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II Domenica di Quaresima A Appunti della lectio divina tenuta da Ludwig Monti della Comunità di Bose Chiesa di San Lorenzo 13 marzo 2014

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II Domenica di Quaresima A

Appunti della lectio divina tenuta da Ludwig Monti della Comunità di Bose

Chiesa di San Lorenzo13 marzo 2014

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Gruppi biblici di San Lorenzo

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Seconda domenica di QuaresimaMatteo 17,1-9

Il movimento che anima le prime due domeniche di quaresima è identico tutti gli anni: tentazioni e poi trasfigurazione. Se la prima domenica abbiamo meditato sull’abbassamento del Figlio fino alla prova della fede («Se tu sei Figlio di Dio»), oggi, la seconda, contempliamo l’evento glorioso della trasfigurazione in cui la voce del Padre rivela Gesù quale Figlio amato. La prima domenica ci ha mostrato Gesù a confronto con i pensieri, le tentazioni, le seduzioni del male; questa domenica ci presenta Gesù che, con tre discepoli ma nella solitudine di un alto monte, conosce la trasfigurazione del suo volto e di tutta la sua persona e, all’inizio dell’itinerario quaresimale, indica il fine cui i nostri itinerari devono tendere: la resurrezione, l’evento della Pasqua di cui la trasfigurazione è anticipazione e profezia. La chiesa ci chiama così a entrare nel dinamismo pasquale impresso in tutta la vita di Gesù che trova la sua sintesi nell’affermazione finale che abbiamo ascoltato: «Non parlate a nessuno di ciò che avete visto, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti». Tutto questo sta all’interno di un movimento ben preciso che non va mai dimenticato: le vesti candide e il volto splendente di Gesù trasfigurato ci rivelano che lui, incamminato verso la croce, è in realtà il Signore, il Risorto. La via che sta percorrendo nasconde un significato pasquale – questo è certo – ma quello della trasfigurazione è un anticipo fugace e provvisorio della sua gloria di Risorto. Nel Prefazio della liturgia eucaristica di domenica si dice: «Gesù fu trasfigurato per rivelare con la testimonianza della legge e dei profeti la passione che doveva soffrire e la gloria della resurrezione che sarebbe seguita», passione e gloria della resurrezione. Quando ascoltiamo la pagina della trasfigurazione – festa particolarmente cara a noi monaci che si celebra al cuore dell’estate, il 6 agosto – dobbiamo renderci conto che protagonista è Gesù in quanto crocifisso risorto, non l’uno senza l’altro, anche se spesso siamo tentati di separare le due facce della medaglia. Non a caso, dopo la Pasqua, Gesù mostra ai discepoli le sue piaghe di crocifisso e qui, mentre va verso la croce, riceve in dono dal Padre la primizia di resurrezione che è la sua trasfigurazione. Gesù, crocifisso e risorto: per entrare in quest’ottica da cui leggeremo la pagina evangelica, dobbiamo sostare un poco sul contesto della trasfigurazione nei vangeli sinottici. In Marco, Matteo e Luca questo racconto sta in posizione centrale, in un punto in cui si registra un tornante decisivo della vita di Gesù, del suo ministero in Galilea e della sua salita a Gerusalemme. Per essere ancora più precisi, c’è una sequenza di eventi che si ripete uguale nei sinottici: restando a Matteo, vangelo che quest’anno ci interessa, si trova innanzitutto la confessione di Gesù quale Messia, quale Cristo, a opera di Pietro (Mt 16,13-20); segue l’elogio che Gesù fa di Pietro. Pietro dice: Tu sei il Cristo, il Messia e Gesù gli risponde: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa. Appena ricevuta questa confessione da Pietro, Gesù fa il primo annuncio della passione – ecco perché vi parlavo della croce come ciò che si staglia all’orizzonte – e puntuale arriva l’incomprensione di Pietro che gli dice: Non ti accadrà mai di morire crocifisso. Gesù è costretto a rimproverarlo: Va’ dietro a me, satana, perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini. In sintesi: confessione di Gesù quale Messia per opera di Pietro; primo annuncio della sua passione; incomprensione di Pietro; rimprovero di Gesù; istruzione che egli dà a tutti sulle condizioni necessarie per seguirlo. Solo a questo punto arriva la trasfigurazione, seguita poi dal secondo annuncio della passione. La trasfigurazione dunque è collocata tra due annunci della passione, di cui il primo è accompagnato da una catechesi di Gesù su cosa fare per seguirlo, per portare dietro a lui la croce.Non possiamo dimenticare che l’evento della trasfigurazione è l’unico, insieme all’ultima cena, a essere ricordato non solo dai vangeli sinottici, ma anche dagli scritti apostolici. Dell’ultima cena parla Paolo nella prima lettera ai corinti; della trasfigurazione parla Pietro nella sua seconda lettera (1,16-19): «Noi siamo stati testimoni oculari di questo evento – non è stato un mito, una favola – noi sul monte abbiamo visto Gesù trasfigurato». Dobbiamo capire che la trasfigurazione è stata un evento storico, difficile da spiegare, da decodificare, che sfugge sotto molti punti di vista – il linguaggio del Vangelo vacilla nell’esprimerla – però è un evento storico. Pietro dice: «Vi abbiamo

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fatto conoscere la potenza della venuta del Signore nostro Gesù Cristo non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza» e poi racconta l’episodio della trasfigurazione. Dunque un evento storico: la trasfigurazione è un evento momentaneo, breve, collocato fra gli annunci della passione che, prima della resurrezione, rivela la gloria di Gesù, alza il velo sulla sua persona.Leggiamo il testo passo dopo passo nella consapevolezza che non si tratta di trovare idee, percorsi fantasiosi, ma che dobbiamo accogliere il vangelo come ci viene narrato. Normalmente nella proclamazione liturgica il testo comincia sempre con «In quel tempo…», qui però sta scritto: «Sei giorni dopo…». Bisogna quindi leggere il versetto precedente (Mt 16,28). Enumerate le condizioni per seguirlo, Gesù annuncia: «In verità io vi dico, ci sono alcuni tra i presenti che non gusteranno la morte prima di aver visto il Figlio dell’uomo venire con il suo regno» e dunque profetizza che alcuni suoi discepoli saranno destinatari di una visione prima di morire. In vita vedranno il regno di Dio veniente, vedranno in Gesù il regno di Dio. Origene, un grande padre della chiesa, definiva Gesù autobasileia, cioè il regno in sé, è lui stesso il regno. Egli ha vissuto tutto proteso verso il regno di Dio, che è l’azione con cui Dio regna nella storia e nella vita degli uomini e delle donne, ma è stato anche il regno nella sua storia e dice che alcuni discepoli prima di morire contempleranno qualcosa di questo regno. Sei giorni dopo si compie questa promessa. I sei giorni richiamano Es 24,16: nel contesto dell’alleanza di Mosé al Sinai si dice che «la gloria del Signore venne a dimorare sul monte e la nube lo coprì per sei giorni»; il settimo giorno il Signore chiamò Mosé dalla nube. È chiaro il parallelo: come avvenne al tempo dell’esodo, così sta per avvenire ora, sta per rivelarsi, sei giorni dopo, la gloria di Dio in Gesù. In vista di quest’evento Gesù prende con sé i tre discepoli a lui più cari, più vicini, Pietro, Giacomo e Giovanni, sempre con lui nei momenti chiave, che faticheranno a stare con lui durante la sua preghiera al monte degli ulivi, al Getsemani. Mt 26, 36-46 è il testo famosissimo in cui Gesù va per pregare in vista della sua passione ormai imminente e prende con sé i tre discepoli: essi non riescono a stare svegli, a reggere, dormono. Qui testimoni della trasfigurazione di Gesù, là prima della croce saranno testimoni della de-figurazione, della sfigurazione di Gesù, quando egli, in preda all’angoscia, pregherà: «Padre, se è possibile passi da me questo calice, però non come voglio io, ma come vuoi tu».I discepoli salgono con lui su un alto monte: «Li condusse in disparte su un alto monte». A chi conosce le Scritture vengono in mente i monti in cui avviene la rivelazione di Dio al suo popolo: il monte Sinai, il monte Oreb, che poi sono lo stesso, monti su cui non a caso hanno sostato Mosé ed Elia. Ci sono altre montagne nella Scrittura per indicare che, quando si sale sul monte, sta per avvenire una rivelazione decisiva e la salita sul monte verso un luogo in disparte è finalizzata a un evento fondamentale in cui i discepoli beneficeranno di una rivelazione fatta da Dio, di un’epifania che riguarda il loro maestro poco prima confessato da Pietro Figlio del Dio vivente. L’evento così straordinario viene espresso così: «Fu trasfigurato davanti al loro»: si utilizza il verbo della metamorfosi (metamorphoo), al passivo. Nella Scrittura ogni volta che c’è un passivo senza complemento di agente è evidente che chi compie l’azione è Dio: «Fu trasfigurato da Dio ai loro occhi». Gesù subisce un mutamento di forma nei vestiti e nel corpo e qui riscontriamo come l’evento sia in realtà inesprimibile, come il linguaggio degli evangelisti sia inadeguato, proceda per approssimazione. Matteo ad esempio parla di volto di Gesù che brilla come il sole e di vesti candide come la luce; cerca di dire quello che può. Fa sorridere che nel passo parallelo di Marco per indicare che le vesti sono candide si dice: «nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche». Sono tutti elementi che mostrano la pochezza delle nostre parole umane. Com’è possibile balbettare qualcosa di fronte all’evento della trasfigurazione, di fronte alla rivelazione di Dio, di fronte al passaggio di Dio nelle nostre vite? Quando raccontiamo qualcosa del passaggio di Dio nelle nostre vite, quando Pietro Giacomo Giovanni devono raccontare qualcosa del passaggio di Dio nelle loro vite attraverso la trasfigurazione luminosa di Gesù sono senza parole. Ricordate il sogno della scala di Giacobbe? Quando si sveglia al mattino dice: «Veramente Dio è in questo luogo e io non lo sapevo». È un po’ sempre così: quando Dio passa nelle nostre vite, noi non capiamo, non

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riusciamo a comprendere, lo capiamo solo dopo. Il linguaggio mostra che Matteo, Marco e Luca cercano di esprimere l’inesprimibile. Dio è passato nella vita di Gesù in modo straordinario e loro riescono a dire solo poche parole: invece del volto umano, quotidiano di Gesù, come lo conoscevano, vedono per un istante un corpo altro, luminoso, un corpo trasfigurato.Possiamo ricorrere al parallelo di un testo molto conosciuto. Paolo nella lettera ai filippesi, al capitolo 2, nel famoso inno dice: «Cristo Gesù non ritenne un possesso geloso la sua uguaglianza con Dio, ma svuotò se stesso prendendo forma di schiavo e diventando simile agli uomini» cioè è avvenuto uno svuotamento dalla forma di Dio alla forma di schiavo, alla forma umana. Nella trasfigurazione, per un attimo, abbiamo il passaggio inverso, dalla forma umana alla forma di Dio, che si manifesta in questo modo, per quanto è possibile da comprendere per i discepoli. Dico questo alludendo alla preghiera che abbiamo letto all’inizio: «Dio che hai trasfigurato tuo figlio Gesù Cristo affinché i discepoli contemplassero la sua gloria per quanto ne erano capaci». Con tutti i nostri limiti appare evidente che la trasfigurazione è un evento che si svolge nel corpo di Gesù: volto, vesti, il corpo di Gesù. Questa pagina, insieme ad altre del Nuovo Testamento, ci rivela che la spiritualità cristiana è una spiritualità non disincarnata, non eterea, ma che si svolge nel corpo, che ha luogo nel corpo. Qui la trasfigurazione è del corpo di Gesù, in cui si manifesta tutta la potenza di Dio.Quando avviene questo evento, apparvero loro Mosé ed Elia che parlano con Gesù. Tante volte ci siamo soffermati su di loro, sulla loro relazione con Gesù. Questa sera, pensando a Mosè ed Elia, vorrei mettere in luce solo un elemento più che mai essenziale per la nostra fede cristiana. Gesù in Mt 5,17 dice: «Non sono venuto per abolire la legge i profeti ma sono venuto per dare pieno compimento». Gesù è stato annunciato dalla legge e dai profeti e testimoniato da Mosé (la legge) e da Elia (i profeti) cioè risplende della gloria di Dio e rivela la propria identità proprio quando è posto tra Mosé ed Elia, tra la legge e i profeti che riassumono tutte le Scritture di Israele, tutto l’Antico o Primo Testamento. Gesù risplende della gloria di Dio e rivela la propria identità proprio quando è cercato a partire dalle Scritture e trovato come colui che compie le Scritture. Questo è veramente importante, credo che dobbiamo soffermarci: noi non possiamo comprendere Gesù, se non attraverso le Scritture. Anche nel Credo si dice: «Patì sotto Ponzio Pilato secondo le Scritture, fu sepolto ed è risorto il terzo giorno secondo le Scritture», cioè c’è reciprocità fra Cristo e le Scritture. Se è vero che c’è una luce fra Cristo e le Scritture, che Mosè ed Elia, cioè le Scritture, proiettano su Cristo indicandolo come colui che le compie, allo stesso modo Cristo proietta a sua volta una luce che illumina le Scritture, le spiega e le conferma. Davvero, come affermava san Girolamo, ignorare le Scritture significa ignorare Cristo. Avete presente quello che dice Gesù in Luca 24 ai discepoli di Emmaus: «cominciando da Mosé e dai profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui». Poi torna a Gerusalemme e dice agli undici: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosé, nei profeti e nei salmi. Se noi non leggiamo, non comprendiamo, non accogliamo Cristo secondo le Scritture, siamo sempre tentati di crearci un Cristo a nostra immagine somiglianza, e allora ci sarà il Cristo rivoluzionario, il Gesù Cristo figlio dei fiori, il Gesù Cristo che oggi va molto di moda Dio patria famiglia. Tutte letture storture che proiettiamo su Gesù e invece dobbiamo accogliere da lui. È per questo che la trasfigurazione avviene mentre Gesù sta tra Mosè ed Elia, fra le legge e i profeti. Senza Scritture noi non possiamo conoscere Cristo. Di fronte a questo evento ecco la parola più bella in bocca a Pietro, il più impulsivo, che nelle occasioni importanti prende la parola, brucia gli altri sul tempo: «Signore, è bello per noi essere qui. Se vuoi farò tre capanne una per te, una per Mosé e una per Elia». La proposta di tre capanne ha portato molti commentatori a contestualizzare questa pagina all’interno della festa giudaica delle capanne, la festa di Succot, festa autunnale in cui gli ebrei dimorano in capanne per ricordarsi di quando erano pellegrini nel deserto. È una festa con una forte attesa messianica; gli ebrei in quei giorni attendono più che mai ancora oggi la venuta del Messia; dimorando provvisori sulla terra, si dicono pronti ad attendere il definitivo che verrà con la venuta del Messia. Ma la cosa che più mi piace sottolineare è questa frase così semplice, quasi commovente di Pietro, «è bello per noi essere

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qui». Ci sono momenti in cui nella nostra vita di fede, nella nostra vita umana siamo semplicemente desiderosi di una comunione con il Signore che ci dia un po’ di luce, un po’ di bellezza, un po’ di gioia. È bello per noi essere con il Signore, questo vorremmo dire e Pietro riesce a dirlo di fronte alla trasfigurazione.Al centro del racconto, mentre Pietro sta ancora parlando, giunge una nube luminosa «che li coprì con la sua ombra». Notate il paradosso: una nube luminosa che li copre con la sua ombra, un altro modo per dire l’inesprimibile, «e dalla nube venne una voce: questi è il Figlio mio, l’amato, in lui ho posto il mio compiacimento, la mia gioia, ascoltatelo». È evidente che questa nube che si manifesta è la nube della shekinà, parola ebraica che significa presenza. Gli ebrei per indicare la presenza di Dio ricorrono a questa parola; era la nube che seguiva Israele durante il cammino nel deserto, poi si fermava e ripartiva con loro quando camminavano. È dalla nube della presenza di Dio che è lì con loro che viene la voce che dice che ormai il vero tempio, la vera shekinà, la vera presenza di Dio è Gesù Cristo. Dicevamo prima della spiritualità corporea, e già questo non sarebbe poco, ma aggiungo anche questo tassello: la shekinà, la nube da cui viene questa voce ci dice che ormai l’unica, l’ultima manifestazione di Dio, la presenza definitiva di Dio sta in quest’uomo, sta nell’uomo Gesù Cristo. Ecco come Gesù narra in modo ultimo e definitivo Dio ed è la voce di Dio che viene a confermare questa realtà che noi spesso diciamo e poi facciamo fatica a capire e a credere fino in fondo, che nell’uomo Gesù sta tutta la pienezza di Dio.La voce dice: «Questi è il Figlio mio, l’amato, in lui ho posto la mia gioia, ascoltatelo»: è praticamente uguale a quella che risuona al battesimo. In Mt 3,17 manca solo il verbo «ascoltatelo», tutto il resto è uguale; la voce dice che Gesù è il Figlio di Dio, è il Messia e poi nel «in lui mi sono compiaciuto» c’è un’allusione al passo del profeta Isaia (42) in cui Dio dice: «Ecco il mio servo che io sostengo, in lui ho posto il mio compiacimento». Dunque Gesù è insieme messia, profeta, servo. È la narrazione definitiva di Dio che compie tutte le attese messianiche e allora si capisce, siamo a metà del Vangelo, l’aggiunta che viene fatta: «ascoltatelo», ascoltate lui. Possiamo dire che in questo verbo c’è tutto; in questo «ascoltatelo» c’è la cosa più importante che leggeremo questa sera. Viene spontaneo il parallelo con lo Shema, la preghiera che l’ebreo credente ripete tre volte al giorno: «Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, la mente, le forze». Già la volta scorsa ne abbiamo fatto allusione. In questa preghiera così centrale per l’ebreo credente si dice «Ascolta Israele, ascolta il Signore nostro Dio»; qui Dio stesso dice «ascoltatelo», ormai lo Shema va indirizzato a Gesù: ascoltate lui, si tratta solo di ascoltare lui. È lui, sono le sue parole, la sua vita che va ascoltata. È lui il racconto definitivo di Dio. Nel dire questo faccio allusione a un versetto che chi viene a Bose ha sentito citare moltissime volte, con cui si conclude il prologo del Vangelo di Giovanni (1,18): «Dio nessuno l’ha mai visto ma il Figlio suo Gesù Cristo, che è rivolto verso il seno del Padre, lui ce lo ha raccontato (exeghesato)» parola che in sé la radice della nostra esegesi, raccontare, spiegare. Ormai Gesù è chi ha raccontato, ha narrato, ha spiegato Dio. Tutto quello che Gesù ha detto, ha fatto per narrare Dio, noi siamo tenuti a crederlo e a ridirlo. Tutto quello che Gesù non ha detto e non ha fatto per narrare di Dio, non siamo tenuti a crederlo di Dio. In questo senso: ascoltatelo, ascoltate colui che ha rivelato Dio, definitivamente.Di fronte a questa luce, a questa nube luminosa eppure oscura da cui viene la voce, di fronte a questo evento così indicibile «i discepoli all’udire ciò caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore». È una visione insostenibile, non ce la fanno. Al Getsemani non ce la faranno, non riusciranno a reggere il peso della passione di Gesù, per cui dormiranno per la tristezza, commenta il Vangelo; qui sul monte della trasfigurazione non riescono a reggere il peso di questa rivelazione, è troppo forte, è quasi insostenibile. Di fronte a questa caduta, Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». Vedete com’è bello anche questo, l’amore e la prossimità di Gesù che si fa vicino amorevolmente: «Alzatevi e non temete». «Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo». Gesù è il nuovo contemplato solo, nella quotidianità umile della sua natura umana. La grande visione della trasfigurazione si è già conclusa, lui è visto uomo come sempre, non come Pietro Giacomo Giovanni l’avevano visto prima e lo vedranno poi.

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Poi la conclusione: mentre scendevano dal monte, Gesù ordina loro di non dire nulla a nessuno «prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti». La rivelazione è stata straordinaria ma deve stare sotto silenzio perché non sia svelato il segreto messianico prima dell’ora della resurrezione. È una cosa cui i Vangeli sinottici tengono particolarmente: non è possibile annunciare Gesù nella gloria se non annunciando inscindibilmente anche la croce. Tutti i Vangeli tendono all’affermazione fatta sotto la croce da un pagano, uno che non ha le carte in regola per essere un credente, un centurione romano di guardia ai poveri condannati che, (Matteo 27,54), «avendo visto Gesù morire in quel modo disse: “Veramente quest’uomo era figlio di Dio”». Avendo visto Gesù vivere la morte con quell’amore, con quella libertà suprema, solo lì può dire: «Veramente quest’uomo era figlio di Dio». Non si può annunciare la resurrezione a basso prezzo, se non sotto la croce. In parallelo al nostro testo, Marco commenta che «i discepoli tennero per sé la cosa chiedendosi però che cosa volesse dire risorgere dai morti». È un commento straordinario che tocca le corde del nostro cuore. Che cosa vuol dire risorgere dei morti? Possiamo anche tenerlo per noi, non divulgarlo, ma cosa vuol dire?Dopo tutta questa luce, vorrei chiudere su una tonalità più di chiaroscuro non per scoraggiarvi, ma per realismo, in obbedienza a quello che dicevamo all’inizio. Se è vero che la trasfigurazione sta tra due annunci della passione, il rimprovero a Pietro e le condizioni che Gesù detta per seguirlo, dobbiamo anche dare una lettura a questo contesto. Potremmo dire che la crisi che i discepoli vivono sentendosi annunciare la passione da Gesù è una crisi che tocca anche noi, che riguarda ogni discepolo. Concludo questa sera leggendo in maniera più distesa, più argomentata il contesto che all’inizio vi ho annunciato. In Mt 16, 21-22, appena ricevuta la confessione messianica da Pietro, Gesù comincia a spiegare ai discepoli la necessità della sua passione, umana innanzitutto, perché in un mondo ingiusto il giusto deve essere fatto fuori, per cui necessità divina solo in un secondo momento, nel senso che Gesù anche di fronte a quelli che lo mettono a morte, anche di fronte ai suoi aguzzi continua ad amare e a perdonare, allora sì che fa la volontà di Dio, la volontà che chiede di amare anche i nemici. Gesù fa questo annuncio e «Pietro si mise a rimproverarlo: “Dio non voglia, Signore, questo non ti accadrà mai». Proprio Pietro che aveva confessato, lui solo, la fede in Gesù, in realtà non sa accettare l’annuncio di Gesù, non sa accettare che Gesù, in quanto Figlio di Dio, di un Dio che è amore, non poteva lasciarsi sedurre dalle tentazioni, non poteva solo dare la sua vita, offrire la sua vita per amore, senza difendersi, anzi perdonando i nemici. Gesù allora rimprovera Pietro: «Va dietro a me, satana» e poi pronuncia le parole su cui voglio fermarmi, (Mt 16,24-26): «Allora Gesù disse ai suoi discepoli: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua perché chi vuole salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia la troverà. Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà la vita intera, ma perde la propria vita o che cosa potrà dare un uomo in cambio della propria vita?». Queste ultime due affermazioni sono evidenti, non c’è bisogno di commentarle. A me interessa commentare le prime due. Sono parole attestate in parallelo nei Vangeli sinottici, ma anche in altri punti da Matteo Luca e da Giovanni addirittura con parole simili. Perché tanta insistenza da parte di Gesù e degli evangelisti? Perché qui siamo al cuore di quella che si potrebbe definire la differenza cristiana, cioè l’agire e il sentire differente proprio dei cristiani rispetto alla mondanità. Sono parole che chiamano alla libertà e nello stesso tempo fondano il legame di amore che esiste tra Gesù e chi vuole vivere con lui. Per comprendere queste parole bisogna innanzitutto chiarire cosa non sono: «Rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» Primo: non sono come spesso purtroppo si è capito nella storia, una chiamata a un dolorismo masochistico (più soffre e più è vicino a Dio). Non sono neppure – secondo – semplici immagini metaforiche: Gesù amava parlare con immagini un po’ forti, un po’ dure ma noi possiamo fare la tara. No neanche questo. Terzo: non sono, questa forse è la tentazione più sottile soprattutto degli uomini religiosi, parole da imporre sulle spalle degli altri. Gesù ha detto: «Guardatevi da quelli che impongono pesi sulle spalle degli altri, ma loro non vogliono toccarli neppure con un dito». Non sono parole che vanno imposte sulle spalle degli altri come slogan vuoti e religiosi.

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Con queste parole Gesù innanzitutto fa appello alla volontà, quindi alla libertà: «Se qualcuno vuole venire dietro a me – e poi – chi vuole salvare la propria vita». Gesù non costringe nessuno ma chiama chi l’ascolta a fare i conti con i propri desideri per decidere che fare della propria vita. I primi due verbi sono una forma verbale che indica un’azione puntuale: rinnegare se stesso e prendere la croce puntualmente, poi però c’è il verbo «mi segua», un seguire che richiede una durata tant’è vero che Luca aggiunge «prenda la sua croce ogni giorno e mi segua». Queste tre richieste, messe una accanto all’altro, fondono ciò che per noi è sempre così difficile da mettere insieme: lo slancio entusiastico, la decisione e la costanza ripetitiva. Nelle nostre vite forse è questo il dramma, siamo spesso portati allo slancio entusiastico; pensate quando ci innamoriamo, è una cosa straordinaria, ma poi l’innamoramento va gestito, vissuto, giocato attraverso il rapporto che porta con sé una costanza ripetitiva. Qualsiasi scelta nella vita non basta iniziarla, bisogna portarla a compimento.Vediamo più da vicino che cosa dice Gesù parlando di queste tre richieste. Rinnegare se stesso coincide con l’istanza della rinuncia, parola che oggi sembra bandita dal nostro linguaggio. Rinuncia secondo la Bibbia vuol dire rigettare gli idoli, passare dall’idolatria di sé, dall’autoaffermazione al definire se stessi in riferimento a Cristo, lasciando che sia lui a vivere in noi. Potremmo dire in una parola che la rinuncia è il passaggio dalla filautia, dall’egoismo che dice io senza gli altri e contro gli altri, alla comunione, io per gli altri, io insieme agli altri. Questa è la vera, essenziale rinuncia evangelica. Prendere la propria croce significa, secondo l’immagine cruda che il Vangelo usa, caricarsi dello strumento della propria esecuzione, rinunciando a difendersi e ad autogiustificarsi. Sappiamo per esperienza quanto sia faticoso. Significa mostrare con il nostro comportamento che niente e nessuno potrà mai impedirci di vivere il Vangelo, perché è possibile trasformare anche la violenza ingiustamente scaricata su di noi in un’occasione per fare del bene a chi ci osteggia. Prendere la croce significa anche essere disposti a subire le conseguenze di una scelta fatta e avere il coraggio come Gesù di andare fino in fondo, di trasformare anche il rifiuto in un’occasione di amore.E infine: «mi segua»: seguire Gesù ribadisce l’iniziale «Se qualcuno vuole venire dietro di me». Il rinnegamento di sé e il portare la croce in senso cristiano si danno solo all’interno della sequela di Cristo, sia chiaro. Si tratta di seguire Cristo sempre, ovunque egli va, certi che Gesù ci ha preceduti mediante un preciso stile di vita. Gesù ha affrontato il cammino della croce come culmine di una vita piena di libertà e di amore. Qui bisogna fare quello che il teologo italiano Giuseppe Colombo ha ben evidenziato; dobbiamo smettere di leggere la vita di Gesù a partire dalla croce, come se la croce proiettasse un’ombra su Gesù, un fato ineluttabile. Dobbiamo fare esattamente il contrario: leggere anche la croce a partire dalla vita di chi ci è salito sopra, Gesù, colui che ha trasformato anche il luogo della massima vergogna in un trono di gloria, perché è il luogo in cui Gesù ha dato la vita liberamente e per amore. Non leggere Gesù a partire dalla croce, ma leggere anche la croce come esito dovuto all’ingiustizia umana di una vita bella, di una vita spesa nella libertà e per amore. Tutti e tre questi imperativi, se capiti bene, offrono un cammino che libera le nostre facoltà e ci portano a una vita che vale la pena di essere vissuta dietro a Cristo. Tutto questo è spiegato da Gesù con una sola affermazione. Se non avessimo ancora capito questi tre imperativi, Gesù ce li spiega e dà l’interpretazione definitiva: «Infatti – causale – chi vuole salvare la propria vita, la perderà ma chi perderà la propria vita per causa mia la troverà» o anche, secondo Marco o secondo Luca, «la salverà». Questa frase, a mio modesto avviso, è veramente il cuore infuocato del Vangelo, ciò di fronte al quale o si dice sì o si dice no, non c’è altra possibilità. «Chi vuole salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita, dice Gesù, per causa mia la salverà». Sono parole che possono sembrare folli, assurde soprattutto in un cristiano. Come può un uomo pretendere questo per causa mia? Eppure Gesù l’ha fatto e ha riassunto in questa fase la peculiarità della vita con lui, ossia della vita cristiana. Qui non c’è veramente molto da commentare, c’è da sperimentare e di conseguenza da capire («ciò che il Signore ha detto noi lo faremo e poi lo ascolteremo» dice l’Esodo, cioè nella misura in cui lo faremo, lo capiremo anche); c’è da sperimentare e da capire che il preservare, il tenere gelosamente la vita per sé, equivale a

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perderla, a gettarla via. Il perderla per Cristo, dunque vivere per amore suo con lui e come lui, significa trovare la vita, vederla da lui salvata. Non è una cosa per monaci, preti, religiosi; è per i cristiani. Ogni cristiano è chiamato, se vuole, ad accogliere l’affermazione: chi vuole salvare la vita, la perderà, ma chi la perde per Cristo la salverà, la troverà. Ecco il contesto evangelico e liturgico in cui si situa la pagina della trasfigurazione. Soprattutto la trasfigurazione rinvia all’oscurità luminosa della fede, rinvia a questo cammino in cui giorno per giorno dobbiamo riscegliere di seguire Gesù e di perdere la nostra vita per amore suo. Anche la visione della gloria di Cristo che abbiamo contemplato rinvia a una sequela quotidiana, giorno dopo giorno, fatta di ascolto quotidiano della parola e di rinnovamento della nostra fede, che passa attraverso le Scritture, attraverso Mosé ed Elia. Nessuna esperienza spirituale straordinaria, come quella vissuta qui unicamente in tutta la storia da Pietro, Giacomo e Giovanni, nessuna esperienza che noi possiamo fare, può esonerare dalla faticosa quotidianità o anche, potremmo dire, dalla quotidiana fatica della fede e della sequela. Ricordiamolo dunque nel nostro cammino quaresimale: siamo chiamati ogni giorno a lottare per mettere in pratica la parola di Dio che racchiude l’essenziale della nostra fede: «Questi è il mio Figlio, l’Amato, in lui ho posto la mia gioia, ascoltatelo» e siamo chiamati a combattere questa battaglia con gioia, con un respiro ampio e grande nella consapevolezza che questa battaglia vale la pena di essere combattuta. Se noi cristiani non pensiamo che ne valga la pena, meglio fermarsi prima. Se invece crediamo che valga la pena di essere combattuta, allora sì che i nostri giorni, spesso oscuri, possono essere illuminati, trasfigurati. È nell’amore e nella libertà della nostra sequela, attirati dal Cristo risorto, che possiamo essere sempre di nuovo trasfigurati, cioè, molto semplicemente, possiamo amare ed essere amati, e tutto ciò che si fa per amore vale la pena e dà luce a ogni nostro singolo giorno. Tutto ciò che si fa per amore, ha detto qualcuno, è al di là del bene e del male. Tutto ciò che si fa per amore di Cristo e per amore gli uni degli altri è ciò che nella faticosa, ma salvifica quotidianità può dare luce alle nostre povere ma meravigliose vite.

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