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Dal punto di vista dei nazionalisti. L’antropologia e lo studio del nazionalismo Piero Vereni - Prosmart 2006-2007 Premessa In questo modulo dedicato all’antropologia delle istituzioni stiamo cercando di individuare i meccanismi istituzionali che producono e sostengono il nostro senso dell’appartenenza. Come già accennato, i meccanismi di base dell’appartenenza possono considerarsi simili in tutte le forme di identità (familiare, amicale, etnica, religiosa, di classe, nazionale), ma il ruolo dell’appartenenza nazionale è stato centrale nel corso del XIX e XX secolo, anche come modello per ulteriori forme di appartenenza, in particolare per quella etnica e “localistica” in generale. Per questo ci concentriamo su questa forma, cercando di capirne i meccanismi. Ci si scontra necessariamente con un doppio problema, cercando di fornire un quadro dell’antropologia delle appartenenze nazionali. Il primo dipende dal pregiudizio antropologico, mentre il secondo è un difetto comune dell’approccio storico. Vedremo questi due problemi separatamente. I “caratteri” nazionali La ricerca antropologica classica, incentrata sul rapporto faccia a faccia con gli informanti, entro società di dimensioni ristrette e basata sull’osservazione partecipante, ha prodotto un evidente pregiudizio preferenziale per le piccole unità, che ha portato gli antropologi a ignorare sostanzialmente gli stati nazionali come oggetti di ricerca empirica, oppure a studiarli con la stessa strumentazione analitica solitamente impiegata per gruppi di dimensioni ben più ridotte, lasciando quindi irrisolto il problema dell’unità e dell’omogeneità culturale delle differenti nazioni. Dato che Tikopia è abitata dai tikopiani, la Francia dev’essere abitata per forza dai francesi, per così dire. Quest’ultima posizione risultò particolarmente evidente a partire dagli anni Quaranta del Novecento. Influenzata dalla teoria psicoanalitica, la scuola antropologica americana nota come “cultura e personalità” (che tendeva a far collaborare antropologi, sociologi e psicologi) cercò di studiare quale fosse la personalità di base degli individui membri di stati nazionali complessi. G. Gorer studiò la “cultura giapponese” (1943) e il “carattere inglese” (1955), Gregory Bateson e Margart Mead (1945) lavorarono sul

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Il nazionalismo "dal punto di vista dei nativi". Breve rassegna su cosa sia il nazionalismo e sui tentativi di spiegarlo

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Dal punto di vista dei nazionalisti. L’antropologia e lo studio del nazionalismo

Piero Vereni - Prosmart 2006-2007

Premessa

In questo modulo dedicato all’antropologia delle istituzioni stiamo cercando di individuare i meccanismi istituzionali che producono e sostengono il nostro senso dell’appartenenza. Come già accennato, i meccanismi di base dell’appartenenza possono considerarsi simili in tutte le forme di identità (familiare, amicale, etnica, religiosa, di classe, nazionale), ma il ruolo dell’appartenenza nazionale è stato centrale nel corso del XIX e XX secolo, anche come modello per ulteriori forme di appartenenza, in particolare per quella etnica e “localistica” in generale. Per questo ci concentriamo su questa forma, cercando di capirne i meccanismi.

Ci si scontra necessariamente con un doppio problema, cercando di fornire un quadro dell’antropologia delle appartenenze nazionali. Il primo dipende dal pregiudizio antropologico, mentre il secondo è un difetto comune dell’approccio storico. Vedremo questi due problemi separatamente.

I “caratteri” nazionali

La ricerca antropologica classica, incentrata sul rapporto faccia a faccia con gli informanti, entro società di dimensioni ristrette e basata sull’osservazione partecipante, ha prodotto un evidente pregiudizio preferenziale per le piccole unità, che ha portato gli antropologi a ignorare sostanzialmente gli stati nazionali come oggetti di ricerca empirica, oppure a studiarli con la stessa strumentazione analitica solitamente impiegata per gruppi di dimensioni ben più ridotte, lasciando quindi irrisolto il problema dell’unità e dell’omogeneità culturale delle differenti nazioni. Dato che Tikopia è abitata dai tikopiani, la Francia dev’essere abitata per forza dai francesi, per così dire. Quest’ultima posizione risultò particolarmente evidente a partire dagli anni Quaranta del Novecento. Influenzata dalla teoria psicoanalitica, la scuola antropologica americana nota come “cultura e personalità” (che tendeva a far collaborare antropologi, sociologi e psicologi)

cercò di studiare quale fosse la personalità di base degli individui membri di stati nazionali complessi. G. Gorer studiò la “cultura giapponese” (1943) e il “carattere inglese” (1955), Gregory Bateson e Margart Mead (1945) lavorarono sul “carattere balinese”, e poco dopo Ruth Benedict (1946), anche lei spinta dall’esigenza “patriottica” di studiare il nemico, lavorò sui “modelli di cultura giapponese”.

Il caso di Ruth Benedict è esemplare di questo tipo di approccio che generalizza alle comunità nazionali incluse entro uno stato moderno il tipo di analisi applicato in contesti etnografici di ben più ridotte dimensioni. Benedict era infatti divenuta famosa nel 1934 con un saggio sui Modelli di cultura, un libro che aveva l’esplicito intento di dimostrare che le differenze tra le culture corrispondono alle differenze interne a ogni singola cultura, nel senso che le pratiche e i sistemi di credenza interni a ogni cultura differiscono da quelli delle altre in modo sistematico. La cultura, secondo Benedict, è uno stampo che informa di sé tutti gli aspetti della vita sociale, delineando la psicologia di base dei singoli individui e potendosi a sua volta configurare come personalità vera e propria. Riprendendo alcune categorie della psichiatria e l’opposizione nietzschiana tra “apollineo” e “dionisiaco”, definì quindi una tipologia generale delle culture, fornendo alcuni esempi specifici: gli Zuñi (Sudovest degli Stati Uniti) erano “apollinei”, i Pima (stessa regione) invece “dionisiaci”, i Kwakiutl (costa americana di nordovest) “megalomani” e i Dobu (melanesia) “paranoici”.

Questo filone di ricerca antropologica giunge probabilmente al suo apice agli inizi degli anni Cinquanta, e Margaret Mead presentò lo stato dell’arte sui “caratteri nazionali” in un articolo pubblicato in quegli anni (Mead 1953). Questi tentativi di studiare su un livello più ampio il modo in cui la cultura influenza gli individui non affrontarono direttamente il nazionalismo, e possono invece essere considerati più propriamente una conseguenza inevitabile dei presupposti sull’esistenza e la natura stessa delle nazioni. Tuttavia, questi studi e queste ricerche si rivelarono utili nell’evidenziare un importante settore di ricerca: la descrizione “emica” (cioè il tentativo di

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individuare i “significati nativi”) dei sistemi condivisi di comportamento e di credenza condivisi dagli individui “contenuti” entro uno stato nazionale. Resta il fatto che il problema principale di questo approccio era costituito dalla mancanza di qualunque tentativo serio di storicizzare i modelli che venivano via via evidenziati. Il fatto che gli inglesi fossero distaccati, i balinesi timidi e i giapponesi orgogliosi apparteneva al dominio della cultura, non della storia. Dato che la cultura nazionale è così, produce membri nazionali secondo il modello corrispondente.

Come oggi possiamo vedere con maggior chiarezza, questo pregiudizio che spingeva a considerare le culture nazionali praticamente come archetipi immutabili aveva poco a che fare con le ragioni interne dell’antropologia, ed era invece la diretta conseguenza dell’inculturazione nazionale di quegli studiosi: a loro era stato insegnato che ogni nazione ha un carattere peculiare, e che quella specificità è la risultante insieme di una storia che si perde nella notte dei tempi e della forza delle costrizioni culturali sincroniche. In altre parole, questi studi dei caratteri nazionali non affrontarono mai in modo chiaro la questione del complesso processo dinamico di nation building, considerando invece l’appartenenza nazionale come un dato statico, che andava descritto nelle sue caratteristiche strutturali.

Storia e nazioni

Perché le cose siano andate in questo modo dipende dal secondo pregiudizio che dobbiamo affrontare studiando il nazionalismo, e cioè lo sguardo teleologico (cioè la prospettiva ribaltata del rapporto causa-effetto) per cui le nazioni sono state considerate per lungo tempo dagli storici come il punto di partenza di cui lo stato nazionale costituirebbe lo stadio evolutivo finale. La storia, dall’inizio del XIX secolo alla metà del XX, è stata concepita come storia delle nazioni. Le loro origini vennero lasciate sostanzialmente indiscusse e tutti gli eventi storici vennero giudicati e ricostruiti come il lento dipanarsi della nazione nel corso del tempo. In quanto entità fisica e data per scontata, la nazione non aveva bisogno di una giustificazione della sua esistenza, e la sua storia doveva essere ricostruita in profondità solo come il processo di evoluzione che l’avrebbe condotta al raggiungimento del suo obiettivo “naturale”: lo Stato.

Questa immagine della nazione come un’entità naturale “primordiale”, la cui storia poteva essere spiegata secondo il modello della lotta per

l’autodeterminazione entro uno Stato, iniziò a essere messa in discussione nel corso degli anni Cinquanta del Novecento. Nel 1960 Elie Kedurie pubblicò un volume che prendeva espressamente di mira questa versione “primordialista” del nazionalismo. La teoria centrale di questo saggio è dichiarata dallo stesso autore all’inizio della sua riflessione:

Il nazionalismo è una dottrina inventata in Europa all’inizio del XIX secolo. Pretende di fornire un criterio per determinare l’unità di popolazione adatta a godere di un governo esclusivamente suo proprio, per stabilire il legittimo esercizio del potere entro lo stato, e per una corretta organizzazione di una comunità di stati. In breve, questa dottrina sostiene che l’umanità è naturalmente suddivisa in nazioni, che le nazioni sono riconoscibili per alcune caratteristiche che possono essere stabilite, e che l’unica forma legittima di governo è l’autogoverno nazionale.

Questa definizione può essere considerata adeguata ai nostri scopi, e la considereremo come la dottrina del nazionalismo. Sulla base di questa dottrina, diversi discorsi nazionalisti hanno costruito le loro specifiche teorie, sottolineando ora la lingua, ora la religione, ora il territorio come elemento cardine. In quanto tale, tuttavia, la dottrina centrale del nazionalismo si basa su una serie di semplici proposizioni (per questa sezione, mi baso essenzialmente sul lavoro di Smith [1983, pp. 21ss], la cui analisi delle teorie del nazionalismo, per quanto di impostazione primariamente sociologica, è estremamente utile per inquadrare il problema nei suoi termini generali):

1. L’umanità è naturalmente divisa in nazioni2. Ogni nazione ha il suo carattere specifico3. La sorgente di qualunque potere politico è la nazione intesa come

collettività totale4. Per essere liberi e autorealizzarsi, gli uomini devono identificarsi con

una nazione5. Le nazioni possono realizzarsi pienamente solo entro i loro stati6. La fedeltà alla nazione sovrasta le altre fedeltà7. La principale precondizione per la libertà e l’armonia globale è il

rafforzamento dello stato nazionale

Per essere ancora più esplicito, Smith (1983, p. 23) conclude il capitolo riassumendo la questione in questi termini:

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Fondamentalmente, il nazionalismo fonde tre ideali: autodeterminazione collettiva del popolo, espressione del carattere nazionale e dell’individualità della nazione, e infine suddivisione verticale del mondo in nazioni uniche, ciascuna delle quali contribuisce con il suo speciale genio al bene comune dell’umanità.

Il punto essenziale è quindi costituito dalla distinzione tra una dottrina nazionalista, che è generale e include tutti i casi, e le teorie nazionaliste sostenute dai differenti movimenti nazionali.

Keduire quindi contesta la natura primordiale delle nazioni studiando il nazionalismo come processo storico che può essere valutato e descritto. Sviluppa il suo argomento analizzando l’evoluzione della filosofia europea, e in particolare la riflessione kantiana sull’individuo. Kedurie ritiene che sia il dualismo kantiano ad essere responsabile della nascita del nazionalismo moderno. La separazione effettuata da Kant tra apparenza e realtà conduce, una volta applicata al campo della morale, all’individualismo. L’imperativo categorico e la sua autodeterminazione sarebbero dunque al centro della dottrina nazionale (questo dipende dal fatto che per Kedourie il nazionalismo è una strana mescolanza tra determinismo linguistico e l’esercizio del libero arbitrio). Kant non fu di per sé un nazionalista, ma il suo pensiero venne recuperato in modo originale da Fichte, che risolse entro la sua “interpretazione soggettivista” i problemi sollevati dall’individualismo kantiano. Il mondo che noi conosciamo non è più per Fichte il prodotto dell’interazione tra realtà in sé e categorie individuali (per quanto universali), ma è piuttosto il prodotto della coscienza universale, o Ego. Questa coscienza collettiva assume la sua forma politica naturale entro le nazioni, questa volta definite dal punto di vista esterno secondo il principio linguistico.

Assieme a questa rivoluzione filosofica, Kedourie sottolinea i paralleli sommovimenti della vita sociale che frantumarono antiche istituzioni collettive (famiglia, vicinato, comunità religiose) e la marginalità degli intellettuali tedeschi che li spingeva a un forte impegno politico. Secondo Kedurie, gli intellettuali tedeschi che svilupparono la teoria del nazionalismo non erano solo isolati in senso politico e sociale, ma manifestavano molti segnali di una solitudine antropologica dovuta a una profonda crisi di identità come soggetti.

Per riassumere, per Kedourie furono sostanzialmente TRE gli ELEMENTI che contribuirono alla nascita del moderno nazionalismo: a) UNA

RIVOLUZIONE FILOSOFICA, b) L’ESCLUSIONE SOCIALE DEGLI INTELLETTUALI, c) LA ROTTURA DI ANTICHE ISTITUZIONI. Data la rilevanza accordata in questo modello ai casi di un piccolo gruppo di individui (intellettuali e filosofi), la domanda che fin da ora ci poniamo è la seguente: come fu possibile che le riflessioni di un minuscolo gruppo di pensatori marginali provocassero un simile sommovimento su scala planetaria? In altre parole, qual è il legame tra la ristretta intelligentsia che innescò il nazionalismo e le masse senza la cui partecipazione attiva nell’azione politica non avrebbe molto senso, oggi, discutere una concezione politica alquanto bizzarra? Questa domanda ne implica un’altra: possiamo prendere per certa la correlazione inversa che Kedourie pone tra il successo del nazionalismo e la capacità di resistenza delle istituzioni tradizionali (famiglia, religione)? È cioè sicuro che il nazionalismo “vinse” lì dove queste istituzioni entrarono in crisi, oppure dovremmo verificare l’eventualità dell’esistenza di una correlazione positiva tra nazionalismo e preesistente conformazione della struttura sociale?

Prima di provare a rispondere sottolineiamo quattro punti della riflessione di Kedourie che vale la pena di considerare per proseguire la nostra riflessione sul ruolo dell’antropologia nello studio del nazionalismo:

1) Il nazionalismo è un fenomeno relativamente recente2) Le nazioni non sono entità esistenti da sempre, ma sono invece il

risultato di una serie di mutamenti sociali divenuti preponderanti dalla fine del XVIII secolo

3) Gli intellettuali hanno avuto un ruolo centrale nell’ascesa del nazionalismo

4) Il nazionalismo agisce più rapidamente e più in profondità dove le istituzioni tradizionali (come le comunità locali o la parentela) entrano in crisi.

Come è evidente, tutti i quattro punti collegano il nazionalismo con il più vasto fenomeno descritto generalmente come “modernità” o “modernizzazione”. Ci chiederemo quindi in che senso i due fenomeni sociali sono collegati e in che misura una spiegazione del tipo “il nazionalismo è un aspetto integrante della modernizzazione” può considerarsi una teoria adeguata dal nostro punto di vista (antropologico).

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La teoria di Gellner: nazionalismo e modernità

Indipendentemente dalla specificità della teoria proposta, tutti i tentativi di giustificare il nazionalismo entro la modernità partono dalla convinzione che l’ideologia nazionale costituirebbe il fattore mancante, andando a rimpiazzare una funzione di coesione sociale precedentemente adempiuta da altri fattori. Date le mutate condizioni sociali e produttive, il nazionalismo costituirebbe il cemento sociale adatto ai tempi moderni, sostituendo la religione, il senso della località, i legami parentali.

Ovviamente, questa impostazione parte dal presupposto che via sia una qualche possibilità di distinguere in modo perlomeno approssimativo tra società “tradizionali” (che non avrebbero bisogno del nazionalismo) e società “moderne”, per cui invece il nazionalismo diviene un ingrediente necessario della tenuta sociale. Non possiamo dilungarci sulla storia e il senso di questa opposizione tra tradizione e modernità (un’opposizione in buona parte costruita proprio dall’analisi degli scienziati sociali), né raccontare come i diversi studiosi hanno articolato la specificità del nazionalismo entro il processo di modernizzazione. Ci limiteremo invece a riassumere la prospettiva del principale teorico del nazionalismo da questo punto di vista, Ernest Gellner, perché in essa troveremo praticamente condensati molti punti della teoria della modernizzazione che cercheremo di valutare anche in senso critico.

Gellner espose le linee fondamentali della sua teoria in un saggio del 1964, ma rielaborò estesamente questa posizione in un volume pubblicato nel 1983 e intitolato Nazioni e nazionalismo. In questo libro il nazionalismo è “spiegato” nelle sue cause economiche e nelle sue conseguenze sociali partendo dalla premessa che si può individuare un vero e proprio “fossato”, cioè una differenza radicale, tra le società agrarie e le moderne società industriali. Secondo Gellner, la differenza fondamentale è costituita dalla relativa “mobilità” dei membri di questi due tipi di società: le prime infatti erano meno mobili e meno egualitarie, mentre le seconde hanno posto come caposaldo della loro ideologia la mobilità (geografica e/o sociale) dei singoli. La ragione di questa differenza dipende dal modello economico di base, che per le società moderne è quello di tipo industriale orientato alla crescita costante della produzione.

Se la crescita economica è un obiettivo considerato necessario dalle società moderne, e può essere raggiunto solo con l’industrializzazione, ne consegue che questo tipo di società dovranno essere (almeno in linea teorica)

estremamente flessibili dal punto di vista sociale: nuove fonti di crescita economica devono essere individuate e sfruttate nel più breve tempo possibile, nuova forza lavoro deve essere disponibile in tempi brevi per essere riallocata nei contesti più favorevoli (se si scopre un giacimento minerario in una regione periferica e poco abitata, bisogna che gli operai si spostino da altre zone), e in generale la popolazione deve essere in grado di muoversi da un posto all’altro al fine di massimizzare la crescita. Nelle società moderne non è necessario (e anzi spesso svantaggioso) che ognuno vada a fare lo stesso lavoro dei genitori, e i singoli saranno invece aperti al mutamento e a nuove prospettive, completamente sconosciute alla generazione precedente. Gellner propone un’interessante metafora per esemplificare questo collegamento tra modernizzazione e mobilità:

Se la crescita cognitiva presuppone che nessun elemento sia indissolubilmente legato a priori a qualunque altro, e che ogni cosa sia passibile di ripensamento, la crescita economica e produttiva pretende esattamente lo stesso tipo di atteggiamento per le attività umane e quindi per i diversi ruoli che gli uomini possono occupare. I ruoli diventano cioè opzionali e strumentali. La vecchia stabilità della struttura sociale basata sui ruoli è semplicemente incompatibile con la crescita e l’innovazione. Innovazione significa fare nuove cose, i cui confini non possono essere gli stessi delle attività che vengono rimpiazzate. Senza dubbio la maggior parte delle società possono affrontare un riposizionamento occasionale del sistema lavorativo e delle strutture corporative, così come una squadra di calcio può sperimentare all’occasione diverse formazioni pur mantenendo una continuità di fondo. In questo senso, un singolo mutamento non produce progresso. Ma cosa succede quando i mutamenti stessi diventano costanti e continui, quando la stessa condizione di mutamento occupazionale diventa in sostanza il tratto persistente di un ordine sociale? Se si trova una risposa a questa domanda, gran parte del problema del nazionalismo trova una sua soluzione.

Secondo Gellner, il nazionalismo è il miglior supporto ideologico alla modernizzazione, e un supporto praticamente necessario. Se l’obiettivo da conseguire è la crescita economica, e questa è raggiungibile solo grazie alla mobilità sociale e geografica degli individui, quegli stessi individui devono essere in grado di adattarsi a condizioni di produzione in costante mutamento. Per poter essere in grado di gestire questa mutevolezza di condizioni e di contesti produttivi, i soggetti devono necessariamente condividere un corpus comune di conoscenze e di valori. Il nazionalismo, facendo credere alle persone di avere in comune dei valori e una cultura, in pratica le dota di

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quegli elementi culturali, rendendo così possibile la creazione del cittadino moderno, flessibile e uniformato, che costituisce lo strumento fondamentale del processo di modernizzazione.

Se cioè lo stato moderno ha bisogno di operai pronti a spostarsi su tutto il territorio nazionale, di burocrati impegnati nella razionalizzazione della produzione, di tecnici in grado di proporre soluzioni produttive omogenee e quindi vantaggiose economicamente, sarà necessario che quegli operai, quei burocrati e quei tecnici condividano, ad esempio, un’unica lingua. In questo modo, un manuale di istruzioni per una nuova pala meccanica potrà essere letto dagli operai ovunque si trovino. Un medesimo ciclo produttivo potrà essere riprodotto in differenti contesti, e quindi sarà necessario che i diversi addetti condividano una serie di informazioni di base che rendano apprendibile quel ciclo produttivo ovunque lo si voglia realizzare. In pratica, dice Gellner, il nazionalismo dice ai singoli che fanno parte di una solida comunità di valori e di cultura, ma in questo modo rende le persone disponibili ad accettare moltissime novità (imparare a leggere e scrivere, imparare a riconoscere un insieme di valori e simboli) necessarie al contesto economico e che producono proprio quell’unità di valori e di cultura che invece si pretende essere preesistente.

Come è evidente, sono molte le critiche che si possono sollevare a questo approccio. Ci limiteremo a indicarne alcune (sulla falsariga di quanto avanzato da Smith, 1983, nella sua introduzione):

1) Questo impianto teorico presuppone una definizione rigida e precisa di “modernizzazione”, dato che spiega il nazionalismo proprio nei suoi termini. Oggi il concetto di modernizzazione come insieme coeso e coerente di valori e pratiche economiche, sociali e tecnologiche è estremamente criticabile. Sappiamo cioè che la modernizzazione non può essere considerata un blocco uniforme, in cui la crescita industriale si accompagnerebbe necessariamente alla laicizzazione, alla democrazia, all’individualismo. Sono troppi i casi in cui la modernizzazione in senso tecnologico non si è accompagnata alla secolarizzazione (Iran), né alla democrazia (Cina), né all’individualismo in senso occidentale (India, Giappone). Semplicemente, oggi riconosciamo la natura ideologica del concetto stesso di “modernizzazione” e le pregiudiziali evoluzioniste che hanno permesso la sua diffusione come strumento analitico. Visto che non sappiamo più cosa sia la modernizzazione, una teoria che per spiegare il nazionalismo si basa in modo così rigido su questo concetto è destinata a mostrare la sua debolezza.

2) La storia di questi ultimi anni ha posto in evidenza un fatto ulteriore: non solo il nazionalismo può svilupparsi indipendentemente dalla modernizzazione intesa come secolarizzazione e conseguimento individuale dello status sociale (non più “ascritto” cioè imposto dall’esterno), ma può addirittura assumere forme specifiche in opposizione a quei valori “laici”. Il recente emergere dei fondamentalismi religiosi (cristiano, islamico, indù) dimostra che si può sviluppare un forte senso di appartenenza collettiva (spesso marcato in chiave esplicitamente nazionale) proprio opponendosi a quella vaga nebulosa che chiamiamo modernizzazione. In questo caso un senso di appartenenza collettiva e simbolica sembra avere l’effetto opposto di quello ipotizzato da Gellner, rilanciando forme di produzione materiale e sociale “premoderne” anche se la comunità cui si fa riferimento corrisponde ai criteri di omogeneità e uniformità “tipici” della nazione moderna.

3) Una critica più generale del modello di Gellner riguarda invece la natura della sua applicabilità. La teoria proposta ha infatti l’innegabile pretesa di porsi come “generale”, e quindi valida universalmente. La critica in questo caso è cioè del tipo opposto a quelle presentate ai punti 1 e 2: lì dicevamo che la teoria si trova a dover escludere diversi casi specifici, mentre qui la critica è rivolta al fatto che i casi inclusi (che cioè possono essere “spiegati” secondo la teoria) sono spesso così diversi tra loro che una loro uniformazione non sembra particolarmente vantaggiosa se il nostro obiettivo è conoscere le cause del nazionalismo nei diversi contesti culturali. È chiaro ad esempio che il nazionalismo inglese e quello italiano si svilupparono in contesti sociali ed economici profondamente diversi durante il corso del XIX secolo, e spiegarli entrambi con lo stesso set di strumenti non ci consente di individuare quel che ognuno di essi ha di specifico. Detto altrimenti, la teoria in questo senso “spiega troppo”, perché assomma in un unico canestro esplicativo fenomeni storici profondamente diversi.

4) Un’ultima critica, sulla quale però non ci soffermeremo, è invece di tipo strettamente storico. Una certa corrente di pensiero degli studi sul nazionalismo critica il modernismo della teoria di Gellner (e di molti altri approcci che pure non si rifanno direttamente a Gellner) proprio contestandone l’assunto storico di fondo, e cioè l’idea che le nazioni sarebbero un prodotto comunque moderno con una storia non più profonda di duecento anni (quattrocento, secondo alcune varianti dell’approccio modernista alla nazione, che fanno risalire l’origine della nazione moderna allo stato assolutista europeo che si afferma come modello politico nel corso

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del XVII secolo). Secondo questa corrente di critica del modernismo (critica che ha il suo esponente principale proprio in Anthony Smith) le nazioni hanno una storia che non si può ridurre agli ultimi secoli, e sono invece l’espressione di antiche origini, con una storia plurisecolare se non millenaria. Non intendo soffermarmi su questo approccio (cosiddetto primordialista, proprio perché insiste sull’antichità di molte delle nazioni moderne e sulle cosiddette “origine etniche” delle nazioni moderne) semplicemente perché credo che sia frutto di un equivoco terminologico: primordialisti (come Smith) e modernisti (come Gellner) in realtà non parlano della stessa entità sociologica anche se entrambi possono far uso del termine “nazione”. Mentre i primi si riferiscono a gruppi solitamente di dimensioni ristrette, oppure alle concezioni di un’élite di ridotte dimensioni entro masse di popolazione più vasta, la concezione modernista intende per nazioni gruppi caratterizzati non solo dalla condivisione di tratti culturali (lingua, religione, pratiche matrimoniali, eccetera) ma anche dalla consapevolezza di appartenere a un gruppo nazionale specifico e identificabile con una lunga storia sostanzialmente ininterrotta. Per fare un esempio, se pure sappiamo con certezza che alcuni degli ultimi imperatori bizantini avevano recuperato un legame di continuità con l’antica Grecia e quindi potevano già essere considerati “greci” in senso moderno, questo tipo di identità inteso come continuità storica del popolo greco impiegò diversi secoli per diffondersi lungo gli strati sociali e per divenire patrimonio comune dei cittadini della Grecia moderna. Fino a tempi relativamente recenti, i greci hanno continuato a pensare a se stessi come romii, cioè “romani” in senso di cristiani, opposti sincronicamente ai musulmani “turchi” con i quali hanno a lungo convissuto e diacronicamente ai “pagani” ellines dell’antichità. In questo senso, l’identità nazionale della Grecia moderna è un fenomeno recente e sostanzialmente differente da precedenti forme di identità, legate a un’ecumene religiosa, il cristianesimo ortodosso, che però includeva diverse tradizioni culturali, non solo greche. Detto altrimenti, la nazione intesa come termine che raggruppa una serie di tratti caratterizzati da omogeneità e continuità storica (una lingua, una storia riconoscibile, una religione, un insieme identificabile di pratiche sociali, di valori e di credenze) indipendentemente dalle differenziazioni di classe, è un fenomeno recente, anche se le élite culturali e politiche di alcuni gruppi culturali possono, in passato, aver intuito questa eventualità. La ragione di questa impostazione modernista dall’approccio che propongo è di tipo analitico: credo infatti che se non si isola il fenomeno dell’appartenenza

nazionale che si è sviluppata dopo la Rivoluzione Francese dal generale processo storico dell’appartenenza non riusciamo a capire il senso e la funzione delle identità attuali. Per riassumere: gli uomini hanno sempre voluto e dovuto appartenere a un gruppo identificabile almeno in termini soggettivi (“io” so qual è il mio gruppo) e a volte questo gruppo poteva essere ben più esteso del gruppo effettivamente conosciuto direttamente da ogni singolo (si pensi all’appartenenza religiosa o all’inclusione in un impero, come nel caso della cittadinanza “romana”), ma il nazionalismo moderno estende e rende stabile questo modello di appartenenza a una “comunità immaginata” proprio perché si sviluppa come teoria filosofica e come dottrina politica a partire da un’epoca in cui si rendono disponibili soluzioni tecnologiche che consentono la diffusione di massa. Per elaborare una teoria del nazionalismo più raffinata di quella proposta da Gellner dobbiamo dunque concentrarci sulle condizioni sociali, tecnologiche e culturali che hanno reso possibile la diffusione su larghi strati della popolazione dell’idea di appartenere a un gruppo vasto e sostanzialmente omogeneo. Per fare questo riassumeremo in breve la proposta interpretativa di Benedict Anderson.

La teoria di Anderson: Immaginare la nazione

Benedict Anderson è un esperto di relazioni internazionali che ha studiato a lungo il sud-est asiatico e che, alla fine degli anni Settanta, si è trovato a fare i conti con il problema di spiegare, dalla prospettiva marxista entro cui si era formato, il problema delle guerre che hanno insanguinato Vietnam, Cambogia e Cina proprio tra il 1978 e il 1979. Queste guerre, infatti, coinvolgevano stati dichiaratamente marxisti ma non potevano essere spiegate se non in termini di nazionalismi rivali. Come fa notare Anderson (1991, p. 23), la tradizione marxista non ha offerto strumenti sostanzialmente validi per indagare e comprendere il nazionalismo e – più che elaborare teorie “erronee” del nazionalismo – si è in sostanza limitato a scansare il problema: “Sarebbe più giusto affermare che il nazionalismo è stato una scomoda anomalia per la teoria marxista e, proprio per tale motivo, è stato eluso più che affrontato”. Nel tentativo quindi di riflettere seriamente sulle origini del sentimento nazionale, Anderson pubblicò nel 1983 (lo stesso anno di Nazioni e nazionalismo di Gellner) un libro intitolato Comunità immaginate, che ebbe molta fortuna e fu ripubblicato in una nuova versione accresciuta nel 1991,

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versione poi tradotta in italiano. Vediamo le linee essenziali di questo importante contributo1.

La risposta di Anderson alla domanda “Che cos’è il nazionalismo” è allo stesso tempo semplice e carica di implicazioni teoriche. Ecco la sua sintetica definizione di nazione: “Si tratta di una comunità politica immaginata, e immaginata come intrinsecamente insieme limitata e sovrana. È immaginata in quanto gli abitanti della più piccola nazione non conosceranno mai la maggior parte dei loro compatrioti, né li incontreranno, né ne sentiranno mai parlare, eppure nella mente di ognuno vive l’immagine del loro essere comunità (…) La nazione è immaginata come «limitata» in quanto persino la più grande, anche con un miliardo di abitanti, ha comunque confini finiti anche se elastici, oltre i quali esistono altre nazioni. Nessuna nazione si immagina confinante con l’umanità (…) La nazione è immaginata come «sovrana» in quanto il concetto è nato quando illuminismo e rivoluzione stavano distruggendo la legittimità del regno dinastico, gerarchico e di diritto divino (…) Infine è immaginata come una comunità in quanto, malgrado ineguaglianze e sfruttamenti di fatto che possono predominarvi, la nazione viene sempre concepita in termini di profondo, orizzontale cameratismo” (pp. 25-26).

Termini come “nazione”, “nazionalità” e “nazionalismo”, afferma Anderson, non dovrebbero essere considerarti solo l’espressione più ideologica di una pratica comunque politica, essendo categorie antropologiche più simili a quelle di “parentela” e “religione”, cioè complessi sistemi di credenze che possono dare un’impronta sostanziale alle azioni della vita quotidiana.

L’ascesa del nazionalismo è stata possibile grazie ad alcune trasformazioni sociali:

1) Il declino della comunità religiosa intesa come comunità “inclusiva” per definizione (il protestantesimo come frantumazione dell’ecumene cristiana).

2) Il lento decadimento dei regimi dinastici (le rivoluzioni come esplicita sfida alla dimensione sacrale del potere).

3) La trasformazione della percezione del tempo, con l’emergere e l’affermarsi dell’idea di “simultaneità”. Il tempo astratto segnato dagli orologi permise all’emergente borghesia di pensare ai propri membri come attivi in

1 Nell’analisi della struttura di Comunità immaginate farò ampio uso di una recensione inedita di Vincenzo Bitti, che riesce a cogliere appieno il nucleo della teoria di Anderson.

diverse occupazioni “nello stesso tempo”: gli individui, agendo e reagendo entro un tempo concepito ora come vuoto e lineare, iniziarono a potersi pensare gli uni gli altri. Il romanzo moderno e l’idea stessa di giornale derivano da e insieme costituiscono questa nuova concezione della simultaneità temporale: i personaggi si muovono e gli eventi accadono in differenti contesti e allo stesso tempo, garantendo quindi il fondamento ideale della comunità immaginata. Questi tre profondi mutamenti spinsero alla ricerca di nuovi modi per collegare tra loro le idee di fraternità, di potere e di tempo: il concetto di nazione, secondo Anderson, fu il sedimento che consentì di realizzare in modo efficace questa esigenza a un tempo politica, sociale ed esistenziale.

Ma questa triplice esigenza assunse la forma caratteristica che oggi chiamiamo nazionalismo a causa dell’interazione tra tre fattori:

1) La crescente rilevanza e predominanza di un particolare modo di produzione e di relazione sociale, e cioè il capitalismo.

2) L’invenzione della tecnologia della comunicazione con la messa a punto della stampa a caratteri mobili.

3) La diversità linguistica del genere umano.Come conseguenza del declino del latino come strumento “universale” di

comunicazione tra membri appartenenti a diverse tradizioni linguistiche locali, i tipografi e gli stampatori legati al nascente mercato editoriali iniziarono, verso la fine del XVII secolo, a pubblicare estesamente nei vernacoli locali. Con l’intento di avere un mercato potenziale di lettori quanto più vasto possibile, gli editori spinsero a uniformare la forma scritta secondo alcune varianti “di prestigio” o particolarmente diffuse, che presentavano il vantaggio di poter essere lette anche da chi poi, nel parlato quotidiano, tendeva ad usare altre varianti dialettali o vernacolari. In questo senso, gli editori spinsero all’uniformazione linguistica entro aree sufficientemente vaste da garantire un pubblico adeguato per i libri messi in commercio. A loro volta, i libri fatti circolare diffondevano scelte lessicali e stilistiche che venivano riprodotte a livello locale, spingendo quindi le diverse varianti di una stessa parlata a uniformarsi in quelle che stavano diventando le lingue “nazionali”. Questa diffusione dei vernacoli offrì un supporto perfetto per immaginare diverse comunità di eguali entro le diverse nazioni.

Lo stile dei nazionalismi europei si basò essenzialmente sulle lingue stampate, tanto che Anderson conia l’espressione “capitalismo a stampa” (print-capitalism) per evidenziare la rilevanza di questo mezzo di

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comunicazione nel comprendere la formazione di una borghesia nazionalista in Europa. Mentre prima del capitalismo a stampa le solidarietà sociali fondamentali erano la conseguenza di relazioni dirette di parentela o di rapporti clientelari, la borghesia fu la prima classe sociale a sviluppare una forma di solidarietà intrinsecamente immaginata, attraverso il sostegno del capitalismo a stampa: leggendo dei loro sodali di classe nei romanzi e nei giornali, potendoli concepire come sincronicamente collegati anche se lontani dal punto di vista spaziale, i mercanti, gli imprenditori e i burocrati poterono sviluppare un senso di appartenenza a un gruppo di persone che, per la maggior parte, non avrebbero mai conosciuto.

Il modello di Anderson è importante non solo perché aggiunge al determinismo economicista di Gellner ulteriori elementi di natura sociale, ma anche perché riesce a dar conto della dimensione sacra dell’appartenenza: per la nazione alcuni sono pronti a morire, il che significa che la nazione si fa carico di una dimensione simbolica che non può essere facilmente trascurata (come sembra fare Gellner, e come di certo fanno altri autori, tra cui Hobsbawm, che non tratteremo per ragioni di spazio) come un semplice trucco per nascondere i “veri” interessi del nazionalismo (e ciò le determinazioni di ordine economico dettate dal processo di modernizzazione). Da questo punto di vista, quindi, la prospettiva di Anderson arricchisce il nostro quadro teorico: sapendo che il nazionalismo è anche un sentimento, ci consente di indagare sulle origini e sulla prima diffusione di quel sentimento tra l’emergente borghesia legata al primo capitalismo.

Ma anche Anderson non sembra in grado di rispondere alla nostra domanda centrale: com’è avvenuto il contatto tra nazionalismo e masse? Come e in che misura questo sentimento di appartenenza a una comunità più vasta di quella che mai riusciremo direttamente a conoscere si è diffuso agli strati subalterni? Se, come abbiamo visto, la cultura “popolare” come espressione delle classi subalterne si distingue dalla cultura delle classi egemoni (tra cui la borghesia, entro cui il nazionalismo è sorto), in che modo un elemento “culto” come l’ideologia del nazionalismo è stato recepito e articolato entro le strutture della cultura popolare? È mia convinzione che per provare a rispondere a queste domande dobbiamo muoverci in due direzioni: da un lato abbiamo bisogno di vedere come funziona il nazionalismo una volta sottratto al monopolio borghese, nel contesto cioè di quadri sociali meno elitari: abbiamo, per così dire, bisogno di “un’etnografia del nazionalismo”, di capire cioè le sue dinamiche sociali effettive in determinati

contesti. Dall’altro credo sia importante, al di là delle diverse stratificazioni sociali, provare a lavorare per una “struttura di sentimento del nazionalismo”, verificando cioè con singoli casi individuali (biografici) il percorso che rende plausibile l’adesione forte a un progetto nazionale. Nell’insieme (etnografia del nazionalismo e biografia dei nazionalisti) considero questo progetto lo specifico teorico dell’antropologia nella riflessione sulle appartenenze collettive, ma voglio chiudere provando ad articolare un po’ più precisamente la mia posizione.

Antropologia e nazionalismo

Uno dei passaggi più emozionanti del bel libro di Tom Nairn, Faces of Nationalism (1997, pp. 158-159) recita:

Nel bellissimo film di Juris Podnieks, Homeland [Patria] si vede un uomo con un braccio solo che torna, dopo 47 anni di esilio americano, in una buia casa semidistrutta, in mezzo a un campo ricoperto di erbacce. L’uomo si siede dentro la casa, travolto dai ricordi, e guarda verso il cielo attraverso il tetto sfondato. “Sento ancora la luce”, dice. Nonostante tutto, la sua Lituania esiste ancora, ed è ancora in grado di cantare come ricorda sentiva da bambino: un coro in mezzo alla foresta baltica, una specie di paradiso. Finalmente è possibile tornare a casa, a casa in una comunità immaginata ma dotata di fondamenta reali, riemerse dopo il crollo di un impero. Solo pochi anni prima, quell’uomo sarebbe stato costretto (come molti altri) a chiedere che le sue ceneri venissero disperse assieme a mazzi di fiori da qualche parte nel mare, fuori dal limite delle acque territoriali: questo era il massimo di prossimità alla casa in rovina concesso loro a quel tempo. Per loro si organizzavano speciali crociere sul mar Baltico. Derisi su entrambi i fronti della grande barriera imperiale come nostalgici reazionari, questi uomini si accalcavano per volgere lo sguardo, oltre i parapetti, all’unica cosa che mai avrebbero potuto vedere dei loro paesi: una linea nera e compatta all’orizzonte.

Come “scienziati sociali”, possiamo certo deridere con altrettanto distacco simili sentimenti espressi in altre parti del mondo, ma resto convinto del fatto che non si possa capire il nazionalismo (e, più in generale, qualunque altra forma di appartenenza collettiva) se con cerchiamo di fare i conti con quelle persone che guardano quella linea nera e compatta che tanto bramano. Con tutte le teorie, i modelli e le spiegazioni di cui disponiamo, nessuno è ancora stato in grado di descrivere con una dose sufficiente di realismo il sentimento che muove quelle persone. Il problema, ovviamente, consiste nel fatto che –

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se vogliamo essere considerati scientifici – ci sentiamo in obbligo di non impelagarci in questioni del genere. Il più delle volte la sociologia, le scienze politiche e l’antropologia si contentano di respingere qualunque tentativo di affrontare la questione sostenendo la sua sostanziale irrilevanza. Ma se la scienza non è solo un “metodo” per quantificare e trasformare qualunque cosa in modelli, regole, e rigidi schemi comparabili, ma rimane piuttosto la passione per la conoscenza, cosa ci può essere di più scientifico che provare a comprendere quei profondi sentimenti spesso sollecitati dall’identità etnica o nazionale? Se questa non fosse considerata una ragione sufficiente, bisogna considerare anche le manchevolezze delle attuali teorie sul nazionalismo. Questo complesso fenomeno sociale, politico e culturale è stato sviscerato per quanto riguarda le ragioni del suo primo apparire entro un ristretto gruppo di intellettuali che – non sappiamo neppure approssimativamente come – avrebbe diffuso le sue convinzioni tra le masse. Secondo una versione più critica (quella che Hobsbawm presenta nel suo libro del 1990, di cui non ci siamo occupati in dettaglio per ragioni di tempo) il nazionalismo in effetti non è mai esistito, se non per una microscopica minoranza di fanatici, fino a quando i moderni stati non avrebbero inventato la sua esistenza e presenza per giustificare le loro pratiche di sfruttamento e oppressione, e per nascondere, ovviamente i “veri” conflitti sociali, sobillando le menti e i cuori dei (comunque pochi) che finirono per credere a questa favola. Ma anche in questo caso, nessuno sembra seriamente interessato a spiegare come questo complotto si sia potuto avverare, mentre ci si accontenta di insistere che le convinzioni comunque istillate nella testa della gente comune non sono altro che menzogne e invenzioni. Il che potrebbe anche andare bene, nella misura in cui questo approccio ci consente di denaturalizzare le nazioni e il sentimento nazionale, ma il punto in questione è proprio questo. Difatti, una volta stabilita la natura “costruita” delle nazioni e dell’appartenenza nazionale come invenzione relativamente recente, se possibile la domanda si pone con forza ancora maggiore: allora perché così tante persone nel mondo sono attratte da un’idea così chiaramente fasulla? Cosa trovano nel nazionalismo di così affascinante da lasciare che le loro vite ne vengano influenzate così profondamente come gli eventi degli ultimi quindici anni sembrano dimostrare? A questo punto della mia riflessione, non mi sembra possibile prestare ancora attenzione all’argomento, apparentemente raffinato, avanzato da Hobsbawm, che cioè il nazionalismo, in verità, non costituisce una questione rilevante, dato che l’economia o la coscienza di classe hanno avuto

un ruolo ben maggiore nel determinare il mutamento politico degli ultimi duecento anni. Quella di Hobsbawm non è infatti un’ipotesi di lavoro che egli si premuri di dimostrare, ma piuttosto una tesi attorno alla quale tenta di costruire la sua argomentazione a favore di un’interpretazione economicista della realtà politica. Specularmente, non mi sembra necessario concedere troppo alla posizione primordialista espressa da Smith (1986), secondo cui quello che ho chiamato il “sentimento” nazionale non dipende dal moderno stato nazionale, ed è invece radicato profondamente nell’origine etnica delle nazioni. Anche se credo che la prospettiva di Smith contenga elementi che necessitano di un approfondimento (non sappiamo in effetti molto sulle forme di appartenenza collettiva prima dello stato nazionale moderno, a parte i soliti riferimenti alle solidarietà “meccaniche” della famiglia e della comunità locale) non ritengo necessario (come invece sembra fare Smith) risalire all’antica Mesopotamia per gettare luce sull’odierno nazionalismo lituano. Anche se è evidente che il sentimento nazionale è ben più profondo di qualunque semplificazione gellneriana, non vi è motivo per cui quella profondità debba necessariamente essere di tipo storico. Per qualunque nazione con un evidente radicamento etnico (cioè con una storia lunga e ricostruibile) è sempre possibile individuarne un’altra con una storia ben più superficiale e “costruita”, e se usassimo il criterio dell’effettiva profondità storica per misurare la legittimità o la genuinità delle diverse nazioni rischieremmo di trovarci di fronte a sorprese e a scelte complicate (i birmani più legittimati degli americani, per esempio) che non chiarirebbero assolutamente i termini del problema odierno.

Come già indicato, anche in questo caso un parallelo tra nazionalismo e religione può rivelarsi illuminante. Nessuno discuterebbe seriamente (o “scientificamente”) una qualunque religione o un sentimento religioso sulla base della loro “veridicità”, e pochi si contenterebbero di giungere alla conclusione che le religioni, il più delle volte, non dicono “la verità” rispetto al passato. Abbiamo imparato a non imporre le nostre categorie quando cerchiamo di comprendere un modo di pensare diverso dal nostro, e sembra esserci un sostanziale accordo sul fatto che ogni tentativo di spiegare le religioni dovrebbe essere allo stesso tempo estremamente prudente e improntato alla specificità individuante, oltre che rispettoso di un sistema di valori e credenze il più delle volte praticamente impossibile da afferrare nella sua interezza. Soprattutto, nessuno verrebbe preso seriamente se avanzasse come ipotesi esplicativa per il diffondersi di una specifica religione il fatto

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che essa fu in effetti l’invenzione di una ristretta cerchia di adepti, che convinse il popolo ignorante ad adottarla nonostante la sua evidente fallacia. Sappiamo benissimo che le religioni sono “invenzioni”, ma sappiamo anche meglio che questa “verità” non ha nulla a che fare con le ragioni per cui quell’invenzione è stata fatta e – aspetto centrale della mia argomentazione – per cui la gente ha iniziato a crederci.

Dopo una fase (salutare e necessaria) di scetticismo militante, credo sia giunto il momento di insistere perché trovi più spazio un nuovo approccio al nazionalismo. Abbiamo imparato che le nazioni non sono eterne, abbiamo indagato a fondo e giustamente sulle precondizioni e cause sociali ed economiche del moderno nazionalismo. A questo punto possiamo volgerci a studiare (senza rinunciare al nostro ruolo di praticanti delle scienze sociali) quello che il nazionalismo significa per quelle persone che, finora, troppo spesso ci siamo limitati a considerare i destinatari finali di una dottrina elaborata altrove. L’antropologia, con la sua attenzione per i “piccoli casi”, con la sua predilezione per l’interazione faccia a faccia con le persone di cui cerca di cogliere le reti di significato, con la sua vocazione comparativa di ridotte dimensioni, può fornire una metodologia adeguata a questo progetto. I risultati di un serio approccio antropologico al nazionalismo sono già evidenti. Michael Herzfeld, nel suo Intimità culturale (1997), descrive uno specifico stile di immaginazione nazionale, quello greco, e ci mostra come – una volta indagata a livello locale – l’alquanto astratta ideologia dello stato nazionale può essere manipolata intenzionalmente in forme irriverenti o addirittura sovversive. Questa manipolazione locale, ci avverte però Herzfeld, può alla fine costituire il senso “vero” dell’appartenenza nazionale da parte di chi la vive, per cui la sfida alla retorica officiale (“noi cretesi rubiamo le pecore” e – potremmo aggiungere – “noi italiani ci vantiamo di fare i furbi con la burocrazia statale”) diventa il cemento che crea quel senso di solidarietà e di fratellanza tipico del nazionalismo. Possiamo quindi dire che molte volte la negazione ironica del modello nazionale costituisce di fatto il miglior legame nazionale possibile, per cui, nel caso dell’Italia, possiamo dire che il collante nazionale è proprio costituito dal comune senso di distacco emotivo che molti di noi manifestano verso la retorica del nazionalismo: se infatti “molti di noi” hanno un sentimento comune, ecco che quel “molti di noi” si può leggere come una “comunità immaginata” che condivide un valore profondo, e cioè la distanza emotiva dallo stato cui appartiene, e che riesce a

immaginare gli altri membri che, in perfetta sincronia, pensano e agiscono allo stesso modo.

Anticipo questo punto della riflessione di Herzfeld solo per dimostrare come, andando a vedere le cose un po’ più da vicino con la modesta metodologia della ricerca etnografica, il nazionalismo possa riservare diverse sorprese e nuovi spunti di riflessione per capire quali sono le condizioni che ci fanno spesso usare la prima persona plurale. Nel quadro dell’Europa, del contesto in movimento dell’Unione Europea, dei mutati rapporti di forze tra stati nazionali e dell’emergere di condizioni sociali e produttive nuove, avere le idee un po’ più chiare sul senso dell’appartenenza non potrà che farci del bene o almeno contribuirà – spero – a impedire che “noi” facciamo del male agli “altri”.

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