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€ 1,00[?] Numero – speciale 01.02 – PAGINA 032 Shining Suite pag. 09 pag. 05 pag. 07 pag. 20 pag. 03 pag. 27 pag. 23 Crediti L’ossario di un temp[(i)o] L’autodidatta pag. 18 pag. 17 pag. 13 pag. 16 pag. 31 Il “Cimena” di Bene (enrico ghezzi) (enrico ghezzi) (C.B.)

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Numero – speciale 01.02 – € 1,00[?]

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Indice

L’autodidatta pag. 03 Cinema (C.B.) pag. 05 Il “Cimena” di Bene (enrico ghezzi) pag. 07 Uno scarto d’introduzione pag. 09 Su Salomé (enrico ghezzi) pag. 13 Un caso necessario pag. 16 Una premessa - Bene Deserto pag. 17 Shining Suite pag. 18 L’ossario di un temp[(i)o] pag. 20 Moebius (Bene-Lynch) pag. 23 Il Corpo del cinema pag. 27 Crediti pag. 31

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pellicola si fa/è pelle, e nessuna immagine riassume (?) meglio la pellicola/pelle/film che il grattar via gli strati di pelle/pellicola dalla faccia di Bene-Erode in Salomè, o l’autolesionismo (il calpestare, bruciare la pellicola) in Nostra Signora dei Turchi: <<Jack lo Squartatore era un chirurgo raffinato, il non plus ultra del professionismo. Il cinema è sempre servito a spacciare storielle ma nessuno ha mai spacciato la pellicola, come ho fatto io in una lunga sequenza di Nostra Signora. Alla lettera. Squartata, bruciata, fatta a pezzi. Franco Jasello, aristocratico napoletano, padrone della Microstampa, rischiò l'infarto: mezzo chilometro di pellicola, e noi, io, Masini, Contini, i suoi tecnici in camice bianco che la trinciavamo con i coltelli, la bruccichiavamo con le sigarette, la storpiavamo sotto le scarpe. “Sto risolvendo alla grande una sequenza...”, rassicurai, si fa per dire, lo stupefatto nobile. Mutilare la pelle/pellicola, questo i cineasti non si sono mai azzardati a farlo. Avrebbero dovuto essere dei pittori nauseati, intanto.>> Alla ricerca di un cinema che si dis-faccia, si faccia cinema finalmente, non parata orgiastica tra personaggi, per spacciare <<tesi, neorealismo con e senza biciclette, il messaggio sociale>>, in un limite, quindi, che s'evidenzia come cancellazione, al limite, labile, della luce bianca. Non resterebbe, sembra, che il proiettarsi del proiettore. L'unico cinema possibile che sia filmantesi e non già filmato, morto. Il Corpo del cinema.

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L’autodidatta Carmelo Bene e la concezione di S/stato.

<< […] e chi mi deve istruire? Lo Stato? E chi è lo Stato?>>

Cresciuti nel mito di Pinocchio, gli italiani. Se non vai a scuola, dicono, sei un somaro. Se vai a scuola… invece hai “qualche speranza in più”, di entrare nel mondo del lavoro: assoldato, contribuente, allo Stato sociale. Non siamo fatti per la vita. La vita non ci compete.

<< Perché non affranchiamo dal Lavoro i minatori ad Iglesias

invece di prenderli continuamente per il culo?>>

Anche loro. Italiani. Ma quanti di loro S(e)colarizzati? Perché ormai si capisce non ha meriti la scuola se non quello di catechizzare l’uomo che si figura nato. Vuoti alla conoscenza; pieni epistemologicamente. Presi per culo. Appunto. Perché la cultura è importante in quanto lotta statal-demagogica (democratica), strumentale all’erudizione di massa.

<<Sempre caro mi fu quest’ermo colle. Che cos’è a scuola? Questa

collina mi è sempre piaciuta.>> << Bisogna uccidere, Kate!… O evadere da qui! Oh! Evadere, evadere, evadere! Libertà, amare, vivere, sognare. Esser celebri lontano da qui! Oh, cara aurea mediocritas! Ma l’arte è tanto grande E la vita è così breve!>>

La mediocritas. Non la mediocrità è d’oro. La scuola, Istituzione statale, irrompe e strarompe in qualità di forza sostenitrice della democrazia. Ma la democrazia è quell’unico regime dove il cittadino prende a calci in culo se stesso. Lo Stato si occupa di sessantacinque milioni di Italiani, sessantacinque milioni di italiani votano questo stato..che è il loro stato di cose… e così è… Quel che è stato è Stato quindi non è stato mai.. se non nelle sue falsificazioni e/o omissioni.

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Non c’è scampo per il privato. Il singolo è veramente funzionale, strumentale, allo Stato.. e paradossalmente (democraticamente) è il suo stato.. di cose, perché elettore del suo stesso Stato.

Il privato del privato.

Cioè l’auto-in-disciplina dell’uomo. La detronizzazione dell’imperativo categorico.

L’instaurazione dell’imperativo climaterico. A ciò bisogna assurgere. Se si vuole levarsi, togliersi, cancellarsi ,

abrogarsi dallo Stato. Scomunicare l’IO- ROMANTICO-NAZIONALE.

Evadere Evadere Evadere

Dall’istruzione di Stato per giungere alla istruzione privata. Farsi autodidatti da sé. Scoprire come da bambino; il corpo.

Giocare.

Plan

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È lui a riprendere i gesti impediti, mancati, come in Nostra Signora, dove manca di continuo la propria morte, mummia completamente bendata che non riesce più a farsi una puntura, la postura impossibile. È lui a dover profanare il corpo pieno di grazia, o servirsene per un qualche scopo, per acquisire finalmente il potere di scomparire, come il poeta di Capricci, che cerca la posizione migliore per morire. Scomparire era già l'oscura volontà di Salomè, nell'allontanarsi di schiena, verso la luna. Ma quando il protagonista ricomincia tutto, lo fa perchè ha raggiunto quel punto di non-volere che definisce ora il patetico, il punto schopenhaueriano, il punto di Amleto in Un Amleto di meno, là dove il corpo visibile scompare. Nel non-volere si liberano la musica e la parola, il loro intreccio in un corpo ormai soltanto sonoro, un corpo d'opera nuovo. Anche l'afasia diventa allora la lingua nobile e musicale. Non sono più i personaggi ad avere una voce, sono le voci, o meglio i modi vocali del protagonista (mormorio, soffio, grido, eruttazione...) a diventare i soli e veri personaggi della cerimonia, in un ambiente divenuto musica: si vedano gli strampalati monologhi di Erode Antipa, in Salomè, che si innalzano dal suo corpo ricoperto di lebbra e attuano le potenze sonore del cinema. Forse, in questa impresa, Carmelo Bene è il più affine ad Artaud. Conosce la medesima avventura: “crede” nel cinema, crede che il cinema possa operare una teatralizzazione più profonda del teatro stesso, ma lo crede solo per un breve istante. Ben presto pensa che il teatro sia più adatto a rinnovare se stesso e a liberare le potenze sonore, che il cinema troppo visivo ancora limita, anche a costo che la teatralizzazione integri supporti elettronici invece che cinematografici. Resta il fatto che ha creduto, un momento, il tempo di un opera troppo presto interrotta, volontariamente interrotta, alla capacità che avrebbe il cinema di dare un corpo, cioè di farlo, di farlo nascere e scomparire in una cerimonia, in una liturgia.>> Questo è dunque il percorso del cinema, al teatro e sul testo sarà lo stesso. Il corpo, la sua ricerca, la sua parvenza, la sua mancanza. Nel teatro scompare, schermata la voce (la parola manca da sempre in Bene), il corpo vitreo, un vetro che crea una quarta parete ancor prima del pubblico, che può al massimo strabuzzare gli occhi e stravedere dei corpi come in acquario, affogati, dei cadaveri che fanno la parodia alla vita. Nel testo la ricerca del corpo è la <<parodia dell’interiorità>>, l’organizzazione maniacale di una immagin(azione) dell’interiorità, di un immaginario protagonista, un protagonista mancante di sé che si inventa, si dimena alla ricerca di un fantoccio-corpo-budella. Del film basterà il già citato discorso deleuziano, s’aggiunga solamente una postilla; talmente elevata risulta la ricerca del corpo, che la

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forza a pensare, e forza a pensare ciò che si sottrae la pensiero, la vita. Non si farà più comparire la vita davanti alle grandi categorie del pensiero, si getterà il pensiero nelle categorie della vita. E queste sono appunto gli atteggiamenti del corpo, le sue posture. “Non abbiamo neppure idea di quel che può un corpo” nel suo sonno, nella sua ebbrezza, nei suoi sforzi e nelle sue resistenze. Pensare è apprendere quel che può un corpo non-pensante, le sue facoltà, i suoi atteggiamenti e posture. Con il corpo (e non più tramite i corpo) il cinema sposa lo spirito, il pensiero. “Dateci dunque un corpo” significa per prima cosa montare la cinepresa su un corpo quotidiano. Il corpo non è mai al presente, contiene il prima e il dopo, la stanchezza, l'attesa. La stanchezza l'attesa, persino la disperazione sono gli atteggiamenti del corpo. In questa direzione nessuno è andato più avanti di Antonioni. […] Ma esiste un altro polo del corpo, un altro legame cinema-corpo-pensiero. “Dare” un corpo, montare una cinepresa sul corpo acquista un altro senso, non si tratta più di seguire o inseguire il corpo quotidiano, ma di farlo passare attraverso una cerimonia, di introdurlo in una gabbia di vetro o di cristallo, di imporgli un carnevale, una mascherata che ne fa un corpo grottesco, ma ne estrae anche un corpo grazioso e glorioso, per giungere infine alla scomparsa del corpo visibile. . Carmelo Bene è uno dei massimi costruttori d'immagini-cristallo: il palazzo di Nostra Signora dei Turchi fluttua nell'immagine, o meglio è l'intera immagine che si muove e palpita, i riflessi si colorano violentemente, i colori stessi si cristallizzano, in Don Giovanni, nella danza dei veli di Capricci, il vecchio santo decrepito di Salomè, che si sfiniscono in gesti inutili sempre ripresi, in atteggiamenti impediti e ricominciati, fino alla postura impossibile (il Cristo di Salomè che non riesce a crocifiggersi da solo: come potrebbe l'ultima mano inchiodarsi da sé?). La cerimonia in Bene comincia con la parodia, che concerne in ugual modo suoni e gesti, perché i gesti sono anche vocali e l'aprassia e l'afasia sono due facce della stessa postura. Quel che emerge dal grottesco però, quel che se ne distacca, è il corpo grazioso della donna come meccanica superiore, sia che danzi tra i suoi vecchi, sia che passi attraverso atteggiamenti stilizzati di un segreto volere, sia che si irrigidisca in postura d'estasi. Non è forse per liberare finalmente il terzo corpo, quello del “protagonista” o del maestro di cerimonia, che passa attraverso tutti gli altri corpi? Suo è già l'occhio che si intrufolava nel cristallo, lui comunica con l'ambiente cristallino, come in Nostra Signora, dove la storia del palazzo diventa autobiografia del protagonista.

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Cinema Perchè il cinema? Si è sempre maldestramente equivocato, prima ancora ch'io mi filmassi o filmassi l'impossibilità di filmare altro dal set, già ai miei esordi teatrali, che io battessi una strada avanguardistica dell'immagine di contro alla parola. A sconfessare questo ci provai con cinque film in cui il silenzio è sovrano e il logos decisamente estromesso. Cinema: regno dell'immagine. Mi provai a eccedere l'immagine pur di dissipare il malinteso della mia preavventura teatrale. Cinema: gioco del soggetto che gioca perverso con l'immagine come si fa con il più futile dei balocchi. L'obietivo giocato come il caleidoscopio dei bambini che nello stupore orecchiano ben altro, la musicalità delle immagini, effetti ottici della phoné. Invece del racconto, questo bricolage di suoni e immagini destinato a uancitazione di racconto, questa miriade di segni alla deriva dell'onda sonora che detta il movimento. Tutto giocato n perfetto a-sincrono, nell'idiosincrasia tra “musicalità” e “musica”, che non sempre coincidono. Quindi, Nostra Signora dei Turchi, se vogliamo.

(1983)

Ho pensato molto al cinema come mezzo “specifico” e ho avuto voglia di provarlo. Mi interessano soprattutto le persone che hanno innanzitutto un'idea di cinema. L'idea di cinema contiene senza dubbio un cinema di idee, mentre non è vero il contrario. In questo senso, Il bandito delle ore undici è un film geniale e Weekend, nello stesso senso, è un film fallito. Ma oggi, è soprattutto il cinema di idee che è apprezzato e praticato, quello dove le piccole idee vengono appiccicate sulla pellicola.

(1968)

Ma il cinema, se è cinema, non si può raccontare. Lo si può solo spacciare, facendolo. E vaneggiare.

(1998) Il cinema è morto, filmato per sempre. Non è filmante.

(1982) Ho sufficente autocritica per riconoscere al mio cinema l'importanza che merita, in quanto percorso fachiro sul non-discorso che se la

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sbriga maciullando il mezzo, ingoiando e vomitando ogni volta la polpetta avvelenata. Detto questo, salverei due, tre sequenze in tutto: Erode che si lascia spellare vivo (alternato all'autocrocifissione mancata) in Salomè e la pellicola massacrata, calpestata, bruciata in Nostra Signora (parodia del ricordo)

(1998) Ho dovuto vedere il film per montarlo, ma è stato un lavoro modesto, che non mi nteressa. È nelle riprese che mi contesto, contesto i miei progetti e la loro realizzazione, contesto tutto.

(1968) Sei arrivato al cinema avendo in testa un modello, un riferimento, un'idea qualsiasi? Da cosa sei partito? Dal detestar qualcosa. Per poi demolirla. Non è detto che ci sia riuscito. Quà e là se ne ha il sentore. È una sensazione, non una visione. Chissà chi, che cosa, è riuscito in me e per me a musicare certe posture del corpo, certi abbandoni, certo reclinare del capo, certa inquadratura inclinata, la scelta delle luci, degli obbiettivi.

(1998) Nel cinema esiste il montaggio, sicchè il film non è soltanto già scritto, ma anche già letto, dal momento che viene montato. Durante il montaggio critico quello che ho girato.

(1970)

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Su Nostra Signora dei Turchi

Il Corpo del cinema

<<Ne ricavo un paio di occhiali da vista, non suoi certamente e li inforcò.

Fortemente presbiti, lo distanziavano alquanto dal riflesso>>

C.B. Nostra Signora dei Turchi triplicata. Testo, teatro e film. Nostra Signora dei Turchi come trittico baconiano, un trittico che non dialoga, pannelli separati e inscindibili. Sono corpi differenti, questi atti. La differenza è marcata, obbligatoriamente, dalla ripetizione del titolo, dalla sua omofonia. Perché di questo si tratta, un'omofonia, apparente. Il titolo è solo un’apparenza della loro possibile somiglianza o addirittura trasposizione. Tra le tre opere vi sono delle analogie, ma queste analogie sono le stesse che Deleuze riscontra nelle coppie e nei trittici di Francio Bacon, non riguardano un dialogare di pannelli, personaggi, gesti e colori; la pittura (sarebbe forse più corretta chiamarla musica) di Bacon è muta, silenziosa, è interdetto il dialogo, al massimo si permette il sussurrare monologante, così in Bene. Queste figure, questo trittico, hanno comunque qualcosa che le mette in relazione, un <<accoppiamento delle sensazioni>>, sono figure differenti che cercano un corpo, lo stesso e ovviamente diverso, diverso nel tracciarsi differente del percorso del raggiungimento, che fine non avendo, risulterà del tutto improprio. Un Corpo. E non sarà certo un caso che sempre Deleuze in L’Immagine-Tempo, parlando del cinema di Bene dirà: << “Datemi dunque un corpo”: è la formula del capovolgimento filosofico. Il corpo non è più l’ostacolo che separa il pensiero da se stesso, ciò che il pensiero deve superare per arrivare a pensare. Al contrario ciò è ciò in cui affonda o deve affondare, per raggiungere l’impensato, cioè la vita. Non che il corpo pensi, ma, ostinato, testardo,

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M.C. Escher, Nastro di Moebius II, 1963

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su Bene _enrico ghezzi_

Il “Cimena” di Bene Occasionale che sia stata, l'interruzione del cinema di Bene non può che apparire fatale. Ho trascritto una voce (mia per caso) che parlava in tv della decapitazione sparizione dissolvenza a bianco del corpo dell'immagine e dell'immagine del corpo, in un film cronologicamente non-ultimo come Salomè. Il film casualmente ultimo si intitola Un Amleto di meno. Come la fine di una tournée fantasmagorica di sé, o della fantasmagoria circolare e ininterrotta che dichiara di essere Hamlet. L'opera stessa come fine e cancellazione, sottrazione estrema. Finendo Amleto, consumandolo, smangiandoli un altro giro di vita, Bene si sottrae – ripetendola e storcendola per l'ultima volta – alla domanda dell'essere o non essere, risolvendola nell'apparire/scomparire simultaneo. “Stasera non vi darò le fonti, morirete di sete”. Nell'effimero verbale questo motto di Carmelo Bene indica la profusione di cultura testuale e insieme il rifiuto di risalire alla citazione come origine. Niente fonti. Il suo cinema, che ugualmente non ha bisogno di essere fonte di alcunché, è zampillo soffio getto celibe. Proprio liquido è l'elemento in cui si trasmuta. Dopo la decostruzione lewisiana di Hermitage, esaurimento di tutto il teatro del corpo in una stanza da bagno, Nostra Signora è subito liquame, proiezione acquosa, volo attraverso un'ottica umida e bagnata. Come l'inseguimento di una sostanza inafferrabile, di una voce del cinema. Una sfida (dalla parte del non finito, del tiro lirico con l'arco, della vibrazione, del “buttarsi dalla finestra”) all'obbligatorietà del cinema, al definitivo acquietarsi della possibilità visiva in inquadratura e fotogrammi. Meno rudimentalmente “sottile”, meno “artista” di Cocteau, Bene fa implodere già nel suo primo film tutta l'avanguardia, e di film in film con gesto sempre più secco sottrae al cinema le maschere del teatro, una dopo l'altra. Gli toglie tutte le illusioni di “rappresentare” e lo spinge verso l'instabilità, come solo Rossellini ha saputo dare nell'insieme dell'opera (e il “santo” cineasta spagnolo grenadiano Val del Omar..?). Il teatrante geniale di Hermitage che finge (?) la crisi in attesa di uno shining, ha presto trovato la sua luccicanza, il suo telepathos in diretta comunicazione con l'instabilità figurativa del cinema, addirittura con la sua non-figuratività. Per questo è visionario, e da visionario si strappa la pelle della politica e della sociologia (Capricci), da visionario

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ingaggia una lotta durissima e derisoria (Don Giovanni) col dongiovannismo automatico della ripetizione ossessiva e insieme sempre un pò slittante del cinema, delle sue serie di visioni fotogrammatiche invisibili e ognuna lievissimamente diversa dall'altra. Il cinema allora finisce perchè non è mai iniziato, anche se un altro quarto di secolo è passato; il potente rosso e violaceo del fuoco è divampato (oh, la fatica di quei fiammiferi in Hermitage), è parso estinto e il colore consunto, ma guarda (caso), come Rossellini Carmelo Bene accetta di fingere che il cinema finisca e si interrompa e fa tanta televisione, tutta postuma, un catalogo continuo di modi diversi di morire/finire in versi. Dentro la camera o la telecamera, dentro il luogo astratto e assoluto in cui i tempi e i corpi mutano e si confondono (come in 2001, un altro (ri)esordio del 1968, di un altro regista dagli intervalli che sembrano interruzioni) e vanno oltre il carcerario luogo comune dell'immagine filmica. Come il mondo è tondo e come un bambino sul pallone troppo grande e unto bisunto consunto scivola cade grida, il cinema ruota, gira, cade, non è riflesso di nulla (si può se mai sospettare il contrario), merita di essere chiamato nel modo slittato in cui lo nominano alcuni bambini: cimena.

Tratto da: C.BENE, Opere, Bompiani, Milano 2002, pp.1547-9

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Ma il nastro è compatto, non ha crepe da allargare, crepe in cui piazzare della dinamite; il fotogramma, il suo spazio e il suo moto, procedono rigidi come un carcere di massima sicurezza. Il cinema (la pellicola) è d'acciaio blindato. Bene, presentendo questo poter al massimo riuscire il fallimento, s'accanisce non col cinema, ma col suo corpo. Non col nastro di Moebius (la sua forma), ma direttamente contro l'acciaio di cui è fatto. Ed ecco che il lavoro di Bene si era spinto oltre, rispetto al parallelo (il parallelismo all'infinito s'incontra!) lynciano, era riuscito in un minore fallimento, quasi a riuscire. Accanendosi istericamente (l'isteria di cui parla Deleuze in relazione alla pittura di Bacon) con i tacchi delle scarpe e il calore delle sigarette contro quella gabbia, quella pelle/pellicola che da Corpo al Cinema/Moebius. Abbiamo così la sequenza “salvata” (con la riserva dovuta al fatto di dover comunque con(cedere) qualcosa a questo nostra) da Bene. La pellicola calpestata e bruciata, la crepa in quell'enorme nastro avvolgente e schiacciante del cinema si apre e subentra, s'intravede/stra-vede, il bianco, l'oltre di ogni (im)possibile immagine/proiezione. Si sente (non si vede) così, in quella sequenza, si ha un sentore il bianco di una proiezione a/nel vuoto; la proiezione della macchina, proiezione del proiettore, l'unico film possibile (?) fuori dal nastro.

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delle formichine in ordinata compostezza e incoscienza dello spazio, che da infinito qual'è più non lo si trova. Il riferimento è al quadro di Escher, che a figurare l'impossibile, a sconvolgere l'occhio, si è “divertito” parecchio. Queste formichine segnano la differenza, all'interno della ripetizione, tra i due autori. Il lavoro di Lynch è quello di strisciare, tentare morbosamente con rapide giravolte, salti, scatti improvvisi da una parte all'altra, con un'epilessia rotatoria di trovare un varco in questa figura, in questa gabbia che è il nastro di Moebius, alla ricerca o di un'altra geometria ad essa esterna o di nessuna geometria, fuori comunque da questa gabbia. Le immagini del suo ultimo film sono frutto, evidente, di questi spasmi; il suo tentativo assume qualcosa di razionale, o di uno scontro con l'elemento irrazionale ma nel tentativo di ritrovare un ordine, una sua parodia, almeno. Si svolge, la sua ricerca, quasi con un programma, con una volontà esperienziale del conoscere, la ricerca del fondamento di una nuova epistemologia; il sondare questo assurdo infinito, spiegarselo prima di tentare qualche crepa. Una ricerca che dunque presuppone la ricerca di una crepa, di una mancanza, una deviazione da questa figura che gli permetta un salto fuori. Il lavoro, in questo senso, è, ovviamente, un fallimento; l'impossibile gabbia di impossibile ha anche l'impossibilità allo scardinamento; ciò che a Lynch è concesso è il riuscire a fallire. L'accanimento di Bene contro questo nastro è, invece, di un altro tipo. Il nastro di Moebius è la pellicola stessa, non il meccanismo narrativo- linguistico. Non sarà un caso che Bene dal suo film salverà proprio la scena in cui questo riconoscimento, e il necessario accanimento contro di essa, si manifestano; la scena in cui la pellicola è calpestata e bruciata. Nostra Signora dei Turchi come Mulholland Drive, tenta per circa due ore di far deflagrare questo nastro (ormai si sarà capito che il nastro è il cinema stesso), di aggirarlo, sproporzionando il meccanismo filmico, esagerandone le (im)possibilità e, l'autocritica beniana non è certo una posa, questo comporta, come nel caso di Lynch, di riuscire al massimo a riuscire il fallimento, a far, la massimo, presentire un'idea di deragliamento, un'idea di folgorazione, di deflagrazione.

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Su Salomé Uno scarto d'introduzione

<< Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può. Del genio ho sempre avuto la mancanza di talento. >> Da qua non-si-parte, non si arriva ovunque, comunque. Così l'inizio-fine della sua raccolta, differenziata, indifferente, di scorie, dell'edizione Bompiani. Scorie del già rifiut(at[t]o) morto-orale, scorie di quel flusso di cloaca a cui si è obbligati, per lo spiegarsi fisiologico. << Già dalla nostra tramontante nascita incomincia un destino >> Si è obbligati al doverci non-poter-essere. Si nasce, ed è già funesto a chi nasce il dì natale (già il recanatese gobbo ce lo ricorda), immaginarsi poi <<non nascere miliardari, si è spacciati per sempre. Ci si deve piegare al quotidiano, procurare gli stimoli al progetto; invece di s-progettare, si è dannati al disegno. >> Ma tant'è. << Cominciò ch'era finita, come in tutte le disavventure “lorenzacce”>> E proprio da Lorenzaccio, scritto dell'anno, che non-fu mai, almeno il meno possibile nel beniano s-progetto, 1986, bisogna fermarsi, in questo mio scritto, doppio-morto-orale, peccaminoso e in-scena al massimo grado, per poter almeno iniziare a tentare di capire, se proprio si vuole. Riprendo, allora, un già stato collage, in raddoppiato, già da rifiutarsi il primo, s'immagini il secondo, trascrivere, e correggo a mio piacimento << Lorenzaccio, un piccolo miracolo, che nessun saggio critico interminabile sarebbe stato in grado di produrre >>: << Lorenzaccio è quel gesto che nel suo compiersi si disapprova. Disapprova l'agire. E la Storia Medicea, dispensata, non sa di fatto stipare questo suo (?) enigma eroico; ha subìto e glorificato di peggio, questa Storia. Ma le cose sono due: o la Storia, e il suo culto imbecille, è una immaginaria redazione esemplare delle infinite possibilità estromesse dalla arbitraria arroganza dei “fatti” accaduti (infinità degli eventi abortiti): o è, comunque, un inventario di fatti senza artefici, generati, cioè, dall'incoscienza dei rispettivi attori (perchè si dia

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un'azione è necessario un vuoto della memoria) che nella esecuzione del progetto, sospesi al vuoto del loro sogno, così a lungo perseguito e e sfinito, dementi, quel progetto stesso smarrirono, (de)realizzandolo in pieno. Certosini del lavorio paziente del lucidar la trama dei preparativi, cauti, meticolosi, febbrili dell'angoscia inconfessabile dell'insonnia dell'esserci – onnipresenza inumana intollerabile del sé a se stesso -, precipitarono nell'attimo tutta una vita pensosa: il gesto. E non furono più. Per un attimo. Estromessi dalla godibilità del vuoto dalla felicità sempre invivibile; per svegliarsi subito dopo, nuovamente sovraeccitati e infelici, mascherati da zingare a cavallo – turisti o esuli poco importa – per le vie d'acqua putrida a Venezia, città termale del nostro secolo per coloro che vogliono morire. Non si può assassinare un bel niente. Tutti i Bruti sono bruti minerali in quell'attimo, che non è commendevole, non è esecrabile; perchè non è. Dunque questi non è son l'accaduto. Infinito futuro trapassato; mai presente. Non si da un delinquente. Delinquere è mancare. Delitto è il vuoto del progetto-crimine; la realtà del progetto è la sua vertigine, finalmente impensabile e vuota. Vezzeggiare un progetto è dissuadersene, svogliarlo. Si può azzardare un gesto, non mai compierlo. Ogni azione, per quanto comprensibile, è impensabile, e la Storia è un'ipotesi dell'antefatto, o il dizionario del mai accaduto. Resta il “misfatto”, di che va fiero ogni storicismo: il misconoscimento d'ogni fatto, consegnato dal vuoto all'eresia della storia irreale dell'essere. [...] Numerazione e nominazione è la Storia; storiografia dei morti che mi esclude. Vivente, io sono incomprensbile alla Storia; così come la Storia non mi riguarda. >> E così avanti, via. Completamente assentato. Per chi s'arrischia oltre, altre rivelazioni, spiegazioni, e buona lettura. Il cinema dunque dove sta in tutto ciò, o nella mancanza di un ciò? Nella pellicola che sparisce, nell'immagine mancata. Nell'immagine invisibile, nell'immagine invisa.

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Moebius (Bene-Lynch) Nostra signora dei Turchi, il bagliore di una fine, di una conclusione. Verrebbe in mente una geometria, priva di tutta la teorizzazione euclidea, o mantenendo al massimo, giusto per l'impossibilità che crea alla sua stessa geometria, creata, sembrerebbe, solo per un eccesso di zelo, una mania, il primo assioma dei suoi Elementi: 1. Il punto non ha dimensione. Da questo punto (che non c'è) le altre dimostrazioni si palesano come impossibilità; si pensi alla definizione di retta, il secondo assioma: 2. Estremi di una linea sono i punti. Si ricordi che i punti non hanno dimensione, cosa e dove (nel mai, forse) si congiungono due assenze? Questa potrebbe benissimo essere (?) una geometria beniana, priva di luogo, spazio, figure e dunque forma ecc. Ma è un'altra immagine, richiamata da Ghezzi nell'articolo commemorativo apparso sull'Unità l'indomani della (non)morte beniana (<<non può morire chi non è mai vissuto>>), il nastro di Moebius. L'infinito geometrico che si presta alla “rappresentazione” solamente come privazione, impossibilità, come inimmaginabile, come la pipa di Magritte nella lettura foucaultiana; figura di un crittogramma cancellato, di un correlarsi e rigirarsi infinito, in un loop, nel vorticare immobile (l'infinito in movimento è allo stesso tempo stasi), in un labirinto privo di mura da cui è impossibile uscire. Moebius e il suo folle volo extra-geometrico viene accostato spesso ad un autore tutt'ora operante, David Lynch, soprattutto in relazione al suo ultimo film, Mulholland Drive. Per legge dialettica l'accostamento David Lynch-Carmelo Bene è dunque imposta. Il nastro di Moebius è una figura impenetrabile, inattraversabile, una figura a cui si è costretti, in cui ci si può al massimo muovere come

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dimostrazione, quindi dalla colpa della vita, dalla possibilità di barbarie e follia. Assente è dunque la colpa in quanto tale. Non sarà un caso che Bene affermerà: <<Se quello che si rimpiange in Nostra Signora è che non c'è né ingiustizia né nemici, che si rimpiange una barbarie assente, cioè che non si può essere matti, il peccato è scongiurato. È la prima opera occidentale senza peccato.>> Amen.

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Allora tutto sta nel finale di una Salomè, di uno spellarsi, smascherarsi a strati del proprio volto, come ci dice Ghezzi, che è lo spellarsi, scalfirsi, raschiarsi, strato dopo strato, dell'infinitamente lucida gamma di colori, di una sfavillante Salomè, che convergono in-fine nel flusso di un bianco, di un venir meno, un bianco salvifico-cadaverico, salvifico in quanto cadaverico. Sarà un caso che la Salomè chiuda la brevissima parentesi (una pausa tra parentesi per giunta, parentesi di parentesi, dunque) del Bene in cinema o del cinema di Bene? La Cinematografia si riassume in breve: Ventriloquio, mediometraggio, produzione C.B., 1967 Hermitage, mediometraggio, produzione Nexus Film, 1968 Nostra Signora dei Turchi, lungometraggio, produzione C.B., 1968 Capricci, lungometraggio, da Arden of Feversham, produzione BBB (Barcelloni, Bene, Brunet), Italia, 1968 Don Giovanni, lungometraggio, produzione C.B., 1971 Salomè, lungometraggio, Cinecittà, prodzione C.B., 1972 Un Amleto di meno, Cinecittà, produzione C.B. e “Donatello cinematografica”, 1973 Può sembrar strano che si sia detto, Salomè ultima opera cinematografica e qui vi sia Un Amleto di meno. Ma oltre ad essere un Amleto è anche un Film di meno, è un anticipo al post-cinema, e non post come genere, ma come un re-inizio, abbandono dunque (ovviamente fallimentare si esordisce male nell'inutilità del trionfo), è già un ritorno al teatro questa mancanza di Amleto, troppo lontano dal cinema, o cinema se non come proiezione, ma il cinema è ben altra cosa che sale e poltroncine. Già Salomè è già poco Film, e non è ancora un caso che sparisca, oltre il film, oltre il cinema, oltre il cinema-immagine e perfettamente dentro il Cinema Bene quindi. Quindi Salomè sarà da considerarsi un ultima oper-azione del suo breve lucido deragliare il cinema. Del suo cinema così inteso: << Il cinema come immagine acustica = in-con-sequenza delle riprese e indisciplina chirurgica del montaggio >> Un immagine parlante, o per meglio dire, parlata.

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<< soltanto al linguaggio era concesso simulare il presente, misurando nel ritmo l'armonia e la vertigine del divenire >> Sempre da quel Lorenzaccio perennemente presente-assente in tutta l'epopea-mancata di Bene. Una voce, non un parola si badi, una voce e basta, un minimo di voce anzi, un soffio, un sussurro, che si sovrappone per giunta. Si sovrappone all'infinito del suo già detto e dirsi e del non ancora detto che diventerà in seguito allora ripetuto. Come le mille e nessuna voce di Salomè. Come la luna che ritorna, come un’anguria che mima parodica decapitazione, non quella di Iokanaan, ma quella mancata (riuscitissima) del film stesso. Come il silenzio assordante di un film che si vuole irriflesso in occhi di spettatori pronti a sentire con gli occhi, più che a vedere. Altro che occhi tagliati. Non più Cani Andalusi o di altra razza, ma sfondi bianchi su sfondi bianchi invisibili a perdere e a perdersi. Lo spastico sezionare in montaggio che diventa rapidissimo-rapitissimo sovrapporsi in retina di immagini catturate, d'immagini chiuse in specchio, in immagini in ecesso, come in eccesso è tutto in questo film, che diventa pura acustica, ultimo flatus di una breve carriera in Cinema che si risolve in una fumata bianca, senza elezioni o erezioni.

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<< Negli scritti di Hitler c'è una constatazione interessante. Suona così: “Per valutare il disfacimento d'un corpo è indispensabile rapportarne la gravità all'altezza da cui è precipitato”... La traiettoria dunque. Ecco, in un film fra i tanti, la caduta d'un corpo-oggetto include la ripresa di quest'ultimo dal suo incipit allo schianto, compreso (eccome!) l'esaltato, evidenziatissimo inter-tempo del percorso (magari complice il rallenti). Una dilatazione crono-temporale in ossequio all'evoluzione aerea disgraziata del manichino-stuntman: cinquanta o cento fotogrammi circa, nel montaggio, consacrati al “descritto” dell'espressione filmica uguale alla volgarità di un'immagine non sottratta all'indifferenza dello spazio-tempo. Finitudine brevissima. Raccon(ten)tino gravitazionale dell'agire-patire. Cinema d'accatto. l'immediatezza dell'atto è così spacciata. Come ripristinarla? È presto detto (fatto): montare inizio-fine dell'incidente, sopprimendone la traiettoria (verticalità tratteggiata dell'altezza nelle dimostrazioni geometriche gessate sulla lavagna scolastica): quasi un singolo fotogramma del corpo-oggetto, in alto (aprassia precipite) e a terra (schianto). Cosa ho soppresso se non l'intervallo? In Bibì Shakespeare, Amleto spiega il cinema ad Orazio:

...Sarà tra poco. L'intervallo è mio.

E la vita d'un uomo non è che il tempo di dire “uno”...

... V'è una speciale provvidenza

nella caduta d'un passero. Se è ora, non è a venire;

se è a venire, non sarà ora; se non è ora, pure sarà.

Star pronti è tutto, ché se nessuno sa quello che lascia,

cosa importa lasciar prima del tempo? Lascia andare.

L'intervallo è il fra-tempo della vita impensata!>> Ecco che la pellicola precipita, ripetutamente, da un balcone. Senza la traiettoria che porga, violentemente, la luce da uno schermo-gabbia agli occhi-paraocchi dello spettatore. Si svolge (?), a-viene (alfa privativo) il film, allora, in una sospensione in cui è pre-giudicato il giudizio, in cui si solleva dalla colpa della

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Su Nostra Signora dei Turchi

L'ossario di un temp[(i)o] Si manifesta la volgarità dell'immagine nel rifiuto del rappresentabile, nella visione (cieca) dell'irrappresentabile. Oltre tutto sta solo la musica, sempre al di là del mare su cui si affaccia il Palazzo Moresco, che nonostante non creduto, ci racconta la sua storia. <<Se non fossi un palazzo, mi crederebbero>> La sua “storia” che non si svolge, si ricadrebbe nel solita fabula ordita sotto pressione del folle Aloysius Lilius e del suo calcolo calendariale. Aloysius Lilius quel <<mascalzone patentato, medico e astronomo>> a cui <<Gregorio XIII comissionò nel 1582 la stesura del progetto da cui sortì quell'orrore metafisico che è il calendario gregoriano, riforma contabilmente più precisina del precedente calendario giuliano.>> Il calendario <<una convenzione che emana lezzo ontologico>>, e chiunque voglia parlare d'essere e ontologia si rivolga, su invito dello stesso Bene, al prof. Heidegger o vada pure a quel paese a farsi un thè. Dunque questa “storia” dove, quando si svolge? Non si svolge e non volge. <<Importanza in Nostra Signora dei Turchi è che tutto quanto è avvenire è già passato, che non è un cominciamento di qualcosa, è già il subito dopo della fine. Non soltanto per uno sciocco valore profetico, da apprendista stregone che “indovina”. Come in un passo dei Vangeli: “Tutte queste... catastrofi avverranno, ma la fine non sarà subito dopo...” (la fine)>> La fine arriva sempre in ritardo, quando nulla è ancora iniziato. Ecco Nostra Signora dei Turchi e l'autobiografia parodiata di un Palazzo, d'una parodiata interiorità di un chissàchì. Si tenga presente la distinzione autobiografia e vita. L'autobiografia è il nostro tracciarci, la vita sta sempre altrove, qualche volta, raramente, quasi mai, la si sfiora, il resto, tutto, è autobiografia. Nostra Signora dei Turchi o d'una parodiata autobiografia/interiorità di chissàchì castello/deserto (cattedrale ricolma d'ossa/sabbia), in una caduta senza traiettoria, il massimo dell'azione:

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su Salomè _enrico ghezzi_ Una cabina di telefono al Polo Nord, o al Polo Sud, un trillo prolungato, un uomo che sbuca dalla tormenta e risponde trafelato. Potrebbe essere una gag alla Blake Edwards, o meglio alla Jerry Lewis. Spostata in una situazione da “Posto pubblico nel cosmo” sarebbe una parodia startrekubrik. Ma un oggettino come un telefono cellulare satellitare già rende mentalmente e narrativamente verosimili queste gag, le degagghizza. Un piccolo appiglio, o un appeal di improbabilità, ce lo darebbe ancora il tecnico di computer che, annoiato dalla routine, telefonasse a un antenato nel Seicento, trovandolo impegnato in una sanguinolenta battaglia. Anche quello squillo atterrerebbe però in un campo di fantastico probabile, con un tocco di commedia tecnologica in più rispetto al meccanismo geniale dei back to the fucture. Non so perchè, è questo telefono ovunque, questa voce senza confini né di tempo né di spazio, la prima immagine che mi arriva ripensando al cinema di Carmelo Bene. Come una falsa pista, o l'intermittenza di un altro discorso. O per troppo precisa assimilazione dell'autore alla sua voce, a questo tamburoflauto così estremo e così estenuatamente modulato da sostituire o costituire da solo tutto un teatro; non teatro di parola né di lingua ma di voce, gioco e scrittura e mortale folgorazione fisica in cui la parola lingua discorso precipitano e si manifestano in materia sonora; legata al corpo, suo fiato negativo, suo doppio, sua eco mediante i meccanismi della fonazione, me più forte di esso, più leggera, più antica e più intensa. Il prodigio teatrale di Bene è questo, di risalire oltre la storia e oltre l'origine, in una vertigine di ricapitolazione che non salta la cultura ma la esalta in una serie di maschere tutte presto bruciate strappate spellate. Evitabilmente (per fortuna non evitata) è una genealogia biblica (quella di Giobbe) a aprire in voce il cinema di Bene, nel cortometraggio Hermitage. Un inizio che è già un dopo, un a solo sperimentale, una “prova” per Nostra Signora dei Turchi girata interamente in una suite 804 di un Hotel Hermitage che è anche subito un museo, il museo di se stesso dell'autore Carmelo Bene che si produce in una colta pre-parodia di Shining (sembrano sempre secoli, tra un film e l'altro, ma sono poco più di dieci anni). Proprio il corpo, la faccia, le smorfie di Carmelo Bene in Hermitage rammentano Jerry Lewis e la sua big mouth, proiettano verso l'ipotesi di gag sul viaggio nel tempo sgretolata dal viaggio stesso. E pensare oggi il cinema di Bene, quel cinema che potremmo considerare stivato

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congelato nei suoi film, procura sfasamenti temporali. Racchiuso in cinque/sei anni, tra il 1968 e 1972, ha la compatezza di un tuffo raggrupato e l'esplosività di un fuoco d'artificio. Sulla scena storica del cinema (e ancor più, del cinema italiano) è apparso, ha volteggiato (meglio: è volteggiato), è lussureggiato, è scomparso. Dal suo ultimo film sono passati fino a oggi gli stessi anni che distava il suo Nostra Signora dei Turchi da Roma città aperta. Non è più un'interruzione, ma il vuoto che si fa comunque intorno a un'opera o a una vita (e che si ha a volte l'impudenza – ma più spesso la debolezza – di chiamare “storia”). Non più “venti anni dopo”, ma vent'anni prima. L'opera ormai resta, ci guarda, e noi siamo costretti o a rammemorarlo a infrangerla nella rivisione-revisione (ecco uno dei pochi film di cui rimpiango la prima volta, Nostra Signora..., che invidio a un giovane a un incolto a un curioso come possibilità, come riaperturà degli occhi). “... il labbro strappato, come mi capita di fare con passione archeologica, e quel pò di sangue che colava, finito di vedere Salomè di Carmelo Bene, un film che ho amato molto e che mi è riparso di nuovo capitale. Capitale anche nel suo essere leggero, forse il più leggero dei film di Carmelo Bene, perfino più di Capricci, con quel titolo. Non è vero comunque che sia leggero. È leggero perchè sembra, rivisto oggi, l'antenato, l'inventore del video-clip da una parte, del cinem di Almodòvar dall'altra: tutto il cnema di Almodòvar è fortunatamente contenuto in due o tre scene di questo film di Bene; e direi, da un punto di vista visivo, anche superato. Il film, oltre al suo punto di partenza teatrale, che nel testo è molto più evidente che negli altri film di Bene (a pare forse Un Amleto di meno, e Don Giovanni), contiene due o tre frasi capitali, come questo terrore alla fine del movimento blasfemo, importantissimo nel film: questa blasfemia generalizzata, che porta al rifiuto dell'idea di risuscitare i morti. Va bene ogni miracolo, ogni mutazione, ogni realtà virtuale, ogni reincarnazione, ma non risuscitare i morti”: si alle trasmutazioni, no alla resurrezione dei morti. Infatti l fine del film è “comincio ad avere paura”: la paura come unica era intensità, che alla fine si libera da questo film di corpi, di pezzi di corpi, di inquadrature singole di nudo, di natiche, di bocche, di seni... Il film stesso è sia un corpo spezzettato e rimontato continuamente, sia un corpo vocale: i dialoghi ridetti, le frasi che tornano, smozzicate o ridette in modo diverso. E poi, se ci pensate, una specie di fine: di fine anticipata del cinema di Carmelo Bene, anche se poi sono venuti altri film, che è questo “Non voglio più vedere nulla”, questo “Basta”, questa fine della luce, questa fine della visione.

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visione-ascolto, di occhi strappati che possono solo permettersi di orecchiare la visione, perdendo l'immagine. l'immagine si (dis)fa allora in: <<Il cinema come immagine acustica = in-con-sequenza delle riprese e indisciplina chirurgica del montaggio e non resta che stare ad ascoltare, con gli occhi strabuzzati ma (ancora Kubrik ci viene in soccorso) anche, eyes wide shut. Gli occhi nella visione estatica sono la vista [<<gli occhi hanno visto la vista>>], non ci sono più [<<miracolo è la trasparenza>>], che importa allora se chiusi o aperti?

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*****

ON. MINISTERO DEL TURISMO E SPETTACOLO

DIVISIONE GENERALE PROSA via della Fenatula 51, ROMA

Dopo quello che ho fatto,

io mi domando

*****

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Su Nostra Signora dei Turchi

[qual(cosa)]

<<è tanto, sai, è tanto se abbiamo salvato gli occhi!>> C.B.

Shining Suite

Prima dell'immagine un vetro, doppio, due vetri, spessi, vetri al cubo, e poi l'immagine, vetro, tutto alla terza, al cubo, in-cubo. L'incubo dell'immagine. E che resta, del filmato (da per sempre) se non il suo rifiuto o il salvataggio di una prima (impossibile) stra-visione. Il primo occhio, in una visione “Shining”, in un Hotel, perduto tra monti (chissà dove), il cui nome la dice lunga, Overlook, stra-vedere, appunto. Unico cinema che può permettersi di contenere Nostra Signora dei Turchi, con pareti fluide da poter seguire questi fotogrammi slittanti. L'unico Hotel che riesce a contenere un Palazzo Moresco e un ossario. C'è da credere che il cimitero non fosse indiano, ma fosse l'ossario della Cattedrale Kitsch, invece, in cui ancora membrane e occhi sono visibili, in cui il palazzo stesso è la sua “storia”, la sua autobiografia (<<se non fossi un palazzo, mi crederebbero>>). In un clima in cui anche il poco “lavoro” [<<all works and non play makes Jack a dull boy>>], la sospensione della persona stessa, rischiano di portare alla follia, ossia, riportare alla sanità/santità, Nostra Signora dei Turchi si lascia esperire, prima di terminare ai piedi di una madonna che ci ricorda la bolletta da pagare, anche a noi. Impossibile, la replica, invece, è al macero, nello sciogliersi, final(ment)e, dell'ustione della pellicola/pelle come quell'unica scena che Bene, nel mai giunto giorno del giudizio, salvava. La pellicola bruciata e calpestata. Immagine vilipesa. Nostra Signora dei Turchi o dell'immagine vilipesa, possibilissimo sottotitolo a marcare lo sproporzionato tentativo di eccedere, di giungere al sopraggiungere di una melodia agli occhi, l'immagine e la

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E poi questo farsi grattar via la pelle. Ci viene in mente una cosa successiva: il clip No Money Down, di Lou Reed, fatto da Godley and Creme, che abbiamo trasmesso molte volte a Fuoriorario, a Schegge di futuro. Questo farsi strappar via il volto, la maschera. Non è che poi sotto la maschera ci sia il volto: no; il volto è, ovviamente, una maschera infinita, composta da strati diversi di maschere: strati diversi della stessa maschera. In fondo, farsi strappar via questa pelle, questa parte di volto, è una sorta di sostituzione della decapitazione, più volte allusa, richiesta, come da storia originaria, in fin dei conti mai vista: allusa con il taglio del cocomero. Invece abbiamo questa sorta di decapitazione, c'è una specie di eliminazione del volto e della testa. Possiamo immaginare che, se il film fosse stato realizzato in epoca di immagini computerizzate o di realtà virtuale, probabilmente avremmo davvero visto scomparire quel volto: non si sarebbe potuto vedere più nulla perchè non ci sarebbero più stati gli occhi; sarebbe stata pura voce: quella straordinaria di Carmelo Bene*. E poi queste immagini, questi colori, tra Fassbinder e Almodòvar, questa artificialità spintissima, queste immagini che sono quasi sempre anche specchio, lustrino di se stesse, che fanno pensare ai colori di The Trip, un film di droga, al film sulla droga di Corman, Il serpente di fuoco, oppure alla luna, questo suo tornare ironico alla luna: la luna, la luna, la luna... il cerchio, il sedere, le natiche. La luna che fa pensare perfino alla Luna, così diversa, tenera, la luna dell'infanzia, di Bernardo Bertolucci. Questo per forzare in molte direzioni questo film bellissimo. Buona visione. * N.B. La copia del film in tale occasione non era stata – chissà perchè – solarizzata nel lungo finale, procedimento, questo, che, secondo le indicazioni tecniche dell'autore, è da effettuarsi in fase di stampa, come testimoniato dalle molteplici copie in circolazione.

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Su Salomè

Un caso necessario Il miglior saggio sul cinema di Bene, al di là dell’apparente provocazione del paradosso, è il saggio su Bacon di G. Deleuze (G. Deleuze “F. Bacon. Logica della sensazione” ed. Quodlibet), a dimostrarlo i seguenti passaggi che “parlano”, attraversando e amplificando quei buchi neri che sono il linguaggio, dell’ultima sequenza, quella dello spellamento d’Erode in Salomé: <<Come ritrattista Bacon [Bene] insegue un progetto molto speciale: disfare il volto, ritrovare o fare emergere la testa sotto il volto>> Questa necessità della testa/corpo è la stessa che lo stesso Deleuze, nelle pagine di “Cinema 2. L’immagine-Tempo” (Ubulibri) pone come prerogativa del cinema beniano [vedi il saggio [titolo] su Nostra Signora dei Turchi, in cui le pagine del saggio citato sono interamente riportate] Ancora scintille/stridere sparse: <<Il volto sottoposto alle operazioni di pulitura e di spazzolatura che lo disorganizzano, ha perso la sua forma, e al suo posto è emersa una testa>> La testa nell’invisibile bianco abbagliante di Erode nella conclusione di Salomé.

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Una premessa: È necessario mancare il saggio, sbagliarlo, quando si vuole trattare l’opera di un “autore” (<<non si è autori di alcunché>>) come Bene. Quindi più vicino possibile si tenterà di allontanarsi da una ricerca classificatoria, di piegare tutto alla spiegazione, al quotidi(ano), in una sola parola, alla consolazione.

Bene-Deserto Il Deserto [il là (dove?), senza diapason, in cui si ritrovano le cose mai perdute] non dà frutti, dà luoghi, d’altrove, si è condannati all’erranza-errore, e un eventuale semina desertica, dissemina sabbia, deserto, ancora. Da Deserto-Bene (non dal deserto-di-Bene) non si possono avere mele da mordere o vino per ebbrezze, si può ottenere solo sabbia-Bene-Deserto. Da ciò l’obbligo (sconfitta/vittoria) di mancare l’esordio-semina dell’”autore”-saggista (parassita dell’altrui genio) e tentare di filtrare/flirtare, tra dita di sabbia, la sabbia-Bene e cercare un momento d’oasi-deserto in cui potersi abbeverare, la lingua secca dal respiro, di sabbia. Si è tentato, fallimento è comunque, sarà da valutare almeno la riuscita di questo “mio” fallimento, di questo approccio all’altrove, un approccio che ha dell’improbabile, se non come tentativo di un tuffo nell’acquasantiera.

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Su Salomè

Un caso necessario Il miglior saggio sul cinema di Bene, al di là dell’apparente provocazione del paradosso, è il saggio su Bacon di G. Deleuze (G. Deleuze “F. Bacon. Logica della sensazione” ed. Quodlibet), a dimostrarlo i seguenti passaggi che “parlano”, attraversando e amplificando quei buchi neri che sono il linguaggio, dell’ultima sequenza, quella dello spellamento d’Erode in Salomé: <<Come ritrattista Bacon [Bene] insegue un progetto molto speciale: disfare il volto, ritrovare o fare emergere la testa sotto il volto>> Questa necessità della testa/corpo è la stessa che lo stesso Deleuze, nelle pagine di “Cinema 2. L’immagine-Tempo” (Ubulibri) pone come prerogativa del cinema beniano [vedi il saggio [titolo] su Nostra Signora dei Turchi, in cui le pagine del saggio citato sono interamente riportate] Ancora scintille/stridere sparse: <<Il volto sottoposto alle operazioni di pulitura e di spazzolatura che lo disorganizzano, ha perso la sua forma, e al suo posto è emersa una testa>> La testa nell’invisibile bianco abbagliante di Erode nella conclusione di Salomé.

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Una premessa: È necessario mancare il saggio, sbagliarlo, quando si vuole trattare l’opera di un “autore” (<<non si è autori di alcunché>>) come Bene. Quindi più vicino possibile si tenterà di allontanarsi da una ricerca classificatoria, di piegare tutto alla spiegazione, al quotidi(ano), in una sola parola, alla consolazione.

Bene-Deserto Il Deserto [il là (dove?), senza diapason, in cui si ritrovano le cose mai perdute] non dà frutti, dà luoghi, d’altrove, si è condannati all’erranza-errore, e un eventuale semina desertica, dissemina sabbia, deserto, ancora. Da Deserto-Bene (non dal deserto-di-Bene) non si possono avere mele da mordere o vino per ebbrezze, si può ottenere solo sabbia-Bene-Deserto. Da ciò l’obbligo (sconfitta/vittoria) di mancare l’esordio-semina dell’”autore”-saggista (parassita dell’altrui genio) e tentare di filtrare/flirtare, tra dita di sabbia, la sabbia-Bene e cercare un momento d’oasi-deserto in cui potersi abbeverare, la lingua secca dal respiro, di sabbia. Si è tentato, fallimento è comunque, sarà da valutare almeno la riuscita di questo “mio” fallimento, di questo approccio all’altrove, un approccio che ha dell’improbabile, se non come tentativo di un tuffo nell’acquasantiera.

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Su Nostra Signora dei Turchi

[qual(cosa)]

<<è tanto, sai, è tanto se abbiamo salvato gli occhi!>> C.B.

Shining Suite

Prima dell'immagine un vetro, doppio, due vetri, spessi, vetri al cubo, e poi l'immagine, vetro, tutto alla terza, al cubo, in-cubo. L'incubo dell'immagine. E che resta, del filmato (da per sempre) se non il suo rifiuto o il salvataggio di una prima (impossibile) stra-visione. Il primo occhio, in una visione “Shining”, in un Hotel, perduto tra monti (chissà dove), il cui nome la dice lunga, Overlook, stra-vedere, appunto. Unico cinema che può permettersi di contenere Nostra Signora dei Turchi, con pareti fluide da poter seguire questi fotogrammi slittanti. L'unico Hotel che riesce a contenere un Palazzo Moresco e un ossario. C'è da credere che il cimitero non fosse indiano, ma fosse l'ossario della Cattedrale Kitsch, invece, in cui ancora membrane e occhi sono visibili, in cui il palazzo stesso è la sua “storia”, la sua autobiografia (<<se non fossi un palazzo, mi crederebbero>>). In un clima in cui anche il poco “lavoro” [<<all works and non play makes Jack a dull boy>>], la sospensione della persona stessa, rischiano di portare alla follia, ossia, riportare alla sanità/santità, Nostra Signora dei Turchi si lascia esperire, prima di terminare ai piedi di una madonna che ci ricorda la bolletta da pagare, anche a noi. Impossibile, la replica, invece, è al macero, nello sciogliersi, final(ment)e, dell'ustione della pellicola/pelle come quell'unica scena che Bene, nel mai giunto giorno del giudizio, salvava. La pellicola bruciata e calpestata. Immagine vilipesa. Nostra Signora dei Turchi o dell'immagine vilipesa, possibilissimo sottotitolo a marcare lo sproporzionato tentativo di eccedere, di giungere al sopraggiungere di una melodia agli occhi, l'immagine e la

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E poi questo farsi grattar via la pelle. Ci viene in mente una cosa successiva: il clip No Money Down, di Lou Reed, fatto da Godley and Creme, che abbiamo trasmesso molte volte a Fuoriorario, a Schegge di futuro. Questo farsi strappar via il volto, la maschera. Non è che poi sotto la maschera ci sia il volto: no; il volto è, ovviamente, una maschera infinita, composta da strati diversi di maschere: strati diversi della stessa maschera. In fondo, farsi strappar via questa pelle, questa parte di volto, è una sorta di sostituzione della decapitazione, più volte allusa, richiesta, come da storia originaria, in fin dei conti mai vista: allusa con il taglio del cocomero. Invece abbiamo questa sorta di decapitazione, c'è una specie di eliminazione del volto e della testa. Possiamo immaginare che, se il film fosse stato realizzato in epoca di immagini computerizzate o di realtà virtuale, probabilmente avremmo davvero visto scomparire quel volto: non si sarebbe potuto vedere più nulla perchè non ci sarebbero più stati gli occhi; sarebbe stata pura voce: quella straordinaria di Carmelo Bene*. E poi queste immagini, questi colori, tra Fassbinder e Almodòvar, questa artificialità spintissima, queste immagini che sono quasi sempre anche specchio, lustrino di se stesse, che fanno pensare ai colori di The Trip, un film di droga, al film sulla droga di Corman, Il serpente di fuoco, oppure alla luna, questo suo tornare ironico alla luna: la luna, la luna, la luna... il cerchio, il sedere, le natiche. La luna che fa pensare perfino alla Luna, così diversa, tenera, la luna dell'infanzia, di Bernardo Bertolucci. Questo per forzare in molte direzioni questo film bellissimo. Buona visione. * N.B. La copia del film in tale occasione non era stata – chissà perchè – solarizzata nel lungo finale, procedimento, questo, che, secondo le indicazioni tecniche dell'autore, è da effettuarsi in fase di stampa, come testimoniato dalle molteplici copie in circolazione.

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congelato nei suoi film, procura sfasamenti temporali. Racchiuso in cinque/sei anni, tra il 1968 e 1972, ha la compatezza di un tuffo raggrupato e l'esplosività di un fuoco d'artificio. Sulla scena storica del cinema (e ancor più, del cinema italiano) è apparso, ha volteggiato (meglio: è volteggiato), è lussureggiato, è scomparso. Dal suo ultimo film sono passati fino a oggi gli stessi anni che distava il suo Nostra Signora dei Turchi da Roma città aperta. Non è più un'interruzione, ma il vuoto che si fa comunque intorno a un'opera o a una vita (e che si ha a volte l'impudenza – ma più spesso la debolezza – di chiamare “storia”). Non più “venti anni dopo”, ma vent'anni prima. L'opera ormai resta, ci guarda, e noi siamo costretti o a rammemorarlo a infrangerla nella rivisione-revisione (ecco uno dei pochi film di cui rimpiango la prima volta, Nostra Signora..., che invidio a un giovane a un incolto a un curioso come possibilità, come riaperturà degli occhi). “... il labbro strappato, come mi capita di fare con passione archeologica, e quel pò di sangue che colava, finito di vedere Salomè di Carmelo Bene, un film che ho amato molto e che mi è riparso di nuovo capitale. Capitale anche nel suo essere leggero, forse il più leggero dei film di Carmelo Bene, perfino più di Capricci, con quel titolo. Non è vero comunque che sia leggero. È leggero perchè sembra, rivisto oggi, l'antenato, l'inventore del video-clip da una parte, del cinem di Almodòvar dall'altra: tutto il cnema di Almodòvar è fortunatamente contenuto in due o tre scene di questo film di Bene; e direi, da un punto di vista visivo, anche superato. Il film, oltre al suo punto di partenza teatrale, che nel testo è molto più evidente che negli altri film di Bene (a pare forse Un Amleto di meno, e Don Giovanni), contiene due o tre frasi capitali, come questo terrore alla fine del movimento blasfemo, importantissimo nel film: questa blasfemia generalizzata, che porta al rifiuto dell'idea di risuscitare i morti. Va bene ogni miracolo, ogni mutazione, ogni realtà virtuale, ogni reincarnazione, ma non risuscitare i morti”: si alle trasmutazioni, no alla resurrezione dei morti. Infatti l fine del film è “comincio ad avere paura”: la paura come unica era intensità, che alla fine si libera da questo film di corpi, di pezzi di corpi, di inquadrature singole di nudo, di natiche, di bocche, di seni... Il film stesso è sia un corpo spezzettato e rimontato continuamente, sia un corpo vocale: i dialoghi ridetti, le frasi che tornano, smozzicate o ridette in modo diverso. E poi, se ci pensate, una specie di fine: di fine anticipata del cinema di Carmelo Bene, anche se poi sono venuti altri film, che è questo “Non voglio più vedere nulla”, questo “Basta”, questa fine della luce, questa fine della visione.

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visione-ascolto, di occhi strappati che possono solo permettersi di orecchiare la visione, perdendo l'immagine. l'immagine si (dis)fa allora in: <<Il cinema come immagine acustica = in-con-sequenza delle riprese e indisciplina chirurgica del montaggio e non resta che stare ad ascoltare, con gli occhi strabuzzati ma (ancora Kubrik ci viene in soccorso) anche, eyes wide shut. Gli occhi nella visione estatica sono la vista [<<gli occhi hanno visto la vista>>], non ci sono più [<<miracolo è la trasparenza>>], che importa allora se chiusi o aperti?

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ON. MINISTERO DEL TURISMO E SPETTACOLO

DIVISIONE GENERALE PROSA via della Fenatula 51, ROMA

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Su Nostra Signora dei Turchi

L'ossario di un temp[(i)o] Si manifesta la volgarità dell'immagine nel rifiuto del rappresentabile, nella visione (cieca) dell'irrappresentabile. Oltre tutto sta solo la musica, sempre al di là del mare su cui si affaccia il Palazzo Moresco, che nonostante non creduto, ci racconta la sua storia. <<Se non fossi un palazzo, mi crederebbero>> La sua “storia” che non si svolge, si ricadrebbe nel solita fabula ordita sotto pressione del folle Aloysius Lilius e del suo calcolo calendariale. Aloysius Lilius quel <<mascalzone patentato, medico e astronomo>> a cui <<Gregorio XIII comissionò nel 1582 la stesura del progetto da cui sortì quell'orrore metafisico che è il calendario gregoriano, riforma contabilmente più precisina del precedente calendario giuliano.>> Il calendario <<una convenzione che emana lezzo ontologico>>, e chiunque voglia parlare d'essere e ontologia si rivolga, su invito dello stesso Bene, al prof. Heidegger o vada pure a quel paese a farsi un thè. Dunque questa “storia” dove, quando si svolge? Non si svolge e non volge. <<Importanza in Nostra Signora dei Turchi è che tutto quanto è avvenire è già passato, che non è un cominciamento di qualcosa, è già il subito dopo della fine. Non soltanto per uno sciocco valore profetico, da apprendista stregone che “indovina”. Come in un passo dei Vangeli: “Tutte queste... catastrofi avverranno, ma la fine non sarà subito dopo...” (la fine)>> La fine arriva sempre in ritardo, quando nulla è ancora iniziato. Ecco Nostra Signora dei Turchi e l'autobiografia parodiata di un Palazzo, d'una parodiata interiorità di un chissàchì. Si tenga presente la distinzione autobiografia e vita. L'autobiografia è il nostro tracciarci, la vita sta sempre altrove, qualche volta, raramente, quasi mai, la si sfiora, il resto, tutto, è autobiografia. Nostra Signora dei Turchi o d'una parodiata autobiografia/interiorità di chissàchì castello/deserto (cattedrale ricolma d'ossa/sabbia), in una caduta senza traiettoria, il massimo dell'azione:

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su Salomè _enrico ghezzi_ Una cabina di telefono al Polo Nord, o al Polo Sud, un trillo prolungato, un uomo che sbuca dalla tormenta e risponde trafelato. Potrebbe essere una gag alla Blake Edwards, o meglio alla Jerry Lewis. Spostata in una situazione da “Posto pubblico nel cosmo” sarebbe una parodia startrekubrik. Ma un oggettino come un telefono cellulare satellitare già rende mentalmente e narrativamente verosimili queste gag, le degagghizza. Un piccolo appiglio, o un appeal di improbabilità, ce lo darebbe ancora il tecnico di computer che, annoiato dalla routine, telefonasse a un antenato nel Seicento, trovandolo impegnato in una sanguinolenta battaglia. Anche quello squillo atterrerebbe però in un campo di fantastico probabile, con un tocco di commedia tecnologica in più rispetto al meccanismo geniale dei back to the fucture. Non so perchè, è questo telefono ovunque, questa voce senza confini né di tempo né di spazio, la prima immagine che mi arriva ripensando al cinema di Carmelo Bene. Come una falsa pista, o l'intermittenza di un altro discorso. O per troppo precisa assimilazione dell'autore alla sua voce, a questo tamburoflauto così estremo e così estenuatamente modulato da sostituire o costituire da solo tutto un teatro; non teatro di parola né di lingua ma di voce, gioco e scrittura e mortale folgorazione fisica in cui la parola lingua discorso precipitano e si manifestano in materia sonora; legata al corpo, suo fiato negativo, suo doppio, sua eco mediante i meccanismi della fonazione, me più forte di esso, più leggera, più antica e più intensa. Il prodigio teatrale di Bene è questo, di risalire oltre la storia e oltre l'origine, in una vertigine di ricapitolazione che non salta la cultura ma la esalta in una serie di maschere tutte presto bruciate strappate spellate. Evitabilmente (per fortuna non evitata) è una genealogia biblica (quella di Giobbe) a aprire in voce il cinema di Bene, nel cortometraggio Hermitage. Un inizio che è già un dopo, un a solo sperimentale, una “prova” per Nostra Signora dei Turchi girata interamente in una suite 804 di un Hotel Hermitage che è anche subito un museo, il museo di se stesso dell'autore Carmelo Bene che si produce in una colta pre-parodia di Shining (sembrano sempre secoli, tra un film e l'altro, ma sono poco più di dieci anni). Proprio il corpo, la faccia, le smorfie di Carmelo Bene in Hermitage rammentano Jerry Lewis e la sua big mouth, proiettano verso l'ipotesi di gag sul viaggio nel tempo sgretolata dal viaggio stesso. E pensare oggi il cinema di Bene, quel cinema che potremmo considerare stivato

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<< soltanto al linguaggio era concesso simulare il presente, misurando nel ritmo l'armonia e la vertigine del divenire >> Sempre da quel Lorenzaccio perennemente presente-assente in tutta l'epopea-mancata di Bene. Una voce, non un parola si badi, una voce e basta, un minimo di voce anzi, un soffio, un sussurro, che si sovrappone per giunta. Si sovrappone all'infinito del suo già detto e dirsi e del non ancora detto che diventerà in seguito allora ripetuto. Come le mille e nessuna voce di Salomè. Come la luna che ritorna, come un’anguria che mima parodica decapitazione, non quella di Iokanaan, ma quella mancata (riuscitissima) del film stesso. Come il silenzio assordante di un film che si vuole irriflesso in occhi di spettatori pronti a sentire con gli occhi, più che a vedere. Altro che occhi tagliati. Non più Cani Andalusi o di altra razza, ma sfondi bianchi su sfondi bianchi invisibili a perdere e a perdersi. Lo spastico sezionare in montaggio che diventa rapidissimo-rapitissimo sovrapporsi in retina di immagini catturate, d'immagini chiuse in specchio, in immagini in ecesso, come in eccesso è tutto in questo film, che diventa pura acustica, ultimo flatus di una breve carriera in Cinema che si risolve in una fumata bianca, senza elezioni o erezioni.

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<< Negli scritti di Hitler c'è una constatazione interessante. Suona così: “Per valutare il disfacimento d'un corpo è indispensabile rapportarne la gravità all'altezza da cui è precipitato”... La traiettoria dunque. Ecco, in un film fra i tanti, la caduta d'un corpo-oggetto include la ripresa di quest'ultimo dal suo incipit allo schianto, compreso (eccome!) l'esaltato, evidenziatissimo inter-tempo del percorso (magari complice il rallenti). Una dilatazione crono-temporale in ossequio all'evoluzione aerea disgraziata del manichino-stuntman: cinquanta o cento fotogrammi circa, nel montaggio, consacrati al “descritto” dell'espressione filmica uguale alla volgarità di un'immagine non sottratta all'indifferenza dello spazio-tempo. Finitudine brevissima. Raccon(ten)tino gravitazionale dell'agire-patire. Cinema d'accatto. l'immediatezza dell'atto è così spacciata. Come ripristinarla? È presto detto (fatto): montare inizio-fine dell'incidente, sopprimendone la traiettoria (verticalità tratteggiata dell'altezza nelle dimostrazioni geometriche gessate sulla lavagna scolastica): quasi un singolo fotogramma del corpo-oggetto, in alto (aprassia precipite) e a terra (schianto). Cosa ho soppresso se non l'intervallo? In Bibì Shakespeare, Amleto spiega il cinema ad Orazio:

...Sarà tra poco. L'intervallo è mio.

E la vita d'un uomo non è che il tempo di dire “uno”...

... V'è una speciale provvidenza

nella caduta d'un passero. Se è ora, non è a venire;

se è a venire, non sarà ora; se non è ora, pure sarà.

Star pronti è tutto, ché se nessuno sa quello che lascia,

cosa importa lasciar prima del tempo? Lascia andare.

L'intervallo è il fra-tempo della vita impensata!>> Ecco che la pellicola precipita, ripetutamente, da un balcone. Senza la traiettoria che porga, violentemente, la luce da uno schermo-gabbia agli occhi-paraocchi dello spettatore. Si svolge (?), a-viene (alfa privativo) il film, allora, in una sospensione in cui è pre-giudicato il giudizio, in cui si solleva dalla colpa della

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dimostrazione, quindi dalla colpa della vita, dalla possibilità di barbarie e follia. Assente è dunque la colpa in quanto tale. Non sarà un caso che Bene affermerà: <<Se quello che si rimpiange in Nostra Signora è che non c'è né ingiustizia né nemici, che si rimpiange una barbarie assente, cioè che non si può essere matti, il peccato è scongiurato. È la prima opera occidentale senza peccato.>> Amen.

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Allora tutto sta nel finale di una Salomè, di uno spellarsi, smascherarsi a strati del proprio volto, come ci dice Ghezzi, che è lo spellarsi, scalfirsi, raschiarsi, strato dopo strato, dell'infinitamente lucida gamma di colori, di una sfavillante Salomè, che convergono in-fine nel flusso di un bianco, di un venir meno, un bianco salvifico-cadaverico, salvifico in quanto cadaverico. Sarà un caso che la Salomè chiuda la brevissima parentesi (una pausa tra parentesi per giunta, parentesi di parentesi, dunque) del Bene in cinema o del cinema di Bene? La Cinematografia si riassume in breve: Ventriloquio, mediometraggio, produzione C.B., 1967 Hermitage, mediometraggio, produzione Nexus Film, 1968 Nostra Signora dei Turchi, lungometraggio, produzione C.B., 1968 Capricci, lungometraggio, da Arden of Feversham, produzione BBB (Barcelloni, Bene, Brunet), Italia, 1968 Don Giovanni, lungometraggio, produzione C.B., 1971 Salomè, lungometraggio, Cinecittà, prodzione C.B., 1972 Un Amleto di meno, Cinecittà, produzione C.B. e “Donatello cinematografica”, 1973 Può sembrar strano che si sia detto, Salomè ultima opera cinematografica e qui vi sia Un Amleto di meno. Ma oltre ad essere un Amleto è anche un Film di meno, è un anticipo al post-cinema, e non post come genere, ma come un re-inizio, abbandono dunque (ovviamente fallimentare si esordisce male nell'inutilità del trionfo), è già un ritorno al teatro questa mancanza di Amleto, troppo lontano dal cinema, o cinema se non come proiezione, ma il cinema è ben altra cosa che sale e poltroncine. Già Salomè è già poco Film, e non è ancora un caso che sparisca, oltre il film, oltre il cinema, oltre il cinema-immagine e perfettamente dentro il Cinema Bene quindi. Quindi Salomè sarà da considerarsi un ultima oper-azione del suo breve lucido deragliare il cinema. Del suo cinema così inteso: << Il cinema come immagine acustica = in-con-sequenza delle riprese e indisciplina chirurgica del montaggio >> Un immagine parlante, o per meglio dire, parlata.

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un'azione è necessario un vuoto della memoria) che nella esecuzione del progetto, sospesi al vuoto del loro sogno, così a lungo perseguito e e sfinito, dementi, quel progetto stesso smarrirono, (de)realizzandolo in pieno. Certosini del lavorio paziente del lucidar la trama dei preparativi, cauti, meticolosi, febbrili dell'angoscia inconfessabile dell'insonnia dell'esserci – onnipresenza inumana intollerabile del sé a se stesso -, precipitarono nell'attimo tutta una vita pensosa: il gesto. E non furono più. Per un attimo. Estromessi dalla godibilità del vuoto dalla felicità sempre invivibile; per svegliarsi subito dopo, nuovamente sovraeccitati e infelici, mascherati da zingare a cavallo – turisti o esuli poco importa – per le vie d'acqua putrida a Venezia, città termale del nostro secolo per coloro che vogliono morire. Non si può assassinare un bel niente. Tutti i Bruti sono bruti minerali in quell'attimo, che non è commendevole, non è esecrabile; perchè non è. Dunque questi non è son l'accaduto. Infinito futuro trapassato; mai presente. Non si da un delinquente. Delinquere è mancare. Delitto è il vuoto del progetto-crimine; la realtà del progetto è la sua vertigine, finalmente impensabile e vuota. Vezzeggiare un progetto è dissuadersene, svogliarlo. Si può azzardare un gesto, non mai compierlo. Ogni azione, per quanto comprensibile, è impensabile, e la Storia è un'ipotesi dell'antefatto, o il dizionario del mai accaduto. Resta il “misfatto”, di che va fiero ogni storicismo: il misconoscimento d'ogni fatto, consegnato dal vuoto all'eresia della storia irreale dell'essere. [...] Numerazione e nominazione è la Storia; storiografia dei morti che mi esclude. Vivente, io sono incomprensbile alla Storia; così come la Storia non mi riguarda. >> E così avanti, via. Completamente assentato. Per chi s'arrischia oltre, altre rivelazioni, spiegazioni, e buona lettura. Il cinema dunque dove sta in tutto ciò, o nella mancanza di un ciò? Nella pellicola che sparisce, nell'immagine mancata. Nell'immagine invisibile, nell'immagine invisa.

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Moebius (Bene-Lynch) Nostra signora dei Turchi, il bagliore di una fine, di una conclusione. Verrebbe in mente una geometria, priva di tutta la teorizzazione euclidea, o mantenendo al massimo, giusto per l'impossibilità che crea alla sua stessa geometria, creata, sembrerebbe, solo per un eccesso di zelo, una mania, il primo assioma dei suoi Elementi: 1. Il punto non ha dimensione. Da questo punto (che non c'è) le altre dimostrazioni si palesano come impossibilità; si pensi alla definizione di retta, il secondo assioma: 2. Estremi di una linea sono i punti. Si ricordi che i punti non hanno dimensione, cosa e dove (nel mai, forse) si congiungono due assenze? Questa potrebbe benissimo essere (?) una geometria beniana, priva di luogo, spazio, figure e dunque forma ecc. Ma è un'altra immagine, richiamata da Ghezzi nell'articolo commemorativo apparso sull'Unità l'indomani della (non)morte beniana (<<non può morire chi non è mai vissuto>>), il nastro di Moebius. L'infinito geometrico che si presta alla “rappresentazione” solamente come privazione, impossibilità, come inimmaginabile, come la pipa di Magritte nella lettura foucaultiana; figura di un crittogramma cancellato, di un correlarsi e rigirarsi infinito, in un loop, nel vorticare immobile (l'infinito in movimento è allo stesso tempo stasi), in un labirinto privo di mura da cui è impossibile uscire. Moebius e il suo folle volo extra-geometrico viene accostato spesso ad un autore tutt'ora operante, David Lynch, soprattutto in relazione al suo ultimo film, Mulholland Drive. Per legge dialettica l'accostamento David Lynch-Carmelo Bene è dunque imposta. Il nastro di Moebius è una figura impenetrabile, inattraversabile, una figura a cui si è costretti, in cui ci si può al massimo muovere come

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delle formichine in ordinata compostezza e incoscienza dello spazio, che da infinito qual'è più non lo si trova. Il riferimento è al quadro di Escher, che a figurare l'impossibile, a sconvolgere l'occhio, si è “divertito” parecchio. Queste formichine segnano la differenza, all'interno della ripetizione, tra i due autori. Il lavoro di Lynch è quello di strisciare, tentare morbosamente con rapide giravolte, salti, scatti improvvisi da una parte all'altra, con un'epilessia rotatoria di trovare un varco in questa figura, in questa gabbia che è il nastro di Moebius, alla ricerca o di un'altra geometria ad essa esterna o di nessuna geometria, fuori comunque da questa gabbia. Le immagini del suo ultimo film sono frutto, evidente, di questi spasmi; il suo tentativo assume qualcosa di razionale, o di uno scontro con l'elemento irrazionale ma nel tentativo di ritrovare un ordine, una sua parodia, almeno. Si svolge, la sua ricerca, quasi con un programma, con una volontà esperienziale del conoscere, la ricerca del fondamento di una nuova epistemologia; il sondare questo assurdo infinito, spiegarselo prima di tentare qualche crepa. Una ricerca che dunque presuppone la ricerca di una crepa, di una mancanza, una deviazione da questa figura che gli permetta un salto fuori. Il lavoro, in questo senso, è, ovviamente, un fallimento; l'impossibile gabbia di impossibile ha anche l'impossibilità allo scardinamento; ciò che a Lynch è concesso è il riuscire a fallire. L'accanimento di Bene contro questo nastro è, invece, di un altro tipo. Il nastro di Moebius è la pellicola stessa, non il meccanismo narrativo- linguistico. Non sarà un caso che Bene dal suo film salverà proprio la scena in cui questo riconoscimento, e il necessario accanimento contro di essa, si manifestano; la scena in cui la pellicola è calpestata e bruciata. Nostra Signora dei Turchi come Mulholland Drive, tenta per circa due ore di far deflagrare questo nastro (ormai si sarà capito che il nastro è il cinema stesso), di aggirarlo, sproporzionando il meccanismo filmico, esagerandone le (im)possibilità e, l'autocritica beniana non è certo una posa, questo comporta, come nel caso di Lynch, di riuscire al massimo a riuscire il fallimento, a far, la massimo, presentire un'idea di deragliamento, un'idea di folgorazione, di deflagrazione.

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Su Salomé Uno scarto d'introduzione

<< Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può. Del genio ho sempre avuto la mancanza di talento. >> Da qua non-si-parte, non si arriva ovunque, comunque. Così l'inizio-fine della sua raccolta, differenziata, indifferente, di scorie, dell'edizione Bompiani. Scorie del già rifiut(at[t]o) morto-orale, scorie di quel flusso di cloaca a cui si è obbligati, per lo spiegarsi fisiologico. << Già dalla nostra tramontante nascita incomincia un destino >> Si è obbligati al doverci non-poter-essere. Si nasce, ed è già funesto a chi nasce il dì natale (già il recanatese gobbo ce lo ricorda), immaginarsi poi <<non nascere miliardari, si è spacciati per sempre. Ci si deve piegare al quotidiano, procurare gli stimoli al progetto; invece di s-progettare, si è dannati al disegno. >> Ma tant'è. << Cominciò ch'era finita, come in tutte le disavventure “lorenzacce”>> E proprio da Lorenzaccio, scritto dell'anno, che non-fu mai, almeno il meno possibile nel beniano s-progetto, 1986, bisogna fermarsi, in questo mio scritto, doppio-morto-orale, peccaminoso e in-scena al massimo grado, per poter almeno iniziare a tentare di capire, se proprio si vuole. Riprendo, allora, un già stato collage, in raddoppiato, già da rifiutarsi il primo, s'immagini il secondo, trascrivere, e correggo a mio piacimento << Lorenzaccio, un piccolo miracolo, che nessun saggio critico interminabile sarebbe stato in grado di produrre >>: << Lorenzaccio è quel gesto che nel suo compiersi si disapprova. Disapprova l'agire. E la Storia Medicea, dispensata, non sa di fatto stipare questo suo (?) enigma eroico; ha subìto e glorificato di peggio, questa Storia. Ma le cose sono due: o la Storia, e il suo culto imbecille, è una immaginaria redazione esemplare delle infinite possibilità estromesse dalla arbitraria arroganza dei “fatti” accaduti (infinità degli eventi abortiti): o è, comunque, un inventario di fatti senza artefici, generati, cioè, dall'incoscienza dei rispettivi attori (perchè si dia

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ingaggia una lotta durissima e derisoria (Don Giovanni) col dongiovannismo automatico della ripetizione ossessiva e insieme sempre un pò slittante del cinema, delle sue serie di visioni fotogrammatiche invisibili e ognuna lievissimamente diversa dall'altra. Il cinema allora finisce perchè non è mai iniziato, anche se un altro quarto di secolo è passato; il potente rosso e violaceo del fuoco è divampato (oh, la fatica di quei fiammiferi in Hermitage), è parso estinto e il colore consunto, ma guarda (caso), come Rossellini Carmelo Bene accetta di fingere che il cinema finisca e si interrompa e fa tanta televisione, tutta postuma, un catalogo continuo di modi diversi di morire/finire in versi. Dentro la camera o la telecamera, dentro il luogo astratto e assoluto in cui i tempi e i corpi mutano e si confondono (come in 2001, un altro (ri)esordio del 1968, di un altro regista dagli intervalli che sembrano interruzioni) e vanno oltre il carcerario luogo comune dell'immagine filmica. Come il mondo è tondo e come un bambino sul pallone troppo grande e unto bisunto consunto scivola cade grida, il cinema ruota, gira, cade, non è riflesso di nulla (si può se mai sospettare il contrario), merita di essere chiamato nel modo slittato in cui lo nominano alcuni bambini: cimena.

Tratto da: C.BENE, Opere, Bompiani, Milano 2002, pp.1547-9

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Ma il nastro è compatto, non ha crepe da allargare, crepe in cui piazzare della dinamite; il fotogramma, il suo spazio e il suo moto, procedono rigidi come un carcere di massima sicurezza. Il cinema (la pellicola) è d'acciaio blindato. Bene, presentendo questo poter al massimo riuscire il fallimento, s'accanisce non col cinema, ma col suo corpo. Non col nastro di Moebius (la sua forma), ma direttamente contro l'acciaio di cui è fatto. Ed ecco che il lavoro di Bene si era spinto oltre, rispetto al parallelo (il parallelismo all'infinito s'incontra!) lynciano, era riuscito in un minore fallimento, quasi a riuscire. Accanendosi istericamente (l'isteria di cui parla Deleuze in relazione alla pittura di Bacon) con i tacchi delle scarpe e il calore delle sigarette contro quella gabbia, quella pelle/pellicola che da Corpo al Cinema/Moebius. Abbiamo così la sequenza “salvata” (con la riserva dovuta al fatto di dover comunque con(cedere) qualcosa a questo nostra) da Bene. La pellicola calpestata e bruciata, la crepa in quell'enorme nastro avvolgente e schiacciante del cinema si apre e subentra, s'intravede/stra-vede, il bianco, l'oltre di ogni (im)possibile immagine/proiezione. Si sente (non si vede) così, in quella sequenza, si ha un sentore il bianco di una proiezione a/nel vuoto; la proiezione della macchina, proiezione del proiettore, l'unico film possibile (?) fuori dal nastro.

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M.C. Escher, Nastro di Moebius II, 1963

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su Bene _enrico ghezzi_

Il “Cimena” di Bene Occasionale che sia stata, l'interruzione del cinema di Bene non può che apparire fatale. Ho trascritto una voce (mia per caso) che parlava in tv della decapitazione sparizione dissolvenza a bianco del corpo dell'immagine e dell'immagine del corpo, in un film cronologicamente non-ultimo come Salomè. Il film casualmente ultimo si intitola Un Amleto di meno. Come la fine di una tournée fantasmagorica di sé, o della fantasmagoria circolare e ininterrotta che dichiara di essere Hamlet. L'opera stessa come fine e cancellazione, sottrazione estrema. Finendo Amleto, consumandolo, smangiandoli un altro giro di vita, Bene si sottrae – ripetendola e storcendola per l'ultima volta – alla domanda dell'essere o non essere, risolvendola nell'apparire/scomparire simultaneo. “Stasera non vi darò le fonti, morirete di sete”. Nell'effimero verbale questo motto di Carmelo Bene indica la profusione di cultura testuale e insieme il rifiuto di risalire alla citazione come origine. Niente fonti. Il suo cinema, che ugualmente non ha bisogno di essere fonte di alcunché, è zampillo soffio getto celibe. Proprio liquido è l'elemento in cui si trasmuta. Dopo la decostruzione lewisiana di Hermitage, esaurimento di tutto il teatro del corpo in una stanza da bagno, Nostra Signora è subito liquame, proiezione acquosa, volo attraverso un'ottica umida e bagnata. Come l'inseguimento di una sostanza inafferrabile, di una voce del cinema. Una sfida (dalla parte del non finito, del tiro lirico con l'arco, della vibrazione, del “buttarsi dalla finestra”) all'obbligatorietà del cinema, al definitivo acquietarsi della possibilità visiva in inquadratura e fotogrammi. Meno rudimentalmente “sottile”, meno “artista” di Cocteau, Bene fa implodere già nel suo primo film tutta l'avanguardia, e di film in film con gesto sempre più secco sottrae al cinema le maschere del teatro, una dopo l'altra. Gli toglie tutte le illusioni di “rappresentare” e lo spinge verso l'instabilità, come solo Rossellini ha saputo dare nell'insieme dell'opera (e il “santo” cineasta spagnolo grenadiano Val del Omar..?). Il teatrante geniale di Hermitage che finge (?) la crisi in attesa di uno shining, ha presto trovato la sua luccicanza, il suo telepathos in diretta comunicazione con l'instabilità figurativa del cinema, addirittura con la sua non-figuratività. Per questo è visionario, e da visionario si strappa la pelle della politica e della sociologia (Capricci), da visionario

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sbriga maciullando il mezzo, ingoiando e vomitando ogni volta la polpetta avvelenata. Detto questo, salverei due, tre sequenze in tutto: Erode che si lascia spellare vivo (alternato all'autocrocifissione mancata) in Salomè e la pellicola massacrata, calpestata, bruciata in Nostra Signora (parodia del ricordo)

(1998) Ho dovuto vedere il film per montarlo, ma è stato un lavoro modesto, che non mi nteressa. È nelle riprese che mi contesto, contesto i miei progetti e la loro realizzazione, contesto tutto.

(1968) Sei arrivato al cinema avendo in testa un modello, un riferimento, un'idea qualsiasi? Da cosa sei partito? Dal detestar qualcosa. Per poi demolirla. Non è detto che ci sia riuscito. Quà e là se ne ha il sentore. È una sensazione, non una visione. Chissà chi, che cosa, è riuscito in me e per me a musicare certe posture del corpo, certi abbandoni, certo reclinare del capo, certa inquadratura inclinata, la scelta delle luci, degli obbiettivi.

(1998) Nel cinema esiste il montaggio, sicchè il film non è soltanto già scritto, ma anche già letto, dal momento che viene montato. Durante il montaggio critico quello che ho girato.

(1970)

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Su Nostra Signora dei Turchi

Il Corpo del cinema

<<Ne ricavo un paio di occhiali da vista, non suoi certamente e li inforcò.

Fortemente presbiti, lo distanziavano alquanto dal riflesso>>

C.B. Nostra Signora dei Turchi triplicata. Testo, teatro e film. Nostra Signora dei Turchi come trittico baconiano, un trittico che non dialoga, pannelli separati e inscindibili. Sono corpi differenti, questi atti. La differenza è marcata, obbligatoriamente, dalla ripetizione del titolo, dalla sua omofonia. Perché di questo si tratta, un'omofonia, apparente. Il titolo è solo un’apparenza della loro possibile somiglianza o addirittura trasposizione. Tra le tre opere vi sono delle analogie, ma queste analogie sono le stesse che Deleuze riscontra nelle coppie e nei trittici di Francio Bacon, non riguardano un dialogare di pannelli, personaggi, gesti e colori; la pittura (sarebbe forse più corretta chiamarla musica) di Bacon è muta, silenziosa, è interdetto il dialogo, al massimo si permette il sussurrare monologante, così in Bene. Queste figure, questo trittico, hanno comunque qualcosa che le mette in relazione, un <<accoppiamento delle sensazioni>>, sono figure differenti che cercano un corpo, lo stesso e ovviamente diverso, diverso nel tracciarsi differente del percorso del raggiungimento, che fine non avendo, risulterà del tutto improprio. Un Corpo. E non sarà certo un caso che sempre Deleuze in L’Immagine-Tempo, parlando del cinema di Bene dirà: << “Datemi dunque un corpo”: è la formula del capovolgimento filosofico. Il corpo non è più l’ostacolo che separa il pensiero da se stesso, ciò che il pensiero deve superare per arrivare a pensare. Al contrario ciò è ciò in cui affonda o deve affondare, per raggiungere l’impensato, cioè la vita. Non che il corpo pensi, ma, ostinato, testardo,

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forza a pensare, e forza a pensare ciò che si sottrae la pensiero, la vita. Non si farà più comparire la vita davanti alle grandi categorie del pensiero, si getterà il pensiero nelle categorie della vita. E queste sono appunto gli atteggiamenti del corpo, le sue posture. “Non abbiamo neppure idea di quel che può un corpo” nel suo sonno, nella sua ebbrezza, nei suoi sforzi e nelle sue resistenze. Pensare è apprendere quel che può un corpo non-pensante, le sue facoltà, i suoi atteggiamenti e posture. Con il corpo (e non più tramite i corpo) il cinema sposa lo spirito, il pensiero. “Dateci dunque un corpo” significa per prima cosa montare la cinepresa su un corpo quotidiano. Il corpo non è mai al presente, contiene il prima e il dopo, la stanchezza, l'attesa. La stanchezza l'attesa, persino la disperazione sono gli atteggiamenti del corpo. In questa direzione nessuno è andato più avanti di Antonioni. […] Ma esiste un altro polo del corpo, un altro legame cinema-corpo-pensiero. “Dare” un corpo, montare una cinepresa sul corpo acquista un altro senso, non si tratta più di seguire o inseguire il corpo quotidiano, ma di farlo passare attraverso una cerimonia, di introdurlo in una gabbia di vetro o di cristallo, di imporgli un carnevale, una mascherata che ne fa un corpo grottesco, ma ne estrae anche un corpo grazioso e glorioso, per giungere infine alla scomparsa del corpo visibile. . Carmelo Bene è uno dei massimi costruttori d'immagini-cristallo: il palazzo di Nostra Signora dei Turchi fluttua nell'immagine, o meglio è l'intera immagine che si muove e palpita, i riflessi si colorano violentemente, i colori stessi si cristallizzano, in Don Giovanni, nella danza dei veli di Capricci, il vecchio santo decrepito di Salomè, che si sfiniscono in gesti inutili sempre ripresi, in atteggiamenti impediti e ricominciati, fino alla postura impossibile (il Cristo di Salomè che non riesce a crocifiggersi da solo: come potrebbe l'ultima mano inchiodarsi da sé?). La cerimonia in Bene comincia con la parodia, che concerne in ugual modo suoni e gesti, perché i gesti sono anche vocali e l'aprassia e l'afasia sono due facce della stessa postura. Quel che emerge dal grottesco però, quel che se ne distacca, è il corpo grazioso della donna come meccanica superiore, sia che danzi tra i suoi vecchi, sia che passi attraverso atteggiamenti stilizzati di un segreto volere, sia che si irrigidisca in postura d'estasi. Non è forse per liberare finalmente il terzo corpo, quello del “protagonista” o del maestro di cerimonia, che passa attraverso tutti gli altri corpi? Suo è già l'occhio che si intrufolava nel cristallo, lui comunica con l'ambiente cristallino, come in Nostra Signora, dove la storia del palazzo diventa autobiografia del protagonista.

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Cinema Perchè il cinema? Si è sempre maldestramente equivocato, prima ancora ch'io mi filmassi o filmassi l'impossibilità di filmare altro dal set, già ai miei esordi teatrali, che io battessi una strada avanguardistica dell'immagine di contro alla parola. A sconfessare questo ci provai con cinque film in cui il silenzio è sovrano e il logos decisamente estromesso. Cinema: regno dell'immagine. Mi provai a eccedere l'immagine pur di dissipare il malinteso della mia preavventura teatrale. Cinema: gioco del soggetto che gioca perverso con l'immagine come si fa con il più futile dei balocchi. L'obietivo giocato come il caleidoscopio dei bambini che nello stupore orecchiano ben altro, la musicalità delle immagini, effetti ottici della phoné. Invece del racconto, questo bricolage di suoni e immagini destinato a uancitazione di racconto, questa miriade di segni alla deriva dell'onda sonora che detta il movimento. Tutto giocato n perfetto a-sincrono, nell'idiosincrasia tra “musicalità” e “musica”, che non sempre coincidono. Quindi, Nostra Signora dei Turchi, se vogliamo.

(1983)

Ho pensato molto al cinema come mezzo “specifico” e ho avuto voglia di provarlo. Mi interessano soprattutto le persone che hanno innanzitutto un'idea di cinema. L'idea di cinema contiene senza dubbio un cinema di idee, mentre non è vero il contrario. In questo senso, Il bandito delle ore undici è un film geniale e Weekend, nello stesso senso, è un film fallito. Ma oggi, è soprattutto il cinema di idee che è apprezzato e praticato, quello dove le piccole idee vengono appiccicate sulla pellicola.

(1968)

Ma il cinema, se è cinema, non si può raccontare. Lo si può solo spacciare, facendolo. E vaneggiare.

(1998) Il cinema è morto, filmato per sempre. Non è filmante.

(1982) Ho sufficente autocritica per riconoscere al mio cinema l'importanza che merita, in quanto percorso fachiro sul non-discorso che se la

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Non c’è scampo per il privato. Il singolo è veramente funzionale, strumentale, allo Stato.. e paradossalmente (democraticamente) è il suo stato.. di cose, perché elettore del suo stesso Stato.

Il privato del privato.

Cioè l’auto-in-disciplina dell’uomo. La detronizzazione dell’imperativo categorico.

L’instaurazione dell’imperativo climaterico. A ciò bisogna assurgere. Se si vuole levarsi, togliersi, cancellarsi ,

abrogarsi dallo Stato. Scomunicare l’IO- ROMANTICO-NAZIONALE.

Evadere Evadere Evadere

Dall’istruzione di Stato per giungere alla istruzione privata. Farsi autodidatti da sé. Scoprire come da bambino; il corpo.

Giocare.

Plan

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È lui a riprendere i gesti impediti, mancati, come in Nostra Signora, dove manca di continuo la propria morte, mummia completamente bendata che non riesce più a farsi una puntura, la postura impossibile. È lui a dover profanare il corpo pieno di grazia, o servirsene per un qualche scopo, per acquisire finalmente il potere di scomparire, come il poeta di Capricci, che cerca la posizione migliore per morire. Scomparire era già l'oscura volontà di Salomè, nell'allontanarsi di schiena, verso la luna. Ma quando il protagonista ricomincia tutto, lo fa perchè ha raggiunto quel punto di non-volere che definisce ora il patetico, il punto schopenhaueriano, il punto di Amleto in Un Amleto di meno, là dove il corpo visibile scompare. Nel non-volere si liberano la musica e la parola, il loro intreccio in un corpo ormai soltanto sonoro, un corpo d'opera nuovo. Anche l'afasia diventa allora la lingua nobile e musicale. Non sono più i personaggi ad avere una voce, sono le voci, o meglio i modi vocali del protagonista (mormorio, soffio, grido, eruttazione...) a diventare i soli e veri personaggi della cerimonia, in un ambiente divenuto musica: si vedano gli strampalati monologhi di Erode Antipa, in Salomè, che si innalzano dal suo corpo ricoperto di lebbra e attuano le potenze sonore del cinema. Forse, in questa impresa, Carmelo Bene è il più affine ad Artaud. Conosce la medesima avventura: “crede” nel cinema, crede che il cinema possa operare una teatralizzazione più profonda del teatro stesso, ma lo crede solo per un breve istante. Ben presto pensa che il teatro sia più adatto a rinnovare se stesso e a liberare le potenze sonore, che il cinema troppo visivo ancora limita, anche a costo che la teatralizzazione integri supporti elettronici invece che cinematografici. Resta il fatto che ha creduto, un momento, il tempo di un opera troppo presto interrotta, volontariamente interrotta, alla capacità che avrebbe il cinema di dare un corpo, cioè di farlo, di farlo nascere e scomparire in una cerimonia, in una liturgia.>> Questo è dunque il percorso del cinema, al teatro e sul testo sarà lo stesso. Il corpo, la sua ricerca, la sua parvenza, la sua mancanza. Nel teatro scompare, schermata la voce (la parola manca da sempre in Bene), il corpo vitreo, un vetro che crea una quarta parete ancor prima del pubblico, che può al massimo strabuzzare gli occhi e stravedere dei corpi come in acquario, affogati, dei cadaveri che fanno la parodia alla vita. Nel testo la ricerca del corpo è la <<parodia dell’interiorità>>, l’organizzazione maniacale di una immagin(azione) dell’interiorità, di un immaginario protagonista, un protagonista mancante di sé che si inventa, si dimena alla ricerca di un fantoccio-corpo-budella. Del film basterà il già citato discorso deleuziano, s’aggiunga solamente una postilla; talmente elevata risulta la ricerca del corpo, che la

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pellicola si fa/è pelle, e nessuna immagine riassume (?) meglio la pellicola/pelle/film che il grattar via gli strati di pelle/pellicola dalla faccia di Bene-Erode in Salomè, o l’autolesionismo (il calpestare, bruciare la pellicola) in Nostra Signora dei Turchi: <<Jack lo Squartatore era un chirurgo raffinato, il non plus ultra del professionismo. Il cinema è sempre servito a spacciare storielle ma nessuno ha mai spacciato la pellicola, come ho fatto io in una lunga sequenza di Nostra Signora. Alla lettera. Squartata, bruciata, fatta a pezzi. Franco Jasello, aristocratico napoletano, padrone della Microstampa, rischiò l'infarto: mezzo chilometro di pellicola, e noi, io, Masini, Contini, i suoi tecnici in camice bianco che la trinciavamo con i coltelli, la bruccichiavamo con le sigarette, la storpiavamo sotto le scarpe. “Sto risolvendo alla grande una sequenza...”, rassicurai, si fa per dire, lo stupefatto nobile. Mutilare la pelle/pellicola, questo i cineasti non si sono mai azzardati a farlo. Avrebbero dovuto essere dei pittori nauseati, intanto.>> Alla ricerca di un cinema che si dis-faccia, si faccia cinema finalmente, non parata orgiastica tra personaggi, per spacciare <<tesi, neorealismo con e senza biciclette, il messaggio sociale>>, in un limite, quindi, che s'evidenzia come cancellazione, al limite, labile, della luce bianca. Non resterebbe, sembra, che il proiettarsi del proiettore. L'unico cinema possibile che sia filmantesi e non già filmato, morto. Il Corpo del cinema.

_(Alter3g0)_

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L’autodidatta Carmelo Bene e la concezione di S/stato.

<< […] e chi mi deve istruire? Lo Stato? E chi è lo Stato?>>

Cresciuti nel mito di Pinocchio, gli italiani. Se non vai a scuola, dicono, sei un somaro. Se vai a scuola… invece hai “qualche speranza in più”, di entrare nel mondo del lavoro: assoldato, contribuente, allo Stato sociale. Non siamo fatti per la vita. La vita non ci compete.

<< Perché non affranchiamo dal Lavoro i minatori ad Iglesias

invece di prenderli continuamente per il culo?>>

Anche loro. Italiani. Ma quanti di loro S(e)colarizzati? Perché ormai si capisce non ha meriti la scuola se non quello di catechizzare l’uomo che si figura nato. Vuoti alla conoscenza; pieni epistemologicamente. Presi per culo. Appunto. Perché la cultura è importante in quanto lotta statal-demagogica (democratica), strumentale all’erudizione di massa.

<<Sempre caro mi fu quest’ermo colle. Che cos’è a scuola? Questa

collina mi è sempre piaciuta.>> << Bisogna uccidere, Kate!… O evadere da qui! Oh! Evadere, evadere, evadere! Libertà, amare, vivere, sognare. Esser celebri lontano da qui! Oh, cara aurea mediocritas! Ma l’arte è tanto grande E la vita è così breve!>>

La mediocritas. Non la mediocrità è d’oro. La scuola, Istituzione statale, irrompe e strarompe in qualità di forza sostenitrice della democrazia. Ma la democrazia è quell’unico regime dove il cittadino prende a calci in culo se stesso. Lo Stato si occupa di sessantacinque milioni di Italiani, sessantacinque milioni di italiani votano questo stato..che è il loro stato di cose… e così è… Quel che è stato è Stato quindi non è stato mai.. se non nelle sue falsificazioni e/o omissioni.

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Indice

L’autodidatta pag. 03 Cinema (C.B.) pag. 05 Il “Cimena” di Bene (enrico ghezzi) pag. 07 Uno scarto d’introduzione pag. 09 Su Salomé (enrico ghezzi) pag. 13 Un caso necessario pag. 16 Una premessa - Bene Deserto pag. 17 Shining Suite pag. 18 L’ossario di un temp[(i)o] pag. 20 Moebius (Bene-Lynch) pag. 23 Il Corpo del cinema pag. 27 Crediti pag. 31

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