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1 ERASMO (Adagia) CHI AMA LA GUERRA, NON L'HA VISTA IN FACCIA I. Un bellissimo proverbio, letterariamente assai divulgato, è quello che dice «Chi ama la guerra, non l'ha vista in faccia». Così lo attesta Vegezio nell'Arte della guerra, libro terzo, capitolo quattordicesimo: «Non ti fidare se il coscritto anela allo scontro: la battaglia attrae chi non l'ha provata». Dice Pindaro: «La guerra è grata a chi non l'ha sperimentata, ma chi l'ha sperimentata prova un grande orrore se essa si avvicina al suo cuore». Fra le esperienze umane ce ne sono di quelle, che non si capisce quanti rischi e quanti danni comportino, finché non si sono fatte di persona. Dolce è a chi nol provò far corre a' grandi E avergli amici; chi '1 provò, ne trema. Sembra un onore e un privilegio muoversi tra i grandi della corte e partecipare agli affari del sovrano, ma i vecchi, che conoscono la cosa a fondo per esperienza propria, fanno volentieri a meno di questa felicità. Non è dolce l'idea di far l'amore con una ragazza? Ma questa dolcezza la sente solo chi non ha ancora provato quanta amarezza porta con sé l'amore. Analogamente il proverbio può applicarsi a qualsivoglia esperienza che comporti molti rischi e danni e che nessuno voglia affrontare se non è giovane e inesperto del mondo. Aristotele nella Retorica spiega l'audacia della giovinezza e di contro la prudenza della vecchiaia dicendo che nei giovani l'inesperienza si traduce in baldanza, mentre nei vecchi l'esperienza di molte sventure genera timore ed esitazione. 2. Ora se nel mondo c'è una cosa che conviene affrontare con esitazione - ma che dico, che bisogna in tutti i modi evitare, scongiurare, tenere lontana - di sicuro è la guerra: non c'è iniziativa più empia e dannosa, più largamente rovinosa, più persistente e tenace, più squallida e nell'insieme più indegna di un uomo, per non dire di un cristiano. Invece - chi lo crederebbe? - oggi si entra in guerra di qua, di là, dappertutto, con estrema leggerezza, per le ragioni più futili: e la condotta di guerra è caratterizzata da un'estrema crudeltà e barbarie. A entrare in guerra, a condurre la guerra, non sono solo pagani, ma anche cristiani, non sono laici, ma anche sacerdoti e vescovi, non solo giovani senza esperienza, ma anche vecchi sperimentatissimi, non solo gente del popolo, masse anonime e volubili, ma anche e soprattutto principi, che avrebbero il dovere di tener a freno con avvedutezza e discernimento i moti inconsulti della stolta moltitudine. Non mancano neanche giureconsulti e teologi, che aizzano a queste infamie e danno sotto sotto, esca al fuoco. Ed ecco le conseguenze. Al giorno d'oggi la guerra è un fenomeno cosi largamente recepito, che chi la mette in discussione passa per stravagante e suscita la meraviglia; la guerra è circondata di tanta considerazione, che chi la condanna passa per irreligioso, sfiora l'eresia: come se non si trattasse dell'iniziativa più scellerata e al tempo stesso più calamitosa che ci sia. Bisognerebbe invece domandarsi qual genio malvagio, quale flagello, quale calamità, quale Furia infernale abbia originariamente immesso un impulso così bestiale nell'animo dell'uomo, abbia indotto questo essere pacifico, che la natura ha preordinato a una solidale convivenza, - il solo essere predestinato alla salvezza - a farsi promotore e vittima di sterminio, con una frenesia così selvaggia, con tali esplosioni di follia. Qui sì che c'è di che meravigliarsi. La meraviglia sarà maggiore in chi, prescindendo dalle idee comunemente recepite, si volgerà a considerare

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ERASMO (Adagia)

CHI AMA LA GUERRA, NON L'HA VISTA IN FACCIA

I. Un bellissimo proverbio, letterariamente assai divulgato, è quello che dice «Chi ama la guerra, non l'ha vista in faccia». Così lo attesta Vegezio nell'Arte della guerra, libro terzo, capitolo quattordicesimo: «Non ti fidare se il coscritto anela allo scontro: la battaglia attrae chi non l'ha provata». Dice Pindaro: «La guerra è grata a chi non l'ha sperimentata, ma chi l'ha sperimentata prova un grande orrore se essa si avvicina al suo cuore». Fra le esperienze umane ce ne sono di quelle, che non si capisce quanti rischi e quanti danni comportino, finché non si sono fatte di persona.

Dolce è a chi nol provò far corre a' grandi E avergli amici; chi '1 provò, ne trema. Sembra un onore e un privilegio muoversi tra i grandi della corte e partecipare agli

affari del sovrano, ma i vecchi, che conoscono la cosa a fondo per esperienza propria, fanno volentieri a meno di questa felicità. Non è dolce l'idea di far l'amore con una ragazza? Ma questa dolcezza la sente solo chi non ha ancora provato quanta amarezza porta con sé l'amore. Analogamente il proverbio può applicarsi a qualsivoglia esperienza che comporti molti rischi e danni e che nessuno voglia affrontare se non è giovane e inesperto del mondo. Aristotele nella Retorica spiega l'audacia della giovinezza e di contro la prudenza della vecchiaia dicendo che nei giovani l'inesperienza si traduce in baldanza, mentre nei vecchi l'esperienza di molte sventure genera timore ed esitazione.

2. Ora se nel mondo c'è una cosa che conviene affrontare con esitazione - ma che

dico, che bisogna in tutti i modi evitare, scongiurare, tenere lontana - di sicuro è la guerra: non c'è iniziativa più empia e dannosa, più largamente rovinosa, più persistente e tenace, più squallida e nell'insieme più indegna di un uomo, per non dire di un cristiano. Invece - chi lo crederebbe? - oggi si entra in guerra di qua, di là, dappertutto, con estrema leggerezza, per le ragioni più futili: e la condotta di guerra è caratterizzata da un'estrema crudeltà e barbarie. A entrare in guerra, a condurre la guerra, non sono solo pagani, ma anche cristiani, non sono laici, ma anche sacerdoti e vescovi, non solo giovani senza esperienza, ma anche vecchi sperimentatissimi, non solo gente del popolo, masse anonime e volubili, ma anche e soprattutto principi, che avrebbero il dovere di tener a freno con avvedutezza e discernimento i moti inconsulti della stolta moltitudine. Non mancano neanche giureconsulti e teologi, che aizzano a queste infamie e danno sotto sotto, esca al fuoco. Ed ecco le conseguenze. Al giorno d'oggi la guerra è un fenomeno cosi largamente recepito, che chi la mette in discussione passa per stravagante e suscita la meraviglia; la guerra è circondata di tanta considerazione, che chi la condanna passa per irreligioso, sfiora l'eresia: come se non si trattasse dell'iniziativa più scellerata e al tempo stesso più calamitosa che ci sia. Bisognerebbe invece domandarsi qual genio malvagio, quale flagello, quale calamità, quale Furia infernale abbia originariamente immesso un impulso così bestiale nell'animo dell'uomo, abbia indotto questo essere pacifico, che la natura ha preordinato a una solidale convivenza, - il solo essere predestinato alla salvezza - a farsi promotore e vittima di sterminio, con una frenesia così selvaggia, con tali esplosioni di follia. Qui sì che c'è di che meravigliarsi. La meraviglia sarà maggiore in chi, prescindendo dalle idee comunemente recepite, si volgerà a considerare

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2l'essenza e la natura delle cose; specialmente se costui considererà con lo sguardo del filosofo da un lato il ritratto dell'uomo, dall'altro l'immagine della guerra.

3. E per cominciare, anche chi si limita a considerare la conformazione esteriore del

corpo umano, capirà subito che la natura (o meglio Iddio) ha creato questo essere non per la guerra ma per l'amore, non per lo sterminio ma per la salvezza, non per fare il male ma per fare il bene. Guardiamo ai fatti, La natura ha munito ogni animale di armi specifiche. Ha armato di corna l'assalto del toro, di artigli la furia del leone. Ha infitto al cinghiale denti micidiali. Ha munito gli elefanti di pelle spessa e di ingente mole, nonché di proboscide. Ha coperto il coccodrillo di scaglie che somigliano a piastre metalliche. Ai delfini ha dato per armi le pinne. Ha munito l'istrice di spine, la razza di aculei; ha infitto speroni ai galli; chi ha armato di gusci, chi di una pelle spessa, chi di conchiglie. Vi sono animali che sopravvivono grazie alla sveltezza, come i colombi, ve ne sono altri armati di veleno. Inoltre la natura ha dato a tutte queste creature un aspetto repulsivo e selvaggio, occhi torvi, voci stridule. Ha seminato in loro ostilità congenite. Solo l'uomo ha fatto senza pelame, debole, delicato, inerme, morbido di carne, di pelle sottile. Nel suo corpo manca ogni membro preordinato ala lotta e alla violenza. Per tacere del fatto che gli altri esseri fin dalla nascita, si può dire, bastano a se stessi per quel che riguarda la loro sopravvivenza. Solo l'uomo viene al mondo in condizione tale, che per molto tempo dipende interamente dall'assistenza altrui. Non sa parlare, non sa camminare, non sa alimentarsi; sa solo implorare assistenza con i suoi vagiti. Basterebbe considerare tale origine per concludere che questo animale, e questo solo, è fatto espressamente per l'amore, il quale è condizionato e alimentato dai reciproci servigi. La natura ha dunque voluto che l'uomo fosse debitore del dono della vita non tanto a lei quanto all'amorevolezza: per fargli intendere che egli è consacrato alla gratitudine e al vincolo dell'amicizia. E così non gli ha dato un aspetto repellente e selvatico come ad altri viventi, ma mite e pacifico, improntato all'amore e alla gentilezza. Gli ha dato occhi benigni, dai quali traluce il suo animo. Gli ha fatto le braccia a cerchio, predisposte all'abbraccio. Gli ha dato il senso del bacio, e nel bacio è come se gli animi si toccassero e si congiungessero. Gli ha dato a lui solo - il riso, segno di allegrezza; gli ha dato - a lui solo - le lacrime, simbolo di misericordia e di clemenza. E non gli ha dato una voce minacciosa e terrifica, come agli animali, ma blanda e gentile.

Non ancora contenta, la natura ha concesso all'uomo, esclusivamente all'uomo, la prerogativa della parola e della ragione, che contribuisce moltissimo a stabilire ed alimentare l'amicizia: e questo perché in nessuna circostanza l'uomo abbia bisogno di far ricorso alla violenza. Ha seminato in lui l'odio della solitudine, l'amore della compagnia. Ha piantato nel profondo del suo cuore i germi dell'amorevolezza. Ha fatto si che la cosa più utile sia anche la più soave. Che cosa vi è di più soave di un amico? E, d'altronde, che cosa vi è di altrettanto necessario? Anche se fosse possibile vivere agevolmente senza commercio reciproco, la mancanza di compagnia priverebbe la vita di ogni attrattiva – sempre ché l'uomo non si fosse spogliato di ogni vestigio d'umanità e non fosse degenerato in bestia. Per di più la natura ha ispirato all'uomo l'amore per le arti liberali e la passione della conoscenza: qualità grandemente atte a distogliere l'ingegno umano da ogni ferocia e, al tempo stesso, singolarmente efficaci nel cementare le amicizie. Né parentela né consanguineità stringono gli animi con vincoli più stretti o duraturi della comunione degli studi liberali. Inoltre la natura ha distribuito fra i mortali le qualità dell'animo e quelle del corpo con mirabile varietà, sicché ognuno trova nell'altro un tratto da amare o ammirare per la sua eccellenza, oppure una qualità da apprezzare e coltivare per proprio utile e necessità. E finalmente la natura ha seminato nell'uomo una scintilla di divinità: come la provvidenza universale è attributo intrinseco di Dio, così anche l'uomo, indipendentemente da ogni vantaggio personale, ama fare il bene per il bene stesso. Come si spiegherebbe altrimenti quei piacere di qualità

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3superiore che proviamo all'idea di aver giovato a qualcuno? Un beneficio fuori del comune costituisce di per se stesso un vincolo di amicizia fra uomo ed uomo. Insomma Dio ha posto nel mondo l'uomo come immagine di se stesso: ne ha fatto una divinità terrestre, soprintendente alla tutela di tutte le creature. Gli animali stessi ne hanno il sentore, perché nei casi di pericolo Ti vediamo ricorrere all'aiuto dell'uomo - non solo gli animali mansueti, ma anche pantere, leoni e bestie ancora più feroci. L'uomo è per tutti l'estremo asilo, è per tutti l'altare sacrosanto, è per tutti l'ultima ratio.

Abbiamo fatto, come che sia, il ritratto dell'uomo. Ora, se non ti dispiace, mettiamogli a fronte l'immagine della guerra. E facciamo il paragone. Fa conto di veder sciamare frotte di barbari, già spaventose all'aspetto e al suono della voce, di vedere eserciti coperti di ferro che si fronteggiano in ordine di battaglia, lo scoppio e il baleno agghiacciante delle armi, l'odioso clamore che accompagna i grandi assembramenti, sguardi minacciosi, sordo rimbombo di corni, terrificanti squilli di tromba, tuono di cannoni (impressionante al pari del tuono naturale, ma ben più micidiale) - il frastuono ti leva di sentimento, infuria l'assalto, la strage imperversa, chi ora ammazza fra poco verrà ammazzato in una vicenda spietata, assassini in massa, campi intrisi e fiumi tinti di sangue umano. Talvolta, nel corso della battaglia, può capitare al soldato di trovarsi faccia a faccia col fratello, col parente, con l'amico; ed ecco che, nel divampare della ferocia generale, gli pianta nel petto la spada, senza neanche l'attenuante di una parola di provocazione. Insomma la tragedia della guerra comporta tanti mali che il cuore umano rifugge perfino dal ricordarli.

Non parliamo poi delle sciagure che sono, al confronto di queste, ordinarie e di poco conto: messi calpestate, case incenerite, villaggi in fiamme, bestiame rubato, ragazze violentate, vecchi prigionieri, chiese saccheggiate, dappertutto furti, rapine, violenze: un caos. Passiamo sotto silenzio i mali che accompagnano anche la guerra più giusta e più fortunata: popolazioni dissanguate, notabili gravati di tasse, vecchi orbati dei figli e condannati per la perdita dei figli a morir disperati (se almeno il nemico avesse tolto loro, insieme alla vita, la sensibilità al dolore!), vecchie derelitte e votate a una fine crudele (in confronto la spada è pietosa!), donne senza marito, bimbi senza padre, case parate a lutto, ricchi ridotti in miseria: e in che misura! Quanto alla rovina della morale, che senso ha parlarne, quando nessuno ignora che tutte le piaghe dell’esistenza scaturiscono dalla guerra? Essa genera l'indifferenza religiosa, l'inosservanza delle leggi, l'audacia e la disponibilità a ogni crimine, Essa è la sorgente che ci inonda di questa caterva di briganti, ladri, sacrileghi, assassini. Ma c'è di peggio. Questo morbo fatale non sa mantenersi entro i propri confini: non ha ancora rizzato il capo in un angolo del mondo, che subito si estende come per contagio alle regioni finitime; e come se non bastasse, per via della milizia mercenaria o col pretesto di una parentela, di un'alleanza, travolge anche le regioni più lontane nel subbuglio e nella bufera generale. Guerra semina guerra, da guerra finta nasce guerra vera, da guerra piccina guerra poderosa: e non di rado si ripete qui ciò che la leggenda racconta del mostro di Lerna.

4.- Ecco perché gli antichi poeti, che con grande acume penetrarono e sotto

appropriatissimi simboli adombrarono l'intima natura delle cose, dissero che la guerra era stata importata dall'inferno per opera delle Furie. Una Furia qualunque però non sarebbe stata qualificata per l'impresa: si scelse dunque la più funesta,

quella che ha mille nomi, Mille arti di nuocere. Costei, armata di innumerevoli serpenti, dà flato alla tromba infernale. Pan riempie il

mondo di folle fragore. Bellona squassa l'asta furiosa. L'empio Furore, rotti tutti i nodi che lo tenevano avvinto, si leva a volo, orrido, con la bocca insanguinata. Anche i grammatici hanno

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4intuito la natura della guerra: alcuni sostengono che essa si chiama « bellum » per antitesi, perché non ha niente di buono né di bello; la guerra è «bellum» nello stesso senso in cui le Furie sono le «Eumenidi». Altri preferiscono far derivare la parola «bellum» da «bellua», belva: perché è da belve, non da uomini, impegnarsi in uno sterminio reciproco.

Ma a me, definire animalesco o bestiale un conflitto armato, sembra ancora inadeguato. In effetti gli animali vivono per lo più concordemente e socievolmente all'interno della propria specie, si muovono in gruppo, si difendono e si aiutano reciprocamente. Non combattono tutti (ce ne sono anche di innocui, come i daini e le lepri), ma solo i più feroci, leoni, lupi, tigri. E neanche questi combattono fra di loro come facciamo noi. Cane non mangia cane; « i feroci leoni non si fanno guerra»; il serpente non aggredisce il suo simile; v'è pace tra le bestie velenose. Ma per l'uomo non c'è bestia più pericolosa dell'uomo. Gli animali, quando combattono, combattono con le armi che gli ha dato la natura. Noi uomini ci armiamo a rovina degli altri uomini di armi innaturali, escogitate da un'arte diabolica. Gli animali non si scatenano per qualsiasi ragione, ma solo perché sono inferociti dalla fame, perché si sentono braccati, perché temono per i cuccioli. Noi uomini - chiamo Dio a testimone - scateniamo le più tragiche guerre per le ragioni più futili: vacui titoli di dominio, un puerile scoppio d'ira, il ratto di una donnicciola e vi sono motivazioni ancora più ridicole. Inoltre gli animali conoscono solo scontri singolari e brevissimi. Per cruenta che sia, la battaglia si scioglie quando uno dei due contendenti viene ferito. Chi ha mai sentito dire che centomila animali si siano sterminati a vicenda? Eppure così fanno dappertutto gli uomini. Ma il confronto non è ancora finito. Ci sono specie animali divise fra loro da un'ostilità congenita, ci sono però anche specie unite da genuina e salda amicizia. Invece fra uomo e uomo, fra tutti gli uomini presi uno a uno, c'è guerra perpetua: non esiste nel genere umano un alleanza veramente salda. Così è: ogni creatura, che tradisce la propria natura, degenera e diviene peggiore che se fosse stata originariamente maligna.

Ma se vuoi saper che cosa bestiale, vergognosa, disumana è la guerra, dimmi, hai mai assistito a uno scontro fra un leone e un orso? Fauci spalancate, ruggiti, brontolii sordi, ferocia, carneficina. Chi guarda si sente rizzare i capelli in testa anche se si trova al sicuro. Ma quanto più vergognoso, quanto più crudele è lo spettacolo di due uomini che si fronteggiano, muniti di tante armi dì offesa e di difesa! Chi li crederebbe uomini, dimmi, se l'abitudine al male non ci avesse tolto la facoltà di meravigliarci? Gli occhi bruciano, i volti sbiancano, l'andatura si fa frenetica, la voce diventa un ruggito, un urlo malsano; l'uomo è tutto di ferro, le armi cozzano, i cannoni esplodono. Se almeno gli uomini si divorassero per fame, se avessero sete di sangue, la faccenda risulterebbe meno feroce (eppure certuni sono arrivati al punto di fare, per odio, quello che l'uso o la necessità potrebbe in qualche modo giustificare). Oggi poi frecce intinte di veleno e macchine infernali stanno rendendo la guerra ancora più spietata. Non c'è più nessun vestigio di umanità.

Al punto a cui siamo, credi che la natura sarebbe in grado di riconoscere la sua creatura? E se qualcuno la facesse avvertita, non avrebbe ragione di inveire contro questo scempio? «Che nuovo spettacolo vedo io mai? Quale inferno ci ha partorito questo mostro? C'è chi mi chiama matrigna perché ho disseminato qua e là, in questo mondo sterminato, qualche creatura velenosa (sebbene in definitiva tornino anch'esse a vantaggio dell'uomo), perché ho creato animali selvaggi (sebbene non esista bestia feroce che non possa essere addomesticata a forza di maestria e di attenzione: la cura dell'uomo ammansisce i leoni, addomestica i serpenti, sottomette gli orsi). Quale supermatrigna ci ha dato dunque questa belva mai vista, questo flagello del mondo intero? Una creatura tutta dolcezza ho fatto io, pacifica, gentile, misericordiosa: unica nel creato. Come ha mai potuto degenerare in una simile belva? Non vedo più nessun tratto dell'uomo, della mia fattura. Quale spirito maligno ha corrotto la mia opera? Quale strega gli ha tolto per incantesimo la natura umana e gli ha dato la natura di una bestia? Quale Circe ne ha mutato la forma originaria? Vorrei dire a quel

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5misero di mettersi allo specchio; ma che cosa vedrebbero gli occhi, se la ragione gli fa difetto? Eppure guardati, guerriero furibondo, se puoi, caso mai ti avvenga di rinsavire. Dove hai trovato quella minacciosa criniera? Dove hai preso l'elmo lucente e i corni di ferro? e le cubitiere aguzze, le squame, i denti di bronzo? e le scaglie metalliche? e le frecce micidiali? Di dove hai tirato fuori cotesta voce a dir poco bestiale, cotesta ghigna a dir poco animalesca? Dove hai preso il tuono e il fulmine, più spaventoso e più micidiale del fulmine stesso di Giove? Io ho fatto dite una creatura in certo modo divina; come ti è venuto in mente di trasformarti in una belva così feroce, che nessun'altra belva appare più tale in confronto all'uomo?» Queste e molte altre cose del genere direbbe, credo, la natura architettrice.

5. Tiriamo le conseguenze. Se la natura dell'uomo è quella che s'è visto, se il carattere

della guerra è quello che troppo spesso abbiamo a sperimentare, allora conviene chiedersi: quale dio, quale piaga, quale caso ha suggerito all'uomo la prima idea d'immergere la spada mortale nel petto del suo simile? E una domanda che s'impone. A tal punto di follia si deve essere arrivati pian piano, per gradi.

Ogni degradazione è graduale, come dice il poeta satirico. I più grandi mali si sono sempre infiltrati nella vita degli

uomini sotto la fallace apparenza del bene. Ebbene, nel lontano passato, quando gli uomini primitivi vivevano nelle foreste, senza

tutela di abiti né di muraglie né di case, succedeva ogni tanto che rimanessero vittime di animali e di bestie feroci. Proprio a queste l'uomo cominciò a far guerra. Chi tutelava la specie umana dalla violenza delle belve aveva nome di valoroso e reputazione di capo. Anzi, ci si sentiva nel pieno diritto di sgozzare lo sgozzatore, di massacrare il massacratore: soprattutto quando l'attacco partiva dalle bestie, senza nessuna provocazione da parte nostra. Siccome questo genere di imprese comportava un altissimo prestigio (fu così che Ercole divenne dio), dappertutto giovani intrepidi cominciarono a dar la caccia agli animali, a ostentarne le spoglie come trofei. Col passar del tempo, non si limitarono ad ucciderli: si valsero delle loro pelli per difendersi dai rigori dell'inverno. Così ebbero inizio gli ammazzamenti. Cosi ebbero inizio le depredazioni di guerra. Poi si spinsero più avanti: ebbero l'audacia di compiere un atto che Pitagora giudicò sommamente empio, e che a noi potrebbe apparire mostruoso - potrebbe, se non ci fosse di mezzo la consuetudine. La forza della consuetudine si estende dappertutto ed è tanto grande, che presso certi popoli passava per un gesto di pietà prendere a bastonate il vecchio padre, gettarlo in una fossa e togliere la vita a chi ti aveva fatto dono della vita; mangiar la carne di amici e parenti valeva come pratica devozionale; si considerava edificante prostituire al popolo una vergine nel tempio di Venere. E vigevano molti usi ancora più assurdi: chi si limitasse a descriverli, si attirerebbe, oggi, il biasimo generale. Tant'è: non esiste pratica, per quanto infame, per quanto atroce, che non s'imponga, se ha la consuetudine dalla sua parte. Quale fu dunque questo misfatto? Ebbene, non ebbero scrupolo di divorare i cadaveri degli animali, di lacerarne a morsi la carne esanime, di berne il sangue, di suggerne gli umori, e

di seppellirsi viscere nelle viscere, come dice Ovidio. L'atto apparve sì disumano alle nature più mansuete, ma s'impose

grazie al bisogno e alla convenienza. (Anche in mezzo ai piaceri e ai godimenti l'evocazione del cadavere cominciò a incontrar gradimento. Ti seppelliscono la carne sotto una crosta, te la aromatizzano con spezie, te la decorano con un epitaffio: «qui giace un cinghiale», «qui è

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6sepolto un orso». Che cadaverici piaceri!) Si arrivò anche più in là. Dagli animali feroci si passò alle bestie innocue. Si cominciò dappertutto a infierire sulle pecore,

Animali senza frode né inganno, sulla lepre, colpevole soltanto d'essere saporita. Non si risparmiò il bue domestico,

che aveva lungamente nutrito col suo lavoro l'ingrata famiglia; non ci si astenne da nessuna razza di uccello né di pesce; e la tirannide della gola arrivò al punto che nessun animale fu più in grado di sottrarsi alla caccia spietata dell'uomo, dovunque si mettesse al riparo. Un altro effetto ebbe la consuetudine: consenti di usare crudeltà contro ogni specie vivente, senza percepirla come tale, purché ci si astenesse dal colpire l'uomo.

Ma succede col vizio come col mare: si può forse impedirgli di rompere, ma porgli un argine una volta che ha rotto non è in potere di nessuno. L'uno come l'altro, una volta dentro, non sottostà alla nostra volontà, ma è portato avanti dalla sua forza d'urto. Il tirocinio che abbiamo descritto fu un addestramento all'omicidio: fatto l'addestramento, uno scatto d'ira indusse l'uomo a colpire il suo simile con un bastone, con un sasso, con un pugno (giacché ancora non si disponeva, suppongo, di altre armi). E a forza di sterminare animali, s'era capito che anche sopprimere l'uomo non richiedeva un grande sforzo. Per molto tempo però questi atti di ferocia si limitarono a combattimenti singoli. Quando uno dei due contendenti cadeva, la guerra era finita (e se talvolta cadevano ambedue, ebbene, erano ambedue indegni di vivere). Togliere la vita a un nemico aveva pure una parvenza di giustizia. L'eliminazione di individui violenti e perniciosi (come si dice fossero Caco e Busiride) cominciò addirittura a passare per meritoria: comportava la liberazione del mondo da mostri di quella fatta. Nelle celebrazioni di Ercole non vediamo attestati anche questi meriti?

Col passar del tempo, si arrivò agli scontri collettivi. I combattenti si aggregavano secondo rapporti di parentela, di vicinato, o secondo la spinta delle circostanze. Quello che noi chiamiamo brigantaggio, allora era guerra. Si era ancora allo stadio dei sassi e dei pali aguzzati al fuoco.

Un fiumiciattolo che sbarrasse la via, una roccia, un qualsiasi ostacolo di questa entità metteva fine alle ostilità. Frattanto la crudeltà aumentava progressivamente con l'esercizio della crudeltà, i rancori pian piano s'inasprivano, la bramosia di potere s'accendeva sempre di più: e di pari passo l'impulso aggressivo cominciava ad armarsi d'intelligenza. S'inventavano armi difensive di qualsiasi genere, s'inventavano armi d'offesa. Ormai si cominciava a venir alle mani dappertutto, i gruppi s'infoltivano, s'armavano: si era alla follia manifesta. Eppure anche questa follia fu fregiata d'un nome onorifico: la si chiamò bellum, «guerra»; e si definì virtus, «valore militare», la difesa, a rischio della vita, di figli, moglie, bestiame, casa, dagli attacchi nemici. La protervia crebbe col progredire della civiltà: e cosi, di grado in grado, cominciarono a scoppiar guerre fra città, fra province, fra nazioni. Nonostante la ferocia intrinseca della cosa, permanevano pur sempre vestigi della gentilezza di un tempo. Si mandava un sacerdote, il feciale, a chieder soddisfazione, si chiamavano gli dei a testimoni del torto subito, non si veniva a battaglia senza un preludio di scaramucce. Risorse di guerra erano le armi ordinarie e il valore dei combattenti non la frode. Era vietato attaccare il nemico prima che si fosse dato il segnale; non era lecito combattere quando il generale suonava la ritirata. Insomma la guerra era gara di coraggio, lizza di gloria, non smania d'uccidere. La presa d'armi aveva ancora come obiettivo lo straniero, che perciò si chiamava hostis (nemico), per analogia con hospes (forestiero). Tale fu l'origine degli imperi. E ogni volta che un popolo si conquistò un impero, il genere umano dovette pagare un cospicuo prezzo di sangue. Da allora in poi, fu una successione continua di guerre: un aspirante deponeva a forza il detentore dell'impero e s'insediava al suo posto, e cosi di seguito. Successivamente l'impero cadde in mano ad uomini privi d'ogni coscienza: allora si presero le armi contro chicchessia,

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7indiscriminatamente, ad arbitrio. Non chi aveva fatto del male, ma chi aveva accumulato del bene cominciò ad essere più esposto ai pericoli della guerra. Obiettivo del conflitto cominciò ad essere non la gloria, ma il sordido guadagno o qualcosa di più vergognoso ancora.

Pitagora, quel gran savio, aveva senza dubbio previsto questo esito, quando con un espediente filosofico cercava distogliere la moltitudine ignorante dall'uccidere animali. Egli intuiva che l'uomo abituato a versare, senza la minima provocazione, il sangue d'una bestia innocua, non avrebbe esitato, in balia della collera e sotto lo stimolo della provocazione, a sopprimere il suo simile. Ancora un passo, e siamo alla guerra. Che cos'è la guerra? un omicidio collettivo, di gruppo; una forma di brigantaggio tanto più infame quanto più estesa. Ma questo genere di riflessioni muove a riso e a scherno gli stolidi personaggi che stanno oggi al vertice: son farneticamenti da maestri di scuola, sentenziano, sentendosi al livello di Dio (e non sono neanche a livello d'uomo, se non perché hanno una faccia).

6. Abbiamo descritto la fase iniziale della parabola. Ebbene, da quella fase siamo

arrivati a un tal grado di frenesia, che tutta la nostra vita è dominata dalla guerra. Non c'è tregua. La guerra imperversa a livello di nazioni, a livello di regni, di città, di principi, di popoli. Non rispetta rapporti di parentela, non conosce vincoli di sangue, mette fratello contro fratello, arma il figlio contro il padre. Con questo, siamo già arrivati a uno stadio che appariva riprovevole anche ai pagani. Ma c'è uno stadio ulteriore, un'ignominia - almeno mi pare - ancora più grave: la guerra mette il cristiano contro l'uomo. E mette - esito a dirlo - cristiano contro cristiano. Con questo, siamo al vertice dell'ignominia. Eppure nessuno fa domande, nessuno si leva a dire una parola di riprovazione: cecità della mente umana! C'è chi plaude, chi esalta, chi chiama santa un'iniziativa superdiabolica e aizza principi già per conto proprio farneticanti, dando, come si dice, esca al fuoco. Uno promette dal pulpito la remissione di tutti i peccati a chi combatte sotto le insegne di quel principe. Un altro predica: «Principe invincibile, mantieniti così ben disposto verso la religione, e Dio combatterà per te». Un terzo dà per sicura la vittoria e distorce in senso le parole dei profeti, interpretando i versi del salmista: «Tu non temerai di spavento notturno, né di saetta volante di giorno, né del demonio che distrugga in pien mezzodì»; e «Mille te ne cadranno al lato manco e diecimila al destro »; e «Tu camminerai sopra l'aspide e sopra il basilisco, tu conculcherai il leone e il dragone». In una parola, quel salmo mistico subiva un distorcimento totale in senso profano, veniva forzato in riferimento a questo e a quel principe. A nessuna delle due parti in lotta faceva difetto questa razza di profeti, né ai profeti facevano difetto gli applausi. Abbiamo sentito di tali sermoni belligeri risuonare in bocca a monaci, in bocca a teologi, in bocca a vescovi. Ed ecco le conseguenze: si vedono combattere vegliardi, combattere sacerdoti, combattere monaci. Cristo vien coinvolto in un'impresa demoniaca. Eserciti nemici si scontrano portando l'uno e l'altro l'insegna della croce: quella croce che varrebbe da sola a rammentare che genere di vittoria convenga ai cristiani. Quel segno celeste, simbolo del vincolo perfetto e ineffabile che congiunge i cristiani, diventa punto di partenza in una corsa allo sterminio reciproco: e di una tale nefandezza facciamo Cristo spettatore e promotore. Se il regno di Satana esiste, non può essere altro che la guerra. Perché allora coinvolgervi Cristo? Meglio starebbe in un postribolo. L'apostolo Paolo accenna con sdegno all'esistenza, in seno alle comunità cristiane, di controversie che richiedevano l'intervento del giudice. Come reagirebbe, se ci vedesse guerreggiare in ogni parte del mondo, e per i più futili motivi, con una ferocia che supera quella dei pagani, con una crudeltà che supera quella dei barbari? Se vedesse che ciò avviene con il consenso, l'istigazione, la partecipazione attiva di coloro che rappresentano il papa - quel pacificatore, quel cementatore universale - e che salutano il popolo con un augurio di pace?

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8A questo punto ho la sensazione di sentirsi levare contro di me le proteste di quei

venturieri, che mietono il loro raccolto nelle calamità pubbliche: «Noi facciamo guerra controvoglia, vi siamo costretti dalle prepotenze altrui. perseguiamo il nostro diritto. Tutte le sventure che la guerra porta con sé devono essere messe sul conto di coloro che, la guerra, l'hanno provocata». Prego questi tali di tenersi tranquilli ancora per un po', ché al momento opportuno confuterò i loro sofismi: lo voglio spazzar via, questo belletto, col quale inverniciamo la nostra scabbia.

7. Abbiamo messo a confronto uomo e guerra - cioè la creatura più pacifica con

l'iniziativa più spietata - per far risaltare evidente l'abominio. Ora mettiamo a confronto guerra e pace - cioè la condizione più miserevole e più nefanda ad un tempo con la condizione più prospera e ad un tempo più benefica. Allora soltanto risulterà chiaro che razza di pazzia è volere la guerra a prezzo di tanto disordine, di tante fatiche, di tante spese, di tanto pericolo, di tante sventure: quando, a un prezzo molto inferiore, si potrebbe invece ottenere la pace.

Tanto per cominciare, esiste qualcosa al mondo di più soave, di più proficuo del’amicizia? Niente di certo. E che altro è la pace se non un amicizia generalizzata? Proprio come la guerra non è altro che inimicizia generalizzata. Vale per i beni la regola che, quanto più si dilatano, tanto maggior profitto arrecano. La conseguenza è chiara: se un'amicizia privata è tanto gradevole e fruttifera, quanto prospera sarà l'amicizia fra due stati, fra due popoli! Per i mali vale la regola contraria: più si estendono e più si meritano il loro nome Ed ecco la conseguenza: se un duello individuale è una disgrazia e un delitto, a che grado di miseria e di nefandezza arriverà un duello mille e mille volte potenziato! «Con la pace i piccoli stati si sviluppano, con la discordia anche i grandi vanno in rovina». La pace è madre e nutrice di ogni bene. La guerra fulmineamente distrugge, spegne, cancella ogni prosperità, ogni bellezza; e rovescia sulla vita umana una cloaca di mali, una specie di palude di Lerna. In tempo di pace sembra che una primavera di inusitato splendore arrida all'umanità: i coltivi sono ben curati, i giardini in fiore, il bestiame prospera, si costruiscono ville, nascono nuovi borghi, quelli cadenti vengono restaurati, gli altri abbelliti e ampliati, i patrimoni crescono, aumenta la gioia di vivere, le leggi sono rispettate, si consolidano le istituzioni civili, ferve la religione, si sente il valore della giustizia, fiorisce la solidarietà umana, si sviluppano arti e mestieri, la povera gente guadagna meglio, s'accentua l'opulenza dei ricchi. Fioriscono gli studi delle discipline liberali, i giovani si istruiscono, i vecchi si godono il loro riposo, le ragazze si sposano sotto buoni auspici,

Prole simìl liete le madri additan, i buoni prosperano, i cattivi peccano meno. Ma appena si scatena quel turbine spietato

che è la guerra, Dio del cielo, quale oceano di mali inonda, allaga, sommerge il mondo intero! Razzie di bestiame; calpestio e sciupio di seminati; massacri di contadini; fattorie e ville in fiamme; città fiorentissime, frutto di operosità secolare, spazzate via dalla tempesta in un colpo solo (fare il male è tanto più facile che fare il bene!). Le ricchezze dei cittadini finiscono in mano di briganti e di sicari abominevoli. Le case sono funestate da lutto, angoscia, pianto. Ogni angolo risuona di lamenti. Arti e mestieri languono, la povera gente e ridotta alla fame o deve ricorrere a male arti. I ricchi, o che piangano dietro ai beni perduti, o che tremino per i beni rimasti, sono al colmo dell'angoscia. Le ragazze non trovano marito o hanno nozze tristi e malaugurate. Le donne abbandonate isteriliscono nelle case. Le leggi perdono ogni vigore. La solidarietà umana diventa oggetto di scherno. Non c'è posto per la giustizia, la religione vien messa in burletta. Non c'è più differenza tra sacro e profano. La gioventù è corrotta da vizi di ogni genere. I vecchi in lutto maledicono la loro longevità. I

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9nobili studi delle lettere non trovano più alcun onore. In una parola: troppe sventure arreca la guerra perché qualcuno le possa esaurientemente descrivere, tanto meno io.

Non escludo che ci si possa anche rassegnare a subire la guerra. A condizione che essa non abbia altro effetto che di coinvolgerci nelle sventure: ma ci coinvolge nel delitto e nell'empietà. A condizione che la pace non abbia altro effetto che di rendere la nostra vita più prospera: ma la rende anche più buona. Empio è perciò chiunque provoca la guerra.

Non c'erano già abbastanza mali a opprimere, a schiacciare, a divorare la tribolata umanità? Troppi ohimè ce n'erano. Non le davano tregua. Non le lasciavano scelta. Circa duemila anni fa i medici catalogarono trecento nomi di malattie, senza contare le sottospecie (e ogni giorno ne spuntano di nuove!), senza contare quella malattia incurabile che è la vecchiaia. La dimestichezza coi libri c'insegna che qua una città intera è stata rasa al suolo dal terremoto, là un'altra è stata colpita dal fulmine ed è andata a fuoco, altrove un cataclisma ha addirittura spazzato via intere province, scavi di conigli hanno provocato il crollo di borghi e castelli. Per non parlare delle masse d'uomini che restano vittime d'accidenti insignificanti - insignificanti perché ormai ci abbiamo fatto l'abitudine -: alluvioni e mareggiate, frane e crolli d'edifici, veleni, cadute, bestie, cibi, bevande, sonno. C'è chi muore bevendo il latte, soffocato da un pelo, chi da un chicco d'uva, chi da una lisca di pesce che gli è rimasta in gola. C'è chi è ucciso da una gioia improvvisa (meno sorprendente il caso di chi è ucciso da un grande dolore). Aggiungi a tutto questo le epidemie mortali che spesso infuriano di qua e di là. Nel mondo non c'è elemento che non rappresenti una minaccia incombente sulla vita dell'uomo, già di per sé fugacissima. Tanti mali l'assediano e lo turbano, che Omero dichiarò l'uomo il più infelice dei viventi. E a ragione. Ma questi mali, in quanto difficili da evitare, in quanto indipendenti dalla nostra volontà, possono fare di noi degli sciagurati: ma non possono fare di noi dei delinquenti. Che senso ha, se già siamo esposti a tante sventure, tirarsi addosso il male volontariamente? Come se non ne avessimo abbastanza. E tirarsi addosso non un male qualsiasi ma quello che sta al vertice dell'orrore, e di buon intervallo: cosi rovinoso da lasciarsi indietro tutti gli altri, così prolifico da portarli tutti in seno, rosi mostruoso da coinvolgerci nel crimine non meno che nella sventura, da renderci miserrimi eppur indegni di commiserazione (fatta eccezione di quelli che meno lo vogliono e più lo soffrono). Ma non basta ancora. I frutti della pace hanno una diffusione a largo raggio e un alto numero di fruitori. Le eventuali prosperità della guerra (ma, Dio del cielo, si può parlare di prosperità in guerra?) tornano a vantaggio di una piccola cricca di gente spregevole. La sopravvivenza di uno è la morte di un altro, la ricchezza di uno è il saccheggio di un altro, il trionfo di questo è il cordoglio di quello. Ciò inasprisce la sventura, insanguina la prosperità e la fa spietata. Il più delle volte però succede come nella proverbiale vittoria di Cadmo: si piange da una parte e si piange dall'altra. Forse nessuna guerra ha avuto mai un esito così felice che il vincitore - se avveduto - non si sia pentito di averla fatta. Tirando le fila del discorso: la pace è lo stato più benefico di tutti e il più felice ad un tempo, la guerra è lo stato più luttuoso e ad un tempo il più nefando. Allora come si fa a considerare sano di mente chi, potendo agevolmente avere la prima, va dietro alla seconda fra le più grosse difficoltà?

8. Rifacciamoci dall'inizio. Che desolazione suscitano le prime voci di guerra! E poi a

quanto malanimo si espone il principe, che comincia a spremere dai sudditi un balzello dietro l'altro! Quanti affanni per reclutate e tenere insieme le milizie, per assicurarsi i servigi di truppe barbariche e del soldato mercenario! Quante spese e quante ansie ad un tempo per allestire flotte, per costruire e ripristinare piazzaforti e baluardi, per approntare tende, per fabbricare e spostare macchine da guerra, armi d'offesa e di difesa, salmerie, mezzi di trasporto, vettovaglie! Che dispendio di fatica per erigere ripari, scavare trincee, aprire gallerie, per i turni di guardia, il picchetto, le esercitazioni! Non voglio parlare degli spaventi, non voglio parlare dei rischi (in tempo di guerra la paura s'annida dappertutto). Chi potrebbe

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10elencare tutte le strettezze e i disagi ai quali i soldati nella loro ottusità si assoggettano durante le campagne? (e meriterebbero di peggio, perché la loro soggezione è volontaria). Il vitto ripugnerebbe a un bove di Cipro, il letto disgusterebbe uno scarabeo. Si dorme poco e a comando. In tenda entra il vento da ogni parte, e neanche c'é tenda. Si è tenuti a star all'agghiaccio, a dormir per terra, a rimaner impalati con le armi addosso, a patir fame freddo caldo polvere pioggia, ad assoggettarsi ai capi, a subir la verga: nessuno schiavo conosce schiavitù più indegna di quella dei soldati. Ma non basta. A un segnale funesto, bisogna andare incontro alla morte: o sei carnefice o sei vittima, o uccidi o muori. Tanti disagi s'affrontano, per pervenire alla sciagura suprema. A tanti mali ci si espone, per andare a portare il male in casa altrui.

Vogliamo venire ai conti? Vogliamo valutare esattamente il costo della guerra e della pace? Il risultato é sicuro: la decima parte appena delle ansie, delle fatiche, dei disagi, dei pericoli, delle spese e - qui siamo al nocciolo - del sangue che costa la guerra, basterebbe a salvaguardare la pace. Per buttar giù questa o quella città, metti in campo, e in pericolo, una caterva d'uomini: orbene, mettendoli al lavoro avresti potuto tirar su, senza pericoli, una città molto più bella. «Ma io intendo danneggiare il nemico». Non parla così chi è partecipe dell'humanitas. Ma, se non altro, fai i tuoi calcoli: sei in grado di danneggiare il nemico senza danneggiare preventivamente la tua gente? Si tratta di assumersi una perdita (e che perdita!) certa, mentre l'esito della guerra è incerto: ti sembra la decisione di un uomo in possesso delle sue facoltà?

9. Ma facciamo una concessione. Ammettiamo pure che insipienza, o ira, o

ambizione, o avidità, o ferocia -oppure, se vuoi il mio avviso, le Furie venute su dall'inferno - abbiano trascinato i pagani in questa frenesia. E noi, chi ci ha ispirati? chi ha armato cristiano contro cristiano del ferro cruento? Chi uccide il fratello è un fratricida. Ma fra cristiano e cristiano esiste un legame più stretto che fra qualsivoglia coppia di fratelli, se i vincoli di natura non sono più saldi dei vincoli di Cristo. Hanno in comune la casa - la chiesa -, sono membri dello stesso corpo e si gloriano di avere lo stesso capo - Cristo -, hanno un padre comune in cielo, sono vivificati dallo stesso spirito, sono iniziati agli stessi misteri, redenti dallo stesso sangue, rinati dallo stesso fonte, si alimentano degli stessi sacramenti, militano sotto lo stesso capitano, si nutrono dello stesso pane, bevono allo stesso calice, hanno un comune nemico - il diavolo - e, per concludere, sono tutti chiamati a partecipare alla stessa eredità: eppure si fanno guerra quasi ininterrottamente. Che incongruenza! Dove trovare altrettanti sacramenti di perfetta concordia? dove trovare così numerosi insegnamenti di pace? Un solo precetto Cristo enunciò come proprio: quello della carità. E che cosa ripugna alla carità più della guerra? Con l'augurio della pace saluta gli apostoli solo pace dona, solo pace lascia ai discepoli. Nelle sue preghiere ispirate, chiede al Padre soprattutto che i suoi adepti - i cristiani - siano una sola cosa con lui, così come lui è una sola cosa col Padre. Qui siamo ben oltre la pace, ben oltre l'amicizia, ben oltre la concordia. Salomone offri una prefigurazione di Cristo, perché il suo nome in lingua ebraica significa «il pacifico»: da lui Iddio volle farsi erigere il tempio. David si era segnalato e illustrato anch'egli per virtù d'altro genere; ma Iddio gli interdisse la costruzione del tempio perché - sentenziò - s era macchiato di sangue. Eppure aveva preso le armi per ordine d'Iddio, aveva combattuto quasi sempre contro popoli pagani, ed era vissuto prima che il perfezionatore della legge mosaica venisse ad insegnarci ad amare anche i nemici. Alla nascita di Cristo gli angeli non cantano guerra e trionfi, ma la pace. Prima della sua nascita, il poeta ispirato profetò: «E la pace divenne il suo luogo».

Passa al vaglio tutto il suo insegnamento, da cima a fondo: non ci troverai una parola che non spiri pace, che non suoni amicizia, che non abbia il sapore della carità. Cristo capi che non vi può essere pace, senza una totale incuria di quelle cose che sono oggetto delle

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11nostre terrene contese: perciò volle che imparassimo da lui ad essere miti. Chiamò beati coloro che non tengono conto delle ricchezze e della superbia, loro figlia (sono loro «i poveri di spirito»). Chiamò beati coloro che restano indifferenti alle lusinghe del mondo (sono essi «quelli che piangono»), coloro che si lasciano spogliare dei loro beni terreni perché sanno che questa terra non è che un esilio e che la vera patria, i veri beni degli uomini pii si trovano in cielo. Chiamò beati coloro che fanno del bene a tutti, eppure vengono calunniati e soffrono senza vendicarsi. Disse di non far resistenza al male. Insomma tutto il suo insegnamento si riduce a un messaggio di pazienza e d'amore, tutta la sua vita non parla che di mansuetudine: e c'è una corrispondenza precisa fra l'uno e l'altra. Fu questo il suo modo di regnare e di combattere, di vincere e di trionfare. E non diverge dal suo l'ammaestramento degli apostoli, che s'erano imbevuti dello spirito ancora puro di Cristo ed erano felicemente ebbri di quel mosto. Di che sono piene le lettere di Paolo, se non di pace, di dolcezza, di carità? Di che parla e riparla Giovanni, se non d'amore? e Pietro? e tutti gli altri veri scrittori cristiani? Come è potuto nascere un tal groviglio di guerre tra i figli della pace? Non è forse vero che Cristo designa se stesso come vite e i cristiani come tralci? Ora chi ha mai visto due tralci combattere fra loro? E’ forse una frottola quello che scrive e riscrive Paolo, cioè che la chiesa è un unico corpo composto di diversi membri e avente in Cristo un unico capo? chi ha mai visto azzuffarsi occhio con mano, ventre con piede? Il nostro universo è un'armoniosa convivenza di creature diversissime. La pace regna fra le membra dell'organismo vivente: ogni membro esercita la sua funzione non per sé ma per l'insieme, se un membro è offeso tutto l'organismo gli viene in aiuto. Ha forse più forza il vincolo di natura in un corpo effimero che il legame dello spirito nel corpo mistico e immortale? La preghiera che Cristo ci ha insegnato e che dice «sia fatta la tua volontà come in cielo, così in terra» è forse vana? Nella città celeste regna la concordia. E proprio come una comunità celeste sulla terra Cristo concepì la sua chiesa: la Gerusalemme del cielo avrebbe dovuto essere - per quanto possibile – il suo modello, la sua meta, il suo punto di riferimento.

Facciamo un ipotesi. Supponi che inaspettatamente ci piombi qui, sulla terra, un ospite eccezionale, proveniente da quelle città della luna immaginate da Empedocle, o da uno degli innumerevoli mondi escogitati da Democrito. L'ospite vuol farsi un'idea delle condizioni di vita sulla terra. Viene ragguagliato particolareggiatamente. Sente parlare di una creatura che sorprendentemente associa corpo (che ha in comune con gli animali) e anima (fatta ad immagine dell'intelletto divino). La nobiltà di questa creatura sente dire l'ospite - è tale che essa detiene un potere sovrano su tutti gli altri animali, pur essendo sulla terra in esilio; la sua origine celeste la pungola e la sospinge senza tregua verso obiettivi celesti ed immortali; l'Eterno l'ha cara al punto da mandar quaggiù il suo unico figlio a portare un nuovo genere di sapienza, poiché né le forze di natura né gli strumenti della filosofia avevano consentito a quella creatura privilegiata di raggiungere la sua meta. L'extraterrestre s'informerà accuratamente di tutta la vita di Cristo e dei suoi ammaestramenti. Dopo di che, vorrà scegliersi un osservatorio elevato e di lassù verificare con gli occhi le informazioni acquisite per via orale. E che cosa vedrà? Vedrà che tutti gli animali vivono all'interno della loro specie secondo certe regole, che seguono le leggi di natura, che non hanno appetiti innaturali; vedrà che un solo animale ingaggia con i suoi simili traffici e mercati, zuffe e guerre. A questo punto, direi, il nostro extraterrestre sarà pronto ad identificare l'uomo, oggetto di tutti quei discorsi, con un qualsiasi animale ad eccezione, appunto, dell'uomo. Sennonché la sua guida lo trarrà d'errore, gli dirà: quello è l'uomo. Ed ecco l'extraterrestre cercare con lo sguardo la comunità, che gli hanno celebrato, dei cristiani: quella che, seguendo l'insegnamento del dottore celeste, dovrebbe offrire un'immagine della città degli angeli. Finirà, direi, per localizzare la società cristiana in una qualsiasi parte del mondo, fuorché in quella che è teatro di tanta sfacciata opulenza, dissipazione, libidine, superbia, dispotismo, ambizione, frode, invidia, ira, discordia, risse, battaglie5 guerre, sconvolgimenti -

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12insomma una cloaca di tutti i vizi che Cristo ripudia, cose da Turchi o Saracini, e forse peggio.

10. S'impone una domanda: come ha potuto questa peste infiltrarsi nel popolo di

Cristo? La risposta è certa: anche questo male, come molti altri, si è imposto per gradi, non si è stati in guardia abbastanza (perché ogni male o s'infiltra pian piano, impercettibilmente, nella vita umana, o vi si introduce sotto specie di bene). A dar l'avvio all'infiltrazione fu la cultura. Essa appariva come un valido sussidio per la confutazione degli eretici, che si facevano forti della filosofia, della poesia e della retorica. In un primo tempo, del resto, i cristiani non coltivarono tali discipline; ma quelli di loro che per combinazione le avevano studiate prima di accostarsi a Cristo, misero al servizio della religione le cognizioni acquisite. Anche l'arte di ben dire fu, all'inizio, se non ignorata, almeno coperta e dissimulata; ma in seguito incontrò piena ed esplicita approvazione. Più tardi subentrò, sotto specie di metter a tacere gli eretici, la smaniosa prurigine della disputa: e fece non poco male alla chiesa. Alla fine si è arrivati al punto di recepire l'intero sistema di Aristotele nel cuore della teologia: e l'abbiamo recepito cosi bene, che la sua autorità è diventata più intangibile di quella di Cristo, o poco manca. Se Cristo ha detto una parola che non va d'accordo con la nostra prassi corrente, ci agganciamo la sua brava chiosa, che ne distorce completamente il senso. Giacché chiosare il Vangelo è permesso; mentre invece chi ha l'ardite di esprimere timidamente il suo dissenso dagli oracoli di Aristotele, viene subito buttato fuori a fischi. Aristotele ci ha insegnato che la felicità dell'uomo non è perfetta, se non è corredata da un bell'aspetto e da beni di fortuna. Aristotele ci ha insegnato che non può prosperare lo stato nel quale tutti i beni sono comuni. E noi vogliamo accozzare il suo sistema con l'insegnamento di Cristo: tanto varrebbe mescolare l'acqua col fuoco. Abbiamo recepito anche alcuni elementi di diritto imperiale romano, per l'insegna di giustizia che esso inalbera; e per farli andar meglio d'accordo con la dottrina del Vangelo, abbiamo distorto il Vangelo secondo i principi del diritto romano. Ma il diritto romano permette di «respingere la forza con la forza», consente a ciascuno di «perseguire il suo diritto», approva i traffici, ammette il prestito ad interesse - purché moderato -' celebra come cosa egregia la guerra - purché giusta -. E quale sarebbe la guerra giusta? Ecco la definizione: giusta è « quella guerra che viene indetta da un principe sovrano», anche se il principe in questione è un bambino o un idiota. Per dirla in una parola: tutta la dottrina di Cristo è ormai inquinata di dialettica, di sofistica, di matematica, di retorica, di poesia, dì filosofia e di giurisprudenza pagana. L'inquinamento è arrivato al punto, che s'ha da spendere la maggior parte della vita a studiare i libri pagani, prima di trovare il tempo di aprire i libri sacri. E quando alla fine arrivi ad aprirli - se ci arrivi -' tu sei per forza di cose così imbevuto e contaminato dalle opinioni del mondo, che le parole di Cristo ormai ti risultano ostiche e astruse, oppure subiscono nella tua mente un processo di distorcimento e di adeguamento ai canoni della cultura pagana. Questo stato di cose suscita forse delle critiche? Tutto al contrario: è interdetto parlare del Vangelo a chi non si è preventivamente ingozzato, come si dice, fino agli occhi delle frottole di Aristotele, o meglio dei sofisti. Come se la dottrina di Cristo non fosse formulata in modo da poter agevolmente diventare patrimonio di tutti; come se potesse andare in qualche modo d'accordo con la filosofia.

Col passare del tempo, ricevemmo qualche titolo, qualche tributo d'onore; ma ci furono conferiti senza che li chiedessimo. Successivamente cominciammo a pretendere quegli stessi titoli: come se ci fossero dovuti. La stortura non fu percepita. Passò ancora del tempo. Ricevemmo facoltà e ricchezze; ma per distribuirle in favore dei poveri. Successivamente le ricevemmo anche per nostro uso e consumo. E perché no? Non ci avevano insegnato che la carità ben ordinata comincia da se stessi? Era un abuso, ma le giustificazioni non facevano difetto: è doveroso provvedere ai figli, è legittimo pensare alla

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13vecchiaia che verrà. E poi - si sente dire perché non dovrei accettare la ricchezza che mi piove in grembo senza pregiudizio di nessuno? Così, di grado in grado, si è arrivati al punto che chi ha più mezzi passa per il migliore: mai la ricchezza godette nella società pagana di tanto prestigio quanto ne gode oggi nella società cristiana. C'è forse, nella sfera ecclesiastica o nella sfera laica, un qualche settore che non sottostà al suo influsso determinante?

Onore e ricchezza sono attributi ai quali si confà - chi non lo vede? - un po' di potere. Gente disposta a concederlo non ne mancava. Si accettò anche il potere: ma con riluttanza, ma con misura. Insomma ci si contentò del titolo, lasciando di buon grado ad altri il potere effettivo. Alla fine, di grado in grado, si è arrivati al punto che il vescovo non si sente vescovo, se non ha uno stato temporale, l'abate non si considera abbastanza rispettabile, se non si può fregiare del potere dei tiranni. Ed eccoci all'apice: con faccia di bronzo, abbiamo spazzato via ogni senso di vergogna, abbiamo rotto tutti i freni del ritegno. I pagani hanno conosciuto forme molteplici ed estreme di avidità, d'ambizione, di dissipazione, di superbia, di dispotismo: ebbene, noi li prendiamo ad esempio, li uguagliamo, li superiamo.

11. Lasciamo andare le storture di minor portata. Ma quando mai i pagani hanno

combattuto con pari assiduità o con più ferocia dei Cristiani? Quanti cicloni e quante esplosioni di guerra, quante rotture di trattati, quante stragi abbiamo avuto sotto gli occhi in questi ultimi anni? Non esistono due paesi che non siano stati in conflitto fra loro. (Dopo di che, facciamo gli scongiuri contro i Turchi: come se i Turchi potessero avere spettacolo più gradito di quello che noi stessi, giorno per giorno, offriamo loro, le nostre disfatte reciproche).

Quando mise in campo quella sterminata massa d'uomini per invadere la Grecia, Serse era matto da legare. Dimmi un po' se ti sembra in senno uno che faceva scrivere lettere di minaccia al monte Athos perché gli cedesse il passo, uno che faceva fustigare l'Ellesponto perché gli impediva di salpare. Il famoso Alessandro Magno aveva perso il lume della ragione. Come no? Si sentiva un semidio, bramava d'avere a disposizione più d'un mondo da conquistare - una sfrenata febbre di gloria s'era impadronita di quel giovane cuore. Seneca chiama l'uno e l'altro, senza ambagi, briganti impazziti. Eppure costoro combattevano più civilmente di noi, con più lealtà, non conoscevano i complicati congegni, non conoscevano gli espedienti a cui noi ricorriamo, e non facevano guerra per ragioni così inconsistenti come noi - noi cristiani.

Se ti metti a leggere la storia pagana, troverai dei capitani - e quanti! - che riuscirono a schivare la guerra con espedienti ingegnosi, che scelsero di vincere il nemico con la generosità invece che con le armi, Ci fu addirittura chi preferì rinunciare alla sovranità piuttosto che affrontare il rischio di uno scontro armato. Noi cosiddetti cristiani trasformiamo ogni inezia in un pretesto di guerra. I combattenti pagani, prima di scontrarsi con le armi, s'incontravano a colloquio. I Romani, fallita ogni trattativa, mandavano al nemico il feciale col padre patrato, celebravano determinate cerimonie: in altre parole prendevano tempo per far sbollire la foga di combattere. Anche quando le formalità erano compiute, non si era autorizzati ad affrontare il nemico se non al segnale convenuto: e il segnale era preordinato in modo da lasciare il soldato nell'ignoranza del momento. E nemmeno il segnale dava il diritto di affrontare il nemico e di far uso delle armi a chi, pur trovandosi all'accampamento, non fosse vincolato dal giuramento militare. Tant'è vero che Catone il vecchio imponeva per lettera al figliolo, che si trovava in campo, o di tornare a Roma oppure, se preferiva restare nell'esercito, di chiedere al capitano licenza di affrontare il nemico. Come il segnale d'attacco non autorizzava a combattere se non i soldati giurati, così il segnale di ritirata toglieva a tutti la facoltà d'uccidere. Tant'è vero che Ciro encomiò ufficialmente un soldato che aveva già sollevato la spada per trafiggere un nemico e che, sentendo il segnale di ritirata, lo lasciò

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14andare incolume. Tutte queste disposizioni puntavano a uno scopo: l’uomo non si doveva sentire autorizzato ad uccidere se non in caso di estrema necessità.

Qual è la situazione, oggi, nella società cristiana? Supponiamo che due paesi siano in guerra fra di loro e che un viandante incontri per caso nella foresta uno del paese nemico, non carico d'armi ma carico di denaro non intento alla guerra ma intento alla fuga, perché non vuol far la guerra: lo ammazza, lo spoglia di tutto, lo fa sparire sotto terra. Ecco, Costui avrà nome di valoroso. E si dà titolo di soldati a gente che, attratta dal miraggio di quattro soldi, si butta nella mischia volontariamente e combatte una battaglia fratricida dall'una e dall'altra delle parti in conflitto, come i gladiatori d'un tempo: eppure sono tutti sudditi d'un medesimo principe. Reduci da queste battaglie, se ne tornano a casa a raccontare le proprie glorie militari: e non c’è caso che vengano puniti come briganti, traditori della patria, disertori del principe. Il boia vive fra l'abominio generale, perché è assoldato per mettere a morte delinquenti e rei convinti, secondo i dettami della legge. E chi abbandona genitori, moglie, figli, e di propria volontà si precipita in guerra, non perché assoldato, ma perché aspira a farsi assoldare per un'infame carneficina - ebbene costui torna a casa fra il favore generale, come e più che se non se ne fosse mai allontanato. Sembra che i delitti conferiscano un'aura di nobiltà. Chi ruba un abito si copre d'ignominia; chi va in guerra, fa la guerra e torna dalla guerra, depredando via via tanti innocenti, passa per un cittadino integerrimo. E d'altra parte, il soldato che ha dato prova di maggior ferocia viene promosso capitano della guerra successiva. Insomma la milizia dei cristiani appare, a chi ha presente la disciplina che regolava la vita militare degli antichi, più o meno equivalente al brigantaggio: altro che milizia!

Se poi metti a confronto monarchi Cristiani e monarchi pagani, noi ne usciamo molto male. Quelli aspiravano alla gloria, e ne erano paghi. Si facevano un vanto di far prosperare i territori che avevano conquistato con le armi; iniziavano alle arti della civiltà popoli selvatici, vissuti fin allora come bestie, senza cultura, senza leggi; fondavano città per popolare regioni disabitate; rinforzavano e tutelavano le zone malsicure, agevolando la vita degli abitanti con la costruzione di ponti, di porti, di dighe e con mille comodità analoghe. In conclusione, a quei tempi era conveniente perdere la guerra. Perfino nell'infuriare del conflitto quei re sapevano trovare parole di saggezza, sapevano compiere gesti di moderazione: e quanti se ne ricordano! Le guerre dei cristiani invece sono teatro di operazioni troppo sconce e troppo atroci per poter essere menzionate qui. Insomma, noi imitiamo i pagani solo in ciò che avevano di peggio - anzi, li superiamo.

12. A questo punto varrà la pena di sentire quali argomenti abbiamo escogitato per

giustificare questa nostra manifesta pazzia. « Se la guerra non fosse lecita in nessun caso - si dice - Dio non avrebbe mandato gli Ebrei a combattere contro i nemici». E’ vero: ma perché non dici anche che gli Ebrei non combattevano quasi mai fra loro, bensì contro popoli idolatri e d'altra stirpe? Le nostre sono lotte fra cristiani. Gli Ebrei entravano in guerra per divergenze religiose, si scontravano con una diversa concezione della divinità. Noi ci lasciamo indurre a questo passo da un fanciullesco scoppio d'ira, da avidità di denaro, da sete di gloria, spesso e volentieri dalla sordida paga mercenaria. Gli Ebrei combattevano per ordine divino. A noi uno scoppio passionale mette in mano la spada. Del resto, avrei un'obiezione di fondo. Se il modello ebraico ci piace tanto, perché in forza di esso non ci circoncidiamo? Perché non facciamo sacrifici d'animali? Perché non ci asteniamo dal mangiare carne di maiale? Perché non adottiamo la poligamia? Ma noi ripudiamo queste pratiche. Perché allora il modello ebraico incontra il nostro favore solo in fatto di guerra? In altre parole, perché solo qui andiamo dietro alla «lettera che uccide»? Agli Ebrei fu lecita la guerra, ma fu lecito anche il ripudio: le due concessioni avevano la stessa radice, cioè la «durezza» morale degli Ebrei. Ma da quando Cristo dette l'ordine di riporre la spada, al cristiano non è lecito combattere che

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15la più gloriosa delle guerre, diretta contro i più spietati nemici della chiesa: la cupidigia, l'ira, l'ambizione, la paura della morte. Ecco i nostri Filistei, ecco i Nabuccodonosor, Moabiti ed Ammoniti ai quali non bisogna dar tregua: ci dobbiamo battere indefessamente fino a disfare e sbaragliare i nemici, fino a ristabilire la calma, Se non li mettiamo sotto, nessuno potrà davvero vivere in pace né con sé né con gli altri: solo questa guerra genera la pace vera. Chi ne esce vincitore, non vorrà più saperne di combattere con esseri umani. C'è anche chi interpreta le due spade come i due poteri - quello civile e quello ecclesiastico - che ambedue spetterebbero ai successori di Pietro: un argomento che non mi fa molta impressione. Ad esso si può obiettare che proprio per questo Cristo lasciò che Pietro sbagliasse, cioè per ordinargli di riporre la spada. Dopo quell'ordine nessuno può aver dubbi che la guerra, la quale fino ad allora poteva sembrare lecita, non sia proibita. «Eppure - si dice - Pietro si batté». Si batté, ma in quanto ebreo, prima di aver ricevuto il vero spirito cristiano, Si batté non per i suoi diritti o per le sue proprietà, come facciamo noi, e nemmeno per la sua vita, ma per la vita del maestro. E per concludere, Pietro si batté cosi come, poco dopo, rinnegò. Se lo prendiamo a modello quando si batte, lo prenderemo a modello anche quando rinnega. Pietro peccò per ingenuità e per amore: nondimeno fu rimproverato. Del resto, se Cristo ammetteva questo tipo di difesa - come ottusamente vogliono alcuni interpreti -, perché tutta la sua vita e la sua dottrina non parlano che di pazienza? perché spedisce contro i tiranni i discepoli armati soltanto di bastone e di bisaccia? Se la spada, che Cristo ordina di comprarsi a costo di vendere ogni cosa, è simbolo di una ragionevole autodifesa contro le persecuzioni - come sostiene qualche interprete blasfemo nonché ignorante -, perché i martiri non se ne sono mai serviti?

A questo punto vengono messe in campo le solite formule rabbiniche: «A un soldato di professione è lecito combattere proprio come e lecito a un macellaio guadagnarsi la vita con il suo mestiere: il macellaio sa fare a pezzi le bestie, il soldato sa fare a pezzi gli uomini»; e «Anche ai civili è lecito combattere, ma in una guerra giusta». E qual è la guerra giusta? E qualsiasi guerra che un qualsiasi principe abbia indetto comecchessia a chicchessia. «A sacerdoti e monaci non è lecito impugnare la spada; però è lecito partecipare alla guerra e tenere il comando». «Non è concesso combattere per spirito di vendetta ma per amor di giustizia». Ma a chi non sembra giusta la sua causa? «Cristo spedii suoi apostoli senza difesa, ma finché c'era lui non avevano bisogno di difesa. Quando s'avvicinava il tempo della sua dipartita, disse loro di comprarsi una bisaccia e una spada: la bisaccia per difendersi dalla fame, la spada per difendersi dai nemici». Ma allora, che valore hanno i celebri comandamenti « non siate solleciti del domani», «fate del bene a coloro che vi odiano» e altri dello stesso stampo? Ebbene, «la loro validità è limitata al periodo che precede la sua morte». E se poi Paolo, o Pietro, fanno gli stessi discorsi? Ebbene, quei discorsi «hanno valore di consiglio, non di precetto». Con queste brillanti teorie diamo esca alle cupidigie dei principi e offriamo loro materia di autocompiacimento. Si direbbe che il mondo corra pericolo, un giorno o l'altro, di trovar requie dalla guerra: a scanso di pericolo, noi ci serviamo delle parole di Cristo a puntello della guerra. Si direbbe che temiamo di vedere la cupidigia umana desistere dall'accumular ricchezze: a scanso dl pericolo, facciamo di Cristo un fautore dell'accumulazione. Distorciamo le sue parole in modo tale, che sembra che abbia comandato, nonché permesso, le cose che in precedenza aveva proibito. Prima dell'avvento del Vangelo, il mondo aveva le sue leggi: esercitava la giustizia coercitiva, professava la guerra, praticava l'accumulazione di beni in denaro e in natura. Il Signore non è venuto in terra ad insegnarci ciò che ci è permesso, vale a dire fino a che punto ci è lecito deviare dalla perfezione: è venuto ad additarci l'ideale che dobbiamo cercare di realizzare, nella misura delle nostre forze. Chi vuoi convincere gli uomini a non fare la guerra e usa, per convincerli, un tono appassionato è sospetto di eresia; chi invece annacqua con simili commenti il vigore della dottrina evangelica e fornisce ai principi pretesti per indulgere alle loro cupidigie, è un

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16dottore ortodosso della religione cristiana. Un dottore davvero cristiano non approva mai la guerra; forse in qualche caso la permette, ma controvoglia e con dolore.

13. «Ma» obiettano i miei avversari «il diritto di natura prescrive, il diritto positivo

sancisce, la consuetudine ammette che si respinga la forza con la forza, che ciascuno difenda la sua vita e anche il suo peculio, dal momento che esso "è come la vita", per dirla con Esiodo». Lo ammetto. Ma la grazia del Vangelo, di ben altra efficacia, ci prescrive di non rispondere a chi ci insulta, di fare il bene a chi ci fa il male, di dare tutte le nostre facoltà a chi ce ne prende una parte, di pregare anche per coloro che vogliono la nostra morte. «Questi precetti» dicono loro «valgono per gli apostoli». No: valgono per tutto il popolo di Cristo, per tutto quel corpo che, come abbiamo detto, ha da essere perfetto nel suo insieme, anche se un membro può prevalere sull'altro per le sue qualità specifiche. E’ svincolato dagli insegnamenti di Cristo solo chi non spera di esser premiato con Cristo. Scende in lizza per il denaro, per la roba, per il potere, chi si ride della parola di Cristo «beati i poveri di spirito» (cioè: sono ricchi coloro che nel mondo non aspirano a ricchezze o ad onori). Chi vede l'apice della felicità nelle ricchezze del mondo combatte per difendere la vita: ma non intende che questa è morte piuttosto che vita e che ai pii è riservata l'immortalità.

A questo punto gli avversari tirano in campo alcuni pontefici romani, che si sono fatti promotori e complici della guerra. Ci buttano in faccia citazioni dei padri della chiesa, che paiono dire di sì alla guerra. Passi di questo tenore si trovano, non lo nego, ma nei padri più tardi (il vigore di Cristo stava ormai declinando), ma in numero esiguo: innumerevoli sono invece negli scrittori di provata santità i passi che dicono di no alla guerra. Perché ci vengono in mente proprio quei pochi sì? Perché distogliamo lo sguardo da Cristo e lo volgiamo agli uomini? Perché preferiamo attenerci a modelli dubitosi piuttosto che a un’autorità non tocca dal dubbio? Per cominciare, i pontefici romani erano uomini. Inoltre può darsi che siano stati mal consigliati, che siano stati poco accorti e finalmente che siano stati poco saggi o poco pii. In ogni caso scoprirai che neanche loro hanno approvato il genere di guerra che noi pratichiamo senza tregua: lo potrei dimostrare inconfutabilmente, con argomenti lampanti, ma non voglio tirare per le lunghe questa disgressione. San Bernardo ha fatto l'elogio dei combattenti: ma l'ha fatto in un modo che il suo elogio copre d'ignominia tutto il nostro sistema militare. E perché poi una pagina di Bernardo o un capitolo di Tommaso d'Aquino dovrebbe farmi più effetto del precetto di Cristo, il quale ci ha proibito in generale di resistere al male, cioè di resistere nel modo in cui resistono i più?

« Però» mi si dice « è lecito castigare un singolo malfattore; dunque sarà lecito anche punire una collettività con la guerra». Una replica troppo prolissa esigerebbe questa obiezione. Mi limiterò a osservare che c'è questa differenza: nelle azioni giudiziarie il reo convinto paga il fio secondo la legge, nella guerra ognuna delle due parti accusa l'altra. Lì il castigo tocca solo al colpevole, l'esempio arriva a tutti; qui la più gran parte delle sventure ricade su coloro che meno ne sono meritevoli, su contadini, vecchi, donne, orfani, fanciulle. I vantaggi invece - se pure dal più grande dei mali si può trarre vantaggio - vanno tutti a finire in mano di qualche scellerato ladrone, il soldato mercenario, qualche brigante di mano lesta, magari quei due o tre condottieri, che proprio a questo scopo hanno artificiosamente provocato la guerra e che non se la passano mai cosi bene come quando la collettività cola a picco. Le azioni giudiziarie pigliano di mira un singolo per salvaguardare tutta la collettività, la guerra per punire qualcuno - magari uno solo - fa crudelmente tribolare tante migliaia di persone incolpevoli. Meglio lasciare impunito il misfatto di tre o quattro masnadieri, che mettere a repentaglio sudditi, confinanti e nemici - se così vogliamo chiamarli - innocenti: l'esito della nostra azione punitiva contro questo o quello non è sicuro, la calamità che scateniamo è sicura. Meglio lasciar aperta la piaga che non Si può curare senza nuocere gravemente a tutto il corpo. Qualcuno protesterà: «Ma non è giusto che i colpevoli non

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17paghino il fio delle loro colpe ». Rispondo: è molto più ingiusto condannare immeritatamente all'estrema rovina tante migliaia di innocenti.

Ma che vale parlare di giustizia punitiva? In questi tempi non c'è guerra - si può dire - che non si veda nascere da futilissime rivendicazioni di possesso e da interessate alleanze di principi: i quali, per annettere alla propria giurisdizione questo o quel castelluzzo, mettono a repentaglio l'intero regno. Quando poi - a costo di tanto sangue - l'hanno ottenuto, lo rivendono o lo regalano. Qualcuno potrebbe dire: «Dunque a tuo avviso i principi non dovrebbero perseguire il loro diritto? ». So che non si addice ai miei pari discutere troppo avventatamente degli affari dei principi. Se anche il tema non fosse pericoloso, sarebbe troppo vasto per essere affrontato in questa sede. Una cosa sola voglio dire. Se qualsiasi titolo di possesso può costituire un valido motivo per scatenare la guerra, ognuno sarà in grado di esibire un titolo. Sono così intricate le vicende della storia umana, tanti sono stati i rivolgimenti politici. Quale popolo non è mai stato vittima e promotore di un'invasione territoriale? Quante migrazioni ci sono state? Quante traslazioni d'impero, per trattati o per casi fortuiti? I padovani di oggi potrebbero rivendicare nientemeno che il suolo troiano, perché il loro Antenore veniva da Troia. I romani potrebbero rivendicare l'Africa e la Spagna, che un tempo erano province romane. Ma c'è un'altra osservazione da fare. Noi confondiamo la proprietà con l'amministrazione. Non si ha sugli uomini lo stesso diritto che si ha sulle bestie: gli uomini sono liberi per natura. Il diritto che hai sugli uomini - quale che sia - ti è stato conferito dal consenso del popolo. Dunque il popolo, se vedo giusto, avendolo conferito, ha anche la facoltà di revocarlo. D'altra parte considera l'inconsistenza della questione. Si tratta forse di decidere, armi alla mano, se questa o quella città ha da essere soggetta a un buon principe o ha da essere asservita a un tiranno? Macché: si tratta di decidere se la si debba mettere sotto il nome di Ferdinando o di Sigismondo, se debba pagare le tasse a Filippo o a Luigi. Ecco in che consiste il famoso diritto, in nome del quale tutta la terra è sconvolta da guerre sanguinose.

14. Ma voglio fare una concessione all'avversario. Sono disposto ad attribuire a

questo diritto tutto il valore che vuoi. Ammettiamo che non ci sia nessuna differenza fra la proprietà privata di un campo e lo stato, nessuna differenza tra la coppia di bovi acquistati in moneta sonante e una comunità di uomini non solo liberi ma anche cristiani. Tuttavia si conviene a una persona accorta valutare se questo diritto sia di tale importanza, da dover essere perseguito a costo di tirarsi in casa tante sciagure. Se non riesci a esibire un animo da principe, dimostra almeno un animo da bottegaio. Il bottegaio non bada a una perdita, quando si rende conto che non può essere evitata senza più grave detrimento; e se chiude un affare fortunoso con un piccolo discapito, pensa di aver fatto un guadagno. La situazione dello stato si fa critica? Ebbene, tu prenditi ad esempio certi cittadini privati. Si sente raccontare in proposito un apologo piuttosto ameno. Dunque, due parenti non si trovavano d'accordo sulla spartizione di un patrimonio. Nessuno dei due voleva cedere. La cosa si metteva in modo che pareva dover finire in tribunale, la sentenza dei giudici avrebbe risolto la controversia. Si stavano consultando gli avvocati, si preparavano le citazioni, la questione era in mano ai legulei. Ci si presentò di fronte ai giudici, si dichiarò aperto il processo, si cominciò a discuter la causa: cioè si dichiarò aperta la guerra. A questo punto uno dei due rientra tempestivamente in senno avvicina privatamente l'avversario e gli parla cosi: «Punto primo, non sta bene che coloro che la natura ha unito siano divisi dal denaro. Punto secondo, l'esito della causa è incerto quanto l'esito di una guerra. Cominciarla sta a noi, chiuderla no, Siamo in lotta per cento ducati in tutto. Se andiamo per vie legali, in notai, in sostenitori in avvocati, in giureconsulti, in giudici, in amici dei giudici, se ne andrà il doppio di questa somma. Bisognerà esser servili, adularli, far loro regali; per non dire della tensione, e tutto quell'affannarsi a intrigare, quel correre di qua e di là. Insomma, anche ammesso che vinca io,

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18è più lo scapito che il guadagno. Perché non ci mettiamo d'accordo fra noi, invece di ricorrere a questi briganti? Perché non ci dividiamo fra noi il denaro che dovremmo investire in loro? Sarebbe un cattivo investimento, Dammi metà della tua parte ed io ti darò metà della mia. Così salveremo la nostra amicizia, che altrimenti andrebbe in malora, ed eviteremo un grosso fastidio. Se poi non vuoi darmi niente, lo sono anche disposto a rimettere l'intero affare al tuo arbitraggio. Preferisco che questo denaro vada a finire in mano di un amico che a quei briganti insaziabili. Per me sarà un buon affare: salverò la mia reputazione, mi conserverò un amico ed eviterò un mucchio di fastidi». L'avversario non si sente meno toccato dalla forza dell'argomento che dalla generosità del parente. Vennero a transazione fra loro, con grande ira degli avvocati e dei giudici: e lasciarono i corvi a becco aperto.

Vedi dunque, se non altro, di imitare questo esempio di accortezza. Tu ti muovi su un terreno dove il rischio è tanto maggiore. Non devi pensare solo al tuo scopo: devi pensare alle perdite, ai pericoli, alle sventure che comporta il perseguimento di quello scopo. Se metti su una bilancia da una parte i vantaggi e dall'altra gli svantaggi, ti accorgi che una pace iniqua è molto meglio di una guerra equa. Perché dunque preferisci tentare la sorte della guerra? Solo un pazzo pesca con un amo d'oro. Tu vedi che, anche se l'impresa dovesse avere un esito felice, c'è molto più da perdere che da guadagnare: non è meglio allora che tu rinunzi in parte ai tuoi diritti invece di acquisire un esiguo vantaggio a prezzo di tanti mali? Se per far valere un diritto di sovranità devo spargere tanto sangue cristiano, preferisco lasciare quel diritto a un altro. Chiunque egli sia, lo detiene ormai da molti anni, è abituato a tenere le redini, gode del riconoscimento dei sudditi, esercita l'ufficio di sovrano: ed ecco salta su uno che, per aver scovato nei libri di storia o in documenti sbiaditi qualche annoso titolo di rivendicazione, mette sottosopra un bene ordinato stato di cose. Tanto più che, come si vede, nella società degli uomini non c e niente di fisso, niente di duraturo: tutto va su e giù a capriccio della sorte come il mare per effetto della marea. Che senso ha rivendicare con tanto fragore un possesso che in breve tempo, per un caso qualsiasi, è destinato a passare ad altri? Diamolo per concesso: i cristiani non riescono a passar sopra a queste inanità. Ma che bisogno c'è di metter subito mano alle armi? Il mondo ha tanti vescovi autorevoli e dotti, ha tanti venerabili abati, ha tanti vecchi autorevoli e ammaestrati da una lunga esperienza di vita. Ci sono tanti parlamenti, tante assemblee. I nostri antenati non le hanno istituite senza scopo. Perché questi puerili litigi di principi non vengono rimessi al loro arbitrato?

Più speciosa è l'argomentazione di coloro che adducono a pretesto la difesa della chiesa. Come se il popolo non fosse la chiesa, Come se la dignità della chiesa consistesse tutta nelle ricchezze dei preti. Come se la chiesa fosse nata, progredita, si fosse affermata grazie alla guerra e alle stragi, e non grazie al sangue dei martiri, alla sofferenza, all'incuria della vita.

15. C'è un altro aspetto della questione che non mi trova consenziente: i nostri

ricorrenti preparativi di guerra contro i Turchi. Va davvero male per la religione cristiana se la sua sopravvivenza dipende da questo genere di difesa. E sotto tali auspici non possono nascere buoni cristiani: sarebbe un'incongruenza. Quello che si acquista di spada, si torna a perdere per via di spada. Vuoi condurre i Turchi a Cristo? Non ostentiamo i nostri eserciti, le nostre schiere armate, la nostra potenza. I Turchi devono vedere in noi non solo il nome, ma i sicuri contrassegni del cristianesimo: purezza di vita, desiderio di far del bene anche ai nemici, incrollabile tolleranza di tutte le offese, sprezzo del denaro, incuria della gloria, modestia di vita. Devono sentire predicare la sublime dottrina, che corrisponde a un tal modo di vivere. Con queste armi i Turchi si sottomettono benissimo, Ora invece che cosa stiamo facendo? Una guerra che contrappone male a male, dirò di più, una guerra che - tolto il nome e l'insegna della croce - contrappone Turchi a Turchi (e magari la battuta fosse più azzardata che vera!). Se la religione è stata fondata per mano di soldati, se si è affermata con la

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19violenza, se si è estesa con la guerra, ebbene allora tuteliamola con gli stessi mezzi. Se invece i primi cristiani procedettero per altre vie, perché noi ricorriamo alle risorse dei pagani? Diffidiamo forse dell'aiuto di Cristo? «Ma» dicono i miei avversari « se quelli scannano noi, perché mai io non dovrei scannare loro? ». Bravo: così tu ti senti menomato se c'è qualcuno peggiore di te? Ti derubano: e perché tu non rubi? Ti insultano: e perché tu non insulti? Ti odiano: e perché tu non dovresti odiare a tua volta? Ti pare forse un atto da cristiani massacrare degli esseri umani? Saranno magari empi, come diciamo noi: ma partecipano pur sempre di quella umanità, per la cui salvezza è morto Cristo. Quando li massacri, fai al diavolo un'offerta più che gradita, dai al nemico un doppio piacere: perché s'ammazza un uomo e perché chi ammazza è un cristiano. C'è chi, per darsi l'aria del buon cristiano, cerca di fare ai Turchi tutto il male che può, e il male che non può fare glielo augura a forza di maledizioni: ebbene, questo è proprio il segno per riconoscere un cattivo cristiano. Analogamente c'è gente che, per darsi una facciata di rigorosa ortodossia, scaglia violente maledizioni contro dei presunti eretici: e magari sarebbero proprio loro a meritare questo nome. Chi vuoi dar prova di ortodossia, cerchi di far rinsavire chi sbaglia con le buone. Noi vomitiamo ingiurie contro i Turchi per sentirci buoni cristiani: ma al cospetto di Dio siamo ancora più abominevoli dei Turchi. Se gli antichi divulgatori del Vangelo avessero assunto verso di noi l'atteggiamento che noi prendiamo con i Turchi che ne sarebbe oggi di noi? Non siamo diventati cristiani grazie alla loro tolleranza? Tu aiuta i Turchi, convertili se puoi, se non puoi prega per la loro conversione: solo allora ti riconoscerò per cristiano.

Quanti sono nel mondo gli ordini mendicanti, che vogliono passare per colonne della chiesa! E contano migliaia e migliaia di adepti. Ma in che percentuale sarebbero disposti, questi frati, a mettere la vita allo sbaraglio per propagare la religione di Cristo? «E un'impresa senza prospettive», dicono loro. Invece le prospettive sarebbero ottime, se essi seguissero l'esempio dei loro fondatori, Domenico e Francesco, uomini straordinari, che del mondo e della vita non facevano, mi sembra, nessun conto (per non parlare della condotta degli apostoli). Nemmeno i miracoli ci farebbero difetto, se la gloria di Cristo li richiedesse. Ma al giorno d'oggi quelli che si fregiano del titolo di vicari e successori di Pietro, principe della chiesa, e degli altri apostoli, ripongono per lo più tutta la loro fiducia nelle risorse umane. E persino quei rigidi campioni della vera religione, dei quali parlavo di sopra, si sono insediati in città opulente e lussuriose, dove, invece di risanare gli altri, si guastano loro, e dove ci sono già abbastanza pastori che ammaestrano il popolo e sacerdoti che cantano le lodi a Dio. Si sono insediati nelle regge dei principi - e sarà meglio non dire che cosa ci stanno a fare. Magari non vi stessero peggio che i cani in chiesa! Smaniano dietro ai lasciti testamentari; vanno a caccia di guadagni; si prostituiscono alla tirannide dei principi; e tanto per darsi l'aria di far qualcosa, bollano gli articoli erronei, sospetti, scandalosi, irriverenti, eretici, scismatici. Preferiscono regnare a danno del popolo cristiano che propagare, a proprio rischio e pericolo, il regno di Cristo. Invece i cosiddetti Turchi sono in gran parte cristiani a metà, e chissà che non siano più vicini al vero cristianesimo della maggior parte di noi. Vediamo un po': quanti di noi non credono alla resurrezione del corpo né alla sopravvivenza dell'anima? Eppure costoro infieriscono sugli ereticuzzi, che mettono in dubbio la giurisdizione del pontefice romano sulle anime tormentate dal fuoco del purgatorio. Prima togliamo « la trave dal nostro occhio» e poi togliamo «dall'occhio del fratello la festuca». La perfezione della fede evangelica è una vita degna di Cristo. Ma noi facciamo gli zelanti laddove sono in questione dottrine che non incidono minimamente sul modo di vivere della gente; e invece chiudiamo gli occhi laddove sono in questione valori che rappresentano i pilastri della fede e che, venendo a mancare, ne provocherebbero il crollo definitivo. Perché? Noi ci fregiamo della croce e inalberiamo il Vangelo; ma chi ci presterà fede se tutta la nostra vita va sotto l'insegna del mondo? E c'è dell'altro. Cristo, che di per sé non conosceva imperfezione, «non trita la canna rotta e non ispegne il lucignolo fumante», come dice il profeta: egli si mostra benigno e

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20tollerante verso l'imperfezione altrui, le dà tempo di correggersi. Noi ci prepariamo a passare a fil di spada tutta l'Asia e l'Africa, dove moltissimi sono cristiani o semicristiani. Perché invece non offriamo rifugio ai primi, aiuto e benevoli ammonimenti agli altri? Ma forse miriamo a estendere la nostra sfera d'influenza5 forse ci fanno gola le loro ricchezze: allora perché imbellettare col nome di Cristo un'impresa tanto profana? E se poi, confrontandoci con i Turchi sul piano delle risorse umane - e su quello soltanto -, dovessimo mettere a repentaglio, in modo manifesto, in modo globale, proprio quella parte del mondo che resta in nostro potere? Vedi un po’ in che cantuccio del mondo ci hanno ridotti. E vedi un po’ che ammasso di barbari ci mettiamo a stuzzicare, in tre o quattro che siamo. Ma qualcuno dirà: «se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?». Questo motto sta bene in bocca di chi confida solo nell'aiuto di Dio. Ma a chi fa affidamento su un altro tipo di risorse, che cosa dice il nostro condottiero Gesù Cristo? «Chi di spada ferisce, di spada perirà ». Se vogliamo vincere in Cristo, allacciamoci al fianco la spada della parola evangelica, vestiamo l'emo della salvezza, lo scudo della fede e gli altri pezzi dell'armatura apostolica. Il colmo della vittoria sarà allora essere vinti.

Ma ammettiamo pure che l'alea della guerra ci sia favorevole: chi ha mai visto far dei cristiani, dei cristiani veraci, a forza di fuoco e di ferro, di carneficine e di saccheggi? E’ meno male esser un turco sincero o un ebreo in buona fede che un cristiano ipocrita. «Ma dobbiamo stornare il loro attacco, non vogliamo che ci piombino addosso». Allora perché scateniamo noi stessi quell'attacco, perché ce li tiriamo addosso, con i nostri conflitti intestini? Se saremo concordi, attaccarci non sarà certo cosa da poco. E la nostra opera di conversione procederà più rapida se li risparmiamo che se li annientiamo. Io preferisco un turco genuino a un cristiano finto. Compito nostro è spargere il seme del Vangelo: Cristo poi ci darà il raccolto. La messe è abbondante se non mancano gli operai. E invece, per fare di questo o quel turco un cattivo e falso cristiano, quanti buoni cristiani renderemo cattivi, quanti cattivi cristiani renderemo peggiori? Non altra messe produce tutto questo ribollire di guerra. Sento aleggiare nell'aria un sospetto che non voglio neanche formulare, un sospetto che in troppi casi, ahimè, si è trasformato in certezza: che le voci di guerra contro i Turchi vengano messe in giro apposta per avere il pretesto di spremere il popolo di Cristo, per opprimerlo, per fiaccarlo in tutti i modi e indurlo cosi a sottostare più servilmente alla tirannide dei principi secolari e non secolari.

Con questo non intendo condannare in tutto e per tutto la guerra contro i Turchi, se i Turchi prendono l'iniziativa: intendo solo dire che una guerra fatta in nome e sotto l'insegna di Cristo, ha da esser condotta con spirito cristiano e con le armi di Cristo. Dobbiamo suscitare in loro l'impressione di un invito alla salvezza, non il sentimento della preda inseguita. La lingua ci fa difetto? Facciamogli vedere un comportamento consono al Vangelo. Sarà una buona base d'intesa: anche il modo di vivere può avere una grande eloquenza. Portiamogli un credo semplice, davvero apostolico, non troppo appesantito da articoli e aggiunte di origine umana. Non chiediamogli niente di più che il consenso sugli articoli esplicitamente formulati nei libri sacri e nelle lettere degli apostoli. Se i dogmi sono pochi, il consenso sarà più facile; e l'accordo durerà di più, se nella maggior parte degli articoli ciascuno avrà la libertà di pensare a modo suo (purché ci si astenga dalle controversie). Ma tutti gli interessati potranno trovare una trattazione assai più esauriente di questi temi, quando pubblicheremo il libro intitolato Antipolemo, scritto durante il nostro soggiorno a Roma, e dedicato a Giulio Il pontefice romano, nel periodo in cui si tenevano consultazioni sulla opportunità o meno di muover guerra a Venezia - una guerra sulla quale c'era più da piangere che da discutere.

Ad esaminare la faccenda più a fondo, si vede che quasi tutte le guerre dei cristiani nascono o da insipienza o da malignità. Sovrani giovani e inesperti del mondo, infiammati dai cattivi esempi della storia avita - una storia di pazzi che altri pazzi hanno mandato in

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21memoria -, e per di più istigati e incitati dagli adulatori, stimolati da giuristi e teologi, con il consenso e la connivenza dei vescovi (fors'anche con la loro sollecitazione), entrano in guerra più per imprudenza che per malizia; e imparano, a costo di una così' grave iattura universale, che la guerra è da evitare a qualsiasi costo. C'è chi è spinto alla guerra da segreto odio, chi dall'ambizione, chi dalla ferocia: anche la nostra Iliade non altro che

i furor ciechi

Di re stolti e di popoli comprende. Ci sono di quelli che fanno la guerra per una sola ragione: perché in questo modo

possono imporre più facilmente la loro tirannide ai sudditi. In tempo di pace l'autorità del parlamento, la dignità dei magistrati, la forza delle leggi non consentono al principe di fare lecito il libito. Ma quando il paese è in stato di guerra, tutto il potere viene gestito ad arbitrio di pochi: chi è nelle grazie del principe sale, chi non è nelle grazie del principe scende, non c'è limite all'estorsione delle tasse. Ma perché insistere? allora soltanto si sentono davvero monarchi. Nel frattempo i capitani degli eserciti tengono in piedi il gioco fino a che non hanno spogliato all'osso le sventurate popolazioni. Chi ha di queste predisposizioni, pensi forse che si farà scrupolo di cogliere al volo la prima occasione di guerra che gli si offre?

Il passo successivo consiste nell'imbellettare la nostra scabbia di decorosi pretesti. Punto alle ricchezze dei Turchi, e accampo la difesa della religione; cedo a un impulso di odio, e chiamo in causa il diritto della chiesa; sono schiavo dell'ambizione, sono in preda all'ira, mi lascio travolgere dal mio temperamento feroce e sfrenato, e adduco a pretesto l'infrazione di un articolo del trattato di pace, la violazione di un patto d'amicizia, non so che trasgressione di un contratto matrimoniale e cose del genere. Orbene - chi lo crederebbe? - non raggiungono nemmeno lo scopo che perseguono; e mentre inconsultamente si affannano ad evitare questo o quell'inconveniente, cadono in un altro, o nello stesso in forma aggravata. Guarda ai fatti. Li spinge la sete di gloria? Ma è assai più lodevole preservare che annientare, è molto più nobile costruire una città che distruggerla. E poi, quand'anche all'impresa arrida il favore di Marte, ben misera è la porzione di gloria che tocca al principe: il popolo - che ha finanziato l'impresa - se ne rivendica una gran parte, una parte anche maggiore se la piglia il mercenario, per lo più straniero, un po' va ai capitani e la fetta più grossa va alla sorte, la quale ha nella guerra, come in ogni affare, un peso decisivo. Se a spingerti in guerra è l'orgoglio, considera, ti prego, quale cattivo servizio per questa via tu rendi a te stesso. Per non piegarti alla volontà di un singolo - che può essere il principe vicino, magari tuo parente, forse tuo ex benefattore - ti avvilisci molto di più, ti degradi a livello di supplice, mettendoti a implorare il soccorso di barbari e, peggio ancora, di uomini (ma si possono chiamare uomini, quelle belve?) lordi di ogni genere di delitti, colmando di promesse, di lusinghe, di carezze quei campioni d'incesto, d'omicidio, di rapina (ché questo è, per eccellenza, il materiale col quale si fa la guerra). Per l'ambizione di mostrar la grinta a un tuo pari, sei costretto a sottostare all'infima feccia dell'umanità; per l'idea di cacciar fuori dal suo regno questo o quel vicino, bisogna che tu apra le porte del tuo regno alla più rovinosa colluvie di manigoldi. Non ti fidi di un parente e ti metti anima e corpo in mano di una moltitudine armata? Ben altra si-curezza avrebbe potuto darti la pace!

Se ti attira il miraggio del guadagno, fa bene i tuoi conti. Non puoi dir di sì alla guerra, se ti accorgi di pagare un prezzo incalcolabile per un profitto molto minore e, per di più, insicuro. O forse pensi al bene dello stato? Ma per gli stati non c'è via di perdizione più rapida e sicura della guerra. Ancor prima di cominciare hai arrecato alla patria più danno di quanto vantaggio tu possa mai arrecarle con la vittoria. Dai fondo alle sostanze dei cittadini, metti a lutto le case, riempi ogni città, ogni villaggio di briganti, di ladri, di stupratori (ché questo è il retaggio della guerra.) E mentre prima potevi disporre di tutta Ta Francia, ora ti

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22precludi da te l'accesso a molte regioni. Se davvero ami i tuoi sudditi, ti dovresti pur porre qualche problema. Per esempio: perché dovrei mandare il fior fiore della gioventù incontro alla rovina totale? perché orbare tante donne del marito, tanti bimbi del padre? perché far valere una ragione qualsiasi, un diritto controverso, col sangue della mia gente? L'abbiamo visto coi nostri occhi: tutte le volte che si è fatta guerra col pretesto di difendere la chiesa, il clero s'è visto imporre una decima dietro l'altra e torchiare in modo tale, che nessun nemico avrebbe potuto far di peggio. Proprio così: scansando maldestramente il fosso, ci buttiamo nel fosso da noi; non potendo mandar giù un lieve torto3 ci infliggiamo da noi gli insulti più gravi; per non far atto di condiscendenza verso un principe (il che sarebbe un disonore), ci abbassiamo a supplicare la plebaglia; perseguendo sconsideratamente la libertà, incappiamo nei lacci di una degradante schiavitù; correndo dietro a un magro profitto, ci sobbarchiamo perdite immense, noi e la nostra gente. Un principe savio dovrebbe ponderare fra sé questi argomenti; un principe cristiano (sempreché sia cristiano davvero) dovrebbe in tutti i modi evitare, scongiurare, tener lontana questa faccenda infernale, tanto aliena dalla vita e dall'insegnamento di Cristo.

Se poi la guerra è assolutamente inevitabile - perché grande è il numero dei malvagi -, allora dopo aver tentato tutte le vie, dopo aver bussato a tutte le porte per amore della pace, la soluzione migliore sarà disporre acché l'iniqua faccenda sia gestita per mano d'iniqui e sia portata a termine con il minimo spreco possibile di sangue umano. In verità, se ci impegniamo ad essere di fatto ciò che siamo di nome; cioè se non riconosciamo, se non perseguiamo valori terreni; se ci proponiamo come unico scopo di spiccare il volo da qui senza aggravi di sorta; se con tutto il nostro slancio tendiamo al cielo; se collochiamo in Cristo la felicità suprema e crediamo che in lui si trovi ogni vero bene, ogni vera luce, ogni vera dolcezza; se abbiamo la convinzione che al credente nessuno può fare del male; se consideriamo l'inconsistenza, la fugacità delle illusioni umane; se davvero sappiamo quanto sia difficile per l'uomo indiarsi - per cosi dire -, preservarsi con sforzo instancabile dal contagio del mondo, in modo da poter entrare appena abbandonata la spoglia corporea nel consorzio degli angeli; insomma se diamo prova delle tre virtù, senza le quali nessuno merita il nome di cristiano - l'innocenza, che ci preserva dai vizi, la carità, che ci spinge a giovare il più possibile agli altri, la pazienza, che ci induce a sopportare i malfattori e, possibilmente, a rendere bene per male -; in queste condizioni, mi domando, quale mai guerra può scoppiare tra noi? Si tratta o non si tratta di inezie? Se Cristo è una favola, perché non lo mettiamo risolutamente da canto? perché continuiamo a fregiarci del suo nome? Se invece egli è davvero « la via, la verità, la vita», perché i nostri criteri di condotta divergono cosi sensibilmente dall'esempio che egli ci ha dato? Se riconosciamo l'autorità di Cristo, il quale è carità, e nient'altro ci ha insegnato, niente ci ha lasciato in eredità se non la carità e la pace, cerchiamo di modellare su di lui non solo il nome e le insegne, ma gli atti. Votiamoci all'amore della pace, perché Cristo a sua volta ci possa riconoscere per suoi seguaci. Questo è lo scopo che deve ispirare la politica dei pontefici, dei principi, delle città franche. Di sangue cristiano, ormai, se n'è sparso fin troppo. Fin troppe soddisfazioni abbiamo dato ai nemici del nome di Cristo. Se il popolo, come al solito, si agita e tumultua, sta ai principi - che devono essere nello stato quel che l'occhio è nel corpo, quel che è nella vita interiore la ragione - mettergli un freno. Se invece sono i principi a provocare disordini, allora sta al papa ristabilire la quiete con la sua saggezza e autorità. Non ne abbiamo a sazietà di queste guerre interminabili? Non ci punge la nostalgia della pace? Sarebbe pur tempo! La gravità della situazione la esige, il mondo stanco di rovine la reclama, ad essa chiama Cristo, ad essa esorta il pontefice Leone, decimo di questo nome, vero vicario in terra di quel pacifico Salomone che fu Gesù, agnello nel nuocere, leone ruggente contro l’empietà, che volge tutti i suoi desideri, tutti i suoi pensieri, tutti i suoi sforzi, a stabilire un vincolo di comune concordia fra uomini vincolati da una fede comune. Il suo intento è far fiorire la chiesa non di

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23ricchezza o di potere, ma dei vanti che le sono propri: compito nobilissimo, davvero degno di un tale semidio, disceso dalla chiarissima stirpe dei Medici, la cui civile saggezza ha reso l'illustre città di Firenze fiorentissima di pace duratura, la cui casa è stata sempre asilo di tutte le arti liberali, Leone ha avuto in sorte un'indole mite e pacifica, e fin dalla culla, come si suoi dire, è stato iniziato agli studi d'umanità e alle Muse più benigne, è cresciuto tra gli uomini più colti, quasi in grembo alle Muse, ed ha portato sul soglio pontificio una vita e una reputazione immacolata, rimasta vergine di voci maligne anche nella sfrenatissima città di Roma. Non ha brigato per issarsi in trono, anzi l'elezione l'ha colto di sorpresa: egli è stato per cosi dire designato a nome da una voce celeste, perché venga in soccorso dell'umanità stanca di una lunga stagione di guerre. Giulio ha per sé la gloria militare? Se la tenga pure, si tenga le sue vittorie, i suoi pomposi trionfi: quanto essi si addicano a un pontefice romano non sta ai miei pari sentenziare. Una cosa sola voglio dire: che la sua gloria, qualunque sia stata, è legata alla morte e al dolore di migliaia d'uomini. Più vera gloria s'acquisterà il nostro Leone riportando la pace nel mondo, di quanta non se ne sia acquistata Giulio con tutte le sue guerre intrepidamente scatenate o prosperamente condotte in ogni parte della terra.

Ma ci sono dei lettori che vogliono sentir parlare di proverbi, non di pace e di guerra: essi avranno l'impressione che questa digressione è già durata fin troppo. (Erasmo Da Rotterdam, Adagia. Sei saggi politici in forma di proverbi, Einaudi, Torino, 1980)