti dal nazionalismo, dalla volontà di affermare la potenza all’Italia, dall’importanza attribuita alla preparazione militare, indispensabile per attuare i progetti d’espansione. Nella prima fase del fascismo al potere questi aspetti non pesarono eccessivamente sulle scelte di politica estera. Le relazioni con gli atri stati furono caratterizzate da una certa moderazione e per qualche tempo si rafforzarono i rapporti amichevoli dell’Italia con la Francia e l’Inghilterra. Ciò era facilitato dalla presenza al governo di quei paesi di forze conservatrici che giudicavano favorevolmente il regime fascista e i risultati che stava ottenendo. I rapporti con Francia e Inghilterra erano inoltre favoriti dai timori che suscitavano il riarmo e l’aggressività della Germania di Hitler. Nel 1934 Mussolini si oppose con successo al tentativo di Hitler di annettere l’Austria. In questo clima, Mussolini, rafforzato dalla credibilità di cui godeva dalle potenze occidentali, cercava di attuare la sua politica di espansione. Un’aspirazione del regime fascista fu la penetrazione nell’area dei Balcani; ma questa prospettiva si dimostrava scarsamente realizzabile a causa dell’ostilità che avrebbe suscitato negli altri stati europei e in particolare in Francia. Una seconda aspirazione fu l’espansione militare in Africa, per creare colonie di popolamento, che sarebbero servite come affermazione di forza militare e per dare sbocco alla manodopera agricola che non trovava lavoro e sufficiente sostentamento in Italia. Mussolini operò per creare le condizioni favorevoli all’impresa e raggiunse un accordo con la Francia. Nell’ottobre 1935 fu dichiarata guerra all’Etiopia, che era uno dei pochi stati indipendenti in Africa e che dal tempo del governo Crispi era stato nelle mire coloniali italiane. Nel maggio del 1936 la guerra era conclusa, Mussolini poté proclamare la costituzione dell’Impero. Ma la guerra contro

l’Etiopia ebbe l’effetto di isolare diplomaticamente l’Italia alla quale furono applicate le sanzioni della società delle nazioni per aver aggredito un altro paese membro. La guerra comportò la rottura dei rapporti con l’Inghilterra che aveva precisi interessi in Africa, mentre in Francia cambiava la maggioranza al potere, con la vittoria delle sinistre e finiva il favorevole atteggiamento francese nei confronti del regime fascista. Mussolini reagì alle inique sanzioni e all’isolamento diplomatico avvicinandosi alla Germania nazista di cui fino allora aveva diffidato, perché la considerava una pericolosa concorrente. I rapporti tra il regime fascista e nazista si intensificarono nel giro di pochi anni. Germania e Italia ad esempio inviarono consistenti aiuti alla Spagna durante la guerra civile, sotto forma di materiale bellico e di truppe. Nel 1936 i due regimi proclamarono l’asse Roma-Berlino e sancirono l’esistenza di stretti rapporti reciproci di collaborazione (Mussolini ad esempio accetto l’Anschluss al quale prima si era opposto), sottoscrivendo poi nel marzo del 1939 il Patto d’Acciaio, un’alleanza che impegnava i due paesi ad intervenire in aiuto reciproco in caso di guerra (difensiva o offensiva). Il rafforzamento dei vincoli tra i due regimi portò all’introduzione anche in Italia delle leggi razziali (1938): gli ebrei furono esclusi da scuole e uffici pubblici, furono vietati i matrimoni misti; i provvedimenti antisemiti contribuirono ad incrinare profondamente il consenso degli italiani nei confronti del regime fascista; anche la chiesa cattolica condannò i provvedimenti razziali e valutò negativamente il consolidamento tra regime nazista e fascista.

8. IL TRAMONTO DEL COLONIALISMO. L’ASIA E L’AMERICA LATINA Il contributo in uomini e materie prime dato dalle colonie inglesi e francesi durante la Grande Guerra, le suggestioni della rivoluzione russa e l’ideologia wilsoniana avevano aumentato le aspirazione all’indipendenza delle colonie europee. I movimenti indipendentisti erano stati spesso strumentalizzati durante la guerra, soprattutto in Medio Oriente, dove l’appoggio inglese al nazionalismo arabo contrastava in realtà con la contemporanea spartizione della regione tra Gran Bretagna e Francia e con il riconoscimento dei diritti del movimento soinista in Palestina. In Turchia, la sconfitta subita dall’Impero ottomano nella grande guerra suscitò un movimento di riscossa nazionale promosso dalle forze armate e guidato dal generale Mustafa Kemal. Dopo aver sconfitto la Grecia, che occupava la zona di Smirne, Kemal proclamò la Repubblica e avviò una politica di modernizzazione e laicizzazione del paese. La Gran Bretagna cercò di venire incontro ad alcune delle aspirazioni delle sue colonie: concesse l’indipendenza all’Egitto e creò con il Commonwealth, una libera associazione degli stati ad essa soggetti. Più difficile per gli inglesi fu affrontare il problema indiano, dove il movimento indipendentista si sviluppò soprattutto per opera di Gandhi; in India la Gran Bretagna alternò interventi repressivi a concessioni di autonomia. Negli anni fra le due guerre la Cina fu teatro di una lunga guerra civile. Fino alla metà degli anni ’20 il contrasto fu tra nazionalisti del Koumitang (alleati con i comunisti) e il governo centrale. Negli anni successivi si scatenò una dura lotta tra il Koumitang, alla cui testa c’era Chang kai-shek, e i comunisti. Sconfitto il governo centrale, Chang proseguì nella sua lotta contro i comunisti relegando in secondo piano il conflitto contro i giapponesi che nel ’31 avevano invaso la Maniciuria. Il Partito Comunista Cinese guidato da Mao Tse-Tung, estese la sua presenza tra i contadini e nel ’34 con la “lunga marcia” riuscì, nonostante notevoli perdite, a salvare il suo gruppo dirigente. Un accordo fra comunisti e nazionalisti in funzione antigiapponese non riuscì ad impedire di li a poco che il Giappone invadesse il pese e ne occupasse un’ampia zona, tra il 1937 e il ’39. In Giappone gli anni tra le due guerre videro un ampio sviluppo economico e l’affermarsi di una spinta imperialistica in coincidenza con lo sviluppo dei movimenti di destra e con un crescente autoritarismo del sistema politico. In America Latina la Grande Crisi ebbe conseguenze fortemente negative, ma stimolò comunque in alcuni paesi un processo di diversificazione produttiva. Sul piano politico, molti stati latino-americani videro l’affermarsi di dittature personali o di governi più o meno autoritari. In alcuni casi (Brasile, Messico e più tardi Argentina), questi regimi assunsero un indirizzo populista e godettero dell’appoggio dei lavoratori urbani.

9. LA SECONDA GUERRA MONDIALE

La guerra iniziò nel 1939 con l'invasione della Polonia da parte della Germania nazista. In risposta all'aggressione Francia e Gran Bretagna dichiararono guerra ai tedeschi e il conflitto si estese presto fino a interessare molti paesi e aree geografiche del pianeta. Più che in qualsiasi altra guerra precedente, il coinvolgimento delle nazioni partecipanti fu totale e l'evento bellico interessò in modo drammaticamente massiccio anche le popolazioni civili. La sua conclusione nel 1945 segnò l'avvento di un nuovo ordine mondiale incentrato sulle due superpotenze vincitrici, gli USA e l’URSS. Il 1° settembre 1939 la Germa nia invase la Polonia e la costrinse ad arrendersi in meno di tre settimane. Con questo fatto Francia e Gran Bretagna dichiararono l’inizio della seconda guerra mondiale. L’Unione Sovietica occupò la Polonia Orientale per poi proseguire verso altri stati ( Lituania, Lettonia, Estonia e Finlandia). Nel 1940 anche la Germania riprese l’iniziativa e occupò altri paesi (Norvegia, Danimarca, Belgio, Olanda e Francia). In questi stati i nazisti imposero governi collaborazionisti cioè fatti da persone disposte a collaborare con gli invasori. Il 10

giugno 1940, l’ Italia dichiarò guerra alla Francia e alla Gran Bretagna. La prima ormai stava crollando e l’iniziativa dell’Italia fu per lei un colpo molto duro. Mussolini aveva paura che la guerra stesse per finire e temeva di rimanere a mani vuote, ma aveva sottovalutato la forza della Gran Bretagna e non tenne conto che gli Stati Uniti potessero entrare in guerra, e questo fu un grave errore. L’esercito italiano disponeva di armamenti limitati e oltretutto arretrati. Le prime iniziative dell’Italia rivelarono subito l’insufficienza delle sue forze armate. Il tentativo di strappare Malta agli inglesi fallì. Dopo iniziali successi, anche l’ attacco contro i possedimenti inglesi dell’Africa settentrionale fu fermato. Ma il fallimento più grave fu il tentativo di invasione della Grecia. Sia in Africa che in Grecia solo l’intervento dei tedeschi consentì di riprendere la conquista. Con la sconfitta della Francia, Hitler era riuscito ad imporre il dominio tedesco sull’Europa. Restava solo la Gran Bretagna a contrastarlo; infatti il governo inglese, guidato da Winston Churchill, respinse le proposte di pace avanzate dal Furher. Vista l’impossibilità di raggiungere un accordo, Hitler decise di invadere la Gran Bretagna. Per due mesi l’aviazione britannica ( la RAF = Royal Air Force) e quella tedesca si scontrarono nella battaglia d’Inghilterra. La RAF riuscì ad infliggere pesanti perdite ai tedeschi. Perciò il 17 settembre Hitler rinunciò al progetto di invadere la Gran Bretagna. Le forze nazi-fasciste mantenevano l’iniziativa ma era ormai svanita l’idea di una guerra lampo. Nel 1941 la Germania intervenne a sostegno delle truppe italiane in Africa e nei Balcani. Ma lo sforzo maggiore dell’esercito tedesco fu l’invasione dell’ URSS. Dopo l’accordo per la spartizione della Polonia, Hitler aveva deciso di tornare al suo programma iniziale: conquista di spazio vitale ai danni dell’Unione Sovietica e distruzione dello Stato comunista. Il 22 giugno 1941 iniziò l’invasione, seguendo il cosiddetto “piano Barbarossa”, che prevedeva il rapido annientamento di ogni resistenza sovietica. Il 7 dicembre 1941 un inatteso intervento causò una svolta decisiva nella guerra. Il Giappone attaccò e distrusse quasi metà della flotta degli Stati Uniti nel porto di Pearl Harbour. Gli Stati Uniti e l’Inghilterra dichiararono guerra al Giappone. Nel giro di pochi mesi i giapponesi riuscirono ad occupare vastissimi territori. Dopo l’iniziale sorpresa, però, gli Stati Uniti riuscirono a rovesciare la situazione. Un generale inglese ottenne l'importante vittoria di El Alamein che costrinse gli italo- tedeschi ad abbandonare l Africa. L’armata rossa, intanto aveva bloccato un imponente attacco tedesco. Infine, con la lunga battaglia di Stalingrado, i sovietici riuscirono a sconfiggere i nazifascisti. L’armata tedesca e il corpo di spedizione italiano furono costretti a ritirarsi disordinatamente. Dopo la vittoria in Africa, le forze anglo- americane ( gli Alleati) controllavano il Mediterraneo. Così, nel 1943 gli Alleati sbarcarono in Sicilia. Essi venivano accolti dalla popolazione come dei liberatori. Gli italiani volevano la fine della guerra ma erano anche stanchi del fascismo. Nel marzo 1943 vi furono molti scioperi operai contro il di esso. Di fronte a questa situazione il Gran Consiglio del Fascismo votò la sfiducia a Mussolini (25 luglio 1943). Lo stesso giorno il re informò il duce che aveva affidato l’incarico di formare un nuovo governo al maresciallo Pietro Badoglio. Subito dopo Mussolini venne arrestato. Il nuovo 1° ministro fir mò a Cassibile ( in Sicilia) l’armistizio con gli Alleati. Quest’ultimo venne reso noto l’ 8 settembre. Ma nessuno diede al popolo e all’esercito le indicazione per affrontare la nuova situazione. I tedeschi occuparono l’Italia centrale e settentrionale e il 12 settembre liberarono Mussolini. Hitler consentì al duce di fondare nel nord la Repubblica sociale italiana, con sede a Salò. Ora l’Italia era divisa in due: Il centro nord sotto la repubblica di Salò e il sud dove sopravviveva il Regno d’Italia. Gli Alleati il 6 giugno 1944, prendevano terra in Normandia con la più grande flotta da sbarco, così che i tedeschi dovettero ritirarsi. Alla metà di settembre la Francia era completamente liberata. Ad est, intanto, la Germania doveva subire una forte controffensiva russa. Nel 1945 la sorte della Germania appariva segnata. Il 30 settembre Hitler si tolse la vita. Nella Berlino occupata dai Russi, il 7 Maggio 1945 l’ammiraglio Donitz firmava la resa senza condizioni della Germania. L’Italia era stata liberata pochi giorni prima, il 25 aprile 1945. La resa del Giappone avvenne solo dopo che due bombe atomiche avevano distrutto le città di Hiroshima e Nagasaki. Il 2 settembre 1945 però anche lui firmò la resa. La seconda guerra mondiale si chiudeva con 50 milioni di morti.

10. IL MONDO DIVISO / DISTENSIONE ECONFORNTO

La fine della seconda guerra mondiale era attesa come il momento per realizzare le aspettative di rinnovamento e di pace, coltivati negli anni della lotta contro il fascismo e contro il nazismo. Con la fine della guerra si sviluppò però la competizione tra Usa e Urss per l’egemonia negli equilibri internazionali. Nel corso del conflitto le due potenze si erano guadagnate un grandissimo prestigio e un ruolo di supremazia su tutti gli altri stati. Avevano combattuto contro comuni nemici, ma ben presto tra loro si verificarono contrasti, non solo per l’aspirazione di entrambe a prevalere, ma anche per la radicale diversità dei due sistemi politici: capitalista il sistema americano, comunista quello sovietico. Per scongiurare il rischio di una nuova guerra tra le due potenze era stata delineata una divisione delle rispettive aree di influenza, nel corso di conferenze internazionali, tra cui Yalta (febbraio 1945) e Potsdam (luglio 1945). Fu inoltre creata un’organizzazione internazionale l’ONU che doveva operare il mantenimento della pace. Questo organismo fu costituito nel giungo del 1945 nella conferenza di San Francisco e vi aderirono 50 stati. Al suo interno funzionava un consiglio di sicurezza, composto da 11 paesi membri, di cui 5 (Usa, Urss, Inghilterra, Francia e Cina),

godevano del diritto di veto sulle attività di organizzazione. Nel 1946 si tenne la conferenza di Parigi, che si concluse con la stipulazione dei trattati di Pace. Dopo quegli incontri per lungo tempo non ci sarebbero state occasioni di dialogo fra Stati Uniti e l’Unione Sovietica e sarebbe prevalsa la netta avversione fra le due superpotenze. A loro fianco si sarebbero schierati altri stati a formare un assetto internazionale bipolare, ossia orientato sui due poli contrapposti. Nel marzo del 1947 il presidente americano Truman assicurò il sostegno degli Usa ai paesi minacciati dal comunismo. Nello stesso periodo venne predisposto un piano di aiuti economici, per l’Europa, il piano Marshall che fornì finanziamenti per la ricostruzione e in tal modo avvantaggiò all’interno dei paesi europei le forze politiche più legate gli Stati Uniti. L’Unione Sovietica denunciò questa forma di interferenza americana nella politica degli stati europei e puntò a sua volta a costituire un blocco comunista per fronteggiare il blocco occidentale filoamericano. Anche la ricostituzione dell’organizzazione che riuniva i partiti comunisti europei, il Kominform, nel 1947, contribuì a rafforzare il blocco sovietico. La creazione del fondo monetario internazionale e della banca mondiale (1944), gli accordi commerciali Gatt (1947), il primato del dollaro come valuta internazionale, furono gli strumenti della ripresa economica occidentale. La grande alleanza fra le potenze vincitrici aveva cominciato ad incrinarsi già prima della fine della guerra, in relazione al problema del futuro della Germania e al controllo dell’Urss sui paesi dell’Europa orientale. La conferenza della pace di Parigi lasciò irrisolto il problema tedesco. Nel 1946-7 i contrasti fra le due superpotenze si accentuarono dando inizio a quella contrapposizione fra i due blocchi che fu definita guerra fredda. La maggiore tensione si ebbe nel 1948-9, quando i sovietici chiusero gli accessi a Berlino; questa crisi si risolse nella nascita della Repubblica Federale tedesca (che inglobava le zone sotto il controllo di americani, inglesi e francesi), cui l’URSS rispose con la creazione della repubblica democratica tedesca. Il Patto Atlantico del 1949 e il Patto di Varsavia del 1955 completarono la divisione dell’Europa in due blocchi. In Urss si ebbe nel dopoguerra un’accentuazione dei caratteri autoritari del regime. La ricostruzione economica avvenne rapidamente, privilegiando l’industria pesante e comprimenti dei consumi della popolazione. All’interno dell’URSS il potere era saldamente in mano a Stalin, la cui popolarità era enormemente cresciuta con la guerra, nella quale l’Unione Sovietica aveva pagato un prezzo elevatissimo in vite umane e in perdite economiche, ma era riuscita a riconquistare e ampliare il territorio nazionale e a rafforzare il suo prestigio internazionale. Dopo la vittoria occorreva porre rimedio alle devastazioni e riattivare il sistema produttivo. I progressi in tal senso furono rapidissimi, ma furono accompagnati da un irrigidimento autoritario e poliziesco del regime. Nel marzo del 1946 venne varato il quarto piano quinquennale che assegnava agli investimenti produttivi una quota altissima del reddito nazionale e privilegiava lo sviluppo dell’industria pesante. Una consistente quota di investimenti fu riservata al potenziamento degli armamenti, a causa dell’aggravarsi della situazione col blocco occidentale. L’Unione Sovietica si preoccupò dell’accerchiamento da parte del blocco capitalista e reagì con una strategia fondata: sull’instaurazione dei regimi comunisti filo-sovietici negli stati posti lungo i confini occidentali; sul rafforzamento del ruolo guida del movimento comunista internazionale e dei suoi rapporti con i partiti comunisti nei paesi capitalisti; sul sostegno dei movimenti di liberazione dei territori coloniali. Nel 1947 furono create nell’Europa orientale le democrazie popolari a egemonia comunista. Nel settembre del 1947 fu creato il Kominform, un organismo che sostituiva l’Internazionale comunista e a cui aderirono i partiti comunisti di Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia, Bulgaria, Jugoslavia, Urss, Italia, Francia. L’affermazione dell’egemonia comunista nei paesi dell’Europa orientale incontrò in qualche caso particolari resistenze. In Cecoslovacchia si verificò un contrasto molto duro tra comunisti e fautori del mantenimento della democrazia parlamentare. Il regime comunista fu instaurato solo dopo un colpo di stato. In Jugoslavia il maresciallo Tito, che aveva guidato la lotta partigiana alla fine della guerra era riuscito a proclamare una repubblica federale di tipo comunista ma con caratteristiche di autonomia rispetto al modello guida dello stato sovietico. Questa ricerca di una via nazionale al socialismo provocò la reazione di Stalin e nel 1948 l’espulsione della Jugoslavia dal Kominform. La guerra di Corea del 1950 (originata dall’invasione del Sud del paese da parte delle truppe del Nord comunista appoggiate dai sovietici. All’intervento americano contro l’invasione rispose quello cinese, finché la crisi coreana si concluse nel 1953 col ritorno alla situazione precedente la guerra), fu il momento più acuto di crisi fra blocco occidentale comunista. Da allora la pace fu assicurata dalla consapevolezza che una guerra avrebbe provocato la distruzione reciproca, visto che dal 1949 anche l’Unione Sovietica si era dotata della bomba atomica. Questa consapevolezza, su cui si resse il cosiddetto equilibrio del terrore, spinse le due superpotenze a rafforzare le proprie posizioni sul piano militare, con la cosiddetta corsa la riarmo; ad evitare scontri diretti; a superare la tensione tra i due blocchi cercando di intensificare e rendere più produttivi i contatti diplomatici. In Unione Sovietica, l’avvenimento che segnò l’inizio del cambiamenti fu la morte di Stalin nel 1953. In politica interna comportò una certa attenuazione del rigido centralismo, dell’esasperato controllo burocratico e poliziesco; in politica estera un maggiore impegno per la distensione. Questa volontà di cambiamento nei rapporti internazionali non significò tolleranza da parte del’URSS anche nei confronti delle spinte all’autonomia che si manifestarono in alcuni paesi dl blocco sovietico. Nel 1956

Nikita Kruscev, segretario del Partito Comunista, in occasione del XX congresso del PCUS denunciò i metodi adottati da Stalin e indicò nello stalinismo e nel culto della personalità di Stalin una grande degenerazione autoritaria del comunismo. La relazione di Kruscev ebbe enorme risonanza e fu accompagnata dall’avvio di un programma economico che cominciava a dare un certo spazio allo sviluppo dell’industria leggera per la produzione di beni di consumo e dell’agricoltura per il miglioramento del tenore di vita dei cittadini sovietici. Nel 1956 in Ungheria scoppiò una rivolta contro il regime comunista di stampo stalinista. Il nuovo governo nato dalla rivolta fu composto anche da esponenti non comunisti e si dichiarò intenzionato ad abbandonare il Patto di Varsavia. Le truppe dell’Unione Sovietica e degli altri paesi del blocco comunista invasero l’Ungheria e imposero nuovamente un regime filosovietico guidato da J. Kadar. Anche in Polonia una rivolta operai venne repressa militarmente ma consentì di sostituire i dirigenti stalinisti col moderato Komulca. Le rivolte all’interno del blocco comunista e i contrasti con la Cina ostacolarono la strategia della distensione di Kruscev ma non riuscirono a bloccarla. Kruscev era convinto che si dovesse realizzare la coesistenza pacifica e che la competizione tra il sistema capitalista e il sistema comunista dovesse limitarsi ad obiettivi legati allo sviluppo scientifico ed economico (nel 1957 i sovietici misero in orbita il primo satellite artificiale, lo sputinik; nel 1961 lanciarono il primo astronauta). Kruscev nella sua azione a favore della coesistenza pacifica si incontrò nel 1961 col presidente americano Kennedy ma questo impegno per la distensione non fu sempre lineare. Nel 1961 i sovietici costruirono in muro di Berlino che sancì la divisione di due settori della città. Nel 1962 l’URSS tentò di installare i missili nucleari a Cuba ma andò incontro alla reazione molto decisa degli USA e dovette desistere. Ancora una volta si era fatto molto concreto il rischio di un conflitto tra le due superpotenze. Questo incidente servì però a rilanciare il dialogo e l’impegno comune per evitare il pericolo di una nuova guerra. La politica di coesistenza pacifica dell’Unione Sovietica fu uno dei motivi di contrasto con la Cina che accusò i dirigenti sovietici di revisionismo, per il dialogo avviato con le potenze capitaliste; una seconda accusa riguardava l’atteggiamento imperialista dell’URSS nei confronti degli altri paesi comunisti e dei popoli del 3° mondo. Il contrasto con la Cin a si sarebbe aggravato col tempo fino a dar luogo a scontri armati lungo la frontiera del fiume Ussuri nel 1965. Nel ’64 gli oppositori di Kruscev riuscirono ad ottenerne la destituzione. Gli subentrò una direzione collegiale costituita da Breznev. La distenzione di Kruscev fu probabilmente resa possibile dai suoi insuccessi nel rilancio dell’agricoltura e dell’industria leggera produttiva di beni di consumo, dall’aggravarsi del contrasto con la Cina e dal fallito tentativo di Cuba. I nuovi dirigenti sovietici concessero maggiore autonomia ai enti di produzione economica attenuando il rigido controllo burocratico, favorirono gli scambi economici con l’occidente, repressero con rinnovata intransigenza ogni forma di dissenso interno. In politica estera dovettero affrontare l’aggravarsi del contrasto con la Cina, non interruppero i contatti con gli USA e le altre democrazie capitaliste, mantennero un rigido controllo sui paesi comunisti dell’Europa orientale; nel 1968 intervennero militarmente in Cecoslovacchia col nuovo corso politico guidato da Dubcek. In Cecoslovacchia erano stati infatti avviati un processo di democratizzazione dalla vita politica e la costruzione di un sistema socialista detto “dal volto umano”. I dirigenti sovietici degli altri paesi del Patto di Varsavia considerarono l’esperienza Cecoslovacca minacciosa per la stabilità dell’area comunista e con l’invio di contingenti armati collocarono al potere un gruppo dirigente cecoslovacco più affidabile. L’intervento armato contro quella che fu definita la “primavera di Praga” fu giustificata da Brenzev con l’enunciazione della dottrina della “sovranità limitata”. In base a questa dottrina la sovranità di un paese comunista poteva essere violata dagli atri stati comunisti qualora ci fossero rischi di sovvertimenti del regime e di vittoria da parte di forze anticomuniste. In Polonia la tendenza al rinnovamento e all’autonomia di Mosca assunse caratteristiche particolari a causa della presenza di una Chiesa cattolica che continuava ad avere un largo seguito. La crisi economica che incise sul tenore di vita dei lavoratori polacchi fu un ulteriore spinta al cambiamento. Il sindacato autonomo di Solidarnosc si rafforzò, ciò fu indubbiamente un grave motivo di crisi per l’ordinamento politico polacco e nel 1981 col favore dell’URSS il potere passò nelle mani dell’esercito e del suo comandante generale Jaruzeleski. Fermenti e dissensi continuarono a manifestarsi nei paesi comunisti ma furono particolarmente vivi all’interno dei partiti comunisti dei paesi occidentali. D’altra parte la netta divisione del mondo in due blocchi chiaramente distinti e al loro interno compatti si avvia ad essere superata. In Unione Sovietica con l’assunzione del potere da parte di Gorbaciov sembra essersi innescato un radicale rinnovamento che dovrebbe risolvere molti degli annosi problemi interni e dare sicurezza e stabilità agli equilibri internazionali. Anche nella Germania orientale occupata dai sovietici nacque uno stato comunista, la repubblica democratica tedesca, mentre nella Germani occidentale si costituì la repubblica federale con istituzioni politiche di tipo parlamentare. In tal modo si sancì la divisione politica della Germania. Nel 1949 nacque il Comecon, il consiglio di mutua assistenza economica, cui aderirono l’Urss e le democrazie popolari dell’Europa orientale; aveva come scopo l’integrazione dell’economia dei paesi membri e la cui esistenza fu condizionata fin dagli inizi da sistema produttivo e finanziario sovietico. Gli Stati Uniti alla fine della guerra erano la più grande potenza economica del mondo. Si avviavano ad esercitare un ruolo egemonico nell’Europa occidentale, dove le grandi potenze di un tempo non potevano vantare un potenziale economico e una forza politica altrettanto grandi. Gli Stati Uniti erano naturalmente orientati a svolgere un ruolo analogo anche nell’area dell’Oceano Pacifico, essendo venuta meno la

concorrenza dello sconfitto Giappone. Il predominio statunitense era fondato sul meccanismo dell’economia e della finanza, puntava a controllare mercati e aree di approvvigionamento di materie prime; uno strumento importante di questo ruolo egemone fu fornito agli Usa dagli accordi Bretton Woods (1944). Quegli accordi delinearono un sistema monetario stabile dopo gli anni di instabilità e disordini successivi alla grande crisi del 1929. Il ruolo centrale fu affidato agli USA (prima della crisi era stato ricoperto dalla Gran Bretagna). L’area comunista dell’Europa Orientale restò nettamente separata e nessun paese entrò a far parte del sistema monetario centrato sul dollaro. Gli Stati Uniti erano interessati alla ripresa degli scambi internazionali, perché ciò avrebbe creato mercati più produttivi per il loro sistema produttivo. Erano quindi interessati ala ricostruzione delle economie degli stati che avevano partecipato alla guerra; per aiutare la ripresa nel 1947 elaborarono il Paino Marshall che fornì aiuti economici ai paesi amici; a causa della contrapposizione col blocco sovietico quegli aiuti economici servirono come strumento di pressione politica per il mantenimento di orientamenti filoamericani nei paesi interessati. L’aumento della tensione fra i due blocchi provocò la corsa agli armamenti e la costituzione di arsenali atomici. Per gli USA come per l’URSS la guerra fredda significò massicci investimenti statali nell’industria degli armamenti. Gli stati Uniti nel confronto col blocco sovietico si mossero su 3 direttrici principali: sostennero con aiuti militari le formazioni che erano impegnate nella lotta contro i comunisti (Grecia o Cina); costituirono alleanze militari: nel 1949 venne siglato il Patto Atlantico, da cui dipende la Nato, tra USA, Canada, Gran Bretagna, Francia, Italia, Benelux, Islanda, Danimarca, Norvegia, Portogallo, cui si aggiunsero più tardi Grecia e Turchia e poi la Germania federale.; cercarono di instaurare rapporti con i movimenti di indipendenza e i territori coloniali per sottrarli all’influenza comunista e per cogliere ogni possibilità di intervento economico. Gli USA evitarono di adottare il vecchio modello di colonialismo (forme di dominazione diretta dei territori), esercitarono invece una grande influenza politica, coordinata con una forte pressione economica (neocolonialismo). La creazione di una vasta area all’interno della quale fu assicurata la circolazione di mezzi capitali (esaltazione del principio del liberismo economico) e furono garantiti stabilità e ordini nei cambi monetari, provocò la crescita negli scambi e delle economie dei paesi occidentali (che significò anche l’accrescimento del potere economico e dell’influenza degli USA). Gli Stati Uniti assunsero come missione la difesa dei valori della società capitalistica, fondata sulla democrazia e sulla libera iniziativa finalizzata allo sviluppo economico e al conseguimento del benessere individuale. Tutto ciò non solo condizionò le scelte di politica estera, ma fece anche scattare all’interno degli USA un clima violentemente anticomunista, che culminò nel Maccartismo (un movimento di cui fu ispiratore il senatore McCarthy) e comportò la persecuzione di tutti coloro che erano sospettati di simpatie per il comunismo. Nelle elezioni del 1960 gli USA scelsero come presidente J. F. Kennedy, del partito democratico. Il suo programma, definito della “Nuova frontiera”, indicava una serie di mete da raggiungere per costruire una società più giusta e la pace nel mondo. Il confronto con L’URSS doveva essere sostenuto sul terreno della ricerca scientifica e dello sviluppo economico raccogliendo così la sfida di Kruscev. Gli anni della presidenza di Kennedy furono un periodo di rinnovamento, di impegno per il miglioramento dei ceti più disagiati, di sviluppo economico e scientifico. Il 23 novembre 1963 Kennedy venne assassinato a Dallas e gli successe Jhonson che intese continuare l’opera avviata, e col progetto della “grande società”, si propose la realizzazione di riforme sociali. Dovette però affrontare le manifestazioni della contestazione giovanile e la protesta dei neri; ma la difficoltà più seria fu il coinvolgimento degli Usa nella guerra del Vietnam, che incontrò l’opposizione di buona parte dell’opinione pubblica. Nel 1968 gli succede Nixon, la cui carriera presidenziale venne stroncata dalla crisi del Watergate (fu scoperto che Nixon era coinvolto in un caso di spionaggio politico a danni del partito democratico, suo avversario, e fu costretto a dimettersi). Nelle elezioni presidenziali del 1980 vinse Ronald Regan il cui programma politico prevedeva la massima fermezza nei confronti degli avversare esterni, l’applicazione dei principi del liberismo per favorire la ripresa economica, la riduzione delle spese di tipo assistenziale, la difesa del valore del dollaro e l’incremento per gli investimenti degli armamenti. L’Europa occidentale invece fu attraversata da una forte spinta riformista. Il caso più emblematico fu quello dell’Inghilterra dove nel 1945-51 i laburisti attuarono un vasto programma di riforme sociali che segnava la nascita del Welfare State. In Francia, dove nel 1946 fu varata una nuova costituzione democratico-parlamentare (IV repubblica), la coalizione fra i partiti di massa resse fino al 1947, quando i comunisti furono esclusi dal governo. Grazie anche agli aiuti americani, la Germania federale si risollevò rapidamente dalle disastrose condizioni della fine della guerra e fu protagonista di un vero miracolo economico. Un altro miracolo economico fu quello del Giappone dove gli Stati Uniti imposero una trasformazione in senso democratico parlamentare senza tuttavia intaccare il potere delle grandi concentrazioni industriali. Negli anni successivi il Giappone si affermò come una delle maggiori potenze economiche mondiali. La vittoria dei comunisti sui nazionalisti e la fondazione della repubblica popolare cinese (1949) segnarono la nascita della Cina come stato indipendente e insieme un allargamento del campo socialista. Negli anni ’50 e ’60 mentre l’economia britannica visse un prolungato ristagno, in tutti i paesi dell’Europa occidentale si verificò una crescita economica sostenuta. Rapida fu soprattutto la ripresa della Gemrania favorita anche da una notevole stabilità politica. Il definitivo ridimensionamento politico dell’Europa, conseguenza del conflitto mondiale, favorì l’integrazione economica dei vari stati, dapprima con la comunità europea del carbone e

dell’acciaio (CECA), poi con l’istituzione nel 1957 della Comunità Economica europea (CEE). La Francia attraversò negli anni ’50 una grave crisi istituzionale legata al problema algerino. Nel 1958 De Gaulle assunse la guida del governo varando una nuova costituzione (con cui nasceva la V repubblica) e concedendo l’indipendenza all’Algeria. In politica estera De Gaulle seguì una politica finalizzata alla creazione di un’Europa indipendente dai due blocchi ed egemonizzata dalla Francia.

11. LA DECOLONIZZAIZONE DEL TERZO MONDO La seconda guerra mondiale sancì la definitiva crisi del colonialismo e l’affermazione a livello internazionale del principio di autodeterminazione. La decolonizzazione fu il processo attraverso il quale i popoli dei territori coloniali si liberarono dal dominio esercitato dagli stati coloniali europei. Ciò avvenne soprattutto nel periodo compreso tra il 1945 e il 1965 e le motivazioni furono molteplici: il dominio coloniale risultava in contraddizione col principio di autodeterminazione dei popoli che era stato considerato uno dei motivi della lotta contro la dittatura nazifascista e che era contemplato dalla Carta atlantica; le potenze coloniali europee non sembravano più in grado di esercitare forme di predominio in diverse e vaste aree mondiali in un periodo in cui si erano affacciate sulla scena politica internazionale le due superpotenze USA e URSS con la loro ferma intenzione di imporre la loro egemonia; i movimenti di indipendenza avevano acceso focolai di lotta, nelle colonie gli stati coloniali non potevano sostenere lo sforzo militare finanziario necessario per mantenervi il loro dominio; USA e URSS non avevano possedimenti coloniali; Gli stati uniti puntavano ad instaurare forme di influenza economica e politica nei territori coloniali, il cosiddetto neocolonialismo, per questo consideravano con favore i movimenti per l’indipendenza e l’estromissione delle vecchie potenze coloniali; l’Unione Sovietica sosteneva con decisione i movimenti d’indipendenza per contrastare il predominio degli stati coloniali europei e per arginare l’espansione dell’area d’influenza statunitense. Nel paesi arabi si erano manifestate spinte per l’indipendenza già prima della guerra, spinte che si rafforzarono notevolmente durante il conflitto e con la conclusione della pace. Una situazione particolare si verificò in Palestina, dove gli ebrei intendevano costituire lo Stato d’Israele, mentre gli arabi si opponevano nettamente. Nel 1947 l’ONU, investita della questione, si pronunciò per una spartizione del territorio palestinese tra arabi ed ebrei. La tensione continuò a crescere e nel ’48 provocò una guerra che si concluse con la vittoria dello stato d’Israele; molti palestinesi si rifugiarono nei paesi arabi vicini, sistemati in campi profughi. In Egitto, nel 1952, un colpo di stato organizzato da generali dell’esercito (tra cui Nesser che sarebbe andato al potere nel 1954) rovesciò il regime del re Faruk. Il nuovo regime avviò una serie di significative riforme e decise di nazionalizzare il canale di Suez (1946). Ciò provocò una guerra arabo israeliana, con l’aperto sostegno di Francia e Inghilterra a Israele. La guerra cessò per la pressione di Usa e URSS che fecero sui contendenti. Il prestigio di Nasser nel mondo arabo uscì accresciuto in Israele. Nel giungo del 1967, il governo israeliano, con la guerra detta dei “sei giorni”, volle rendere strategicamente più sicura la situazione. Invase il Sinai egiziano sino alla sponda orientale del canale di Suez, occupò a est la Cisgiordania, fino alla riva occidentale del fiume Giordano, si installò sulle alture del Golan in territorio siriano. Con la guerra dei “sei giorni” Israele dimostrò la sua schiacciante superiorità militare. Nel mondo arabo crebbe il desiderio di rivincita e tra i palestinesi sorsero organizzazioni che avevano come scopo la guerra contro Israele. La più importante di queste è l’OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), guidata da Yasser Arafat. Nel 1973 la Siria, alleata con l’Egitto, attaccò Israele durante la festa di Kippur e riuscì a recuperare parte dei territori persi durante la guerra dei “sei giorni”. I paesi arabi produttori di petrolio sostennero la lotta decretando l’embargo petrolifero nei confronti di tutti i paesi filoisraeliani. Il prezzo del petrolio crebbe rapidamente e le economie dei paesi occidentali ne furono sconvolte. Fu evidente però la capacità di resistenza di Israele, tanto che il presidente egiziano Sadat (succeduto a Nasser) accettò di trattare con la mediazione degli Usa. Con Gli accordi di Camp David nel 1979 furono ristabilite le relazioni diplomatiche fra Egitto e Israele; gli altri paesi arabi mantennero invece il loro rifiuto di riconoscere lo stato ebraico. Altri motivi di crisi scossero il mondo arabo: nel 1975 iniziò in Libano una devastante guerra civile tra le diverse fazioni religiose musulmane e cristiane; nel 1979 in Iran fu abbattuto il regime dello scià e il potere fu esercitato dagli ayatollah, sotto la guida di Koehini. Il problema dei profughi palestinesi continuava intanto a pesare con tutta al sua drammaticità. Più volte si verificarono massacri nei campi profughi non solo ad opera degli israeliani ma anche di gruppi e paesi arabi. Il riconoscimento di Israele e l’avvio di trattative si profilano come la strada obbligata per la soluzione della questione palestinese. Il conflitto in Medio Oriente è stato scatenato dalla nascita dello Stato d’Israele, ma altre cause vanno ricercate nella politica francese e inglese negli anni del loro dominio coloniale sulla zona, nei contrasti che agitano il mondo islamico, negli interessi strategici delle due superpotenze, che agiscono tramite i loro alleati in quell’area, senza arrivare allo scontro diretto. Tunisia e Marocco ebbero l’indipendenza dal dominio francese nel 1956. Molto più difficile era la situazione dell’Algeria dove si erano insediati numerosi coloni francesi che costituirono un freno alla concessione dell’indipendenza. Nel ’54 iniziò la lotta armata degli arabi algerini guidati da Dan Bella. Le ripercussioni della guerra algerina misero in crisi la IV Repubblica; il conflitto si concluse nel 1962 con la conquista algerina dell’indipendenza. La decolonizzazione dei territori africani si concluse negli anni ’60, ad eccezione dei

possedimenti portoghesi (Angola, Mozambico), che acquistarono l’indipendenza nel 1975, in seguito alla rivoluzione che in Portogallo abbatté il governo fascista nel 1974. Gli stati coloniali europei riuscirono molto spesso ad avere buoni rapporti economici con le ex colonie, esercitando anche una certa influenza politica. Ciò avvenne nel Congo, ex colonia belga, nel 1960 divenuta repubblica dello Zaire con un governo di tendenza socialista. Potenti multinazionali, che rischiavano di perdere il controllo economico delle ricchissime miniere del Katanga, organizzarono la secessione di quella regione della repubblica dello Zaire. Gli scontri fornirono il pretesto per il ritorno delle truppe belghe. Nel 1961 Lumumba, capo del governo dello Zaire, fu ucciso dai secessionisti. Il segretario dell’ONU, che era intervenuta nelle vicende congolesi, morì in uno strano incidente aereo. L’esercito katanghese fu fermato nel 1965 dalla truppe dell’ONU; si instaurò una dittatura militare che nazionalizzò i beni delle società belga ma mantenne la Repubblica dello Zaire nell’area dell’Occidente capitalista. I nuovi stati indipendenti, anche se in forme e in durate diverse, dovettero subire la dipendenza economica degli stati industrializzati, il cosiddetto neocolonialismo. Subirono anche l’egemonia delle grandi potenze e furono speso inglobati nei due blocchi contrapposti, il sovietico e l’occidentale. Tutto ciò dipese anche dalla pesante eredità che era stata costruita negli anni dello sfruttamento coloniale e che comprendeva: la mancata formazione di una classe dirigente locale; le divisioni derivanti dai contrasti tribali; problemi del sottosviluppo (analfabetismo, arretratezza tecnologica, carenze nelle strutture amministrative e nei servizi). In india il movimento indipendentista era notevolmente cresciuto sotto la guida di Gandhi che predicava la non violenza e proponeva come strumenti di azione la resistenza passiva e la disubbidienza civile. Esisteva però un profondo contrasto tra gli abitanti musulmani e indù dell’India. Nel 1947 i territori indiani diventarono indipendenti e si costituirono in due stati: India (a maggioranza indù) e Pakistan (a maggioranza musulmana); ci furono comunque sanguinosi scontri e in questo clima di tensione nel 1948 lo stesso Ganhi fu ucciso. I territori indiani non riuscirono ad avviare in tempi rapidi forme di sviluppo economico che risolvesse la situazione di arretratezza e povertà del periodo coloniale, mentre altri paesi asiatici come la Cina e il Giappone ebbero ritmi di crescita di gran lunga più veloci. Nel 1971 il Pakistan orientale divenne indipendente col nome di Bangla Desh. In Asia una potente spinta alla decolonizzazione era venuta dalla distruzione delle vecchie strutture coloniali, fatta dal Giappone col suo dominio nel corso del conflitto. L’Indonesia dichiarò la propria indipendenza nel 1945; gli olandesi tentarono di ripristinare il loro dominio con le armi ma fallirono e nel ’49 dovettero riconoscere la costituzione della repubblica indonesiana. Anche la Francia fu costretta a ritirarsi dai suoi domini in Indocina, dopo la sconfitta subita dalla guerriglia condotta dalle forze vietnamite appoggiate dalla Cina e dall’URSS. I paesi dell’America Latina godevano da tempo dell’indipendenza politica ma si trovavano tuttavia in condizioni di dipendenza economica dagli Stati Uniti (che esercitavano una sorta di tutela su tutto il continente). L’instabilità politica dell’America centrale e meridionale si caratterizzò nell’oscillazione fra liberalismo, populismo e autoritarismo. Fra le esperienze più significative quella del regime populista autoritario stabilito da Peron in Argentina; il suo programma prevedeva: l’intervento dello Stato in economia; una politica di alti salari e di assistenza sociale per il lavoratori; la collaborazione fra le classi sociali; una maggiore autonomia dagli USA. Di grande rilievo per l’attrazione che esercitò in tutta l’America Latina fu la rivoluzione cubana guidata da Castro (1959) che diede al nuovo regime un orientamento comunista. Le forze rivoluzionarie si posero sotto la protezione dell’Unione Sovietica.

12. L’ITALIA DOPO IL FASCISMO Le condizioni in cui versava l’Italia alla fine della guerra erano gravissime: se le industrie non erano state eccessivamente danneggiate era però stata fortemente colpita l’agricoltura; ingenti anche i danni subiti dall’edilizia e dai trasporti; elevatissima l’inflazione. La maggioranza della popolazione risentiva della scarsità di cibo e abitazioni e dell’alta disoccupazione. I problemi dell’ordine pubblico erano gravi: difficoltà nella smobilitazione dei partigiani, occupazione delle terre, borsa nera, separatismo e banditismo in Sicilia. Il ritorno della democrazia determinò una crescita della partecipazione politica. La democrazia cristiana si dimostrava come perno del fronte moderato in quanto era l’unico partito in grado di competere con i socialisti e comunisti sul piano dell’organizzazione di massa. Molto minor seguito avevano i liberali, i repubblicani e il partito d’azione. A destra il movimento dell’Uomo qualunque ebbe per breve tempo notevole successo. La confederazione generale italiana del lavoro fu ricostruita nel ’44 su basi unitarie. Il primo governo dell’Italia liberata, basato sulla coalizione dei partiti del CLN fu presieduto da Ferruccio Parri, capo partigiano ed esponente del Partito d’Azione. Nel novembre del ’45 la guida del governo passò al democristiano De Gasperi; l’avvento di De Gasperi segnò una svolta moderata nella politica italiana e la fine delle prospettive di radicale rinnovamento sociale. Il 2 giugno 1946 un referendum popolare sancì la vittoria della Repubblica e la caduta della monarchia. Nello stesso giorno si tennero le elezioni per l’Assemblea Costituente, che videro il successo dei tre partiti di massa, soprattutto della Dc che divenne il partito di maggioranza relativa. Nel ’46-7 i contrasti fra i partiti della coalizione antifascista si approfondirono; le accresciute tensioni interne e internazionali provocarono, nel ’47 la scissione del partito socialista: l’ala guidata da Saragat, contraria alla stretta alleanza col PCI, fondò il Partito Socialista dei lavoratori italiani (poi partito socialdemocratico). Nel maggio De Gasperi estromise socialisti e comunisti dal governo e formò un governo monocolore. I contrasti

fra i partiti non impedirono il varo della nuova Costituzione repubblicana (che entrò in vigore dal 1 gennaio 1948); la Costituzione affiancava agli istituti tipici di un sistema democratico-parlamentare alcuni importanti principi di tipo sociale (diritto al lavoro, libertà sindacale, ecc.) la campagna per le elezioni del 18 aprile 1948 (dalle quali doveva uscire il primo Parlamento), vide una forte contrapposizione fra comunisti e socialisti (uniti nel fronte popolare), da un lato, e la DC e i partiti laici minori, dall’altro. I Democristiani ottennero un grande successo anche grazie l’appoggio della Chiesa e degli Stati uniti. In seguito le elezioni De Gasperi diede vita a una coalizione centrista che vedeva la Dc alleata con i liberali, repubblicani, socialdemocratici. Sul piano della politica economica ebbero sempre il sopravvento le forze moderate che seguirono una politica di restaurazione liberista rifuggendo da un uso incisivo degli strumenti di interventi statale nell’economia. Tale politica si affermò pienamente dopo l’estromissione delle sinistre nel governo, ad opera del ministro delle finanze Einaudi: il successo della sua linea di risanamento finanziario ebbe comunque forti costi sociali soprattutto in termini di disoccupazione. Il trattato di pace che comportava la rinuncia alle colonie e secondarie rettifiche di confine a favore della Francia, fu firmato dall’Italia nel 1947. Restava aperta con la Jugoslavia la questione di Trieste, riunita all’Italia solo nel ’54. L’appartenenza dell’Italia al blocco occidentale ottenne una sanzione sul piano militare con l’adesione nel 1949, al Patto Atlantico. Negli anni del centrismo (’48-’53) la politica del governo De Gasperi non fu priva di importanti interventi sociali, come la riforma agraria e l’istituzione della Cassa del Mezzogiorno. La politica di austerità finanziaria e contenimento dei consumi perseguita dal governo suscitarono numerose proteste di piazza cui le forze dell’ordine risposero con durezza. I questa situazione la DC cercò di rendere più stabile la propria maggioranza con una riforma del meccanismo elettorale (la legge truffa) la cui approvazione suscitò vivaci proteste a sinistra e fu comunque priva di risultati pratici nelle elezioni del ’53. Gli anni ’53-’58 furono un periodo di transizione. Alle novità sul paino economico (piano Vanoni, ministero delle Partecipazioni Statali) e istituzionale (insediamento della corte costituzionale) si affiancarono mutamenti entro i partiti che avrebbero poi reso possibile l’allargamento della maggioranza ai socialisti. Nella DC si affermò con la segreteria Fanfani (1954) una nuova generazione, più attenta all’intervento dello Stato nell’economia e più sensibile ai problemi sociali. Il PSI soprattutto a partire dal ’56 andava allontanandosi dai comunisti.

13. LA SOCIETà DEL BENESSERE Negli ani ’50 e ’60 l’economia dei paesi industrializzati attraversò una fase di intenso sviluppo che ebbe tra le sue cause: crescita della popolazione (da cui un aumento della domanda), innovazione tecnologica e razionalizzazione produttiva, espansione nel commercio mondiale, politiche statali in sostegno della crescita. L’applicazione delle scoperte scientifiche alla produzione divenne velocissima. Nel campo della chimica si svilupparono le materie plastiche e le fibre sintetiche. In medicina c’è da segnalare la produzione di nuovi farmaci (antibiotici, ormoni, psicofarmaci, anticoncezionali) e i grandi progressi della chirurgia. Le conseguenze dello sviluppo tecnologico si fecero sentire in modo decisivo nel campo de trasporti (motorizzazione privata, sviluppo dell’aviazione civile), contribuendo a modificare radicalmente le abitudini di vita. Nel ’57 col lancio del primo satellite artificiale sovietico, iniziava la conquista dello spazio (del ’69 è il primo sbarco dell’uomo sulla luna), che avrebbe determinato una ricaduta della tecnologia su tutti i settori produttivi. Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa (anzitutto la tv) ha rappresentato, tra i prodotti dello sviluppo tecnologico quello che più di ogni altro ha condizionato la vita quotidiana e i modelli di comportamento delle società industrializzate (in parte anche di quelle meno sviluppate). Una caratteristica dei decenni del dopoguerra è il forte aumento della popolazione, concentrato però soprattutto nel Terzo Mondo, dove al calo della mortalità si è accompagnato un tasso di natalità notevolmente elevato. Nei paesi industrializzati l’aumento demografico è stato invece molto contenuto e in alcuni di essi si è giunti ormai alla “crescita zero” della popolazione. La notevole espansione dei consumi superflui è ormai caratteristica fondamentale delle società avanzate, ove ha suscitato fenomeni estesi di rifiuto ideologico, nonché di critica da parte di alcune correnti intellettuali (anzitutto della scuola di Francoforte). Alla fine degli anni ’60 si verificò l’esplosione della protesta giovanile contro la società del benessere: protesta iniziata negli USA poi diffusasi nell’Europa occidentale e in Giappone. L’episodio più clamoroso della contestazione studentesca fu la rivolta parigina del maggio del ’68; la fase della ribellione giovanile lasciò un segno profondo nelle società occidentali, soprattutto nel campo dei valori e dei modelli di comportamento. Negli stessi anni si sviluppava un nuovo femminismo che (raggiunta ormai la parità dei sessi sul piano dei diritti politici) criticava la divisione dei ruoli tra uomo e donna nella famiglia e nel lavoro e più in generale rifiutava i valori maschilisti dominanti nelle società industrializzate. Di fronte alla nuova realtà della società del benessere , la Chiesa cattolica, pur ribadendo la sua critica al diffondersi di valori materialistici e di comportamenti contrari alle sue dottrine, tentò un proprio rinnovamento interno e un’apertura ai problemi del mondo contemporaneo. Tale nuovo corso iniziò col programma di Giovanni XXIII (1958-63) e proseguì col Concilio Vaticano II.

14. APOGEO E CRISI DEL BIPOLARISMO

Dopo un periodo di incertezza politica ed economica gli Stati Uniti inaugurarono con la presidenza di Regan (1980-88) e poi Bush, un nuovo corso basato sulla scelta liberista in economia e su una politica estera più dura nei confronti dell’Urss e dei regimi integralisti del Medio oriente (Iran, Libia). In Unione Sovietica, con l’avvento di Gorbaciov (1985) fu avviata una radicale svolta sia in politica estera che in quella interna (riforme economiche istituzionali, maggiore libertà di informazione). In seguito una serie di incontri fra leader sovietici e statunitensi si instaurò un nuovo clima di distensione internazionale che consentì alcuni accordi fra le superpotenze, sulla limitazione degli armamenti e si riflesse positivamente anche sulle prospettiva di soluzione dei conflitti locali. I mutamenti dell’Urss ebbero immediati riflessi sui paesi dell’Europa orientale, provocando la crisi dell’intero blocco comunista. Processi di liberalizzazione furono avviati prima in Polonia (dove agli inizi degli anni ’80 si era affermato il sindacato indipendente “Solidarnosc”) e in Ungheria, poi in Germania Orientale, Cecoslovacchia, Bulgaria, Romania (l’unico paese in cui il trapasso di regime avvenne in maniera violenta). Mentre in Romania e Serbia i gruppi neo comunisti riuscirono a mantenere il potere, negli altri Stati i partiti comunisti furono completamente travolti. Nella repubblica democratica tedesca la caduta del muro di Berlino e la vittoria dei cristiano-democratici aprirono la strada alla riunificazione con la repubblica federale, che fu portata a termine nell’ottobre del 1990.

15. L’ITALIA DAL MIRACOLO ECONOMICO ALLA CRISI DELLA RPIMA REPUBBLICA Lo sviluppo dell’economia italiana si fece particolarmente intenso negli anni 1958-63. Fu questo il cosiddetto miracolo economico che mutò definitivamente in senso industriale il volto del paese. Al boom dell’industria si accompagnarono due importanti fenomeni sociali: l’esodo dal Sud al Nord e la crescita dell’urbanizzazione. Entrambi si svolsero in modo caotico creando notevoli problemi. In quegli anni, con la televisione, si ebbe per la prima volta un’unificazione linguistica e dei modelli di comportamento. Altro simbolo del miracolo dell’Italia fu l’automobile, che ebbe una diffusione di massa. I mutamenti economici e sociali si accompagnarono, all’inizio degli anni ’60 a una svolta politica, con l’ingresso dei socialisti nell’area della maggioranza. L’inserimento fu graduale e molto contrastato. Nell’estate ’60, dopo la crisi del ministero Tambroni (che aveva tentato, suscitando violente proteste, di governare con l’appoggio determinate del MSI), si formò un governo Fanfani che si reggeva grazie all’astensione (poi trasformata in appoggio parlamentare) dei socialisti. Nel ’63 si formò il primo governo di centro sinistra organico, presieduto dal leader della Dc, Moro. In questa fase furono varati due importanti provvedimenti: la nazionalizzazione dell’industria elettrica e l’istituzione della scuola media unica. A partire dal ’63 il centro sinistra venne esaurendo la sua spinta riformatrice, anche per le preoccupazioni suscitate nella DC dal peggioramento della congiuntura economica e dall’ostilità dei gruppi moderati. Nelle elezioni del ’63 e in quelle del ’68 sia la Dc sia il PSI ottennero risultati deludenti. Nel ’68 esplose anche in Italia la contestazione studentesca, con caratteri di particolare radicalità dovuti alla forte tradizione marxista presente nella cultura italiana. Nacquero fra il ’69 e il ’70 i gruppi extraparlamentari; il ’69 fu caratterizzato da acute agitazioni operaie (l’autunno caldo), protagonisti delle quali furono soprattutto i lavoratori immigrati al nord. Le lotte operaie si conclusero con forti aumenti dello stipendio e con un rafforzamento delle confederazioni sindacali. A queste agitazioni la classe dirigente non seppe rispondere in modo adeguato; furono approvati tuttavia alcuni importanti provvedimenti (Statuto dei lavoratori, Istituzioni delle Regioni, divorzio). Gli anni ’70 furono caratterizzati dalla manifestazioni del terrorismo di destra e di sinistra, cui il governo non seppe reagire adeguatamente. Gli equilibri politici cominciarono a modificarsi dopo il referendum (1974) che confermò il divorzio, contro le posizioni della Chiesa e della DC, testimoniando i profondi cambiamenti della società. La nuova politica del compromesso storico, annunciata dal segretario del PCI Berlinguer (1973), favorì le vittorie elettorali dei comunisti (’75-6). Dopo il distacco dei socialisti dal governo (’75) si giunse, di fronte alla necessità di affrontare i problemi suscitati dalla crisi economica e dall’accentuarsi del terrorismo di sinistra, al governo di solidarietà nazionale, nel 1978. Proprio allora le Brigate Rosse compirono la loro azione pi clamorosa: il rapimento e l’assassinio di Moro. Nonostante alcune leggi di contenuto sociale (equo canone e riforma sanitaria), il programma riformatore del governo di solidarietà nazionale non riuscì a realizzarsi, mentre si accentuarono le divisioni fra le forze politiche. Negli anni ’80, esauritasi l’esperienza della solidarietà nazionale si ebbero per la prima volta governi a guida non democristiana (con Spadolini e poi con Craxi). Tra i problemi maggiori affrontati dall’esecutivo vi furono quelli dell’espansione abnorme della spesa pubblica e della malavita organizzata (mentre il terrorismo dopo la legge sui pentiti, risultava sostanzialmente sconfitto). I contrasti interni alla maggioranza pentapartita portarono nell’79 alla crisi del governo Craxi e a nuove elezioni anticipate che segnarono un progresso del PSI e un calo del PCI. Dopo le elezioni la coalizione si ricostituiva dando vita a tre successivi governi a guida democristiana (Goria, De Mita, Andreotti). Si accentuavano frattanto nell’opinione pubblica la critica alle disfunzioni del sistema politico e l’attesa delle riforme istituzionali.

16. LA SOCIETà POST INDUSTRIALE

La crisi petrolifera del 1973 suscitò nel mondo industrializzato una serie di interrogativi sui limiti dello sviluppo economico e sulla distruzione di risorse naturali da esso provocata. Grande diffusione ebbero di conseguenza le tematiche ecologiche e la ricerca di fonti alternative. Il successivo calo del prezzo del petrolio ha però indotto a ridimensionare la portata della crisi. Gli ultimi decenni del secolo XX hanno segnato nuove trasformazioni nell’economia che hanno avuto il loro centro propulsore nelle crescenti applicazioni nell’elettronica e delle scienze ad essa collegate (informatica, cibernetica, robotica, telematica). Queste trasformazioni hanno prodotto effetti rilevanti anche sui consumi e sulla vita quotidiana delle società industrializzate. Gli sviluppi dell’elettronica e dell’informatica hanno accelerato una transizione post industriale, caratterizzata dalla prevalenza del terziario, dalla fine della centralità della fabbrica, dal ruolo crescente dell’informazione. Si è accresciuta al contempo, grazie alla velocità delle comunicazioni, la tendenza verso l’integrazione economica e finanziaria a livello planetario, il che ha fatto parlare di un processo di globalizzazione. Nonostante gli importanti mutamenti intervenuti in molte aree del Terzo Mondo, il divario fra paesi ricchi e poveri si è complessivamente approfondito. In molti paesi africani si sono verificate vere e proprie tragedie della fame; il problema del debito è divenuto sempre più pressante. Alla fine degli anni ’90 è nato un movimento internazionale di contestazione di molti aspetti della globalizzazione, alla fine del 900 la popolazione mondiale ha continuato ad aumentare, ma si è registrato un forte rallentamento dei ritmi di crescita nelle aree più povere. Nei paesi dell’Europa occidentale la crescita zero della popolazione ha aumentato la quota degli anziani creando difficoltà ai sistemi pensionistici. I crescenti squilibri economici fra le diverse parti del pianeta e la facilità delle comunicazioni hanno fatto aumentare i flussi emigratori verso le aree ricche del pianeta. Ciò ha determinato da un lato la spinta verso una società multietnica, caratterizzata dalla compresenza di diverse culture, dall’altro la difesa delle identità nazionali e delle tradizioni locali. Nel mondo contemporaneo è ancora forte la presenza delle confessioni religiose, in primo luogo del cristianesimo e dell’Islam; la chiesa cattolica ha conosciuto un rilancio mondiale sotto il pontificato di Giovanni Paolo II; nel mondo musulmano, ma anche in altre religioni, hanno assunto rilievo le correnti integraliste o fondamentaliste. Ai progressi della medicina nella cura delle più diffuse malattie, ha fatto riscontro negli ultimi decenni la comparsa di nuovi virus, fra cui l’AIDS; gli sviluppi della medicina e della genetica hanno aperto nuovi problemi nei rapporti fra scienza ed etica. I limiti degli interventi sulla natura e sulla vita costituiscono il campo di riflessione della bioetica.

17. IL MONDO CONTEMPORANEO

Fra il 1989 e il 1991 gli equilibri mondiali subirono un radicale sconvolgimento. Nel vuoto aperto dalla crisi dell’URSS e dall’assenza di un nuovo ordine internazionale, si inserì una generale ripresa dei moti nazionalisti. L’evento centrale di questa nuova fase fu la crisi dell’URSS. Il processo di disgregazione avvenuto con le riforme di Gorbaciov, si accelerò dopo un fallito colpo di stato tentato nell’agosto del 1991 dai rappresentanti del vecchio regime. Alla fine del 1991 l’Unione Sovietica cessò di esistere e Gorbaciov diede le dimissioni. La Federazione Russa, sotto la guida di Elstin, cercò di ereditare il ruolo dell’URSS, ma si trovò in condizioni di grave dissesto economico e di cronica instabilità politica, aggravata dal conflitto con i separatisti della Cecenia. Una parziale stabilizzazione fu avviata a partire dal 2000, con l’elezione di Putin alla presidenza. Negli anni ’90 l’Europa ex comunista attraversò momenti difficili dal punto di vista economico e politico. La Jugoslavia si divise in diversi stati, (Federazione Jugoslava, comprendente Serbia e Montenegro, Croazia, Slovenia, Bosnia e Macedonia), e dal 1991 fu teatro fra una spietata guerra fra nazionalità: particolarmente sanguinoso il conflitto in Bosnia, concluso da un precario accordo solo nel ’95. Fra il 1998 e 1999 esplose la crisi in Kosovo dove la repressione attuata dai serbi nei confronti della popolazione albanese venne bloccata dall’intervento militare della Nato. Nel 1997 anche l’Albania conobbe una drammatica crisi interna, risolta solo con l’intervento dell’Onu. L’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq di Saddam Hussein nel 1990, provocò nel 1991 la risposta militare di una coalizione guidata dagli Stati Uniti, che agiva sotto la bandiera dell’Onu. La sconfitta dell’Iraq favorì il rilancio del processo di pace in medio Oriente, che portò nel 1993 a un primo accordo di pace fra Israele e palestinesi dell’OLP. L’accordo era però minacciato sia dall’affermazione delle forze nazionaliste in Israele, dopo l’attentato che costò la vita al premier laburista Rabin (1995), sia dalla recrudescenza del terrorismo arabo di matrice integralista. Nel 2000 dopo un fallito tentativo di giungere a un accordo generale, gli scontri e gli attentati ripresero con rinnovata violenza. Negli Stati Uniti le difficoltà economiche provocarono nel 1992 la sconfitta del presidente repubblicano Bush, che pure aveva riportato notevoli successi in politica internazionale e l’elezione del democratico Clinton. Dopo le iniziali incertezze (dovute anche alle difficoltà inerenti al nuovo ruolo degli Usa, diventati l’unica superpotenza mondiale), Clinton accrebbe la sua popolarità grazie soprattutto alla sua congiuntura economica e fu rieletto nel 1996. Nonostante i buoni risultati ottenuti da Clinton nel suo secondo mandato, le presidenziali del 2000 furono vinte in strettissima misura dal repubblicano Bush jr. La storia dell’Europa occidentale degli anni ’90 fu in gran parte dominata dalla scelta di accelerare il processo di unificazione. Il trattato di Maastricht del 1992, che dava vita all’Unione europea, propose il traguardo per la moneta unica nel 2001 e stabilì una serie di condizioni economiche per accedervi. Il cammino verso l’unione

monetaria inaugurata nel 1998, condizionò anche le vicende politiche dei singoli sati: a un’iniziale prevalenza delle forze moderate fecero seguito i successi della sinistra in Italia, Inghilterra, Francia e Germania. In America latina la stabilizzazione delle democrazie era minacciata dalle correnti crisi finanziarie: la crisi più grave si verificò in Argentina alla fine del 2001; ma le istituzioni rappresentative si consolidarono quasi ovunque, nonostante i contrasti che spesso opponevano i partiti di matrice democratico-radicale ai movimenti di ispirazione populista. I problemi della povertà e del sottosviluppo ebbero manifestazioni drammatiche soprattutto in Africa, dove erano aggravati da una serie di guerre civili (Angola, Etiopia, Somalia, Liberia, Ruanda, Congo). In Sud africa grazie al negoziati di Klerk Mandela fu abolito il regime di discriminazione razziale e la componente nera assunse pacificamente il potere. Quasi tutti i paesi asiatici fecero registrare, alla fine del ‘900 considerevoli progressi economici; in particolare alcuni paesi dl sud est realizzarono un rapidissimo sviluppo industriale, seguendo il modello del Giappone. Anche la Cina conobbe una stagione di grande sviluppo, pur nella permanenza del monopolio politico dei comunisti. In tutti i paesi dell’occidente, ad eccezione dell’india, la democrazia stentava però ad affermarsi. Le correnti integraliste si diffusero in tutto il mondo islamico e trovarono una base in Afganistan sotto il regime dei talebani. Furono toccati anche i paesi di tradizione laica, come la Turchia e soprattutto l’Algeria. Qui la reazione dei gruppi fondamentalisti all’annullamento delle elezioni del ’92 provocò una serie di spaventosi massacri. L’11 settembre 2001, il terrorismo integraliste mise a segno un clamoroso attentato alle Twin Towers a New York e contro il Pentagono a Woshington. L’intero occidente ne fu sconvolto; la reazione degli USA e dei loro alleati si indirizzò contro l’Afganistan, che ospitava il presunto capo dei terroristi Osama Bin Laden: l’oppressivo regime dei talebani fu spezzato via dai bombardamenti americani e dall’offensiva delle forze d’opposizione.

18. LA SECONDA REPUBBLICA IN ITALIA I primi anni ’90 vedevano aggravarsi i fattori di crisi, sia sul terreno dell’economia (aumento del deficit pubblico, rallentamento della produzione, svalutazione della lira, sia su quello della convivenza civile (ripresa dell’offensiva mafiosa, dilagare della corruzione).sul piano politico, le maggiori novità furono la trasformazione del PCI in partito democratico della sinistra e l’emergere di nuovi movimenti ostili al sistema dei partiti (leghe, verdi). Nel linguaggio corrente è ormai consuetudine indicare con l’espressione seconda Repubblica il nuovo assetto politico determinatosi in Italia negli anni ’92-94. dopo le elezioni del 5 aprile 1992, che segnavano la sconfitta delle forze tradizionali e mettevano in crisi i vecchi equilibri, il governo presieduto da Giuliano Amato ottenne alcuni successi nell’affrontare l’emergenza economica e quella dell’ordnie pubblico. ma il ceto politico, delegittimato dalle inchieste della magistratura, non riusciva a trovare un accordo sulle riforme istituzionali. Il referendum del’aprile del 1993 imponeva il passaggio dal sistema maggioritario uninominale, passaggio confermato dalle nuove leggi elettorali. Dopo le dimissioni di Amato (aprile) il governo Ciampi affrontava la crisi economica e occupazionale del paese, mentre le forze politiche si preparavano a un nuovo confronto elettorale. Le elezioni del marzo del 1994 tenutesi col nuovo sistema maggioritario uninominale 8che poneva le premesse per instaurare un meccanismo di alternanza tra maggioranza e opposizione) hanno portato al governo una precaria maggioranza i centro destra guidata dall’imprenditore Silvio Berlusconi. Costretto dopo solo 7 mesi a dimettersi per i contrasti sopraggiunti all’interno della maggioranza gli succedeva un ministero di tecnici presieduto da Lamberto Dini e sostenuto da uno schieramento di forze di centro sinistra. Nuove elezioni anticipate (96), vinte dalla coalizione di centro sinistra inauguravano una nuova fase di governo diretta dal leader dell’Ulivo Romano prodi. Il governo di centro sinistra affrontò il problema del deficit del bilancio riuscendo a ridurlo nel corso del ’97 e quindi a rientrare nei parametri indicati dal trattato di Maastricht per l’ingresso dell’unione monetaria (1999). Fra i problemi politici del paese rimanevano aperto quello dei correttivi al Welfare e quello relativo alle riforme istituzionali in presenza di una perdurante instabilità politica. Nel ’98 il governo prodi cadde e fu sostituito da un nuovo centro sinistra guidato da D’Alema. Nel 1999 l’Italia partecipò con gli altri paesi della nato all’intervento militare in Kosovo. Nel 2000 dopo la sconfitta alle elettorali nelle regionali a d’Alema succedette un altro governo di centro sinistra presieduto da Amato. Alla fine della magistratura la maggioranza approvò un importante legge costituzionale che ampliava i poteri degli enti locali. Le trasformazioni sociali dell’Italia si misurano ormai con i comportamenti demografici che registrano una spiccata denatalità e un invecchiamento della popolazioni. L’omologazione dei consumi non riesce a nascondere differenze sociali basate soprattutto sulla diseguaglianza dei redditi e dei livelli culturali. Le elezioni politiche del maggio 2001 diedero una netta vittoria alla Casa delle libertà guidata da Berlusconi che nel giugno successivo formò il nuovo governo di Centro-destra.