1. DEFINIZIONE DI POLIFONIA Polifonia in senso lato ...

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1 1. DEFINIZIONE DI POLIFONIA Polifonia in senso lato significa canto simultaneo di due o più voci diverse. In senso stretto polifonia indica soltanto la simultaneità di melodie che seguono ciascuna un proprio decorso ritmico; il caso invece di melodie simultanee dal decorso ritmico identico, tali cioè che a ogni nota dell'una corrisponda contemporaneamente una nota delle altre, è detto omoritmia. La tecnica compositiva basata sulla coesistenza di più voci che procedono sia in omoritmia sia con percorsi ritmici individuali, sarà denominata contrappunto (da punctus contra punctum = nota contro nota). La prevalenza di forme polifoniche e del linguaggio contrappuntistico rispetto alle forme monodiche caratterizza il periodo di storia della musica che va dal IX al XVI secolo. Possiamo suddividere questo ampio periodo in diverse fasi evolutive: - gli inizi (IX-prima metà del XII sec.); - l'Ars antiqua (seconda metà del XII-XIII secolo); - l'Ars nova (XIV secolo); - l'età fiamminga (XV-inizi del XVI sec.); - la polifonia cinquecentesca (XVI secolo). - Monteverdi tra Rinascimento e Barocco 2. GLI INIZI (IX secolo-prima metà del secolo XII) 2.1 Origini e prime fonti teoriche Non si può stabilire con precisione il luogo e la data di nascita e le modalità di affermazione della polifonia. Gli studi etnomusicologici rivelano l'esistenza di forme di polifonia in molte culture musicali di tradizione orale: è lecito quindi supporre che la polifonia in Occidente sia precedente alle prime fonti documentarie esistenti, che provengono dai monasteri dell'Impero franco dell'età carolingia. Più precisamente, a partire dalla fine del secolo IX, accanto alla struttura e alle forme monodiche, la musica colta occidentale iniziò a sperimentare, ma solo successivamente a registrare graficamente, la creazione di strutture e forme polifoniche. Dal IX al XII secolo la polifonia consisteva in una pratica ancora improvvisata, e non scritta, volta ad arricchire e ampliare il repertorio liturgico con aggiunte di qualche elemento nuovo; dunque questa primitiva polifonia può essere assimilata, insieme ai tropi e alle sequenze, a quel rinnovamento musicale provocato, nell'epoca della rinascenza carolingia, dalla sistemazione del repertorio gregoriano e dalla conseguente sua intangibilità e cristallizzazione anche attraverso la nuova scrittura neumatica: l'intagibilità del canto gregoriano scaturiva dalla dignità sacrale

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1. DEFINIZIONE DI POLIFONIA Polifonia in senso lato significa canto simultaneo di due o più voci diverse. In senso stretto polifonia indica soltanto la simultaneità di melodie che seguono ciascuna un proprio decorso ritmico; il caso invece di melodie simultanee dal decorso ritmico identico, tali cioè che a ogni nota dell'una corrisponda contemporaneamente una nota delle altre, è detto omoritmia. La tecnica compositiva basata sulla coesistenza di più voci che procedono sia in omoritmia sia con percorsi ritmici individuali, sarà denominata contrappunto (da punctus contra punctum = nota contro nota). La prevalenza di forme polifoniche e del linguaggio contrappuntistico rispetto alle forme monodiche caratterizza il periodo di storia della musica che va dal IX al XVI secolo. Possiamo suddividere questo ampio periodo in diverse fasi evolutive: - gli inizi (IX-prima metà del XII sec.); - l'Ars antiqua (seconda metà del XII-XIII secolo); - l'Ars nova (XIV secolo); - l'età fiamminga (XV-inizi del XVI sec.); - la polifonia cinquecentesca (XVI secolo). - Monteverdi tra Rinascimento e Barocco 2. GLI INIZI (IX secolo-prima metà del secolo XII) 2.1 Origini e prime fonti teoriche Non si può stabilire con precisione il luogo e la data di nascita e le modalità di affermazione della polifonia. Gli studi etnomusicologici rivelano l'esistenza di forme di polifonia in molte culture musicali di tradizione orale: è lecito quindi supporre che la polifonia in Occidente sia precedente alle prime fonti documentarie esistenti, che provengono dai monasteri dell'Impero franco dell'età carolingia. Più precisamente, a partire dalla fine del secolo IX, accanto alla struttura e alle forme monodiche, la musica colta occidentale iniziò a sperimentare, ma solo successivamente a registrare graficamente, la creazione di strutture e forme polifoniche. Dal IX al XII secolo la polifonia consisteva in una pratica ancora improvvisata, e non scritta, volta ad arricchire e ampliare il repertorio liturgico con aggiunte di qualche elemento nuovo; dunque questa primitiva polifonia può essere assimilata, insieme ai tropi e alle sequenze, a quel rinnovamento musicale provocato, nell'epoca della rinascenza carolingia, dalla sistemazione del repertorio gregoriano e dalla conseguente sua intangibilità e cristallizzazione anche attraverso la nuova scrittura neumatica: l'intagibilità del canto gregoriano scaturiva dalla dignità sacrale

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che proprio nell'età carolingia gli proveniva dall'essere stato attribuito all'opera di Gregorio Magno. Fino al XII secolo sono dunque scarse le tracce nei manoscritti musicali di esempi di polifonia. La prima documentazione riguardante questa pratica proviene da trattati teorici, anche se la descrizione delle forme di improvvisazione polifonica è spesso considerata dal punto di vista del teorico dell'ars musica, piuttosto che da quello del musicista pratico. I primi esempi di polifonia scritta che ci sono pervenuti sono contenuti in un trattato anonimo della fine del IX secolo intitolato Musica Enchiriadis (Manuale di musica), erroneamente attribuito a Hucbald del monastero di Saint Amand, ma comunque proveniente proprio da quel monastero della Francia settentrionale. In questo trattato, e in un suo commentario contemporaneo intitolato Scholia Enchiriadis, si descrivono le regole di questa pratica polifonica improvvisata, chiamata organum o diafonia: consiste nel raddoppiare (contrappuntare raddoppiando), il canto gregoriano, detto vox principalis, con una seconda voce inferiore, più bassa, detta vox organalis, posta alla costante distanza di una quarta, una quinta o un'ottava; ambedue le voci possono essere singolarmente o entrambe raddoppiate all'ottava superiore o inferiore. Esempio 1a Tu patris sempiternus, organum oarallelo da Musica Enchiriadis, in Gerbert, Scriptores cit. (v. bibliografia), tomo I, p. 164-171 esempio 1b Notazione dasiana utilizzata in Musica Enchiriadis esempio 1c trascrizione in notazione moderna Nello stesso trattato viene descritto un altro tipo di organum, per moto obliquo, in cui le due voci, per evitare gli incontri intervallari di quarta eccedente o di quinta diminuita (definiti allora «diabolus in musica»), partono all'unisono, successivamente la sola vox principalis si muove verso l'acuto fino a raggiungere l'intervallo di quarta rispetto alla vox organalis (che ribatte la stessa nota), e procede poi con lei a quarte parallele; nella cadenza finale le due voci ritornano all'unisono.

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Esempio 2a Rex coeli Domine, da Musica Enchiriadis, in Gerbert, Scriptores cit. (v. bibliografia), tomo I, p. 169 esempio 2b Trascrizione in notazione moderna In questi termini, la primitiva polifonia non è altro che una forma di tropatura musicale, che amplifica il discorso rispettando la lezione originale del canto liturgico. Tuttavia questa pratica condusse gradatamente alla perdita della tradizione ritmica del canto gregoriano. Infatti, se nella monodia liturgica tradizionale il canto si adeguava al ritmo delle parole dando luogo a una ricca varietà ritmica (il cosiddetto ritmo oratorio), nella trasformazione da monodia a polifonia si dovette rinunciare al ritmo articolato della monodia e adottare un ritmo più uniforme e maestoso, per poter controllare così il procedere contemporaneo delle due voci, nota contro nota: Sic enim duobus aut pluribus in unum canendo modesta dumtaxat et concordi morositate, quod suum est huius meli, videbis nasci suavem ex hac sonorum commixtione concentum [Così cantando insieme in due o più, con lentezza misurata e concorde, il che è la caratteristica principale di questo stile, vedrai che da questa mescolanza di voci nascerà un bel 'concento']. (Musica Enchiriadis, in Gerbert, cit., t. I, p.166) Anche Guido d'Arezzo parla della polifonia nel suo trattato intitolato Micrologus (Piccola trattazione), databile tra il 1026 e il 1028. Egli riprende il procedimento per moto obliquo già trattato in Musica Enchiriadis, e propone una serie di primitive cadenze armoniche (dette occursus=incontro) in cui le due voci che procedono a distanza di quarta, prima di concludere raggiungendo l'unisono, si incontrano, procedendo per gradi congiunti, sull' intervallo di terza, e poi di seconda, la cui dissonanza rende ancora più gradevole la consonanza finale. La più antica e importante raccolta di vere e proprie fonti musicali riguardanti la pratica polifonica, e non solo la teoria, è contenuta in due manoscritti dell'XI secolo noti sotto il nome di «Tropario di Winchester», consistenti in un repertorio di più di 150 tropi in forma di organum a due voci, in uso presso quella cattedrale. La notazione è neumatica adiastematica, per cui è difficile la sua trascrizione in notazione moderna: tuttavia la presenza di alcune melodie in fonti più recenti e in una notazione più precisa, ne permette una trascrizione attendibile. Nell'XI secolo la struttura polifonica non si applicava a tutta la liturgia, ma soprattutto alle sezioni tropate dell'Ordinario della messa (Kyrie, Gloria e Benedicamus Domino), e soprattutto del Proprio (in particolare Graduali, Alleluia, Tratti e Sequenze) oltre che nei responsori

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dell'Ufficio. In queste parti della liturgia venivano però rese polifoniche solo le sezioni che nell'originario repertorio monodico venivano cantate dai solisti. Nell'esecuzione si alternavano quindi sezioni polifoniche a sezioni monodiche: queste ultime venivano cantate da tutto il coro all'unisono, e quelle polifoniche, più difficili, eseguite da solisti. Procedendo nella evoluzione della polifonia, bisogna citare alla fine dell'XI secolo altri due importanti trattati: Ad organum faciendum (Per fare un organum), databile intorno al 1100, proveniente da Laon e conservato presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano; l'altro trattato è attribuito a Johannes Afflighemensis, francese o fiammingo, che dedicò la sua opera all'abate del monastero di Afflighem, vicino Bruxelles. I due trattati codificano il moto contrario tra le due voci, che ora invertono la loro posizione: la vox principalis è posta nella parte inferiore (e lì rimarrà durante tutto il Medioevo), la vox organalis, è posta nella parte superiore, (dunque in maggiore evidenza), si emancipa sempre più dalla melodia liturgica preesistente, e mostra una sua propria originale configurazione. A volte le due voci tendono, nel procedere, a incrociarsi, ribaltando la loro posizione, la qual cosa le rende reciprocamente più autonome. Accanto agli intervalli permessi - di unisono, quarta, quinta e ottava, ritenuti consonanze perfette -, compaiono anche intervalli imperfetti (terza, sesta) e addirittura intervalli dissonanti come la seconda. All'inizio del XII secolo si sviluppa un nuovo tipo di organum, detto melismatico, in cui le due voci non procedono nota contro nota (stile chiamato dai teorici dell'epoca discanto), ma ad ogni nota del basso ne corrispondono diverse nella voce superiore. Questo stile, detto appunto melismatico, pone la melodia gregoriana preesistente al basso come sostegno della voce superiore che invece intona intere frasi melodiche di lunghezze diverse, dette melismi o fioriture. La melodia gregoriana, in questa sua funzione di sostegno dei melismi della voce superiore, viene a perdere la lezione ritmica originaria, e si trasforma in una sequenza di note di lunga durata. Viene chiamata tenor (dal latino tenere), termine che rimase a designare la voce più grave di una composizione polifonica fino a circa la metà del XV secolo. 2.2 Prime fonti musicali Con la pratica dell'organum melismatico venne superata la fase dell'improvvisazione polifonica e si rese necessario registrare graficamente le composizioni, data la loro complessità; per questa ragione a partire da questo periodo aumenta il numero delle fonti musicali pervenute. Le più importanti provengono dai due principali centri di diffusione del nuovo tipo di organum: il monastero di Santiago de Compostela nella Galizia, (regione situata a nord-ovest della Spagna), e l'Abbazia di S. Marziale di Limoges, nella Francia centro-meridionale. Oltre all'organum melismatico, nel repertorio di Santiago de Compostela troviamo anche la forma del conductus, canto processionale dallo stile diverso. A differenza degli organa, i conductus polifonici non

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sono basati su un tenor preesistente appartenente al repertorio gregoriano, ma su un tenor di nuova invenzione; entrambe le voci che formano il conductus sono dunque originali (di libera invenzione), procedono con un andamento omoritmico, e si avvalgono di un testo in versi. Fra i conductus di Santiago de Compostela è da segnalare la più antica composizione a tre voci, Congaudeant catholici, in cui le due voci inferiori procedono omoritmicamente, e la terza voce, quella superiore, si muove maggiormente rispetto alle altre, come in un organum melismatico. 3. ARS ANTIQUA (seconda metà del XII secolo- XIII secolo) 3.1 La scuola di Notre-Dame. La notazione Tra la metà del XII e la metà del XIV secolo il più importante centro dell'evoluzione della musica polifonica fu la scuola sorta presso la cattedrale di Notre-Dame a Parigi. Il XII secolo vide il nascere di Università a Bologna, Parigi, Montpellier, Oxford, Salerno, e in esse la musica costituiva una materia accademica importante perché, insieme all'aritmetica, la geometria e l'astronomia, formava il Quadrivium, la sezione superiore delle sette arti liberali. L'Università di Parigi, che occupava una posizione di preminenza nel Medioevo, si sviluppò all'ombra della grande cattedrale di Notre-Dame, la costruzione della quale era iniziata nel 1163; la stretta associazione esistente a Parigi tra Chiesa e Ateneo, favorì naturalmente lo sviluppo della musica religiosa. In questo ambito, come vedremo, per la prima volta nella storia della musica occidentale appaiono i nomi di due compositori, che escono così dall'anonimato medievale. Il progredire della composizione polifonica impose ai musicisti di Notre-Dame di corredare la notazione di un significato non solo diastematico, ma anche metrico, del quale era priva, e dunque di conferirle la capacità di esprimere non solo l'altezza dei suoni, ma anche la loro durata. Prima di illustrare la soluzione data al problema ritmico nell'ambito della Scuola di Notre-Dame è necessaria una breve digressione sulle principali tappe nella storia delle notazioni medievali nell'ambito della musica monodica. In essa il problema diastematico fu risolto relativamente tardi, quando si fece la scoperta fondamentale di ancorare un suono fisso a un punto fisso (dapprima una linea a secco, poi colorata con inchiostro rosso per il fa e giallo per il do), per esprimere dei suoni specifici; venne codificato poi il rigo musicale comprendente quattro linee inchiostrate, il tetragramma, all'inizio del quale, una o due lettere alfabetiche (C = do e F = fa) davano la chiave di lettura. Le note poste sulle linee o negli spazi avevano l'aspetto grafico dei neumi quadrati di uno o più suoni ciascuno. Nacque così la notazione diastematica, che risolveva definitivamente il problema di indicare l'altezza dei suoni. Quanto appena illustrato venne utilizzato dalla scuola di Notre-Dame, che si trovava comunque a dover risolvere il problema della

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definizione ritmica della sua notazione, poiché i neumi della notazione quadrata non esprimevano di per sé un valore metrico, e solo successivamente il teorico Francone da Colonia troverà la soluzione al problema differenziando graficamente i valori musicali. La scuola di Notre-Dame adottò una diversa soluzione, nella determinazione della quale si rivelò importante la lunga tradizione dei rapporti intercorrenti tra la disciplina musicale e la disciplina del linguaggio, perché il musicista, la cui formazione culturale avveniva in un ambiente in cui erano abituali le correlazioni tra strutture letterarie e strutture musicali, trovò nella metrica modelli trasferibili, per affinità, in campo musicale. Furono così stabiliti due valori fondamentali, uno maggiore e uno minore, i quali, come nella metrica, anche nella musica ricevettero la denominazione rispettivamente di (nota) lunga e (nota) breve. Queste due misure formavano, nel loro combinarsi, dei modelli ritmici simili ai piedi della metrica classica che regolava il ritmo testuale e, sulla base dei sei principali piedi metrici, vennero codificati sei modi ritmici. Esempio 3 Per illustrare il modo con cui si stabiliva l'appartenenza di una composizione a uno all'altro dei sei modi ritmici bisogna premettere che i simboli grafici adottati non vennero più considerati neumi quadrati, ma vennero semplicemente intesi come note isolate (nel caso dei simboli grafici del punctum e della virga) o gruppi di note legate (nel caso dei simboli grafici degli altri neumi). Questi gruppi furono chiamati ligaturae e potevano essere formati da due, tre o più suoni. L'appartenenza di una composizione a uno dei sei modi ritmici si individuava in base alla maniera con cui le ligaturae e le note isolate venivano raggruppate e organizzate. Più precisamente, l'andamento delle parti (nella polifonia) consisteva in sequenze di note isolate o variamente raggruppate, e veniva scandito dalla presenza di pause (suspiria) in forma di barrette verticale di lunghezza arbitraria che ne precisavano il fraseggio. Lo spazio esistente tra una pausa e l'altra formava un ordo, una specie di unità di misura, e ogni modo ritmico era suddiviso in una serie di ordines. L'appartenenza di una composizione a uno o all'altro dei sei modi ritmici si poteva individuare grazie ala maniera in cui le note venivano raggruppate. Per esempio, se tra una pausa e l'altra a una ligatura di tre suoni seguivano una o più ligature di due suoni, l'andamento ritmico apparteneva al primo modo, basato sul trocheo, quindi era trocaico e le note doveveno essere eseguite nella successione di longa, brevis, longa, brevis ecc. Se invece a una ligatura di due suoni seguiva una o più ligaturae di tre suoni l'andamento ritmico apparteneva al secondo modo, basato sul giambo, e quindi le note dovevano essere eseguite nella successione breve, longa, breve, longa ecc.

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Se la sequenza riportava solo ligaturae di tre suoni, l'andamento ritmico apparteneva al quinto modo, basato sullo spondeo e quindi le note dovevano essere eseguite in una successione di longae. La durata delle pause dipendeva strettamente dall'ordo, dal valore metrico che, secondo il modo di appartenenza, coincideva con la sua posizione. Esempio 4 Gruppi di ligature con trascrizione Al di là di questi schemi rigidi tuttavia il ritmo delle singole melodie poteva essere più flessibile: i valori impiegati potevano essere suddivisi in valori più piccoli o sottoposti a diverse variazioni. Nella trascrizione ci si serve correntemente della divisione in battute e dell'indicazione di tactus 6/8, tenendo però presente che si tratta di una nostra arbitraria interpretazione, la cui affinità col ritmo antico è relativa. Non tutti i sei modi sono però ugualmente impiegati: il più frequente è il primo modo, abbastanza usati sono il secondo e il terzo, puramente teorico è il quarto, il quinto è riservato prevalentemente alla parte inferiore (il tenor), e limitato è l'uso del sesto. All'interno dello stesso componimento è raro che si alternino modi diversi, c'era invece la più ampia libertà di mescolare diversi ordines dello stesso modo. 3.2 I compositori Nell'ambito della scuola di Notre-Dame per la prima volta nella storia della musica occidentale appaiono i nomi di due compositori del repertorio musicale eseguito in quella cattedrale, magister Leoninus e magister Perotinus: proprio riguardo ad essi è fondamentale la testimonianza di un teorico, probabilmente inglese, che non è stato possibile identificare e che perciò viene designato dal Coussemaker (il curatore della nota raccolta Scriptores de musica medii aevi), come Anonimo IV. Questo autore anonimo, intorno al 1275, narra quanto segue: Magister Leoninus, secundum quod dicebatur, fuit optimus organista, qui fecit magnum librum organi de Gradali et Antiphonario pro servitio divino multiplicando; et fuit in usu usque ad tempus Perotini Magni, qui abbreviavit eundem, et fecit clausulas sive puncta plurima meliora, quoniam optimus discantor erat, et melior quam Leoninus erat; sed hic non dicendus de subtilitate organi, etc. [Magister Leoninus era il miglior compositore di organum (la forma polifonica più antica). Fu lui a comporre il "Magnus liber organi de Gradali et Antiphonario" per dare risalto al servizio divino. Quest'opera rimase in vigore fino all'epoca del grande Perotinus che riassunse quel libro e scrisse numerose clausulae o puncta [sezioni di sostituzione] ben più valide perché egli era il miglior compositore di discanto e superiore a Leonino, per quanto non potesse vantare l'abilità di quest'ultimo all'organo]. Il Magnus liber organi di Leonino si componeva di 34 brani polifonici per le

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ore canoniche (Ufficio delle ore) e di 59 per la Messa, per tutto il corso dell'anno ecclesiastico. Perotino revisionò il libro e compose dei nuovi organa, conductus, mottetti. L'effetto prodotto dal nuovo repertorio polifonico fornito dai due compositori fu enorme tanto che le loro opere furono eseguite in tutta Europa come testimoniano le copie che ancora si producevano all'inizio del XIV secolo. Nel processo di chiarificazione della determinazione del ritmo, Leonino rappresenta la via di mezzo tra l'organum melismatico di san Marziale e la polifonia misurata di Perotino che, come vedremo, dette al problema una prima efficace risoluzione. 3.3 L'opera di Leonino Il Magnus Liber organi di Leonino consiste in una serie di composizioni a due voci conosciute sotto il nome di Organum duplum o purum, nelle quali la voce inferiore, detta tenor, è costituita da un frammento di melodia gregoriana (detto anche cantus planus o cantus prius factus) che fungeva da legame tra la nuova liturgia e il vecchio repertorio monodico gregoriano; la voce superiore, detta duplum, è invece oggetto di composizione nuova. Secondo l'uso della scuola di Notre-Dame sono elaborate polifonicamente solo le sezioni del canto monodico gregoriano destinate ai solisti, mentre le altre, quelle destinate al coro, sono lasciate nella versione in canto piano. Altro effetto di contrasto, oltre all'alternanza di sezioni in canto piano e sezioni polifoniche, risulta dalla utilizzazione, nell'ambito delle sezioni polifoniche, di due stili diversi di scrittura: a) lo stile melismatico, dove le note della melodia gregoriana, poste al basso, sono tenute a lungo (e per questa ragione la voce inferiore viene chiamata tenor, da tenere), e la seconda voce, superiore, detta duplum, si muove con molte note in ampie fioriture o melismi; a questo stile melismatico alcuni teorici del tempo attribuiscono in senso stretto, il nome di organum; b) lo stile denominato (da alcuni teorici contemporanei) discantus, nel quale la voce superiore procede quasi nota contro nota con la melodia gregoriana (il tenor) e le due voci si muovono approssimativamente insieme o con minore differenza nel numero di suoni; nel discanto, a differenza delle sezioni in stile melismatico, entrambe le voci cantano su valori definiti nella durata. Nella elaborazione polifonica, le sezioni che nel canto originale gregoriano erano in stile sillabico, (o solo leggermente fiorito), venivano trattate nello stile dell'organum, con lunghe note sostenute al tenor; le sezioni dove invece la melodia originale gregoriana era melismatica, venivano elaborate nello stile del discanto, perché per il tenor era necessario muoversi su valori più rapidi, per non allungare eccessivamente l'intera composizione. Queste sezioni costruite sulle parti più melismatiche del canto, e realizzate nello stile del discanto, venivano dette clausulae.

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Ogni clausula era in sé autonoma, con una cadenza finale definita. Sfruttando il contrasto tra questi due stili Leonino ottenne, sia pure con un tessuto di due sole voci, una grande varietà nell'ambito di questo schema. Nelle sezioni in note lunghe, la voce di duplum richiede grande virtuosismo nell'esecuzione: Leonino fa alternare delle frasi melodiche piane a passaggi in svolgimento rapido detti currentes, che sono caratteristici della sua scrittura. Le sezioni in discanto sono invece più semplici: in esse il magister ripete a volte il tenor di canto piano, con l'intento evidente di dargli maggior peso. In entrambi gli stili, l'attacco di una nuova nota del tenor è dato su un intervallo consonante, dunque una quinta o un'ottava. Esempio 5a Magister Leoninus, Alleluia Pascha nostrum, Firenze, ms., Biblioteca Medicea Laurenziana, Pluteo 29.1, c. 109r esempio 5b Trascrizione in S. Fuller, The European cit. (v. bibliografia), pp. 58-59 Gradualmente l'organum purum venne abbandonato nel corso del XIII secolo, in favore del discanto; durante questa evoluzione le clausulae diventarono, come vedremo, dapprima composizioni intercambiabili e semi-indipendenti, per poi alla fine progredire nella nuova forma del mottetto. 3.4 L'opera di Perotino L'altro grande compositore della scuola di Notre-Dame fu il magister Perotinus, che appartenne alla generazione successiva al magister Leoninus e che operò quindi tra il XII e il XIII secolo. Perotino proseguì l'opera di Leonino; rimase nell'organum l'alternanza di sezioni in canto monodico e sezioni polifoniche, ma in queste ultime si andò sempre più precisando l'andamento ritmico. Spesso le sezioni nello stile dell'organum furono sostituite dalle clausulae in discanto, e a loro volta le vecchie clausulae furono sostituite da altre di concezione più moderna, dette clausulae sostitute. Perotino e i suoi contemporanei ampliarono la struttura dell'organum portandolo dalle due, alle tre o quattro voci, così al duplum (la seconda voce) fu aggiunto il triplum (terza voce) e, a volte, il quadruplum (la quarta voce): questi stessi termini stavano a designare anche le intere composizioni: un organum a tre voci era detto organum triplum o anche solo triplum, e quello a quattro voci quadruplum. Anche nelle parti

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polifoniche degli organa di Perotino si alternano sezioni melismatiche col tenor a valori lunghi e sezioni in discanto: queste ultime corrispondono alle parti melismatiche dell'originale gregoriano, e le sezioni melismatiche corrispondono a quelle originariamente più sillabiche. Come nelle composizioni di Leonino, anche in quelle di Perotino a tre e a quattro voci possiamo però identificare solo due strati sonori: quello costituito dal tenor al basso a valori larghi, e quello costituito dalle due o tre voci poste al di sopra, che procedono più velocemente cantando brevi frasi. La tessitura vocale corrisponde al registro del tenor, e questa estensione limitata dell'ambito vocale provoca spesso l'incrocio delle voci superiori che passano a volte anche al di sotto del tenor. Capita spesso che una frase sia ripetuta con alcune voci scambiate. Quando le voci si incontrano all'inizio della composizione, sui tempi forti e nelle cadenze, formano tra loro intervalli di ottava. quarta o quinta, gli unici accettati come consonanze nel Medioevo; nell'ambito delle frasi invece le parti si muovono con molta libertà e indipendenza, senza escludere passaggi paralleli di quinte, unisoni e ottave e urti dissonanti non preparati. A differenza dell'organum duplum di Leonino che presenta per il trascrittore moderno incertezze nella lettura del ritmo, l'organum di Perotino fornisce maggiore chiarezza ai fini dell'applicazione dei modi ritmici, e anche se apparentemente le formule modali sembrano rigide, in realtà i componimenti sono ritmicamente vivaci e variati; naturalmente bisogna scindere l'interpretazione del ritmo modale, piuttosto elastico, dalla concezione della moderna battuta di 6/8 (con i tempi forti e deboli) in cui si trascrive, che deve essere solo il mezzo per facilitare la lettura. Esempio 6a Magister Perotinus, Viderunt omnes, ms., Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Pluteo 29.1, c.1r esempio 6b Trascrizione dell'incipit in notazione moderna Negli organa quadrupla di Perotino le note del tenor sono così prolungate nella loro durata che ognuna di esse (portatrice di una sillaba delle parole del cantus firmus gregoriano) sostiene una intera sezione; il cambiamento di nota o di sillaba nel tenor dà luogo ad un nuovo gruppo di idee nelle tre voci superiori perché invece del flusso continuo di idee nuove di Leonino, il magister Perotino adotta poche frasi brevi sottoposte a variazioni, ma fondamentalmente costanti. 3.5 Il conductus

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A differenza degli organa tripla e quadrupla di Perotino che costituiscono l'espressione più elevata e complessa della polifonia liturgica dell'inizio del XIII secolo, e che si basano su tenores (cantus firmi) gregoriani preesistenti, i conductus si svilupparono su tenores originali (anche se furono usati come qualsiasi cantus firmus): trattano argomenti sacri ma non liturgici, o addirittura profani, e in questo caso svolgono argomenti morali o storici; a differenza dei testi liturgici, che sono in prosa e preesistono alla composizione musicale, quelli dei conductus sono testi in versi (poemi metrici), e composti contemporaneamente alla musica. Il conductus era scritto a due, tre, o anche quattro parti che si muovono in un ambito ristretto, per cui tendono a incrociarsi, ma anche a scambiarsi i ruoli; cadenzano sugli intervalli, allora ritenuti perfetti, quali la quarta, la quinta, e l'ottava, ma si incontrano spesso anche su intervalli di terza che all'epoca erano ritenuti consonanze imperfette. La struttura del conductus era in genere strofica cioè con la stessa intonazione musicale per tutte le strofe: lo stile musicale era semplice perché le parti tendono a seguire ritmi identici, dando luogo a un procedere omoritmico e accordale. Il testo veniva disposto sillabicamente sotto le rispettive note; ma alcuni conductus iniziano o terminano con estese sezioni in stile melismatico (senza testo), denominate caudae, che a volte proponevano una certa varietà ritmica tra le voci: ne scaturiva così una mescolanza tra lo stile del organum e quello del conductus. Per quanto riguarda l'esecuzione, non è dato sapere se venivano cantate tutte le voci o solo il tenor che era l'unica parte ad avere il testo; non è neanche dato sapere che funzione avessero in essa eventuali strumenti musicali. 3.6 Il mottetto Nella seconda metà del XIII secolo, dalla scuola di Notre-Dame si sviluppò una nuova forma musicale, chiamata mottetto, destinata a diventare la composizione polifonica più importante e diffusa del Duecento. Abbiamo detto che Leonino aveva inserito nei suoi organa delle sezioni dette clausulae nello stile del discanto, e che successivamente Perotino e i suoi contemporanei ne composero parecchie, alcune delle quali con funzione alterna o di sostituzione di quelle composte dalla generazione precedente (clausulae sostitute). Queste ultime erano interscambiabili, e sullo stesso tenor potevano esserne composte parecchie per le varie occasioni. La voce o le voci sovrapposte al tenor erano in un primo tempo prive di testo; solo successivamente, ma già prima della metà del secolo, si cominciò a sottoporre alle voci superiori delle parole che sviluppavano il contenuto del testo del tenor. In seguito le clausulae inserite negli organa più estesi si emanciparono diventando composizioni indipendenti che furono chiamate mottetti. Questa denominazione (motetus) si deve forse proprio all'aggiunta di parole nuove sotto le varie parti, perché il termine deriva dalla parola francese mot (parola) che fu inizialmente applicata alla seconda voce (duplum) di una clausula; più tardi il termine motetus si

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estese a indicare l'intera composizione, e quando sono presenti anche la terza e la quarta voce, queste mantengono i nomi che avevano nell'organum: triplum e quadruplum. L'aggiunta di un testo sotto le melodie delle voci realizzava un cambiamento di stile rispetto all'organum in quanto si passava da uno stile melismatico (organum) a uno stile sillabico. A causa della presenza di un testo differente in ogni voce, si usa identificare i mottetti enunciando di seguito gli incipit delle varie parti, a cominciare da quella superiore. Inizialmente la presenza di testi diversi per il duplum (ora chiamato motetus) e per il triplum, manteneva l'attinenza riguardo ai loro contenuti. Questa politestualità faceva sì che il messaggio del mottetto si rivelasse completamente solo alla lettura: si tratta infatti di un prodotto colto che si diffuse soprattutto negli ambienti universitari. La lettura però fu facilitata dalla particolare impaginazione dei mottetti, perché a differenza delle composizioni polifoniche precedenti, nelle fonti dell'epoca le voci del mottetto non erano disposte in partitura, ma venivano scritte per esteso su due pagine a fronte o su due colonne diverse nella stessa pagina: il duplum o motetus a destra, il triplum a sinistra, mentre il tenor veniva collocato in calce, in un rigo sottostante a entrambe le voci. Esempio 7 mottetto Salve Virgo virginum - Est il donc einsi Aptatur, ms. Montpellier, Bibliothèque de la Faculté des Médecin, cod. H 196 Questa disposizione delle voci permetteva di economizzare sullo spazio nella impaginazione dei codici: dato che i tripla comprendono in genere molte più note rispetto al duplum e al tenor, allineare le voci l'una sopra l'altra in partitura, avrebbe richiesto molto più spazio che non scriverle separatamente. Anche se la base di partenza nella composizione di un mottetto rimaneva un tenor tratto dal repertorio liturgico gregoriano, tale forma venne ad essere ormai concepita come una composizione autonoma, in cui le due voci superiori sono spesso costruite non solo su testi differenti, ma anche in lingue diverse: il motetus ad esempio poteva impiegare il latino e il triplum la lingua volgare (il francese) e gli argomenti potevano essere anche profani, per lo più amorosi, spesso costituiti da parafrasi di canzoni trovieriche o da brani del Jeu de Robin et de Marion di Adam de la Halle, anche lui compositore di mottetti. Nella prima metà del XIII secolo il testo latino dei tenores dei mottetti proveniva dal repertorio dei tenores delle clausulae del Magnus liber organi, dunque i loro testi consistevano di poche parole, se non di una sola parola o parte di essa, perché le clausulae erano scritte in corrispondenza delle parti melismatiche del canto gregoriano (dove su una sola sillaba cantavano molte note). Nella seconda metà del XIII secolo, specialmente dopo il 1275, i

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tenores dei mottetti non furono più derivati dai libri di Notre-Dame, ma da fonti diverse, anche profane o strumentali (le estampidas). Contemporaneamente si diradò l'uso delle formule dei modi ritmici in favore di una maggiore duttilità ritmica. Nei primi mottetti il motetus e il triplum erano affini nel carattere e nello stile, ed entrambi in contrasto con il tenor. Esempio 8 mottetto L'autre jour/Autens pascour/In seculum, in S. Fuller, The European, cit., pp. 83-84 In seguito la tendenza fu quella di diversificare stilisticamente tra loro anche le voci superiori: questo tipo di procedimento fu detto «franconiano», da Francone di Colonia o di Parigi, compositore e teorico attivo dal 1250 in poi. In questa seconda fase il triplum era più esteso del motetus ed era costruito con valori brevi e melodie più veloci articolate in frasi corte e di limitata estensione vocale; il motetus cantava invece melodie di carattere lirico e di più ampio respiro. Anche il tenor venne poi coinvolto in una evoluzione ritmica, perché, se fino alla metà del XIII secolo era costruito su rigidi schemi ritmici, successivamente il suo stile si avvicinò, per flessibilità, a quello delle altre parti. Verso la fine del XIII secolo si diffuse la tendenza verso la caratterizzazione di due diversi tipi di mottetti: l'uno tendeva alla differenziazione delle voci, l'altra verso una maggiore omogeneità dell'insieme: il primo aveva il triplum vivace con ritmo declamatorio, il motetus più lento e il tenor gregoriano basato su un rigido schema ritmico; l'altro tipo, poggiava su un tenor francese profano, ed era caratterizzato da omogeneità ritmica fra le tre voci, benché al triplum spettasse comunque un senso melodico più accentuato. Il primo dei suddetti tipi di mottetto viene definito «petroniano», perché caratteristico della produzione di Petrus de Cruce, teorico e compositore della fine del Duecento. Petrus scrisse mottetti con il triplum molto più veloce rispetto alle altre voci: otteneva questo risultato suddividendo i valori lunghi come la breve in tante note di minor valore (semibrevi), così che quante più semibrevi venivano impiegate in una scansione, tanto più diminuiva il loro valore di durata. Allo scopo di facilitare l'individuazione della divisione ritmica delle note, Petrus adottò nella notazione dei puntini atti a suddividere i gruppi di semibrevi secondo la scansione di appartenenza (ogni scansione aveva complessivamente il valore di una brevis); in tal modo nell'ambito del mottetto si poterono trattare le semibrevi con maggiore agio e precisione (la scrittura minutamente frazionata in semibrevi interessò soprattutto il triplum, che poté così assumere un carattere preminente sulle altre voci).

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Esempio 9 Petrus de Cruce, Aucun ont trouvé/ Lonc tans/Annuntiantes, in S. Fuller, The European cit., p. 93 3.7 La notazione L'evoluzione ritmica e il cambiamento di stile nell'ambito del mottetto del XIII secolo rispetto alle forme precedenti, determinò un mutamento di notazione perché l'organizzazione dei modi ritmici e la conseguente scrittura modale, basata sull'uso di ligature (che ben esprimevano lo stile melismatico della prima metà del secolo), non poteva adattarsi al nuovo stile sillabico. Nel sistema dei modi ritmici nessuna nota aveva un valore fisso e il mezzo principale per determinare un modo, come pure le varianti entro uno schema modale, erano il metro delle parole o l'uso delle ligaturae: la notazione modale poteva ancora andar bene per le parti del tenor, dove non vi era testo e lo stile era comunque melismatico. I testi delle voci superiori dei mottetti invece, non essendo costruiti su metri regolari, ed essendo questi testi musicati in stile sillabico (con una sillaba per nota), non potevano essere registrate graficamente con le ligaturae, per il fatto che ogni ligatura poteva riferirsi a un'unica sillaba, non potendo, per regola, essere interrotta al suo interno con altre sillabe. Era necessario dunque codificare graficamente i diversi valori di durata applicabili a ogni singola nota per facilitare l'esecutore a individuare il ritmo richiesto. La codificazione di un tale sistema di notazione, detta mensurale (perché fondata sulla mensura=misura), è contenuta in un'opera attribuita a Francone da Colonia (che naturalmente non fu il solo inventore del mensuralismo) intitolata Ars cantus mensurabilis, e scritta probabilmente intorno al 1280: in essa furono stabiliti i valori delle note singole, delle ligaturae e delle pause. Il grande salto di qualità fatto dal mensuralismo fu la differenziazione grafica dei valori musicali, vale a dire l'associazione della forma grafica delle note con i concetti già esistenti di longa e brevis; in tal modo la virga della notazione quadrata prese a significare la longa, e il punctum la brevis. La semibreve, sempre più presente nei mottetti, veniva indicata, come già in precedenza, con il segno a forma di rombo; al di sopra della longa stava la duplex longa, equivalente a due longae perfette. Questo sistema di notazione permetteva la lettura immediata di qualunque combinazione di longae, breves, e semibreves, senza dover prima individuare l'appartenenza di un brano a un determinato modo ritmico. Ecco di seguito i quattro segni codificati per le note singole: Esempio 10 Anche la notazione franconiana si basava sul principio del

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raggruppamento ternario. L'unità di misura, il tempus, divenne la breve: una longa poteva essere perfetta (= tre tempora = tre breves), o imperfetta (= due tempora = due breves); una breve normalmente corrispondeva a un tempus, ma in certe occasioni poteva comprenderne due, e in tal caso era detta una brevis altera (avente valore doppio); allo stesso modo la semibreve poteva essere minore, o maggiore. Tre tempora costituivano una perfezione, equivalente a una misura ternaria moderna: Esempio 11 Ecco i principi fondamentali che regolano i rapporti tra la longa e la breve. Qui la longa porfetta è trascritta con una minima puntata: Esempio 12a L'introduzione di un punto precisava, nei casi dubbi, la divisione tra due perfezioni: Esempio 12b Simili regole stabilivano i rapporti intercorrenti tra breve e semibreve; inoltre furono elaborati dei segni per le pause, e furono date indicazioni su come riconoscere all'interno delle ligature le note lunghe, brevi e semibrevi. Nel corso del Duecento si verificò anche una evoluzione in senso tonale per cui il criterio di elaborazione delle voci, prevalentemente orizzontale, che dava luogo a molti urti dissonanti, venne gradualmente modificato nel senso di dare maggiore attenzione agli incontri verticali delle voci, la qual cosa portò sempre più a far prevalere le consonanze. Infine, per quanto riguarda il tenor, nell'ambito dei mottetti duecenteschi si cominciarono a sperimentare procedimenti compositivi che portarono alla formazione della tecnica isoritmica, tipica dell'Ars nova del Trecento. Il breve frammento gregoriano che costituiva il tenor cominciò a essere inquadrato in schemi mensurali uniformi ripetuti tante volte quante ne servivano a coprire l'intera estensione della composizione; la sua esecuzione era affidata a strumenti, per cui il testo non veniva pronunciato, né scritto, se non in corrispondenza della sola sillaba iniziale. A volte anche lo stile delle voci superiori è tale (salti, note ribattute) da far supporre anche per loro una esecuzione strumentale. 3.8 Altre forme del tardo XIII sec. Il teorico Johannes de Grocheo in un trattato scritto a Parigi intorno al 1300 descrive le varie forme musicali del tempo. Il termine cantilena si riferisce a una serie di canti profani monodici o polifonici: in quest'ultimo caso hanno un unico testo e prevale melodicamente la voce superiore. Tra le composizioni polifoniche, oltre al mottetto, l'organum e il conductus,

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viene inserito anche il "cantus truncatus", detto hochetus (letteralmente "singhiozzo"), ma in realtà questo termine più che a una forma si riferisce a una tecnica compositiva: in esso alcune note che mancano in una voce sono fornite da un'altra voce, in modo tale che la melodia si divide tra le parti (le note in una voce corrispondono alle pause nell'altra e viceversa). Questa tecnica diviene più frequente tra la fine del XIII e l'inizio del XIV secolo; quando poi predomina nel corso dei brani, il termine si estende a definire tutta la composizione. 4. ARS NOVA (XIV secolo) 4.1 Introduzione La musica polifonica del Trecento, in Francia e in Italia, viene definita ars nova: questa denominazione deriva dal titolo di un trattato teorico scritto intorno al 1320 dal teorico, compositore e poeta parigino Philippe de Vitry, vescovo di Meaux, vissuto tra il 1291 e il 1318. La consapevolezza dei musicisti dell'epoca di trovarsi ad aprire un'epoca nuova, è confermata dal titolo di un'altra opera teorica, Ars novae musicae, scritto tra il 1319 e il 1321 dal matematico dell'Università di Parigi Johannes de Muris. Questa definizione, nel rispetto della concezione medievale dell'arte non si riferiva a rinnovamenti di carattere estetico, ma alle innovazioni riguardanti la tecnica compositiva, e al conseguente sviluppo della notazione mensurale. Un altro teorico, il fiammingo Jacob di Liegi, nel suo trattato intitolato Speculum musicae, si contrapponeva a queste novità difendendo l'arte polifonica del precedente periodo francese, compreso tra la Scuola di Notre-Dame e i mottetti di Petrus de Cruce, periodo che fu definito Ars antiqua. Il Trecento fu un'epoca di grandi trasformazioni; nel passaggio dal Medioevo al Rinascimento cambiarono i riferimenti politici e culturali, per cui la Chiesa perse gradualmente il monopolio della cultura e la musica polifonica approdò e si perfezionò anche nelle espressioni profane del mondo cortese, lo stesso mondo che aveva accolto la letteratura trobadorica e trovierica. Nel Trecento la musica polifonica progredì nelle risorse ritmiche e nella varietà di scrittura; le composizioni profane superarono quantitativamente quelle sacre, e a volte persero anche quel legame con la tradizione gregoriana rappresentato dal tenor dei mottetti: proprio il mottetto, infatti, inizialmente concepito come forma sacra, si era avviato, già dalla fine del XIII secolo, ad acquisire testo e stile profani. Una scrittura di questo genere, ricca e varia, si era già vista nei mottetti di Petrus de Cruce, e un carattere ancora più accentuato di transizione fra Ars antiqua e Ars nova presentano alcuni dei 33 mottetti (cinque dei quali composti da Philippe de Vitry) che nel 1316 furono inseriti nel Roman de Fauvel, un poema satirico scritto pochi anni prima.

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Per quanto riguarda la notazione i musicisti italiani e francesi elaborarono simbologie che tenessero conto degli ultimi sviluppi del linguaggio musicale, come l'alternanza della divisione binaria e ternaria, l' introduzione di valori più brevi, e dunque una grande flessibilità ritmica caratteristica della musica dell'ultima parte del secolo. 4.2 Ars nova francese. La notazione Il sistema della notazione francese consisteva in un ampliamento dei principi franconiani. I valori musicali in uso erano la longa, la breve, la semibreve, la minima; al di sopra della longa c'era la maxima, al di sotto della minima, la semiminima, equivalente alla metà della minima. Ciascuna di queste figure, meno la minima, poteva essere divisa in due o tre note del valore minore successivo: la suddivisione era definita perfetta se ternaria (vale a dire se il valore in questione valeva tre note del valore minore successivo), e imperfetta se binaria. Il rapporto tra la maxima e la longa, o, semplicemente, la divisione della maxima era detta maximodo (maximodus, che poteva dunque essere perfetto se valeva tre longae, o imperfetto se ne valeva due); la divisione della longa era detta modo (modus, che poteva essere perfetto se la longa valeva tre breves e imperfetto se ne valeva due); la divisione della breve era detta tempo (tempus, perfetto e imperfetto) la divisione della semibreve era detta prolazione (prolatio, detta maggiore se ternaria, e minore se binaria). Poiché le note perfette e imperfette si scrivevano allo stesso modo, Philippe de Vitry teorizzò l'uso di speciali segni (da porsi subito dopo la chiave), per indicare i vari rapporti di valore. Il maximodus, a queste date, era solo teorico. I segni riguardanti il modo perfetto e imperfetto consistevano in una barra verticale lunga rispettivamente tre e due spazi; un cerchio indicava il tempo perfetto e un semicerchio il tempo imperfetto; un punto all'interno del cerchio o del semicerchio indicava la prolazione maggiore, e l'assenza del punto la prolazione minore, nel seguente modo: Esempio 13 Ben presto i due segni relativi al modo perfetto e imperfetto (a e b), vennero abbandonati (purtroppo questi segni non vennero usati, nella pratica, fino alla fine del XV secolo: forse erano omessi anche perché l'abilità del lettore, intesa come artificio e complessità, doveva permettergli di capirli da sé). La possibilità che ogni valore aveva di essere binario o ternario (cioè di equivalere alla durata di due o tre valori successivi), permetteva diverse opportunità di divisione e suddivisione, cioè di non presentare lo stesso metro lungo tutta la scala di valori, come accade nella musica

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moderna: per es. - se il rapporto tra la breve e la semibreve è ternario, e tra la semibreve e la minima è binario (tre tempi con suddivisione ternaria), questa situazione corrisponde al moderno segno 3/4; - se il rapporto tra la breve e la semibreve è ternario, e tra semibreve e minima è ternario (tre tempi con suddivisione ternaria), questa situazione corrisponde al moderno 9/8; - se il rapporto tra breve e semibreve è binario, e tra semibreve e minima è ternario (due tempi con suddivisione ternaria), questa situazione corrisponde al moderno 6/8; - se il rapporto tra breve e semibreve è binario come quello tra semibreve e minima (due tempi con suddivisione binaria), questa situazione corrisponde al moderno segno 2/4 (cfr. esempio 13) Philippe de Vitry introdusse anche l'uso dell'inchiostro rosso al posto di quello nero per segnalare i cambiamenti di suddivisione: due note al posto di tre, o di tre al posto di due, come i gruppi irregolari moderni (duine e terzine). 4.3 Il mottetto del XIV secolo. L'isoritmia Il mottetto del Trecento aveva conservato, rispetto alla produzione duecentesca, la politestualità e l'uso di entrambe le lingue, latino e francese; aveva invece gradualmente ridotto i contenuti liturgici in favore di argomenti politici, assumendo così una funzione pubblica e celebrativa. I mottetti di Philippe de Vitry sviluppano degli espedienti tecnici già presenti nel secolo precedente, consistenti nell'organizzare il tenor in una serie caratteristica di identici schemi ritmici e motivi melodici ripetuti, integralmente o in parte, in base alla lunghezza delle varie sezioni che formavano la struttura delle composizioni. Anche i tenores di Vitry spesso sono costituiti da segmenti ritmici identici, ma a partire da quest'epoca, questa tecnica approda ad una vera e propria concezione formale: il tenor cambia natura, diviene più esteso, i suoi ritmi sono più complessi, il suo procedere diviene così lento e pesante che accentua il contrasto con le parti più mosse delle voci superiori, e perde la fisionomia vocale melodica per assumere la funzione di base sulla quale poggia l'intero brano. Vitry nei suoi mottetti non segue la tendenza, tipica di Petrus de Cruce, di far prevalere la voce superiore, e preferisce invece rendere paritarie le due voci superiori (motetus e triplum) nel loro dialogare; la voce, o le voci inferiori, con carattere di tenor (il secondo tenor, quando c'era, era chiamato contratenor), impiegavano note più lunghe, come longae e breves, con funzione di sostegno, che contrastavano con i valori più brevi (semibrevi e minime), delle voci superiori. Così il metro e il ritmo della composizione si differenziarono in vari strati diversi e contrastanti. In questi mottetti si va sempre più organizzando la tecnica compositiva denominata isoritmia, basata sull'organizzazione strutturale di

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formule ritmiche e melodiche ricorrenti, secondo schemi prestabiliti. Il luogo di applicazione di tale tecnica era normalmente la voce o le voci più basse (tenor, e, quando era previsto, anche il contratenor) per la loro funzione di base nell'ambito della composizione; ma, a volte, fu applicata anche alle voci superiori (motetus e triplum). Le voci trattate con la tecnica isoritmica venivano organizzate secondo due procedimenti chiamati color (la sequenza di intervalli) e talea (la formula ritmica): l'isoritmia mediante color consisteva nel ripetere la parte mantenendo inalterata la sua struttura melodica e variando il valore metrico delle note; l'isoritmia mediante talea consisteva invece nel ripetere la parte mantenendo inalterati i valori metrici delle sue note variando invece la struttura melodica. In quest'ultimo caso la variazione poteva avvenire semplicemente trasportando l'inciso melodico, capovolgendolo specularmente o invertendone le note dall'ultima alla prima. I due procedimenti potevano essere variamente mescolati. Costruito con tali criteri il tenor, (ma anche il contratenor e, a volte, anche le voci superiori), costituiva una sorta di impalcatura atta a sostenere dal basso tutta la composizione; date queste caratteristiche di costruzione, è probabile che le voci trattate con l'isoritmia fossero destinate a un'esecuzione strumentale. 4.4 Guillaume de Machaut Il principale rappresentante dell'Ars nova francese fu Guillaume de Machaut (1300-1377), diplomatico, poeta e musicista; dal 1323 fu segretario di Giovanni di Lussemburgo, re di Boemia, che seguì nelle sue campagne militari attraverso l'Europa, fino alla morte del re avvenuta nel 1346 durante la battaglia di Crécy contro gli inglesi. Successivamente entrò al servizio del re di Francia; trascorse l'ultima parte della sua vita come canonico della cattedrale di Reims. Machaut fu una personalità di rilievo anche nell'ambito della letteratura francese per la sua opera letteraria; importanti sono due opere poetiche nel cui contesto narrativo sono inserite delle sue composizioni musicali: il Remède de Fortune, un trattato didattico in versi sull'amore e la fortuna, e il Voir Dit, una sorta di epistolario amoroso tra l'autore e una giovane poetessa (Peronelle d'Armentiéres). La musica in questo caso serve come intensificazione di alcuni momenti della vicenda amorosa. L'opera musicale di Machaut comprende composizioni appartenenti alla maggior parte delle forme allora in uso, e alterna lo stile tradizionale franconiano allo stile innovatore dei mottetti, ballades e dei rondeaux. La sua Messa di Notre-Dame appartiene allo stile tradizionale ed è la più antica realizzazione polifonica delle parti dell'Ordinario della Messa come opera di un solo autore; infatti se nel Trecento si era cominciato a comporre polifonicamente anche i canti dell'Ordinario (alcuni dei quali riuniti in cicli completi, come le cosiddette Messe di Tournai e di Barcellona), tuttavia in questi casi i singoli brani provenivano da autori

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diversi ed erano stati composti in tempi diversi. La messa di Machaut è importante, oltre che per le dimensioni estese e la scrittura a 4 voci, soprattutto per il fatto che è stata progettata come un'unica composizione musicale; in essa il Kyrie, il Sanctus, l'Agnus Dei e l'Ite Missa est sono realizzati con la tecnica isoritmica, mentre il Gloria e il Credo sono scritti in uno stile prevalentemente omoritmico e sillabico, detto "stile a conductus", più adatto alla resa e alla lunghezza dei testi. Caratteristica dei 23 mottetti di Machaut, a 3 e a 4 voci (in quest'ultimo caso con tenor e contratenor), è l'uso sapiente di procedimenti isoritmici organizzati in combinazioni estremamente complesse, che a volte coinvolgono anche le voci superiori. Sono, per la maggior parte, di argomento amoroso o cortese, ma alcuni trattano anche di argomenti liturgici o celebrativi. Altro procedimento, o tecnica compositiva da rilevare nei mottetti è l'hoquetus, (termine derivato dal francese hoquet= singhiozzo, latinizzato nel medioevo) che sta ad indicare una scrittura alternata di note e pause, disposte in modo tale che alla nota di una voce corrisponda la pausa nell'altra e viceversa. L'unica opera di Machaut espressamente definita con questo termine è una composizione a tre voci, forse destinata all'esecuzione strumentale, di tipo mottettistico costruita su un tenor isoritmico derivato dalla melodia dal melisma gregoriano sulla parola "David" di un versetto alleluiatico. Maggiore originalità e libertà di espressione consentivano le forme profane prive di tenor, che proprio allora cominciavano ad affermarsi nella musica polifonica. Si tratta delle cosiddette formes fixes (forme fisse), ossia di quelle forme in cui la struttura musicale e le sue sezioni erano organizzate in correlazione con le sezioni della struttura testuale. Nella sua opera Remede de Fortune, Machaut aveva inserito, anche a scopo didattico, sette pezzi con valore di modelli esemplari di differenti generi poetico-musicali: il lai, complainte, chanson royal, baladele, ballade, virelai e rondeau. Tutte queste forme poetiche solevano già da tempo essere accompagnate da un'intonazione musicale monodica, e lo stesso Machaut, autore anche dei testi poetici, continuando la tradizione trovierica, aveva messo in musica 19 lais (una antica forma simile alla sequenza che con Machaut conclude la sua storia) e circa 25 virelais. Il virelai è caratterizzato dal seguente schema formale: A b b a.., in cui A indica il ritornello, b la prima parte della stanza (che viene ripetuta) e a l'ultima parte della stanza (cantata sulla stessa melodia della ripresa). Nel caso ci siano più stanze, il ritornello A può essere ripetuto alla fine di ciascuna. Refrain 1 strofa Ref. 2 str. Ref. 3 str. Ref. testo A B A C A D A musica a bba a bba a bba a

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Alcuni virelais di Machaut sono polifonici, e hanno un tenor strumentale al di sotto della parte vocale, in funzione di accompagnamento; in essi a volte troviamo una rima musicale alla fine delle due sezioni melodiche. Oltre ai pochi virelais, le forme che, a partire dal XIV secolo, vengono normalmente intonate con la tecnica della polifonia misurata sono la ballade e il rondeau. Le opere di Machaut di questo tipo si basano tutte su testi poetici suoi e sono nello stile detto "a cantilena" o "di ballata", che si caratterizza per il rilievo melodico e vocale dato ad una voce (in genere la voce superiore), che si contrappone alle altre voci in valori più lunghi e con la funzione di accompagnamento strumentale. La ballade è costituita, in genere, da tre strofe con lo stesso numero e lo stesso tipo di versi, di rime, e lo stesso verso finale (refrain). es. 14a testo di ballata Nes que on porroit les estoiles nombres. Quant on les voit luire plus clerement, Et les goutes de pluie et de la mer, Et l'areienne seur quoy ellle s'estent. Et compasser le tour dou firmament, Ne porroit on penser ne concevoir Le grant desir que j'ay de vous veoir. ................... Esempio mus. 14b Guillaume de Machaut, Nes que on porroit, ballade, in S. Fuller, The European cit., pp. 109-111 L'intonazione musicale è composta da due sezioni. La sezione A intona la prima quartina di ogni strofa; si intona dapprima il primo e secondo verso, e subito dopo il terzo e il quarto. Queste due coppie di versi vengono però intonate con due formule finali differenti denominate rispettivamente ouvert e clos. La sezione B serve per l'intonazione dei rimanenti versi. La ballade deve a Machaut la sua fondazione come genere della musica polifonica; costruita a due voci (canto vocale e tenor strumentale), più spesso a tre (canto vocale, tenor e contratenor strumentali), talvolta a quattro (triplum strumentale, canto vocale, tenor e contratenor strumentali) si sviluppa subito come forma musicale particolarmente curata e raffinata, per più aspetti vicina al mottetto. Come il mottetto, presenta a volte l'intonazione di due o tre testi differenti per le parti di canto; come il mottetto, può presentare anche la divisione in talee che sottolinea con

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estrema precisione lo schema metrico; come il mottetto infine, la ballade assume, soprattutto verso la fine del secolo, la funzione di composizione celebrativa. Il rondeau è costituito da una sola strofa di otto versi, con il quarto verso uguale al primo e gli ultimi due uguali ai primi due. ESEMPIO DI testo di RONDEAU 15a Dame, mon cuer en vous remaint, comment que de vous me departe. De fine amour qui en moy maint, dame, mon cuer en vous remaint. Or pri Dieu que li vostres m'aint, sans qu'en nulle autre amour parte. Dame, mon cuer en vous remaint, comment que de vous me departe. esempio 15b Guillaume de Machaut, Ma fin est mon commencement, rondeau, G. de Machaut, ..... l'intonazione musicale del rondeau è composta da due sezioni. La sezione A serve per l'intonazione del primo, terzo, quarto, quinto e settimo verso; la sezione B serve per l'intonazione del secondo, sesto e ottavo verso. 4.5 Ars nova italiana. La notazione Una vera e propria produzione italiana di musica polifonica inizia solo dopo il terzo decennio del XIV secolo; dell'epoca precedente, diversamente dalla Francia, dove la polifonia misurata coltivata nell'ambito dell'Università di Parigi aveva conquistato gli ambienti cortesi e aveva già dato risultati notevoli, non rimangono che pochi esempi liturgici in stile arcaico. Non erano tuttavia mancati, nel XIII secolo, contatti tra la cultura francese e le università dell'Italia settentrionale (l'Università di Padova in particolare); inoltre influenze culturali francesi erano approdate alla corte angioina di Napoli. Il sistema di notazione italiano è descritto nel trattato intitolato Pomerium del teorico e compositore Marchetto da Padova, vissuto a cavallo tra il XIII e il XIV secolo. Il trattato, che possiamo datare tra il 1318 e il 1326, espone un sistema mensurale che rimarrà in uso nella polifonia italiana per i primi due terzi del secolo: è più elaborato di quello franconiano, diverso da quello di Vitry e ispirato a criteri più pratici. A differenza dell'ars nova dei teorici francesi, che estese i principi del mensuralismo franconiano ai rapporti fra brevis e semibreve e fra semibreve e minima, Marchetto considerò direttamente il rapporto fra brevis e minima, articolandolo in varie divisiones corrispondenti ognuna al

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numero di minime che una breve poteva contenere. Si potevano così avere la divisio quaternaria (quando la breve conteneva quattro minime), la senaria imperfecta (quando conteneva sei minime raggruppate in due semibrevi, ciascuna comprendente tre minime), la senaria perfecta (sei minime raggruppate in tre semibrevi, ciascuna comprendente due minime), la novenaria (nove minime). Fin qui si trattava soltanto di dare nomi diversi a rapporti già presenti nel sistema francese, che li definisce coi concetti di tempus e di prolatio, ma tipicamente italiane erano la divisio octonaria (otto minime, quindi metro binario) e quella duodenaria (dodici minime, quindi metro ternario). schema es. 16 Divisioni della breve in uso nell'Ars nova italiana Nel corso del pezzo, poi, alcuni punti separavano i gruppi di note aventi come valore totale una breve, similmente ai punti di Petrus de Cruce (dalla cui notazione questa sembra derivare direttamente, senza la mediazione di Philippe de Vitry). La semibreve aveva un valore fluttuante potendo comprendere un numero variabile di minime e, quando era necessario attribuirle un valore particolarmente grande, si usava il segno, detto semibrevis maior, distinto dalla minima per il gambo discendente anziché ascendente. Dunque la vera fioritura artistica della polifonia italiana è documentata solo a partire dal quarto decennio del Trecento, ma, nonostante il gran numero di fonti manoscritte pervenuteci a partire da quelle date, l'ars nova italiana fu praticata solo da ristretti ambienti di intenditori, quali ecclesiastici o pubblici funzionari, perché la musica che circolava negli ambienti cortesi o cittadini (gli ambienti a cui per esempio si rifà Giovanni Boccaccio nel Decameron), era per lo più monodica e consisteva in ballate, canzoni e danze strumentali di cui ci sono pervenute poche testimonianze, perché normalmente la monodia non si metteva per iscritto, e anche la polifonia era improvvisata o eseguita a memoria. La fonte musicale italiana più ricca è rappresentata dal codice Squarcialupi, così detto dal nome di Antonio Squarcialupi, organista fiorentino (1416-1480), suo primo proprietario. Il codice fu redatto intorno al 1420, è attualmente conservato nella Biblioteca Laurenziana di Firenze, e contiene tre forme polifoniche profane italiane: il madrigale, la caccia e la ballata. 4.6 Prima fase dell'Ars nova italiana. Il madrigale e la caccia La prima fase dell'Ars nova italiana si svolse in alcune città dell'Italia settentrionale, come Verona (il cui signore era Mastino II della Scala), Padova (governata da Alberto, fratello di Mastino) e Milano (con Giovanni Visconti), dove, dalla metà del XIV secolo, operarono compositori come Iacopo da Bologna e Giovanni da Cascia (o da Firenze). Durante questa prima fase la forma più in uso fu il madrigale, la cui

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etimologia sembrerebbe derivare dal termine 'matricale', che significa "nella lingua madre". Il madrigale era una forme fixe: in esso il testo letterario si articola in una serie di terzine di endecasillabi, aventi lo stesso ordine di rime, conclusa da una coppia di endecasillabi a rima baciata detta ritornello. La musica è costituita da due sezioni: la sezione A per l'intonazione delle terzine, la sezione B per l'intonazione del ritornello. testo di madrigale es. 17a (F. Petrarca) Non al suo amante più Diana piacque Quando per tal ventura tutta nuda La vide in mezzo de le gelide acque Ch'a me la pastorella alpestra e cruda Posta a bagnar un leggiadretto velo Ch'a l'aura il vago e biondo capel chiuda Tal che mi fece quando gli arde 'l cielo Tutto tremar d'un amoroso gielo esempio 17b Jacopo da Bologna, Non al suo amante, madrigale, in S. Fuller, The European cit., pp. 116-117 I madrigali di Giovanni da Cascia e di Iacopo da Bologna hanno un carattere diverso dalla contemporanea musica francese. I testi non sono lirici di tradizione cortese (perché questa letteratura in Italia era appannaggio della poesia del Dolce stil novo e delle ballate monodiche), ma tendono alla sentenziosità, alla satira, oppure alla descrizione naturalistica. La musica dei madrigali è caratterizzata da ricchi melismi all'inizio e alla fine di ogni verso, mentre al centro, soprattutto in Giovanni da Cascia, prevale uno stile più sillabico che mette in evidenza il testo, diversamente da quanto avviene in Machaut. Il madrigale era in genere scritto per due voci, la voce inferiore era meno melismatica, e tendeva ad assumere una funzione di sostegno armonico: tuttavia la presenza di imitazioni fra le voci fa supporre un'esecuzione totalmente cantata. Un altro rappresentante della prima generazione di musicisti dell'Ars nova italiana è un tale Piero, probabilmente di origine veneta, nei cui madrigali si nota la progressiva applicazione di procedimenti a canone. E' nella sua opera che troviamo per la prima volta la caccia (ne scrisse due), una forma che diverrà tipica del Trecento italiano. La caccia è una composizione a tre voci, di cui le due superiori si imitano a canone, mentre quella inferiore, chiamata tenor, ha carattere strumentale di sostegno. Il termine è dovuto al fatto che i testi sono a carattere descrittivo, e illustrano scene di movimento come mercati o,

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appunto, scene di caccia o di pesca; straordinari risultano così gli effetti prodotti dal vivace rincorrersi delle due voci che si imitano e dalla varietà e dall'incisività dei ritmi, che spesso adottano l'hoquetus. A differenza delle altre forme italiane, la caccia, per il suo carattere descrittivo, non è una forme fixe, ma adotta un andamento sempre libero da schemi. esempio 18 Piero, Con brachi assai, caccia in notazione moderna 4.7 Seconda fase dell'Ars nova italiana. La ballata Poco dopo la metà del secolo il centro produttivo dell'Ars nova italiana si sposta a Firenze, dove questa produzione polifonica profana era appannaggio di pochi appassionati, a conferma di come in Italia quella musica costituiva ancora un fenomeno d'avanguardia. Nel primo periodo dell'Ars nova fiorentina la forma più usata era il madrigale in cui erano presenti melismi complessi; la caccia era meno frequente nelle opere dei compositori, ma quelle che ci sono pervenute sono pregevoli, anche perché spesso sono su testi di poeti di rilievo come Franco Sacchetti e Nicolò Soldanieri. La ballata era inizialmente una forma poetico-musicale di accompagnamento a una danza; nel Duecento le ballate erano monodiche e alternavano ritornelli corali a interventi solistici. Tale forma fu poi adottata dalla lauda (le più antiche testimonianze musicali pervenuteci della ballata sono proprio delle laude duecentesche), e perse allora alcune caratteristiche legate alla danza (tuttavia nel Decameron di Boccaccio la ballata è ancora associata alla danza). Scarse sono le ballate monodiche degli inizi del XIV secolo pervenute a noi, mentre la maggior parte delle composizioni di questo genere presente nei manoscritti, sono tarde (databili dopo il 1365) e polifoniche, in genere a due o tre voci. La forme fixe assunta dalla ballata polifonica nel Trecento si può così riassumere: la forma metrica del testo comprende una "ripresa" di due, tre, o quattro versi (rispettivamente per la ballata minore, media e grande), due "piedi" identici quanto a numero di versi e rime, e una "volta", identica alla ripresa, in cui il primo verso rima con l'ultimo dei piedi e l'ultimo verso rima con il primo della ripresa; la musica si articola in due sezioni: la sezione A intona la ripresa e la volta, la sezione B intona i piedi. In precedenza, le strofe erano spesso più d'una, come nel virelai francese. esempio 19a testo di ballata

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Questa fanciulla, Amor, fallami pia, Ripresa che m'ha ferito 'l cor ne la tuo via. Tu m'ha, fanciulla, sì d'amor percosso, Piede che solo 'n te pensando trovo posa. El cor di me tu ha' rimosso Piede co gli ochi belli e la faccia gioiosa: però al servo tuo, deh sie pietosa; Volta merzé ti chieggio a la gran pena mia. Questa fanciulla, Amor, fallami pia Ripresa esempio 19b Francesco Landini, Questa fanciull'amor, in S. Fuller, The European cit., pp. 122-123 I principali musicisti della prima fase fiorentina furono Gherardello da Firenze (morto nel 1362), Lorenzo Masini da Firenze (morto nel 1372), Vincenzo da Rimini: le loro poche ballate sono ancora monodiche; alla seconda fase appartengono Donato da Cascia e Nicolò del Preposto da Perugia, autore di cacce). 4.8 Francesco Landini E' solo con Francesco Landini, detto Francesco degli Organi, il più famoso musicista italiano del XIV secolo, che la ballata ricevette intonazione a due e a tre voci, e divenne il genere della polifonia misurata con testo volgare tipico della seconda metà del secolo. Il ritorno della sede papale da Avignone a Roma (1377), determinò una serie di contatti e scambi culturali tra italiani e francesi che portò alla formazione del cosiddetto 'stile misto', nel quale coesistono elementi sia dell'arte francese, sia di quella italiana; di conseguenza anche la notazione musicale diventò 'mista', perché nel sistema delle divisiones di Marchetto si inserirono le suddivisioni di Vitry (i "tempi" e le "prolazioni"), con i meccanismi del sistema mensurale di Francone. La ballata divenne polifonica e divenne la forma musicale più diffusa rispetto al madrigale. Le prime ballate erano a 2 voci e di carattere umoristico; Francesco Landino, o Landini (1335-1397), trasferì poi i contenuti lirici della ballata monodica nella ballata polifonica, a 2 e a 3 voci, nella quale trasferì la complessità delle tecniche francesi. Nella sua produzione le ballate sono molto più numerose dei madrigali (140 ballate contro 10 madrigali). Le ballate a due voci sono ancora vicine allo stile dell'Ars nova

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italiana tradizionale, hanno melismi non molto estesi e sono interamente vocali perché la parte inferiore imita a volte la voce superiore. Le ballate a tre voci sono posteriori, concentrano l'interesse melodico nella voce superiore, secondo lo stile "a cantilena" , hanno un contrappunto raffinato, e nelle terminazioni dei "piedi" adottano la doppia formula dell'ouvert e del clos (come Machaut nelle formes fixes). Inoltre, come nei mottetti francesi, Landini impiega a volte la tecnica isoritmica, e testi differenti per le diverse voci di una stessa composizione. Nelle ballate di Landini, più che nei suoi madrigali, si nota la tendenza a privilegiare negli incontri verticali delle voci gli intervalli di terza e sesta invece dei più arcaici intervalli di quarta e di quinta. La cosiddetta cadenza alla Landini sarà impiegata frequentemente anche dai compositori borgognoni del Quattrocento. 4.9 Ars subtilior L'espressione Ars subtilior ("arte più sottile"), presente negli scritti teorici dell'epoca, definisce lo stile di fine secolo (manierato o manieristico) prevalente nelle composizioni su testi francesi della fine del Trecento e dell'inizio del Quattrocento. Caratteristiche di questo stile sono l'estrema complessità ritmica e l'aspetto oscuro ed enigmatico della scrittura musicale, la cui complicazione è a volte fine a se stessa. Il messaggio di questi pezzi spesso viene trasmesso non solo dalla musica, ma anche dalla grafica che si carica di significati simbolici: famosi sono alcuni brani scritti in forma di cuore o di arpa. Tra i più importanti compositori francesi e italiani troviamo Johannes Cuvelier, Filippotto da Caserta, e, a cavallo tra i due secoli, Antonello da Caserta e Matteo da Perugia. Le loro opere sono caratterizzate dalla presenza contemporanea di metri diversi nelle varie voci; da complicate combinazioni proporzionali fra i valori delle note (es. sette note in una voce contro tre note di un'altra); da sincopazioni, canoni. Per poter registrare graficamente queste difficili combinazioni ritmiche, furono elaborati nuovi segni e nuove forme bizzarre per le note, e oltre alle note nere e rosse, comparvero note bianche (vacuae), con contorno nero o rosso. Tra la fine del Trecento e l'inizio del Quattrocento i segni di tactus su esposti (v. es. 13) furono usati con sempre maggiore frequenza, rendendo inutile l'adozione delle note rosse. Nella stessa epoca si nota una generale tendenza a scrivere piuttosto in note vuote o piene che non con due inchiostri diversi, anche perché la graduale sostituzione della carta alla pergamena suggeriva di evitare al massimo l'uso dell'inchiostro, che passava spesso sull'altra parte del foglio. Intorno al 1450 si attuò un vero e proprio capovolgimento nella scrittura musicale per cui le note di valore più lungo, da nere diventarono bianche. esempio 20

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esempio 21 Figure della notazione mensurale bianca L'esistenza contemporanea di due sedi papali, a Roma e ad Avignone, durante lo Scisma d'Occidente (1378-1415) determinò numerosi incontri e scambi stilistici tra musicisti francesi e italiani. Così la musica italiana assorbì caratteri dell'Ars subtilior e delle formes fixes francesi. Nei primi decenni del Quattrocento questa rinnovata letteratura musicale italiana fece capo a Bologna, sede dal 1410 al 1415 di due antipapi eletti dal Concilio di Pisa (Alessandro V e Giovanni XXII); i musicisti in questione sono Matteo da Perugia, Magister Zachara, Antonello da Caserta e Johannes Ciconia, nativo di Liegi, ma italianizzato, che è uno dei più importanti musicisti della fase di transizione verso la grande scuola fiamminga del Quattrocento. 5 L'ETA' FIAMMINGA (XV secolo-inizi del XVI secolo) 5.1 Introduzione Dall'inizio del XV secolo si manifestò e sviluppò la grande civiltà musicale franco-fiamminga, i cui protagonisti erano originari della Francia settentrionale, della Borgogna e delle Fiandre. Da questi paesi numerosi compositori, maestri di cappella, cantori e strumentisti andarono alla conquista del resto dell'Europa dando vita a uno stile internazionale al quale contribuirono in modo decisivo, verso la metà del secolo, anche numerosi compositori inglesi. La guerra dei Cento anni tra Francia e Inghilterra (1337-1475) favorì indirettamente il consolidamento politico ed economico del ducato di Borgogna, alleato degli inglesi e dunque svincolato dalla soggezione al regno di Francia; sotto la guida di Filippo il Buono (1419-1467) e Carlo il Temerario (1467-1477) il ducato conobbe una straordinaria fioritura culturale, conseguenza della floridezza economica e della stabilità politica, che trovò nelle arti figurative e nella musica i veicoli privilegiati di espressione. Tra l'altro, l'alleanza tra l'Inghilterra e la Borgogna contro la Francia, aveva creato frequenti occasioni ad alti personaggi inglesi e al loro seguito di musicisti, di transitare sui territori francese e borgognone: queste occasioni favorirono contatti con la musica e i musicisti del continente. Già alla fine del XIV secolo era iniziato un processo di fusione tra gli stili italiano e francese: questo incipiente stile internazionale doveva essere incrementato, nel secolo XV, dal contributo di altre scuole, in particolare quella inglese e quella franco-fiamminga. 5.2 La scuola inglese La scuola inglese fiorì nella prima metà del Quattrocento attraverso la fusione della tradizione locale con elementi assimilati e tratti dall'Ars

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nova francese; nei secoli XII e XIII la musica inglese aveva avuto una continua evoluzione assimilando le conquiste tecniche più preziose dell'Ars nova. Quando, a cominciare dalla battaglia di Azincourt (1415), vinta da Enrico V d'Inghilterra, che assicurò ai re inglesi ampi domini sul territorio francese favorì gli scambi culturali con il continente, i musicisti inglesi esportarono nei paesi francesi e fiamminghi la loro tradizione musicale. Dopo il XIII secolo l'Inghilterra aveva mantenuto e arricchito quei caratteri che formavano il fascino e l'interesse specifico della sua polifonia: predilezione per uno stile consonante e melodico, eufonia e senso di pienezza armonica, naturalezza ritmica, aumento del numero delle voci, libero impiego di movimenti paralleli per successioni di intervalli di terze e seste. La maggiore espansione della musica inglese ebbe luogo nella prima metà del secolo, dall'avanzare dell'Inghilterra sul continente fino alla sua sconfitta e alla fine della guerra dei Cento anni che coincise con la morte di Dunstable, il più grande compositore della scuola inglese. John Dunstable (1380 ca.-1453), compositore, astronomo e matematico, è il compositore più rappresentato nei manoscritti diffusi nel continente. Fu a Parigi al seguito del duca di Bedford, e fu ben noto anche ai musicisti della corte di Borgogna, sui quali ebbe un influsso determinante, e dai quali, a sua volta, ricevette stimoli importanti. La sua produzione comprende messe e tempi di messe, mottetti isoritmici e di libera composizione, inni, chansons su testo francese e inglese. La musica inglese, e Dunstable in particolare, dettero contributi alla musica europea soprattutto nel campo della musica sacra con nuove tecniche compositive su canto fermo. Il cantus firmus, o, più precisamente cantus prius factus, è una melodia preesistente posta come punto di partenza a supporto della costruzione polifonica, data in valori larghi e uniformi. Oltre a ciò la musica inglese mise a punto innovazioni quali la forma ciclica nella messa, l'arricchimento delle sonorità, lo sviluppo della variazione sul canto fermo e dello stile imitativo. Le messe o parti di messe dell'inizio del Quattrocento adottarono diversi stili come quello del mottetto isoritmico, ereditato dall'Ars nova francese, o lo stile della ballata (una parte vocale superiore sostenuta da due parti inferiori strumentali), o della caccia (con due voci superiori in canone), ereditati dall'Ars nova italiana. Il manoscritto Old Hall, importante fonte della musica inglese di questo periodo, contiene le forme suddette insieme ad altre forme più arcaiche (come quella nello stile del conductus, o ancora quelle articolate sul contrasto soli-coro). Se le messe o movimenti di messe su canto fermo liturgico erano diffuse già dalla seconda metà del XIV secolo e dall'inizio del XV, come anche gli abbinamenti di tempi di messa costruiti sul medesimo cantus firmus (Sanctus-Agnus Dei, o Gloria-Credo), tuttavia l'affermazione definitiva della messa ciclica, in cui tutti i tempi sono scritti sul medesimo cantus prius factus e trattati secondo le regole mensurali dell'isoritmia, è da attribuire alla scuola inglese. Altro procedimento compositivo usato nella messa dagli inglesi (ma

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anche dai fiamminghi) allo scopo di uniformare l'elaborazione dei vari movimenti, è quella di impiegare motti introduttivi uguali o poco variati nelle medesime voci all'inizio di ciascun movimento. Altrettanto importante ai fini della coesione formale nelle messe polifoniche, è lo sviluppo della tecnica imitativa, ancora poco usata all'inizio del Quattrocento, ma destinata a progredire nella musica sacra e profana dei decenni successivi. Nelle composizioni polifoniche inglesi su canto fermo, quest'ultimo poteva trovarsi in ogni voce, oppure passare dall'una all'altra; nella voce superiore, di per sé più melodica, il canto fermo veniva fatto oggetto di ornamentazioni e variazioni, tecnica che gli inglesi del primo Quattrocento frequentarono e svilupparono alquanto. Tipicamente inglese è anche la pratica dell'improvvisazione a vista che fu esportata sul continente e lasciò tracce importanti nella polifonia d'arte come, ad esempio, il gusto per armonie piene, e dunque per una maggiore eufonia. Questa pratica consisteva nel raddoppio estemporaneo di uno stesso cantus firmus a intervalli diversi da parte di più esecutori. A questo procedimento si rifanno il gymel (canto gemello, tradizionale della musica inglese) e il faburden, il raddoppio rigoroso di un motivo dato da parte di un tenor e di un superius che procedono per seste, e un contratenor che procede a una quarta sotto il superius. Questo modo di procedere si inserisce in quella secolare abitudine di amplificare il canto liturgico attraverso raddoppi che, nella fattispecie, formano intervalli all'epoca ritenuti imperfetti (terze e seste), ma tipici della tradizione musicale inglese. Al di fuori dell'ambiente liturgico le forme coltivate in Inghilterra erano i carols polifonici (canzoni a ballo con ritornello corale e stanze di argomento sacro); e le chansons (simili nella forma al virelai francesi e alla ballata italiana), che avevano carattere profano, raffinato, e venivano usate negli intrattenimenti musicali delle corti e dell'alta società. Anche nelle chansons inglesi prevale la pienezza armonica; spesso prevale melodicamente la voce superiore il cui canto viene ornato con un gusto raffinato che rimarrà tipico del gusto e della prassi vocale inglese di questo periodo. 5.3 Evoluzione dello stile musicale alla fine del Medioevo L'evoluzione dello stile musicale può essere considerato, dal Medioevo in poi, come un percorso che va dalla prevalenza assoluta del principio contrappuntistico-orizzontale all'evolversi graduale e al prevalere del principio armonico-verticale, ovvero dalla maggiore indipendenza e importanza del percorso orizzontale delle linee melodiche di ogni parte, al progredire e all'affermarsi delle regole riguardanti gli incontri verticali delle parti, e quindi all'affermarsi del gusto armonico. Nel mottetto del XIII secolo prevaleva lo stile contrappuntistico perché l'interesse era rivolto soprattutto alle linee melodiche indipendenti, mentre ai loro incontri verticali si riservava un'attenzione minima. Durante il XIV secolo invece, la tendenza cominciò a cambiare direzione verso una sensibilità crescente

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verso l'organizzazione armonica. Un'ulteriore indicazione dell'accresciuta importanza della tecnica armonica, rispetto a quella contrappuntistica, fu nel XIV secolo anche il mutamento dei criteri di scelta dei testi per musica vocale. Al mottetto del XIII, composto da più testi diversi, subentrarono le nuove forme del XIV secolo, che avevano un unico testo affidato solo alla voce superiore, oppure distribuito tra voci diverse ma in modo che le parole fossero sempre comprensibili, o ancora, il testo veniva pronunciato simultaneamente, come nel falso bordone. Altri mutamenti dello stile musicale, tra il XIII e il XV secolo, furono il graduale abbandono dei principi costruttivi astratti, la rivalutazione del piacere del suono per se stesso e una chiarezza strutturale evidente, libera da riferimenti e significati esoterici. 5.4 La tradizione franco-fiamminga Con il XV secolo ha inizio una importante fioritura musicale in molti centri della Borgogna, delle Fiandre e del regno di Francia: un gran numero di musicisti nativi di questi paesi e della vasta area culturale franco-fiamminga furono protagonisti indiscussi della musica europea dal XV alla metà del XVI secolo. Per quasi due secoli occuparono i posti più importanti e prestigiosi presso le corti, le cappelle principesche e le grandi chiese cittadine in qualità di compositori, strumentisti e cantori di polifonia, e divulgarono conquiste tecniche e formali di fondamentale importanza per la musica occidentale. Con queste loro tecniche determinarono la formazione dei musicisti di altre nazioni, che nel Cinquecento, su queste basi, ebbero modo di elaborare scelte personali e sviluppare ulteriormente la loro arte. Nella prima metà del Quattrocento si assestarono in Europa le monarchie occidentali: alla fine della guerra dei Cento anni (1357-1453) la Francia si liberò delle ingerenze inglesi sul suo territorio; l'Inghilterra iniziò la sua ascesa dopo la guerra delle Due Rose (1455-1485); in Spagna nel 1469 ci fu la unificazione dei regni di Ferdinando d'Aragona e Isabella di Castiglia; il papato, reduce da Avignone, subiva il Grande e Piccolo Scisma d'Occidente. Come abbiamo già detto, i musicisti borgognoni e fiamminghi provenivano dalla Borgogna, dallo Champagne, l'Artois, la Piccardia e le Fiandre. Il ducato di Borgogna, in particolare, svolse tra il 1363 e il 1477 un ruolo importante nella storia europea, soprattutto nel corso della guerra dei Cento anni durante la quale, grazie alla sua alleanza con l'Inghilterra, si era affrancato dalla dipendenza e sottomissione alla monarchia francese. Conseguenza della sua potenza politica e del suo benessere economico, all'inizio del XV secolo, fu il sorgere in esso di una grande fioritura culturale, artistica e musicale che si manifestò contemporaneamente anche in molti centri delle Fiandre e del regno di Francia. Si usa solitamente distinguere, in questa fioritura, una fase propriamente borgognona, relativa alla prima parte del secolo, il cui

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massimo rappresentante è Dufay, e una fase franco-fiamminga, iniziata, alla metà del secolo, dal grande Ockeghem. Il termine 'borgognone' non ha nessuna connotazione nazionale, perché nella prima parte del secolo la cappella borgognona fu formata da musicisti provenienti da vari paesi europei, da Parigi, come, più tardi, dall'Inghilterra e dalle regioni franco-belghe; tuttavia il termine nasce dal fatto che, essendo la corte e la cappella di Filippo il Buono (1419-1467) le più splendide d'Europa, ed essendo il suo mecenatismo musicale influente ed esteso, il termine borgognone venne dato proprio allo stile musicale e ai suoi compositori. L'atmosfera cosmopolita di questa corte quattrocentesca era ancora più accentuata dalle frequenti visite di musicisti stranieri e dal fatto che gli stessi membri della cappella erano continuamente in viaggio, passando da un servizio all'altro. In tali circostanze lo stile musicale non poteva che essere internazionale; inoltre il prestigio della corte borgognona era tale da influenzare gli altri centri musicali europei, come le cappelle papali a Roma, quelle dell'Imperatore di Germania, dei re di Francia e d'Inghilterra, e delle varie corti italiane. Tuttavia nel XV secolo è più corretto considerare le Fiandre e la Borgogna un'area culturalmente omogenea, anche per il fatto che i compositori appartenenti alle due generazioni, quella di Dufay e quella di Ockeghem, ebbero modo di rapportarsi e influenzarsi vicendevolmente. La formazione musicale dei compositori avveniva presso le cattedrali; dapprima i pueri cantus apprendevano la lingua latina e il repertorio liturgico gregoriano, successivamente i più dotati venivano introdotti alla esecuzione polifonica e alla vera e propria scuola di composizione: i migliori intraprendevano la carriera di compositori-esecutori, ed erano molto richiesti sia in patria sia all'estero: per esempio, nella Cappella pontificia, nella prima metà del secolo, durante i regni di Martino V ed Eugenio IV, i musicisti nordici erano già in maggioranza, e tra essi c'era anche Dufay. Il più delle volte però i cantori e i maestri di cappella che svolgevano la loro attività presso le cattedrali o le cappelle principesche non erano necessariamente musicisti di professione, ma personaggi importanti con cariche prestigiose (dignitari ecclesiastici, segretari di alti prelati o di principi, tesorieri, diplomatici) tutti naturalmente dotati di notevoli capacità musicali. Dufay, per esempio, fu cappellano e poi maestro di cappella del duca di Savoia, canonico delle cattedrali di Cambrai e di Mons, e frequentava in amicizia i Malatesta, i Colonna, Piero dei Medici e Luigi di Savoia. Molto in basso nella scala sociale era invece il livello dei menestrelli, ovvero degli esecutori strumentali e vocali impiegati nelle feste, banchetti, cerimonie politiche o religiose come matrimoni e funerali. Nella prima metà del secolo lo stile musicale dei compositori mirava a sintetizzare forme e tecniche della tarda Ars nova francese, della musica inglese e italiana; la polifonia, sacra o profana, veniva sempre più intesa come insieme vocale-strumentale, nel senso che la parte superiore era scritta per la voce, mentre le parti inferiori erano destinate agli strumenti

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musicali. I compositori della generazione successiva aspiravano invece sempre più a un contrappunto destinato totalmente alle voci, (considerate di eguale importanza), i cui singoli andamenti melodici fossero autonomi (ma accomunati dal materiale ritmico e melodico del canto fermo che rende omogeneo l'insieme), e tuttavia in grado di convivere nel rispetto delle regole riguardanti i loro incontri verticali. Questa perizia contrappuntistica realizzò una concezione architettonica della musica che è confermata anche dall'uso dei canoni, una tecnica compositiva, anzi una esibizione di tecnica per cui la struttura che si rivela all'ascolto è in realtà sostenuta da un'altra struttura latente, di natura rigorosa; si trattava della stessa tendenza che aveva condotto i compositori medievali a scrivere mottetti isoritmici, tendenza in parte dovuta al puro piacere di esercitarsi in una tecnica virtuosistica, e in parte dovuta al desiderio di esibire pubblicamente le proprie capacità professionali. Il termine canone nel XV secolo non aveva lo stesso significato che ha assunto oggi, cioè di una composizione o di un passo basato sull'imitazione stretta delle parti: questo stile veniva allora denominato fuga. Il termine canone in origine indicava invece la 'regola' o l'indicazione da seguire per poter ricavare da una parte data una o più parti non scritte. La tecnica del canone consiste nel derivare da una singola voce data (detta antecedente), una o più voci (conseguenti): queste voci possono essere scritte per esteso dal compositore o possono essere ricavate da un'unica voce scritta (l'antecedente) modificandola secondo particolari indicazioni. La voce di volta in volta aggiunta si può ricavare in vari modi: ad esempio iniziando a cantarla dopo la voce originale a un certo numero di tempi o battute; può essere un'inversione della prima (cioè si muove sempre con gli stessi intervalli ma eseguiti in direzione opposta); oppure la voce derivata può essere ricavata leggendo la voce originale al contrario e allora si parla di un canone retrogrado (cancrizans). Abbiamo dunque canoni per moto retto, moto contrario, retrogrado retto e retrogrado contrario. Un altro tipo di canone è quello mensurale, e consiste nel variare ritmicamente i conseguenti rispetto all'antecedente, mediante l'adozione di diversi segni di misura (di tactus): sono notati anteponendo a un'unica melodia scritta tanti segni mensurali quante sono le voci che si vogliono ricavare. In un canone mensurale il rapporto tra le due voci può essere di semplice aumentazione (la seconda voce si muove con note di valore doppio rispetto a quelle della prima), di semplice diminuzione (il valore è dimezzato nella seconda voce), o un rapporto a volte più complesso. Le tecniche suddette possono essere combinate tra loro; inoltre la voce derivata può riprodurre la melodia a un qualsiasi intervallo più alto o più basso rispetto all'antecedente. Una composizione può anche presentare un canone doppio, cioè due o più canoni cantati simultaneamente. Un'altra possibilità era il far procedere due o più voci in canone, mentre altre voci si

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muovevano su linee indipendenti. I canoni 'enigmatici' sono quelli non scritti per esteso, ma indicati da segni convenzionali, da motti o indovinelli dal cui scioglimento l'esecutore deve ricostruire la parte e dedurne l'esatta collocazione nel contesto musicale. Era un piacere segreto per i compositori dell'epoca simulare la propria abilità; le indicazioni per individuare le voci non scritte sono spesso indicate in modo intenzionalmente oscuro o scherzoso invece di essere chiaramente formulate. Ad esempio: "Clama ne cesses"-ignora le pause; oppure "qui se exaltat humiliabitur, qui se humiliat, exaltabitur": il conseguente deve essere cantato al contrario, in modo che se l'antecedente sale nella melodia, il conseguente deve discendere, e se l'antecedente scende il conseguente deve salire. Le forme musicali utilizzate dai compositori borgognoni e franco-fiamminghi sono la messa, la forma più nobile e importante, il mottetto, e la chanson, e sono composizioni evidentemente segnate da quei caratteri apportati nei primi decenni del Quattrocento sul continente dalla scuola inglese, e da Dunstable in particolare: tendenza alla eufonia, alla naturalezza ritmica, alla chiarezza formale, alla raffinatezza melodica. Ma un altro importante influsso stilistico nella musica dei compositori borgognoni e fiamminghi dell'epoca di Dufay era stato determinato dalla musica italiana, e consiste nel cosiddetto "stile di ballata" (o di chanson), riscontrabile non solo in musiche profane, ma anche in messe o tempi di messe, e mottetti. Consiste in una scrittura in cui su un basso di natura strumentale e con funzione armonica una o due voci di carattere melodico fluiscono liberamente. 5.5 I Faux-bourdons Il faux-bourdon è uno stile nato sul continente e documentato in fonti musicali dal quarto decennio del Quattrocento. Sembra essersi generato dalla fusione di diversi elementi: la predilezione per l'andamento in terze e seste, e lo stile di discanto (del gymel e del faburden) tipici della musica inglese, e la contrapposizione fra la melodia vocale e il tenor strumentale in funzione di sostegno armonico tipica della musica italiana. Dunque, il faux-bourdon non è una forma, ma una tecnica compositivo-esecutiva che si trova applicata all'interno delle messe e dei mottetti o altre forme come inni, antifone, sequenze, Magnificat, in alternanza al canto gregoriano o alla polifonia contrappuntistica. Nell'ambito di composizioni polifoniche costituiscono episodi scritti a due voci, un tenor e un cantus (generalmente un cantus prius factus variato), che procedono per seste e ottave. Vicino al cantus è scritta l'indicazione faux-bourdon, che prescrive una terza voce da cantarsi una quarta sotto il cantus e parallelamente ad esso. Non è ancora chiaro il significato del termine faux-bourdon, perché potrebbe significare il "falso sostegno" che la voce ricavata alla quarta inferiore dal cantus (il contratenor altus) fornisce al cantus stesso (il cui vero sostegno è invece il tenor), oppure potrebbe voler dire "bordone per

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Fa", ossia bordone alla quarta, o ancora, secondo un'etimologia inglese, "scrittura ingannevole". Nella prima metà del secolo prevalgono nei faux-bourdons (1430-50) il contrappunto, l'ornamentazione nella voce del cantus, le dissonanze, il tenor strumentale, le cadenze arcaiche "alla Landini"; mentre nella seconda metà del secolo si controllano e si diradano gradualmente le dissonanze, si limitano le ornamentazione nel cantus, si affermano cadenze più aggiornate, un parallelismo più evidente e una uniformità ritmica tra le voci di tenor e cantus. Vengono ampliate le funzioni e gli ambiti vocali delle voci basse, nel faux-bourdon si inserisce una quarta parte (il contratenor bassus), e si stabiliscono le regole per poterla improvvisare; tutte le parti, inoltre, sono pensate come vocali. Questo procedimento, con la sua omoritmia, lascia ben trasparire le parole quando questo effetto sia volutamente ricercato dal musicista, e costituisce un elemento di varietà perché è alternato con episodi in canto piano o in contrappunto. 5.6 Guillaume Dufay Nel Quattrocento la messa fu la forma più importante tra le composizioni polifoniche; se ne musicava l'Ordinario nelle sue cinque sezioni: Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei. Si è già detto che all'inizio del secolo la messa polifonica seguiva modelli formali diversi: quello del mottetto isoritmico, quello di libera composizione (senza cantus firmus), quello della messa-ballaya o chanson di matrice formale profana. Con i compositori inglesi contemporanei di Dunstable si era affermato un modello sonoro che partiva da un organico-base di quattro voci, e si era anche manifestata l'esigenza di una qualche unità fra le parti della messa che si otteneva, come vedremo, con l'uso del canto fermo ciclico e dei motti introduttivi. Tuttavia la vera e propria affermazione della messa ciclica concepita unitariamente, e il superamento della molteplicità formale caratteristica della messa polifonica di inizio secolo, sono ascrivibili a quei musicisti franco-fiamminghi appartenenti alla generazione di Dufay e Binchois (che produssero a iniziare dal 1430 circa), che vengono designati per convenzione 'borgognoni'. In particolare sono conquiste di Guillaume Dufay, nato nell'Hainaut intorno al 1400, che si formò presso la cattedrale di Cambrai. Tra il 1419 e il 1426 prestò servizio presso Carlo Malatesta a Rimini. Tra il 1428 e il 1437 fu cantore della cappella papale, dopo essere diventato diacono. Al seguito di papa Eugenio IV si recò a Firenze dove scrisse alcuni mottetti dedicati alla città, tra cui il famoso Nuper rosarum flores per l'inaugurazione del duomo (S. Maria del Fiore). Visitò Nicolò III d'Este a Ferrara, e i Savoia presso i quali, dal 1437, fu in servizio stabile. Col tempo si fecero più strette le sue relazioni con la corte di Borgogna dove fu cantore del duca. Negli ultimi anni della sua vita fu a Cambrai (vi morì, pare, nel 1474) da dove continuò a coltivare relazioni internazionali e ad aggiornarsi sulla produzione musicale contemporanea.

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Nelle sue messe, Dufay tende a passare dalla messa-cantilena (a 3 voci, in cui il superius presenta la melodia accompagnata dalle altre due voci in stile strumentale), alla messa costruita su un unico cantus firmus uguale per tutte le parti dell'Ordinario, affidato al tenor (messa ciclica), nella quale le 4 voci intessono una polifonia libera e di carattere essenzialmente vocale. Al primo gruppo appartengono tre messe a tre voci: la Sine nomine, composta liberamente senza cantus firmus; la Sancti Jacobi, nel cui post Communio appare per la prima volta il procedimento del faux-bourdon; la Missa Sancti Antonii Viennensis, che costituisce un primo passo in direzione del nuovo genere di polifonia essenzialmente vocale, in cui tutte le voci hanno uguale importanza. A quest'ultimo genere di polifonia appartengono le 5 messe che Dufay comporrà dopo il 1430 e che costituiscono il secondo gruppo: la Missa Caput è la prima messa ciclica di Dufay costruita su un unico cantus firmus (la melodia del tenor enunciata due volte in ogni parte della messa, assicura l'unità strutturale dell'insieme); tre messe in cui Dufay introduce come cantus firmus una melodia profana (una scelta dettata da ragioni musicali e non dall'aspirazione a una simbolica liberazione dai temi gregoriani), di cui le più importanti sono la Missa Se la face ay pale, in cui il maestro utilizza il motivo di una sua chanson, e la Missa l'homme armé che inaugura una lunga serie di messe che utilizzeranno il motivo di questa chanson. Nelle due ultime due messe Dufay ritorna ai temi gregoriani con le due antifone Ecce ancilla Domini, e Ave regina coelorum, e raggiunge la sua piena maturità creativa. Anche per quanto riguarda la struttura musicale dei mottetti di Dufay, possiamo dividere questa produzione in due gruppi: i mottetti isoritmici e i mottetti-cantilena. I primi sono una diretta eredità del passato e, tra questi, troviamo il famosissimo Nuper rosarum flores, capolavoro scritto per l'inaugurazione del duomo di Firenze, mentre i secondi segnano un momento decisivo verso lo stile dell'avvenire: tra essi ricordiamo Salve regina e Ave regina coelorum, con i quali si giunge alla vera e propria composizione polifonica in cui tutte le voci hanno uguale importanza. La chanson borgognona e fiamminga poggia sul filone poetico aulico-amoroso che tratta temi del dolore inteso come rimpianto o malinconia, della lontananza, degli amori non condivisi, e di temi comunque ispirati alla letteratura cortese del secolo precedente. La chanson borgognona della prima metà del Quattrocento è a tre parti di cui la superiore è vocale e le due inferiori di sostegno. Dufay ne scrisse circa 200, ma per questo tipo di composizione emerge per la sua raffinatezza un altro musicista, Gilles Binchois (nato a Mons intorno al 1400), che fu al servizio del duca Filippo il Buono. Le messe su cantus firmus a quattro parti di Dufay sono tarde e furono scritte dopo il 1450, dunque sono composizioni che non hanno molte relazioni con la musica tipicamente borgognona scritta nella prima parte del secolo, anzi, alcune delle nuove caratteristiche delle Messe su cantus firmus di Dufay sono indicative dello stile dominante dopo il 1450.

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Le tendenza stilistiche posteriori al 1430 evidenziano gradualmente le caratteristiche che saranno tipiche dello stile musicale del Rinascimento: dissonanze controllate, ammissione tra le consonanze degli accordi di sesta, pari importanza delle voci, uso saltuario dell'imitazione e stesura a quattro voci. A questo proposito è importante notare come dalla seconda metà del Quattrocento la concezione musicale esigeva che la voce più bassa fosse libera di assumere il ruolo di base per le successioni armoniche volute, soprattutto nelle cadenze. La consuetudine di affidare alla voce più grave una linea melodica determinata, che non aveva perciò molte possibilità di essere modificata, avrebbe limitato la libertà del compositore e aumentato il rischio di cadere nella monotonia armonica. Questa difficoltà fu risolta togliendo al tenor il ruolo di parte più bassa dell'organico polifonico e inserendo sotto ad esso una parte inizialmente detta contratenor bassus, (in seguito semplicemente bassus); inserendo inoltre sopra il tenor un secondo contratenor detto contratenor altus (in seguito detto altus) e mantenendo nella posizione più acuta il soprano, detto variamente cantus, discantus o superius. Si cominciò ad adottare stabilmente queste quattro parti vocali verso la metà del XV secolo, e la loro distribuzione è rimasta un modello anche ai giorni nostri. 5.7 Johannes Ockeghem Il rigoroso rinnovamento della polifonia a partire dalla metà del secolo inizia con Johannes Ockeghem, del quale tuttora si ignora la data precisa di nascita, avvenuta comunque a Termonde tra il 1410 e il 1420. Fu cantore presso la cattedrale di Anversa e poi a Moulins (tra il 1446-48) al servizio di Carlo I di Borbone. Nel 1452 entrò a far parte della cappella del re di Francia, e nel 1465 ne diventò direttore, carica che conservò fino alla morte avvenuta nel 1497. I suoi lavori comprendono circa 12 messe, 10 mottetti e una ventina di chansons. E' difficile collocare le messe di Ockeghem in ordine cronologico. Alcune sono comunque più arcaiche come la Quinti toni e la Sine nomine, ancora a tre voci, e la Caput e l'Homme armé, a 4 voci, ma con nette differenze ritmiche e tematiche fra cantus prius factus e le voci in contrappunto. In esse la scrittura vocale procede con linee melodiche che fluiscono in frasi di largo respiro, non articolate da cadenze regolari e spunti ripetitivi. Una messa tarda è la Fors seulment, costruita con la tecnica della parodia, destinata a trionfare nel Cinquecento: è scritta sulla melodia del superius della omonima chanson dello stesso Ockeghem a 4 voci, della quale riprende e rielabora molti spunti tratti anche dalle altre voci. Ockeghem scrisse diverse messe su melodie tratte da composizioni profane (Au travail suis, Ma maistresse, De plus en plus), ma ne scrisse anche senza cantus prius factus. Per esempio la messa Cuiusvis toni (Di qualunque tono), è scritta per poter essere cantata in quattro diversi toni attraverso un cambiamento di chiavi. Nella messa Prolationum (Delle prolazioni), le quattro voci sono organizzate in due canoni mensurali, uno

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tra le due superiori e uno tra le due inferiori. La messa Mi-Mi, è caratterizzata da un inciso che corrisponde alla lettura in solmisazione dell'intervallo iniziale della voce più bassa. Spesso Ockeghem, per variare la forma all'interno dei tempi di messa, alterna sezioni a sole due o a tre voci alla polifonia piena, oppure alterna episodi in tempo binario a episodi in tempo ternario. Nei mottetti Ockeghem adotta lo stesso stile delle messe. Le voci, se lette in modo orizzontale, procedono autonome, con andamenti individuali regolari; se viste nell'insieme tendono più a condividere spunti in libera imitazione. Nella seconda metà del secolo, dunque, le due scuole, la borgognona e la fiamminga, convergono nella stessa direzione, e sono dominate dalle novità di Ockeghem e dalla produzione matura di Dufay, capace, anche nella piena maturità, di continui rinnovamenti. Al teorico e musicista Johannes Tinctoris (1445?-1511) si deve l'aver schematizzato, soprattutto nell'opera Liber de arte contrapuncti (1477), la tradizione fiammingo-borgognona e averne individuato le personalità portanti. 5.8 I fiamminghi in Italia Le figure più importanti della generazione successiva ad Ockeghem furono Jacob Obrecht, Henricus Isaac e Josquin des Prez, tutti nati intorno alla metà del secolo. La polifonia in Italia nella seconda metà del '400 faceva capo ai compositori franco-fiammimghi, tuttavia le loro tecniche contrappuntistiche, a contatto con la cultura italiana, subirono adattamenti in funzione di esigenze nuove. Grazie all'ideale umanistico basato sul primato della parola, e quindi dei contenuti espressivi del testo, le forme musicali si adattarono a questa esigenza, alternando, a questo fine, strutture omofone a strutture polifoniche, scansioni ritmiche differenti, contrapposizioni di gruppi di voci, o fra due o tre voci e l'insieme polifonico. Il contrappunto, pur mantenendo al suo interno complicazioni tecniche, scrittura a canone, e dissonanze, dette maggiore disciplina e ed equilibrio a questi procedimenti in senso più eufonico e razionale. Furono gli allievi di Dufay e Ockeghem che operarono in Italia a iniziare questo processo evolutivo nella polifonia, i cui frutti matureranno nel Cinquecento avanzato. Jacob Obrecht (ca 1450-1505), fiammingo del Brabante, fu attivo a Utrecht, Cambrai, Bruges, Anversa, e fu due volte a Ferrara (1487 e 1504-5) per invito di Ercole I d'Este. Obrecht usò le tecniche tipicamente fiamminghe, ma con notevole libertà e originalità. Le sue messe sono in genere a quattro voci e su canti fermi sia liturgici sia profani (in francese, fiammingo e tedesco): trattò questo tipo di messa polifonica con fantasia e facilità nella invenzione melodica e nella variazione sul cantus firmus. Obrecht in alcune messe (Je ne demande, Fortuna desperata) applicò, come Ockeghem, la tecnica della

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"parodia", per cui, come si è già detto, da una precedente composizione polifonica, non si utilizza solo una voce, (un cantus prius factus), ma si traggono spunti melodici anche da altre (o da tutte) le voci di quella composizione, inserendole nel gioco contrappuntistico ed estendendo anche a essi la variazione. Egli sperimenta inoltre sempre qualcosa di nuovo. Per esempio nella messa Caput egli inserisce il cantus firmus in una voce diversa per ogni movimento successivo al Kyrie, dove, come di norma, si trova al tenor: nel Gloria è al discantus, nel Credo al tenor, nel Sanctus all'altus e nell'Agnus al bassus. La melodia di Obrecht è fiamminga nel suo carattere melismatico, ma diversamente dalla linea melodica lenta, tortuosa e ininterrotta di Ockeghem, quella di Obrecht si organizza in pensieri musicali relativamente brevi, in frasi di proporzioni perfette con cadenze periodiche, sostenute sempre da armonie chiare e adeguate: il suo contrappunto risulta dunque più melodico ma forse meno complesso di quello di Ockeghem. Nei mottetti Obrecht applica gli stessi procedimenti costruttivi della messa e introduce talvolta dei declamati allo scopo di sottolineare parole importanti. Scrisse inoltre diverse chansons, fra le quali la bellissima Fors seulement, a 4 voci. 5.9 Josquin Despres Josquin des Pres (Despres, Desprez, Des Prez) nacque verso il 1440 nella provincia di Hainaut, attualmente al confine franco-belga. Tra il 1459 e il 1472 era a Milano cantore del Duomo e membro della cappella del duca Galeazzo Sforza. Alla morte di questi (1476) passò al servizio del fratello di lui, il cardinale Ascanio Sforza. Dal 1486 visse a Roma, al seguito del cardinale, e qui risulta essere stato anche membro della cappella pontificia. All'inizio del '500 si collocano un suo viaggio a Firenze e il suo ritorno in Francia presso la cappella di Luigi XII; nel 1503 era a Ferrara per invito di Ercole I d'Este. Nel 1505 tornò a Condé-sur l'Escaut, suo luogo di nascita, dove morì nel 1521. Alla sua morte molti musicisti e poeti gli dedicarono déplorations. La sua notorietà era enorme, Petrucci aveva stampato un gran numero di sue composizioni sacre e profane e Martin Lutero lo stimava come importante musicista del suo tempo. Josquin svolse buona parte della sua lunga carriera presso i maggiori centri di vita musicale in Italia. Egli rappresenta il fondamentale punto di raccordo fra la polifonia fiamminga del tardo '400 e quelle fiamminga e italiana del '500. Dalla tradizione della scuola di Ockeghem, Josquin aveva appreso il dominio delle tecniche contrappuntistiche su canto fermo, i procedimenti imitativi e canonici e la loro funzione strutturale, l'andamento melismatico delle voci, la concezione totalmente vocale della polifonia. A tutto ciò si aggiunge al suo bagaglio compositivo una serie di nuovi caratteri provenienti dagli ambienti culturali italiani da lui frequentati e basati sulla nuova concezione del rapporto testo-musica: i declamati polifonici usati per conferire più evidenza al testo, le melodie perfettamente adeguate alle

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inflessioni della parola, l'articolazione della forma basata sull'avvicendarsi contrastante di duetti, terzetti e la polifonia piena, oppure scandita in episodi contrappuntistici che sviluppano temi adeguati alle corrispondenti parole del testo. La forma musicale in cui questa nuova concezione del rapporto testo-musica produce maggiore qualità espressiva è il mottetto; Josquin compose mottetti a 4, 5, 6 voci, per la maggior parte su canto fermo (sia sacro, sia profano), ma anche in forma libera, quindi scritti in successione di episodi in contrappunto con propri spunti tematici agganciati l'uno all'altro senza soluzione di continuità. Nelle messe (quasi tutte a quattro voci) Josquin affronta problemi diversi da quelli riguardanti l'espressione del rapporto testo-musica, e si rivolge a curare l'estensione della concezione architettonica, la molteplicità e la ricchezza dell'articolazione interna, lo studio sulla pienezza ed espressività del suono, l'eleganza della variazione sul canto fermo. In tutte le tecniche compositive mostra padronanza di sé, come nella scrittura canonica dove raggiunge estrema complessità con grande finezza (per esempio nella messa Di dadi (basata su canoni proporzionali la cui soluzione è indicata con i numeri scritti sulle parti di dadi dipinti ai lati delle parti), e nelle messe Ad fugam e Sine nomine. Sulla tecnica del "soggetto cavato" (in cui le note del canto fermo sono ricavate dalle sillabe di parole o nomi) si fondano le messe Hercules dux Ferrariae e La sol fa re mi (il cui cantus prius factus traduce scherzosamente in suoni una promessa di pagamento non mantenuta dal cardinal Ascanio: "Lascia fare a me"). Le due messe l'Homme armé (una, Super voces musicales, trasporta di grado in grado il canto fermo nei diversi episodi; l'altra, più recente, Sexti toni, è basata su un raffinato uso di canoni) sono affermazioni di capacità creativa e di fantasia nell'affrontare due volte, e in due maniere ben differenti, la composizione sul medesimo canto fermo; le messe Fortuna desperata, Mater patris, Melheur me bat, Faisant regretz sono messe-parodie. La musica profana di Josquin, in gran parte pubblicata nelle raccolte a stampa di Ottaviano Petrucci e di Andrea Antico, è estremamente varia e comprende chansons da 3 a 6 voci, tra le quali alcune molto famose come Si j'avois Marion, Baysiez-moi, En l'ombre d'ung buissonet, Petite camusette, Nynphes des bois (che è una déploration per la morte di Ockeghem), che usano anch'esse di frequente, come le composizioni sacre, il canone strutturale; frottole (Il grillo, Scaramella) e composizioni varie su testi francesi o tedeschi. Fra gli allievi di Josquin in Italia e in Francia sono da citare Adrianus Petit Coclico, Gaspar van Werbecke, Loyset Compère, Jean Mouton. Tra gli autori francesi che subirono l'influsso di Josquin furono Jean Mouton e Antoine de Févin. La tradizione della scuola di Ockeghem si mantenne immune dagli influssi italiani in diversi compositori franco-fiamminghi che non si allontanarono mai dalla loro regione di origine, come Pierre de La Rue e Matthaeus Pipelare.

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6. LA POLIFONIA CINQUECENTESCA 6.1 La generazione franco-fiamminga dal 1520 al 1550. Adriano Willaert Nei decenni compresi tra il 1520 e il 1550 lo stile cosmopolita dominante dei fiamminghi, cominciò a subire modifiche nei vari paesi, dando luogo a una diversificazione dell'espressione musicale. Gli stessi compositori fiamminghi successivi a Josquin non rimasero immuni da questi mutamenti, e coloro che lavoravano all'estero, soprattutto in Italia, subirono l'influenza degli idiomi musicali dei paesi adottivi. Alcuni compositori tentarono, soprattutto nella musica sacra, di ristabilire lo stile contrappuntistico ininterrotto di Ockeghem, come reazione agli esperimenti di Obrecht e Josquin; ben presto però anche i compositori più tradizionalisti abbandonarono quasi completamente le tecniche antiquate del canone o altre tecniche analoghe ad esse. Nella Messa la tecnica su cantus firmus fu sostituita con quella della parodia; i canti liturgici furono ancora usati di norma come sostanza melodica sia nelle messe, sia nei mottetti, ma furono però trattati in modo libero; l'organico nelle messe e nei mottetti si allargò, e accanto alle 4 voci, si arrivò a usare le cinque o le sei voci. Compositori che operarono nel nord Europa come Nicolas Gombert e Jacobus Clemens non Papa (così denominato per distinguerlo dal poeta Jacobus Papa che viveva nella stessa città di Ypres) sono esponenti dello stile conservatore del mottetto fiammingo nella prima metà del '500. Di tutt'altra tendenza è invece Adrian Willaert (1490 ca.- 1562), il fiammingo più importante che operava in Italia nello stesso periodo. Dopo aver studiato nelle Fiandre, successivamente a Parigi con Mouton, e aver lavorato a Roma, Ferrara e Milano, Willaert fu nominato nel 1527 maestro di cappella della basilica di S. Marco a Venezia, e conservò questa carica fino alla morte. Willaert fu uno dei più eminenti compositori del XVI secolo, e anche se la sua fama di fondatore della scuola veneziana deve essere ridimensionata, tuttavia è fuori di dubbio che egli, insieme ai suoi numerosi allievi, esercitò un'influenza essenziale sullo sviluppo musicale di Venezia e dell'Italia settentrionale, distinto dal contemporaneo sviluppo della scuola romana. Tra i suoi allievi sono da menzionare Gioseffo Zarlino, Andrea Gabrieli, Cipriano de Rore, Niccolò Vicentino. La parte più importante della sua produzione è costituita dalle composizioni sacre, il cui il testo letterario diventa sempre più determinante ai fini della forma. Willaert fu tra i primi compositori a pretendere che le sillabe del testo corrispondessero esattamente alle relative note da cantare. Non è casuale il fatto che il suo allievo Gioseffo Zarlino pubblicasse nelle Istitutioni harmoniche (Venezia 1558) anche delle regole riguardanti l'adattamento musicale di un testo, per cui le sezioni e le frasi nella musica devono essere delineate in accordo con il significato, l'accentuazione e la punteggiatura del testo corrispondente.

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Per molto tempo Willaert fu considerato l'inventore della tecnica policorale, detta del "coro spezzato". L'esecuzione musicale a cori alternati è una pratica che risale all'esecuzione polifonica dei salmi. I cori, a una o a più voci, si alternavano a ogni versetto e si riunivano nella dossologia finale. In realtà fu Ruffino Bartolucci di Assisi (maestro di cappella nella basilica di S. Antonio a Padova) a scrivere per la prima volta (intorno al 1510-20) salmi a otto voci "a coro spezzato", cioè per un coro diviso a metà, ovvero due cori a quattro voci. Già qui si trova, oltre all'alternanza dei cori a ogni versetto, quella a ogni parola o unità significativa all'interno dello stesso versetto: questa è la tecnica del coro spezzato. Willaert però elaborò ulteriormente questo procedimento in particolare nei suoi Salmi spezzati a otto voci (Venezia, 1550). Nei brani musicati da Willaert si osserva che la struttura antifonale del canto salmodico è in genere perfettamente rispettata: infatti, ad eccezione della dossologia, uno dei cori canta quasi sempre un intero verso senza interromperlo, mentre l'altro coro, sovrapponendosi al primo nella cadenza, riprende il verso successivo. Solo nella dossologia finale questo schema viene abbandonato a favore di un più vivace alternarsi dei due cori in un crescendo sonoro. E' rispettato anche il tono salmodico, con il suo fraseggiare caratteristico: soprattutto nel cantus o nel tenor traspaiono le formule dell'initium, della mediatio, e della terminatio. Nella tecnica compositiva si fondono la polifonia tradizionale e il falso bordone locale, che da tempo nell'Italia del nord veniva impiegato per la formulazione plurivocale della salmodia. Al posto della rigorosa imitazione di stampo fiammingo compare un libero adattamento di motivi declamati sillabicamente e talvolta persino un movimento prevalentemente omoritmico. Nel campo della musica profana le composizioni più rilevanti di Willaert sono i madrigali che, partendo da una palese influenza italiana, raggiungono poi uno stile maturo e personale. Sono composizioni in cui domina la voce superiore e prevale l'elemento armonico verticale, con passaggi omofoni dove tutte le voci declamano contemporaneamente il testo; domina una scrittura tersa e tranquilla tendente a mettere in risalto il testo: del testo la musica cerca di rendere l'accento delle parole, senza tuttavia proporsi di interpretarlo. 6.2 Dal dominio musicale fiammingo all'egemonia italiana Anche se, nella prima parte del XVI secolo i compositori fiamminghi erano sparsi in tutta l'Europa occidentale, e il loro idioma era diventato linguaggio internazionale, ogni paese coltivava tradizioni musicali autoctone; questi idiomi nazionali durante il XVI secolo emersero sempre di più costringendo a volte lo stile fiammingo a modificarsi in funzione delle esigenze stilistiche ed espressive. In Italia prese avvio una sequenza di avvenimenti che portò al passaggio dal dominio musicale straniero a quello propriamente italiano:

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come si è già detto, nel 1520 giunse in Italia Adrian Willaert, che nel 1527 fu nominato maestro di cappella della basilica di S. Marco, una delle cariche più prestigiose in Italia; tra i suoi numerosi allievi italiani ci fu Andrea Gabrieli (1520 ca.-1586), che in seguito ebbe degli incarichi a S. Marco, e il cui nipote e allievo Giovanni Gabrieli (1556 ca.-1613) diventò il più famoso compositore veneziano della sua generazione ed ebbe tra i suoi allievi Heinrich Schütz, un tedesco venuto in Italia per studiare con lui. Dunque, in meno di un secolo l'Italia aveva ribaltato la situazione rispetto ai Fiamminghi, diventò il centro della vita musicale europea, e la sua supremazia, una volta affermatasi, durò per più di due secoli. In tutti i paesi europei, alla dipendenza musicale dai Fiamminghi, si sostituì gradatamente la dipendenza dall'Italia. Un evento fondamentale per la diffusione della musica è rappresentato dall'invenzione della stampa musicale. Il primo editore a usare i caratteri mobili per la stampa della musica polifonica fu Ottaviano Petrucci da Fossombrone (1466-1539), operante a Venezia. La sua prima edizione fu un'antologia di 96 chansons intitolata Harmonice Musices Odhecaton A, stampata nel 1501. A Petrucci dobbiamo la pubblicazione di numerosi libri contenenti chansons, mottetti, messe, inni, Magnificat e lamentazioni dei più importanti compositori franco-fiamminghi conosciuti ed eseguiti in Italia in quel periodo (Josquin Desprez, Obrecht, Agricola, Isaac, Mouton, Pierre de La Rue, Gaspar van Weerbecke). A lui dobbiamo anche, tra il 1504 e il 1514, la stampa di undici libri di "frottole", un repertorio di composizioni polifoniche profane molto diffuse nelle corti dell'Italia del nord tra Quattro e Cinquecento (cfr. più avanti). Contemporaneo a Petrucci è Andrea Antico, operante tra Roma e Venezia; il primo a incidere la pagina musicale su lastre di rame fu Simone Verovio, nel 1575. Altri importanti editori attivi a Venezia nel corso del Cinquecento furono Girolamo Scotto, i Gardano, Ricciardo Amadino e i Vincenti. Quando Ottaviano Petrucci cominciò a stampare musica a Venezia nel 1501, iniziò con chansons, Messe e mottetti; ma dal 1504 al 1514 pubblicò almeno undici raccolte di canzoni strofiche italiane, musicate in modo sillabico a 4 voci, con schemi ritmici marcati, semplici armonie diatoniche, uno stile omoritmico e con la melodia nella voce più alta. Queste canzoni venivano dette frottole, un termine generico entro il quale si possono distinguere vari sottotipi. 6.3 La frottola "Frottola" è un termine che sta a definire una serie di composizioni strofiche che furono coltivate nelle corti dell'Italia settentrionale come Mantova, Ferrara, Urbino, tra la fine del secolo XV e i primi decenni del XVI. Lo schema poetico più usato dalla frottola vera e propria è detto "barzelletta" ed è simile, nella struttura metrica, alla ballata trecentesca; vengono usati però anche altri metri poetici come lo strambotto, un' ottava formata da 4 distici, l'oda, con strofe di 4 versi, il capitolo,

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composto da una serie di terzine, il sonetto, formato da due quartine e due terzine, e la canzone, con vari schemi metrici. La struttura della musica, che è polifonica a quattro voci, è naturalmente condizionata dai diversi schemi letterari. La fortuna e la diffusione del genere frottolistico sono testimoniate dalle 11 raccolte pubblicate da Petrucci tra il 1504 e il 1514 e da altre stampe uscite in anni successivi. Le frottole potevano essere eseguite in due diversi modi: - affidando tutte le quattro parti vocali ai cantori; - affidando la parte piu acuta (il cantus) a una voce solista, e le altre parti (in particolare il tenor e il bassus) a uno strumento polifonico (in genere il liuto). Prevaleva senz'altro il secondo tipo di esecuzione, a dimostrazione che la frottola era concepita il più delle volte per canto accompagnato. Tra i compositori di frottole spiccano i nomi di Marchetto Cara (1475-1525), Bartolomeo Tromboncino (1470-1533) e Michele Pesenti (1475-1521), che sicuramente assommavano alle capacità compositive, quelle esecutive. Nello stile musicale della frottola prevale dunque la parte superiore, spesso affidata al canto solistico, mentre le altre parti svolgevano la funzione di accompagnamento con un procedere prevalentamente accordale. La linea vocale superiore si muove in maniera sillabica, con pochi melismi là dove li richiedono le sillabe accentate delle parole: melismi più estesi sono invece presenti alla conclusione delle frasi. L'articolazione interna degli episodi è nettamente scandita da formule cadenzali, e al loro interno gli schemi ritmici sono uniformi e ricorrenti in sintonia con la regolarità metrica dei versi poetici. Gli argomenti dei testi sono più che altro amorosi, patetici, arguti e comici. Lo schema della frottola-barzelletta è identico a quello della ballata trecentesca: è composto da una ripresa ( in genere di 4 versi) ripetuta alla fine di ogni strofa, e di una serie di strofe formate da 6-8 versi ottonari (nella ballata trecentesca i versi erano invece endecasillabi o settenari). Le intonazioni musicali sono due, A e B, che a loro volta sono suddivise in due frasi. Eccone la struttura poetico-musicale che ricorre con più frequenza: RIPRESA STROFA Rime dei versi: a b b a c d c d d a La RIPRESA è ripetuta Musica: A B A A B tutta o in parte Sono rimaste poche fonti, e molto tarde, riferibili ai canti carnascialeschi, appartenenti alla tradizione fiorentina. Sono canti strofici, che seguono molto liberamente la struttura della ballata, e si avvalgono di una scrittura polifonica a tre o quattro parti (in parte anche imitativa) estremamente semplificata. Un'altra forma è la villotta polifonica a quattro voci, originaria delle regioni venete (a volte il testo è in dialetto), con una trama

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contrappuntistica essenziale le cui melodie spesso sono di origine popolare. Le due sezioni musicali corrispondono alle strofe (quattro versi) e a un ritornello. 6.4 Il madrigale Nel quadro della musica profana, la forma più importante e diffusa nel corso del Cinquecento (più precisamente a partire dagli anni Venti fino agli anni Trenta del Seicento), era il madrigale; la sua circolazione non si limitò alle corti e agli ambienti aristocratici ma si estese anche a quelli alto-borghesi, alle accademie e ai circoli intellettuali. Non ha niente in comune, se non il nome, con il madrigale del XIV secolo: questo aveva una forma strofica con un ritornello, quello del Cinquecento non usava nessun elemento delle vecchie formes fixes con le loro ripetizioni di frasi testuali e musicali, ma consisteva in un adattamento continuo, non strofico, di una breve poesia, ed era costruito con una serie di sezioni generalmente contrastanti, alcune contrappuntistiche e altre omoritmiche, ognuna espressione di una singola frase del testo, o parte di essa avente comunque senso compiuto. Questa impostazione formale assomiglia a quella del contemporaneo mottetto. Il mottetto del '500 era concepito in base alla suddivisione del testo letterario in tante sezioni, a discrezione del compositore, aventi ognuna significato compiuto. Queste sezioni venivano messe in musica con procedimenti diversi, scelti per rendere al meglio il significato testuale, per cui alcune erano trattate in omoritmia, con tutte le voci che procedevano con lo stesso ritmo producendo un andamento accordale che rendeva chiara la declamazione delle parole, e altre erano trattate con il contrappunto imitativo. In quest'ultimo caso, il compositore sceglieva per ogni sezione un motivo musicale adatto a renderne il significato testuale, e tale motivo, enunciato da una voce, veniva poi a turno imitato dalle altre voci che intervenivano con entrate sfalsate e procedevano poi a una elaborazione personale del materiale musicale esposto. Conclusa l'elaborazione di tutta la sezione testuale, mentre alcune voci cadenzavano, altra o altre voci rientravano sovrapponendosi alla cadenza, per enunciare il motivo esplicativo della frase testuale successiva ed elaborarla. Solo alla fine le voci si ritrovavano concordi sulla cadenza finale. Dunque il mottetto si componeva di una serie di tessere o sezioni, più o meno collegate l'una l'altra. L'abilità artistica dei compositori, sia nei mottetti sia nei madrigali, consisteva nella capacità di organizzare le sezioni della composizione dando loro il senso della continuità e della coerenza. Il madrigale era una forma basata su un testo poetico italiano a carattere lirico e amoroso, o idilliaco e arcadico, introspettivo o narrativo, spesso di tono leggermente epigrammatico, in genere monostrofico e con una struttura metrica libera e svincolata da schemi fissi e precostituiti; tuttavia non mancano, specialmente nel periodo iniziale, testi poetici a forma fissa quali il sonetto, l'ottava, la ballata e la stanza di canzone. Sul piano musicale il madrigale è in genere quasi esclusivamente vocale (anche

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se non si può escludere, nella prassi esecutiva, la presenza di alcuni strumenti musicali), a più voci (corredate tutte di testo poetico), costruito secondo un percorso melodico fondamentalmente libero e coerente nel contempo, cioè non legato a schemi fissi o a ripetizioni melodiche, in stile generalmente imitativo, anche se non mancano sezioni in stile accordale e omoritmico, o basate su contrasti ritmici quando il testo, o il suo andamento metrico lo richiedano. Sembra che il madrigale abbia avuto origine in ambiente fiorentino-romano intorno agli anni Venti. Il termine "madrigale" appare per la prima volta nella raccolta Madrigali novi...Libro primo de la Serena stampata a Roma nel 1530. A Firenze operarono personalità quali Arcadelt e Verdelot, due musicisti che portarono alla maturazione e alla diffusione questo genere appena nato che fino a quel momento era circolato principalmente attraverso copie manoscritte. Il madrigale nasce in quel clima culturale inaugurato da Pietro Bembo(1470-1547) con le Prose della volgar lingua scritte tra il 1506 e il 1512 (ma pubblicate a Venezia nel 1525) che mirava al recupero della purezza della lingua italiana attraverso l'imitazione del Petrarca. Questo spiega anche l'uso di un termine quale "madrigale", già impiegato nel Trecento per denominare una forma poetico-musicale che però, come abbiamo detto, aveva caratteristiche morfologiche e musicali del tutto diverse da quelle cinquecentesche. Dunque dal punto di vista formale il madrigale cinquecentesco è una forma "aperta" (durchkomponiert), a invenzione continua, priva di ritorni o simmetriche ripetizioni di frasi ed episodi musicali. Se nella frottola contava il tono generale e l'insieme, nel madrigale è importante la resa e l'illustrazione di ogni singola parola o immagine verbale: a questo scopo il madrigalista ricorreva ai più vari procedimenti melodici, armonici, ritmici o contrappuntistici alternando lo stile imitativo, accordale, arioso o declamatorio. Gli artifici tecnici che servivano a tradurre in musica i significati e i concetti espressi dal testo poetico, vengono denominati madrigalismi. E' abituale l'impiego del madrigalismo inteso come resa pittorica della singola parola che, isolata dal testo, suggerisce un'immagine attuata musicalmente mediante veri e propri atteggiamenti descrittivi: parole esprimenti angoscia o dolore quali "pena", "duolo", "martiri" sono rese con passaggi cromatici o comunque realizzando intervalli dissonanti tra le voci; parole quali "vento", "rivi", "canto", con melismi più o meno rapidi; le parole "sospiro", "respiro" vengono spesso inframezzate da pause; concetti come "alto", "cielo", vengono scritti su registri acuti, mentre "basso" o "terra" su registri gravi; valori più o meno lunghi e brevi per esprimere concetti di velocità o rallentamento ecc.. La cosiddetta musica "visiva" arrivava addirittura a rendere graficamente concetti come "occhi", "chiaro", "giorno" con note bianche, vuote, oppure vocaboli come "notte", "tenebre" con note nere. Questi ultimi artifizi grafici dimostrano come la letteratura madrigalistica era destinata soprattutto agli esecutori, e non ad

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ascoltatori che non erano messi in grado di "vedere" la parte. Ma troviamo anche tentativi di cogliere le frasi testuali nel loro significato d'insieme, secondo una concezione musicale più ampia: in questi casi, come vedremo, sono contrapposte fra loro intere frasi i cui contrasti espressivi vengono musicalmente resi mediante un diverso trattamento stilistico- strutturale. Nella storia del madrigale si possono identificare tre fasi principali: nella prima, oltre ad Arcadelt e Verdelot, si distinguono Adriano Willaert, Costanzo Festa, Girolamo Parabosco e Francesco Corteccia. Nella seconda fase, a partire dalla metà del secolo, il madrigale raggiunse maggiore equilibrio tra i suoi elementi costitutivi. A partire dal 1540 ricorre spesso nelle raccolte a stampa, la denominazione di madrigali "a note nere", o "a misura di breve", o anche "cromatici"; in questa fase, il termine cromatismo si riferisce all'impiego di valori musicali brevi, di note di valore piccolo, notoriamente colorate "in nero", e dunque intende la consuetudine a realizzare combinazioni ritmiche più complesse. Altri madrigali, denominati "ariosi" sui frontespizi delle edizioni a stampa, tendono a far prevalere la voce superiore, depositaria dell'"aria" (=melodia all'epoca); le altre voci hanno un andamento accordale, o comunque un contrappunto che non compromette il carattere declamatorio del brano. Rappresentanti principali di questa fase sono Andrea Gabrieli (1510 ca.-1586), Vincenzo Ruffo (1510-87), Claudio Merulo e Cipriano de Rore (1516-65). Nella terza fase il madrigale è caratterizzato dall'uso frequente del cromatismo inteso in senso moderno (sia melodico sia armonico), come impiego di alterazioni semitonali, spesso dissonanti, in funzione espressiva. Questi e altri procedimenti compositivi erano naturalmente sempre indirizzati a migliorare e approfondire la resa espressiva dei testi poetici; anche la tecnica del madrigalismo infatti è, in questa fase, impiegata in modo più meditato e meno meccanico, ed è orientata più verso la definizione del contenuto espressivo dell'intero testo che non soltanto verso la descrizione minuta di singole parole o concetti. La tendenza a esprimere il testo poetico nel suo insieme, cogliendone l'idea complessiva, portava ad articolare il discorso musicale in una serie di periodi e di passi strutturalmente o ritmicamente contrastanti atti a illustrare i corrispondenti passaggi meditativi o narrativi del testo. In questa direzione determinanti furono le nuove scelte poetiche dei musicisti. Accanto a Petrarca, che comunque detiene il primato tra i poeti prediletti dai madrigalisti, nella seconda metà del secolo vengono utilizzati poeti contemporanei. Molta fortuna incontrò Ludovico Ariosto, e le strofe del suo Orlando Furioso venivano musicate singolarmente o anche in cicli di madrigali. Giovanni Guarini (Ferrara 1538-1612) emerse a cominciare dagli ultimi anni del secolo; i versi della sua tragicommedia pastorale Il Pastor fido (1589) sono alla base di almeno 550 madrigali di 125 compositori: in particolare i monologhi Cruda Amarilli (Atto I, scena 2) e Ah dolente partita (III, 3) compaiono con frequenza nelle raccolte

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madrigalistiche dei più importanti compositori. Altrettanto frequente, a cavallo tra i due secoli, è la scelta delle opere poetiche di Torquato Tasso (1544-1595), sia le Rime (1582), sia episodi singoli o gruppi di stanze tratti dalla Gerusalemme liberata (1581) (es. La morte di Clorinda, il lamento di Armida contro Rinaldo, Erminia tra i pastori ecc.), brani comunque sempre densi di pathos, di forti contrasti emotivi e di situazioni commoventi. Altri poeti presenti nelle raccolte madrigalistiche sono: Gabriello Chiabrera, Jacopo Sannazzaro, Pietro Bembo, Giovanni Guidiccioni, Luigi Cassola, Giambattista Marino e Luigi Tanzillo. Testi poetici dei suddetti poeti, aulici e raffinati, ma meno distaccati e più coinvolgenti, obbligano i madrigalisti a sperimentare tecniche compositive nuove, atte a renderne sempre più a fondo la natura. Così troviamo l'uso di intervalli melodici inusitati (settime, decime, tritoni), registri vocali ampliati all'estremo, sia nelle note basse che in quelle acute, variazioni ritmiche repentine, passaggi in stile declamatorio, pause improvvise, uso di cromatismi arditi, temerari, sia melodici, sia armonici. Tra i compositori che presero parte allo sviluppo del madrigale italiano dopo la metà del secolo, e che sperimentarono le nuove tecniche, ci sono ancora molti musicisti nordici (fiamminghi), e vanno ricordati in particolare Orlando di Lasso (1532-94), molto prolifico anche nell'ambito della musica sacra, Philippe de Monte (1521-1603), attivo in Italia, ma anche al servizio degli imperatori di casa Asburgo, e Jacques de Wert, operante tra la corte dei Gonzaga a Mantova e la corte estense a Ferrara. I maggiori madrigalisti verso la fine del secolo furono invece italiani. Luca Marenzio (1553 o 54 - 1599), fu uno dei più famosi madrigalisti del suo tempo, e trascorse gran parte della sua vita a Roma. Il suo stile giunse a conciliare una grande abilità tecnica, con la quale riesce a rendere sentimenti contrastanti e dettagli descrittivi, ad una estrema qualità e raffinatezza espressiva. Famoso è il madrigale sul sonetto del Petrarca "Solo e pensoso", in cui il clima espressivo dei primi due versi è caratterizzato: dalla ininterrotta curva cromatica nella voce superiore, che sale lentamente lungo un intervallo di nona e poi scende di una quinta; dal gioco contrappuntistico delle parti sottostanti che si imitano nell'originale disegno di settime sciolte in arpeggi discendenti, e dal moto contrario che si realizza fra le due voci estreme. Esempio 22 Il culmine delle possibilità cromatiche (del cromatismo) nel madrigale italiano fu però raggiunto da Carlo Gesualdo, principe di Venosa (1560 ca.-1613), appartenente all'alta aristocrazia napoletana. Dopo aver ucciso la moglie nel 1590, si recò a Ferrara dove sposò Eleonora d'Este (1594), nipote del duca Alfonso II. Nel 1597 tornò nel castello di famiglia situato nell' Irpinia, mantenne una cappella musicale e passò gli ultimi anni di vita afflitto da gravi problemi psichici. Durante la permanenza a Ferrara, il

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contatto con l'ambiente culturale fertile e stimolante della città estense determinò una svolta stilistica nella sua produzione, grazie soprattutto all'incontro con Luzzasco Luzzaschi (1545-1607). Tale evoluzione lo portò ad usare un cromatismo esasperato e una serie di arditezze e bizzarrie melodiche, ritmiche e armoniche (finalizzate a rendere emozioni intense e travolgenti), che si alternano a passaggi semplici, con melodie diatoniche e contrappunto imitativo: le sue scelte poetiche si basano infatti su testi brevi e non di grande pregio letterario, in cui, però, si alternano stati d'animo fortemente contrastanti. Estremamente cromatico e a note lunghe è l'incipit del madrigale Moro, lasso al mio duolo in stile accordale, seguito dal passaggio ritmico nettamente contrastante, in stile imitativo, che rende la contrapposizione emotiva delle parole "e chi mi può dar vita": Esempio 23 I centri più importanti nei quali il madrigale fu coltivato sono, oltre a Firenze e Roma, Venezia, Ferrara, Mantova e Napoli. Alla corte estense di Ferrara operava il famoso "concerto delle dame" nel quale si distinguono tra l'altro Laura Peverara, Tarquinia Molza e Lucrezia Bendidio, cantanti che si dedicavano espressamente all'esecuzione di questo repertorio, e che erano celebrate per la bravura con cui eseguivano passi estremamente complessi e di stampo quasi solistico. A loro furono dedicate composizioni da parte dei più famosi maestri del tempo (Jacques de Wert, Marenzio, Gesualdo e Monteverdi). Si tratta di un primo repertorio pensato e scritto in funzione dell'ascolto privato della corte invece che all'uso e all'intrattenimento degli stessi esecutori. Alcuni madrigali di questo repertorio sono caratterizzati da uno stile vocale complesso e pieno di ornamentazioni e in particolare i 12 Madrigali per cantare et sonare a uno, a doi, e tre soprani, stampati nel 1601, ma composti vent'anni prima per il gruppo di virtuose cantatrici da Luzzasco Luzzaschi (1545-1607, organista a Ferrara e maestro di cappella al servizio privato del duca), offrono i primi esempi, nella musica profana, di un accompagnamento pensato espressamente per strumenti polifonici (liuto o tastiere). Questo tipo di accompagnamento contribuì all'avvio di una nuova concezione monodica del madrigale di cui si dirà più avanti. Nella città di Venezia invece prevalse uno stile madrigalistico conservatore, non sperimentale. La scrittura prevedeva due o più gruppi corali trattati secondo la tecnica policorale o dei "cori spezzati" impiegata nella contemporanea musica sacra. Una variante del madrigale "classico" è il cosiddetto "Madrigale rappresentativo", o "Madrigale drammatico", o ancora "Commedia madrigalesca", un genere formato da una serie di madrigali riuniti in cicli, che svolgono una vicenda drammatica articolata in più episodi. Sono madrigali a carattere dialogico e narrativo che implicano vari personaggi che agiscono in un teatro senza scena e su un palcoscenico ideale, astratto

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e immaginario. Sul piano musicale esso è costituito da una serie di madrigali, alcuni in stile contrappuntistico e imitativo, altri di tipo accordale e omoritmico. Il più famoso è l'Anfiparnaso "comedia harmonica a 5 voci" (1594) del modenese Orazio Vecchi (1550-1605), formato da 15 brani che evocano personaggi e situazioni tipici della commedia dell'arte, molto noti al pubblico contemporaneo. Sulla scia di Orazio Vecchi opera il bolognese Adriano Banchieri: la sua opera più famosa fu La pazzia senile 1598), in cui si descrivono, in una lingua ricca di cadenze dialettali, le velleità amorose di due vecchi, eluse da giovani innamorati. Molto conosciuta, dello stesso autore, è anche la commedia madrigalesca Le veglie di Siena. Da ricordare, dello stesso genere, Il cicalamento delle donne al bucato di Alessandro Striggio. Grande importanza ebbe, nel campo delle forme polifoniche profane del Cinquecento, la villanella alla napoletana, o canzone villanesca, la cui prima raccolta risale al 1537: fu un genere molto sofisticato pur nella sua apparente semplicità melodica e armonica e nel tono ancora vagamente popolare, anche se ormai già molto stilizzato. Fu praticato, fra gli altri da Giandomenico da Nola, Tommaso de Maio, Tommaso Cimello, Adrian Willaert, Baldissera Donato e Luca Marenzio. Generi affini alla villanella furono la Giustiniana, la Grechesca, la Villotta, la Moresca e la Bergamasca. Molto semplice e raffinato nel contempo è anche il genere della Canzonetta praticato principalmente da Giuseppe Caimo e Orazio Vecchi. Giacomo Gastoldi (1555-1609) primeggiò invece nel genere del Balletto, composizione polifonica strofica su versi particolarmente agili e bizzarri. 6.5 La musica sacra del Cinquecento italiano. Repertorio e istituzioni Come si è già detto a proposito dei compositori fiamminghi vissuti a cavallo tra il XV e il XVI secolo, la grande tradizione della polifonia sacra fiamminga quattrocentesca si innestò senza soluzione di continuità nell'esperienza compositiva liturgico-musicale cattolica del XVI secolo. I generi della musica sacra erano sempre strettamente connessi alla liturgia o a un evento devozionale. A parte il canto gregoriano che continuava ad essere praticato (pur con le ovvie varianti, rispetto al repertorio più antico, che si erano venute accumulando nel corso dei secoli), nell'ambito della musica polifonica il genere maggiormente eseguito fu quello della Messa, limitatamente però alle cinque parti che compongono l'Ordinarium Missae: Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei. Il tipo di messa più diffuso fu senza dubbio la "messa ciclica", nella quale tutte le cinque parti sono costruite su uno stesso cantus prius factus, che poteva essere una melodia tratta dal repertorio gregoriano o da un canto profano italiano o francese, posta generalmente nella voce del tenor. Grande fortuna ebbe anche la cosiddetta Missa parodia, in cui, come si è già detto, i prestiti da una composizione preesistente non si limitavano a una sola voce, ma a intere sezioni polifoniche. Infine le messe venivano composte

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con particolari tecniche musicali (canone mensurale, canone enigmatico, ecc.) o anche liberamente. Tra le parti del Proprium Missae quelle più frequentemente realizzate in forma polifonica sono gli Offertori e le Sequenze (in particolare lo Stabat mater). Nell'ambito dell'Ufficio liturgico le parti poste in musica polifonicamente sono per lo più gli Inni, i Magnificat (nella liturgia del vespro), le Lamentazioni, gli Improperi, i Salmi, i responsori, e il Passio. Comunque il genere che avrà maggior fortuna nel corso del Cinquecento è il mottetto, già in parte praticato nella seconda metà del secolo precedente (da non confondere con il mottetto celebrativo di carattere sia sacro sia profano in uso dal Duecento fino alla prima metà del Quattrocento). Come si è già detto si tratta di una composizione esclusivamente vocale (da quattro a più voci) su testi religiosi in latino ispirati, desunti o liberamente tratti dalle Sacre Scritture, dal testo del Proprium Missae o da quelli dei Padri della Chiesa. Il successo di questa forma è dovuto principalmente alla sua brevità, alla sua concisione e al fatto che la presenza di un testo non canonico, non "ufficiale", poteva ispirare in vari modi la fantasia del compositore, esprimendo in questo il vero spirito della musica rinascimentale. Si tratta di una composizione quasi "paraliturgica", cantata nel corso di celebrazioni o festività particolari, o utilizzata talvolta anche nella Messa in sostituzione di pezzi liturgici "ufficiali", oppure durante l'Offertorio, l'Elevazione o la Comunione. Nel Cinquecento la musica sacra, sia vocale, sia strumentale, si sviluppò non soltanto in tutti i luoghi dove normalmente si praticano le funzioni liturgiche (cappelle private, chiese, parrocchie e conventi) ma anche in istituzioni religiose e laicali (fondate in seguito alla Controriforma), quali i seminari, i collegi, gli oratori, gli orfanotrofi, i conservatori e le congregazioni. Lo sviluppo maggiore si ebbe nelle cappelle private più rappresentative (delle corti signorili più prestigiose, delle più illustri famiglie, o di cardinali), nelle grandi chiese cattedrali e basilicali e in generale nei centri politici e culturali di maggiore importanza. Tra le cappelle private sono da ricordare, oltre a quella papale, quella vicereale a Napoli, quella degli Estensi a Ferrara, dei Medici a Firenze, dei Gonzaga a Mantova (S. Barbara), dei Savoia a Torino. Tra le cappelle delle grandi chiese o cattedrali si distinsero, oltre a quelle delle principali chiese e basiliche romane, la cappella della basilica di San Marco a Venezia, quella del duomo di Milano, di San Petronio a Bologna, di Santa Maria del Fiore a Firenze, della SS. Annunziata a Napoli e della cattedrale di Palermo. In tutti questi luoghi hanno operato nel corso del Cinquecento illustri compositori, sia fiamminghi sia italiani, in qualità di maestri di cappella, di cantori o di organisti. Tra i centri maggiori il ruolo più importante spetta certamente a Roma, costante punto di riferimento non soltanto per tutta la Cristianità occidentale ma anche per tutto il mondo culturale e intellettuale in qualche modo legato alla committenza papale ed ecclesiastica in genere. A Roma la musica polifonica veniva praticata dappertutto, non soltanto in Vaticano e

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nelle quattro grandi basiliche, ma in ogni chiesa, ogni convento e in ogni istituzione religiosa. La cappella papale o Cappella di Nostro Signore, successivamente chiamata cappela sistina, era la cappella privata del papa. La sua istituzione risale al XIV secolo e nel corso del Quattrocento vi operarono i maggiori cantori e compositori del tempo fra i quali Dufay (dal 1428) al 1437) e Josquin Despres (dal 1486 al 1494). Un momento particolarmente felice è rappresentato dal papato di Sisto IV (1471-1484). Ma la sua importanza aumenta decisamente nel corso del '500 sotto i pontificati di Leone X (1513-1521), Paolo III (1534-49) e Giulio III (1550-1555) al quale si deve la nomina di Palestrina a cantore pontificio. Grande rilievo ebbe anche la Cappella Giulia fondata da papa Giulio II (1503-1513) intorno al 1513 e destinata ai servizi liturgici all'interno della Basilica di S. Pietro. Essa fu potenziata successivamente da Giulio III, che chiamerà alla sua direzione, nel 1551, Pierluigi da Palestrina (Palestrina tornerà a dirigere la Cappella Giulia nel 571 sotto Pio V, dopo la morte di Giovanni Animuccia). Fra le altre cappelle romane, particolarmente importanti furono quelle di S. Giovanni in Laterano e di S. Maria Maggiore, che ebbero tra gli altri, come maestro di cappella, proprio Palestrina, rispettivamente dal 1555 al 1560 e dal 1561 al 1565. Tra le altre istituzioni religiose romane bisogna ricordare anche il Seminario romano fondato in pieno clima controriformistico da papa Pio IV nel 1565, di cui il Palestrina fu il primo maestro di cappella. In tutte le istituzioni romane operarono durante il '500 i più illustri musicisti del tempo, sia franco-fiamminghi sia italiani, tra i quali, oltre al Palestrina, Arcadelt, Costanzo Festa, Rubino Mallapert, Francois Roussel, Giovanni Maria Ferrabosco, Giovanni Animuccia, Felice Anerio, Giovanni Maria Nanino, Cristobal Morales e Francois Roussel. Tutto questo fervore ha fatto sì che Roma sia stata considerata, non solo nel Cinquecento ma anche nei secoli successivi, come il punto di riferimento principale per la composizione della musica sacra caratterizzata fondamentalmente dallo stile "a cappella". Ma sarà principalmente Palestrina ad essere considerato il modello ideale per la polifonia liturgica fino a tutto il Settecento inoltrato, e il suo mito rimarrà legato alla nozione di "stile alla Palestrina". In effetti Palestrina rappresenta un perfetto equilibrio tra le istanze contrappuntistiche di stampo franco-fiammingo e l'esigenza di trasparenza nell'amalgama armonico creato dalla sovrapposizione delle varie linee melodiche, che garantisce anche una certa comprensibilità del testo. Quest'ultima era una delle necessità avanzate dalla commissione (di cui facevano parte anche i cardinali Carlo Borromeo e Vitellozzo Vitelli) che, dopo il Concilio di Trento, nel 1564-65, aveva avuto l'incarico di definire le caratteristiche della musica da impiegare nella liturgia e di regolamentarne l'uso. 6.6 La musica nella riforma luterana. Il corale Lo sviluppo dottrinale e liturgico del luteranesimo determinò la

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necessità di un repertorio musicale appropriato alle specifiche esigenze del culto protestante. Com'è noto, nel 1517 Martin Lutero (1483-1546), monaco agostiniano e teologo, affisse alla porta del Duomo di Wittemberg 95 tesi riguardanti l'infondatezza teologica della dottrina e della pratica della vendita delle indulgenze. La critica luterana, inizialmente limitata alla denuncia di abusi ecclesiastici, si estese presto anche a questioni dogmatiche determinando la frattura decisiva con la Chiesa di Roma. Alcuni principi propri del Cristianesimo riformato, come il sacerdozio universale e il libero esame dei testi sacri, comportarono conseguenze rilevanti nell'organizzazione liturgica. Anzitutto Lutero rese accessibili i testi sacri e liturgici anche a chi non conosceva il latino, traducendo in tedesco la Bibbia, affinché ogni credente potesse attuare direttamente e responsabilmente l'interpretazione del Verbo, e per confermare le Scritture come unica forma di fede. La stessa messa, adattata alle specificità dottrinali protestanti, adottò la lingua tedesca allo scopo di garantire la partecipazione attiva e consapevole dei fedeli. L'azione riformatrice di Lutero non si limitò agli aspetti testuali della liturgia, ma operò anche sull'articolazione musicale del repertorio sacro. La complessa polifonia sacra cattolica, affidata ad esecutori professionisti, escludeva il coinvolgimento diretto dell'assemblea nel canto, e fu dunque necessario elaborare un corpus musicale idoneo alle necessità della nuova liturgia. Lutero, che possedeva una certa conoscenza teorica e pratica della musica, approntò dunque, con l'aiuto di alcuni musicisti come Johann Walter (ca. 1496-1570) e Conrad Rupsch (ca. 1474-1530) un repertorio di canti religiosi in tedesco, in gran parte consistenti in rielaborazioni di canti gregoriani. Questi canti sono inni strofici assembleari chiamati in tedesco Choral o Kirchenlieder, corali in italiano. Quattro raccolte di corali furono pubblicate nel 1524, e altre ne seguirono. Inizialmente i canti erano destinati a essere cantati all'unisono dai fedeli (che li imparavano a memoria), senza armonizzazione o accompagnamento, dunque le melodie erano semplici, procedevano per intervalli facili da intonare, ed erano articolate in frasi regolari. La struttura melodica dei primi corali aveva lo stesso schema A A B tipico della Barform usata dai Minnesänger. Successivamente i compositori luterani iniziarono a scrivere versioni polifoniche dei corali: la melodia, in questo caso, era affidata alla voce superiore, ed era accompagnata da altre tre voci che procedevano in stile omoritmico-accordale; questa prassi esecutiva non veniva affidata ai fedeli, ma a cori di cantori professionisti. Un'altra possibilità esecutiva era quella di affidare la melodia alle voci, e le parti sottostanti all'organo. Il corale è tuttora il nucleo liturgico-musicale fondamentale del culto luterano; il repertorio cinquecentesco è stato utilizzato e rinnovato attraverso i secoli applicando alle melodie originarie nuove armonizzazioni (famose sono quelle di J. S. Bach), che sono il riflesso dei differenti gusti storici. I corali saranno anche posti alla base di elaborazioni più complesse nell'ambito delle forme strumentali organistiche.

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6.7 La controriforma In seguito alla rivoluzione religiosa provocata da Martin Lutero, buona parte dell'Europa si convertì e si staccò dalla Chiesa di Roma. Il grave pericolo in cui quest'ultima venne a trovarsi, provocò un forte impulso verso un rinnovamento che non tradisse lo spirito della religione cattolica e delle sue istituzioni e che potesse in qualche modo far fronte al dilagare delle dottrine protestanti. Questo movimento ha preso il nome di Controriforma. La manifestazione più evidente dei nuovi fermenti cattolici fu la convocazione, nel 1545, del Concilio di Trento, che, con varie interruzioni e interventi dall'esterno, si concluse nel 1563 dopo aver rinsaldato la compagine gerarchica della Chiesa e l'autorità del papa, precisato dogmi e fissati gli obblighi disciplinari del clero e dei fedeli. Riguardo alla musica sacra, il Concilio di Trento condannava lo spirito profano presente, ad esempio, nelle messe costruite su un cantus firmus profano, o nelle Messe parodie basate su chansons, e le complessità contrappuntistiche che rendevano incomprensibili le parole del testo. Inoltre si riprovava la negligenza e il malcostume dei cantori nel fiorire la propria parte per emergere nel contesto vocale, e la loro cattiva pronuncia delle parole; infine si riprovava l'uso di strumenti rumorosi in chiesa. Tuttavia, al di là di questi pronunciamenti, il Concilio di Trento non prese in considerazione le questioni tecniche e non fornì le regole musicali da seguire, ma demandò le soluzioni pratiche ai vari vescovi e alle diocesi. Dunque non vennero ufficialmente proibite né la polifonia, né la parodia su modelli profani: l'importante era che, qualunque soluzione tecnica fosse adottata, il testo cantato rimanesse intelligibile, e fossero evitati abusi esecutivi. 6.8 Giovanni Pierluigi da Palestrina Tutto il fervore musicale della Roma del Cinquecento di cui si è detto, ha fatto sì che questa città divenisse, anche nei secoli successivi, il punto di riferimento principale per la composizione della musica sacra. Ma sarà principalmente Palestrina ad essere considerato il modello ideale per la polifonia liturgica fino a tutto il Settecento inoltrato. Giovanni Pierluigi da Palestrina (Palestrina 1525 o 26-1594) fu fanciullo cantore nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, dove ricevette la sua formazione musicale. Nel 1544 divenne organista e maestro del coro nella cattedrale di Palestrina. Nel 1551 fu nominato maestro della cappella Giulia (o Vaticana) in S. Pietro da papa Giulio III, suo protettore (in precedenza vescovo di Palestrina) al quale dedicò nel 1554 il suo primo Libro di Messe a 4 voci. Dopo un breve e contestato incarico di cantore nella cappella di Nostro Signore (la cappella privata del papa oggi detta sistina), fu nello stesso anno maestro di cappella della basilica di S. Giovanni in Laterano, e sei anni dopo ebbe la stessa carica nella basilica di S. Maria Maggiore. Nel 1571 fu richiamato a collaborare con la Cappella Vaticana in S. Pietro. Svolse attività didattica anche presso il Seminario

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Romano, lavorò per il cardinale Ippolito d'Este a Roma e a Tivoli, e per la "Compagnia dei Musici di Roma" (da cui trarrà origine l'attuale Accademia di Santa Cecilia). Palestrina è il compositore al quale fu riconosciuto di aver interpretato al meglio l'essenza dello stile della Controriforma, per la sua polifonia sobria e lontana da suggestioni profane. La sua formazione musicale è di ascendenza franco-fiamminga, perché fiamminghi furono i suoi maestri, e dunque alla base del suo stile c'è il contrappunto imitativo affidato a un organico esclusivamente vocale, le cui singole parti hanno un andamento ritmico melodico autonomo e continuo, pur nel rispetto dell'andamento delle altre parti. Gli elementi conservatori nello stile di Palestrina, derivati dalla vecchia tradizione fiamminga sono: l'uso frequente di un organico a 4 voci invece delle ormai consuete 5 o 6 voci; alcune messe scritte con la tecnica, ormai datata, su cantus prius factus, come ad esempio la prima delle due messe scritte sulla tradizionale melodia della chanson francese L'homme armé; inoltre l'uso rigoroso della tecnica del canone, nelle messe Missa ad fugam (interamente in doppio canone) e Repleatur os meum, in modo rigoroso, e in molte altre messe, in modo meno severo. Altro dato interessante è che la maggior parte delle messe di Palestrina sono costruite su cantus firmus gregoriano, e inoltre, alcune messe parodia sono basate su mottetti polifonici a loro volta fondati sul canto gregoriano. Questo dato non è casuale, per il fatto che Palestrina permea la sua polifonia non solo dello spirito, ma anche della tecnica del canto gregoriano. Le linee melodiche delle sue parti vocali procedono infatti prevalentemente per grado (i pochi intervalli superiori alla terza vengono immediatamente riequilibrati con intervalli che procedono in direzione inversa), con rare note ribattute, in frasi sinuose e di lungo respiro, non articolate da cadenze regolari, e in ambiti che non vanno oltre l'intervallo di nona. Dal punto di vista armonico la produzione palestriniana esclude ogni cromatismo, e gli intervalli che le voci formano nei loro incontri verticali, sono quelli che, nella grammatica armonica, si chiamano triadi e accordi di sesta. La linea del basso spesso procede per intervalli di quarta o di quinta, che producono cadenze pseudo tonali, per cui si verificano situazioni a metà strada tra il sistema modale del XV secolo e l'armonia tonale del secolo XVIII. Il procedere diatonico, l'assenza di cromatismi e il trattamento discreto delle dissonanze, conferisce alla musica di Palestrina un clima sobrio e distaccato. Altro elemento importante nella polifonia palestriniana è il sapiente trattamento della sonorità che deriva dal saper raggruppare, spaziare o raddoppiare le voci nelle loro combinazioni verticali: una sorta di "orchestrazione vocale". Un medesimo accordo produce sfumature differenti se viene eseguito da combinazioni vocali diverse: in Palestrina è sempre felice la scelta delle voci e quindi la giusta sonorità in rapporto alle varie situazioni espressive. Il ritmo nella polifonia cinquecentesca viene scandito da un metro

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identico per tutte le voci, e nell'ambito di questo appuntamento collettivo, ogni voce conserva l'indipendenza del suo ritmo personale, che asseconda la declamazione delle parole del testo nel suo procedere. Nelle musiche di Palestrina più che altrove, il metro collettivo che contiene il fluire ritmico di tutte le voci dà come effetto la sensazione di una successione ritmica regolare messa in evidenza più che dagli accenti tonici, dai cambiamenti d'armonia e dalla collocazione di ritardi sui tempi forti. L'equilibrio stabilito tra il procedere orizzontale delle voci e i loro incontri intervallari verticali produce nell'ambito della polifonia palestriniana una trama sonora trasparente dalla quale non è difficile far emergere con chiarezza il testo letterario. A questo scopo peraltro Palestrina, soprattutto nella Missa papae Marcelli, organizzò il discorso musicale in modo che una data frase fosse spesso pronunciata dalle voci in modo simultaneo, e non attraverso un contrappunto imitativo eccessivamente sfasato: ma per evitare la monotonia di questo procedimento (il falso bordone), egli divise l'organico di sei voci in vari gruppi minori, ognuno dotato di un proprio colore sonoro, riservando l'insieme delle sei voci per parole esprimenti una tensione particolarmente significativa. Così nessuna voce arriva ad avere il testo per intero, dato che vi sono scarse ripetizioni di esso. In questo modo la musica di Palestrina, basata sulla purezza della sonorità vocale e sull'uso controllato del contrappunto, riflette gli ideali di conservatorismo e di interiorità della Controriforma. Tra i compositori contemporanei di Palestrina, legati al suo stile musicale e come lui esponenti della scuola romana sono da ricordare Giovanni Maria Nanino (1545 ca.-1607), Felice Anerio (1560-1614), Giovanni Animuccia (1500 ca.-1571). Altro importante esponente della scuola romana fu lo spagnolo Tomàs Luis de Victoria (1549 ca.-1611), la cui presenza a Roma dimostra come durante tutto il XVI secolo vi furono stretti rapporti tra i compositori spagnoli e romani. Gli ultimi compositori franco-fiamminghi del XVI secolo furono Philippe De Monte e Orlando di Lasso, autori anche di molta musica profana. Orlando di Lasso è considerato, insieme a Palestrina tra i grandi compositori di musica sacra del tardo Cinquecento, ma mentre Palestrina eccelse soprattutto nelle Messe, la fama di Lasso è legata principalmente ai mottetti, la cui forma complessiva e i dettagli particolari sono informati ad un approccio drammatico e descrittivo del testo. 6.9 La scuola veneziana Il centro della cultura musicale di Venezia era la basilica di S. Marco, e in essa l'organizzazione musicale dipendeva direttamente da funzionari statali, che non risparmiavano sulla sua gestione, in quanto le manifestazioni musicali erano concepite ed esibite con sfarzo a dimostrazione della magnificenza dello stato. La carica di maestro di cappella era molto ambita, e anche gli organisti erano scelti con selezioni rigorose.

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A differenza della scuola romana che coltivava prevalentemente il contrappunto tradizionale e lo stile solamente vocale ("a cappella"), la scuola veneziana tendeva a uno stile più accordale che contrappuntistico in senso tradizionale, in cui le voci procedevano piuttosto omoritmicamente; inoltre coltivarono molto le sonorità e i contrasti timbrici, e la tecnica policorale detta anche del "cori spezzati", che in S. Marco venne stimolata dalla presenza di due organi posti su due cantorie collocate una di fronte all'altra. In effetti, come si è già detto, l'usanza di scrivere pezzi per doppio coro (per cori spezzati) non aveva avuto origine a Venezia, perché fin dai primi anni de XVI secolo si era sperimentata in area veneta la tecnica di contrapporre raggruppamenti corali diversi: ma questa tecnica si rivelò congeniale al tipo di scrittura corale omoritmica prediletta dai compositori veneziani. Anche la tradizionale polifonia franco-fiamminga metteva in atto, ma in maniera saltuaria, meccanismi musicali basati sul contrasto sonoro: per esempio contrapponeva passi affidati a due o tre voci, a passi cantati dall'intero organico vocale oppure alternava episodi scritti in contrappunto imitativo a episodi in struttura accordale. La scuola veneziana invece fa dei contrasti sonori la sua cifra stilistica privilegiata, impiegando anche gruppi di strumenti mescolati alle voci o contrapposti ad esse: la tecnica policorale prevedeva dunque la contrapposizione di cori vocali e gruppi strumentali, o la contrapposizione di cori misti di voci e strumenti insieme. Se la pratica polifonica vocale del Rinascimento consentiva che gli strumenti sostituissero o raddoppiassero le parti vocali, comparve ora una nuova pratica denominata "concertato" o "concerto", un termine che divenne fondamentale per la prima musica barocca. Il termine, "concertare" (probabilmente dal latino 'gareggiare') si riferiva di solito a gruppi in concorrenza o in contrasto fra loro, oppure alla combinazione di voci e strumenti; venne usato come titolo per la prima volta nei Concerti...per voci et strumenti (1587) di Andrea e Giovanni Gabrieli. Andrea Gabrieli prescrive, nella premessa ai suoi Psalmi davidici, l'uso di strumenti e voci "insieme e separatamente" senza però precisare i tipi di combinazione che (come anche nella precedente suddetta raccolta) sono lasciati alla discrezione dell'esecutore. Negli ultimi anni del secolo il termine entrò nell'uso comune, come per esempio nel titolo Concerti ecclesiastici, che troviamo in tre famose raccolte: una con opere di Andrea Gabrieli e altri autori (1590); una seconda con opere di Adriano Banchieri (1595) e una terza contenente i famosi Concerti di Lodovico Grossi da Viadana (1602). Giovanni Gabrieli nelle sue Sacrae symphoniae (1597) fu il primo compositore a indicare esattamente nella partitura gli strumenti specifici da usare nell'esecuzione; in genere suonavano insieme alle voci non solo l'organo, ma anche tromboni, cornette e viole. Naturalmente le voci erano abbinate agli strumenti in base ai timbri: quelli acuti della viola da braccio duplicavano le voci superiori, mentre il suono dei cornetti e quello dei tromboni sostenevano le voci basse. L'andamento semplificato delle voci,

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che procedono per lo più a blocchi accordali, serviva allo scopo di mettere in rilievo e con estrema chiarezza il ritmo naturale delle parole, che in questo modo erano facilmente percettibili. Willaert aveva pubblicato nel 1550 i suoi Salmi a uno et a duoi chori a Venezia e questa produzione ebbe seguito attraverso i suoi discepoli, a cominciare dal teorico Gioseffo Zarlino che trattò questo procedimento compositivo nella sua opera intitolata Istitutioni harmoniche del 1558. Il procedimento antifonico regolare dei Salmi di Willaert, con sezioni alternate regolarmente tra i due cori, venne arricchito e amplificato dal suo allievo Andrea Gabrieli (1533-1585), che sfruttò questa tecnica con una numerosa serie di effetti sonori: anzitutto con un maggior numero di cori contrapposti, e inoltre con episodi espressi attraverso dialoghi serrati seguiti da episodi che vedono i cori riuniti in procedimenti omoritmici, frequenti effetti d'eco e ripetizioni di parole. Non è del tutto assente il contrappunto imitativo, ma questo cede il posto principale allo stile omoritmico accordale che viene usato per meglio sottolineare la declamazione del testo. Il vocabolario è in genere diatonico, salvo la presenza di qualche cromatismo teso a evidenziare concetti significativi. Andrea Gabrieli operò spesso al di fuori di Venezia, in Italia e all'estero, soprattutto nei paesi di lingua tedesca, tanto che fino alla metà del Seicento le sue opere sacre e profane, ebbero larga diffusione in edizioni e ristampe. Furono suoi allievi, tra gli altri, il teorico Lodovico Zacconi (1555-1627), autore del trattato Prattica di musica e il nipote Giovanni Gabrieli (1557 ca.- 1612). La raccolta intitolata Concerti...per voci, et stromenti musicali, pubblicata a Venezia nel 1587, contiene opere di Andrea e Giovanni Gabrieli, sacre e profane, per organici che comprendono dalle 6 alle 16 parti sia vocali, sia strumentali, anche se di queste ultime non vengono precisati gli strumenti esecutori. Giovanni Gabrieli proseguì l'opera di evoluzione delle tecniche policorali soprattutto nella sperimentazione di sempre nuovi impasti di voci e strumenti e relativi effetti timbrici e sonori. Con Giovanni il mottetto policorale arrivò a dimensioni mai raggiunte, perché vi furono impiegati fino a cinque cori, ognuno con una diversa combinazione di voci acute e gravi, e ognuno combinato con strumenti di timbro diverso. Famosa è la sua Sonata pian'e forte, contenuta nelle Sacrae Symphoniae del 1597; si tratta, formalmente, di un mottetto a doppio coro per strumenti, ed è importante, più che per il valore musicale, per il fatto che è uno dei primi pezzi stampati per un insieme strumentale in cui sono specificati esattamente quali particolari strumenti sono richiesti, nell'esecuzione, per ogni parte: il primo "coro" prevede una cornetta e tre tromboni, il secondo "coro" un violino e tre tromboni. Ma la raccolta è importante anche perché Giovanni in questa sonata fu uno dei primi a usare indicazioni di dinamica, sia nel titolo, sia nella partitura, di "pian[o] e "forte" (la prima indicazione è usata quando ogni "coro" suona da solo, la seconda quando i due "cori" suonano insieme). Nelle citate Sacrae symphoniae del 1597 e nelle le

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Symphoniae sacrae del 1615, Giovanni Gabrieli sperimenta contrasti ritmici, dinamici, e, a volte, cromatismi sia melodici sia armonici. Nelle Sacrae symphoniae del 1597 troviamo anche una Canzon in echo per otto cornette e due tromboni (con un arrangiamento alternativo per organo), e una Canzon da sonar per viola, cornetta e nove tromboni. La scuola veneziana ebbe larga fama in Italia e nell'Europa settentrionale (Germania, Austria), tra la fine del XVI e l'inizio del XVII secolo. Tra gli allievi di Giovannni Gabrieli fu Heinrich Schutz, il più importante esponente della musica sacra tedesca della sua epoca. 7. CLAUDIO MONTEVERDI TRA RINASCIMENTO E BAROCCO Un discorso a parte merita l'opera di Claudio Monteverdi, perché nell'ambito della sua intera produzione, ma soprattutto dei suoi otto libri di madrigali (stampati a Venezia dal 1587 al 1638) possiamo percorrere gradualmente il passagio dal XVI al XVII secolo, dalla tradizione polifonica rinascimentale della seconda metà del Cinquecento, alle innovazioni espressive, stilistiche, formali e strutturali del primo Seicento barocco. Monteverdi (1567-1643) studiò a Cremona, sua città natale, con Marcantonio Ingegneri, maestro di cappella del Duomo di quella città. Nel 1590 entrò al servizio del duca di Mantova Vincenzo Gonzaga, dapprima come suonatore di viola, e, dal 1602, come maestro della cappella ducale. Dal 1613 fino alla morte fu maestro di cappella della basilica di S. Marco a Venezia. I primi cinque libri di madrigali, e parte del sesto, vennero composti a Mantova, e rispecchiano la padronanza della tecnica madrigalistica del tardo Cinquecento, con l'alternarsi di sezioni in contrappunto imitativo e sezioni in stile omoritmico-accordale (che a volte realizzano una sorta di declamato polifonico), e la resa fedele del testo poetico attraverso una serie di "madrigalismi" tra i quali anche l'uso di dissonanze. Già in questa prima fase tuttavia si rintracciano segnali evidenti di evoluzione stilistica, come alcuni passi che non sono melodici, ma declamatori, come dei recitativi: ne è un esempio l'incipit di Sfogava con le stelle (Quarto libro dei madrigali), in cui questo verso viene declamato da tutte le voci su un accordo che l'autore pone all'inizio senza specificare il valore da attribuire all'intonazione delle sillabe: ne scaturisce una sorta di recitazione, in declamato polifonico che si rifà allo stile recitativo della contemporanea monodia accompagnata. In questo senso va interpretata la graduale trasformazione dell'organico che esegue, e della tessitura che spesso si allontana dall'ideale rinascimentale dell'uguaglianza delle voci, e si assottiglia spesso in duetti sostenuti dalla parte del basso che funge da sostegno armonico. Le scelte poetiche di Monteverdi si diressero, in una prima fase, ai versi del Tasso (Gerusalemme liberata), per passare, a partire dal Libro quarto, prevalentemente a G. Battista Guarini (Il Pastor fido), e poi ancora a Gabriello Chiabrera (1552-1638) e Giovanni Battista Marino (1569-

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1625). Per quanto riguarda gli incontri dissonanti delle voci, questi in molti casi possono essere interpretati come abbellimenti, ma in effetti essi venivano prevalentemente impiegati da Monteverdi allo scopo di rendere e comunicare il significato e gli "affetti" contenuti nel testo poetico. Anche se Monteverdi non usa i cromatismi e le conseguenti dissonanze nel modo esasperato di Gesualdo da Venosa, tuttavia, soprattutto a cominciare dal suo Terzo libro di madrigali lo vediamo derogare dalle regole contrappuntistiche riguardanti gli incontri consonanti delle voci. Furono proprio le deviazioni dalle regole grammaticali contrappuntistiche riguardanti le combinazioni armoniche dissonanti che sollecitarono il biasimo del teorico bolognese Giovanni Maria Artusi, allievo di Zarlino, il quale nella sua opera L'Artusi, ovvero Delle imperfettioni della moderna musica (1600) e nella successiva Seconda parte dell'Artusi (1603), criticava le innovazioni armoniche di Monteverdi che contrastavano con la regola, per esempio, per cui ogni dissonanza deve essere preceduta e seguita da una consonanza. Tra i vari passi monteverdiani contestati dall'Artusi c'è quello iniziale del madrigale Cruda Amarilli (pubblicato per la prima volta nel quinto libro di madrigali a cinque voci, del 1605, ma sicuramente in circolazione in forma manoscritta già all'inizio del secolo): in esso Artusi disapprovava le licenze contrappuntistiche causa di aspre dissonanze negli incontri vocali. Ma proprio tali dissonanze poste su parole-chiave sono indice della volontà di Monteverdi di comunicare attraverso l'insieme armonico il significato emozionale del messaggio poetico. La risposta di Monteverdi all'attacco di Artusi appare dapprima nella lettera agli Studiosi lettori, pubblicata nello stesso quinto libro, dove afferma di essere consapevole di ciò che scrive ("..io non faccio le mie cose à caso"), ed enuncia l'esistenza di una "seconda prattica", successiva e diversa da quella "insegnata dal Zerlino". Due anni dopo, il concetto di "seconda prattica" fu spiegato dal fratello di Monteverdi, Giulio Cesare, nella dichiaratione anteposta alla pubblicazione degli Scherzi musicali (Venezia, 1607) con le seguenti parole: "[...] prima prattica intende che sia quella che versa intorno alla perfetione del armonia [della musica], cioè che considera l'armonia non comandata ma comandante, e non serva ma signora del oratione [testo] [...]; seconda prattica, della quale è stato il primo rinovatore ne nostri caratteri il divino Cipriano Rore [...] intende che sia quella che versa intorno alla perfetione della melodia, cioè che considera l'armonia comandata non comandante, e per signora del armonia pone l'oratione, per cotali ragioni halla detta seconda e non nova". Secondo Monteverdi dunque, l'Artusi criticava le innovazioni armoniche senza tenere conto delle esigenze illustrative del testo ("[...] nulla curandosi dell'oratione, tralasciandola in maniera tale come se nulla havesse che fare con la musica"). Era infatti ormai da tempo in atto un mutamento nei rapporti tra musica e poesia, e la parola, lungi ormai dall'essere considerata mera base fonetica e sostegno delle complicate

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costruzioni musicali, si immedesimava con la musica costituendone l'anima e determinandone il carattere espressivo. Nel linguaggio monteverdiano, la profonda aderenza tra musica e testo, che si impone sin dalle prime composizioni madrigalistiche, e si conferma in tutti i successivi lavori come suo tratto personale, non è basata esclusivamente sulla resa pittorica della singola parola (i suddetti madrigalismi), ma è intesa in senso più ampio, offrendo musicalmente una visione d'insieme del significato testuale: la cosiddetta "teatralità monteverdiana" coglie nel testo il momento poetico centrale, e adegua ad esso il clima generale della musica. Attraverso gli otto libri di madrigali assistiamo al progressivo e naturale modificarsi della struttura musicale in funzione delle esigenze espressive. Scelte poetiche spesso complesse e artificiose portano Monteverdi alla ricerca di un'"oratoria musicale" e alla costruzione di forme più estese e articolate. Il confronto, essenziale, con l'assetto strutturale del testo letterario non pregiudica però l'autonomia del linguaggio propriamente musicale, che va invece scoprendo nessi formali e mezzi tonali che superano gradatamente l'orizzonte modale della polifonia madrigalesca. Fondamentale in questo processo di rinnovamento musicale è l'adozione, sin dal quinto libro dei madrigali, del 'basso continuo', premessa indispensabile all'impiego della voce solista nella compagine di un madrigale polifonico. A partire dal settimo libro (Venezia, 1619), intitolato concerto, si verifica una vera e propria frattura formale: il termine assai estensivo di madrigale si trova applicato anche a composizioni che, per la molteplicità degli stili musicali e dei generi letterari in esse adottati, più nulla hanno a che fare con la polivocalità contrappuntistica della tradizione cinquecentesca; nella varietà degli "altri generi de canti", il numero delle voci, sostenute dal basso continuo, varia da uno a sei e ad esse si associano varie formazioni strumentali con funzione concertante. Lo stile concertato o concertante, inteso come unione di parti vocali e strumentali non sempre paritarie, ma il più delle volte con funzioni distinte (melodiche e di accompagnamento prevalentemente armonico), ha le sue origini nelle composizioni policorali della scuola veneziana, oltre che nei madrigali polifonici a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, che dal contesto polifonico delle 5 voci, arrivò alle 3, 2, o anche a una voce solista. Il basso continuo è una sorta di accompagnamento armonico-accordale posto a sostegno di parti vocali; consisteva in una parte di basso scritta per esteso al di sotto della, o delle altre parti vocali, sulla quale erano scritte delle cifre che suggerivano il tipo di accordo (non scritto) da realizzare estemporaneamente durante l'esecuzione. In genere veniva affidato almeno a due esecutori: uno per eseguire la linea del basso (in genere uno strumento ad arco con registro grave come la viola da gamba), l'altro o gli altri per realizzare estemporaneamente gli accordi adeguati, e spesso suggeriti dalla numerica sovrapposta alla parte del basso (tastiere, liuto, tiorba, chitarrone). Questo basso si dice continuo perché nelle

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composizioni del XVII e XVIII secolo in cui è impiegato, accompagna ininterrottamente il discorso musicale a differenza delle parti di basso nella musica polifonica, che, come tutte le altre voci, aveva le sue pause. Il contrappunto del XVII secolo dunque si diversifica da quello del Rinascimento: consisteva sempre in una combinazione di linee melodiche differenti, ma ora le linee dovevano adattarsi alle regole strutturali di una serie di successioni armoniche di accordi esplicitamente definiti e suonati dal continuo, dunque era un contrappunto controllato armonicamente. Tornando a Monteverdi, l'intitolazione di Concerto attribuita al suo settimo libro di madrigali sta a registrare una pluralità di stili e di mezzi espressivi sperimentati in questa opera. Questa sperimentazione prosegue nei Madrigali guerrieri et amorosi. libro ottavo (Venezia 1638), l'ultimo libro di madrigali stampato durante la vita dell'autore (perché il Nono Libro uscirà postumo), notevole per la varietà di generi e di forme, tra cui si hanno madrigali a cinque voci, assolo, duetti e trii con basso continuo, e composizioni per coro, solisti e orchestra. Già la prefazione "Claudio Monteverde a chi legge" costituisce il programma estetico della raccolta; in essa Monteverdi spiega la sua poetica, la quale tende a uno stile espressivo che valorizzi al massimo l'oratione costituita dall'intrecciarsi di "affetti" contrastanti: alla realizzazione espressiva di questi affetti dovevano tendere insieme voci e strumenti per incontrarsi in quella "imitazione unita" che costituisce l'ideale esecutivo monteverdiano. Tra le tante tecniche formali usate c'è il del basso ostinato: nel Lamento della ninfa, la parte di basso adotta uno schema melodico fisso (una quarta discendente), che viene ripetuto in modo identico, per 34 volte, mentre la voce solista (la ninfa) melodizza con ricchezza di espressione il suo "lamento". Ma di importanza fondamentale nel Libro ottavo è il Combattimento di Tancredi e Clorinda. Il testo si basa sul famoso episodio descritto dal Tasso nel XII canto della Gerusalemme liberata, i cui versi (ottave 52-62 e 64-68) sono stati parzialmente modificati e frequentemente contaminati dalla versione della Gerusalemme conquistata. Lo stesso Monteverdi, nella prefazione sopra citata, spiega le ragioni della sua scelta: "[...] diedi di piglio al divin Tasso, come poeta che esprime con ogni proprietà et naturalezza con la sua oratione quelle passioni, che tende a voler descrivere et ritrovai la descrittione, che fa del combattimento di Tancredi con Clorinda, per haver io le due passioni contrarie da mettere in canto guerra cioè preghiera, et morte [...]". Questa scelta poetica richiede l'introduzione del "concitato genere", in aggiunta a quelli già usati "molle et temperato", necessario alla resa delle caratteristiche guerriere del testo tassiano che descrive l'incontro dei protagonisti, il duello, il ferimento di Clorinda, il riconoscimento da parte di Tancredi, il battesimo e la commovente morte. La composizione prevede un organico di tre voci (un soprano, Clorinda, e due tenori, Tancredi e il narratore del testo) e quattro parti strumentali: "quattro viole da brazzo, soprano, alto, tenore et basso,

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et contrabasso da gamba che continuerà con il clavicembano". Il fatto che il Combattimento sia "in genere rappresentativo", come le istruzioni esecutive di Monteverdi prescrivono, è ampiamente confermato dalle sue caratteristiche musicali che mirano a "rappresentare" la concitazione drammatica e "i contrasti, che sono quelli che scuotono grandemente l'animo nostro", e richiedono espressamente la realizzazione mimica. A questo scopo vengono sperimentate diverse innovazioni. Dal punto di vista ritmico l'adozione del pirricchio (giustificata da un discutibile accostamento del ritmo musicale con la metrica classica:"[...] è tempo veloce nel quale tutti gli migliori filosofi affermano in questo genere essere stato usato le saltazioni belliche, concitate [...]"), si traduce nel frazionamento della semibreve (paragonata allo spondeo) "in sedeci semicrome et ripercosse ad una per una (il famoso effetto di 'tremolo') con agionzione di oratione contenente ira et sdegno". Questo procedimento sottolinea i momenti guerreschi del racconto già sulle parole "quai due tori gelosi e d'ira ardenti", ma soprattutto durante la prima battaglia ("l'onta irrita lo sdegno alla vendetta/ e la vendetta poi l'onta rinnova"; "tornano al ferro, e l'uno e l'altro il tinge / di molto sangue") e durante il secondo duello ("torna l'ira nei cori e li trasporta"). Il contrasto espressivo dell'episodio della morte di Clorinda, che conclude il lavoro, viene reso invece attraverso l'adozione degli stili "molle" e "temperato", che ben si adattano, secondo Monteverdi, all'espressione degli 'affetti' dell'umiltà e della temperanza. Vengono anche applicati, nella partitura, procedimenti realistico-descrittivi come la figurazione strumentale 'rotatoria' sulle parole "va girando", quello del "trotto del cavallo" o degli squilli di tromba (realizzati con gli archi) che precedono il suono delle armi; oppure quelli più sottili come l'incedere cadenzato dei due guerrieri che "vansi incontro a passi tardi e lenti", la pausa meditativa dell'invocazione alla notte, ed altri effetti espressivi ottenuti con la ripartizione degli incisi tra strumenti e narratore, con ritmi puntati incalzanti, scale rapide, recitazione veloce di alcuni passaggi del testo in gara con i ribattuti degli archi, i pizzicati, il contrasto dinamico tra piano e forte. Ma gli effetti tecnici e strumentali di questa straordinaria partitura musicale, lontani dall'essere semplici compiacimenti imitativi, aderiscono intimamente ai contrastanti moti dell'animo rispecchiando progressivamente l'ira, l'odio, l'accanimento, il dolore, e costituendo in questo senso la grandezza della musicalità monteverdiana.