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Lisa Jane Smith

Il diario delvampiro

Il risveglio

(The Vampire Diaries: TheAwakening, 1991)

Traduzione di Valeria Gorla

• ISBN-10: 8854111481

• ISBN-13: 9788854111486 • Editore: Newton Compton

(Nuova Narrativa) • Data di pubblicazione: Jun 05,

2008• Titolo originale: The Awakening

Ebook: ITABOOK_0219EPub: Abyssinian

Elena Gilbert è una ragazza d'oro,è bella, è brillante, ha tutto nella vita.Ma le sue giornate non hanno nulla dieccitante. Così, per cercare un po' dibrivido, intreccia una relazione conil bel tenebroso Stefan. Ma Stefannasconde un segreto, un segretomisterioso che potrà sconvolgere persempre la vita della protagonista...Ha inizio così per Elena la piùaffascinante e pericolosa delleavventure. Una storia d'amore e odio,di luce e ombra, in cui Stefan eDamon, due vampiri fratellicontrapposti in una millenaria guerra,

si contenderanno il suo cuore e il suodestino.

Alla mia cara amica e sorella,

Judy

RingraziamentiUn ringraziamento speciale ad

Anne Smith, Peggy Bokulic, AnneMarie Smith e Laura Penny per leinformazioni sulla Virginia, e aJack e Sue Check per la loroconoscenza delle tradizioni locali.

Capitolo 1

4 settembreCaro diario,oggi succederà qualcosa di

terribile.Non so perché l'ho scritto. È

pazzesco. Non ho nessun motivo peressere turbata, invece ne ho moltiper essere felice, eppure...

Eccomi qui alle 5:30 del mattino,sveglia e spaventata. Continuo aripetermi che sono semplicementesconvolta per la differenza di fuso

orario tra la Francia e qua. Maquesto non spiega perché mi sentocosì spaventata. Così persa.

L'altro ieri, mentre zia Judith,Margaret e io tornavamo in autodall'aeroporto, ho avuto unasensazione stranissima. Quandoabbiamo svoltato nella nostra viaho subito pensato: "Mamma e papàci stanno aspettando a casa.Scommetto che saranno nellaveranda oppure in soggiorno aguardare fuori dalla finestra.Avranno sentito tantissimo la miamancanza".

Lo so. Sembra completamentepazzesco.

Ma anche quando ho visto la casae il portico vuoto mi sentivo in quelmodo. Dopo aver fatto di corsa gliscalini, ho provato ad aprire laporta e ho bussato con il batacchio.E quando zia Judith ha aperto laporta mi sono precipitata dentro emi sono fermata nell'ingresso adascoltare, aspettandomi di sentirela mamma scendere dalle scale opapà chiamare dalla sua "tana".

Proprio allora zia Judith halasciato cadere la valigia sul

pavimento dietro di me e con unenorme sospiro ha detto: «Siamo acasa». E Margaret ha riso. Allorami ha sopraffatto la sensazione piùorribile che abbia mai provato invita mia. Non mi sono mai sentitacosì totalmente persa.

Casa. Sono a casa. Perchésembra una bugia?

Sono nata qui a Fell's Church. Hosempre vissuto in questa casa,sempre. Questa è la mia solitacamera, con la bruciatura sulle assidel pavimento dove io e Carolineabbiamo cercato di fumare di

nascosto in quinta elementare e cisiamo quasi soffocate. Se guardofuori dalla finestra riesco a vedereil grande melo su cui Matt e iragazzi si sono arrampicati perrovinare il pigiama party del miocompleanno due anni fa. Questo è ilmio letto, la mia sedia, il miocassettone.

Ma in questo momento tutto misembra estraneo, come se non fossecasa mia. Sono io a essere fuoriposto. E il peggio è che sento che lamia casa è da qualche parte, ma nonriesco a trovarla.

Ero troppo stanca ieri per andareall'incontro di orientamento.Meredith ha preso per me ilprogramma, ma non avevo voglia diparlare con lei al telefono. ZiaJudith ha detto a tutti quelli chechiamavano che soffrivo ancora peril jet lag e stavo dormendo, ma acena mi ha osservato con una stranaespressione.

Devo vedere la banda oggi, però.Dobbiamo incontrarci alparcheggio prima della scuola. Èper questo che sono spaventata? Hopaura di loro?

Elena Gilbert smise di scrivere.

Guardò l'ultima riga e scosse la testa,la penna sospesa sul libricino dallacopertina di velluto blu. Poi, congesto improvviso, alzò la testa egettò penna e libro verso il grandebovindo, dove rimbalzarono senzadanni e atterrarono sul divanoimbottito.

Era tutto troppo ridicolo.Da quando in qua lei, Elena

Gilbert, aveva paura di incontrare lagente? Da quando in qua aveva pauradi qualcosa? Si alzò e rabbiosamente

infilò le braccia nel kimono di setarossa. Non diede neanche un'occhiataall'elaborato specchio vittorianosopra il cassettone in legno diciliegio; sapeva cosa avrebbe visto.Elena Gilbert, bella, bionda eslanciata, trendy, all'ultimo anno diliceo, la ragazza che tutti i ragazzivolevano avere e tutte le ragazzevolevano essere. Che in questomomento aveva un'insolitaespressione accigliata e le labbraserrate.

Con un bagno caldo e un po' dicaffè mi calmerò, pensò. Il rituale

mattutino di lavarsi e vestirsi erarilassante, e lei se la prese comoda,scegliendo fra i nuovi abiti compratia Parigi. Alla fine optò per un toprosa pallido e calzoncini di linobianchi abbinati che la facevanosembrare un gelato panna e lampone.Abbastanza buono da mangiare,pensò, e lo specchio le mostrò unaragazza con un sorriso riservato. Lepaure di prima erano svanite,dimenticate.

«Elena! Dove sei? Farai tardi ascuola!». La voce giungevadebolmente dal piano di sotto.

Elena spazzolò ancora una volta icapelli lisci come seta e li legòdietro con un fiocco rosa scuro. Poiafferrò il suo zainetto e scese giù.

Margaret, la sorellina di quattroanni, era a tavola in cucina amangiare cereali, mentre zia Judithbruciava qualcosa sui fornelli. ZiaJudith era quel tipo di donna chesembra sempre vagamente agitata;aveva un viso sottile e mite, e chiaricapelli svolazzanti raccoltidisordinatamente. Elena le diede unbacio sulla guancia.

«Buongiorno a tutti. Scusa ma non

ho tempo per la colazione».«Ma, Elena, non puoi uscire senza

mangiare. Hai bisogno diproteine...».

«Prenderò una ciambella prima discuola», disse Elena vivacemente.Baciò Margaret sui capelli colorstoppa e si girò per andarsene.

«Ma, Elena...».«E probabilmente andrò a casa di

Bonnie o di Meredith dopo la scuola,perciò non mi aspettate a cena.Ciao!».

«Elena...».Elena era già alla porta d'ingresso.

Se la chiuse dietro, troncando lelontane proteste di zia Judith, e uscìsul portico.

E si fermò.Tutte le brutte sensazioni del

mattino la assalirono ancora. L'ansia,la paura. E la certezza che qualcosadi terribile stava per succedere.

Maple Street era deserta. Le altecase vittoriane avevano un aspettostrano e silenzioso, come se fosserotutte vuote all'interno, come le casedi un set cinematograficoabbandonato. Sembrava che fosserovuote di persone, ma piene di strane

cose che la osservavano.Ecco cos'era; qualcosa la stava

osservando. Il cielo non era blu, malattiginoso e opaco, come unascodella gigante sottosopra. L'ariaera soffocante, ed Elena era sicurache degli occhi la spiassero.

Intravide qualcosa di scuro fra irami del vecchio melo davanti allacasa.

Era un corvo, appollaiato eimmobile come le foglie ingialliteintorno a lui. Ecco cosa la osservava.

Cercò di convincersi che eraridicolo, ma in qualche modo

sapeva. Era il corvo più grosso cheavesse mai visto, grassoccio elucido, riflessi arcobaleno fra lepiume nere. Scorgeva ogni dettagliochiaramente: gli artigli scuri erapaci, il becco acuminato,quell'unico occhio nero luccicante.

Era così immobile che potevaessere un uccello di cera quelloappollaiato lì. Ma mentre loguardava, Elena si sentì arrossirelentamente, con ondate di calore ingola e sulle guance. Perché stava...guardando lei. La guardava comefacevano i ragazzi quando indossava

un costume da bagno o una camicettatrasparente. Come se la spogliassecon gli occhi.

Prima di capire cosa stessefacendo, posò lo zaino e raccolse unsasso di fianco al vialetto. «Vattenevia», disse, e sentì la sua stessa vocetremare di rabbia. «Via! Va' via!».Con l'ultima parola lanciò il sasso.

Ci fu un tramestio di foglie, ma ilcorvo si alzò in volo illeso. Le alierano enormi e rumorose come unintero stormo di uccelli. Elena siaccovacciò, improvvisamenteterrorizzata mentre il corvo volava

direttamente sopra la sua testa el'aria spostata dalle sue ali learruffava i capelli biondi.

Invece l'uccello si lanciò versol'alto e volò in cerchio, una silhouettenera contro il cielo bianco. Poi, conun grido gracchiarne, si diresse versoil bosco.

Elena si raddrizzò lentamente,guardandosi intorno imbarazzata.Non riusciva a credere a ciò cheaveva appena fatto. Ma ora chel'uccello era andato via, il cielosembrava di nuovo normale. Unleggero venticello agitava le foglie,

ed Elena fece un profondo respiro.Lungo la strada si aprì una porta dacui uscirono molti bambini, ridendo.

Dopo aver sorriso loro, inspiròancora, mentre una sensazione disollievo la pervadeva come la lucedel sole. Come aveva potuto esserecosì sciocca? Era una bellissimagiornata, piena di promesse, e nonstava per accadere niente di male.

Non stava per accadere niente dimale, tranne che avrebbe fatto tardi ascuola. Tutta la compagnia l'avrebbeaspettata al parcheggio.

Poteva sempre dire che si era

fermata a tirare un sasso a unguardone, pensò, e quasi si mise aridacchiare. Questo sì che avrebbedato loro da pensare. Senza voltarsia guardare il melo, si incamminò ilpiù velocemente possibile.

Il corvo si precipitò sulla cima

della grande quercia, e istintivamenteStefan alzò la testa di scatto. Quandovide che era solo un uccello sirilassò.

Gli occhi si posarono sulla biancafigura afflosciata nelle sue mani, esentì il viso contorcersi per il

rimorso. Non aveva avuto intenzionedi ucciderlo. Avrebbe cacciatoqualcosa di più grande di un conigliose avesse saputo quanto era affamato.Ma, naturalmente, questo era propriociò che lo spaventava: non saperemai quanto sarebbe stata forte lafame, o cosa avrebbe dovuto fare persaziarla. Era fortunato ad aver uccisosolo un coniglio stavolta.

Rimase sotto le vecchie querce, ilsole che filtrava fino ai suoi capelliricci. In jeans e maglietta, StefanSalvatore sembrava proprio unnormale studente di liceo.

Ma non lo era.Era venuto a nutrirsi nel profondo

del bosco, dove nessuno potevavederlo. Ora si leccava le gengive ele labbra accuratamente, perassicurarsi che non vi rimanesseromacchie. Non voleva correre alcunrischio. Questa messinscena sarebbestata già abbastanza difficile dacondurre così com'era.

Per un momento si domandò,ancora, se non fosse semplicementeil caso di rinunciare. Forse dovevatornare in Italia, nel suonascondiglio. Cosa gli aveva fatto

pensare di potersi riunire al mondodella luce?

Ma era stanco di viverenell'ombra. Era stanco dell'oscurità,e delle cose che ci vivevano.Soprattutto, era stanco di essere solo.

Non era certo del perché avessescelto Fell's Church, in Virginia. Erauna città giovane, secondo i suoistandard; gli edifici più antichi eranostati costruiti solo un secolo e mezzoprima. Ma i ricordi e i fantasmi dellaguerra civile vivevano ancora qui,reali come i supermercati e i fast-food.

Stefan apprezzava il rispetto per ilpassato. Pensava che la gente diFell's Church avrebbe potutopiacergli. E forse, solo forse,avrebbe potuto trovare un posto fraloro.

Non era mai stato completamenteaccettato, ovviamente. Un sorrisoamaro gli incurvò le labbra all'idea.Aveva abbastanza buon senso da nonsperarvi. Non ci sarebbe mai stato unposto completamente suo, dove poteressere veramente se stesso...

A meno che non avesse deciso diappartenere alle ombre...

Scacciò il pensiero. Avevarinunciato alle tenebre; avevalasciato le ombre dietro di sé. Oggistava cancellando tutti quei lunghianni e ricominciando da capo.

Stefan si rese conto di avereancora in mano il coniglio.Delicatamente, lo posò sul letto difoglie di quercia marroni. Inlontananza, troppo lontano perchéorecchie umane li potessero cogliere,riconobbe i rumori prodotti da unavolpe.

Vieni qui, sorella cacciatrice,pensò tristemente. La tua colazione

sta aspettando.Mentre si gettava la giacca sulla

spalla, vide il corvo che lo avevadisturbato prima. Era ancoraappollaiato sulla quercia, e sembravaosservarlo. C'era qualcosa disbagliato in lui.

Cominciò a inviare un pensieroindagatore verso l'uccello, peresaminarlo, ma si fermò. Ricorda latua promessa, pensò. Non devi usarei Poteri a meno che non siaassolutamente necessario. A menoche non ci sia altra scelta.

Muovendosi quasi senza far

rumore tra le foglie morte e iramoscelli secchi, si fece strada finoai margini del bosco. L'auto eraparcheggiata lì. Si guardò indietro,una volta, e vide che il corvo avevalasciato i rami ed era atterrato sulconiglio.

C'era qualcosa di sinistro nelmodo in cui aveva aperto le ali sulbianco corpo afflosciato, qualcosa disinistro e trionfante. A Stefan si serròla gola, e quasi tornò indietro percacciare via l'uccello. Eppure, avevatanto diritto di mangiare quanto lavolpe, si disse.

Tanto diritto quanto lui.Se avesse incontrato ancora

l'uccello, gli avrebbe guardato nellamente, decise. Ma per ora distolsegli occhi da quello spettacolo e siaffrettò attraverso gli alberi, lamascella serrata. Non volevaarrivare in ritardo al liceo Robert E.Lee.

Capitolo 2

Elena venne circondata nelmomento stesso in cui entrò nelparcheggio del liceo. Erano tutte lì,tutta la banda che non vedeva dallafine di giugno, più quattro o cinquelecchine che speravano diguadagnare popolarità aggregandosi.Uno per uno lei ricevette gli abbraccidi benvenuto del gruppo.

Caroline era cresciuta di almenotre centimetri ed era più magra esomigliava più che mai a una

modella di «Vogue». Salutò Elenafreddamente e indietreggiò, gli occhiverdi socchiusi come quelli di ungatto.

Bonnie non era cresciuta affatto e,mentre le gettava le braccia al collo,la sua testa riccia e rossa arrivava amalapena al mento di Elena. Aspettaun attimo, riccia?, pensò Elena.Allontanò la ragazza minuta.

«Bonnie! Cos'hai fatto ai capelli?»«Ti piacciono? Penso che mi

facciano sembrare più alta». Bonniearruffò la frangia già arruffata esorrise, gli occhi castani che

brillavano per l'eccitazione, il visinoa forma di cuore tutto illuminato.

Elena andò avanti. «Meredith. Tunon sei cambiata per niente».

Questo abbraccio fu ugualmentecaloroso da parte di entrambe.Aveva sentito la mancanza diMeredith più di chiunque altro, pensòElena, guardando la ragazzaslanciata. Meredith non era maitruccata; ma in fondo, con quellapelle olivastra perfetta e le cigliafolte e nere, non ne aveva bisogno.Proprio ora, mentre scrutava Elena,aveva un elegante sopracciglio

inarcato.«Allora, ti si sono schiariti i

capelli di due toni per il sole... Madov'è l'abbronzatura? Pensavo te lastessi spassando in Costa Azzurra».

«Sai che non mi abbronzo mai».Elena alzò le mani per ispezionarle.La pelle era senza macchie, comeporcellana, ma quasi chiara etraslucida come quella di Bonnie.

«Aspetta un momento, ora che miricordo», intervenne Bonnie,afferrando una delle mani di Elena.«Indovinate cosa ho imparato da miacugina quest'estate?». Prima che

qualcuna potesse parlare, le informòtrionfante: «A leggere la mano!».

Si sollevarono mormorii e qualcherisata.

«Ridete finché potete», disseBonnie, per niente offesa. «Miacugina mi ha detto che sono unasensitiva. Ora, fammi vedere...».Guardò il palmo di Elena.

«Sbrigati o faremo tardi», disseElena un po' impaziente.

«Va bene, va bene. Ora, questa èla linea della vita, o è quella delcuore?». Nella compagnia, qualcunosghignazzò. «Silenzio; sto cercando

nel vuoto. Vedo... vedo...».All'improvviso, la faccia di Bonniedivenne bianca, come se fossespaventata. Spalancò gli occhicastani, ma non sembrava più fissarela mano di Elena. Era come seattraverso la mano vedesse qualcosadi spaventoso.

«Incontrerai uno sconosciuto alto ebruno», mormorò Meredith da dietro.Ci fu un brusio di risatine.

«Bruno, sì, e sconosciuto... ma nonalto». La voce di Bonnie erasoffocata e distante.

«Anche se», continuò dopo un

momento, con aria perplessa, «unavol ta era alto». Sollevò i grandiocchi castani per incontrare quelli diElena, che era sconcertata. «Maquesto è impossibile... no?». Lasciòla mano di Elena, quasirespingendola. «Non voglio piùvedere».

«Okay, lo spettacolo è finito.Andiamo», disse Elena alle altre,leggermente irritata. Aveva semprepensato che i trucchi paranormalifossero appunto questo... trucchi.Perché allora era così turbata? Soloperché quel mattino era quasi andata

in paranoia lei stessa...Le ragazze si avviarono verso la

scuola, ma il rombo di un motoremesso bene a punto le fermò.

«Be', dico», esclamò Caroline,guardando. «Questa sì che è unamacchina».

«Questa sì che è una Porsche», lacorresse Meredith asciutta.

L'elegante 911 Turbo neraattraversò silenziosa il parcheggioalla ricerca di un posto, muovendosipigramente come una pantera che siavvicina alla preda.

Quando l'auto si fermò e la

portiera si aprì, intravidero ilguidatore.

«O mio dio», sospirò Caroline.«Puoi ben dirlo», sussurrò Bonnie.Da dove si trovava, Elena

scorgeva un fisico asciutto emuscoloso. Jeans sbiaditi chebisognava probabilmente scollarsi didosso la sera, una maglietta attillata euna giacca di cuoio di taglio insolito.I capelli erano ondulati... e bruni.

Non era alto, però. Solo di altezzamedia.

Elena emise un sospiro.«Chi è quell'uomo mascherato?»,

chiese Meredith. E l'osservazione eraappropriata; degli occhiali scurinascondevano completamente gliocchi del ragazzo, coprendogli lafaccia come una maschera.

« L o sconosciuto mascherato»,disse qualcun'altra, e cominciarono aparlottare.

«Vedi quella giacca? È italiana,come Roma».

«Come fai a saperlo? Non sei maistata più in là di Rome, nello Stato diNew York, in vita tua!».

«Oh-oh. Elena ha ancora quellosguardo. Lo sguardo da cacciatrice».

«Basso-Bruno-e-Bello farebbemeglio a fare attenzione».

«Non è basso; è perfetto!».Fra le chiacchiere, echeggiò

all'improvviso la voce di Caroline.«Oh, dai, Elena. Hai già Matt.Cos'altro vuoi? Cosa puoi fare condue che non puoi fare con uno?»

«La stessa cosa, solo più a lungo»,replicò Meredith, e il grupposcoppiò a ridere.

Il ragazzo aveva chiuso l'auto e sidirigeva verso la scuola. Connonchalance, Elena si avviò dietro dilui, le altre ragazze subito dietro in

gruppo compatto. Per un istante,fremette di irritazione. Non potevaandare da nessuna parte senza unaparata alle sue calcagna? MaMeredith colse il suo sguardo, e leisorrise suo malgrado.

«Noblesse oblige», disse Mereditha bassa voce.

«Cosa?»«Se vuoi diventare la regina della

scuola, devi accettarne leconseguenze».

Elena si accigliò, mentreentravano nell'edificio. Un lungocorridoio si estendeva di fronte a

loro, e una figura in jeans e giacca dipelle stava sparendo oltre la portadell'ufficio, più avanti. Man manoche si avvicinava all'ufficio Elenarallentava, per fermarsi infine a dareuna seria occhiata ai messaggi sullabacheca di fianco alla porta. Lì c'erauna grande finestra, attraverso laquale si vedeva l'intero ufficio.

Le altre ragazze guardavanoapertamente attraverso la finestra, eridacchiavano. «Bella vistaposteriore». «Quella è decisamenteuna giacca di Armani». «Pensi chevenga da un altro stato?».

Elena drizzava le orecchie persentire il nome del ragazzo.Sembrava che ci fosse qualcheproblema là dentro: la signoraClarke, la segretaria amministrativa,esaminava una lista scuotendo latesta. Il ragazzo disse qualcosa, e lasignora Clarke alzò le braccia comea chiedere "Che posso farci?".Scorse con il dito la lista e scosseancora la testa, in maniera risoluta. Ilragazzo fece per andarsene, poi tornòindietro. E quando la signora Clarkelo guardò, la sua espressione eracambiata.

Il ragazzo aveva ora gli occhialida sole in mano. La signora Clarkesembrava spaventata da qualcosa;Elena la vide sbattere gli occhidiverse volte. Apriva e chiudeva labocca come se cercasse di parlare.

Elena avrebbe voluto vederequalcosa di più che la nuca delragazzo. La signora Clarkearmeggiava con le pile di carte ora, esembrava frastornata. Alla fine,trovato un qualche modulo locompilò, poi lo capovolse e lospinse verso il ragazzo.

Dopo aver scritto qualcosa sul

modulo, firmandolo probabilmente, ilgiovane lo restituì. Dopo avergli datouna rapida scorsa, la signora Clarkearmeggiò con una nuova pila di carte,e infine gli consegnò quello chesembrava un programma dellelezioni. I suoi occhi nonabbandonarono mai il ragazzo mentrequesti lo prendeva, chinava la testaper ringraziarla, e si voltava verso laporta.

Elena era ormai fuori di sé dallacuriosità. Che cos'era appenasuccesso là dentro? E com'era lafaccia di questo sconosciuto? Ma

come uscì dall'ufficio, lui si rimisegli occhiali. Lei restò delusa.

Eppure, riuscì a vedere il resto delviso quando lui si fermò sulla soglia.I capelli ricci e scuri incorniciavanolineamenti così fini che avrebberopotuto essere presi da un'anticamoneta o medaglia romana. Zigomialti, naso classico e diritto... e unabocca che ti teneva sveglia di notte,pensò Elena. Il labbro superiore erasplendidamente scolpito, un po'delicato, decisamente sensuale. Ilchiacchiericcio delle ragazze nelcorridoio era cessato come se

qualcuno avesse girato l'interruttore.La maggior parte di loro voltava le

spalle al ragazzo ora, guardandoovunque tranne che nella suadirezione. Elena rimase al suo postovicino alla finestra e scrollòleggermente la testa, togliendosi ilfiocco in modo da far ricadere icapelli sciolti sulle spalle.

Senza guardarsi intorno, il ragazzoproseguì lungo il corridoio. Un corodi sospiri si levò nell'istante stessoin cui fu fuori portata d'orecchio.

Elena non lo sentì nemmeno.Lui le era passato accanto, pensò,

frastornata. Proprio accanto senzaneanche darle un'occhiata.

Vagamente, si rese conto che lacampanella stava suonando. Meredithla tirava per un braccio.

«Che c'è?»«Ho detto: ecco il tuo programma.

Abbiamo trigonometria al secondopiano adesso. Muoviti!».

Elena lasciò che Meredith laspingesse lungo il corridoio, su peruna rampa di scale, e dentro l'aula.Scivolò automaticamente su unasedia vuota e fissò gli occhisull'insegnante davanti a lei senza

nemmeno vederla. Lo shock non eraancora svanito.

Le era passato proprio accanto.Senza neanche darle un'occhiata. Nonriusciva a ricordare da quanto tempoi ragazzi non facevano così. Tuttiguardavano, come minimo. Alcunifischiavano. Alcuni si fermavano aparlare. Altri si limitavano a fissarla.

E questo era sempre andato bene aElena.

Dopo tutto, cosa c'era di piùimportante dei ragazzi? Erano ilsegno indicatore della tua popolaritàe della tua bellezza. E potevano

rendersi utili per un sacco di cose. Avolte erano eccitanti, anche se disolito non durava a lungo. A volteerano dei mascalzoni fin dall'inizio.

La maggior parte dei ragazzi,Elena rifletté, erano come cuccioli.Adorabili quando stavano al loroposto, ma sacrificabili. Davveropochi potevano essere più di questo,potevano diventare veri amici. ComeMatt.

Oh, Matt. L'anno prima avevasperato che lui fosse proprio quelloche cercava, il ragazzo che potevafarle provare... be' qualcosa di più.

Più che una sensazione di trionfonella conquista, e orgoglionell'esibire il nuovo acquisto allealtre ragazze. E lei era arrivata aprovare un forte affetto per Matt. Madurante l'estate, quando aveva avutotempo per riflettere, aveva capito cheera l'affetto di una cugina o di unasorella.

La signora Halpern stavaconsegnando i libri di trigonometria.Elena prese il suo meccanicamente evi scrisse sopra il nome, ancoraimmersa nelle sue riflessioni.

Matt le piaceva più di qualsiasi

altro ragazzo avesse mai conosciuto.Per questo doveva dirgli che erafinita.

Non aveva saputo come dirglieloper lettera. Non sapeva comedirglielo ora. Non perché temessestorie da parte sua; semplicementelui non avrebbe capito. Nemmeno leicapiva davvero.

Era come se cercasse sempre diraggiungere... qualcosa. Solo che,quando pensava di averla raggiunta,non c'era. Non con Matt, né connessun altro dei ragazzi che avevaavuto.

E poi doveva ricominciare tutto dacapo. Per fortuna, c'era sempre carnefresca. Nessun ragazzo era mairiuscito a resisterle, e nessun ragazzol'aveva mai ignorata. Finora.

Finora. Ripensando a quelmomento nel corridoio, Elena siaccorse che aveva le dita serrateintorno alla penna. Ancora nonriusciva a credere che lui le fossepassato accanto in quel modo.

La campanella suonò e tutti siriversarono fuori dall'aula, ma Elenasi attardò sulla porta. Si morse illabbro, esaminando il fiume di

studenti che scorreva nel corridoio.Poi notò una delle leccapiedi delparcheggio.

«Frances! Vieni qui».Frances arrivò entusiasta, il viso

insignificante tutto illuminato.«Ascolta, Frances, ti ricordi quel

ragazzo di stamattina?»«Quello con la Porsche e tutti

quei... ehm... pregi? Come potreidimenticarlo?»

«Bene, voglio il suo programmadelle lezioni. Prendilo dall'ufficio seriesci, o copialo da lui se devi. Mafallo!».

Per un attimo Frances sembròsorpresa, poi annuì sorridente.«Okay, Elena. Ci proverò. Se riescoci vediamo a pranzo».

«Grazie». Elena osservò laragazza andarsene.

«Sai, sei davvero matta», le dissela voce di Meredith in un orecchio.

«Che senso ha essere la reginadella scuola se non puoi sfruttare unpo' qualcuno ogni tanto?», risposeElena con calma. «Dove vado ora?»

«Economia. Tieni, prendilo tu».Meredith le cacciò in mano unprogramma. «Devo correre a

chimica. A dopo!».Economia, e il resto della mattina

passò confusamente. Elena avevasperato di rivedere il nuovo studente,ma non era a nessuna delle suelezioni. Matt sì, però, e lei sentì unafitta quando gli occhi azzurri delragazzo incontrarono i suoi con unsorriso.

Alla campanella del pranzo, salutòa destra e a sinistra mentre sidirigeva verso la caffetteria.Caroline era fuori, appoggiata connoncuranza a un muro, il mentosollevato, le spalle all'indietro, le

anche in avanti. I due ragazzi con cuistava parlando tacquero e si diederodi gomito quando Elena si avvicinò.

«Ciao», Elena disse asciutta airagazzi, e a Caroline: «Vieni dentro amangiare?».

Gli occhi verdi di Caroline sigirarono appena verso Elena, mentresi toglieva i capelli lisci e ramati dalvolto. «Come, alla tavola reale?»,disse.

Elena fu colta di sorpresa. Lei eCaroline erano amiche fin dall'asilo,ed erano sempre state bonariamentein competizione. Ma negli ultimi

tempi era successo qualcosa aCaroline. Aveva cominciato aprendere la rivalità sempre piùseriamente. E ora Elena fu sorpresadall'asprezza nella voce dellaragazza.

«Be', non è che tu sia unaqualunque», disse con leggerezza.

«Oh, su questo hai proprioragione», replicò Caroline,voltandosi per fronteggiare Elena.Quegli occhi verdi da gatta erano duefessure misteriose, ed Elena fusconvolta dall'ostilità che vi scorse. Idue ragazzi sorrisero imbarazzati e si

defilarono.Caroline non sembrò farci caso.

«Un sacco di cose sono cambiate daquando te ne sei andata quest'estate,Elena», continuò. «E forse il tuotempo sul trono sta per finire».

Elena era arrossita; lo sentiva. Sisforzò di mantenere la voce ferma.«Forse», disse. «Ma non comprereiancora uno scettro se fossi in te,Caroline». Si voltò ed entrò inmensa.

Fu un sollievo vedere Meredith eBonnie, e Frances con loro. Elena sisentiva le guance fredde mentre

sceglieva il pranzo e le raggiungeva.Non avrebbe permesso a Caroline disconvolgerla; non avrebbe affattopensato a Caroline.

«Ce l'ho», disse Frances, agitandoun foglio di carta mentre Elena sisedeva.

«E io ho buone notizie», si vantòBonnie. «Elena, senti qua. Lui halezione di biologia con me, e io glisono seduta proprio di fronte. Sichiama Stefan, Stefan Salvatore; èitaliano, e vive a pensione dallavecchia signora Flowers ai marginidella città». Sospirò. «È così

romantico. Caroline ha fatto cadere ilibri, e lui glieli ha raccolti».

Elena fece una smorfia. «Chemaldestra, Caroline. Che altro èsuccesso?»

«Be', è tutto. Non le ha davveroparlato. È mooolto misterioso, sai.La signora Endicott, la miainsegnante di biologia, ha cercato difargli togliere gli occhiali, ma lui nonha voluto. Ha un problema di salute».

«Che tipo di problema?»«Io non lo so. Forse è un malato

terminale e ha i giorni contati. Nonsarebbe romantico?»

«Oh, davvero», disse Meredith.Elena stava esaminando il foglio

di Frances, mordicchiandosi illabbro. «È con me alla settima ora,Storia europea. Qualcun altro haquella lezione?»

«Io», rispose Bonnie. «E ancheCaroline, penso. Oh, e forse Matt; hadetto qualcosa ieri sulla sua fortuna,ad avere il signor Meraviglioso,pensò Elena, prendendo la forchetta einfilzando il purè di patate. A quantopare la settima lezione sarebbe stataestremamente interessante.

Stefan era contento che la giornatadi scuola fosse quasi finita. Volevauscire da quei corridoi e dalle auleaffollate, anche solo per pochiminuti.

Tutte quelle menti. La pressione ditutti quei pensieri, tutte quelle vocimentali che lo circondavano, lostordiva. Erano anni che non sitrovava tra una folla come questa.

Una mente in particolare sidistingueva dalle altre. Lei era statafra quelle che lo avevano osservatonel corridoio principale della scuola.Non sapeva che aspetto avesse, ma la

sua personalità era forte. Era sicuroche l'avrebbe riconosciuta ancora.

Fin qui, almeno, era sopravvissutoal primo giorno di messinscena.Aveva usato i Poteri solo due volte,e anche allora con parsimonia. Maera stanco e, ammise mestamente,affamato. Il coniglio non era bastato.

Rimandò a dopo questapreoccupazione. Trovò la sua ultimaclasse e si sedette. E subito sentìancora la presenza di quella mente.

Brillava ai margini della suacoscienza, una luce dorata, tenueeppure vibrante. E, per la prima

volta, riuscì a localizzare la ragazzada cui proveniva. Era seduta propriodi fronte a lui.

Proprio mentre se ne rendevaconto, la ragazza si voltò e lui vide ilsuo viso. A stento riuscì a nontrasalire per lo shock.

Katherine! Ma naturalmente nonpoteva essere. Katherine era morta;nessuno lo sapeva meglio di lui.

Eppure, la somiglianza erastraordinaria. Gli stessi capelli oropallido, così chiari che quasibrillavano. La pelle lattea, che gliaveva sempre ricordato i cigni, o

l'alabastro, leggermente rosata suglizigomi. E gli occhi... gli occhi diKatherine erano stati di un colore chenon aveva mai visto prima; più scurodell'azzurro cielo, intenso come ilapislazzuli nel suo fermacapelliingioiellato. Questa ragazza avevaproprio gli stessi occhi.

Che fissavano direttamente i suoimentre sorrideva.

Distolse subito lo sguardo da quelsorriso. L'ultima cosa che voleva erapensare a Katherine. Non volevaguardare questa ragazza che glielaricordava, e non voleva più sentire la

sua presenza. Tenne gli occhi fissisul banco, cercando di bloccare lasua mente come meglio poteva. Ealla fine, lentamente, lei gli diede dinuovo le spalle.

Era ferita. Lo sentiva nonostante lamente bloccata. Non gli importava.Anzi, ne era contento, e sperava chequesto l'avrebbe tenuta lontana dalui. A parte ciò, non provava nessunsentimento per lei.

Continuava a ripeterselo mentreera seduto, la voce monotonadell'insegnante che gli scorrevaaddosso inascoltata. Ma riusciva a

percepire un tenue accenno diprofumo... viole, pensò. Il lungocollo candido di lei era chino sullibro, mentre i capelli chiariricadevano da entrambi i lati.

Con rabbia e frustrazionericonobbe quella sensazioneseducente nei denti, più un prurito oun formicolio che un dolore. Era lafame, una fame specifica. A cui luinon avrebbe ceduto.

L'insegnante stava camminandoper l'aula come un furetto, facendodomande, e Stefan deliberatamentefissò l'attenzione sull'uomo.

Dapprima rimase perplesso, perchésebbene nessuno studente sapesse lerisposte, le domande continuavano lostesso. Poi capì che quello era loscopo dell'uomo: umiliare glistudenti chiedendo ciò che nonsapevano.

Proprio allora aveva trovatoun'altra vittima, una ragazza minutacon una massa di capelli rossi e lafaccia a forma di cuore. Stefanosservò con disgusto mentrel'insegnante la incalzava con ledomande. La ragazza aveva un'ariainfelice mentre l'insegnante si

voltava per rivolgersi all'interaclasse.

«Vedete cosa intendo? Vi credetechissà che; siete all'ultimo, anno,pronti per diplomarvi. Be', lasciateche ve lo dica, alcuni di voi non sonopronti neanche per il diplomadell'asilo. Come lei!». Indicò laragazza dai capelli rossi. «Non saassolutamente niente dellaRivoluzione francese. Pensa cheMaria Antonietta sia una diva delcinema muto».

Gli studenti intorno a Stefan simuovevano a disagio. Percepiva il

risentimento nelle loro menti, el'umiliazione. E la paura. Tuttiavevano paura di quest'omino magrocon gli occhi da donnola, persino iragazzi che erano più alti di lui.

«Va bene, proviamo un'altraepoca». L'insegnante si girò di nuovoverso la stessa ragazza che aveva giàinterrogato. «Durante ilRinascimento...». Si interruppe. «Tusai cos'è il Rinascimento, vero? Ilperiodo fra il tredicesimo e ildiciassettesimo secolo, in cuil'Europa riscoprì le grandi ideedell'antica Grecia e di Roma? Il

periodo che produsse moltissimi deimaggiori artisti e pensatorid'Europa?». Quando la ragazza annuìconfusamente, continuò. «Durante ilRinascimento, che cosa facevano ascuola gli studenti della tua età?Allora? Nessuna idea? Nessunasupposizione?».

La ragazza deglutì. Con un sorrisostentato disse: «Giocavano afootball?».

Seguì una risata, e il professore siscurì in volto. «Certo che no!»,rispose seccamente, e la classetacque. «Pensate che sia uno

scherzo? Be', a quei tempi, glistudenti della vostra età conoscevanobene molte lingue. Erano ancheesperti di logica, matematica,astronomia, filosofia e grammatica.Erano pronti per andareall'università, dove ogni materia erainsegnata in latino. Il football era inassoluto l'ultima cosa che...».

«Mi scusi».Una voce tranquilla interruppe il

professore a metà dell'arringa. Tuttisi voltarono a guardare Stefan.

«Cosa? Cos'hai detto?»«Ho detto "mi scusi"», ripeté

Stefan, togliendosi gli occhiali ealzandosi in piedi. «Ma lei sisbaglia. Gli studenti nelRinascimento erano incoraggiati aprendere parte ai giochi. Siinsegnava loro che un corpo sano siaccompagna a una mente sana. Ecertamente praticavano sport disquadra, come il cricket, il tennis epersino il football». Si voltòsorridendo verso la ragazza daicapelli rossi, e lei ricambiò ilsorriso con gratitudine.All'insegnante aggiunse: «Ma le cosepiù importanti che imparavano erano

le buone maniere e la cortesia. Sonosicuro che il suo libro glieloconfermerà».

Gli studenti sogghignavano. Ilvolto del professore era rossosangue, mentre farfugliava. Ma Stefancontinuò a tenere gli occhi fissi neisuoi, e dopo un minuto fu l'insegnantea distogliere lo sguardo.

La campanella suonò.Stefan si rimise in fretta gli

occhiali e raccolse i libri. Aveva giàattirato su di sé più attenzione diquanto avrebbe dovuto, e non volevaessere costretto a guardare ancora la

ragazza bionda. Inoltre, avevabisogno di uscire di lì alla svelta;provava una familiare sensazione dibruciore nelle vene.

Appena raggiunse la porta,qualcuno gli gridò: «Ehi! Giocavanoveramente a football allora?».

Non riuscì a trattenere il sorrisomentre si voltava indietro. «Oh, sì. Avolte con le teste decapitate deiprigionieri di guerra».

Elena lo guardò mentre se ne

andava. Le aveva deliberatamentedato le spalle per evitarla. L'aveva

ignorata di proposito, e davanti aCaroline, che osservava come unfalco. Aveva gli occhi pieni dilacrime, ma in quel momento solo unpensiero le occupava la mente.

Sarebbe stato suo, anche a costodella vita. Anche a costo della vita dientrambi, sarebbe stato suo.

Capitolo 3

Le prime luci dell'alba striavano ilcielo notturno di rosa e di un verdepallidissimo. Stefan lo contemplòdalla finestra della sua stanza nelpensionato. Aveva affittato quellastanza in particolare per la botola sulsoffitto, una botola che si apriva sultetto terrazzato di sopra. In quelmomento la botola era aperta e unvento freddo e umido scendeva lungola scala di sotto. Stefan eracompletamente vestito, ma non

perché si fosse alzato presto. Non eraneppure andato a dormire.

Era appena tornato dai boschi, ealcuni frammenti di foglie bagnateaderivano ai bordi del suo stivale. Lispazzolò via con fastidio. I commentidegli studenti, il giorno prima, nongli erano sfuggiti, e sapeva cheavevano notato i suoi vestiti. Si erasempre vestito al meglio, non persemplice vanità, ma perché era lacosa giusta da fare. Il suo tutorel'aveva detto spesso: "Unaristocratico dovrebbe vestire inmodo adeguato alla sua posizione. Se

non lo fa, dimostra disprezzo per glialtri". Tutti avevano un posto nelmondo, e un tempo il suo posto erastato tra la nobiltà. Un tempo.

Perché indugiava su questiricordi? Certo, avrebbe dovutocapire che interpretare il ruolo di unostudente probabilmente gli avrebberiportato alla memoria i giorni cheaveva trascorso a scuola. Ora iricordi gli tornavano in mentenumerosi e rapidi, come se sfogliassele pagine di un diario, cogliendoun'annotazione qua e là. Una inparticolare gli balenava vividamente

davanti agli occhi in questomomento: il volto di suo padrequando Damon aveva annunciato cheavrebbe lasciato l'università. Nonl'avrebbe mai dimenticato. Nonaveva mai visto suo padre cosìarrabbiato...

«Cosa vuol dire che non

tornerai?». Di solito Giuseppe era unuomo giusto, ma aveva un bruttocarattere, e il figlio maggiore tiravafuori la violenza che c'era in lui.

Proprio in quel momento quelfiglio si puliva le labbra con un

fazzoletto di seta color zafferano.«Avrei pensato che perfino voipoteste capire una frase tantosemplice, padre. Ve la ripeto inlatino?»

«Damon...», Stefan cominciòinquieto, sbalordito da quellamancanza di rispetto. Ma suo padrel'interruppe.

«Mi stai dicendo che io, Giuseppe,Conte di Salvatore, dovrò affrontaregli amici sapendo che mio figlio èuno scioperato? Un fannullone? Unosfaticato che non darà alcuncontributo utile a Firenze?» I

servitori si defilavano mentre l'ira diGiuseppe cresceva sempre più.

Damon non batté neanche ciglio.«A quanto pare. Se chiamate vostriamici quelli che vi adulano nellasperanza che voi prestiate loro un po'di denaro».

«Sporco parassita!», urlòGiuseppe, alzandosi dalla sedia.«Non è già abbastanza che a scuolasprechi il tuo tempo e i miei soldi?Oh, sì, so tutto delle scommesse,delle giostre e delle donne. E so chese non fosse per il tuo segretario e itutori verresti bocciato in ogni

materia. Ma adesso hai deciso didisonorarmi completamente. Eperché? Perché?». Sollevò la grossamano per afferrare il mento diDamon. «Così da poter tornare alletue battute di caccia e allafalconeria?».

Stefan dovette riconoscerlo: suofratello Damon non eraindietreggiato. Era rimasto fermo,quasi indolente nella stretta di suopadre, aristocratico fino al midollo,dal cappello di una sempliceeleganza sui capelli scuri al mantelloorlato di ermellino e le scarpe di

morbido cuoio. Il labbro superioreera curvato in una linea di puraarroganza.

Sei andato troppo oltre stavolta,pensò Stefan, mentre osservava i dueuomini che si fissavano negli occhi.Neppure tu con il tuo fascinoriuscirai a uscirne questa volta.

Ma proprio allora si sentì un passoleggero sulla soglia dello studio.Voltandosi, Stefan era rimastoabbagliato da due occhi colorlapislazzuli, incorniciati da lungheciglia dorate. Era Katherine. Suopadre, il barone von Swartzschild,

l'aveva portata nella campagnaitaliana dalle fredde terre deiprincipi tedeschi, sperando diaiutarla a riprendersi da una lungamalattia. E dal giorno del suo arrivo,tutto era cambiato per Stefan.

«Vi chiedo scusa. Non intendevointromettermi». La sua voce erasommessa e cristallina. Avevaaccennato un leggero movimento,come per andarsene.

«No, non andate. Restate», disseStefan rapidamente. Voleva dire dipiù, prenderla per la mano, ma nonosava. Non con suo padre presente.

Tutto ciò che poteva fare eracontemplare quegli occhi azzurricome gioielli rivolti verso di lui.

«Sì, restate», disse Giuseppe, eStefan vide che l'espressionetempestosa di suo padre si eraaddolcita e che aveva lasciato andareDamon. Fece un passo avanti,raddrizzando le pesanti pieghe delsuo lungo vestito orlato di pelliccia.«Vostro padre dovrebbe ritornaredalle sue commissioni in città oggi, esarà contento di vedervi. Ma levostre guance sono pallide, piccolaKatherine. Non starete di nuovo

male, spero?»«Sapete che sono sempre pallida,

signore. Non uso il belletto come levostre sfrontate ragazze italiane».

«Non ne avete bisogno», disseStefan prima di potersi fermare, eKatherine gli sorrise. Era bellissima.Sentì una fitta nel petto.

Suo padre continuò: «Vi vedotroppo poco durante il giorno.Raramente ci date il piacere dellavostra compagnia prima delcrepuscolo».

«Ho i miei studi e le preghierenelle mie stanze, signore», disse

Katherine tranquillamente, le cigliaabbassate. Stefan sapeva che questonon era vero, ma non disse nulla; nonavrebbe mai tradito il segreto diKatherine. Lei guardò ancora suopadre. «Ma sono qui, ora, signore».

«Sì, sì, questo è vero. Invece iodevo fare in modo che la cena distasera per il ritorno di vostro padresia molto speciale. Damon... noiparleremo più tardi». AppenaGiuseppe, fatto cenno a un servitore,fu uscito, Stefan si voltò con gioiaverso Katherine. Era raro che sipotessero parlare senza la presenza

di suo padre o di Gudren,l'imperturbabile domestica tedescadella ragazza.

Ma ciò che Stefan vide fu come unpugno allo stomaco. Katherinesorrideva, quel lieve sorrisoriservato che spesso aveva condivisocon lui. Ma non stava guardando lui.Guardava Damon.

In quel momento Stefan odiò suofratello, odiò la bruna bellezza diDamon e la grazia e la sensualità cheattiravano le donne a lui come falenea una fiamma. Desiderò, inquell'istante, colpire Damon, fare a

pezzi quella bellezza. Invece dovetterestare e guardare Katherineavvicinarsi lentamente a suo fratello,passo dopo passo, la gonna dibroccato dorato che frusciava sulpavimento di piastrelle. E propriomentre guardava, Damon tese lamano a Katherine, e sorrise ilcrudele sorriso del trionfo...

Stefan diede di scatto le spalle

alla finestra.Perché riapriva vecchie ferite?

Ma, anche mentre formulava ilpensiero, tirò fuori la sottile catenina

d'oro che portava sotto la maglietta.L'indice e il pollice accarezzaronol'anello che vi era appeso, poi losollevò in piena luce.

Il piccolo cerchietto erasquisitamente lavorato in oro, ecinque secoli non erano riusciti aoffuscare la sua brillantezza. Vi eraincastonata una pietra, un lapislazzuligrande come l'unghia del suomignolo. Stefan lo esaminò, poiosservò il pesante anello d'argento,anch'esso con un lapislazzuli, sullasua mano. Nel petto sentiva unastretta familiare.

Non poteva dimenticare il passato,né lo voleva davvero. Nonostantetutto ciò che era successo, il ricordodi Katherine gli era caro. Ma c'era unricordo che non doveva in veritàdisturbare, una pagina del diario chenon doveva sfogliare. Se avessedovuto rivivere quell'orrore, quel...quell'abominio, sarebbe impazzito.Com'era impazzito quel giorno, ilgiorno finale, quando aveva assistitoalla sua stessa dannazione...

Stefan si appoggiò alla finestra, lafronte contro il vetro freddo. Il suotutore aveva avuto un altro motto: "Il

male non troverà mai pace. Puòtrionfare, ma non troverà mai pace".

Perché mai era venuto a Fell'sChurch?

Aveva sperato di trovare pace qui,ma questo era impossibile. Nonsarebbe mai stato accettato; nonavrebbe mai avuto riposo. Perché luiera il male. Non poteva cambiare lasua natura.

Elena si alzò ancora più presto del

solito quella mattina. Sentiva la ziaJudith che si affaccendava in camerasua, preparandosi per la doccia.

Margaret era ancora profondamenteaddormentata, rannicchiata nel suoletto come un topolino. Elenaoltrepassò silenziosamente la portasemiaperta della sorellina e proseguìlungo il corridoio per uscire di casa.

L'aria era fresca e limpida; il meloera popolato unicamente dai solitipasserotti. Elena, che era andata aletto con un mal di testa martellante,levò il viso al cielo sereno e azzurroe inspirò profondamente.

Si sentiva molto meglio del giornoprecedente. Aveva promesso divedersi con Matt prima della scuola,

e sebbene non ne morisse dallavoglia, era certa che sarebbe andatotutto bene.

Matt abitava a solo due strade didistanza dal liceo. La sua era unasemplice casa di legno, come tutte lealtre della strada, tranne forse perl'altalena nel portico un po' piùmalridotta e la vernice un po' piùscrostata. Matt era già fuori, e per unmomento il suo cuore accelerò comeuna volta alla vista del ragazzo.

E r a proprio bello. Non c'eradubbio. Non nel modo stupefacente equasi inquietante in cui lo era certa

gente, ma in un sano modoamericano. Matt Honeycutt eraamericano al cento per cento. Avevai capelli biondi tagliati corti per lastagione di football, e la pelleabbronzata per i lavori all'apertonella fattoria dei nonni. Gli occhiazzurri erano onesti e schietti. E inquel preciso giorno, mentre tendevale braccia per stringerladelicatamente, erano un po' tristi.

«Vuoi entrare?»«No. Facciamo una passeggiata»,

rispose Elena. Camminarono fianco afianco senza toccarsi. La strada era

fiancheggiata da aceri e nociamericani, e l'aria era ancorapervasa dalla quiete del mattino.Elena si guardava i piedi sulmarciapiede bagnato, sentendosiimprovvisamente insicura. Nonsapeva come cominciare, dopo tutto.

«Allora, non mi hai ancoraraccontato niente della Francia»,disse lui.

«Oh, è stato fantastico», risposeElena, guardandolo di sottecchi.Anche lui stava fissando ilmarciapiede. «È stato tuttofantastico», continuò, cercando di

mettere un po' di entusiasmo nellavoce. «La gente, il cibo, tutto. È statoveramente...». La voce le si smorzò,e lei rise nervosamente.

«Sì, lo so. Fantastico», finì lui alsuo posto. Si fermò e rimase a fissarele sue scarpe da tennis logore. Elenariconobbe che erano quelle dell'annoprima. La famiglia di Matt tiravaavanti a malapena; forse non avevapotuto permettersene un nuovo paio.Alzato lo sguardo, trovò quei pacatiocchi azzurri fissi sul suo viso.

«Sai, tu hai un'aria fantastica inquesto momento», lui disse.

Elena aprì la bocca, costernata, malui aveva ricominciato a parlare.

«E suppongo che tu abbia qualcosada dirmi». Lei lo fissò e lui sorrise,malinconico. Poi tese di nuovo lebraccia.

«Oh, Matt», disse lei, stringendoloforte. Si scostò per guardarlo infaccia. «Matt, sei il ragazzo piùcarino che abbia mai incontrato. Nonti merito».

«Ah, quindi è per questo che mistai lasciando», disse Matt quandoricominciarono a camminare.«Perché sono troppo buono per te.

Avrei dovuto capirlo prima».Lei gli diede un pugno sul braccio.

«No, non è per questo, e non ti stolasciando. Rimarremo amici,giusto?»

«Oh, sicuro. Assolutamente».«Perché ho capito che è questo che

siamo». Si interruppe, guardandoloancora. «Buoni amici. Sii sincero,Matt, non è questo che provi perme?».

Lui la guardò, poi alzò gli occhi alcielo. «Posso invocare il diritto dinon rispondere?», chiese. QuandoElena sbiancò, aggiunse: «Non ha

niente a che fare con il nuovoragazzo, vero?»

«No», disse lei dopo una leggeraesitazione, e poi aggiunseprecipitosamente: «Non l'ho neancheincontrato, ancora. Non lo conosco».

«Però ti piacerebbe. No, nondirlo». Le mise un braccio sullaspalla e la voltò delicatamente. «Dai,andiamo a scuola. Se abbiamotempo, ti compro pure unaciambella».

Mentre camminavano, qualcosa siagitò nel noce sopra di loro. Mattfischiò e lo indicò. «Guarda quello!

È il corvo più grande che abbia maivisto».

Elena guardò, ma il corvo era giàvolato via.

Quel giorno la scuola fu per Elena

semplicemente un posto adatto perriesaminare il suo piano.

Si era svegliata quella mattinasapendo esattamente cosa fare. Equel giorno raccolse quante piùinformazioni possibili a proposito diStefan Salvatore. Cosa non difficile,perché tutti quanti al Robert E. Leeparlavano di lui.

Si sapeva che aveva avuto unadiscussione di qualche tipo con lasegretaria amministrativa il giornoprecedente. E oggi era statoconvocato nell'ufficio del preside.Qualcosa a proposito dei suoidocumenti. Ma il preside l'avevarimandato in classe (dopo, sivociferava, una telefonatainterurbana a Roma... o eraWashington?), e tutto sembravasistemato ora. Ufficialmente, almeno.

Quando Elena arrivò alla lezionedi Storia europea quel pomeriggio, fuaccolta da un fischio sommesso in

aula. Dick Carter e Tyler Smallwoodbighellonavano lì dentro. Che coppiadi perfetti idioti, pensò, ignorando ilfischio e la loro occhiata. Siritenevano chissà che perché eranodifensori nella squadra di footballdella scuola. Li tenne d'occhiomentre indugiava anche lei nelcorridoio, risistemandosi il rossettoe armeggiando con la cipria. Avevadato a Bonnie le sue istruzioniparticolari, e il piano era pronto peressere messo in pratica non appenaStefan fosse apparso. Lo specchiettodel portacipria le dava una magnifica

visuale del corridoio dietro di lei.Eppure, in qualche modo si perse

il suo arrivo. All'improvviso se lotrovò di fianco, e chiuse di scatto ilportacipria mentre lui passava.Intendeva fermarlo, ma successequalcosa prima che ne avesse lapossibilità. Stefan si irrigidì o,almeno, c'era qualcosa in lui chesembrava improvvisamente all'erta.Proprio allora Dick e Tyler si miserodavanti alla porta della classe distoria. Bloccando il passaggio.

Idioti di prima categoria, pensòElena. Furiosa, li guardò con astio da

sopra la spalla di Stefan.Loro si godevano il giochino,

ciondolando sulla soglia, fingendo dinon accorgersi affatto di Stefan fermolì in piedi.

«Permesso». Era lo stesso tonoche aveva usato con il professore distoria. Calmo, distaccato.

Dick e Tyler si guardaronodapprima l'un l'altro, poi intorno,come se sentissero dei fantasmi.

«Permeesso?», Tyler disse infalsetto. «Permesso? Permeesso?Espresso?». Entrambi risero.

Elena vide i muscoli sotto la

maglietta davanti a lei. Questo eradel tutto scorretto; erano entrambipiù alti di Stefan, e Tyler era duevolte più largo.

«C'è qualche problema?». Elena fusorpresa quanto i ragazzi dalla nuovavoce dietro di lei. Si voltò e videMatt; i suoi occhi azzurri avevanoun'espressione dura.

Elena si morse le labbrasorridendo, mentre Tyler e Dickrisentiti si toglievano lentamente dimezzo. Buon vecchio Matt, pensò.Ma ora il buon vecchio Matt stavaentrando in classe di fianco a Stefan,

e a lei non rimase che seguirli,guardando le schiene dei due.Quando si sedettero, lei scivolò nelbanco dietro a Stefan, da dovepoteva osservarlo senza essereosservata. Il suo piano dovevaaspettare fino alla fine della lezione.

Matt faceva tintinnare le moneteche aveva in tasca, il che significavache voleva dire qualcosa.

«Ehm, ehi», finalmente cominciò,a disagio. «Quei ragazzi, sai...».

Stefan rise. Una risata amara. «Chisono io per giudicare?». C'era piùemozione nella sua voce di quanta

Elena ne avesse sentita finora,persino quando aveva parlato alsignor Tanner. E quell'emozione erapura infelicità. «Comunque, perchédovrei essere il benvenuto qui?»terminò, quasi fra sé e sé.

«E perché non dovresti?». Mattstava fissando Stefan; ora la suamascella si serrò con decisione.«Ascolta», disse. «Ieri parlavi difootball. Be', il nostro migliorricevitore si è rotto un legamento ieripomeriggio, e abbiamo bisogno di unsostituto. Le selezioni sono questopomeriggio. Che ne pensi?»

«Io?». Stefan sembrava colto allasprovvista. «Ah... Non so se sonocapace».

«Sai correre?»«Se so...?». Stefan si girò per metà

verso Matt, ed Elena vide che undebole accenno di sorriso gliincurvava le labbra. «Sì».

«Sai prendere una palla al volo?»«Sì».«Questo è tutto ciò che un

ricevitore deve fare. Io sono ilquarterback. Se riesci a prendere ciòche ti lancio e correre con quello,allora puoi giocare».

«Capisco». Stefan in effetti quasisorrideva, e sebbene la bocca diMatt fosse seria i suoi occhiridevano. Sbalordita lei stessa, Elenasi rese conto di essere gelosa. C'eraun calore fra i due ragazzi che laestrometteva completamente.

Ma l'istante successivo il sorrisodi Stefan sparì. Disse in manieradistaccata: «Grazie... ma no. Ho altriimpegni».

In quel momento, Bonnie eCaroline arrivarono e cominciò lalezione.

Per tutta l'ora di Tanner

sull'Europa, Elena ripeteva a sestessa: "Salve. Mi chiamo ElenaGilbert. Sono nel Comitato diaccoglienza dell'ultimo anno, e mihanno incaricata di farti visitare lascuola. Ora, tu non vorresti maimettermi nei guai impedendomi difare il mio lavoro, no?". Questo congli occhioni umidi, ma solo in casolui avesse avuto intenzione disottrarsi. Era praticamente a prova dibomba. Sicuramente non resistevaalle fanciulle bisognose di aiuto.

A metà della lezione, la ragazzaseduta alla sua destra le passò un

biglietto. Elena lo aprì e riconobbela grafia rotonda e infantile diBonnie. Diceva: "Ho tenuto C. allalarga quanto ho potuto. Che èsuccesso? Ha funzionato???".

Elena alzò lo sguardo e videBonnie girarsi verso di lei dal suoposto in prima fila. Elena indicò lanota e fece segno di no con la testasillabando "Do-po-la-le-zio-ne".

Sembrò che passasse un secoloprima che Tanner desse alcuneistruzioni dell'ultimo minuto sulleinterrogazioni e li congedasse. Poi sialzarono tutti insieme. Eccolo, pensò

Elena, e, con il cuore in subbuglio, simise apertamente sulla strada diStefan, bloccando il passaggio cosìda impedirgli di aggirarla.

Proprio come Dick e Tyler, pensò,sentendo un bisogno isterico diridacchiare. Alzò lo sguardo e sitrovò con gli occhi al livello dellasua bocca.

Ebbe un vuoto mentale. Cos'è cheavrebbe dovuto dire? Aprì la bocca,e in qualche modo il discorso cheaveva provato uscì a precipizio.«Ciao, mi chiamo Elena Gilbert, esono nel Comitato di accoglienza

dell'ultimo anno e mi hannoincaricata...».

«Scusa; non ho tempo». Per unminuto non riuscì a credere che luistesse parlando, che non le avrebbeneanche dato l'opportunità di finire.La sua bocca andò avanti con ildiscorso.

«...di farti visitare la scuola...».«Scusa, ma non posso. Devo...

devo andare alle selezioni difootball». Stefan si voltò verso Matt,che era fermo lì accanto con ariastupita. «Hai detto che erano subitodopo la scuola, giusto?»

«Sì», disse Matt lentamente.«Ma...».

«Allora è meglio che mi sbrighi.Forse puoi indicarmi la strada».

Matt guardò impotente Elena, poialzò le spalle. «Be'... certo. Vieni».Si guardò indietro mentre se neandavano. Stefan invece no.

Elena si ritrovò a guardare ungruppo di osservatori interessati,compresa Caroline, che sogghignavaapertamente. Si sentì il corpointorpidito e un groppo in gola. Nonpoteva sopportare di rimanere lì unsecondo di più. Si voltò e se ne andò

il più velocemente possibile dallaclasse.

Capitolo 4

Quando Elena raggiunsel'armadietto, l'intorpidimento stavasvanendo e il groppo in gola si stavasciogliendo in lacrime. Ma nondoveva piangere a scuola, si disse,n o n doveva. Dopo aver chiusol'armadietto, si diresse all'uscitaprincipale.

Per il secondo giorno di fila,tornava a casa da scuola subito dopola campanella, e da sola. Zia Judithnon sarebbe riuscita ad affrontarla,

ma quando Elena raggiunse casa sua,l'auto della zia non era nel vialetto;lei e Margaret dovevano essereandate al mercato. Quando Elenaentrò, la casa era silenziosa e quieta.

Era contenta di quell'immobilità;voleva rimanere da sola adesso. Ma,d'altra parte, non sapeva esattamentecosa fare di se stessa. Ora chefinalmente poteva piangere, scoprìche le lacrime non volevano venire.Lasciò cadere lo zaino sul pavimentonell'ingresso e si diresse lentamentein soggiorno.

Era una stanza bella e imponente,

l'unica parte dell'edificio, oltre allacamera di Elena, che risaliva allastruttura originaria. La prima casaera stata costruita prima del 1861,ma era stata quasi completamentebruciata durante la guerra civile.Tutto ciò che si poté salvare fuquesta stanza, con il suo caminettoelaborato incorniciato da unamodanatura a spirale, e la grandecamera da letto al piano di sopra. Ilbisnonno del padre di Elena avevacostruito una nuova casa, che iGilbert abitavano da allora.

Elena si voltò a guardare fuori da

una delle porte-finestre alte fino alsoffitto. Il vetro, molto vecchio, eraspesso e irregolare, e fuori tuttosembrava distorto, leggermentealticcio. Ricordava la prima voltache suo padre le aveva mostrato quelvecchio vetro irregolare, quando erapiù piccola di Margaret.

Il groppo in gola era tornato, maancora le lacrime non venivano.Tutto dentro di lei eracontraddittorio. Non volevacompagnia, eppure si sentiva moltosola. Voleva pensare, ma ora che ciprovava, i pensieri le sfuggivano

come topi davanti a un gufo bianco.Gufo bianco... uccello da preda...

carnivoro... corvo, pensò. "Il corvopiù grosso che abbia mai visto",aveva detto Matt.

Le bruciavano ancora gli occhi.Povero Matt. L'aveva ferito, eppurelui era stato così gentile in proposito.Era perfino stato gentile con Stefan.

Stefan. Il cuore le pulsò forte, unavolta, facendo sgorgare due caldelacrime dagli occhi. Ecco, piangevaalla fine. Piangeva di rabbia,umiliazione e frustrazione... ecos'altro?

Cosa aveva realmente perso quelgiorno? Che cosa sentiva davveroper questo sconosciuto, questo StefanSalvatore? Era una sfida, sì, e questolo rendeva diverso, interessante.Stefan era esotico... eccitante.

Strano, questo è ciò che i ragazzidicevano a volte di Elena. Eultimamente aveva sentito dire daloro, o dai loro amici o dalle sorelle,quanto fossero nervosi prima diuscire con lei, come le manisudassero e si sentissero le farfallenello stomaco. Elena aveva sempretrovato divertenti queste storie.

Nessun ragazzo l'aveva mai fattasentire nervosa.

Ma quando aveva parlato a Stefan,il battito era fortissimo, le ginocchiadeboli. Le mani erano sudate. E nellostomaco non aveva sentito farfalle,ma pipistrelli.

Si interessava a quel ragazzoperché la faceva sentire nervosa?Non un granché come ragione, sidisse. Anzi, una pessima ragione.

Ma c'erano anche quelle labbra.Quelle labbra scolpite che lefacevano tremare le ginocchia perqualcosa di completamente diverso

dal nervosismo. E quei capelli nericome la notte... si sentiva pizzicare ledita per il desiderio di accarezzarequella morbidezza. Quel corpo agile,muscoloso, le gambe lunghe... equel la voce. Era la sua voce chel'aveva convinta il giorno prima,rendendola assolutamentedeterminata ad averlo. La sua voceera fredda e sdegnosa mentre parlavacon il signor Tanner, maciononostante stranamentepersuasiva. Chissà se anche quellapoteva diventare nera come la notte,e che suono avrebbe avuto nel

pronunciare il suo nome, nelsussurrare il suo nome...

«Elena!».Elena sobbalzò, la sua

fantasticheria in frantumi. Ma non eraStefan Salvatore a chiamarla, era ziaJudith che apriva la porta d'ingresso.

«Elena? Elena!». E questa eraMargaret, la voce acuta e penetrante.«Sei a casa?».

Elena fu di nuovo sopraffatta dallatristezza, e diede un'occhiata incucina. Non poteva affrontare ledomande preoccupate di sua zia ol'innocente allegria di Margaret in

quel momento. Non con le cigliaumide e con la minaccia di nuovelacrime da un momento all'altro.Prese una decisione fulminea esilenziosamente sgusciò dalla portasul retro mentre quella davanti sichiudeva.

Una volta sul portico e nelgiardino, esitò. Non volevaincontrare nessun conoscente. Madove poteva andare per restare sola?

La risposta arrivò quasiistantaneamente. Ma certo. Sarebbeandata a trovare mamma e papà.

Era una camminata abbastanza

lunga; quasi al margine della città,ma negli ultimi tre anni era diventatafamiliare a Elena. AttraversatoWickery Bridge salì sulla collina,oltrepassò la chiesa in rovina e scesenella valletta sottostante.

Questa parte del cimitero era bentenuta; la vecchia sezione, invece,veniva lasciata a inselvatichireleggermente. Qui l'erba eraaccuratamente tagliata, e i mazzi difiori formavano chiazze di colorivivaci. Elena sedette vicino allagrande lapide di marmo conl'iscrizione "Gilbert".

«Ciao mamma. Ciao papà»,mormorò. Si chinò per posareun'Impatiens purpurea che avevaraccolto lungo la strada davanti almercato. Poi ripiegò le gambe sottodi sé e si sedette.

Era venuta spesso qui dopol'incidente. Margaret aveva solo unanno all'epoca; non se li ricordavanemmeno. Ma Elena sì. Ora lasciòche la mente sfogliasse i ricordi, e ilgroppo in gola si ingrossò, e lelacrime comparvero più facilmente.Sentiva ancora tantissimo la loromancanza. Della madre, così giovane

e bella, e del padre, con un sorrisoche gli creava mille rughe intornoagli occhi.

Naturalmente era fortunata adavere zia Judith. Non tutte le zieavrebbero lasciato il proprio lavoroper tornare in una piccola cittadina aoccuparsi di due nipoti rimasteorfane. E Robert, il fidanzato di ziaJudith, per Margaret era più unpatrigno che un futuro zio acquisito.

Ma Elena ricordava bene igenitori. A volte, subito dopo ilfunerale, era uscita per inveire controdi loro, arrabbiata perché erano stati

così stupidi da farsi ammazzare.Questo quando ancora non conoscevazia Judith molto bene, e sentiva chenon c'era più nessun posto al mondoche potesse considerare casa sua.

Dov'era casa sua ora?, sidomandava. La risposta più facileera: qui, a Fell's Church, dove avevavissuto per tutta la vita. Maultimamente la risposta più facilesembrava sbagliata. Ultimamentesentiva che ci doveva esserequalcos'altro là fuori per lei, unposto che avrebbe riconosciutoall'istante e chiamato casa.

Un'ombra calò su di lei. Alzò losguardo, spaventata. Per un istante, ledue figure che troneggiavano su di leile risultarono estranee, sconosciute,vagamente minacciose. Lei guardò,raggelata.

«Elena», disse irritata la figura piùminuta, le mani sui fianchi, «a voltem i preoccupo davvero per te, dicosul serio».

Sbattendo le palpebre Elena risebrevemente. Erano Bonnie eMeredith. «Che cosa deve fare unapersona per avere un po' di privacyda queste parti?», disse mentre si

sedevano.«Dicci di andarcene», suggerì

Meredith, ma Elena alzòsemplicemente le spalle. Meredith eBonnie erano spesso andate atrovarla nei mesi successiviall'incidente. All'improvviso ne fucontenta, e grata a entrambe. Se casasua non era da nessun'altra parte, eracon gli amici che le volevanoveramente bene. Non le importavache sapessero che aveva pianto, eaccettò il fazzoletto appallottolatoche Bonnie le offrì per asciugarsi gliocchi. Rimasero tutte e tre sedute

insieme in silenzio per un po',osservando il vento che facevaondeggiare il boschetto di querce aimargini del cimitero.

«Mi dispiace di quanto èsuccesso», disse Bonnie alla fine, avoce bassa. «È stato davveroterribile».

«Certo che il tuo secondo nome è"Tatto"», disse Meredith. «Non puòessere stato tanto male, Elena».

«Non c'eravate». Elena sentì che sistava ancora agitando al ricordo. «Èstato terribile. Ma non mi importapiù», aggiunse con tono secco, di

sfida. «Ho chiuso con lui. Non lovoglio, comunque».

«Elena!».«Davvero, Bonnie. Ovviamente

pensa di essere troppo superioreagli... agli americani. Quindi puòprendersi i suoi occhiali da solefirmati e...».

Le altre ragazze risero. Elena sisoffiò il naso e scosse la testa.«Allora», disse a Bonnie,determinata a cambiare argomento,«almeno Tanner sembrava di umoremigliore oggi».

Bonnie aveva un'aria martoriata.

«Lo sai che mi ha costretta asegnarmi per prima alleinterrogazioni? Ma non importa; lafarò sui druidi, e...».

«Su cosa?»«Dru-i-di. Quei vecchi strambi che

hanno costruito Stonehenge efacevano magie e altra roba inInghilterra. Io discendo da loro, eccoperché sono una sensitiva».

Meredith sbuffò, ma Elena guardòaccigliata la foglia d'erba che sirigirava tra le dita. «Bonnie, haidavvero visto qualcosa ieri nella miamano?», chiese bruscamente.

Bonnie esitò. «Non lo so», dissealla fine. «Io... io pensavo di sì. Maa volte la mia immaginazione prendeil sopravvento».

«Lei sapeva che eri qui», disseMeredith inaspettatamente. «Iopensavo di controllare in caffetteria,ma Bonnie ha detto: "È al cimitero"».

«Davvero?». Bonnie sembrava unpo' sorpresa ma non impressionata.«Be', vedete. Mia nonna a Edimburgoha la seconda vista e anche io ce l'ho.Salta sempre una generazione».

«E discendi dai druidi», disseMeredith solennemente.

«Be', è vero! In Scozia conservanole vecchie tradizioni. Non crederestemai alle cose che fa mia nonna. Haun modo particolare di scoprire chisposerai e quando morirai. A me hadetto che morirò giovane».

«Bonnie!».«Davvero. Sarò giovane e bella

nella mia bara. Non pensate che siaromantico?»

«No. Penso che sia orribile»,disse Elena. Le ombre siallungavano, e il vento cominciava araffreddarsi.

«Chi sposerai, Bonnie?»

intervenne Meredith abilmente.«Non lo so. Mia nonna mi ha

spiegato il rituale per scoprirlo, manon l'ho mai provato. Naturalmente»,Bonnie assunse una posa ricercata,«dev'essere disgustosamente ricco eassolutamente bellissimo. Come ilnostro misterioso sconosciuto bruno,per esempio. Soprattutto se nessunaltro lo vuole». E diede a Elenaun'occhiata maliziosa.

Elena non abboccò. «Che ne dicidi Tyler Smallwood?», mormorò conaria innocente. «Suo padre di sicuroè abbastanza ricco».

«E non è brutto», Meredithconcesse solennemente.«Ovviamente, se ti piacciono glianimali. Con tutti quei dentonibianchi».

Le ragazze si guardarono escoppiarono a riderecontemporaneamente. Bonnie tirò unamanciata d'erba a Meredith che,ripulitasi, le rilanciò un dente dileone. A un certo punto in tuttoquesto, Elena capì che sarebbeandato tutto bene. Era di nuovo sestessa, non più persa, nonun'estranea, ma Elena Gilbert, la

regina del Robert E. Lee. Si tolse ilnocciolo di albicocca dai capelli e liscosse via dal viso.

«Ho deciso su cosa sarà la miarelazione orale», disse, guardandocon occhi socchiusi mentre Bonnie sitoglieva l'erba dai ricci.

«Su cosa?», chiese Meredith.Elena sollevò la testa per

osservare il cielo rosso e viola soprala collina. Inspirò pensierosa elasciò che l'attesa crescesse per unmomento. Poi disse freddamente:«Sul Rinascimento italiano».

Bonnie e Meredith la fissarono,

poi si guardarono e scoppiarono dinuovo a ridere rumorosamente.

«Ah-a», disse Meredith, una voltacalmatesi. «Così la tigre è tornata».

Elena fece un ghigno ferino. Avevarecuperato la sua sicurezza, primascossa. E sebbene non capisse leistessa, sapeva una cosa: non avrebbepermesso a Stefan Salvatore diuscirne vivo.

«Va bene», disse vivacemente.«Ora ascoltate, voi due. Nessun altrodeve saperlo, o sarò lo zimbellodella scuola. E a Carolinepiacerebbe molto avere una scusa

qualsiasi per ridicolizzarmi. Ma io lovoglio ancora, e lo avrò. Non soancora come, ma lo avrò. Finché nonescogito un piano, però, noi loignoreremo».

«Ah, noi?»«Sì, noi. Tu non puoi averlo,

Bonnie; è mio. E devo essere ingrado di fidarmi completamente dite».

«Aspetta un minuto», disseMeredith, con un luccichio negliocchi. Sganciò la spilla cloisonnédalla camicetta e poi, tenendo in altoil pollice, si punse velocemente.

«Bonnie, dammi la mano».«Perché?», disse Bonnie,

guardando sospettosamente la spilla.«Perché voglio sposarti. Secondo

te perché, idiota?»«Ma... ma... oh, va bene. Ahi!».«Ora tu, Elena». Meredith punse

con destrezza il pollice di Elena, epoi lo strinse per fare uscire unagoccia di sangue. «Ora», continuò,guardando le altre due con gli occhiscuri luccicanti, «dobbiamo premereinsieme i pollici e giurare.Specialmente tu, Bonnie. Giura dimantenere questo segreto e di fare

qualunque cosa Elena ti chiedariguardo a Stefan».

«Senti, giurare con il sangue èpericoloso», Bonnie protestò conaria grave. «Significa che devirispettare il giuramento qualunquecosa succeda, qualunque cosa,Meredith».

«Lo so», disse Meredith conseverità. «Per questo ti sto dicendodi farlo. Mi ricordo cos'è successocon Michael Martin».

Bonnie fece una smorfia. «Quelloè stato anni fa, e comunque abbiamorotto subito e... oh, va bene.

Giurerò». Chiudendo gli occhi disse:«Giuro di mantenere questo segreto edi fare qualunque cosa Elena michieda a proposito di Stefan».

Meredith ripeté il giuramento. EdElena, fissando i loro pollici bianchiuniti nel crepuscolo che siavvicinava, inspirò profondamente edisse a bassa voce: «E io giuro dinon avere riposo finché lui non saràmio».

Un folata di vento freddo soffiònel cimitero, facendo svolazzare icapelli delle ragazze e sparpagliandole foglie secche sul terreno. Bonnie

sussultò e si tirò indietro, e tutte siguardarono intorno, ridendo poinervosamente.

«È buio», si sorprese Elena.«È meglio andare a casa», disse

Meredith, riagganciandosi la spillamentre si alzava. Anche Bonnie sialzò, succhiando la punta del pollice.

«Arrivederci», disse piano Elena,rivolta alla lapide. Il bocciolopurpureo risaltava come una macchiasul terreno. Raccolse il nocciolo dialbicocca lì accanto e voltandosifece un cenno a Bonnie e Meredith.«Andiamo».

In silenzio, si diressero su per lacollina verso la chiesa diroccata. Ilgiuramento pronunciato nel sangueaveva fatto provare loro unasensazione solenne, e mentreoltrepassavano le rovine Bonnierabbrividì. Con il sole ormaitramontato, la temperatura era calatabruscamente, e si stava alzando ilvento. Ogni folata faceva sussurrarel'erba e ondeggiare le foglie dellevecchie querce.

«Sto gelando», disse Elena,fermandosi un momento vicino albuco nero che una volta era la porta

della chiesa e guardando il paesaggioin basso.

La luna non era ancora sorta, e sidistingueva a malapena il vecchiocimitero e, al di là, Wickery Bridge.Il vecchio cimitero risaliva ai giornidella guerra civile, e molte lapidiportavano i nomi di soldati. Avevaun aspetto selvaggio; sulle tombecrescevano rovi ed erbacce, e l'ederasi arrampicava sul granito sgretolato.A Elena non era mai piaciuto.

«Sembra diverso, vero? Al buio,intendo», disse con voce tremante.Non sapeva come esprimere ciò che

intendeva davvero, che non era unposto per i vivi.

«Potremmo prendere la via piùlunga», propose Meredith. «Masignifica altri venti minuti di strada».

«A me non dà fastidio passare diqua», disse Bonnie, deglutendo afatica. «Ho sempre detto che voglioessere seppellita nella partevecchia».

«Vuoi smetterla di parlare disepolture!», scattò Elena, avviandosigiù per la collina. Ma più proseguivalungo lo stretto sentiero, più sisentiva a disagio. Rallentò finché

Bonnie e Meredith la raggiunsero.Mentre si avvicinavano alla primalapide, il cuore cominciò a batterleall'impazzata. Cercò di ignorarlo, mala pelle fremeva per laconsapevolezza e le si erano rizzati isottili peli delle braccia. Tra lefolate di vento, ogni suono sembravaorribilmente amplificato; loscricchiolio dei piedi sul sentierocoperto di foglie era assordante.

Ormai la chiesa diroccata sistagliava con la sua sagoma dietro diloro. Lo stretto sentiero proseguivatra lapidi coperte di licheni; molte

erano più alte di Meredith.Sono abbastanza grandi perché

qualcosa ci si possa nasconderedietro, pensò Elena a disagio. Alcunepietre tombali erano di per séspaventose, come quella con ilcherubino che sembrava un bambinovero, tranne per la testa, caduta, cheera stata posta con cura accanto alcorpo. I grandi occhi di granito dellatesta erano vuoti. Elena non riuscivaa distogliere lo sguardo, e il cuorecominciò a martellare.

«Perché ci fermiamo?», chieseMeredith.

«Io stavo solo... scusa», mormoròElena, ma quando si sforzò divoltarsi si irrigidì immediatamente.«Bonnie?», disse. «Bonnie, cosa c'èche non va?».

Bonnie stava guardando proprio ilcimitero, le labbra socchiuse, gliocchi spalancati e vuoti come quellidel cherubino di pietra. La pauraattanagliò Elena allo stomaco.«Bonnie, smettila. Smettila! Non èdivertente».

Bonnie non rispose.«Bonnie!», disse Meredith. Lei ed

Elena si guardarono, e

all'improvviso Elena si rese contoche doveva andarsene. Si voltò discatto per incamminarsi lungo ilsentiero, ma una strana voce parlòdietro di lei, e la ragazza sobbalzò.

«Elena», disse la voce. Non era lavoce di Bonnie, ma proveniva dallasua bocca. Pallida nell'oscurità,Bonnie stava ancora guardando ilcimitero. Il viso era completamenteinespressivo.

«Elena», la voce disse ancora, eaggiunse, mentre la testa di Bonnie sivoltava verso di lei, «c'è qualcuno làche ti aspetta».

Elena non seppe mai con certezzacosa era successo nei minutiseguenti. Sembrava che qualcosa simuovesse tra le forme chine e scuredelle lapidi, spostandosi e alzandosifra esse. Elena e Meredith urlarono,e cominciarono a scappare, e Bonniescappava con loro, gridando anchelei.

Elena si precipitò lungo ilsentiero, inciampando su rocce eradici. Bonnie la seguiva col fiatocorto e Meredith – la calma e cinicaMeredith – ansimava furiosamente.Si udirono un rumore e un grido tra le

fronde della quercia sopra di loro edElena scoprì di poter correre ancorapiù velocemente.

«C'è qualcosa dietro di noi»,strillò Bonnie. «Oddio, che stasuccedendo?»

«Raggiungete il ponte», ansimòElena con il fuoco nei polmoni. Nonsapeva perché, ma sentiva chedovevano arrivare là. «Non fermarti,Bonnie! Non guardare indietro!».Afferrò la manica dell'altra ragazza ela trascinò.

«Non ce la faccio», singhiozzòBonnie, tenendosi il fianco, il passo

incerto.«Sì che ce la fai», urlò Elena,

afferrandola ancora per la manica eobbligandola a muoversi. «Dai.Dai!».

Vedeva il luccichio argenteodell'acqua davanti a loro. E la radurafra le querce, e il ponte appena oltre.Le gambe di Elena vacillavano e ilfiato era come un sibilo in gola, manon aveva nessuna intenzione dirallentare. Ora riusciva a distinguerele assi di legno del ponte pedonale. Ilponte distava sei metri, tre metri, unmetro.

«Ce l'abbiamo fatta», ansimòMeredith, i piedi che rimbombavanosul legno.

«Non fermarti! Arriva dall'altraparte!».

Il ponte cigolava mentre loattraversavano barcollando, i passiche riecheggiavano sull'acqua.Quando saltò sul fango della rivaopposta, Elena finalmente lasciòandare la manica di Bonnie, e sifermò incespicando.

Meredith era piegata in due, lemani sui fianchi, il respiro affannoso.Bonnie piangeva.

«Cos'era? Oh, che cos'era?»,disse. «Ci sta ancora inseguendo?»

«Pensavo che fossi tu l'esperta»,disse Meredith malferma. «Perl'amor di Dio, Elena, andiamoceneda qua».

«No, va tutto bene ora», Elenasussurrò. Aveva le lacrime agli occhie stava tremando tutta, ma non sisentiva più il fiato sul collo. Il fiumesi allungava fra lei e quella cosa,l'acqua scura e tumultuosa. «Non puòseguirci qui», disse.

Meredith fissò prima lei, poil'altra riva con il boschetto di querce,

poi Bonnie. Si inumidì le labbra erise seccamente. «Sicuro. Non ci puòseguire. Ma andiamo a casa lostesso, va bene? A meno che tu nonabbia voglia di passare la notte quafuori».

Una sensazione sconosciuta fecerabbrividire Elena. «Non stanotte,grazie», disse. Mise un braccio sullespalle di Bonnie, che stava ancorasinghiozzando. «Va tutto bene,Bonnie. Siamo al sicuro ora.Andiamo».

Meredith stava di nuovoguardando oltre il fiume. «Sai, non

vedo niente là dietro», disse con lavoce più calma. «Forse non ciinseguiva proprio niente; forse cisiamo spaventate e terrorizzate dasole. Con un po' di aiuto da partedella sacerdotessa druida quipresente».

Elena non disse niente mentre simettevano in cammino, tenendosimolto vicine al sentiero fangoso. Maera pensierosa. Era moltopensierosa.

Capitolo 5

La luna piena era alta nel cieloquando Stefan tornò alla pensione.Era stordito, quasi barcollante, siaper la fatica sia per l'eccesso disangue che aveva bevuto. Da moltotempo non si nutriva cosìabbondantemente. Ma lo scoppio diPotere selvaggio vicino al cimiterol'aveva intrappolato nella suafrenesia, spezzando il suo controllogià indebolito. Non sapeva ancora dadove fosse venuto il Potere. Stava

guardando le ragazze umane dal suonascondiglio nell'ombra quandoquesto era esploso alle sue spalle,facendo fuggire le ragazze. Da unaparte, Stefan temeva che corresseronel fiume e dall'altra desideravasondare questo potere e scoprirne lafonte. Alla fine, aveva seguito lei,incapace di rischiare che si facessemale.

Qualcosa di nero era volato versoil bosco mentre le umaneraggiungevano il rifugio del ponte,ma nemmeno i sensi notturni diStefan riuscirono a capire cosa fosse.

Era rimasto a osservare mentre lei ele altre due si avviavano in direzionedella città. Poi era ritornato alcimitero.

Era vuoto ora, liberato diqualunque cosa vi fosse stata. Sulterreno c'era un sottile nastro di setache a occhi normali sarebbesembrato grigio in quel buio. Ma luine distinse il vero colore e, mentre lospiegazzava fra le dita, portandoselolentamente a sfiorare le labbra,sentiva il profumo dei suoi capelli.

Il ricordo lo opprimeva. Era giàabbastanza sgradevole quando lei era

lontano dalla sua vista, quando ilfreddo bagliore della sua mente lotormentava ai margini dellacoscienza. Ma essere nella stessaaula con lei a scuola, sentire la suapresenza dietro di sé, e la inebriantefragranza della sua pelle tuttointorno, era quasi più di quantopotesse sopportare.

Aveva sentito ogni suo lieverespiro, percepito il calore cheirraggiava contro la sua schiena,avvertito ogni leggero battito del suopolso. E alla fine, con raccapriccio,si era trovato a cedervi. La lingua

sfiorava i canini, gustando il piacere-dolore che vi cresceva,incoraggiandolo addirittura. Avevadeliberatamente respirato il suoodore con le narici, e aveva lasciatoche le visioni gli arrivassero,immaginando ogni cosa. Quantosarebbe stato morbido il suo collo, ecome le sue labbra lo avrebberotoccato dapprima con parimorbidezza, imprimendo piccoli baciqua e là, fino a raggiungere il docileincavo della sua gola. Comel'avrebbe annusata proprio là, dove ilcuore di lei batteva più forte contro

la pelle delicata. E come alla fine lesue labbra si sarebbero socchiuse,scoprendo i denti doloranti oraappuntiti come piccoli pugnali, e...

No. Ritornò in sé con un sussulto,il battito irregolare, il corpotremante. La classe era statacongedata, tutti intorno a lui simuovevano, e Stefan poteva solosperare che nessuno lo avesseosservato troppo da vicino.

Quando la ragazza gli avevaparlato, Stefan non riusciva a crederedi doverla affrontare, mentre le venegli bruciavano e tutta la mascella gli

doleva. Aveva temuto per un istantedi perdere il controllo, di afferrarlaper le spalle e prenderla davanti atutti quanti. Non aveva idea di comene fosse uscito; sapeva solo che pocodopo stava incanalando le sueenergie in un duro esercizio,vagamente consapevole di non doverusare i Poteri. Non importava; anchesenza, era superiore in tutto airagazzi mortali che gareggiavano conlui sul campo di football. Aveva lavista più acuta, i riflessi più veloci, imuscoli più forti. In quel momentouna mano gli aveva battuto sulla

schiena e la voce di Matt gli erarisuonata nelle orecchie:

«Congratulazioni! Benvenuto nellasquadra!».

Guardando quel volto onesto esorridente, Stefan era statosopraffatto dalla vergogna. Sesapessi cosa sono, non misorrideresti, pensò cupamente. Hovinto questa tua competizione conl'inganno. E la ragazza che ami... laami, giusto?... in questo precisoistante è al centro dei miei pensieri.

E quel pomeriggio lei era rimastaal centro dei suoi pensieri nonostante

tutti gli sforzi di bandirla. Avevacamminato verso il cimitero allacieca, attirato fuori dal bosco da unaforza che non comprendeva. Unavolta laggiù, l'aveva osservata,combattendo con se stesso,combattendo il bisogno, finchél'ondata di Potere aveva fattoscappare lei e le sue amiche. E poiera tornato a casa, ma solo dopoessersi nutrito. Dopo aver perso ilcontrollo di sé.

Non ricordava esattamente comefosse successo, come aveva lasciatoche succedesse. La causa era stata

quell'esplosione di Potere, che avevasvegliato in lui cose che era megliorestassero addormentate. Il bisognodi cacciare. La brama della caccia,dell'odore della paura e il trionfoselvaggio dell'uccisione. Erano anni,secoli, che non sentiva quel bisognocon tanta forza. Le vene avevanocominciato a bruciare come fuoco. Etutti i suoi pensieri erano diventatirossi: non riusciva a pensare anient'altro a parte il gusto caldo emetallico, la forza primordiale delsangue.

Con quell'eccitazione ancora

addosso, aveva fatto uno o due passidietro le ragazze. Era meglio nonpensare a cosa sarebbe potutosuccedere se non avesse fiutatol'odore del vecchio. Ma quandoraggiunse la fine del ponte aveva lenarici dilatate per l'odore pungente,caratteristico di carne umana.

Sangue umano. L'elisir supremo, ilvino proibito. Più inebriante diqualsiasi bevanda, l'essenza fumantedella vita stessa. E lui era cosìstanco di combattere quel bisogno.

Aveva intravisto un movimentosulla riva sotto il ponte, quando un

mucchio di vecchi stracci si eramosso. E l'istante successivo Stefanvi era atterrato a fianco con grazia,come un gatto. Con mano fulmineaaveva tirato via gli stracci,scoprendo un volto avvizzito, gliocchi socchiusi, su un collo magro.Scoprì i denti.

E non si sentì altro suono a partequello del sangue che venivasucchiato.

Ora, mentre saliva barcollando lascala della pensione, cercava di nonpensarci, e di non pensare a lei, allaragazza che lo aveva tentato con il

suo calore, la sua vita. Era lei chevoleva davvero, ma doveva porvifine; d'ora in poi doveva sopprimeresimili pensieri sul nascere. Per il suobene, e per quello di lei. Stefan eral'avverarsi del peggior incubo dellaragazza, e lei nemmeno lo sapeva.

«Chi c'è? Sei tu, ragazzo?», unavoce roca gridò stridula. Una delleporte del secondo piano si aprì, e unatesta brizzolata fece capolino.

« S ì , signora... signora Flowers.Mi scusi se l'ho disturbata».

«Oh, ci vuole più di un'asse chescricchiola per disturbarmi. Hai

chiuso a chiave la porta?»«Sì, signora. Lei è... al sicuro».«Bene. Abbiamo bisogno di essere

al sicuro qui. Non si sa mai cosa puòesserci là fuori in quel bosco, no?».Stefan diede una rapida occhiata aquel piccolo viso sorridentecircondato da ciuffi di capelli grigi,gli occhi vivaci e pungenti.Nascondevano forse un segreto?

«Buona notte, signora».«Buona notte, ragazzo», e chiuse la

porta.In camera sua si abbandonò sul

letto e rimase sdraiato a fissare il

soffitto basso e inclinato.Di solito dormiva male di notte;

non era il suo naturale periodo diriposo. Ma quella notte era stanco.C'era voluta troppa energia peraffrontare la luce del sole, e il pastopesante aveva aggravato la suaapatia. Presto, nonostante gli occhinon si chiudessero, non vide più ilsoffitto imbiancato sopra di lui.

Frammenti casuali di ricordi glifluttuavano nella mente. Katherine,così bella quella sera vicino allafontana, con la luna che tingevad'argento i suoi pallidi capelli dorati.

Com'era stato orgoglioso di sederevicino a lei, di essere il solo acondividere il suo segreto...

«Ma non puoi mai uscire alla luce

del sole?»«Posso, sì, se indosso questo».

Sollevò una mano piccola e candida,e la luna brillò sull'anello dilapislazzuli che indossava. «Ma ilsole mi affatica moltissimo. Nonsono mai stata molto forte».

Stefan la guardò, i lineamentidelicati e il corpo esile. Era quasiincorporea come vetro soffiato. No,

non doveva essere mai stata moltoforte.

«Ero spesso malata da bambina»,disse piano, gli occhi fissi sui giochid'acqua della fontana. «L'ultimavolta, il chirurgo ha detto che sareimorta. Ricordo che papà piangeva, ericordo che ero nel mio letto, troppodebole per muovermi. Perfinorespirare era uno sforzo troppogrande. Ero così triste di doverlasciare il mondo e avevo tantofreddo, proprio tanto freddo».Rabbrividì, e poi sorrise.

«Ma cosa è successo?»

«Mi svegliai in piena notte e vidiGudren, la mia cameriera, in piediaccanto al letto. E poi si spostò dilato, e scorsi l'uomo che era con lei.Ebbi paura. Il suo nome era Klaus, eavevo sentito la gente del villaggiodire che era malvagio. Gridai aGudren di salvarmi, ma lei rimasesemplicemente lì, a guardare.Quando lui posò le labbra sul miocollo, pensai che mi avrebbeucciso».

Si fermò. Stefan la fissava conraccapriccio e pietà, e lei gli sorriseper confortarlo. «Non fu così

terribile dopo tutto. Ci fu un po' didolore all'inizio, ma passò subito. Edopo, la sensazione fu davveropiacevole. Quando mi diede il suosangue da bere, mi sentii forte comenon succedeva da mesi. E poiaspettammo insieme l'alba. Quandoarrivò il chirurgo, non potevacredere che riuscissi a sedermi eparlare. Papà disse che era unmiracolo, e pianse ancora dallagioia». Il viso le si rabbuiò. «Prestodovrò lasciare mio padre. Un giornosi renderà conto che da quellamalattia non sono invecchiata di

un'ora».«E non invecchierai mai?»«No. Questa è la cosa

meravigliosa, Stefan!». Lo guardòcon gioia infantile. «Sarò giovaneper sempre, e non morirò mai. Riescia immaginarlo?».

Lui non riusciva a immaginarla senon come era in quel momento: bella,innocente, perfetta. «Ma... non l'haitrovato spaventoso all'inizio?»

«All'inizio un po'. Ma Gudren miha insegnato cosa fare. È stata lei adirmi di farmi fare questo anello, conuna gemma che mi avrebbe protetto

dalla luce del sole. Quando ero aletto, mi portava latte caldo con vinoe spezie. Dopo, mi portò piccolianimali che suo figlio catturava».

«Non... persone?».Lei rise. «Certo che no. Posso

avere tutto ciò di cui ho bisogno perla notte da una colomba. Gudren diceche se volessi diventare potentedovrei bere sangue umano, perchél'essenza vitale degli uomini è piùforte. E anche Klaus mi incitavasempre; voleva che ci scambiassimoancora il sangue. Ma io rispondosempre a Gudren che non voglio

potere. E quanto a Klaus...». Si fermòe abbassò gli occhi, così che le folteciglia posavano sulle guance.Quando continuò, parlò a voce moltobassa. «Non penso sia una cosa dafare alla leggera. Berrò sangueumano solo quando avrò trovato ilmio compagno, quello che resterà almio fianco per l'eternità». Lo guardòcon espressione grave.

Stefan le sorrise, sentendosistordito e scoppiando d'orgoglio.Riusciva a malapena a contenere lafelicità che provava in quelmomento.

Ma questo accadde prima che suofratello Damon ritornassedall'università. Prima che Damontornasse e vedesse gli occhi blucome gioielli di Katherine.

A letto, nella sua stanza dal

soffitto basso, Stefan gemeva. Poil'oscurità lo risucchiò e nuovevisioni cominciarono a balenarglinella mente.

Intravedeva immagini sparse delpassato che non formavano unasequenza lineare. Le vedeva comescene brevemente illuminate da

lampi di luce. Il volto di suo fratello,contorto in una maschera di rabbiainumana. Gli occhi azzurri diKatherine, brillanti e vivaci, mentrepiroettava nel suo nuovo vestitobianco. Lo sprazzo di bianco dietroun albero di limoni. La sensazione diavere una spada in mano; la voce diGiuseppe che gridava da lontano.L'albero di limoni. Non dovevaandare dietro l'albero di limoni. Videancora il volto di Damon, ma questavolta suo fratello rideva in modoincontrollato. Rideva e rideva, ilsuono come stridio di vetro infranto.

E l'albero di limoni era più vicinoora...

«Damon... Katherine... no!».Si tirò su nel letto.Passandosi le mani tremanti nei

capelli calmò il respiro.Un sogno terribile. Era da molto

tempo che non veniva tormentato dasogni come questo; da molto tempo,in realtà, non sognava affatto. Gliultimi secondi continuavano atornargli in mente; vide ancoral'albero di limoni e udì ancora larisata di suo fratello.

Gli riecheggiava nella mente quasi

f i n troppo chiara. All'improvviso,inconsapevole di avere sceltointenzionalmente di muoversi, Stefansi ritrovò davanti alla finestra aperta.Sentiva l'aria fresca della notte sulleguance, mentre scrutava il buioargenteo.

«Damon?». Inviò il pensiero conun'onda di Potere, alla ricerca. Poirimase completamente immobile, inascolto con tutti i sensi all'erta.

Non riuscì a sentire niente,neanche un mormorio di risposta.Vicino, una coppia di uccelli notturnisi alzò in volo. In città, molte menti

dormivano; nel bosco, gli animalinotturni si occupavano delle loroattività segrete.

Sospirando si voltò verso lacamera. Forse si era sbagliato sullarisata; forse si era sbagliato anchesulla minaccia al cimitero. Fell'sChurch era tranquilla, e pacifica, elui doveva cercare di imitarla.Aveva bisogno di dormire.

5 settembre (in realtà prime

ore del 6 settembre, verso l'una dinotte)

Caro diario,

dovrei tornare subito a letto. Solopochi minuti fa mi sono svegliatapensando che qualcuno stessegridando, ma ora la casa èsilenziosa. Stanotte sono successecosì tante cose strane che misembra di avere i nervi a pezzi.

Se non altro mi sono svegliatasapendo esattamente cosa fareriguardo a Stefan. Tutta la faccendami è come balzata in mente. Il PianoB, Fase Uno, comincia domani.

Frances aveva gli occhi

fiammeggianti e le guance rosse

mentre si avvicinava alle tre ragazzea tavola.

«Oh, Elena, devi sentire questa!».Elena le sorrise, educata ma non

troppo confidenziale. Frances chinòla testa. «Voglio dire... posso unirmia voi? Ho appena sentito una notiziaassolutamente pazzesca su StefanSalvatore».

«Accomodati», disse Elenagarbatamente. «Ma», aggiunse,imburrando un panino, «non ciinteressano molto le notizie».

«Non vi...?». Frances la fissòmeravigliata. Guardò Meredith, poi

Bonnie. «Ragazze, voi statescherzando, giusto?»

«Nient'affatto». Meredith infilzòun fagiolino e lo squadrò pensierosa.«Abbiamo altre cose per la testaoggi».

«Esatto», disse Bonnie con unsussulto improvviso. «Stefan è robavecchia, sai. Superato». Epiegandosi, si massaggiò la caviglia.

Frances guardò Elenasupplichevole. «Ma pensavo chevolessi sapere tutto di lui».

«Curiosità», disse Elena. «Dopotutto, è in visita, e volevo dargli il

benvenuto a Fell's Church. Maovviamente devo essere leale versoJean-Claude».

«Jean-Claude?»«Jean-Claude», disse Meredith,

sollevando le sopracciglia esospirando.

«Jean-Claude», ripeté Bonnie condecisione.

Delicatamente, con l'indice e ilpollice, Elena estrasse una foto dalsuo zaino. «Eccolo davanti al cottagedove stavamo. Subito dopo haraccolto un fiore per me e mi hadetto... be'», sorrise misteriosamente,

«non dovrei ripeterlo».Frances stava studiando la foto.

Raffigurava un giovane abbronzato, atorso nudo, davanti a un cespuglio diibisco e con un sorriso timido. «Èpiù grande, vero?», disse conrispetto.

«Ha ventun anni. Naturalmente»,Elena si guardò alle spalle, «mia zianon approverebbe mai, quindi glielonascondiamo finché non mi diplomo.Ci dobbiamo scrivere in segreto».

«Com'è romantico», sospiròFrances. «Non lo dirò ad anima viva,prometto. Ma riguardo a Stefan...».

Elena le sorrise con superiorità.«Se», disse, «devo mangiareall'europea, preferisco di gran lungala cucina francese a quella italiana».Si voltò verso Meredith. «Giusto?»

«Mmh-mmh. Di gran lunga».Meredith ed Elena si sorrisero conaria d'intesa, poi si voltarono versoFrances. «Non sei d'accordo?»

«Oh, sì», si affrettò Frances.«Anch'io. Di gran lunga». Sorriseanche lei con aria d'intesa e annuìripetutamente mentre si alzava e sene andava.

Quando se ne fu andata, Bonnie

disse con aria sconsolata: «Tuttoquesto mi farà morire. Elena, moriròse non sento la notizia».

«Ah, quella? Te la posso dire io»,rispose Elena con calma. «Stava perdire che corre voce che StefanSalvatore sia un agente dellanarcotici».

«Un che!?». Bonnie la fissò e poiscoppiò a ridere. «Ma è ridicolo.Quale agente al mondo si vestirebbecosì e porterebbe occhiali scuri?Voglio dire, ha fatto di tutto perattirare l'attenzione su di sé...». Levenne meno la voce. «Ma in fondo,

potrebbe essere per questo che lo fa.Chi mai sospetterebbe di qualcunocosì ovvio? E poi vive da solo, ed èterribilmente misterioso... Elena! Ese fosse vero?»

«Non lo è», disse Meredith.«Come fai a saperlo?»«Perché ho messo in giro io la

voce». Alla vista dell'espressione diBonnie, Meredith sogghignò eaggiunse: «Elena mi ha detto difarlo».

«Ooooh». Bonnie guardò Elenacon ammirazione. «Sei perfida.Posso raccontare in giro che ha una

malattia terminale?»«No, non puoi. Non voglio

crocerossine che fanno la fila pertenergli la mano. Ma puoi raccontaretutto quello che vuoi su Jean-Claude».

Bonnie prese la foto. «Chi èveramente?»

«Il giardiniere. Andava pazzo perquei cespugli di ibisco. Era anchesposato, con due figli».

«Peccato», disse Bonnieseriamente. «E hai detto a Frances dinon parlare a nessuno di lui...».

«Esatto». Elena guardò l'ora. «Il

che significa che per, diciamo, le duetutta la scuola dovrebbe saperlo».

Dopo la scuola, le ragazze

andarono a casa di Bonnie. Furonoaccolte alla porta da un guaitostridulo, e quando Bonnie la aprì, unpechinese vecchissimo e grassissimocercò di scappare. Si chiamavaYangtze, ed era così viziato chenessuno, a parte la madre di Bonnie,riusciva a sopportarlo. Mordicchiòla caviglia di Elena mentre passava.

Il soggiorno era buio e ingombro,con mobili piuttosto vistosi e pesanti

tende alle finestre. La sorella diBonnie, Mary, si stava togliendo ilcappello, liberando i capelli rossi eondulati. Aveva solo due anni più diBonnie, e lavorava alla clinica diFell's Church.

«Ah, Bonnie», disse. «Sonocontenta che sei tornata. Ciao Elena,Meredith».

Elena e Meredith risposero "ciao".«Cosa c'è? Hai l'aria stanca», disseBonnie.

Mary posò il cappello sul tavolinoda caffè. Invece di rispondere, fece asua volta una domanda. «La scorsa

notte sei tornata a casa sconvolta;dove hai detto che siete state voiragazze?»

«Giù al... solo giù a WickeryBridge».

«È quello che pensavo». Maryinspirò profondamente. «Ora,ascoltami bene, Bonnie McCullough.Non andarci mai più, soprattutto dasola e di notte. Mi hai capito?»

«Ma perché?», chiese Bonnie,sconcertata.

«Perché la scorsa notte qualcuno èstato aggredito laggiù, ecco perché. Esapete dove l'hanno trovato? Proprio

sulla riva sotto Wickery Bridge».Elena e Meredith la guardarono

incredule, e Bonnie strinse il braccioa Elena. «Qualcuno è stato aggreditosotto il ponte? Ma chi era? Cos'èsuccesso?»

«Non lo so. Stamattina uno deilavoranti del cimitero l'ha vistosdraiato là. Era un senzatetto,suppongo, e probabilmente stavadormendo sotto il ponte quando èstato aggredito. Ma era mezzo mortoquando l'hanno ricoverato, e non haancora ripreso conoscenza. Potrebbemorire».

Elena deglutì a fatica. «Cosaintendi per aggredito?»

«Intendo», disse Mary scandendole parole, «che aveva la gola quasicompletamente squarciata. Ha persoun'enorme quantità di sangue.Dapprima si pensava che potesseessere stato un animale, ma ora ildottor Lowen dice che è stata unapersona. E la polizia ritiene chechiunque l'abbia fatto possanascondersi nel cimitero». Maryguardò a turno ognuna di loro, lelabbra serrate. «Quindi se eravatevicino al ponte... o al cimitero, Elena

Gilbert... allora questa personapoteva essere lì con voi. Capite?»

«Non c'è bisogno di spaventarciancora di più», protestò Bonniedebolmente. «Abbiamo afferrato ilconcetto, Mary».

«D'accordo. Bene». Con laschiena incurvata, Mary si massaggiòstancamente il collo. «Devosdraiarmi un po'. Non intendevoessere acida», e uscì dal soggiorno.

Da sole, le tre ragazze siguardarono.

«Poteva toccare a una di noi»,disse Meredith a bassa voce.

«Soprattutto a te, Elena; eri là dasola».

Elena sentiva un formicolio sullapelle, la stessa sensazione di grandeallarme che aveva provato nelvecchio cimitero. Sentiva il ventogelido e vedeva le file di lapidi tutteintorno a lei. La luce del sole e ilRobert E. Lee non erano maisembrati così lontani.

«Bonnie», disse lentamente, «haivisto qualcuno là fuori? Era questoche intendevi quando hai detto chequalcuno mi stava aspettando?».

Nella stanza buia, Bonnie la

guardò assente. «Di cosa staiparlando? Non ho detto niente delgenere».

«Sì, invece».«No. Non l'ho mai detto».«Bonnie», disse Meredith, «ti

abbiamo sentita entrambe. Haiguardato verso le vecchie tombe, epoi hai detto a Elena...».

«Non so di cosa state parlando, enon ho detto niente». Bonnie aveva ilviso sconvolto dalla rabbia, ma lelacrime agli occhi. «Non voglio piùparlarne».

Elena e Meredith si guardarono

impotenti. Fuori una nuvola nascoseil sole.

Capitolo 6

26 settembreCaro diario,mi dispiace non averti scritto per

così tanto tempo, e non so davverospiegare perché, se non che ci sonotantissime cose di cui ho paura diparlare, persino con te.

Innanzitutto, è accaduta una cosadavvero terribile. Il giorno cheBonnie, Meredith e io eravamo alcimitero, un vecchio è statoaggredito, e quasi ucciso. La polizia

non ha ancora trovato ilresponsabile. La gente pensa che ilvecchio fosse pazzo, perché quandosi è svegliato ha cominciato adelirare a proposito di "occhinell'oscurità" e querce e altre cose.Ma io mi ricordo cosa ci è successoquella notte, e mi faccio delledomande. Sono terrorizzata.

Per un po' hanno avuto tuttipaura e i bambini hanno dovutorestare in casa dopo il tramonto ouscire solo in gruppo. Ma sonopassate circa tre settimane ormai, enon ci sono state più aggressioni,

così l'eccitazione sta calando. ZiaJudith dice che il colpevoledev'essere stato un altrovagabondo. Il padre di TylerSmallwood ha perfino suggerito cheil vecchio possa averlo fatto dasolo, anche se vorrei proprio vederequalcuno mordersi da solo allagola.

Ma soprattutto sono stataoccupata con il Piano B. Per ora,sta andando bene. Ho ricevutomolte lettere e un mazzo di roserosse da "Jean-Claude" (lo zio diMeredith è fioraio), e sembra che

tutti abbiano dimenticato che a meinteressava Stefan. Così la miaposizione sociale è sicura. PerfinoCaroline non ha creato problemi.

In effetti, non so cosa Carolinestia facendo in questi giorni, e nonmi importa. Non la vedo più apranzo o dopo la scuola; sembrache si sia allontanatacompletamente dalla sua vecchiacompagnia.

C'è solo una cosa che miinteressa, ora. Stefan.

Neanche Bonnie e Meredithcapiscono quanto lui sia importante

per me. Ho paura di dirglielo; hopaura pensino che sono pazza. Ascuola indosso una maschera calmae controllata, ma dentro di me... be'ogni giorno è sempre peggio.

Zia Judith ha cominciato apreoccuparsi per me. Dice che nonmangio abbastanza in questi giorni,e ha ragione. Mi sembra di nonriuscire a concentrarmi sullelezioni, e neanche sulle cosedivertenti come la raccolta fondiper la festa della Casa Stregata.Non riesco a concentrarmi su nientea parte lui. E non capisco nemmeno

il perché.Non mi parla da quell'orribile

pomeriggio. Ma ti dirò una cosastrana. La settimana scorsa,durante la lezione di storia, hoalzato gli occhi e l'ho sorpreso aguardarmi. Eravamo seduti a pochibanchi di distanza, e lui era giratocompletamente di traverso rispettoal suo banco, e mi fissava. Per unmomento mi ha fatto quasi paura, eil cuore ha cominciato a battermi, eci siamo semplicemente fissati, e poilui si è voltato. Ma da allora èsuccesso altre due volte, e ogni

volta ho sentito i suoi occhi su di meprima ancora di vederli. Questa èproprio la verità. So che non è lamia immaginazione.

Lui è diverso da tutti i ragazziche abbia mai conosciuto.

Sembra molto isolato, solo. Anchese è una sua scelta. Ha avuto ungran successo con la squadra difootball, ma non frequenta nessunodei ragazzi, tranne forse Matt. Mattè il solo con cui parla. Nonfrequenta neppure le ragazze;questo lo noto, quindi forse lanotizia sull'agente della narcotici

sta funzionando. Ma sembra più chesia lui a evitare gli altri che ilcontrario. Sparisce fra le lezioni edopo gli allenamenti di football, enon l'ho mai visto neanche unavolta alla caffetteria. Non ha maiinvitato nessuno nella sua stanzaalla pensione. Non passa mai al bardopo la scuola.

Allora come faccio asorprenderlo in qualche posto dovenon possa evitarmi? Questo è ilvero problema con il Piano B.Bonnie dice: "Perché non ti ritrovibloccata con lui sotto un temporale,

così dovete stringervi l'un l'altroper conservare il calore delcorpo?". E Meredith ha suggeritoche la mia auto potrebbe rompersidavanti alla pensione. Ma nessunadi queste idee è praticabile, e io stoimpazzendo per trovare qualcosa dimeglio.

Ogni giorno diventa semprepeggio per me. Mi sento come unorologio o qualcosa del genere, chesi carica sempre di più. Se nontrovo subito qualcosa, io...

Stavo per dire "muoio".

La soluzione arrivò all'improvvisoe molto semplicemente.

Le dispiacque per Matt; sapevache era stato ferito dalle voci suJean-Claude. Le aveva a malapenaparlato da quando si era diffusa lastoria, di solito le passava a fiancosalutandola con un cenno veloce. Equando Elena lo incontrò in uncorridoio deserto un giorno fuori daScrittura creativa, il ragazzo evitò ilsuo sguardo.

«Matt...», cominciò lei. Volevadirgli che non era vero, che nonavrebbe mai cominciato a vedere un

altro ragazzo senza prima dirglielo.Voleva dirgli che non aveva maiavuto intenzione di ferirlo, e cheadesso si sentiva malissimo. Ma nonsapeva come cominciare.

Alla fine, sbottò con un «Midispiace!» e si voltò per entrare inclasse.

«Elena», disse Matt, e lei si girò.Almeno adesso la guardava,indugiando con gli occhi sulle suelabbra e i capelli. Poi scosse la testacome a dire che stava facendo lafigura dello stupido. «Questo ragazzofrancese è vero?», chiese alla fine.

«No», rispose Elenaimmediatamente e senza esitazione.«L'ho inventato», aggiunsesemplicemente, «per mostrare a tuttiche non ero turbata per...». Siinterruppe.

«Per Stefan. Capisco». Matt annuì,con l'aria più torva e nello stessotempo in qualche modo piùcomprensiva. «Senti, Elena, è statoproprio orribile da parte sua. Ma noncredo ci fosse qualcosa di personale.È così con tutti...».

«Tranne che con te».«No. Con me parla, a volte, ma

non di argomenti personali. Non dicemai niente sulla sua famiglia o cosafa fuori da scuola. È come... come seci fosse una barriera intorno a lui chenon posso attraversare. Non credoche permetterà mai a qualcuno diattraversare quella barriera. Il che èun gran peccato, perché penso che infondo sia infelice».

Elena rifletté su questo, affascinatada un lato di Stefan che non avevamai considerato prima. Sembravasempre così controllato, calmo eimperturbabile. Ma in fondo, sapevache anche lei appariva così alle

persone. Era possibile che sotto lasuperficie Stefan fosse confuso einfelice quanto lei?

Fu allora che le venne l'idea, edera semplice in modo ridicolo.Niente schemi complicati, nientetemporali o automobili che sirompono.

«Matt», disse lentamente, «nonpensi che sarebbe un bene sequalcuno riuscisse ad attraversarequella barriera? Un bene per Stefan,intendo? Non pensi che sarebbe lacosa migliore che potrebbecapitargli?». Lo fissò intensamente,

desiderando che lui capisse.Matt la osservò per un momento,

poi chiuse gli occhi e scosseincredulo la testa. «Elena», disse,«sei incredibile. Ti rigiri le personecome vuoi, e credo che neanche te nerenda conto. E ora stai per chiedermidi fare qualcosa per aiutarti a tendereun'imboscata a Stefan, e io sono cosìstupido che potrei persinoacconsentire».

«Non sei stupido, sei ungentiluomo. E sì, voglio chiederti unfavore, ma solo se pensi che siagiusto. Non voglio ferire Stefan, e

non voglio ferire te».«Ah, no?»«No. So cosa può sembrare, ma è

la verità. Voglio solo...». Siinterruppe ancora. Come potevaspiegare cosa voleva quando non locapiva nemmeno lei?

«Vuoi solo che tutto e tutti girinointorno a Elena Gilbert», disse conamarezza. «Vuoi solo tutto ciò chenon hai».

Scioccata, arretrò fissandolo. Levenne un groppo in gola, e gli occhicominciarono a bruciarle.

«No», disse Matt. «Elena, non fare

quella faccia. Mi dispiace». Sospirò.«Va bene, cos'è che dovrei fare?Legarlo e scaricarlo sulla tuasoglia?»

«No», disse Elena, cercandoancora di ricacciare le lacrime alloro posto. «Volevo solo che tu lofacessi venire al Ballo d'Autunno lasettimana prossima».

Matt aveva un'espressione strana.«Vuoi solo che Stefan venga alballo».

Elena annuì.«Va bene. Sono abbastanza sicuro

che ci sarà. E, Elena... non voglio

portare nessun'altra a parte te».«Va bene», disse Elena dopo un

momento. «E, be', grazie».Matt aveva ancora un'espressione

particolare. «Non ringraziarmi,Elena. Non è niente... davvero». Leisi stava ancora scervellandosull'ultima frase quando Matt,voltatosi, si incamminò lungo ilcorridoio.

«Sta' ferma», Meredith rimproverò

Elena, tirandole i capelli. «Pensoancora», disse Bonnie seduta suldivanetto sotto la finestra, «che siano

stati entrambi fantastici».«Chi?», mormorò Elena con aria

assente.«Come se non lo sapessi», disse

Bonnie. «Quei tuoi due ragazzi chehanno realizzato il miracoloall'ultimo minuto durante la partitaieri. Quando Stefan ha preso l'ultimopassaggio, pensavo di essere sulpunto di svenire. O vomitare».

«Oh, per favore», disse Meredith.«E Matt... quel ragazzo è pura

poesia in movimento...».«E nessuno dei due è mio»,

replicò Elena seccamente. Sotto le

dita esperte di Meredith, i suoicapelli stavano diventando un'operad'arte, una soffice massa di fili d'ororitorti. E anche il vestito era a posto;quel colore viola ghiaccio facevarisaltare la sfumatura viola degliocchi. Ma persino lei si vedevapallida e inflessibile, nondelicatamente colorita perl'eccitazione, ma bianca edeterminata, come un giovanissimosoldato mandato al fronte.

In piedi sul campo da football ilgiorno prima, quando era statanominata Regina del Ballo

d'Autunno, aveva avuto solo unpensiero in mente. Lui non potevarifiutarsi di ballare con lei. Se fosseandato al ballo, non poteva rifiutarela Regina. E in piedi davanti allospecchio, ora, se lo ripeteva.

«Stasera vorranno tutti esseretuoi», diceva Bonnie rassicurante.«E, ascolta, quando ti liberi di Matt,posso prendermelo io perconsolarlo?».

Meredith sbuffò. «Che cosapenserà Raymond?»

«Oh, puoi confortarlo tu. Ma,davvero, Elena, Matt mi piace. E una

volta che hai puntato Stefan, il vostroterzetto sarà un po' affollato. Così...».

«Oh, fai quello che ti pare. Mattmerita un po' di considerazione». Dicerto non la sta ottenendo da me,pensò Elena. Non riusciva ancora acredere a ciò che gli stava facendo.Ma in questo momento non potevapermettersi di esaminare le proprieazioni; aveva bisogno di tutta la suaforza e concentrazione.

«Ecco». Meredith mise l'ultimaforcina nei capelli di Elena. «Oraguardateci, la Regina del Ballo e lasua corte... o almeno una parte,

comunque. Siamo bellissime».«È un plurale maiestatis?», la

canzonò Elena, ma era vero. Eranodavvero bellissime. Il vestito diMeredith era un profluvio di satinbordeaux, stretto in vita e chericadeva a pieghe dai fianchi. Icapelli scuri erano sciolti sullaschiena. E Bonnie, mentre si alzava esi univa alle altre davanti allospecchio, sembrava un regaloimpacchettato in taffettà rosa elustrini neri.

Quanto a lei... Elena squadrò lasua immagine con occhio esperto e

rifletté ancora. Il vestito era a posto.L'unica altra frase che le venne inmente era violette candite. Sua nonnane teneva un barattolo, fiori veriimmersi in zucchero candito edall'aspetto congelato.

Scesero insieme, come avevanofatto per ogni ballo fin dalla secondamedia, a parte il fatto che primaCaroline era sempre stata con loro.Elena si rese conto con leggerasorpresa che non sapeva nemmenocon chi Caroline sarebbe andata alballo quella sera.

Zia Judith e Robert, il futuro zio

Robert, erano in soggiorno conMargaret in pigiama.

«Oh, ragazze siete tuttebellissime», disse zia Judith, agitataed entusiasta come se stesse andandolei al ballo. Baciò Elena, e Margarettese le braccia per abbracciarla.

«Sei carina», disse con lasemplicità dei suoi quattro anni.

Anche Robert osservava Elena.Fece l'occhiolino, aprì la bocca e larichiuse.

«Cosa c'è, Bob?»«Oh». Lui guardò zia Judith,

imbarazzato. «Be', in realtà, mi è

solo venuta in mente Elena di Troia,per qualche ragione».

«Bella e dannata», disse Bonnieallegra.

«Be', sì», disse Robert, per nienteallegro. Elena non disse niente.

Il campanello suonò. Matt era allaporta, nel suo familiare giubbottosportivo azzurro. Con lui c'erano EdGoff, l'accompagnatore di Meredith,e Raymond Hernandez, quello diBonnie. Elena cercò Stefan.

«Probabilmente è già là», disseMatt, indovinando la sua occhiata.«Ascolta, Elena...».

Ma qualunque cosa stesse per direfu interrotta dalle chiacchiere dellealtre due coppie. Bonnie e Raymondandarono con loro nell'auto di Matt, ediedero vita a un costante profluviodi battute per tutto il tragitto verso lascuola.

Attraverso le porte apertedell'auditorium si sentiva la musica.Quando Elena uscì dall'auto, provòuna curiosa sensazione di certezza.Stava per succedere qualcosa, capì,guardando la massa squadratadell'edificio scolastico. Il pacificotran-tran delle ultime settimane stava

per finire.Sono pronta, pensò sperando che

fosse vero.All'interno, c'era un caleidoscopio

di colori e attività. Lei e Matt furonocircondati nell'istante stesso in cuientrarono, e furono sommersi dicomplimenti. Il vestito di Elena... isuoi capelli... i fiori. Matt era unaleggenda sul nascere; un altro JoeMontana, con una borsa di studio permeriti sportivi già in tasca.

In quel turbinante vortice cheavrebbe dovuto essere pane per isuoi denti, Elena continuava a

cercare una testa bruna inparticolare.

Tyler Smallwood le stava col fiatosul collo, e odorava di punch,spumante e gomme da masticare allamenta forte. La sua accompagnatriceaveva un'espressione omicida. Elenalo ignorò nella speranza che se neandasse.

Il signor Tanner passò con unbicchiere di carta fradicio e l'aria dichi si sta strangolando nel colletto.Sue Carson, l'altra principessa delballo, si profondeva in smancerie sulvestito viola di Elena. Bonnie era già

sulla pista da ballo, e scintillavasotto i riflettori. Ma Elena nonvedeva Stefan da nessuna parte.

Un'altra zaffata di menta forte eavrebbe vomitato. Diede di gomito aMatt, e scapparono al tavolo deirinfreschi, dove l'allenatore Lyman silanciò in un riesame della partita. Liraggiunsero per qualche minuto variecoppiette e gruppi, che poi siritirarono per far posto alle altrepersone in fila. Come se fossimodavvero dei sovrani, venne dapensare a Elena. Diede un'occhiata aMatt per vedere se condivideva il

suo divertimento, ma lui guardavafisso alla sua sinistra.

Lei seguì il suo sguardo. E là,seminascosta dietro un gruppo digiocatori di football, c'era la testabruna che stava cercando.Inconfondibile, anche in quella lucefioca. Elena fu scossa da un brivido,più di dolore che altro.

«E ora che faccio?», chiese Matt,la mascella squadrata. «Lo lego e loimbavaglio?»

«No. Gli chiederò di ballare, eccotutto. Aspetterò di aver ballato primacon te, se vuoi».

Lui scosse la testa, e lei si diresseverso Stefan attraverso la folla.

Una dopo l'altra, Elena registravale informazioni su di lui mentre siavvicinava. La giacca nera aveva untaglio leggermente diverso da quelledegli altri ragazzi, più elegante, esotto indossava un golfino dicachemire. Se ne stava abbastanzaimmobile, senza agitarsi, un po' indisparte rispetto ai gruppi intorno alui. E, benché lo potesse vedere solodi profilo, si accorse che non portavagli occhiali.

Li toglieva per il football,

ovviamente, ma non lo aveva maivisto da vicino senza. Si sentìstordita ed eccitata, come se sitrattasse di una mascherata e fossegiunto il momento di togliersi iltravestimento. Si concentrò sulla suaspalla, la linea della mascella, e poiStefan si girò verso di lei.

In quell'istante, Elena si rese contodi essere bellissima. Non era solo ilvestito, o la pettinatura. Erabellissima di per sé: slanciata,regale, una creatura di seta e fuocointeriore. Vide che il ragazzosocchiudeva le labbra,

istintivamente, e poi lo guardò negliocchi.

«Ciao». Era proprio la sua voce,così tranquilla e sicura di sé? Avevagli occhi verdi. Verdi come le fogliedi quercia in estate. «Ti staidivertendo?», chiese.

Ora sì. Non lo disse, ma Elenasapeva che era ciò che pensava; locapiva dal modo in cui Stefan laosservava. Non era mai stata cosìsicura del suo potere. A parte il fattoche Stefan non sembrava divertirsiaffatto; sembrava prostrato,sofferente, come se non potesse

sopportare tutto questo un minuto dipiù.

La band stava cominciando, unlento. Lui la fissava ancora,bevendola con gli occhi. Quegliocchi verdi che si scurivano,diventando neri per il desiderio.Elena provò la sensazioneimprovvisa che Stefan potesseattirarla a sé e baciarlaappassionatamente, senza dire unaparola.

«Ti andrebbe di ballare?», dissepiano. Sto giocando con il fuoco, conqualcosa che non capisco, pensò

all'improvviso. E in quel momento sirese conto di essere spaventata. Ilcuore cominciò a batterleall'impazzata. Era come se quegliocchi verdi parlassero a una parte dilei sepolta ben sotto la superficie, equella parte le gridava "pericolo".Un istinto più vecchio della civiltà lediceva di correre, di scappare.

Non si mosse. La stessa forza chela terrorizzava la teneva lì. Nonriesco a controllarlo, pensòimprovvisamente. Qualunque cosastesse succedendo lì andava al di làdella sua comprensione, non era

normale né sano. Ma non potevaporvi fine ormai, e anche sespaventata ne provava piacere. Era ilmomento più intenso che avesse maivissuto con un ragazzo, anche se nonstava accadendo proprio niente.Stefan la fissava semplicemente,come ipnotizzato, ed Elenaricambiava lo sguardo, mentreun'energia brillava tra loro come unlampo. Lei vide i suoi occhi scurirsi,come vinti, ed ebbe un tuffo al cuorequando il ragazzo le tese lentamentela mano.

E poi tutto andò in pezzi.

«Caspita, Elena, che aspetto dolcehai», disse una voce, ed Elena fuaccecata da un bagliore dorato. EraCaroline, i capelli ramati folti elucenti, la pelle perfettamenteabbronzata. Indossava un vestito dilamé dorato che rivelavaaudacemente una notevole porzionedi quella pelle perfetta. Infilò unbraccio nudo sotto quello di Stefan egli sorrise voluttuosamente. Eranostupendi insieme, come una coppia dimodelli internazionali che sidegnavano di partecipare a un ballodel liceo, molto più affascinanti e

sofisticati di chiunque altro nellasala.

«E quel vestitino è così grazioso»,continuò Caroline, mentre la mente diElena correva in automatico. Quelbraccio disinvoltamente possessivo,unito a quello di Stefan rivelavatutto: dove Caroline aveva pranzatonelle ultime settimane, che cosaaveva combinato per tutto il tempo.«Ho detto a Stefan che dovevamosolo fare un salto per un momento,ma non ci fermeremo a lungo. Quindinon ti dispiace se me lo tengo per ledanze, vero?».

Elena era stranamente calma ora,un vuoto ronzio nella mente. Disseche no, certo, non le dispiaceva, eosservò Caroline allontanarsi, unasinfonia di rame e oro. Stefan laseguì.

Molti visi circondavano Elena; leidiede loro le spalle e si scontrò conMatt.

«Sapevi che sarebbe venuto conlei».

«Sapevo che questo era ciò che leivoleva. L'ha seguito dappertutto apranzo e dopo la scuola, quasiimponendogli la sua presenza.

Ma...».«Capisco». Provando ancora

quella calma strana, artificiale, Elenascrutò la folla e vide Bonniedirigersi verso di lei, e Meredithlasciare il suo tavolo. Avevano visto,allora. Come tutti, probabilmente.Senza dire una parola a Matt, andòda loro, dirigendosi istintivamenteverso il bagno delle ragazze.

Era pieno di persone, e Meredith eBonnie fecero commenti allegri ecasuali mentre la guardavano conpreoccupazione.

«Hai visto quel vestito?», disse

Bonnie, stringendo discretamente ledita di Elena. «Il davanti dev'esseretenuto su con la supercolla. E cosaindosserà al prossimo ballo?Cellophane?»

«Pellicola per alimenti», disseMeredith. E aggiunse a bassa voce:«Stai bene?»

«Sì». Elena vedeva nello specchioche aveva gli occhi troppo lucidi e leguance rosso fuoco. Si ravviò icapelli e si voltò.

La stanza si svuotò, lasciandolesole. Ora Bonnie cincischiavanervosamente con il fiocco di lustrini

che aveva in vita. «Forse non è unacosa così brutta, dopotutto», dissepiano. «Cioè, non hai pensato anient'altro a parte lui per settimane.Quasi un mese. E quindi forse è lacosa migliore, e puoi passare ad altrecose ora, invece di... be', dargli lacaccia».

Anche tu, Bruto?, pensò Elena.«Grazie tante per il sostegno», dissea voce alta.

«Adesso, Elena, non fare così», siintromise Meredith. «Non statentando di ferirti, pensa solo...».

«E suppongo che lo pensi anche tu,

no? Be', tutto bene. Uscirò e troveròaltre cose a cui dedicarmi. Altremigliori amiche, per esempio». Lelasciò intente a fissarla.

Fuori, si lanciò nella girandola dicolori e musica. Prima d'ora non eramai stata così brillante a un ballo.Ballò con tutti, ridendo troppo forte eflirtando con ogni ragazzo cheincontrava.

La stavano chiamando perl'incoronazione. Rimase sul palco,guardando le figure colorate comefarfalle sulla pista. Qualcuno lediede dei fiori; qualcuno le mise una

tiara di diamanti artificiali in testa.Ci fu qualche applauso e passò tuttocome in un sogno.

Flirtò con Tyler perché era il piùvicino quando scese dal palco. Poiricordò cosa lui e Dick avevano fattoa Stefan, e tolse una rosa dal bouquetper dargliela. Matt la guardava dalontano, le labbra serrate.L'accompagnatrice di Tyler, ormaidimenticata, era quasi in lacrime.

Tyler aveva l'alito che sapeva dialcool e menta, e il volto arrossato. Isuoi amici la circondavano, una follavociante e festosa, e lei vide Dick

versarsi nel bicchiere qualcosa da uninvolucro di carta marrone.

Non era mai stata con questogruppo prima. La accolsero, conammirazione, mentre i ragazzifacevano a gara per attirare la suaattenzione. Ci fu una sequela dibattute, a cui Elena rideva anchequando non avevano senso. Tyler lecircondò la vita con un braccio, e leirise ancora più forte. Con la codadell'occhio vide Matt scuotere latesta e andarsene. Le ragazze stavanodiventando petulanti, i ragazzirissosi, mentre Tyler le sbavava sul

collo.«Ho un'idea», annunciò al gruppo,

stringendo Elena più forte a sé.«Andiamo in un posto piùdivertente».

Qualcuno gridò: «Dove, Tyler? Acasa di tuo padre?».

Tyler sogghignava, un ghignoampio, sprezzante, da ubriaco. «No,intendo un posto dove possiamolasciare il segno. Come il cimitero».

Le ragazze strillarono. I ragazzi sidiedero gomitate e pugni per finta.

L'accompagnatrice di Tyler eraancora fuori dal cerchio. «Tyler, è

una pazzia», disse, la voce esile eacuta. «Sai cos'è accaduto a quelvecchio. Non voglio andare là».

«Fantastico, allora tu rimani qua».Tyler ripescò le chiavi dalla tasca ele agitò in faccia al resto del gruppo.«C'è qualcuno che non ha paura?»,chiese.

«Ehi, io ci sto», disse Dick, e ci fuun coro di approvazione.

«Anche io», disse Elena,distintamente e con aria di sfida.Sorrise a Tyler, mentre lui lasollevava letteralmente da terra.

Poi lei e Tyler si ritrovarono alla

guida di un gruppo rumoroso escomposto fuori nel parcheggio, dovesi infilarono nelle auto. Poi Tyler tirògiù la capotte e lei saltò in macchina,mentre Dick e una ragazza di nomeVickie Bennett si stringevano nelsedile posteriore.

«Elena!», urlò qualcuno, lontano,dalla soglia illuminata della scuola.

«Parti», disse lei a Tyler,togliendosi la tiara, e il motore siaccese rombando. Sgommaronouscendo dal parcheggio, mentre ilvento fresco della notte soffiava sulviso di Elena.

Capitolo 7

Bonnie era sulla pista da ballo, aocchi chiusi, e lasciava che la musicala attraversasse. Quando aprì gliocchi per un momento, vide Meredithche la chiamava a cenni dai bordidella pista. Bonnie sollevò il mento,con aria ribelle, ma quando i gestidiventarono più insistenti alzò gliocchi verso Raymond e obbedì.Raymond la seguì.

Matt ed Ed erano dietro aMeredith. Matt era accigliato, Ed

sembrava a disagio.«Elena se n'è appena andata»,

disse Meredith.«È un paese libero», rispose

Bonnie.«Se n'è andata con Tyler

Smallwood», disse Meredith. «Matt,sei sicuro di non aver sentito dovestavano andando?».

Matt fece cenno di no. «Direi chesi merita qualunque cosa le capiti...ma è anche colpa mia, in un certosenso», disse cupo. «Immagino chedovremmo seguirla».

«E lasciare il ballo?», chiese

Bonnie, guardando Meredith, chesenza parlare le ricordò: "haipromesso". «Non credo proprio»,borbottò con rabbia.

«Non so come faremo a trovarla»,disse Meredith, «ma dobbiamoprovare». Poi aggiunse, con vocestranamente esitante: «Bonnie, tu nonsai per caso dove sia, vero?»

«Cosa? No, certo che no; stavoballando. Lo saprai no: per qualemotivo si va a un ballo?»

«Tu e Ray restate qui», Matt dissea Ed. «Se ritorna, ditele che siamofuori a cercarla».

«Se proprio dobbiamo andare, èmeglio che andiamo ora», intervenneBonnie scortesemente. Si voltò esubito si scontrò con una giaccascura.

«Be', scusami», scattò, e alzandolo sguardo vide Stefan Salvatore. Luinon disse niente mentre lei, Meredithe Matt si dirigevano alla porta,lasciandosi dietro Ed e Raymond,sconsolati.

Le stelle erano lontane erilucevano come ghiaccio nel cielosenza nuvole. Elena si sentivaproprio come loro. Una parte di lei

stava ridendo e vociando con Dick,Vickie e Tyler sopra il ruggito delvento, ma un'altra parte di lei stavaosservando come da lontano.

Tyler parcheggiò a metà dellacollina sulla strada per la chiesadiroccata, e lasciò i fari accesiquando uscirono tutti dall'auto.Nonostante ci fossero molte autodietro di loro quando se n'eranoandati dalla scuola, a quanto pareerano gli unici arrivati fino alcimitero.

Tyler aprì il cofano ed estrasse seilattine. «Così ce n'è di più per noi».

Offrì una birra a Elena, che rifiutò,cercando di ignorare la sensazione dimalessere alla bocca dello stomaco.Sentiva che era sbagliato essere lì...ma non l'avrebbe mai ammesso.

Salirono per il sentiero lastricato,le ragazze barcollando sui tacchi altie appoggiandosi ai ragazzi. Quandoraggiunsero la cima, Elena trattenneil fiato e Vickie strillò.

Qualcosa di enorme e rosso silibrava proprio sopra l'orizzonte. Civolle un momento perché Elenarealizzasse che si trattava in effettidella luna. Era grande e irrealistica

come la scenografia di un film difantascienza, e la sua massa rigonfiasplendeva pigramente con una lucemalsana.

«Come un'enorme zucca marcia»,disse Tyler, lanciandole un sasso.Elena si costrinse a sorridergli.

«Perché non entriamo?», chieseVickie, indicando con la mano biancail buco vuoto che era la porta dellachiesa.

Quasi tutto il tetto era crollato,anche se il campanile era ancoraintatto, una torre che si allungavaverso l'alto sopra di loro. Tre dei

muri erano in piedi; il quartoarrivava all'altezza della ginocchia.C'erano mucchi di maceriedappertutto.

Una luce scintillò vicino allaguancia di Elena, e lei si voltò,sorpresa di vedere Tyler con unaccendino in mano. Lui sorrise,scoprendo i denti bianchi e forti, edisse: «Vuoi accendermelo?».

Elena fu quella che rise più forte,per mascherare l'imbarazzo. Presel'accendino, usandolo per illuminarela tomba lungo il lato della chiesa.Era diversa da tutte le altre tombe

del cimitero, anche se suo padre leaveva detto di averne viste di similiin Inghilterra. Sembrava un'ampiascatola di pietra, grande abbastanzaper due persone, con due statue dimarmo sdraiate compostamente sulcoperchio.

«Thomas Keeping Fell e HonoriaFell», disse Tyler con un ampiogesto, come per presentarli. «Si diceche il vecchio Thomas abbia fondatoFell's Church. Anche se in effettic'erano già anche gli Smallwoodall'epoca. Il trisnonno del miobisnonno viveva nella valle vicino a

Drowning Creek...».«...finché fu mangiato dai lupi»,

disse Dick, e piegò la testaall'indietro imitando un lupo. Poiruttò. Vickie ridacchiò. Il bel volto diTyler si contrasse per il fastidio, masi costrinse a sorridere.

«Thomas e Honoria sembrano unpo' pallidi», disse Vickie, ancoraridacchiando. «Penso che abbianobisogno di un po' di colore».Estrasse un rossetto dalla borsetta ecominciò a colorare le labbramarmoree della statua della donna diun rosso pallido. Elena sentì un'altra

fitta di nausea. Da bambina, avevasempre provato timore reverenzialeper quella pallida signora equell'uomo solenne che giacevanocon gli occhi chiusi e le bracciaripiegate sul petto. E, dopo la mortedei genitori, li aveva immaginatisdraiati in quel modo, fianco a fianconel cimitero. Ma tenne l'accendino inalto mentre l'altra ragazza disegnavadei baffi di rossetto e un naso daclown su Thomas Fell.

Tyler stava osservando le statue.«Ehi, sono tutte in tiro, ma senza unposto dove andare». Mise le mani sul

bordo del coperchio di pietra e vi siappoggiò, tentando di farlo scivolaredi lato. «Che dici, Dick... glifacciamo passare una notte in città?Magari proprio in centro?».

No, pensò Elena, inorridita, tra lerisate sguaiate di Dick e quellestridule di Vickie. Ma Dick era già alfianco di Tyler, pronto, i palmi dellemani sul coperchio di pietra.

«Al tre», disse Tyler, e contò:«Uno, due, tre».

Elena aveva gli occhi fissisull'orribile faccia da clown diThomas Fell mentre i ragazzi

ansimavano per lo sforzo, i muscolitesi sotto i vestiti. Non riuscirono aspostare il coperchio neanche di uncentimetro.

«Questo dannato coso dev'essereattaccato in qualche modo», disseTyler arrabbiato, voltandosi.

Elena si sentì debole per ilsollievo. Cercando di sembraredisinvolta si piegò sul coperchio dipietra della tomba per sostenersi... efu allora che accadde.

All'improvviso sentì la pietrastridere e il coperchio scivolaresotto la sua mano sinistra. Si stava

allontanando da lei, facendoleperdere l'equilibrio. L'accendinovolò via, e lei urlò sempre più,cercando di rimanere in piedi. Stavacadendo nella tomba aperta, e unvento gelido le ruggiva tutt'intorno.Nelle orecchie le rimbombavanodelle urla.

E poi si ritrovò fuori con la lunaabbastanza brillante da permetterledi vedere gli altri. Tyler la teneva. Siguardò intorno agitata.

«Sei matta? Che è successo?».Tyler la stava scuotendo.

«Si è spostato! Il coperchio si è

spostato! Si è aperto e... non so...sono quasi caduta dentro. Facevafreddo...».

I ragazzi ridevano. «La poverinase la fa sotto», disse Tyler. «Dai,Dick, diamo una controllata».

«Tyler, no...».Entrarono lo stesso. Vickie rimase

sulla soglia, a guardare, mentre Elenatremava. Subito dopo, Tyler le fececenno di entrare.

«Guarda», disse quando lei ritornòdentro, riluttante. Aveva recuperatol'accendino, e lo teneva sopra il pettodi marmo di Thomas Fell. «È ancora

al suo posto, comodo come un papa.Vedi?».

Elena esaminò l'allineamentoperfetto del coperchio con la tomba.«Si è spostato davvero. Sono quasicaduta dentro...».

«Sicuro, tutto quello che vuoi,piccola». Tyler la circondò con lebraccia, stringendola a sé da dietro.Dando un'occhiata a Dick e Vickie,vide che erano più o meno nellastessa posizione, tranne per il fattoche Vickie, con gli occhi chiusi,sembrava apprezzarlo. Tyler sfregòil mento contro i suoi capelli.

«Vorrei tornare a ballare adesso»,disse decisa.

Tyler smise un momento disfregare il mento, poi sospirò edisse: «Sicuro, piccola». GuardòDick e Vickie. «E voi due?».

Dick sorrise. «Noi staremo qui perun po'». Vickie ridacchiò, gli occhiancora chiusi.

«Okay». Elena si chiese comesarebbero ritornati, ma lasciò cheTyler la conducesse fuori. Una voltaall'aperto, comunque, lui si fermò.

«Non posso lasciarti andare primadi aver dato un'occhiata alla lapide

di mio nonno», disse. «Oh, dai,Elena», continuò quando leicominciò a protestare, «non ferire imiei sentimenti. Devi vederla; èl'orgoglio e la gioia di famiglia».

Elena si costrinse a sorridere,anche se si sentiva il ghiaccio nellostomaco. Forse se l'avesseaccontentato, lui l'avrebbe portatafuori di lì. «Va bene», disse, es'incamminò verso il cimitero.

«Non da quella parte. Per di qua».E subito dopo, la stava guidando giùverso il vecchio cimitero. «Va tuttobene, davvero, non è lontano dal

sentiero. Guarda là, vedi?». Indicòqualcosa che brillava alla luna.

Elena trasalì, i muscoli irrigiditi.Sembrava una persona in piedi, ungigante con la testa tonda e calva. E alei non piaceva affatto essere lì, traquelle lapidi di granito rovinate einclinate, appartenenti a secolipassati. La luna brillante proiettavastrane ombre, e ovunque c'erano zonedi oscurità impenetrabile.

«È solo la palla in cima. Niente dicui avere paura», disse Tyler,trascinandola fuori dal sentiero e finoalla lapide rilucente. Era di marmo

rosso, e l'enorme palla che lasormontava le ricordava la lunagonfia all'orizzonte. Ora quella stessaluna brillava su di loro, bianca comele mani bianche di Thomas Fell.Elena non riuscì a trattenere unbrivido.

«Povera piccola, ha freddo.Bisogna riscaldarla», disse Tyler.Elena cercò di respingerlo, ma luiera troppo forte, e la circondava conle braccia, attirandola a sé.

«Tyler, voglio andarmene; voglioandarmene adesso...».

«Sicuro, piccola, ce ne andremo»,

disse. «Ma prima bisogna scaldartiun po'. Accidenti, sei fredda».

«Tyler, smettila», disse. Stare frale sue braccia era stato solofastidioso, costrittivo, ma ora conuna sensazione di choc sentiva lemani di Tyler sul suo corpo, checercavano la pelle nuda.

Mai in vita sua Elena era stata inuna situazione come questa, lontanada ogni possibilità d'aiuto. Mirò conil tacco a spillo al suo piede copertodi cuoio, ma lui la evitò. «Tyler,toglimi le mani di dosso».

«Andiamo, Elena, non fare così,

voglio solo scaldarti tutta...».«Tyler, lasciami», disse con voce

strozzata. Cercò di liberarsi. Tylerinciampò, e poi cadde con tutto il suopeso su di lei, schiacciandola nelgroviglio di edera ed erbacce alsuolo. Elena parlò con disperazione.«Ti ucciderò, Tyler. Dico davvero.Lasciami».

Tyler cercò di rotolare di fianco,ridacchiando improvvisamente, gliarti pesanti e scoordinati, quasiinutili. «Oh, andiamo, Elena, non farel'isterica. Ti stavo solo scaldando,Elena la Principessa di Ghiaccio,

solo scaldando... Ti stai scaldandoadesso, no?».

Allora Elena si sentì le labbracalde e il viso umido. Era ancorabloccata sotto di lui, e i suoi bacibavosi scendevano verso la sua gola.Il vestito si strappò. .

«Ops», mormorò Tyler. «Scusa».Elena girò la testa, e incontrò con

le labbra la mano di Tyler, che leaccarezzava impacciato la guancia.Lei la morse, affondando i denti nelpalmo carnoso. Morse forte,assaporando il sangue, sentendol'urlo di dolore di Tyler, che strappò

via la mano.«Ehi! Ti ho chiesto scusa!». Tyler

si esaminò arrabbiato la mano ferita.Poi si scurì in volto mentre,guardandola ancora, la chiudeva apugno.

Ci siamo, pensò Elena con unacalma da incubo. O mi fa perdere isensi o mi uccide. Si preparò per ilcolpo.

Stefan era riuscito a non entrare

nel cimitero; tutto in lui gli urlava dinon farlo. L'ultima volta che era statolà era la notte dell'aggressione al

vecchio.Una sensazione d'orrore gli

attraversò le viscere a quel ricordo.Avrebbe giurato di non averdissanguato l'uomo sotto il ponte, dinon aver bevuto abbastanza sangueda nuocergli. Ma tutto ciò che erasuccesso quella notte, dopo l'ondatadi Potere, era annebbiato e confuso.S e davvero c'era stata un'ondata diPotere. Forse era stata solo la suaimmaginazione, o addirittura l'avevaprovocata lui. Potevano capitarestrane cose quando il bisogno erafuori controllo.

Chiuse gli occhi. Quando avevasentito che quel vecchio era statoricoverato, quasi morto, il suo chocera stato inesprimibile. Come avevapotuto perdere così il controllo?Uccidere, quasi, quando nonuccideva da...

Non voleva pensare a questo.Ora, davanti al cancello del

cimitero, nell'oscurità di mezzanotte,non desiderava altro che voltarsi eandarsene. Tornare al ballo doveaveva lasciato Caroline, quelladocile creatura abbronzata che eracompletamente al sicuro perché non

significava assolutamente nulla perlui.

Ma non poteva tornare, perchéElena era nel cimitero. Riusciva asentirla e percepiva la sua angosciacrescente. Elena era nel cimitero e inpericolo, e lui doveva trovarla.

Si trovava a metà della collinaquando fu colto da vertigini che lofecero barcollare. Avanzò a faticaverso la chiesa perché era la solacosa che riuscisse a tenere a fuoco.Grigie ondate di nebbia gliattraversavano il cervello, mentrelottava per continuare a muoversi.

Debole, si sentiva molto debole. Eimpotente contro l'assoluto potere diquesta vertigine.

Aveva bisogno... di andare daElena. Ma era debole. Non potevaessere... debole... se doveva aiutareElena. Aveva bisogno... di...

La porta della chiesa si spalancòdavanti a lui.

Elena scorgeva la luna sopra la

spalla sinistra di Tyler. Erastranamente appropriato che quellafosse l'ultima cosa che avrebbe visto,pensò. L'urlo le era rimasto in gola,

soffocato dalla paura.E poi qualcosa sollevò Tyler e lo

gettò contro la lapide di suo nonno.Così sembrò a Elena. La ragazza

rotolò su un fianco, ansimando,tenendosi con una mano il vestitostrappato, mentre con l'altra cercavaa tentoni un'arma.

Ma non ne aveva bisogno.Qualcosa si mosse nell'oscurità, e leivide la persona che le aveva tolto didosso Tyler. Stefan Salvatore. Maera uno Stefan che Elena non avevamai visto prima: quel volto dai beilineamenti era pallido e freddo per la

rabbia, e c'era una luce omicida inquegli occhi verdi. Senza neanchemuoversi, Stefan emanava una talefuria e minaccia che Elena fuspaventata più da lui che da Tyler.

«Quando ti ho conosciuto, sapevoche non avresti mai imparato lebuone maniere», disse Stefan. Lavoce era tranquilla, fredda e chiara, ein qualche modo stordiva Elena. Nonpoteva togliergli gli occhi di dossomentre si avvicinava a Tyler, che orascuoteva la testa sbalordito ecominciava a rialzarsi. Stefan simuoveva come un ballerino, ogni

movimento facile e precisamentecontrollato. «Ma non avevo idea cheil tuo carattere fosse cosìsottosviluppato».

Colpì Tyler. Il ragazzo, che erapiù grosso, aveva allungato una manomuscolosa, e Stefan l'aveva colpitoquasi con noncuranza sul lato delviso, prima ancora che la mano lotoccasse.

Tyler volò contro un'altra lapide.Si rialzò e rimase in piedi ansimante,il bianco degli occhi visibile. Elenanotò che gli usciva dal naso un rivolodi sangue. Poi Tyler attaccò.

«Un gentiluomo non impone la suacompagnia a nessuno», disse Stefan,e lo colpì. Tyler finì steso un'altravolta, a faccia in giù fra l'erba e gliarbusti. Questa volta fu più lento arialzarsi, e il sangue gli usciva daentrambe le narici e dalla bocca.Sbuffò come un cavallo imbizzarritoquando si lanciò su Stefan.

Stefan afferrò i baveri della giaccadi Tyler, in modo da roteare con lui eassorbire l'impatto dell'attaccoomicida. Scosse Tyler due volte,forte, mentre quei grossi pugni glimulinavano intorno, incapaci di

andare a segno. Poi lo lasciò cadere.«Non insulta una donna», disse. Il

volto di Tyler era contorto, gli occhiroteavano, ma riuscì ad afferrare lagamba di Stefan. Stefan lo sollevò inpiedi e lo scosse ancora, e Tyler siafflosciò come una bambola distracci, gli occhi rivoltati all'insù.Stefan continuò a parlare, tenendodritto quel corpo pesante esottolineando ogni parola con unascossa tanto forte da spezzare leossa. «E, soprattutto, non le fa delmale...».

«Stefan!», gridò Elena. La testa di

Tyler ciondolava avanti e indietro aogni scossone. Aveva paura di ciòche stava vedendo; paura di ciò cheStefan poteva fare. E soprattuttopaura della voce di Stefan, quellavoce fredda simile a un pugnale chedanza, bellissimo ma letale e senzaalcuna pietà. «Stefan, smettila».

Lui voltò la testa verso di lei,sorpreso, come se avessedimenticato la sua presenza. Per unmomento la guardò senzariconoscerla, gli occhi neri alla luna,e a Elena ricordò un predatore, ungrosso rapace o un flessuoso

carnivoro incapace di provareemozioni umane. Poi la suaespressione rivelò di nuovocomprensione e un po' diquell'oscurità svanì dal suo sguardo.

Guardò la testa penzoloni di Tyler,poi lo sistemò delicatamente controla lapide di marmo rosso. Leginocchia di Tyler cedettero e ilragazzo scivolò lungo la superficie,ma con sollievo di Elena gli occhi siaprirono... o almeno uno. Quellodestro era ridotto a una fessura.

«Starà bene», disse Stefan conespressione vuota.

Quando la paura scemò, Elena sisentì vuota lei stessa. Choc, pensò.Sono sotto choc. Probabilmenteinizierò a strillare come un'istericada un minuto all'altro.

«C'è qualcuno che ti possaaccompagnare a casa?», disse Stefan,ancora con quella voce gelidamentesmorta.

Elena pensò a Dick e Vickie, chefacevano Dio sa cosa di fianco allastatua di Thomas Fell. «No», rispose.La mente cominciava a funzionarle dinuovo, a notare le cose intorno a lei.Il vestito viola era strappato lungo

tutto il davanti; era rovinato.Meccanicamente, lo raccolse acoprire la sottoveste.

«Ti porto io», disse Stefan.Anche attraverso lo stordimento,

Elena provò un improvviso brividodi paura. Lo guardò, una figurastranamente elegante fra le lapidi, ilvolto pallido alla luce lunare. Non leera mai sembrato così... così belloprima, ma quella bellezza era quasialiena. Non solo straniera, mainumana, perché nessun essere umanopoteva proiettare quell'aura dipotere, o di distacco.

«Grazie. Sei molto gentile», disselentamente. Non c'era nient'altro dafare.

Lasciarono Tyler mentre sirialzava dolorante vicino alla lapidedel suo avo. Elena ebbe un altrobrivido quando raggiunsero ilsentiero e Stefan si diresse versoWickery Bridge.

«Ho lasciato la mia auto alpensionato», disse. «Questa è la viapiù breve per tornare indietro».

«È da qui che sei venuto?»«No. Non ho attraversato il ponte.

Ma sarà sicuro».

Elena gli credette. Pallido esilenzioso, le camminava accantosenza toccarla, tranne quando si tolsela giacca per mettergliela sulle spallenude. Stranamente Elena era sicurache Stefan avrebbe ucciso qualunquecosa tentasse di arrivare a lei.

Wickery Bridge sembrava biancoalla luce della luna, e al di sotto delponte le acque gelide vorticavano surocce antiche. Il mondo intero eraimmobile, bellissimo e freddo mentrecamminavano fra le querce fino araggiungere la stradina di campagna.

Oltrepassarono pascoli recintati e

campi bui finché arrivarono a unvialetto lungo e tortuoso. Ilpensionato era un ampio edificio dimattoni color ruggine di argillalocale, fiancheggiato da vecchi cedrie aceri. Tutte le finestre erano buietranne una.

Stefan aprì una delle doppie porteed entrarono in un piccolo ingressocon una rampa di scale propriodavanti a loro. La balaustra, come leporte, era di quercia naturale chiara,così lucida che sembrava brillare.

Salirono le scale fino alpianerottolo del secondo piano,

scarsamente illuminato. Con sorpresadi Elena, Stefan la guidò in una dellecamere e aprì quella che sembrava laporta di un armadio. Attraverso laporta Elena scorse una rampa discale molto ripida e stretta.

Che strano posto, pensò. Questascala nascosta, sepolta nel cuoredella casa dove nessun suono potevaarrivare dall'esterno. Raggiunta lacima delle scale, entrò in una grandecamera che occupava tutto il terzopiano della casa.

Era scarsamente illuminata quasicome le scale, ma Elena scorgeva il

pavimento di legno macchiato e letravi a vista del soffitto inclinato.C'erano alte finestre su tutti i lati, emolti bauli sparsi tra i pochi mobilimassicci.

Si rese conto che lui la stavaosservando. «C'è un bagno qui...?».

Lui le indicò una porta. Lei si tolsela giacca, gliela tese senza guardarlo,ed entrò.

Capitolo 8

Elena era entrata in bagnosentendosi stordita e confusamentegrata. Ne uscì arrabbiata.

Non era sicura di come latrasformazione avesse avuto luogo.Ma a un certo punto mentre si stavalavando i graffi su viso e braccia,infastidita dalla mancanza di unospecchio e dal fatto che avevalasciato la borsetta nelladecappottabile di Tyler, ricominciò aprovare qualcosa. E ciò che provava

era rabbia.Al diavolo Stefan Salvatore. Così

freddo e controllato anche mentre lesalvava la vita. Al diavolo la suaeducazione e galanteria, e quellabarriera intorno a lui che sembravapiù spessa e alta che mai.

Tolse il resto delle forcine daicapelli e le usò per allacciare ildavanti del vestito. Poi si pettinòvelocemente i capelli sciolti con unpettine d'osso intagliato che trovòvicino al lavandino. Uscì dal bagnocon il mento sollevato e gli occhisocchiusi.

Lui non si era rimesso il cappotto.Stava in piedi vicino alla finestra ingolfino bianco con la testa china,teso, aspettando. Senza sollevare latesta, indicò un panno di vellutoscuro appoggiato sullo schienale diuna sedia.

«Forse vorrai indossare quellosopra il vestito».

Era un mantello lungo fino aipiedi, molto ricco e morbido, con uncappuccio.

Elena si sistemò il pesante tessutosulle spalle. Ma il dono non larabbonì; notò che Stefan non le si era

avvicinato, e non l'aveva neancheguardata mentre parlava.

Deliberatamente, lei invase il suospazio, stringendosi nel mantello eprovando, perfino in quel momento,un apprezzamento sensuale per ilmodo in cui le pieghe le ricadevanointorno, formando uno strascicodietro di lei sul pavimento. Loraggiunse ed esaminò il pesantecassettone di mogano vicino allafinestra.

Su di esso giaceva un pugnale conl'impugnatura d'avorio dall'ariaminacciosa e una stupenda coppa

d'agata montata in argento. C'eranoanche una sfera dorata con una speciedi quadrante e molte monete d'oro.

Raccolse una delle monete, inparte perché era interessante e inparte perché sapeva che Stefan sisarebbe infastidito nel vederlamaneggiare le sue cose. «Checos'è?».

Passò un attimo prima che luirispondesse. Poi disse:

«Un fiorino d'oro. Una monetafiorentina».

«E questo cos'è?»«Un orologio a catena tedesco.

Tardo quindicesimo secolo», dissedistratto. Poi aggiunse: «Elena...».

Lei allungò la mano per prendereun piccolo scrigno di ferro con uncoperchio a cerniera. «E questo? Siapre?»

«No». Aveva i riflessi di un gatto;mise una mano sullo scrigno, tenendoil coperchio abbassato. «È privato»,disse, lo sforzo evidente nella voce.

Lei notò che la mano toccava soloil coperchio di ferro ricurvo e non lasua pelle. Quando sollevò le dita, luiritirò subito la mano.

All'improvviso, la rabbia di lei fu

tale da non riuscire più a contenerla.«Attento», disse furiosa. «Nontoccarmi; potresti prenderti unamalattia».

Lui si voltò verso la finestra.Eppure anche mentre Elena si

allontanava, tornando al centro dellastanza, percepiva che Stefanosservava il suo riflesso. E seppe,all'improvviso, che aspetto dovevaavere per lui, i capelli chiari chericadevano sul nero della mantella,una mano candida che teneva ilvelluto chiuso sulla gola. Unaprincipessa devastata che camminava

nella sua torre.Piegò la testa all'indietro per

guardare la botola sul soffitto e sentìun sospiro leggero e distinto. Quandosi voltò, lo sguardo di lui era fissosulla sua gola scoperta; l'espressionenei suoi occhi la confuse. Ma l'attimodopo il suo volto si indurì,chiudendola fuori.

«Credo», disse lui, «che fareimeglio a portarti a casa».

In quell'istante Elena volle ferirlo,farlo stare tanto male quanto luiaveva fatto stare lei. Ma volevaanche la verità. Era stanca di questo

gioco, stanca delle macchinazioni edei complotti per leggere la mente diStefan Salvatore. Fu terrificante,eppure fu anche un meravigliososollievo sentire la propria vocepronunciare le parole che avevapensato così a lungo.

«Perché mi odi?».Lui la fissò. Per un attimo sembrò

non trovare le parole. Poi rispose:«Non ti odio».

«Sì che mi odi», replicò Elena.«So che non è... educato dirlo, manon m'importa. So che dovrei essertigrata per avermi salvato stanotte, ma

non m'importa neanche questo. Non tiho chiesto io di salvarmi. Non soneanche perché eri nel cimitero, tantoper cominciare. E di certo noncapisco perché l'hai fatto,considerando quello che provi perme».

Lui scuoteva la testa, ma la suavoce era gentile. «Non ti odio».

«Fin dall'inizio mi hai evitatocome se fossi... come se fossi unaspecie di lebbrosa. Ho cercato diessere amichevole, e tu mi hairespinto, È così che fa un gentiluomoquando qualcuno cerca di dargli il

benvenuto?».Lui stava cercando di dire

qualcosa ora, ma lei proseguì,ignorandolo. «Mi hai snobbato inpubblico giorno dopo giorno; mi haiumiliato a scuola. Non mi avrestiparlato neanche se fosse stataquestione di vita o di morte. Ci vuolequesto per tirarti una parola fuori dibocca? Bisogna essere quasi uccisi?

E anche adesso», continuòrisentita, «non vuoi che mi avvicini ate. Qual è il tuo problema, StefanSalvatore, che devi vivere in questomodo? Che devi costruire una

barriera per tenere fuori gli altri?Che non puoi fidarti di nessuno?Cosa hai che non va?».

Lui era muto ora, il volto girato.Lei inspirò profondamente e poidrizzò le spalle, tenendo la testa altaanche se gli occhi irritati lebruciavano. «E cosa ho io che nonva», aggiunse, più tranquilla, «chenon riesci nemmeno a guardarmi,mentre lasci che Caroline Forbes ti siappiccichi addosso? Ho diritto disapere almeno questo. Non tiinfastidirò mai più, nemmeno tiparlerò a scuola, ma voglio sapere la

verità prima di andarmene. Perché miodi così tanto, Stefan?».

Lentamente, il ragazzo si voltò esollevò la testa. Gli occhi eranovuoti, ciechi, e qualcosa in Elena sicontorse alla vista del dolore chevide sul suo viso.

La sua voce era ancoracontrollata... ma a stento. Lei sentivalo sforzo che gli costava mantenerlaferma.

«Sì», disse, «penso che tu abbia ildiritto di saperlo. Elena». Allora laguardò, incrociando direttamente ilsuo sguardo, e lei pensò: "Così

terribile? Cosa può esserci di cosìterribile?". «Io non ti odio»,continuò, pronunciando ogni parolacon attenzione, distintamente. «Non tiho mai odiato. Ma tu... mi ricordiqualcuno».

Elena fu sorpresa. Qualunque cosasi aspettasse, non era questo. «Tiricordo qualcun altro che conosci?»

«Qualcuno che conoscevo», dissecalmo. «Ma», aggiunse lentamente,come se stesse cercando di capirequalcosa, «tu non sei come lei, inrealtà. Lei aveva il tuo aspetto, maera fragile, delicata. Vulnerabile. Sia

dentro che fuori».«E io non lo sono».Lui fece un verso che sarebbe stato

simile a una risata, se ci fosse statodell'umorismo. «No. Tu sei unalottatrice. Tu sei... te stessa».

Elena rimase in silenzio per unmomento. Non riuscì a rimanerearrabbiata, vedendo il dolore sul suoviso. «Le eri molto vicino?»

«Sì».«Cos'è successo?».Ci fu una lunga pausa, così lunga

che Elena pensava che non leavrebbe mai risposto. Ma alla fine

lui disse: «È morta».Elena emise un sospiro tremulo.

L'ultima briciola di rabbia svanìdentro di lei. «Dev'essere statoterribilmente doloroso», dissedolcemente, pensando alla lapidebianca dei Gilbert tra la segale. «Midispiace tanto».

Stefan non disse niente. Il volto siera nuovamente chiuso, e sembravache stesse guardando qualcosa inlontananza, qualcosa di terribile estraziante che solo lui poteva vedere.Ma non c'era solo dolore nella suaespressione. Attraverso la barriera,

attraverso tutto il suo vacillantecontrollo, Elena vedeva l'espressionetorturata da una colpa e unasolitudine intollerabili.Un'espressione così persa etormentata che gli si avvicinò primaancora di rendersi conto di ciò chestava facendo.

«Stefan», sussurrò. Lui non sembròsentirla; sembrò alla deriva nel suomondo di infelicità.

Elena non riuscì a trattenersi dalposargli una mano sul braccio.«Stefan, so quanto può far male...».

«Non puoi saperlo», esplose, tutta

la sua calma trasformata in rabbiacieca. Guardò la sua mano come se sifosse appena accorto che era lì, comeinfuriato che lei avesse osatotoccarlo. Gli occhi verdi eranodilatati e scuri mentre la respingeva,alzando in fretta una mano perimpedirle di toccarlo ancora...

...e in qualche modo, invece, leprese la mano, le dita strettamenteintrecciate con quelle di lei,stringendola come se ne andassedella sua vita. Guardò sconcertato leloro mani unite. Poi, lentamente, ilsuo sguardo si spostò dalle dita

intrecciate al viso di lei.«Elena...», sospirò.E allora lei la vide, quell'angoscia

che stremava il suo sguardo, come senon ce la facesse più a lottare.Quella sconfitta mentre la barrierafinalmente si sbriciolava e rivelavacosa c'era al di là.

E poi, indifeso, lui chinò il visosulle sue labbra.

«Aspetta... fermati qui», disse

Bonnie. «Penso di aver vistoqualcosa».

La Ford ammaccata di Matt

rallentò, dirigendosi verso il bordodella strada, dove rovi e cespuglierano più fitti. Qualcosa di biancoluccicava in lontananza, e venivaverso di loro.

«Oh, mio Dio», disse Meredith.«È Vickie Bennett».

La ragazza entrò incespicando nelfascio di luce dei fanali e rimase lì,vacillante, mentre Matt frenava.Aveva i capelli castano chiaroarruffati e in disordine, e gli occhivitrei nel viso macchiato e sporco difango. Indossava soltanto una leggerasottoveste bianca.

«Falla entrare in auto», disse Matt.Meredith stava già aprendo laportiera. Balzò fuori e corse verso laragazza stordita.

«Vickie, stai bene? Cosa ti èsuccesso?».

Vickie gemette, fissando ancoradavanti a sé. Poi all'improvvisosembrò accorgersi di Meredith, e siaggrappò a lei, affondando le unghienelle sue braccia.

«Andate via di qua», disse, gliocchi pieni di disperazione, la vocestrana e impastata, come se avessequalcosa in bocca. «Tutti voi...

andate via di qua! Sta arrivando».«Cosa sta arrivando? Vickie,

dov'è Elena?»«Andatevene subito...».Meredith guardò lungo la strada,

poi condusse la ragazza tremanteall'auto. «Ti porteremo via», disse,«ma devi dirci cos'è successo.Bonnie, dammi il tuo scialle. Stagelando».

«È stata ferita», disse cupo Matt.«Ed è sotto choc o qualcosa delgenere. La domanda è: dove sono glialtri? Vickie, Elena era con te?».

Vickie singhiozzò coprendosi il

viso con le mani, mentre Meredith lesistemava lo scialle rosa cangiante diBonnie sulle spalle. «No... Dick»,disse indistintamente. Sembrava cheparlare le facesse male. «Eravamonella chiesa... è stato orribile. Èarrivato... come una foschia tuttaattorno. Una foschia scura. E occhi.Ho visto i suoi occhi nel buio,fiammeggianti. Mi hanno bruciato...».

«Sta delirando», disse Bonnie. «Oè isterica, o come si dice».

Matt parlò in modo lento e chiaro.«Vickie, per favore, dicci solo unacosa. Dov'è Elena? Cosa le è

successo?»«Non lo so». Vickie sollevò il

viso rigato di lacrime al cielo. «Dicke io... eravamo da soli. Stavamo... eall'improvviso era tutto intorno a noi.Non potevo scappare. Elena ha dettoche la tomba si era aperta. Forse è dalì che è venuto. Era orribile...».

«Erano nel cimitero, nella chiesadiroccata», interpretò Meredith. «EdElena era con loro. E guardatequesto». Alla luce dell'auto,potevano vedere tutti i graffi,profondi e recenti, che correvanolungo il collo di Vickie fino al

corpetto di pizzo della sottoveste.«Sembrano segni di animali»,

disse Bonnie. «Come i graffi di ungatto, forse».

«Non è stato un gatto ad aggredirequel vecchio sotto il ponte», disseMatt. Il volto era pallido, e i muscolidella mascella erano tesi. Meredithseguì il suo sguardo lungo la strada epoi scosse la testa.

«Matt, dobbiamo portarla indietro,prima. Dobbiamo», disse. «Ascolta,io sono preoccupata per Elena quantote. Ma Vickie ha bisogno di undottore, e noi dobbiamo chiamare la

polizia. Non abbiamo scelta.Dobbiamo tornare».

Matt fissò la strada ancora per unlungo momento, poi emise un sospirosibilante. Sbattendo la portiera, misein moto e fece manovra, effettuandoogni movimento con violenza.

Per tutto il tragitto verso la città,Vickie delirò a proposito degliocchi.

Elena sentì le labbra di Stefan

toccare le sue.E... fu tutto semplicissimo. Tutte le

domande ricevettero risposta, tutte le

paure trovarono pace, tutti i dubbisvanirono. Ciò che provava non erasemplice passione, ma una tenerezzadolente e un amore così forte che lascuoteva dentro. Sarebbe statospaventoso nella sua intensità, se nonfosse che quando era con lui nonpoteva avere paura di niente.

Era tornata a casa.Questo era il suo posto, e alla fine

l'aveva trovato. Con Stefan, era acasa.

Lui indietreggiò leggermente, e leisi accorse che stava tremando.

«Oh, Elena», sussurrò sulle sue

labbra. «Non possiamo...».«L'abbiamo già fatto», lei

sussurrò, e lo attirò di nuovo a sé.Era quasi come se Elena riuscisse

a sentire i suoi pensieri, provare lesue emozioni. Piacere e desiderioscorrevano fra loro, unendoli,avvicinandoli. Elena avvertiva ancheuna sorgente di emozioni piùprofonde in lui. Stefan volevastringerla per sempre, proteggerla daogni sofferenza. Voleva difenderla daqualunque male la minacciasse.Voleva unire la propria vita alla sua.

Elena sentiva la tenera pressione

delle labbra di Stefan sulle sue, epoteva a stento sopportarne ladolcezza. Sì, pensò. L'eccitazione leattraversava il corpo come le onde inun laghetto tranquillo e limpido. E leivi stava annegando, sia nella gioiache avvertiva in Stefan sia neldelizioso impeto che sorgeva in lei.L'amore di Stefan la inondava,riluceva in lei, illuminando ogniangolo oscuro della sua anima comeil sole. Tremava di piacere, d'amore,e di desiderio.

Lui si scostò lentamente, come senon potesse sopportare di separarsi

da lei, e si guardarono negli occhicon gioia.

Non parlarono. Non c'era bisognodi parole. Stefan le carezzò i capelli,con un tocco così leggero che Elenariusciva a stento a sentirlo, quasiavesse paura che le si rompesse frale mani. Allora lei seppe che non erastato l'odio a tenerlo lontano pertanto tempo. No, non era stato affattol'odio.

Elena non aveva idea di quanto

fosse tardi quando scesero in silenziole scale della pensione. In qualunque

altro momento, sarebbe stataelettrizzata di salire sulla lucenteauto nera di Stefan, ma quella nottelo notò appena. Lui le teneva la manomentre guidava per le strade deserte.

La prima cosa che Elena videquando si avvicinarono a casa suafurono le luci.

«È la polizia», disse, trovando condifficoltà la voce. Era strano parlaredopo essere rimasta in silenzio così alungo. «E quella nel vialetto è l'autodi Robert, e c'è anche quella diMatt», aggiunse. Guardò Stefan, e lapace che l'aveva riempita sembrò

improvvisamente fragile. «Chissàcos'è successo. Pensi che Tyler abbiagià detto loro...?»

«Nemmeno Tyler sarebbe cosìstupido», rispose Stefan.

Stefan parcheggiò dietro una dellaauto della polizia e, riluttante, Elenagli lasciò la mano. Desiderava contutto il cuore rimanere semplicementeda sola con Stefan, non dover maipiù affrontare il mondo.

Ma non si poteva evitare.Percorsero il vialetto fino alla porta,che era aperta. Dentro, le luci eranotutte accese.

Entrando, Elena vide circa unadecina di facce voltarsi verso di lei.Si accorse improvvisamentedell'aspetto che doveva avere, inpiedi sulla soglia nell'ampia mantelladi velluto nero, con Stefan Salvatoreal suo fianco. E poi zia Judith,lanciato uno strillo, la prese fra lebraccia, scuotendola eabbracciandola nello stesso tempo.

«Elena! Oh, grazie a Dio sei salva.Ma dove sei stata? E perché non haichiamato? Ti rendi conto di cosa haifatto passare a tutti quanti?».

Elena si guardò intorno

sconcertata. Non ci capiva niente.«Siamo davvero contenti di

rivederti», disse Robert.«Sono stata alla pensione con

Stefan», disse lei lentamente. «ZiaJudith, questo è Stefan Salvatore; hauna camera in affitto laggiù. Mi hariaccompagnata».

«Grazie», disse zia Judith a Stefansopra la testa di Elena. Poi, facendoun passo indietro per guardare Elena,chiese: «Ma il vestito, i capelli...cos'è successo?»

«Non lo sai? Allora Tyler non tel'ha detto. Ma allora perché c'è qui la

polizia?». Elena si diresseistintivamente verso Stefan, e ilragazzo le si avvicinò come aproteggerla.

«È qui perché Vickie Bennett èstata aggredita nel cimitero stanotte»,rispose Matt. Lui, Bonnie e Mereditherano in piedi dietro a zia Judith eRobert, con l'aria sollevata, un po'impacciata e molto più che stanca.«L'abbiamo trovata forse due o treore fa, e ti stiamo cercando daallora».

«Aggredita?», chiese Elena,stupefatta. «Aggredita da chi?»

«Nessuno lo sa», replicòMeredith.

«Be', adesso, potrebbe non essereniente di preoccupante», intervenneRobert confortante. «Il dottore diceche si è presa un bello spavento, eche aveva bevuto. Tutta la faccendapotrebbe essere frutto della suaimmaginazione».

«Quei graffi non eranoimmaginari», disse Matt, educato marisoluto.

«Quali graffi? Di cosa stateparlando?», chiese Elena, guardandoprima un viso e poi l'altro.

«Te lo dirò», rispose Meredith, espiegò succintamente come lei e glialtri avevano trovato Vickie.«Continuava a ripetere che nonsapeva dove fossi, che era da solacon Dick quando è successo. Equando l'abbiamo riportata qui, ildottore ha detto che non ha trovatoniente di concreto. Non era davveroferita, a parte i graffi, e quellipotrebbero essere di un gatto».

«Non aveva altri segni?», chieseStefan bruscamente. Era la primavolta che parlava da quando eraentrato in casa, ed Elena lo guardò,

sorpresa dal suo tono.«No», rispose Meredith.

«Naturalmente, non è stato un gatto astrapparle i vestiti di dosso... mapotrebbe essere stato Dick. Oh,aveva anche la lingua morsicata».

«Cosa?», chiese Elena.«Gravemente morsicata, intendo.

Deve aver sanguinato molto, eadesso le fa male quando parla».

Di fianco a Elena, Stefan eradiventato immobile. «Ha una qualchespiegazione per ciò che è successo?»

«Era isterica», disse Matt.«Davvero isterica; diceva cose senza

senso. Continuava a blaterare diocchi e nebbia scura e che non era ingrado di scappare... che è il motivoper cui il dottore pensa che possatrattarsi di una specie diallucinazione. Ma a quanto si puòcapire, i fatti sono che lei e DickCarter erano nella chiesa diroccatavicino al cimitero verso mezzanotte,e che qualcosa è entrato e li haattaccati».

Bonnie aggiunse: «Non haattaccato Dick, il che dimostra se nonaltro che ha un po' di buon senso. Lapolizia l'ha trovato svenuto sul

pavimento della chiesa, e non ricordaniente».

Ma Elena sentì appena le ultimeparole. C'era decisamente qualcosache non andava in Stefan. Non potevadire come lo sapesse, ma lo sapeva.

Si era irrigidito mentre Matt finivadi parlare, e ora, anche se non si eramosso, era come se una grandedistanza li separasse, come sefossero sui lati opposti di unabanchisa di ghiaccio che si divideva.

Lui disse, con quella voceestremamente controllata che leiaveva sentito prima nella sua stanza:

«Nella chiesa, Matt?»«Sì, nella chiesa diroccata»,

rispose Matt.«E sei sicuro che lei abbia detto

che era mezzanotte?»«Non poteva esserne certa ma

dev'essere stato all'incirca aquell'ora. L'abbiamo trovata nonmolto dopo. Perché?».

Stefan non disse niente. Elena sentìche l'abisso fra loro si allargava.«Stefan», bisbigliò. Poi, ad altavoce, chiese disperata: «Stefan, cosac'è?».

Lui scosse la testa. Non chiudermi

fuori, pensò lei, ma lui non la stavanemmeno guardando.«Sopravviverà?», chieseall'improvviso.

«Il dottore ha detto che non haniente che non va», disse Matt.«Nessuno ha mai pensato che possamorire».

Stefan annuì bruscamente; poi sivoltò verso Elena. «Devo andare»,disse. «Sei al sicuro ora».

Lei gli afferrò la mano mentre sigirava. «Certo che sono al sicuro»,rispose. «Grazie a te».

«Sì», lui replicò. Ma non c'era

risposta nei suoi occhi. Eranoschermati, spenti.

«Chiamami domani». Lei glistrinse la mano, cercando ditrasmettergli ciò che provava sotto lasorveglianza di tutti quegli occhicuriosi. Voleva che lui capisse.

Lui abbassò lo sguardo sulle manisenza nessuna espressione, poi,lentamente, lo rivolse di nuovo a lei.E poi, alla fine, ricambiò la strettadelle sue dita. «Sì, Elena», sussurrò,gli occhi incollati ai suoi. Un attimodopo se n'era andato.

Lei fece un profondo respiro e si

voltò verso la stanza affollata. ZiaJudith le stava ancora addosso, losguardo fisso sulla parte visibile delvestito strappato di Elena sotto ilmantello.

«Elena», disse, «cos'è successo?».E rivolse lo sguardo alla porta da cuiStefan era appena uscito.

Una specie di risata isterica salìalla gola di Elena, e lei la soffocò.«Non è stato Stefan a farlo», disse.«Stefan mi ha salvato». Sentì il suoviso indurirsi, e guardò il poliziottodietro zia Judith. «È stato Tyler,Tyler Smallwood...».

Capitolo 9

Non era la reincarnazione diKatherine.

Era quello su cui Stefan riflettevamentre tornava alla pensione, nellaquiete d'un pallido color lavandaprima dell'alba.

Questo è quanto le aveva detto, edera vero, ma solo ora capiva quantotempo ci avesse impiegato pergiungere a quella conclusione. Era aconoscenza di ogni respiro emovimento di Elena da settimane, e

aveva catalogato ogni differenza.I suoi capelli erano più chiari di

un tono o due rispetto a quelli diKatherine, e ciglia e sopraccigliaerano più scure. Quelle di Katherineerano quasi argentee. Ed era più altadi Katherine di una spannaabbondante. Si muoveva anche conmaggior libertà; le ragazze diquest'epoca erano più a loro agio conil proprio corpo.

Perfino i suoi occhi, quegli occhiche lo avevano paralizzato per lasomiglianza quel primo giorno, nonerano veramente gli stessi.

Gli occhi di Katherine erano disolito spalancati con stuporeinfantile, o almeno abbassati com'eraappropriato per una giovane deltardo quindicesimo secolo. Ma gliocchi di Elena ti affrontavanodirettamente, ti guardavano fermi esenza esitare. A volte sisocchiudevano con determinazione osfida come quelli di Katherine nonavevano mai fatto.

Per grazia, bellezza e puro fascinole due ragazze si assomigliavano. Mase Katherine era stata un gattinobianco, Elena era una tigre bianca.

Mentre superava le sagome degliaceri, Stefan sfuggì al ricordo che erasorto all'improvviso. Non avrebbepensato a questo, non si sarebbe... male immagini si stavano già svolgendodavanti a lui. Era come se il diario sifosse aperto e lui non potesse farealtro che fissare impotente la paginamentre la storia andava in scena nellasua mente.

Bianco, Katherine vestiva dibianco quel giorno. Un nuovo abitobianco di seta veneziana con manichecon spacchi che lasciavanointravedere la camicetta di fine lino

che indossava sotto. Aveva unacollana di oro e perle al collo epiccoli orecchini di perle a gocciaalle orecchie.

Era stata così contenta del nuovovestito che il padre avevacommissionato appositamente perlei.

Si era messa a volteggiare davantia Stefan, sollevando la gonna larga elunga fino a terra con una manina permostrare il sottogonna di broccatogiallo...

«Vedi, è perfino ricamato con le

mie iniziali; l'ha fatto fare papà.Mein lieber Papa...». La voce siaffievolì, e lei smise di roteare, unamano che si posava lentamente sulfianco. «Ma cosa c'è che non va,Stefan? Non stai sorridendo».

Non poteva neanche provarci. Lavista di lei là, bianca e dorata comeun'eterea visione, gli provocava unvero e proprio dolore fisico. Sel'avesse perduta, non avrebbe saputocome vivere.

Chiuse convulsamente le ditaintorno al freddo metallo inciso.«Katherine, come posso sorridere,

come posso essere felice quando...».«Quando?»«Quando vedo come guardi

Damon». Ecco, l'aveva detto.Continuò, dolorosamente. «Prima chetornasse a casa, tu e io stavamoinsieme ogni giorno. Mio padre e iltuo erano contenti, e parlavano dimatrimonio. Ma ora i giorni siaccorciano, l'estate se n'è quasiandata... e tu stai con Damon tantoquanto stai con me. L'unico motivoper cui papà gli permette di restarequi è che l'hai chiesto tu. Ma perchél'hai chiesto, Katherine? Pensavo che

mi volessi bene».Gli occhi azzurri di lei erano

costernati. «Certo che ti voglio bene,Stefan. Oh, sai che te ne voglio!».

«Allora perché intercedere perDamon con mio padre? Se non fosseper te, avrebbe buttato Damon per lastrada...».

«Cosa che, sono sicuro, ti avrebbefatto piacere, fratellino». La vocealla porta era tranquilla e arrogante,ma quando Stefan si voltò vide cheDamon aveva gli occhifiammeggianti.

«Oh, no, questo non è vero», disse

Katherine. «Stefan non siaugurerebbe mai il tuo male».

Damon incurvò le labbra e lanciòa Stefan un'occhiata sardonica mentresi metteva al fianco di Katherine.«Forse no», le disse, la voceleggermente addolcita. «Ma miofratello ha ragione almeno su unacosa. Le giornate si accorciano, epresto tuo padre lascerà Firenze. E tiporterà con sé... a meno che tu abbiaun motivo per restare».

A meno che tu abbia un maritocon cui stare. Queste parole nonerano state pronunciate, ma tutti loro

le sentirono. Il barone amava tropposua figlia per obbligarla a sposarsicontro la sua volontà. Alla finedoveva essere una decisione diKatherine. La scelta di Katherine.

Ora che l'argomento era introdotto,Stefan non poteva rimanere insilenzio. «Katherine sa che develasciare presto suo padre...»cominciò, sfoggiando la conoscenzadel segreto, ma suo fratello lointerruppe.

«Ah, sì, prima che il vecchiodiventi sospettoso», disse Damoncon disinvoltura. «Anche il genitore

più amorevole dovrebbe cominciarea insospettirsi se sua figlia si favedere solo di notte».

Stefan fu sopraffatto da rabbia edolore. Era vero, allora; Damonsapeva. Katherine aveva condiviso ilsegreto con suo fratello.

«Perché gliel'hai detto, Katherine?Perché? Cos'è che vedi in lui: unuomo a cui non importa niente se nonil piacere? Come può renderti felicequando pensa solo a se stesso?»

«E come può questo ragazzorenderti felice quando non sa nientedel mondo?», si intromise Damon, la

voce resa tagliente dal disprezzo.«Come ti potrà proteggere quandonon ha mai affrontato la realtà? Hapassato la vita fra libri e dipinti;lascialo là».

Katherine scuoteva la testaangosciata, gli occhi azzurri comegioielli offuscati di lacrime.

«Nessuno di voi capisce», disse.«Voi state pensando che io possasposarmi e sistemarmi qui comequalsiasi altra dama di Firenze. Maio non posso essere come le altredame. Come potrei avere una casapiena di servitù che osserva ogni mio

movimento? Come potrei vivere inun posto dove la gente vede che glianni non mi toccano? Non ci sarà maiuna vita normale per me».

Fece un profondo respiro e liguardò uno alla volta. «Chi sceglie diessere mio marito deve abbandonarela vita alla luce del sole», mormorò.«Deve scegliere di vivere sotto laluna e nelle ore di tenebra».

«Allora tu devi scegliere qualcunoche non abbia paura delle ombre»,disse Damon, e Stefan fu sorpresodall'intensità della sua voce. Nonaveva mai sentito Damon parlare

così seriamente o con così pocaaffettazione. «Katherine, guarda miofratello: sarà in grado di rinunciareal sole? È troppo legato alle cosenormali: gli amici, la famiglia, i suoidoveri verso Firenze. L'oscurità lodistruggerebbe».

«Bugiardo!» gridò Stefan, oramaifuribondo. «Sono forte quanto te,fratello, e non temo niente nell'ombrae neanche alla luce del sole. E amoKatherine più degli amici o dellafamiglia...».

«...o dei tuoi doveri? La amiabbastanza da rinunciare anche a

quelli?»«Sì», disse Stefan con tono di

sfida. «Abbastanza da rinunciare atutto».

Damon fece uno dei suoi sorrisiimprovvisi e inquietanti. Poi si voltòdi nuovo verso Katherine.«Sembrerebbe», disse, «che la sceltaspetti solo a te. Hai due pretendentialla tua mano; prenderai uno di noi onessuno?».

Katherine chinò lentamente il capodorato. Poi rivolse gli occhi azzurriinumiditi a entrambi.

«Datemi tempo fino a domenica

per pensare. E nel frattempo, nonincalzatemi con domande».

Stefan annuì riluttante. Damondisse: «E domenica?»

«Domenica sera al crepuscolo faròla mia scelta».

Crepuscolo... la profonda oscurità

violetta del crepuscolo...Le tonalità vellutate scolorivano

intorno a Stefan, e lui tornò in sé.Non era il tramonto, ma l'alba, chetingeva il cielo intorno a lui. Personei suoi pensieri, aveva guidato finoal margine del bosco.

A nordovest si vedeva WickeryBridge e il cimitero. Nuovi ricordigli accelerarono il battito.

Aveva detto a Damon cheintendeva rinunciare a tutto perKatherine. E questo era proprio ciòche aveva fatto. Non rivendicava piùla luce del sole, ed era diventato unacreatura delle tenebre per lei. Unpredatore condannato a essere persempre preda lui stesso, un ladro chedoveva rubare la vita per riempire leproprie vene.

E forse un assassino.No, avevano detto che quella

Vickie non sarebbe morta. Ma forsela sua prossima vittima sarebbemorta. La cosa peggiore diquest'ultimo attacco era che nonricordava niente. Ricordava ladebolezza, il bisogno travolgente, ericordava di aver attraversatobarcollando la porta della chiesa, mapoi più niente. Era tornato in séall'esterno con le urla di Elena chegli rimbombavano nelle orecchie... esi era precipitato da lei senzafermarsi a pensare a cosa potevaessere successo.

Elena... Per un momento sentì

un'ondata di pura gioia e sgomento, edimenticò tutto il resto. Elena, caldacome la luce del sole, dolce come ilmattino, ma con un'anima d'acciaioche non si poteva infrangere. Eracome fuoco che brucia nel ghiaccio,come la lama affilata di un pugnaled'argento.

Ma aveva il diritto di amarla? Isuoi stessi sentimenti per lei lamettevano in pericolo. E se laprossima volta che il bisognol'avesse colto Elena fosse statal'essere umano più vicino, la fontepiù vicina di sangue rigenerante?

Morirò piuttosto che toccarla,pensò, con promessa solenne.Piuttosto che bere dalle sue vene,morirò di sete. E giuro che nonconoscerà mai il mio segreto. Nondovrà mai rinunciare alla luce delsole per causa mia.

Dietro di lui, il cielo si stavailluminando. Ma prima di andarsene,lanciò un pensiero indagatore,accompagnandolo con tutta la forzadel suo dolore, per scoprire se cifosse qualche altro Potere nellevicinanze. Per scoprire qualche altrasoluzione a ciò che era appena

successo in chiesa.Ma non c'era niente, nessun cenno

di risposta. Il cimitero lo schernì conil suo silenzio.

Elena si svegliò con la luce del

sole che entrava dalla sua finestra. Sisentì, all'improvviso, come se sifosse appena ripresa da un lungoattacco d'influenza, e come se fossela mattina di Natale. I pensieri siingarbugliarono quando si mise asedere.

Oh. Aveva male dappertutto. Malei e Stefan... questo aggiustava ogni

cosa. Quel cafone ubriaco di Tyler...Ma Tyler non aveva più importanza.Niente aveva importanza tranne ilfatto che Stefan l'amava.

Scese le scale in camicia da notte,rendendosi conto dalla luce obliquache penetrava dalle finestre chedoveva aver dormito fino a tardi. ZiaJudith e Margaret erano in soggiorno.

«Buongiorno zia Judith».Abbracciò forte e a lungo la ziasbalordita. «E buongiorno anche a te,cucciolona». Sollevò Margaret daterra e girò con lei per la stanza apasso di valzer. «E... oh! Buongiorno

Robert». Un po' imbarazzata per lasua esuberanza e per essere mezzasvestita, mise a terra Margaret e siprecipitò in cucina.

Zia Judith entrò. Anche se avevaocchiaie scure sotto gli occhi,sorrideva. «Sembri di buon umore,stamattina».

«Oh, lo sono». Elena la abbracciòdi nuovo, come a scusarsi per quelleocchiaie.

«Sai che dobbiamo tornare dallosceriffo per raccontargli di Tyler».

«Sì». Elena prese un succo dalfrigorifero e si versò un bicchiere.

«Ma prima posso passare a casa diVickie Bennett? Immagino che siasconvolta, specialmente perchésembra che nessuno le creda».

«Tu le credi, Elena?»«Sì», rispose lentamente. «Le

credo. E, zia Judith», aggiunse,prendendo una decisione, «anche ame è accaduto qualcosa in chiesa.Pensavo...».

«Elena! Bonnie e Meredith sonovenute a trovarti». La voce di Robertrisuonò dall'ingresso.

Il momento delle confidenze fuinterrotto. «Oh... mandale qui», Elena

gridò, e bevve un sorso di succod'arancia. «Te ne parlerò più tardi»,promise a zia Judith, mentre i passi siavvicinavano alla cucina.

Bonnie e Meredith si fermaronosulla soglia, insolitamente formali.Anche Elena si sentiva a disagio, easpettò che sua zia lasciasse la stanzaprima di parlare.

Poi si schiarì la gola, gli occhifissi su una mattonella consunta nellinoleum. Azzardò uno sguardo disfuggita e vide che sia Bonnie cheMeredith stavano fissando la stessamattonella.

Allora scoppiò a ridere, e a quelsuono entrambe sollevarono losguardo.

«Sono troppo felice perfino perprovare a mettermi sulla difensiva»,disse Elena, tendendo loro lebraccia. «E so che dovrei esseredispiaciuta per ciò che ho detto, esono dispiaciuta, ma proprio nonriesco a fare la patetica a proposito.Mi sono comportata in modo terribilee merito di essere giustiziata, e orapossiamo semplicemente far finta chenon sia mai successo?»

«Dovresti davvero esseredispiaciuta, scappar via in quelmodo», la rimproverò Bonnie mentretutte e tre si abbracciavano.

«E proprio con Tyler Smallwood,fra tutti», disse Meredith.

«Be', ho imparato la lezione suquel punto», disse Elena, e per unmomento il buon umore svanì. PoiBonnie rise.

«E tu invece hai segnato il puntovincente... Stefan Salvatore! Aproposito di entrate a effetto. Quandohai attraversato la porta con lui, hopensato di avere le allucinazioni.

Come hai fatto?»«Non l'ho fatto. Lui è

semplicemente apparso, come lacavalleria in uno di quei vecchifilm».

«Per difendere il tuo onore», disseBonnie. «Cosa c'è di piùelettrizzante?»

«A me vengono in mente un paiodi cosette», replicò Meredith. «Ma ineffetti, forse, Elena ha sperimentatoanche quelle».

«Ve lo dirò più tardi», risposeElena, liberandosi dall'abbraccio efacendo un passo indietro. «Ma

prima volete venire con me a casa diVickie? Voglio parlare con lei».

«Con noi puoi parlare mentre tivesti, e mentre camminiamo, e mentreti lavi i denti se è per questo», disseBonnie con fermezza. «E se trascurianche solo un piccolo dettaglio,dovrai affrontare l'Inquisizionespagnola».

«Vedi», disse Meredithmaliziosamente, «tutto il lavoro delsignor Tanner ha dato buoni risultati.Adesso Bonnie sa che l'Inquisizionespagnola non è un gruppo rock».

Elena rideva con grande

entusiasmo mentre salivano le scale. La signora Bennett aveva l'aria

pallida e stanca, ma le invitò aentrare. «Vickie sta riposando; ildottore dice di tenerla a letto»,spiegò, con un sorriso un po' esitante.Elena, Bonnie e Meredith siammassarono nello stretto corridoio.

La signora Bennett bussòleggermente alla porta di Vickie.«Vickie, tesoro, alcune ragazze dellascuola sono venute a trovarti. Nontrattenetela a lungo», aggiunse aElena, aprendo la porta.

«Va bene», promise Elena. Entrònella graziosa cameretta bianca eazzurra, le altre subito dietro di lei.Vickie era sdraiata a letto, sorrettadai cuscini, con un piumino azzurropolvere tirato su fino al mento. Ilviso risaltava pallido, e gli occhidalle palpebre pesanti guardavanofissi davanti a sé.

«È questo l'aspetto che aveva lascorsa notte», bisbigliò Bonnie.

Elena si avvicinò al letto.«Vickie», disse dolcemente. Vickiecontinuò a guardare fisso, ma a Elenasembrò che il respiro si alterasse

leggermente. «Vickie, mi senti? SonoElena Gilbert». Diede un'occhiataincerta a Bonnie e Meredith.

«A quanto pare le hanno dato deitranquillanti», affermò Meredith.

Ma la signora Bennett non avevadetto niente a proposito di medicine.Accigliandosi, Elena si voltò dinuovo verso la ragazza che nonrispondeva.

«Vickie, sono io, Elena. Volevosolo parlare con te di ieri notte.Voglio che tu sappia che ti credo aproposito di ciò che è successo».Elena ignorò l'occhiata tagliente di

Meredith e continuò. «E volevochiederti...».

«No!». Il grido, aspro epenetrante, eruppe dalla gola diVickie. Il corpo che prima erarimasto immobile come una statua dicera si agitò violentemente. I capellicastani di Vickie le sferzavano leguance mentre scuoteva la testaavanti e indietro e le mani sidimenavano nell'aria. «No! No!»,urlò.

«Fa' qualcosa!», esclamò Bonniesenza fiato. «Signora Bennett!Signora Bennett!».

Elena e Meredith stavano tentandodi immobilizzare Vickie al lettomentre lei si opponeva. Le urlacontinuarono ancora e ancora. Poiall'improvviso la madre di Vickiearrivò accanto a loro, aiutandole atenerla e spingendole da parte.

«Che cosa le avete fatto?»,esclamò.

Vickie si aggrappò a sua madre,calmandosi, ma poi quegli occhipesanti videro Elena da sopra laspalla della signora Bennett.

«Tu ne fai parte! Tu seimalvagia!», urlò isterica a Elena.

«Sta' lontana da me!».Elena rimase di stucco. «Vickie!

Sono solo venuta a chiederti...».«Penso che fareste meglio ad

andarvene ora. Lasciateci stare»,disse la signora Bennett,abbracciando protettiva la figlia.«Non vedete che cosa le statefacendo?».

Ammutolita per lo stupore, Elenalasciò la camera. Bonnie e Meredithla seguirono.

«Devono essere le medicine»,disse Bonnie una volta fuori dallacasa. «L'hanno proprio sbarellata».

«Hai notato le sue mani?», chieseMeredith a Elena. «Mentrecercavamo di trattenerla, le ho presouna mano. Era fredda come ilghiaccio».

Elena scosse la testa per losconcerto. Niente di tutto ciò avevasenso, ma non avrebbe lasciato chequesto le rovinasse la giornata.Nient'affatto. Disperatamente, cercòdi pensare a qualcosa checompensasse questa esperienza, chele permettesse di restare aggrappataalla sua felicità.

«Ci sono», disse. «La pensione».

«Cosa?»«Ho detto a Stefan di chiamarmi

oggi, ma perché invece non andiamonoi alla pensione? Non è lontana daqui».

«Solo una camminata di ventiminuti», disse Bonnie, illuminandosi.«Almeno vedremo finalmente la suastanza».

«In realtà», disse Elena, «pensavoche voi due potreste aspettare disotto. Be', lo vedrò solo per qualcheminuto», aggiunse sulla difensiva,mentre la guardavano. Era strano,forse, ma non voleva ancora

condividere Stefan con le sueamiche. Era una tale novità per leiche le sembrava quasi un segreto.

Quando bussarono alla lucidaporta di quercia rispose la signoraFlowers. Sembrava un piccolognomo grinzoso con degli occhi nerisorprendentemente vivaci.

«Tu devi essere Elena», disse. «Tiho visto uscire con Stefan ieri notte,e lui mi ha detto il tuo nome quando ètornato».

«Ci ha visti?», chiese Elenasorpresa. «Io non l'ho vista».

«No, che non mi hai visto»,

rispose la signora Flowersridacchiando. «Che ragazza carinache sei, mia cara», aggiunse.«Davvero una ragazza carina», e lediede un colpetto sulla guancia.

«Ehm, grazie», disse Elena adisagio. Non le piaceva il modo incui la donna fissava su di lei quegliocchi da uccello. Guardò le scaleoltre la signora Flowers. «Stefan è incasa?»

«Dovrebbe, a meno che non siavolato dal tetto!», rispose la signoraFlowers ridacchiando ancora. Elenarise educatamente.

«Noi restiamo qui con la signoraFlowers», disse Meredith a Elena,mentre Bonnie alzava gli occhi alcielo con disperazione. Nascondendoun sorriso, Elena annuì e salì lescale.

Una vecchia casa molto strana,pensò ancora mentre localizzava laseconda rampa di scale nella camerada letto. Le voci di sotto arrivavanomolto deboli qui, e mentre saliva gliscalini svanirono del tutto. Eraavvolta dal silenzio, e quandoraggiunse la porta fiocamenteilluminata in cima alle scale, ebbe la

sensazione di trovarsi in un altromondo.

Bussò molto timidamente.«Stefan?».

Non sentì niente all'interno, maall'improvviso la porta si spalancò.Devono avere tutti un'aria pallida estanca stamattina, pensò Elena, e poisi ritrovò fra le sue braccia.

Quelle braccia si strinsero intornoa lei convulsamente. «Elena. Oh,Elena...».

Poi si tirò indietro. Esattamentecome la notte precedente; Elena sentìl'abisso aprirsi fra loro. Vide quello

sguardo freddo e corretto comparirenei suo occhi.

«No», disse, a malapenaconsapevole di aver parlato ad altavoce. «Non ti lascerò». E attirò lesue labbra a sé.

Per un momento lui non ricambiò,poi fremette, e il bacio divenneappassionato. Le infilò le dita neicapelli, e l'universo si restrinseintorno a Elena. Non esistevanient'altro a parte Stefan, e lasensazione delle sue braccia intornoa lei, e il fuoco delle labbra delragazzo sulle sue.

Pochi minuti o pochi secoli doposi staccarono, tremando entrambi. Magli sguardi rimasero uniti, ed Elenavide che le pupille di Stefan eranotroppo dilatate anche per quella lucecosì fioca. Sembrava stordito, e lesue labbra – che labbra! – eranogonfie.

«Penso», lui disse, e lei sentì ilcontrollo nella sua voce, «chedovremmo essere cauti quando lofacciamo».

Elena annuì, anche lei stordita.Non in pubblico, pensava. E nonquando Bonnie e Meredith

aspettavano di sotto. E non quandoerano completamente soli, a menoche...

«Ma puoi anche soloabbracciarmi», disse lei.

Che strano che dopo quellapassione potesse sentirsi così alsicuro, così in pace, fra le suebraccia. «Ti amo», sussurrò nellalana grezza del suo maglione.

Sentì un brivido attraversarlo.«Elena», disse ancora, ed era unsuono quasi di disperazione.

Lei alzò la testa. «Cosa c'è che nonva? Cosa può mai esserci che non va,

Stefan? Non mi ami?»«Io...». La guardò, impotente... e

poi sentirono la voce della signoraFlowers chiamare debolmente infondo alle scale.

«Ragazzo! Ragazzo! Stefan!».Sembrava quasi che stessepicchiando con la scarpa sulcorrimano.

Stefan sospirò. «È meglio chevada a vedere cosa vuole». Si staccòda lei, l'espressione indecifrabile.

Una volta sola, Elena incrociò lebraccia sul petto rabbrividendo.Faceva molto freddo lì. Dovrebbe

accendere il camino, pensò, gli occhiche percorrevano pigramente lastanza per posarsi infine sulcassettone di mogano che avevaesaminato la notte prima.

Lo scrigno.Lanciò un'occhiata alla porta. Se

fosse tornato e l'avesse sorpresa...Davvero non doveva... ma si stavagià avvicinando al cassettone.

Pensa alla moglie di Barbablù, sidisse. La curiosità uccise lei. Maaveva già le dita sul coperchio diferro. Con il cuore che battevaall'impazzata, sollevò il coperchio.

Alla luce fioca, lo scrigno sembròdapprima vuoto, ed Elena risenervosamente. Che cosa si eraaspettata? Lettere d'amore diCaroline? Un pugnale insanguinato?

Poi vide la sottile striscia di seta,ripiegata su se stessa ordinatamentein un angolo. La estrasse e se la fecescorrere tra le dita. Era il nastrocolor albicocca che aveva perso ilsecondo giorno di scuola.

Oh, Stefan. Gli occhi le sicolmarono di lacrime, e l'amore legonfiò il petto impotente,traboccante. Da così tanto tempo? Ti

piaccio da così tanto tempo? Oh,Stefan, ti amo...

E non importa se non riesci adirmelo, pensò. Ci fu un rumore fuoridalla porta, e lei ripiegò velocementeil nastro e lo rimise nello scrigno.Poi si girò verso la porta, soffocandole lacrime.

Non importa se non riesci adirmelo in questo momento. Lo diròio per tutti e due. E un giornoimparerai.

Capitolo 10

7 ottobre, verso le 8:00Caro diario,ti sto scrivendo durante la lezione

di trigonometria, e spero proprioche la signora Halpern non mi veda.

Non ho avuto tempo di scrivereieri notte, anche se volevo. Ieri èstata una giornata pazzesca,confusa, proprio come la notte delBallo d'Autunno. Seduta qui ascuola, stamattina, mi sento quasicome se tutto ciò che è accaduto

questo fine settimana sia stato unsogno. Le cose sgradevoli sono statemolto sgradevoli, ma quelle bellesono state davvero bellissime.

Non denuncerò Tyler. Peròl'hanno sospeso da scuola, edespulso dalla squadra di football.Come anche Dick, per essersiubriacato al ballo. Nessuno lo dice,ma penso che molti lo ritenganoresponsabile di ciò che è successo aVickie. La sorella di Bonnie ha vistoTyler in clinica ieri, e ha detto cheaveva due occhi neri e tutta lafaccia viola. Non posso fare a meno

di preoccuparmi di ciò chesuccederà quando lui e Dicktorneranno a scuola. Hanno piùragioni che mai per odiare Stefanadesso.

Il che mi porta a Stefan. Quandomi sono svegliata stamattina, sonoandata nel panico, pensando "E se ètutto un sogno? E se non è maisuccesso, o se lui ha cambiatoidea?". E zia Judith erapreoccupata a colazione perchéavevo ripreso a non mangiare. Mapoi quando sono arrivata a scuola,l'ho visto nel corridoio vicino

all'ufficio e ci siamo guardati. E hocapito. Proprio prima che sivoltasse, ha sorriso, quasi conironia. E ho capito anche questo;aveva ragione lui, è meglio nonandarci incontro in un corridoiopubblico, se non vogliamo dare unbrivido alle segretarie.

Stiamo decisamente insieme. Oradevo solo trovare il modo dispiegare tutto questo a Jean-Claude. Ah-ah.

Ciò che non capisco è perchéStefan non ne è felice quanto me.Quando siamo insieme sento come

lui si sente, e so quanto mi desidera,quanto mi vuol bene. C'è quasi unafame disperata dentro di lui quandomi bacia, quasi volesse estrarmil'anima dal corpo. Come un buconero che

Ancora 7 ottobre, ora verso le

14:00Be', una piccola pausa perché la

signora Halpern mi ha beccato. Hapersino cominciato a leggere ciòche avevo scritto ad alta voce, mapoi credo che l'argomento le abbiaappannato gli occhiali e si è

fermata. Non era Divertita. Sonotroppo felice per curarmi di coseinsignificanti come essere bocciatain trigonometria.

Io e Stefan abbiamo pranzatoinsieme; o almeno ce ne siamoandati in un angolino del campo conil mio pranzo. Lui non si è nemmenopreoccupato di portare qualcosa, enaturalmente, come volevasidimostrare, nemmeno io sonoriuscita a mangiare. Non ci siamotoccati molto... per niente... maabbiamo parlato e ci siamo guardatiun sacco. Voglio toccarlo. Più di

qualsiasi altro ragazzo abbia maiconosciuto. E so che anche lui lovuole, ma si trattiene.

Questo è ciò che non riesco acapire, perché si oppone, perché sitrattiene. Ieri nella sua stanza hotrovato la prova evidente che mi hatenuto d'occhio fin dall'inizio.Ricordi quando ti ho detto che ilsecondo giorno di scuola Bonnie,Meredith e io eravamo al cimitero?Bene, ieri nella stanza di Stefan hotrovato il nastro color albicoccache indossavo quel giorno. Ricordoche mi è caduto di mano mentre

correvo, e lui deve averlo raccolto etenuto. Non gli ho detto che ne sonoa conoscenza, perché è ovvio chevuole tenerlo segreto, ma questodimostra che gli piaccio, no?

Ti dirò di qualcun altro che Nonsi è Divertito. Caroline. A quantopare l'ha trascinato nell'aula difotografia ogni giorno per il pranzo,e quando ieri non si è fatto vedere èandata a cercarlo finché ci hatrovati. Povero Stefan, si eracompletamente dimenticato di lei,ed era scioccato del propriocomportamento. Una volta che lei se

n'è andata – con un colorito verdebrutto e malaticcio, devoaggiungere – Stefan mi haraccontato come Caroline gli sifosse appiccicata dalla primasettimana di scuola. Gli ha dettoche aveva notato che lui nonmangiava a pranzo, e neanche lei,perché era a dieta, e perché nonandare in un posto tranquillo erilassarsi? Lui non ha detto nientedi davvero spiacevole su di lei(ancora una volta la sua idea dibuone maniere, credo, ungentiluomo non lo fa), ma mi ha

assicurato che non c'era proprioniente fra loro. E credo che perCaroline il fatto che Stefan l'abbiadimenticata sia peggio che se leavesse lanciato delle pietre.

Mi domando perché Stefan nonmangia a pranzo, però. È strano perun giocatore di football.

Oh-oh. Il signor Tanner è appenapassato e ho sbattuto il mioquaderno su questo diario appenain tempo. Bonnie sta ridacchiandodietro il libro di storia, e vedo lesue spalle tremare. E Stefan, che èdavanti a me, ha l'aria tesa come se

stesse per balzar fuori dalla sediada un minuto all'altro. Matt mi stalanciando un'occhiata del genere"sei pazza" e Caroline mi stafulminando con gli occhi. Io stofacendo l'innocente, moltoinnocente, e scrivo con gli occhifissi su Tanner là davanti. Quindi seè tutto un po' storto e pasticciato,capirai il motivo.

Nell'ultimo mese non sono moltoin me. Non riesco a pensarechiaramente o a concentrarmi sunulla a parte Stefan. Ho tralasciatocosì tante cose che ho quasi paura.

In teoria sono incaricata delledecorazioni per la festa della CasaStregata e non ho ancora fattoniente. Ora ho esattamente tresettimane per organizzare tutto... evoglio solo stare con Stefan.

Potrei uscire dal comitato. Maquesto lascerebbe Bonnie eMeredith a occuparsi di tutto. Econtinua a venirmi in mente ciò cheha detto Matt quando gli ho chiestodi far venire Stefan al ballo: "Vuoiche tutto e tutti ruotino intorno aElena Gilbert".

Non è vero. O almeno, se lo è

stato in passato, non voglio che losia d'ora in poi. Voglio... oh,suonerà davvero stupido, ma voglioessere all'altezza di Stefan. So chelui non deluderebbe mai i compagnidi squadra solo per seguire ilproprio comodo. Voglio che siafiero di me. Voglio che mi amiquanto lo amo io.

«Sbrigati!», chiamò Bonnie dalla

porta della palestra. Il bidello delliceo, il signor Shelby, aspettava inpiedi di fianco a lei.

Elena diede un'ultima occhiata alle

figure lontane sul campo di football,poi attraversò la distesa d'asfalto,riluttante, per unirsi a Bonnie.

«Volevo solo dire a Stefan dovestavo andando», disse. Da unasettimana stava con Stefan e sentivaancora un brivido di eccitazione soloa pronunciare il suo nome. Ogni seranell'ultima settimana il ragazzo eravenuto a casa sua, comparendodavanti alla porta verso il tramonto,le mani in tasca, indosso il giubbottocon il bavero rialzato. Di solitopasseggiavano al crepuscolo, osedevano in veranda, chiacchierando.

Anche se non si diceva niente inproposito, Elena sapeva che era ilsuo modo di assicurarsi che nonstessero insieme da soli. Dalla nottedel ballo, Stefan se n'era assicurato.Per proteggere il suo onore, pensòElena sarcastica, e con una fitta,perché in cuor suo sapeva che c'eramolto più di questo.

«Può sopravvivere senza di te peruna sera», disse Bonnie insensibile.«Se ti metti a parlare con lui nonverrai più via, e vorrei davveroarrivare a casa per una specie dicena».

«Salve, signor Shelby», disseElena al bidello, che stava ancorapazientemente aspettando. Con suasorpresa, lui le fece un solenneocchiolino. «Dov'è Meredith?»,aggiunse.

«Qua», rispose una voce dietro dilei, e Meredith si presentò con unascatola di cartone piena di cartellettee quaderni in mano. «Ho preso laroba dal tuo armadietto».

«Ci siete tutte?», chiese il signorShelby. «Bene, ragazze, adessochiudete a chiave la porta, capito?Così nessuno può entrare».

Bonnie, sul punto di entrare, sifermò di colpo. «È sicuro che non cis i a già qualcuno dentro?», chiesecircospetta.

Elena le diede una spinta fra lescapole. «Sbrigati», la imitòsgarbatamente. «Voglio arrivare acasa in tempo per cena».

«Non c'è nessuno dentro», risposeil signor Shelby, le labbra che sicontraevano sotto i baffi. «Ma voi,ragazze, urlate se vi serve qualcosa.Sarò qua in giro».

La porta si chiuse dietro di lorocon un rumore stranamente definitivo.

«Al lavoro», disse Meredithrassegnata, e posò la scatola sulpavimento.

Elena annuì, guardando su e giù lostanzone vuoto. Ogni anno ilConsiglio Studentesco organizzavauna festa della Casa Stregata comeraccolta fondi. Elena era nel comitatoper le decorazioni da due anni,insieme a Bonnie e Meredith, maessere presidente era un'altra cosa.Doveva prendere decisioni cheavrebbero riguardato tutti, e nonpoteva nemmeno contare su ciò cheera stato fatto negli anni precedenti.

La Casa Stregata veniva di solitoallestita in un deposito di legnamema, vista la crescente inquietudine incittà, si era deciso per la palestradella scuola, ritenuta più sicura. PerElena significava ripensare l'interadecorazione degli interni, emancavano meno di tre settimane aHalloween.

«In effetti, fa venire i brividi qui»,disse Meredith a bassa voce. E c'eradavvero qualcosa di inquietantenell'essere in quello stanzone chiuso,pensò Elena. Si ritrovò ad abbassarela voce.

«Prendiamo le misure, prima»,propose. Mentre percorrevano lastanza, i loro passi risuonavanovuoti.

«Va bene», disse Elena una voltafinito. «Mettiamoci al lavoro». Cercòdi scuotersi di dosso la sensazione diinquietudine, dicendosi che eraridicolo sentirsi turbata nellapalestra della scuola, con Bonnie eMeredith al suo fianco e un'interasquadra di football che si allenava ameno di duecento metri da lì.

Sedettero tutte e tre sulle gradinatecon in mano penna e quaderno. Elena

e Meredith consultarono gli schizziper le decorazioni degli anniprecedenti mentre Bonniemordicchiava la penna e si guardavaintorno pensierosa.

«Bene, ecco la palestra», disseMeredith, facendo un rapido schizzosul suo quaderno. «E da qui la gentedovrà entrare. Ora potremmo mettereil Cadavere Insanguinato proprio allafine... A proposito, chi farà ilCadavere Insanguinato quest'anno?»

«L'allenatore Lyman, credo. Hafatto un buon lavoro l'anno scorso, ein più può dare una mano a tenere in

riga i giocatori di football». Elenaindicò lo schizzo. «Okay, separiamoquesto, che diventerà la SalaMedievale delle Torture. Passerannodirettamente da questa nella Stanzadel Morto Vivente...».

«Penso che dovremmo avere deidruidi», disse Bonnieimprovvisamente.

«Avere cosa?», chiese Elena epoi, mentre Bonnie cominciava aurlare "druu-i-di", agitò una manoper calmarla. «Va bene, va bene, miricordo. Ma perché?»

«Perché sono loro che hanno

inventato Halloween. Davvero. Ècominciato come uno dei loro giornisacri, quando accendevano falò edesponevano rape con facce intagliateper tenere lontani gli spiriti malvagi.Credevano che fosse il giorno in cuiil confine tra vivi e morti era piùsottile. E avevano paura, Elena.Facevano sacrifici umani. Potremmosacrificare l'allenatore Lyman».

«In effetti, non è una cattiva idea»,disse Meredith. «Il CadavereInsanguinato potrebbe essere unavittima sacrificale. Sapete, su unaltare di pietra, con un coltello e

pozze di sangue tutte intorno. E poiquando sei proprio vicino, si metteimprovvisamente a sedere».

«E ti fa venire un infarto», disseElena, ma dovette ammettere che eradavvero una buona idea, decisamentespaventosa. Le dava un po' di nauseaanche solo pensarci. Tutto quelsangue... ma in fondo era solo succodi pomodoro.

Anche le altre ragazze eranorimaste in silenzio. Dallo spogliatoiodei ragazzi lì accanto, sentivanoscorrere l'acqua e chiudere gliarmadietti, e al di sopra voci

indistinte che urlavano.«L'allenamento è finito», mormorò

Bonnie. «Dev'essere buio fuori».«Sì, e il Nostro Eroe si sta

lavando tutto», disse Meredith aElena, inarcando un sopracciglio.«Vuoi sbirciare?»

«Magari», disse Elena, scherzandosolo in parte. In qualche modoindefinibile, l'atmosfera nella stanzasi era rabbuiata. In quel momentodesiderava poter vedere Stefan,poter stare con lui.

«Avete sentito qualche novità suVickie Bennett?», chiese

improvvisamente.«Be'», rispose Bonnie dopo un

momento, «ho sentito che i suoigenitori la stanno mandando da unopsichiatra».

«Uno strizzacervelli? Perché?»«Be'... suppongo che ritengano i

suoi racconti allucinazioni oqualcosa del genere. E ho sentito cheha degli incubi davvero orribili».

«Oh», rispose Elena. I rumoriprovenienti dallo spogliatoio deiragazzi si stavano affievolendo, poisentirono una porta esterna sbattere.

Allucinazioni, pensò, allucinazioni

e incubi. Per qualche ragione,improvvisamente si ricordò quellanotte al cimitero, quella notte in cuiBonnie le aveva fatte scappare perqualcosa che nessuna di loro potevavedere.

«Faremmo meglio a rimetterci allavoro», esclamò Meredith. Elena siriscosse dal suo sogno a occhi apertie annuì.

«Potremmo... potremmo fare uncimitero», propose Bonniesperanzosa, come se avesse lettonella mente di Elena. «Nella CasaStregata, intendo».

«No», replicò Elena seccamente.«No, ci atterremo a ciò cheabbiamo», aggiunse con voce piùcalma, e si chinò ancora sul suoquaderno.

Ancora una volta non si udì alcunrumore, a parte il leggero graffiaredelle penne e il fruscio della carta.

«Bene», disse Elena alla fine.«Ora dobbiamo solo prendere lemisure per i vari settori. Qualcunodovrà andare dietro le gradinate...Che succede adesso?».

Le luci della palestra avevanotremolato e si erano abbassate di

circa la metà.« O h , no», disse Meredith

esasperata. Le luci tremolarono dinuovo, si spensero, e si riacceseroancora fiocamente.

«Non riesco a leggere niente», silamentò Elena, fissando ciò che orasembrava un foglio di carta bianco esenza scritte. Guardò Bonnie eMeredith e vide due macchie biancheindistinte al posto dei loro volti.

«Dev'esserci qualcosa che non vacon il generatore d'emergenza», disseMeredith. «Vado a cercare il signorShelby».

«Non possiamo semplicementefinire domani?», piagnucolò Bonnie.

«Domani è sabato», rispose Elena.«E dovevamo finirlo la settimanascorsa».

«Vado a cercare Shelby», proposeancora Meredith. «Andiamo Bonnie,tu vieni con me».

Elena cominciò: «Potremmoandare tutte...», ma Meredith lainterruppe.

«Se andiamo tutte e non lotroviamo, poi non possiamo piùrientrare. Andiamo, Bonnie, è solodentro la scuola».

«Ma è buio là».«È buio dappertutto, è tardi.

Andiamo; in due sarà sicuro».Trascinò Bonnie recalcitrante allaporta. «Elena, non fare entrare nessunaltro».

«Come se ci fosse bisogno didirmelo», rispose Elena, facendoleuscire e osservandole mentre siallontanavano di qualche passo lungoil corridoio. Quando cominciarono aconfondersi con l'oscurità, rientrò echiuse la porta.

Be', questo era un bel casino,come diceva sempre sua madre.

Elena si avvicinò alla scatola dicartone che Meredith aveva portato ecominciò a risistemarvi le cartellettee i quaderni. In quella luce le vedevasolo come figure vaghe. Non c'eranessun rumore a parte il suo stessorespiro e i rumori che produceva leistessa. Era da sola in quell'immensastanza buia...

Qualcuno la stava osservando.Non sapeva come faceva a

saperlo, ma ne era sicura. Qualcunoera dietro di lei nella palestra buia, ela osservava. "Occhi nell'oscurità",aveva detto il vecchio. Anche Vickie

l'aveva detto. E ora c'erano occhifissi su di lei.

Si voltò di scatto per guardare lastanza, aguzzando gli occhi pervedere nell'ombra, cercando di nonrespirare nemmeno. Aveva il terroreche se avesse fatto rumore la cosa làfuori l'avrebbe afferrata. Ma nonriusciva a vedere niente, a sentireniente.

Le gradinate erano forme oscure eminacciose che si allungavano fino ascomparire nel nulla. E l'estremitàdella stanza era semplicementeun'indistinta nebbia grigia. Foschia

scura, pensò, e sentiva ogni muscoloteso in modo straziante mentreascoltava attentamente. Oh, Dio,cos'era quel leggero bisbiglio?Dev'essere la sua immaginazione...Per favore fa che sia la suaimmaginazione.

All'improvviso, le si rischiarò lamente. Doveva uscire da quel posto,adesso. C'era un pericolo reale lì,non solo fantasia. Qualcosa era làfuori, qualcosa di malvagio, qualcosache la voleva. E lei eracompletamente sola.

Qualcosa si mosse nell'ombra.

L'urlo le si gelò in gola. Anche imuscoli erano gelati, immobilizzatidal terrore... e da qualche forzasconosciuta. Impotente, osservò laforma nell'oscurità uscire dall'ombrae avvicinarsi a lei. Sembrava quasiche le tenebre stesse avessero presovita e si solidificassero davanti asuoi occhi, prendendo forma... formaumana, la forma di un giovane.

«Scusa se ti ho spaventata».La voce era piacevole, con un

leggero accento che lei non riuscivaa identificare. Non sembrava perniente dispiaciuto.

Il sollievo fu così improvviso etotale da essere quasi doloroso. Silasciò cadere su una panca e sentì ilsuo stesso sospiro.

Era solo un ragazzo, qualche exstudente o assistente del signorShelby. Un ragazzo qualunque, chesorrideva leggermente, come sel'avesse divertito vederla quasisvenire.

Be'... forse non proprio qualunque.Era incredibilmente bello. Il voltoera pallido nel crepuscolo artificiale,ma Elena riusciva a vedere che i suoilineamenti erano nettamente delineati

e quasi perfetti sotto una massa dicapelli scuri. Quegli zigomi erano ilsogno di qualsiasi scultore. Ed erastato quasi invisibile perché vestivadi nero: stivali neri morbidi,maglione nero, e giacca di cuoio.

Stava ancora sorridendoleggermente. Il sollievo di Elenadiventò rabbia.

«Come sei entrato?», domandò. «Ecosa stai facendo qui? Non dovrebbeesserci nessun altro in palestra».

«Sono entrato dalla porta»,rispose. La voce era dolce, colta, malei sentiva ancora il divertimento e lo

trovava sconcertante.«Tutte le porte sono chiuse a

chiave», replicò categorica, comeaccusandolo.

Lui inarcò le sopracciglia esorrise. «Davvero?».

Elena sentì un altro brivido dipaura, mentre i peli le si rizzaronosulla nuca. «Dovevano esserlo»,rispose il più freddamente possibile.

«Sei arrabbiata», disse lui serio.«Ti ho chiesto scusa per avertispaventata».

«Non ero spaventata!», scattò lei.Si sentiva in qualche modo stupida

davanti a lui, come un bambino cheveniva assecondato da qualcunomolto più grande e più saggio.Questo la faceva arrabbiare ancoradi più. «Ero solo allarmata»,continuò. «Il che non dovrebbesorprendere, visto come ti seinascosto nel buio».

«Accadono cose interessanti nelbuio... a volte». Stava ancora ridendodi lei, lo vedeva dai suoi occhi. Siera avvicinato di un passo, e lei siaccorse che quegli occhi eranoinsoliti, quasi neri, ma con una stranaluce. Come se uno potesse guardarvi

sempre più in profondità fino acadervi dentro, e continuare a cadereper sempre.

Si accorse che lo stava fissando.Perché le luci non si riaccendevano?Voleva uscire di lì. Si allontanò,mettendo l'estremità di una gradinatafra loro, e sistemò le ultimecartellette nella scatola. Al diavolo ilresto del lavoro per quella sera.Tutto ciò che voleva, ora, eraandarsene.

Ma il protrarsi del silenzio laturbava. Lui stava semplicemente là,in piedi, immobile, a guardarla.

Perché non diceva niente?«Sei venuto a cercare qualcuno?».

Si arrabbiò con se stessa per averparlato per prima.

Lui la fissava ancora, quegli occhiscuri puntati su di lei in un modo chela metteva sempre più a disagio.Deglutì a fatica.

Con gli occhi fissi sulle labbra diElena, il ragazzo mormorò: «Oh, sì».

«Cosa?». Si era dimenticata cosaaveva chiesto. Aveva guance e golain fiamme per il rossore. Si sentivamolto frastornata. Se solo lui avessesmesso di guardarla...

«Sì, sono venuto a cercarequalcuno», ripeté lui, a voce non piùalta di prima. Poi, con un passo, siavvicinò a lei; ora li separava solol'angolo di un sedile delle gradinate.

Elena non riusciva a respirare. Luile stava molto vicino. Abbastanzavicino da toccarla. Sentiva unleggero aroma di acqua di colonia eil cuoio del suo giubbotto. E quegliocchi tenevano incatenati i suoi... nonriusciva a distogliere lo sguardo.Erano diversi da tutti gli occhi cheavesse mai visto, neri come la nottefonda, le pupille dilatate come quelle

di un gatto. Riempivano la suavisuale mentre lui si chinava su dilei, piegando la testa sulla sua. Elenasi accorse di avere gli occhisocchiusi, la vista sfocata. Sentì latesta piegarsi all'indietro, le labbraaprirsi.

No! Appena in tempo girò la testadi lato. Si sentiva come se si fosseappena ritratta dal margine di unprecipizio. Cosa sto facendo?, pensòscioccata. Stavo per farmi baciare dalui. Un completo estraneo, qualcunoche ho incontrato solo pochi minutifa.

Ma questa non era la cosapeggiore. Per quei pochi minuti,qualcosa di incredibile era accaduto.Per quei pochi minuti, avevadimenticato Stefan.

Ma ora la sua immagine leriempiva la mente, e il desiderio dilui era come un dolore fisico nel suocorpo. Voleva Stefan, voleva le suebraccia intorno a sé, voleva essere alsicuro con lui.

Deglutì, le narici dilatate mentrerespirava a fondo. Cercò dimantenere la voce ferma e dignitosa.

«Adesso me ne vado», disse. «Se

stai cercando una persona, pensofaresti meglio a cercare da un'altraparte».

Lui la stava guardando in modostrano, con un'espressione che lei noncapiva. Era un misto di irritazione edi rispetto forzato... e qualcos'altro.Qualcosa di ardente e feroce che laspaventava in maniera diversa.

Lo sconosciuto aspettò finché lamano di Elena fu sul pomello perrispondere, e la sua voce era dolcema seria, senza traccia didivertimento. «Forse l'ho giàtrovata... Elena».

Quando si voltò, lei non riuscì avedere niente nell'oscurità.

Capitolo 11

Elena percorse il corridoio malilluminato incespicando, cercando divisualizzare ciò che aveva intorno.Poi il mondo improvvisamente siilluminò e lei si ritrovò circondatadalle familiari file di armadietti. Ilsollievo fu così grande che quasigridò.

Non avrebbe mai pensato di esserecosì contenta anche solo di vedere.Rimase un minuto a guardarsi intornocon gratitudine.

«Elena! Cosa fai qui fuori?».Erano Meredith e Bonnie, che si

affrettavano lungo il corridoio versodi lei.

«Dove siete state?», chiese leiaspramente.

Meredith fece una smorfia. «Nonriuscivamo a trovare Shelby. Equando finalmente l'abbiamo trovato,stava dormendo. Dico davvero»,aggiunse dopo lo sguardo incredulodi Elena. «Dormiva. E poi nonriuscivamo a svegliarlo. Non haaperto gli occhi finché le luci non sisono riaccese. Allora ci siamo

precipitate da te. Ma che cosa staifacendo qui?».

Elena esitò. «Mi ero stufata diaspettare», disse il piùspensieratamente possibile. «Pensoche abbiamo fatto abbastanza lavoroper un solo giorno, comunque».

«Ora ci racconti tutto», replicòBonnie.

Meredith non disse niente, malanciò a Elena uno sguardopenetrante e indagatore. Elena ebbela sgradevole sensazione che quegliocchi scuri vedessero sotto lasuperficie.

Per tutto il weekend e la settimana

seguente, Elena lavorò ai progetti perla Casa Stregata. Non c'era maiabbastanza tempo per stare conStefan, e questo era frustrante, maancora più frustrante era lo stessoStefan. Elena percepiva la passioneche il ragazzo provava per lei, mapercepiva anche che lui si opponeva,rifiutandosi ancora di starecompletamente da solo con lei. E inmolte cose era ancora misteriosocome la prima volta che l'avevavisto.

Non parlava mai della suafamiglia o della sua vita prima diFell's Church, e se lei faceva qualchedomanda Stefan le sviava. Una voltagli aveva chiesto se gli mancaval'Italia, se gli dispiaceva stare lì. Eper un istante gli occhi gli si eranoilluminati, il verde brillava come lefoglie delle querce che si riflettononella corrente. «Come potrebbedispiacermi, quando tu sei qui?»,rispose, e la baciò in modo da farledimenticare tutte le domande. In quelmomento, Elena aveva capito cos'erala completa felicità. Aveva sentito la

sua gioia, e quando lui si era tiratoindietro aveva visto che il suo visorisplendeva, come se la luce del solelo attraversasse.

«Oh, Elena», aveva sussurrato.Così erano i bei momenti. Ma lui

l'aveva baciata sempre meno spessoultimamente, e lei sentiva crescere ladistanza fra loro.

Quel venerdì, Elena, Bonnie eMeredith decisero di fermarsi adormire dai McCullough. Il cielo eragrigio e annunciava i una pioggerella,mentre lei e Meredith andavano acasa di Bonnie. Faceva insolitamente

freddo per essere metà ottobre, e glialberi lungo la strada tranquillaavevano già patito il freddo pungentedel vento. Gli aceri erano rossofuoco, mentre i ginkgo giallobrillante.

Bonnie le salutò alla porta con un:«Sono usciti tutti! Avremo la casatutta per noi fino a domanipomeriggio, quando la mia famigliatorna da Leesburg». Le invitò aentrare, afferrando il pechineseobeso che stava cercando di uscire.«No, Yangtze, stai dentro. Yangtze,no, no! No!».

Ma era troppo tardi. Yangtze erascappato e stava già attraversando ilgiardino davanti precipitandosi versol'unica betulla presente, dove abbaiòstridulo ai rami, i rotoli di grasso chegli tremolavano sulla schiena.

«Oh, cosa combina adesso?»,disse Bonnie, coprendosi le orecchiecon le mani.

«Sembra un corvo», disseMeredith.

Elena si irrigidì. Fece qualchepasso verso l'albero, guardando frale foglie dorate. Eccolo là. Lo stessocorvo che aveva visto già due volte.

Forse tre, pensò, ricordando la formascura alzatasi in volo dalle quercenel cimitero.

Mentre lo osservava sentì unastretta di paura allo stomaco e lemani gelate. La stava di nuovofissando con il suo vivace occhionero, quasi uno sguardo umano.Quell'occhio... dove aveva già vistoun occhio simile prima?

All'improvviso tutte e tre leragazze indietreggiarono con unbalzo quando il corvo gracchiò ebatté le ali, lanciandosi verso di lorodall'albero.

All'ultimo momento piombòinvece sul cagnetto, che ora abbaiavaisterico. Arrivò a pochi centimetridai suoi canini e poi si levò di nuovoin alto, volando sopra la casa perscomparire fra i noci neri dall'altraparte.

Le tre ragazze rimasero pietrificateper lo sconcerto. Poi Bonnie eMeredith si guardarono, cacciando latensione con risatine nervose.

«Per un momento ho pensato che sidirigesse contro di noi», disseBonnie, che si avvicinò al pechineseindignato e lo trascinò di nuovo in

casa, mentre ancora abbaiava.«Anche io», rispose Elena a bassa

voce. E mentre seguiva le amiche incasa, non si unì alle risate.

Una volta che lei e Meredithebbero messo a posto le propriecose, comunque, la serata rientrònella familiare routine. Era difficilerimanere a disagio nel soggiornodisordinato di Bonnie, di fianco a unfuoco vivace, con una tazza dicioccolata calda in mano. Ben prestotutte e tre stavano discutendo iprogetti finali per la Casa Stregata,così Elena si rilassò.

«Siamo messe abbastanza bene»,annunciò Meredith alla fine.«Naturalmente, abbiamo passato cosìtanto tempo a ideare i costumi di tuttigli altri che non abbiamo nemmenopensato ai nostri».

«Il mio è facile», replicò Bonnie.«Io sarò una sacerdotessa druida, eho bisogno solo di una ghirlanda difoglie di quercia fra i capelli e divesti bianche. Mary e io possiamocucirli in una notte».

«Io penso che sarò una strega»,disse Meredith pensierosa. «Tuttociò che serve è un vestito lungo e

nero. E tu, Elena?».Elena sorrise. «Be', dovrebbe

essere un segreto, ma... zia Judith miha fatto andare da una sarta. Hotrovato la foto di un vestitorinascimentale in uno dei libri che housato per la mia ricerca orale, e lostiamo facendo copiare. È di setaveneziana, azzurro ghiaccio, eassolutamente fantastico».

«Sembra bellissimo», disseBonnie. «E costoso».

«Sto usando il mio denaro delfondo dei miei genitori. Spero soloche a Stefan piaccia. È una sorpresa

per lui, e... be', spero solo che glipiaccia».

«E cosa sarà Stefan? Darà unamano per la Casa Stregata?», chieseBonnie curiosa.

«Non lo so», disse Elena dopo unmomento. «Non sembraparticolarmente elettrizzato per tuttala faccenda di Halloween».

«È difficile immaginarselo tuttoavvolto in abiti strappati e coperto disangue finto come gli altri ragazzi»,ammise Meredith. «Sembra... be',troppo dignitoso per farlo».

«Ci sono!», disse Bonnie. «So

esattamente cosa può essere, e dovràa malapena travestirsi. Senti, èstraniero, è piuttosto pallido, haquello splendido aspettominaccioso... Mettilo in frac e hai unperfetto Conte Dracula!».

Elena sorrise suo malgrado.«Bene, glielo chiederò», disse.

«A proposito di Stefan», disseMeredith, gli occhi scuri fissi inquelli di Elena, «come vanno lecose?».

Elena sospirò, guardando il fuoco.«Non... ne sono sicura», disse allafine, lentamente. «Ci sono momenti in

cui sembra tutto fantastico, e altri incui...».

Meredith e Bonnie si scambiaronoun'occhiata, poi Meredith chiese condelicatezza. «Altri momenti in cuicosa?».

Elena esitò, riflettendo. Poi preseuna decisione. «Solo un attimo»,disse, alzandosi e correndo su per lescale. Tornò con un libretto divelluto azzurro in mano.

«Ne ho scritto un po' la nottescorsa quando non riuscivo adormire», disse. «Questo lo spiegameglio di quanto potrei fare io

adesso». Trovò la pagina, fece unprofondo respiro, e cominciò:

17 ottobre

Caro diario,mi sento malissimo stanotte. E

devo parlarne con qualcuno.C'è qualcosa che non va tra me e

Stefan. C'è una tristezza terribile inlui che non riesco a raggiungere, eche ci sta separando. Non so chefare.

Non posso sopportare il pensierodi perderlo. Ma è davvero moltoinfelice a proposito di qualcosa, e

se non mi dirà cos'è, se non si fideràdi me abbastanza, non vedo nessunasperanza per noi.

Ieri quando mi stavaabbracciando ho sentito qualcosa diliscio e rotondo sotto la suacamicia, qualcosa su una catenina.Gli ho chiesto, prendendolo in giro,se era un regalo di Caroline. E luisi è irrigidito e non ha più parlato.Era come se fosse improvvisamentelontano migliaia di chilometri, e isuoi occhi... c'era così tanto doloreche riuscivo a stento a sopportarlo.

Elena smise di leggere e seguì leultime righe con gli occhi, insilenzio. "Credo che qualcuno l'abbiaferito in modo terribile in passato eStefan non lo supererà mai. Ma pensoanche che ci sia qualcosa di cui hapaura, qualche segreto che teme ioscopra. Se solo sapessi cos'è. Potreiprovargli che può fidarsi di me. Chepuò fidarsi di me qualunque cosaaccada, fino alla fine".

«Se solo sapessi», mormorò.«Se solo sapessi cosa?», chiese

Meredith, ed Elena sollevò losguardo, sorpresa.

«Oh... se solo sapessi cosasuccederà», disse rapida, chiudendoil diario. «Voglio dire, se sapessiche alla fine ci lasceremo, vorreisolo togliermi il pensiero, suppongo.E se invece sapessi che alla fineandrà tutto bene, non m'importerebbeniente di ciò che succede ora. Maandare semplicemente avanti giornodopo giorno senza essere sicura èorribile».

Bonnie si morse il labbro, poi simise a sedere dritta, gli occhi cheluccicavano. «Posso mostrarti unmodo per scoprirlo, Elena», disse.

«Mia nonna mi ha spiegato comescoprire chi sposerai. Si chiama"cena muta"».

«Fammi indovinare, un vecchiotrucchetto druidico», disse Meredith.

«Non so quanto sia vecchio»,rispose Bonnie. «Mia nonna dice checi sono sempre state cene mute. Aogni modo funziona. Mia madre havisto l'immagine di mio padrequando l'ha provato, e un mese doposi sono sposati. È facile, Elena; e poicos'hai da perdere?».

Elena guardò prima Bonnie poiMeredith. «Non lo so», disse. «Ma

senti, tu non credi davvero...».Bonnie si drizzò a sedere con aria

offesa. «Stai dando della bugiarda amia madre? Oh, andiamo, Elena, nonc'è niente di male a provare. Perchéno?»

«Cosa dovrei fare?» chiese Elenadubbiosa. Si sentiva stranamenteincuriosita, ma allo stesso tempopiuttosto spaventata.

«È semplice. Dobbiamo prepararetutto prima dello scoccare dellamezzanotte...».

Cinque minuti prima di mezzanotte

Elena era in piedi nella sala dapranzo dei McCullough, sentendosipiù che altro stupida.

Dal cortile sul retro, udivaYangtze abbaiare in modo frenetico,ma dentro casa non c'era alcunrumore, a parte il placido ticchettiodella pendola. Seguendo le istruzionidi Bonnie, aveva preparato il grandetavolo di noce nero con un piatto, unbicchiere, e le posate d'argento,senza dire una parola per tutto iltempo. Poi aveva acceso una solacandela nel candelabro al centro deltavolo, e si era posizionata dietro la

sedia con il posto apparecchiato.Secondo Bonnie, allo scoccare

della mezzanotte avrebbe dovutotirare indietro la sedia e invitare ilfuturo sposo a entrare. A quel punto,la candela si sarebbe spenta e leiavrebbe visto uno spirito seduto sullasedia.

Dapprima si era sentita un po' adisagio a riguardo, incerta di volervedere un qualsivoglia spirito, anchequello del suo futuro marito. Ma inquel momento tutta la faccendasembrava sciocca e innocua. Quandol'orologio cominciò a battere le ore,

si raddrizzò e afferrò più saldamentelo schienale della sedia. Bonnie leaveva detto di non lasciarlo andarefino alla conclusione dellacerimonia.

Oh, questo era decisamentesciocco. Forse non avrebbe dettoquelle parole... ma quando l'orologiocominciò a suonare gli ultimirintocchi, sentì se stessa parlare.

«Entra», disse imbarazzata allastanza vuota, tirando indietro lasedia. «Entra, entra...».

La candela si spense.Elena trasalì nell'improvvisa

oscurità. Aveva sentito il vento, unafolata fredda che aveva spento lacandela. Veniva dalle porte-finestredietro di lei, così si voltò di scatto,una mano ancora sulla sedia.Avrebbe giurato che quelle portefossero chiuse.

Qualcosa si mosse nell'oscurità.Elena fu invasa dal terrore, che

spazzò via il suo imbarazzo e ognitraccia di divertimento. Oh, Dio,cos'aveva fatto, cosa si era tirataaddosso? Le si strinse il cuore e sisentì come se l'avessero gettata,senza preavviso, nel suo incubo più

spaventoso. Non solo era tutto buio,ma anche completamente silenzioso;non c'era nulla da vedere o dasentire, e lei stava cadendo...

«Permettimi», disse una voce, euna fiamma vivace scoppiettònell'oscurità.

Per un istante terribile e ripugnantepensò che fosse Tyler, ricordando ilsuo accendino nella chiesa diroccatasulla collina. Ma quando la candelasul tavolo si riaccese, vide la manopallida, dalle dita affusolate, che lareggeva. Non era la mano arrossata eforte di Tyler. Pensò per un istante

che fosse quella di Stefan, e poisollevò gli occhi a vedere il volto.

«Tu!», esclamò, sbalordita. «Cosapensi di fare qui?». Guardò prima luipoi le porte-finestre, che eranoeffettivamente aperte, e lasciavanointravedere il cortile laterale. «Entrisempre in casa della gente senzaessere invitato?»

«Ma sei tu che mi hai chiesto dientrare». La sua voce era come se laricordava, calma, ironica e divertita.Ricordava anche il sorriso.«Grazie», aggiunse, e si sedette congrazia sulla sedia che lei aveva

scostato.Lei tolse di scatto la mano dallo

schienale. «Non stavo invitando te»,replicò impotente, presa tral'indignazione e l'imbarazzo. «Cosafacevi fuori dalla casa di Bonnie?».

Lui sorrise. A lume di candela, isuoi capelli neri rilucevano quasicome liquidi, troppo morbidi e finiper essere capelli umani. Il viso eramolto pallido, ma allo stesso tempoestremamente affascinante. E gliocchi catturarono il suo sguardo e lotennero legato.

«Elena, la tua bellezza è per me /

come quei navigli nicèi d'un tempo /che, mollemente, sull'odorosomare...».

«Penso che faresti meglio adandartene adesso». Non voleva piùche parlasse. La sua voce avevastrani effetti su di lei, la facevasentire insolitamente debole, leprovocava una sensazione distruggimento allo stomaco. «Nondovresti essere qui. Per favore».Allungò la mano verso la candela,con l'intenzione di prenderla eallontanarsi da lui, scacciando lostordimento che minacciava di

sopraffarla.Ma prima che potesse afferrarla,

lui fece qualcosa di straordinario.Prese la sua mano, non con violenzama delicatamente, e la tenne fra lesue fredde dita affusolate. Poi voltòla mano, vi chinò sopra la testa, ebaciò il palmo.

«No...», mormorò Elena, stordita.«Vieni con me», disse lui, e la

guardò negli occhi.«Per favore, no...», mormorò di

nuovo, mentre intorno a lei tuttogirava. Era matto; di cosa stavaparlando? Andare con lui dove? Ma

lei si sentiva molto stordita, moltodebole.

Lo sconosciuto era in piedi, e lasorreggeva. Elena si appoggiò a lui,sentendo quelle dita fredde sul primobottone della sua camicetta, sulla suagola. «Per favore, no...».

«Va tutto bene. Vedrai». Le scostòla camicetta dal collo, posandolel'altra mano dietro la testa.

«No». All'improvviso, le ritornòla forza, e si staccò da lui,inciampando contro la sedia. «Ti hodetto di andartene, e parlo sul serio.Fuori... adesso!».

Per un istante, puro furore, comeuna nera ondata minacciosa, sorsenei suoi occhi. Poi tornarono calmi efreddi e lui sorrise, un sorrisorapido, brillante che lui soffocò dinuovo all'istante.

«Me ne vado», disse. «Per ilmomento».

Lei scosse la testa e lo guardòuscire dalle porte-finestre senzaparlare. Una volta richiuse dietro dilui, Elena si alzò in silenzio,cercando di respirare normalmente.

Quel silenzio... ma non dovevaesserci silenzio. Si voltò sconcertata

verso la pendola e vide che si erafermata. Ma prima di poterlaesaminare da vicino, sentì le vociconcitate di Meredith e Bonnie.

Si precipitò fuori nel corridoio,sentendo quell'insolita debolezzanelle gambe, risistemandosi lacamicetta e abbottonandola. La portasul retro era aperta, e vide due figurefuori, chine su qualcosa nel prato.

«Bonnie? Meredith? Cos'èsuccesso?».

Bonnie alzò lo sguardo mentreElena le raggiungeva. Aveva gliocchi pieni di lacrime. «Oh, Elena, è

morto».Con un brivido di orrore, Elena

guardò il fagottino ai piedi diBonnie. Era il pechinese, steso rigidosu un fianco, a occhi aperti. «Oh,Bonnie», esclamò.

«Era vecchio», disse Bonnie, «manon mi sarei mai aspettata che se neandasse così in fretta. Solo unmomento fa, stava abbaiando».

«Penso che faremmo meglio aentrare», disse Meredith, ed Elena laguardò e annuì. Quella notte non eranotte da stare fuori al buio. Non eraneanche notte da invitare qualcuno in

casa. Ora lo sapeva, anche se ancoranon capiva cos'era successo.

Una volta tornate in soggiorno,scoprì che il suo diario era sparito.

Stefan sollevò la testa dal collo

soffice come velluto del daino. Ilbosco era pieno di rumori notturni, elui non poteva essere sicuro di cosal'avesse disturbato.

Con il Potere della mente di Stefandistratto, il daino uscì dal suo statodi stupore. Stefan sentì i muscolidell'animale fremere mentre tentavadi rimettersi in piedi.

Va' allora, pensò, rimettendosi asedere e liberandolo del tutto.Torcendosi e sollevandosi, l'animalesi tirò su e scappò.

Ne aveva avuto abbastanza.Meticolosamente, si leccò gli angolidella bocca, sentendo i canini ritrattie smussati, ipersensibili comesempre dopo un pasto prolungato.Era ormai difficile capire quando eraabbastanza. Non c'erano più statiperiodi di stordimento dopol'episodio della chiesa, ma vivevanel terrore di un loro ritorno.

Viveva con un terrore in

particolare: di riprendere coscienzaun giorno, la mente confusa, perscoprire il bel corpo di Elena senzavita fra le sue braccia, il collo sottilecon due ferite rosse, il cuore fermoper sempre.

Questo era ciò che dovevaaspettarsi.

La brama di sangue, con i suoimille terrori e piaceri, rimaneva unmistero per lui ancora adesso. Anchese vi aveva convissuto ogni giornoper secoli, non la capiva ancora. Daessere umano vivente, avrebbe senzadubbio provato disgusto, nausea, al

pensiero di bere quel liquido ricco ecaldo direttamente da un corpoancora vivo. Cioè, se qualcuno gliavesse proposto una cosa del generecon così tante parole.

Ma non erano state usate parolequella notte, la notte in cui Katherinelo aveva cambiato.

Persino dopo tutti quegli anni, ilricordo era chiaro. Lui stavadormendo quando la ragazza eracomparsa in camera sua, muovendosisilenziosamente come una visione oun fantasma. Stava dormendo, dasolo...

Indossava una sottoveste sottile

quando arrivò da lui.Era la vigilia del giorno che aveva

stabilito, il giorno in cui avrebbeannunciato la sua scelta. E arrivò dalui.

Una mano candida scostò i drappiintorno al suo letto, e Stefan sisvegliò, mettendosi allarmato asedere. Quando la vide, i chiaricapelli dorati che rilucevano sullespalle, gli occhi azzurri persinell'ombra, rimase ammutolito per lostupore.

E per amore. Non aveva mai vistoniente di più bello in vita sua.Tremando cercò di parlare, ma lei gliposò due dita fredde sulle labbra.

«Shh», sussurrò lei, e il letto siabbassò sotto il suo peso quando visalì.

Il voltò gli si infiammò, il cuorebatteva all'impazzata per l'imbarazzoe l'eccitazione. Non c'era mai statauna donna nel suo letto prima d'ora.E adesso c'era Katherine, Katherinela cui bellezza sembrava venire dalparadiso, Katherine che lui amavapiù della propria anima.

E siccome lui l'amava, fece ungrande sforzo. Mentre lei si infilavasotto le lenzuola, avvicinandosi cosìtanto a lui che Stefan poteva sentirela sua sottile sottoveste ancorafredda per l'aria notturna, riuscì aparlare.

«Katherine», mormorò. «Noi... ioposso aspettare. Finché saremosposati in chiesa. Dirò a mio padredi organizzare tutto per la settimanaprossima. Non... non ci vorràmolto...».

«Shh», lei sussurrò ancora, e luisentì quella freschezza sulla sua

pelle. Non riuscì a trattenersi; lacircondò con le braccia, attirandola asé. «Ciò che facciamo adesso non haniente a che fare con quello», disselei, e allungò le dita sottili percarezzargli la gola.

Lui comprese. E sentì un lampo dipaura, che sparì mentre le dita di leicontinuavano ad accarezzarlo. Lovoleva, voleva qualsiasi cosa glipermettesse di stare con Katherine.

«Sdraiati, amore mio», leisussurrò.

Amore mio. Quelle parolerisuonavano in lui mentre si sdraiava

sul cuscino, piegando la testaall'indietro in modo da esporre lagola. La paura era scomparsa,sostituita da una felicità così grandeche pensava lo avrebbe distrutto.

Sentiva i capelli di lei sfiorarglidelicatamente il petto, e tentò diregolare il respiro. Sentiva il suoalito sulla gola, e poi le labbra. E poii denti.

Provò un dolore pungente, marimase immobile e non emise unfiato, pensando solo a Katherine, aquanto desiderava donarsi a lei. Equasi subito il dolore cessò, e Stefan

sentì il sangue fluire dal corpo. Nonera terribile, come aveva temuto. Eracome donare, nutrire.

Poi fu come se le loro menti sifondessero, diventando una sola.Sentiva la gioia che Katherineprovava nel bere da lui, la felicitànel succhiare quel sangue caldo chele dava la vita. E sapeva che leisentiva la felicità di Stefannell'offrire. Ma la realtà ormai siattenuava, i confini tra sogno e vegliadiventavano confusi. Non riusciva apensare chiaramente; non riusciva apensare affatto. Riusciva solo a

sentire, e le sensazioni salivanosempre più su, portandolo semprepiù in alto, spezzando i suoi ultimilegami con la terra.

Qualche tempo dopo, senza saperecome vi fosse arrivato, si ritrovò frale sue braccia. Lei lo cullava comeuna madre che tiene un neonato,posandogli le labbra sulla pelle nudaappena sopra il basso colletto dellavestaglia. C'era una piccola ferita, untaglio che risaltava scuro sulla pellecandida. Lui non ebbe paura néesitazione, e quando lei gli accarezzòi capelli per incoraggiarlo, cominciò

a succhiare. Freddo e meticoloso, Stefan si

spazzò lo sporco dalle ginocchia. Ilmondo degli uomini eraaddormentato, perso nello stupore;invece i suoi sensi erano affilaticome coltelli. Avrebbe dovuto esseresazio, ma aveva ancora fame, ilricordo aveva risvegliato il suoappetito. Le narici dilatate percogliere l'odore muschiato di volpe,cominciò a cacciare.

Capitolo 12

Elena si rigirò lentamente davantiallo specchio a tutta altezza nellacamera di zia Judith. Margaretsedeva ai piedi del grande letto abaldacchino, gli occhi azzurri solennie spalancati per l'ammirazione.

«Vorrei avere un vestito comequesto per andare a chiederedolcetto-o-scherzetto», disse.

«Io ti preferisco come gattinobianco», disse Elena, scoccando unbacio tra le orecchie di velluto

bianche attaccate al cerchietto diMargaret. Poi si girò verso la zia, inpiedi presso la porta con ago e filopronti. «È perfetto», disse affabile.«Non dobbiamo cambiare niente».

La ragazza nello specchio sarebbepotuta uscire da uno dei libri diElena sul Rinascimento italiano.Gola e spalle erano nude, e ilcorpetto attillato del vestito azzurroghiaccio metteva in risalto la vitasottile. Le maniche lunghe e pieneavevano dei tagli che mostravano laseta bianca della camicetta cheindossava sotto, e la gonna ampia e

lunga sfiorava appena il pavimentotutto intorno a lei. Era uno splendidovestito, e il color azzurro chiarosembrava intensificare l'azzurro piùscuro degli occhi di Elena.

Mentre si girava, lo sguardo diElena cadde sull'orologio a pendolovecchio stile sul cassettone. «Oh,no... sono quasi le sette. Stefan saràqui da un minuto all'altro».

«Questa dev'essere la sua auto»,disse zia Judith, dando un'occhiatafuori dalla finestra. «Scendo a farloentrare».

«Fa niente», disse brevemente

Elena. «Gli vado incontro io. Ciao,buon dolcetto-o-scherzetto!», e siaffrettò giù per le scale.

Eccolo, pensò. Mentre stava perafferrare il pomello, si ricordò delgiorno, quasi due mesi prima, in cuisi era messa direttamente sulcammino di Stefan durante la lezionedi storia europea. Aveva avuto lastessa sensazione di eccitazione,attesa e tensione.

Spero solo che vada a finiremeglio di quel piano, pensò.Nell'ultima settimana e mezzo, avevariposto le sue speranze su questo

momento, su questa notte. Se lei eStefan non si fossero messi insiemequella sera, non lo avrebbero fattomai.

La porta si aprì, e lei fece unpasso indietro con gli occhiabbassati, quasi timida, timorosa divedere il viso di Stefan. Ma quandolo sentì trattenere bruscamente ilrespiro, alzò gli occhi subito... e sisentì gelare il cuore.

Lui la stava guardando stupito, sì.Ma non era lo stupore gioioso cheaveva visto nei suoi occhi quellaprima notte nella sua stanza. Questo

sembrava più uno choc.«Non ti piace», mormorò, turbata

dal bruciore agli occhi.Lui si riprese rapidamente, come

sempre, sbattendo gli occhi escuotendo la testa. «No, no, èbellissimo. Tu sei bellissima».

Allora perché stai lì con l'aria dichi ha visto un fantasma? Pensò.Perché non mi abbracci, mi baci... faiqualcosa!

«Stai splendidamente», disse lei abassa voce. Ed era vero, era elegantee bello con lo smoking e la mantellache aveva indossato per la parte. Era

sorpresa che Stefan avesseacconsentito, ma quando gliel'avevaproposto sembrava più divertito chealtro. In questo momento, avevaun'aria elegante e disinvolta, come sequei vestiti fossero per lui normalicome i jeans.

«È meglio andare», disse,tranquillo quanto serio.

Elena annuì e si diresse con luiall'auto, ma il suo cuore non era piùsemplicemente gelato; era dighiaccio. Stefan sembrava piùdistante che mai da lei, e la ragazzanon aveva idea di come farlo

riavvicinare.Un tuonò rimbombò sopra di loro

mentre si dirigevano verso il liceo,ed Elena, costernata, diedeun'occhiata fuori dal finestrino. Lacappa di nuvole era spessa e cupa,sebbene non avesse ancoracominciato effettivamente a piovere.L'aria sembrava carica, elettrica, e lefosche nuvole violacee davano alcielo un aspetto terrificante. Eraun'atmosfera perfetta per Halloween,minacciosa e sovrannaturale, ma inElena risvegliava solo paura. Findalla notte a casa di Bonnie, aveva

smesso di apprezzare tutto ciò cheera strano e inquietante.

Il suo diario non era più saltatofuori, anche se avevano rovistato lacasa di Bonnie da cima a fondo. Nonriusciva ancora a credere che fosserealmente sparito, e l'idea di unosconosciuto che leggeva i suoipensieri più intimi la rendevafuribonda. Perché, naturalmente, erastato rubato; quale altra spiegazionepoteva esserci? Più di una porta erastata aperta quella notte nella casadei McCullough; qualcuno potevaessere semplicemente entrato.

Avrebbe voluto uccidere chiunquel'avesse fatto.

L'immagine di un paio di occhiscuri le si parò davanti. Quelragazzo, il ragazzo a cui aveva quasiceduto a casa di Bonnie, il ragazzoche le aveva fatto dimenticare Stefan.Era lui?

Si riscosse mentre parcheggiavanodavanti alla scuola e si sforzò disorridere mentre percorrevano icorridoi. La palestra era un caos amalapena organizzato.

Da quando Elena se n'era andata,un'ora prima, tutto era cambiato.

Allora il posto era pieno di studentidell'ultimo anno: membri delConsiglio studentesco, giocatori difootball, il Key Club, tutti a dare itocchi finali ad attrezzi e scenario.Adesso invece era pieno di estranei,la maggior parte dei quali nemmenoumani.

Parecchi zombie si voltaronoquando Elena entrò, i teschi ghignantivisibili sotto la carne indecomposizione delle facce. Ungobbo grottescamente deformatozoppicò verso di lei, insieme a uncadavere con pelle livida e occhi

incavati. Dall'altra direzione venneun lupo mannaro, il muso ringhiantecoperto di sangue, e una stregatenebrosa e teatrale.

Elena si rese conto, con unsussulto, che non riusciva ariconoscere metà di quelle personecon i loro costumi. Poi furono tuttiintorno a lei, ammirando il vestitoazzurro ghiaccio, annunciandoproblemi che si erano già manifestati.Elena li zittì con una mano e si voltòverso la strega, i cui lunghi capellineri ondeggiavano lungo la schienadi un vestito nero aderente.

«Chi sei, Meredith?», chiese.«L'allenatore Lyman sta male»,

Meredith replicò cupa, «quindiqualcuno ha detto a Tanner disostituirlo».

«Il signor Tanner?». Elena eraterrificata.

«Sì, e sta già creando problemi. Lapovera Bonnie sta quasi impazzendo.Faresti meglio ad andare là».

Elena sospirò e annuì, poipercorse il tragitto tortuoso del tourdella Casa Stregata. Mentreattraversava la raccapricciante Saladelle Torture e la spaventosa Stanza

dell'Accoltellatore Pazzo, pensò chel'avevano costruita quasi troppobene. Questo posto eraimpressionante perfino con la luce.

La Stanza dei Druidi era vicinoall'uscita. Lì, era stato costruito unoStonehenge di cartone. Ma lagraziosa sacerdotessa druidica, chestava in piedi fra quei monolitipiuttosto realistici indossando unaveste bianca e una ghirlanda di fogliedi quercia, sembrava sul punto discoppiare in lacrime.

«Ma lei deve coprirsi di sangue»,stava dicendo supplichevole. «Fa

parte della scena, lei è la vittimasacrificale».

«Indossare questi ridicoli vestiti ègià abbastanza sgradevole», replicòseccamente Tanner. «Nessuno mi hainformato che avrei dovutosporcarmi tutto di succo dipomodoro».

«Non è direttamente su di lei»,disse Bonnie. «È solo sui vestiti esull'altare. Lei è la vittimasacrificale», ripeté, come se inqualche modo questo lo potesseconvincere.

«Quanto a questo», disse il signor

Tanner disgustato, «l'accuratezza ditutta questa messinscena è altamentesospetta. Contrariamente allacredenza popolare, i druidi nonhanno costruito Stonehenge, è statocostruito da una civiltà dell'Età delBronzo che...».

Elena fece un passo avanti.«Signor Tanner, questo davvero nonha importanza».

«No, non per voi», replicò. «Che èpoi il motivo per cui tu e la tua amicanevrotica, qui, sarete bocciate instoria».

«Questo è fuori luogo», disse una

voce, ed Elena lanciò una rapidaocchiata da sopra la spalla a Stefan.

«Signor Salvatore», disse Tanner,pronunciando le parole come sesignificassero "Ora la mia giornata ècompleta". «Suppongo che tu abbianuove parole di saggezza da offrirci.O vuoi fare a me un occhio nero?».Lo sguardo oltrepassò Stefan, chestava là, inconsapevolmente elegantenel suo smoking dal taglio perfetto,ed Elena di colpo se ne rese conto.

Tanner non è molto più vecchio dinoi, pensò. Sembra vecchio perché sista stempiando, ma scommetto che

non ha ancora trent'anni. Allora, perqualche ragione, ricordò l'aspetto diTanner al Ballo d'Autunno, nel suovestito da poco e logoro che noncadeva bene.

Scommetto che non è mainemmeno andato al suo Ballod'Autunno, pensò. E, per la primavolta, provò qualcosa di simile allacompassione per lui.

Forse anche Stefan la provò,perché anche se andò vicinissimoall'omino, stando faccia a faccia conlui, la sua voce era tranquilla. «No,non voglio. Penso che tutta questa

faccenda si stia gonfiandoesageratamente. Perché non...». Elenanon riuscì a sentire il resto, maStefan stava parlando con tono bassoe calmo, e sembrava che il signorTanner lo ascoltasse davvero. Diedeun'occhiata alla folla che si eraraccolta dietro di lei; quattro ocinque spiritelli, il lupo mannaro, ungorilla, e un gobbo.

«Va bene, è tutto sotto controllo»,disse facendoli disperdere. Stefan sistava occupando di tutto, anche se leinon sapeva bene come, dal momentoche riusciva a vedere solo la sua

nuca.La nuca... Per un istante, le balenò

davanti un'immagine del primogiorno di scuola. Di come Stefan erarimasto nell'ufficio a parlare con lasignora Clarke, la segretaria, e delmodo strano in cui la signora Clarkeaveva agito. Com'era prevedibile,quando Elena guardò il signor Tanneradesso, notò la stessa espressioneleggermente stupefatta. Elena sentìl'inquietudine crescere lentamente.

«Dai», disse a Bonnie. «Andiamodavanti».

Tagliarono per la Stanza

dell'Atterraggio Alieno e la Stanzadel Morto Vivente, scivolando fra lepareti divisorie, uscendo nella primastanza in cui i visitatori sarebberoentrati, accolti da un lupo mannaro. Illupo mannaro si era tolto la testa estava chiacchierando con un paio dimummie e una principessa egizia.

Elena dovette ammettere cheCaroline stava bene come Cleopatra,le linee del suo corpo abbronzatochiaramente visibili attraverso ilsemplice vestito di lino attillato cheindossava. Non si poteva certobiasimare Matt, il lupo mannaro, se

non riusciva a tenere gli occhi fissisul viso di Caroline.

«Come sta andando qui?», chieseElena con allegria forzata.

Matt trasalì leggermente, poi sivoltò verso lei e Bonnie. Elenal'aveva a stento visto dalla notte delBallo, e sapeva che anche lui eStefan si erano allontanati. A causasua. E anche se non si poteva certoincolpare Matt per questo, vedevaquanto Stefan ne soffriva.

«Va tutto bene», rispose Matt, adisagio.

«Quando Stefan finisce con

Tanner, penso che lo spedirò qui»,disse Elena. «Può aiutare a farentrare la gente».

Matt alzò le spalle conindifferenza. Poi chiese: «Finiscecosa con Tanner?».

Elena lo guardò sorpresa. Avrebbegiurato che fosse nella Stanza deiDruidi un minuto fa a vedere. Alloraspiegò.

Fuori, tuonava ancora, e attraversola porta aperta Elena vide un fulminenel cielo notturno. Ci fu un altrofragore di tuono, più forte, dopoqualche secondo.

«Spero che non piova», disseBonnie.

«Sì», rispose Caroline, che erarimasta in silenzio mentre Elenaparlava con Matt. «Sarebbe proprioun peccato se non venisse nessuno».

Elena le lanciò un'occhiatapenetrante e vide odio manifestonegli occhi socchiusi e felini diCaroline.

«Caroline», disse impulsivamente,«senti. Non possiamo farla finita?Non possiamo dimenticare ciò che èsuccesso e ricominciare da capo?».

Sotto il cobra che aveva sulla

fronte, gli occhi di Caroline sispalancarono per poi socchiudersinuovamente. Con una smorfia sullelabbra, si avvicinò a Elena.

«Non dimenticherò mai», disse,voltandosi e andandosene.

Calò il silenzio, mentre Bonnie eMatt guardavano il pavimento. Elenaandò sulla soglia per sentire l'ariafresca sulle guance. Fuori scorgeva ilcampo e al di là i rami delle querceche si agitavano, e ancora una voltafu sopraffatta da quella stranasensazione di presentimento. Stanotteè la notte, pensò cupamente. Stanotte

è la notte in cui tutto accadrà. Ma dicosa fosse questo "tutto", non avevaidea.

Una voce risuonò attraverso lapalestra trasformata. «Va bene,stanno per far entrare la gente in codanel parcheggio. Spegni le luci, Ed!».All'improvviso scese l'oscurità el'aria si riempì di lamenti e risate dafolli, come un'orchestra che siaccorda. Con un sospiro, Elena sivoltò.

«Meglio prepararsi ad accoglierela folla», disse a Bonniesommessamente. Bonnie annuì e

sparì nel buio. Matt aveva indossatola testa da lupo mannaro, e stavaaccendendo un registratore cheaggiungeva musica inquietante allaconfusione che già c'era.

Stefan arrivò da dietro l'angolo, icapelli e i vestiti che siconfondevano nell'oscurità. Solo losparato della camicia risaltavachiaramente. «Tutto sistemato conTanner», disse. «Posso fare altro?»

«Be', potresti lavorare qui, conMatt, accogliere la gente...». La vocedi Elena si spense. Matt era chino sulregistratore, per aggiustare

minuziosamente il volume, senzaalzare lo sguardo. Elena guardòStefan e vide che il suo volto era tesoe inespressivo. «O potresti andarenello spogliatoio dei ragazzi eoccuparti del caffè e del resto per ivolontari», terminò stancamente.

«Vado nello spogliatoio», disse.Quando si voltò, lei notò che aveva ilpasso un po' vacillante.

«Stefan? Va tutto bene?»«Sto bene», rispose, ritrovando

l'equilibrio. «Un po' di stanchezza,ecco tutto». Lo osservò allontanarsi,sentendosi il petto più oppresso a

ogni minuto.Si rivolse a Matt, con l'intenzione

di dirgli qualcosa, ma in quelmomento la coda dei visitatoriraggiunse la porta.

«Comincia lo spettacolo», disselui, e si acquattò nell'ombra.

Elena passava di stanza in stanza,

risolvendo problemi. Negli anniprecedenti, questa era la parte dellaserata che si godeva di più,osservare le scenette macabre chevenivano recitate e il deliziosoterrore dei visitatori, ma stanotte una

sensazione di paura e tensioneminava tutti i suoi pensieri. Stanotte èla notte, pensò ancora, e il ghiaccionel petto sembrò aumentare.

Una Morte, o almeno questo è ciòche, secondo lei, la figuraincappucciata e vestita di neroraffigurava, le passò accanto, edElena cercò di ricordare,distrattamente, se ne avesse mai vistauna alle feste di Halloweenprecedenti. C'era qualcosa difamiliare nel modo in cui la figura simuoveva.

Bonnie scambiò un sorriso

esasperato con la strega alta eslanciata che dirigeva il traffico nellaStanza dei Ragni. Diversi ragazzi deiprimi anni colpivano i ragni digomma appesi, urlavano e in generedavano fastidio. Bonnie li sospinsenella Stanza dei Druidi.

Qui le luci stroboscopicheconferivano alla scena un aspettoonirico. Bonnie provò una sensazionedi cupo trionfo nel vedere il signorTanner disteso sull'altare di pietra,con le vesti bianche inzuppate disangue, gli occhi che fissavano ilsoffitto.

«Che forza!», esclamò uno deiragazzi, correndo all'altare. Bonnierimase indietro e sogghignò,aspettando che la vittima sacrificaleinsanguinata si alzasse eterrorizzasse il ragazzo.

Ma il signor Tanner non si mosse,anche quando il ragazzino immerseuna mano nella pozza di sanguevicino alla testa della vittimasacrificale.

Strano, pensò Bonnie, accorrendoper impedire al ragazzino di afferrareil coltello sacrificale.

«Non farlo», scattò, così lui,

invece del coltello, alzò la manoinsanguinata, che brillava rossa aogni lampo di luce. Bonnie ebbe ilterrore, improvviso e irrazionale, cheil signor Tanner stesse aspettandoche lei si chinasse su di lui per farlefare un salto. Invece continuò afissare il soffitto.

«Signor Tanner, si sente bene?Signor Tanner? Signor Tanner!».

Nessun movimento, nessun rumore.Non un guizzo in quei grandi occhibianchi. Non toccarlo, qualcosa nellamente di Bonnie le disseall'improvviso e con insistenza. Non

toccarlo non toccarlo non toccarlo...Sotto le luci stroboscopiche vide

la propria mano avvicinarsi,afferrare la spalla del signor Tannere scuoterla, poi vide la sua testaricadere abbandonata verso di lei.Allora vide la sua gola.

E cominciò a urlare. Elena sentì le grida. Erano stridule

e prolungate e diverse da tutti glialtri rumori nella Casa Stregata, ecapì subito che non si trattava di unoscherzo.

Poi, fu tutto un incubo.

Raggiunta di corsa la Stanza deiDruidi vide una scena, ma non quellapreparata per i visitatori. Bonniestava urlando, mentre Meredith lateneva per le spalle. Tre ragazzigiovani cercavano di uscire da unatenda, mentre due buttafuorisbirciavano all'interno, bloccandoloro la strada. Il signor Tannergiaceva sull'altare di pietra, inmaniera scomposta, e il suo volto...

«È morto», singhiozzava Bonnie,sostituendo le grida con parole. «Oh,Dio, il sangue è vero, e lui è morto.L'ho toccato, Elena, ed è morto, è

morto davvero...».La gente entrava nella stanza.

Qualcun altro cominciò a urlare e lanotizia si diffuse, e poi tutticercarono di uscire, spingendosi l'unl'altro per il panico, andando asbattere contro le pareti divisorie.

«Accendete le luci!», urlò Elena, esentì che il suo grido veniva ripresoda altri. «Meredith, presto, raggiungiun telefono, in palestra, e chiamaun'ambulanza, chiama la polizia...Accendete quelle luci!».

Quando le luci si accesero, Elenasi guardò intorno, ma non vide adulti,

nessuno autorizzato a prendere ilcontrollo della situazione. Una partedi lei era fredda come il ghiaccio, lamente che correva mentre cercava dipensare a cosa fare dopo. L'altraparte era semplicemente intontitadall'orrore. Il signor Tanner... non leera mai piaciuto, ma in qualche modoquesto rendeva tutto peggiore.

«Fate uscire tutti i ragazzini di qui.Tutti fuori a parte il personale»,disse.

«No! Chiudete le porte! Non fateuscire nessuno finché non arriva lapolizia», urlò un lupo mannaro di

fianco a lei, togliendosi la maschera.Elena si girò stupita al suono dellavoce e vide che non era Matt, eraTyler Smallwood.

Era stato riammesso a scuola soloquella settimana, e aveva ancora ilviso livido per i pugni ricevuti daStefan. Ma la sua voce aveva un tonoautoritario, ed Elena vide i buttafuorichiudere l'uscita. Sentì un'altra portachiudersi dall'altra parte dellapalestra.

Fra le poche persone cheaffollavano l'area di Stonehenge,Elena riconobbe solo un volontario.

Le altre erano persone che conoscevaper la scuola, ma nessuna bene. Unodi loro, un ragazzo vestito da pirata,chiese a Tyler:

«Vuoi dire... pensi che l'abbiafatto qualcuno qui dentro?»

«L'ha fatto qualcuno qui dentro,sicuro», disse Tyler. C'era un tonostrano, eccitato nella sua voce, quasicome se si stesse godendo lasituazione. Accennò alla pozza disangue sulla pietra. «È ancoraliquido, non può essere successo damolto. E guardate come gli è statatagliata la gola. L'assassino deve

averlo fatto con quello», e indicò ilcoltello sacrificale.

«Allora l'assassino potrebbeessere qui proprio adesso», bisbigliòuna ragazza in kimono.

«E non è difficile indovinare chisia», disse Tyler. «Qualcuno cheodiava Tanner, che aveva semprediscussioni con lui. Qualcuno chestava discutendo con lui anche prima.L'ho visto».

Quindi eri tu il lupo mannaro inquesta stanza, pensò Elenasbalordita. Ma cosa ci facevi qui,tanto per cominciare? Non fai parte

del personale.«Qualcuno che ha un passato di

violenza», continuava Tyler, lelabbra che lasciavano scoperti identi. «Qualcuno che, per quanto nesappiamo, è uno psicopatico venuto aFell's Church solo per uccidere».

«Tyler, di chi stai parlando?», lasensazione di stupore di Elena eraesplosa come una bolla. Furibonda,fece un passo verso il ragazzo, alto erobusto. «Sei pazzo!».

Lui la indicò senza guardarla.«Così dice la sua ragazza... ma forseè un po' prevenuta».

«O forse tu sei un po' prevenuto,Tyler», disse una voce dietro allafolla, ed Elena vide un secondo lupomannaro che si faceva strada nellastanza. Matt.

«Ah, sì? Bene, perché non ci diciquello che sai di Salvatore? Da doveviene? Dov'è la sua famiglia? Dadove ha preso tutti quei soldi?».Tyler si rivolse al resto della folla.«Chi sa qualcosa di lui?».

La gente scuoteva la testa. In ognivolto, Elena vedeva nascere ilsospetto. Il sospetto di tutto ciò che èsconosciuto, tutto ciò che è diverso.

E Stefan era diverso. Era un estraneoin mezzo a loro, e in questo momentoavevano bisogno di un caproespiatorio.

La ragazza in kimono cominciò:«Ho sentito una voce...».

«Questo è tutto ciò che abbiamosentito, voci!», disse Tyler.«Nessuno sa davvero qualcosa di lui.Ma c'è una cosa che io so. Leaggressioni a Fell's Church sonocominciate la prima settimana discuola... cioè la settimana in cui èarrivato Stefan Salvatore».

Quest'affermazione fu seguita da

un crescendo di mormorii, ed Elenastessa se ne rese conto con uno choc.Ovviamente, era tutto ridicolo, erasolo una coincidenza. Ma ciò cheTyler stava dicendo era vero. Leaggressioni erano cominciate conl'arrivo di Stefan.

«Vi dirò qualcos'altro», esclamòTyler, facendo loro cenno di starezitti. «Ascoltatemi! Vi diròqualcos'altro!». Aspettò che tutti loguardassero e poi disse lentamente,con solennità: «Era nel cimitero lanotte che Vickie Bennett è stataaggredita».

«Certo che era nel cimitero, arisistemarti la faccia», disse Matt,ma la sua voce non aveva la solitaforza. Tyler afferrò il commento e ciricamò sopra.

«Sì, e mi ha quasi ucciso. Estanotte qualcuno ha davvero uccisoTanner. Non so cosa voi pensiate, maio penso che sia stato lui. Penso chesia lui il colpevole!».

«Ma dov'è?», gridò qualcuno tra lafolla.

Tyler si guardò intorno. «Se èstato lui, dev'essere ancora qui»,gridò. «Troviamolo».

«Stefan non ha fatto niente!Tyler...», esclamò Elena, ma ilrumore della folla la coprì. Le paroledi Tyler venivano accolte e ripetute.Troviamolo... troviamolo...troviamolo... Elena le sentì passareda una persona all'altra. E i voltinella Stanza dei Druidi mostravanopiù che sospetto ora; Elena viscorgeva anche rabbia e sete divendetta. La folla era diventataqualcosa di orribile, senza controllo.

«Dov'è, Elena?», disse Tyler, e leivide il trionfo fiammeggiare nei suoiocchi. Si stava davvero godendo

tutto questo.«Non lo so», rispose aspramente,

desiderando colpirlo.«Dev'essere ancora qui!

Trovatelo!», urlò qualcuno, e poisembrò che tutti si muovessero,indicassero, spingessero,contemporaneamente. Le paretidivisorie furono abbattute e messe daparte.

Il cuore di Elena battevaall'impazzata. Questa non era piùsemplice folla; era un'orda inferocita.Era terrorizzata da quel cheavrebbero fatto a Stefan se l'avessero

trovato. Ma se avesse tentato diandare ad avvertirlo, avrebbecondotto Tyler dritto da lui.

Si guardò intorno disperata.Bonnie stava ancora fissando il visocadaverico del signor Tanner.Nessun aiuto da parte sua. Si voltòper scrutare ancora la folla; e i suoiocchi incontrarono quelli di Matt.

Aveva l'aria confusa e arrabbiata,i capelli biondi arruffati, le guancerosse e sudate. Elena mise tutta la suaforza di volontà nello sguardosupplichevole.

Ti prego, Matt, pensò. Non puoi

credere a tutto questo. Sai che non èvero.

Ma i suoi occhi rivelavano chenon sapeva. C'era in essisbalordimento e agitazione.

Ti prego, pensò Elena, fissandoquegli occhi azzurri, volendo che luicapisse. Oh, ti prego, Matt, solo tupuoi salvarlo. Anche se non credi, tiprego prova a fidarti... ti prego...

Vide la sua espressione cambiare,la confusione svanire mentreappariva una cupa determinazione.La fissò ancora un momento,scandagliandola con gli occhi, e

annui una volta. Poi si voltòinfilandosi tra la folla agitata, incaccia.

Matt tagliò la folla di netto fino ad

arrivare dall'altro lato della palestra.C'erano alcune matricole vicino allaporta dello spogliatoio dei ragazzi;ordinò bruscamente loro dicominciare a spostare i divisoricaduti, e quando la loro attenzione fudistratta aprì la porta e si fiondòdentro.

Si guardò intorno velocemente,non volendo urlare. Quanto a questo,

pensò, Stefan deve aver sentito tuttala confusione che c'è in palestra.Probabilmente se l'è già svignata. Mapoi Matt vide una figura vestita dinero sul pavimento di piastrellebianche.

«Stefan! Cos'è successo?». Per unterribile istante, Matt penso che sitrattasse di un secondo cadavere. Mamentre si inginocchiava di fianco aStefan, notò un movimento.

«Ehi, va tutto bene, solo mettiti asedere lentamente... con calma. Staibene, Stefan?»

«Sì», rispose Stefan. Non aveva un

bell'aspetto, pensò Matt. Il volto eracadaverico e le pupille eranoenormemente dilatate. Sembravadisorientato e sofferente. «Grazie»,disse.

«Potresti non ringraziarmi più fraun minuto. Stefan, devi uscire di qui.Li senti? Ti stanno cercando».

Stefan si voltò verso la palestra,come per ascoltare. Ma non c'eracomprensione sul suo volto. «Chi mista cercando? Perché?»

«Tutti. Non importa. Ciò cheimporta è che devi uscire prima chearrivino qui». Poiché Stefan

continuava semplicemente aguardarlo con espressione vuota,aggiunse: «C'è stata un'altraaggressione, questa volta a Tanner, ilsignor Tanner. È morto, Stefan, eloro pensano che sia stato tu».

Ora, finalmente, vide la luciditànegli occhi di Stefan. Comprensionee orrore e una specie di rassegnatasconfitta che era più spaventosa diqualsiasi cosa Matt avesse vistoquella notte. Afferrò strettamente laspalla di Stefan.

«So che non sei stato tu», disse, ein quel momento era vero. «Lo

capiranno anche loro, quandoricominceranno a ragionare. Ma nelfrattempo, faresti meglio a uscire».

«Uscire... sì», disse Stefan. L'ariadisorientata era sparita, e c'eracocente amarezza nel modo in cuipronunciò le parole. «Io... uscirò».

«Stefan...».«Matt». Gli occhi verdi erano

scuri e fiammeggianti, e Matt scoprìche non riusciva a distogliervi losguardo. «Elena è al sicuro? Bene.Allora, prenditi cura di lei. Perfavore».

«Stefan, di cosa stai parlando? Sei

innocente; si sgonfierà tutto...».«Prenditi solo cura di lei, Matt».Matt indietreggiò, fissando ancora

quegli occhi verdi e autoritari. Poi,lentamente, annuì.

«Lo farò», disse sommesso. Eguardò Stefan andarsene.

Capitolo 13

Elena era in mezzo a un cerchio diadulti e poliziotti, aspettandol'opportunità di scappare. Sapeva cheMatt aveva avvisato Stefan intempo... gliel'aveva detto la suaespressione... ma non era riuscito adavvicinarla abbastanza da poterleparlare.

Alla fine, mentre tutta l'attenzioneera rivolta al cadavere, lei sidistaccò dal gruppo e si diresseverso Matt.

«Stefan è riuscito a scappare»,disse, gli occhi fissi sul gruppo diadulti. «Ma mi ha detto di prendermicura di te, e io voglio che tu rimangaqui».

«Di prenderti cura di me?».Allarme e sospetto s'impadronironodi Elena. Poi, quasi bisbigliando,disse: «Capisco». Rifletté unmomento e poi parlò con prudenza.«Matt, devo andare a lavarmi lemani. Bonnie mi ha sporcato disangue. Aspetta qui; torno subito».

Lui cominciò a protestare, ma leistava già allontanandosi. Mostrò le

mani insanguinate come spiegazionementre raggiungeva la porta dellospogliatoio delle ragazze, el'insegnante che era lì la lasciòpassare.

Una volta nello spogliatoio,comunque, continuò fino alla portapiù lontana ed entrò nella scuolarimasta al buio. E da lì, nella notte.

Zuccone!, pensò Stefan, afferrando

uno scaffale e lanciandolo, facendovolare tutto il contenuto. Imbecille!Cieco, odioso imbecille. Comeaveva potuto essere così stupido?

Trovarsi un posto in mezzo a loroqui? Essere accettato come uno diloro? Doveva essere matto a pensareche fosse possibile.

Raccolse uno dei bauli grandi epesanti e lo lanciò attraverso lastanza, dove si ruppe contro il muro,scheggiando una finestra. Stupido,stupido.

Chi lo cercava? Tutti. L'avevadetto Matt. "C'è stata un'altraaggressione... Pensano che sia statotu".

Be', per una volta sembrava che ibarbari, quei meschini umani

viventi, con la loro paura di tutto ciòche è sconosciuto, avessero ragione.

Come altro spiegare ciò che erasuccesso? Aveva provato quelladebolezza, quella confusione dacapogiro, le vertigini; e poi l'oscuritàl'aveva preso. Si era risvegliato persentire Matt che parlava di un altroessere umano depredato, aggredito.Derubato questa volta non solo delsangue, ma della vita. Come spiegarequesto se non con il fatto che lui,Stefan, era l'assassino?

Ecco cos'era: un assassino. Unmalvagio. Una creatura nata nelle

tenebre, destinata a vivere e cacciaree nascondersi in esse per sempre.Be', perché non uccidere, allora?Perché non assecondare la suanatura? Dal momento che non potevacambiarla, poteva almeno godersela.Avrebbe scatenato la sua tenebrasulla città che lo odiava, che gli davala caccia in questo stesso momento.

Ma prima... aveva sete. Le venebruciavano come una rete di filiasciutti e bollenti. Aveva bisogno dinutrirsi... subito... adesso.

La pensione era al buio. Elena

bussò alla porta, ma non ricevetterisposta. Un tuono scoppiò in cielo.Non c'era ancora pioggia.

Dopo aver tempestato la porta dicolpi per la terza volta, tentò diaprirla, e questa si spalancò. Dentro,la casa era silenziosa ecompletamente scura. Si fece stradafino alle scale e salì.

Il primo piano era altrettanto buio,e lei inciampò, cercando di trovarela stanza con la rampa che conducevaal secondo piano. Una luce fiocabrillava in cima alle scale, e lei vi sidiresse, oppressa dai muri, che

sembravano chiudersi su di lei daentrambi i lati.

La luce filtrava da sotto la portachiusa. Elena bussò piano erapidamente. «Stefan», bisbigliò, epoi chiamò a voce più alta: «Stefan,sono io».

Nessuna risposta. Afferrò ilpomello e aprì la porta, sbirciandodentro. «Stefan...».

Stava parlando a una stanza vuota.E una stanza piena di caos.

Sembrava che un forte vento l'avessespazzata, lasciando distruzione sulsuo cammino. I bauli, che prima

stavano molto ordinatamente negliangoli, giacevano in posizionigrottesche, i coperchi spalancati, ilcontenuto sparso sul pavimento. Unafinestra era frantumata. Tutte le cosedi Stefan, tutto ciò che avevaconservato con tanta cura e chesembrava aver caro, era sparpagliatocome spazzatura.

Elena fu invasa dal terrore. Lafuria, la violenza di questa scena didevastazione erano estremamentechiare, e quasi la stordivano.Qualcuno che aveva un passato diviolenza, aveva detto Tyler.

Non m'importa, pensò, mentre larabbia montava scacciando la paura.Non m'importa di niente, Stefan;voglio ancora vederti. Ma dove sei?

Dell'aria fredda soffiava dallabotola aperta sul soffitto. Oh, pensòElena, con un improvviso brivido dipaura. Quel tetto era molto alto...

Non si era mai arrampicata su perla scala che portava al tettoterrazzato prima d'ora, e la gonnalunga rendeva tutto più difficile.Emerse lentamente dalla botola,inginocchiandosi sul tetto e poimettendosi in piedi. Vide una figura

scura nell'angolo, e vi si diresserapidamente.

«Stefan, dovevo venire...»,cominciò, ma si interruppe, perché unlampo illuminò il cielo propriomentre la figura nell'angolo sivoltava. E allora fu come se ognipresentimento, paura e incubo avessemai avuto si avverassero tuttiinsieme. Era qualcosa che andavaoltre le grida; andava oltre ogni cosa.

Oh, Dio... no. La mente rifiutava didare un senso a ciò che i suoi occhivedevano. No. No. Non volevaguardare questo, non voleva

crederci...Ma non poté evitare di vederlo.

Anche se avesse potuto chiudere gliocchi, ogni dettaglio della scena erascolpito nella memoria. Come se illampo gliel'avesse marchiato a fuoconel cervello per sempre.

Stefan. Stefan, così elegante neisuoi soliti vestiti, nella giacca dipelle nera con il bavero rialzato.Stefan, con i capelli scuri come lenuvole temporalesche che siagitavano dietro di lui. Stefan erastato colto in quel lampo, mezzorivolto verso di lei, il corpo contorto

in posizione bestiale, con un ringhiodi furia animale sul viso.

E sangue. Quella bocca arrogante,sensibile, sensuale era sporca disangue. Risaltava orribilmente rossasul pallore della pelle, sul biancorelucente dei denti scoperti. Fra lemani aveva il corpo afflosciato diuna tortora, bianca come quei denti,le ali spiegate. Un'altra giaceva aterra ai suoi piedi, come un fazzolettogualcito e gettato via.

«Oh, Dio, no», mormorò Elena.Continuò a mormorarlo,indietreggiando, a stento cosciente di

ciò che stava facendo. La sua mentesemplicemente non riusciva adaffrontare questo orrore; i pensieri sirincorrevano impazziti per il panico,come topi che cercano di scappareda una gabbia. Non voleva crederci,non voleva credere. Aveva in corpouna tensione insopportabile, il cuorestava scoppiando, la testa girava.

«Oh, Dio, no...».«Elena!». Più terribile di tutto il

resto era questo, vedere Stefan che laguardava con quell'espressione daanimale, vedere il ringhiotrasformarsi in choc e disperazione.

«Elena, per favore. Per favore,no...».

«Oh, Dio, no!». Le urla cercavanodi uscire a squarciagola. Indietreggiòancora di più, incespicando, mentrelui faceva un passo verso di lei.«No!».

«Elena, per favore... sta'attenta...». Quella cosa terribile,quella cosa con la faccia di Stefan, lestava venendo dietro, gli occhi verdifiammeggianti. Si buttò all'indietromentre lui faceva un altro passo, unbraccio teso. Quella mano con le ditalunghe e affusolate che le avevano

accarezzato i capelli cosìdelicatamente...

«Non toccarmi!.», esclamò. E poigridò, quando spostandosi arrivò conla schiena contro il parapetto di ferrodella terrazza. Quel ferro era rimastolà per quasi un secolo e mezzo, e inalcuni punti era quasi completamentearrugginito. Il peso di Elena,terrorizzata, era eccessivo. Sentì ilsuono del metallo e del legno checedevano mescolarsi al suo stessourlo. Poi dietro di lei non ci funiente, niente a cui aggrapparsi, ecadde.

In quell'istante, vide nuvoleviolacee e minacciose, la massascura della casa di fianco a lei. Lesembrò di avere abbastanza tempoper vedere tutto chiaramente, e perprovare un terrore infinito mentreurlava e continuava a cadere.

Ma il terribile, devastante impattonon arrivò. All'improvviso, ci furonodelle braccia intorno a lei, che lasostenevano nel vuoto. Ci fu un tonfosordo e le braccia strinsero la presa,il peso che cedeva su di lei, attutendola caduta. Poi tutto fu immobile.

Elena rimase immobile nella

stretta di quelle braccia, cercando diorientarsi. Cercando di credere aun'altra cosa incredibile. Era cadutadal tetto di una casa di tre piani,eppure era ancora viva.

Era nel giardino dietro ilpensionato, in completo silenzio tra irombi dei tuoni, con le foglie cadutesul terreno dove avrebbe dovutoesserci il suo corpo spezzato.

Lentamente, rivolse lo sguardo alviso di colui che la teneva. Stefan.

C'era stata troppa paura, troppiscossoni quella notte. Non riuscivapiù a reagire. Poteva soltanto

guardarlo con una specie dimeraviglia.

C'era una tale tristezza nei suoiocchi. Quegli occhi che primabruciavano come ghiaccio verdeerano ora scuri e vuoti, senzasperanza. Lo stesso sguardo cheaveva visto quella prima notte incamera sua, solo che ora era peggio.Perché adesso c'era odio di sé unitoa tristezza e aspra condanna. Nonriusciva a sopportarlo.

«Stefan», sussurrò, sentendoquella tristezza penetrare nella suastessa anima. Scorgeva ancora la

tinta rossa sulle labbra, ma oraquesta risvegliava in lei un brividodi pietà insieme all'orrore istintivo.Essere così solo, così alieno e cosìsolo...

«Oh, Stefan», sussurrò.Non c'era risposta in quegli occhi

vuoti, persi. «Vieni», disse lui piano,e la ricondusse verso la casa.

Stefan sentì un'ondata di vergogna

mentre raggiungevano il terzo piano ela devastazione della sua camera.Che proprio Elena, fra tutti, dovessevedere tutto questo era

insopportabile. Ma in fondo, forseera anche appropriato che leivedesse ciò che era veramente,cos'era in grado di fare.

La ragazza si diresse lentamente,confusa verso il letto e si sedette. Poilo guardò, incontrando con gli occhirattristati il suo sguardo.«Raccontami», fu tutto ciò che disse.

Lui rise brevemente, senzaumorismo, e la vide sobbalzare. Siodiò ancora di più per questo.«Cos'hai bisogno di sapere?»,chiese. Posò un piede sul coperchiodi un baule rovesciato e la fronteggiò

quasi con sfida, indicando la stanzacon un gesto. «Chi ha fatto questo?Io».

«Sei forte», rispose lei, gli occhifissi su un baule capovolto. Alzò gliocchi verso l'alto, come se si stessericordando cos'era successo sul tetto.«E svelto».

«Più forte di un essere umano»,disse lui, con enfasi deliberatasull'ultima parola. Perché lei nonindietreggiava adesso, perché non loguardava con il ribrezzo che avevavisto prima? Non gli importava piùcosa lei pensasse. «Ho i riflessi più

rapidi, e sono più resistente. Devoesserlo. Sono un cacciatore», dissecon durezza.

Qualcosa nel suo sguardo gliricordò come lei lo avesse interrotto.Si pulì la bocca con il dorso dellamano, poi si affrettò a prendere unbicchiere d'acqua rimasto intatto suun comodino. Sentiva gli occhi diElena su di sé mentre beveva e siripuliva la bocca. Oh, gli importavaancora cosa lei pensasse, dopo tutto.

«Puoi mangiare e bere... altrecose», lei disse.

«Non ne ho bisogno», disse lui

tranquillo, sentendosi stanco e calmo.«Non ho bisogno di nient'altro». Sivoltò improvvisamente e sentìun'intensità appassionata sorgere dinuovo in lui. «Hai detto che sonosvelto... ma è proprio ciò che nonsono. Hai mai sentito il detto "losvelto e il morto", Elena? Sveltosignifica vivente; significa coloroche hanno vita. Io sono l'altra metà».

Vedeva che lei stava tremando.Ma la voce di Elena era calma, e nondistolse mai gli occhi dai suoi.«Raccontami», ripeté. «Stefan, io hodiritto di sapere».

Lui riconobbe queste parole.Erano vere come la prima volta chele aveva pronunciate. «Sì, suppongodi sì», replicò, con voce stanca edura. Fissò la finestra rotta per alcuniistanti e poi la guardò di nuovo eparlò schiettamente. «Sono nato allafine del quindicesimo secolo. Micredi?».

Lei guardò gli oggetti che avevascaraventato dallo scrittoio con gestofurioso. I fiorini, la coppa d'agata, ilpugnale. «Sì», rispose sommessa.«Sì, ti credo».

«E vuoi saperne di più? Come

sono diventato ciò che sono?».Quando lei annuì, lui si voltò dinuovo verso la finestra. Come potevadirglielo? Lui, che aveva evitato ledomande così a lungo, che eraespertissimo nel nascondersi eingannare.

C'era solo un modo, dirlel'assoluta verità, senza nascondereniente. Presentargliela tutta, cosa chenon aveva mai offerto ad anima viva.

E voleva farlo. Anche se sapevache alla fine lei si sarebbeallontanata da lui, aveva bisogno dirivelare a Elena ciò che era.

E così, scrutando il buio fuoridalla finestra, dove lampi di un blubrillante illuminavano di tanto intanto il cielo, cominciò.

Parlò spassionatamente, senzaemozione, scegliendo con cura leparole. Le raccontò di suo padre,quel solido uomo del Rinascimento,e del suo mondo a Firenze e nellaloro tenuta di campagna. Le raccontòdei suoi studi e delle sue ambizioni.Di suo fratello, che era molto diversoda lui, e dell'ostilità che c'era fraloro.

«Non so quando Damon ha

cominciato a odiarmi», disse. «Èsempre stato così, da che mi ricordi.Forse perché mia madre non si è maidavvero ripresa dopo la mia nascita.Morì pochi anni dopo. Damonl'amava moltissimo, e ho sempreavuto la sensazione che incolpasseme». Fece una pausa per deglutire.«E poi, più tardi, ci fu una ragazza».

«Quella che io ti ricordo?», chieseElena con dolcezza. Lui annuì.«Quella», continuò lei, più esitante,«che ti ha dato l'anello?».

Lui diede un'occhiata all'anellod'argento sul suo dito, poi incrociò lo

sguardo di lei. Allora, lentamente,estrasse l'anello che portava allacatenina sotto la camicia e loosservò.

«Sì. Questo era il suo anello»,disse. «Senza questo talismano,moriamo alla luce del sole come inun fuoco».

«Allora lei era... come te?»«È lei che mi ha reso ciò che

sono». In maniera esitante, leraccontò di Katherine. Della bellezzae della dolcezza di Katherine, e delsuo amore per lei. E di quello diDamon.

«Era troppo delicata, troppo pienadi affetto», disse alla fine,dolorosamente. «Lo donava a tutti,compreso mio fratello. Ma alla fine,le dicemmo che doveva scegliere franoi. E poi... lei venne da me».

Il ricordo di quella notte, di quellanotte dolce e terribile ritornò atravolgerlo. Era andata da lui. E luine era stato così contento, così pienodi sgomento e di gioia. Cercò diraccontarlo a Elena, di trovare leparole. Per tutta la notte era statofelicissimo, e anche il mattinoseguente, quando si era svegliato e

lei se n'era andata, era stato alsettimo cielo...

Poteva quasi essere stato un sogno,

ma le due piccole ferite sul colloerano reali. Scoprì con sorpresa chenon gli facevano male e chesembravano già parzialmente guarite.Rimanevano nascoste dall'altocolletto della sua camicia.

Il sangue di lei gli bruciava nellevene ora, pensò, e le stesse parole glifacevano battere il cuoreall'impazzata. Katherine gli avevadato la sua forza; lo aveva scelto.

Ebbe addirittura un sorriso perDamon quando si incontrarono nelposto designato quella sera. Damonera stato via da casa tutto il giorno,ma si presentò in giardino conestrema puntualità, e rimase distesocontro un albero, sistemandosi ipolsini. Katherine era in ritardo.

«Forse è stanca», suggerì Stefan,osservando il cielo color melone chesi scuriva fino a diventare blu notte.Cercò di non far trapelare queltimido compiacimento dalla suavoce. «Forse ha bisogno di piùriposo del solito».

Damon gli lanciò un'occhiataperspicace, gli occhi scuri penetrantisotto la massa di capelli neri.«Forse», disse terminando con unanota alta, come se avesse voluto diredi più.

Ma poi sentirono un passo leggerosul sentiero, e Katherine apparve trale siepi di bosso. Indossava la suaveste bianca, ed era bella come unangelo.

Ebbe un sorriso per entrambi.Stefan ricambiò il sorrisoeducatamente, rivelando il lorosegreto solo con gli occhi. Poi

aspettò.«Mi avete chiesto di fare la mia

scelta», disse lei, guardando primalui poi suo fratello. «E ora sietevenuti all'ora che ho stabilito, e io vidirò ciò che ho scelto».

Tese la sua manina, quella conl'anello, e Stefan guardò la pietra,rendendosi conto che era dello stessoblu profondo del cielo serale. Eracome se Katherine portasse un pezzodi notte con lei, sempre.

«Avete entrambi vistoquest'anello», disse a bassa voce. «Esapete che senza io morirei. Non è

facile riuscire a farsi fare questitalismani, ma fortunatamente la miadama di compagnia Gudren è sveglia.E ci sono molti argentieri a Firenze».

Stefan ascoltava senza capire, maquando lei si rivolse a lui sorriseancora, incoraggiante.

«E così», disse lei, guardandolonegli occhi. «Ho fatto fare questoregalo per te». Gli prese la mano e vimise qualcosa. Quando guardò, videche era un anello simile a quello dilei, ma più grande e più pesante, elavorato in argento invece che in oro.

«Non ne hai ancora bisogno per

affrontare il sole», disse condolcezza, sorridendo. «Ma presto neavrai».

L'orgoglio e l'entusiasmo loammutolirono. Prese la sua mano perbaciarla, volendo prenderla fra lebraccia proprio lì, davanti a Damon.Ma Katherine si stava voltando.

«E per te», disse, e Stefan pensòche le sue orecchie lo stesseroingannando, perché sicuramente quelcalore, quell'affetto nella voce diKatherine non potevano essere persuo fratello, «anche per te. Ne avraibisogno anche tu molto presto».

Anche gli occhi di Stefandovevano tradirlo. Gli mostravanouna cosa impossibile, che non potevaessere. Nella mano di DamonKatherine stava mettendo un anelloproprio uguale al suo.

Il silenzio che seguì fu assoluto,come il silenzio dopo la fine delmondo.

«Katherine...», Stefan riuscì astento a pronunciare le parole.«Come puoi darlo a lui? Dopoquello che abbiamo condiviso...».

«Quello che avete condiviso?». Lavoce di Damon fu come una frustata,

mentre si voltava irato verso Stefan.«L'altra notte è venuta da me. Lascelta è già fatta». E Damon abbassòl'alto colletto per mostrare duepiccole ferite sulla gola. Stefan lefissò, reprimendo la forte nausea.Erano identiche alle sue ferite.

Scosse la testa con estremosgomento. «Ma, Katherine... non eraun sogno. Tu sei venuta da me...».

«Sono venuta da entrambi». Lavoce di Katherine era tranquilla,perfino divertita, e gli occhi eranosereni. Sorrise prima a Damon e poia Stefan. «Mi sono indebolita, ma

sono molto contenta di averlo fatto.Non capite?», continuò mentre lorola fissavano, troppo sbalorditi perparlare. «Questa è la mia scelta! Viamo entrambi, e non rinuncerò anessuno dei due. Ora staremoinsieme tutti e tre, e saremo felici».

«Felici...». Stefan non riusciva aparlare.

«Sì, felici! Noi tre saremocompagni, gioiosi compagni, persempre». La voce si innalzò perl'esaltazione, e una luce radiosamenteinfantile le brillava negli occhi.«Staremo insieme per sempre, senza

mai avere malattie, senza maiinvecchiare, fino alla fine del tempo!Questa è la mia scelta».

«Felice... con lui?». La voce diDamon tremava per il furore, eStefan vide che suo fratello,normalmente controllato, era pallidodi rabbia. «Con questo ragazzino checi sta fra i piedi, questo blaterantecampione di virtù? Riesco amalapena a sopportarne la vistaadesso. Vorrei non doverlo vederemai più, non dover sentire mai più lasua voce!».

«E io vorrei lo stesso di te,

fratello», replicò Stefan, il cuore chegli si spezzava nel petto. Era tuttacolpa di Damon; Damon avevaavvelenato la mente di Katherinecosì che non sapeva più cosa faceva.«E io ho una mezza idea diassicurarmene», aggiunse furente.

Damon non fraintese il suosignificato. «Allora prendi la spada,se riesci a trovarla», sibilò, gli occhineri e minacciosi.

«Damon, Stefan, per favore! Perfavore, no!», esclamò Katherine,mettendosi fra loro e afferrando ilbraccio di Stefan. Guardò prima

l'uno poi l'altro, gli occhi azzurrispalancati per lo choc e lucidi per lelacrime non versate.

«Pensate a ciò che state dicendo.Siete fratelli».

«Non per colpa mia», replicòDamon, pronunciando le parole comeun insulto.

«Ma non potete fare pace? Per me,Damon... Stefan? Per favore».

Una parte di Stefan voleva cedereallo sguardo disperato di Katherine,alle sue lacrime. Ma l'orgoglio feritoe la gelosia erano troppo forti, esapeva di avere un'espressione dura

e inflessibile come quella di Damon.«No», rispose. «Non possiamo.

Dev'essere uno o l'altro, Katherine.Non ti dividerò mai con lui».

La mano di Katherine scivolò dalsuo braccio, e le lacrime lescorrevano dagli occhi, grosse gocceche cadevano sul vestito bianco.Emise un singhiozzo straziante. Poi,sempre piangendo, raccolse le gonnee scappò.

«E poi Damon prese l'anello che

lei gli aveva dato e se lo infilò»,disse Stefan, la voce roca per l'uso e

l'emozione. «E lui mi disse: "Saràmia, fratello". E poi se ne andò». Sivoltò, socchiudendo gli occhi comese fosse arrivato in piena luce dalbuio, e guardò Elena.

Lei sedeva immobile sul letto,osservandolo con quegli occhi cosìsimili a quelli di Katherine.Soprattutto in quel momento, mentreerano pieni di tristezza e timore. MaElena non scappò. Gli parlò, invece.

«E... cos'è successo dopo?».Le mani di Stefan si chiusero con

violenza, istintivamente, e lui siallontanò dalla finestra. Non quel

ricordo. Non poteva nemmenosopportare il ricordo, tanto menocercare di raccontarlo. Come potevafarlo? Come poteva trascinare Elenain quelle tenebre e mostrarle le coseterribili che vi si nascondevano?

«No», disse. «Non posso. Nonposso».

«Devi raccontarmelo», disse leidolcemente. «Stefan, è la fine dellastoria; no? Ecco cosa c'è dietro tuttele tue barriere, ecco cosa temi difarmi vedere. Ma devi farmelovedere. Oh, Stefan, non puoi fermartiadesso».

Lui percepiva l'orrore che tentavadi afferrarlo, l'abisso spalancato cheaveva visto così chiaramente, sentitocosì chiaramente quel giorno lontano.Il giorno in cui tutto era finito... in cuitutto era cominciato.

Sentì che qualcuno gli prendeva lamano, e quando guardò vide le ditadi Elena chiuse intorno alle sue,trasmettergli calore, trasmettergliforza. Teneva gli occhi fissi sui suoi.«Raccontami».

«Vuoi sapere cos'è successo dopo,che ne è stato di Katherine?»,mormorò. Lei annuì, gli occhi quasi

ciechi ma fermi. «Te lo racconterò,allora. Morì il giorno dopo. Miofratello Damon e io, l'abbiamo uccisanoi».

Capitolo 14

A Elena venne la pelle d'oca aquelle parole.

«Non dici sul serio», disse leiscossa. Ricordava ciò che avevavisto sul tetto, il sangue sulle labbradi Stefan, e si costrinse a nonindietreggiare davanti a lui. «Stefan,ti conosco. Non puoi averlo fatto...».

Lui ignorò le sue proteste,continuando soltanto a fissare conocchi che bruciavano come ghiaccioverde sul fondo di un ghiacciaio. La

attraversava con lo sguardo, fissandoqualcosa a una distanzaincommensurabile. «Mentre ero aletto quella notte, speravo controogni aspettativa che lei arrivasse.Stavo già notando alcunicambiamenti in me. Riuscivo avedere meglio al buio e, a quantopareva, avevo un udito migliore. Misentivo più forte che mai, pieno diqualche energia primordiale. Eavevo fame.

Era una fame che non avevo mainemmeno immaginato. A pranzoavevo scoperto che i cibi e le

bevande normali non avevanocapacità di soddisfarla. Non riuscivoa capirne il motivo. E poi vidi ilcollo candido di una delle cameriere,e seppi perché». Fece un lungorespiro, gli occhi scuri e tormentati.«Quella notte, resistetti al bisogno,anche se ci volle tutta la mia volontà.Pensavo a Katherine, e pregavo chevenisse da me. Pregavo!». Riseseccamente. «Sempre che unacreatura come me possa pregare».

Le dita di Elena erano diventateinsensibili nella sua morsa, ma leicercò di stringerle, per rassicurarlo.

«Vai avanti, Stefan».Non aveva problemi a parlare ora.

Sembrava quasi aver dimenticato lasua presenza, come se stesseraccontando questa storia a se stesso.

«Il mattino dopo il bisogno era piùforte. Era come se le mie stesse venefossero secche e screpolate, con undisperato bisogno di liquidi. Sapevodi non poterlo sopportare a lungo.

Andai nelle camere di Katherine.Volevo chiederle, implorarla...», glisi incrinò la voce. Si interruppe e poicontinuò. «Ma c'era già Damon, cheaspettava fuori dalle stanze. Capii

c h e lui non aveva resistito albisogno. Me lo dicevano il coloritodella sua pelle, lo slancio nella suacamminata. Aveva l'aria soddisfattadi un bambino che ha appena rubatola marmellata.

Ma non aveva avuto Katherine."Bussa quanto vuoi", mi disse, "ma ladragonessa qua dentro non ti faràpassare. Ci ho già provato.Potremmo sopraffarla noi due, no?".

Non gli risposi. L'espressione sulsuo volto, quell'espressione astuta ecompiaciuta mi ripugnava. Bussaicosì forte da svegliare...». Esitò, e

poi fece un'altra risata amara. «Stavoper dire "da svegliare un morto". Mai morti non sono così difficili dasvegliare dopo tutto, no?». Dopo unmomento, continuò:

«La cameriera, Gudren, aprì laporta. La sua faccia era come undisco piatto e bianco, gli occhi comevetro nero. Le chiesi se potevovedere la sua padrona. Mi aspettavoche dicesse che Katherine stavadormendo, invece Gudren si limitò aguardare prima me, poi Damon dasopra la mia spalla.

"Non ho voluto dirlo a lui",

rispose alla fine, "ma lo dirò a te. Lamia signora Katherine non è in casa.È uscita stamattina presto, perpasseggiare nei giardini. Ha dettoche aveva molto bisogno di pensare".

Fui sorpreso. "Stamattina presto?",chiesi.

"Sì", rispose. Guardò sia Damonche me senza simpatia. "La miapadrona era molto infelice la scorsanotte", disse allusiva. "Ha pianto,tutta la notte".

Quando disse così, provai unastrana sensazione. Non era solovergogna e dolore per il fatto che

Katherine fosse così infelice. Erapaura. Dimenticai la fame e ladebolezza. Dimenticai perfino la miaostilità verso Damon. Avevo fretta euna sensazione di impellenza. Mivoltai verso Damon e gli dissi chedovevamo trovare Katherine, e conmia sorpresa lui si limitò ad annuire.

Cominciammo a perlustrare igiardini, gridando il nome diKatherine. Ricordo esattamentel'aspetto di ogni cosa quel giorno. Ilsole brillava sopra gli alti cipressi ei pini nel giardino. Damon e io ciprecipitammo lì in mezzo,

muovendoci sempre piùvelocemente, e chiamandola.Continuammo a chiamarla...».

Elena percepiva i tremiti nel corpodi Stefan, comunicatigli attraverso lastretta delle dita. Il respiro erarapido e corto.

«Avevamo quasi raggiuntol'estremità dei giardini quando mivenne in mente un posto cheKatherine aveva amato. Era pocolontano nel parco, un muro basso difianco all'albero di limoni. Miprecipitai là, chiamandola a granvoce. Ma avvicinatomi, smisi di

chiamare. Ebbi... paura... unaterribile premonizione. E sapevo chenon dovevo... non dovevo andare...».

«Stefan!», disse Elena. Le stavafacendo male, stringendole le dita,stritolandole quasi. I tremiti che gliattraversavano il corpo aumentavano,diventando scosse. «Stefan, perfavore!».

Ma lui non diede segno di averlasentita. «Era come... un incubo... tuttoaccadde così lentamente. Nonriuscivo a muovermi... eppuredovevo. Dovevo continuare acamminare. A ogni passo, la paura

diventava più forte. Ne sentivol'odore. Odore come di grassobruciato. Non devo andare là... nonvoglio vedere...».

Parlava con voce alta e insistentee respirava affannosamente. Avevagli occhi spalancati e dilatati, comeun bambino terrorizzato. Con l'altramano Elena gli afferrò le dita chestringevano come una morsa,avvolgendole completamente.«Stefan, va tutto bene. Non seilaggiù. Sei qui con me».

«Non voglio vederlo... ma nonposso evitarlo. C'è qualcosa di

bianco. Qualcosa di bianco sottol'albero. Non costringermi aguardarlo!».

«Stefan, Stefan, guardami!».Lui non la sentiva più. Le parole

venivano con ritmo irregolare, comese non riuscisse a controllarle, nonpotesse pronunciarle abbastanzavelocemente. «Non possoavvicinarmi di più... ma lo faccio.Vedo un albero, il muro. E quelbianco. Dietro l'albero. Bianco condell'oro sotto. E allora capisco,capisco e mi avvicino perché si trattadel suo vestito. Il vestito bianco di

Katherine. E giro intorno all'albero elo vedo a terra ed è vero. È il vestitodi Katherine», alzò la voce incrinataper un orrore inimmaginabile, «maKatherine non è lì».

Elena sentì un brivido, come se sifosse immersa in acqua ghiacciata.Le venne la pelle d'oca, e cercò diparlargli senza riuscirci. Stefancontinuava a parlareincessantemente, come se questotenesse alla larga il terrore.

«Katherine non è lì, quindi forse ètutto uno scherzo, ma il suo vestito èper terra ed è pieno di cenere. Come

le ceneri in un focolare, proprio così,solo che queste puzzano di carnebruciata. L'odore mi dà la nausea e levertigini. Di fianco alla manica delvestito c'è un pezzo di pergamena. Esu un sasso, su un sasso poco distantec'è un anello. Un anello con unapietra blu, l'anello di Katherine.L'anello di Katherine...».All'improvviso, urlò con voceterribile: «Katherine, cos'hai fatto?».Poi cadde in ginocchio, lasciandofinalmente le dita di Elena, peraffondare il viso fra le mani.

Elena lo strinse mentre veniva

colto da singhiozzi convulsi. Lostrinse per le spalle, attirandolo nelsuo grembo. «Katherine si è sfilatal'anello», mormorò. Non era unadomanda. «Si è esposta al sole».

Lui continuò a singhiozzare forte,mentre Elena lo stringeva fra lelunghe gonne del vestito azzurro,carezzandogli le spalle tremanti.Mormorava parole senza senso percalmarlo, per scacciare il suo stessoorrore. E, presto, lui si tranquillizzòe alzò la testa. Parlava in modoconfuso, ma sembrava ritornato alpresente.

«La pergamena era un messaggio,per me e per Damon. Diceva che erastata egoista a volere tutti e due.Diceva... che non poteva sopportaredi essere la causa della discordia tranoi. Sperava che una voltaandatasene non ci saremmo più odiatia vicenda. Lo fece perriavvicinarci».

«Oh, Stefan», sussurrò Elena.Aveva gli occhi colmi di lacrimebrucianti per la compassione. «Oh,Stefan, mi dispiace tanto. Ma noncapisci, dopo tutto questo tempo, checiò che Katherine ha fatto è

sbagliato? È stato egoista, inoltre, edè stata una sua scelta. In un certosenso, non ha niente a che fare con teo con Damon».

Stefan scrollò la testa come perscuotere via la verità di quelleparole. «Ha dato la sua vita... perquesto. Noi l'abbiamo uccisa». Oraera seduto. Ma aveva ancora gliocchi dilatati, come grossi dischineri, e l'aria di un bambino confuso.

«Damon arrivò dietro di me. Preseil messaggio e lo lesse. E poi...penso che sia impazzito. Io avevoraccolto l'anello di Katherine, e lui

tentò di prendermelo. Non avrebbedovuto. Lottammo. Ci dicemmo coseterribili. Ognuno incolpò l'altro diquanto era successo. Non ricordocome ritornammo a casa; maall'improvviso avevo in mano la miaspada. Stavamo lottando. Volevodistruggere quell'espressionearrogante per sempre, ucciderlo.Ricordo mio padre in casa cheurlava. Lottammo sempre piùduramente, per farla finita prima checi raggiungesse.

Eravamo alla pari. Ma Damon erasempre stato più forte, e quel giorno

sembrava anche più veloce, come sefosse cambiato più di me. E così,mentre mio padre gridava ancoradalla finestra, sentii la lama diDamon superare la mia guardia. Poila sentii trafiggermi il cuore».

Elena lo fissò, inorridita, ma luicontinuò senza fermarsi. «Sentii ildolore dell'acciaio, lo sentiitrapassarmi, in profondità. Tuttol'affondo, una pugnalata forte. Poi laforza mi abbandonò e caddi. Rimasilaggiù sul pavimento lastricato».

Guardò Elena e finì consemplicità: «Ecco come... sono

morto».Elena rimase seduta, agghiacciata,

come se il ghiaccio che aveva sentitonel petto quella sera fosse fuoriuscitoe l'avesse intrappolata.

«Damon si avvicinò e si chinò sudi me. Sentivo le grida di mio padrein lontananza, e le urla della servitù,ma tutto ciò che vedevo era il voltodi Damon. Quegli occhi neri simili auna notte senza luna. Volevo ferirloper ciò che mi aveva fatto. Per tuttociò che aveva fatto a me, e aKatherine». Stefan tacque unmomento, poi disse, quasi sognante:

«Così alzai la spada e lo uccisi. Conle ultime forze rimaste, trafissi miofratello al cuore».

Il temporale era passato, e

attraverso la finestra rotta Elenasentiva i sommessi rumori notturni, ilfrinire dei grilli, il vento che siinsinuava tra gli alberi. In camera diStefan era tutto immobile.

«Rimasi incosciente finché mirisvegliai nella mia tomba», disseStefan. Si piegò all'indietro,allontanandosi da lei, e chiuse gliocchi. Aveva il viso tirato e stanco,

ma quella terribile espressionetrasognata e infantile era sparita.

«Sia Damon che io avevamo presoil sangue di Katherine in quantitàappena sufficiente da impedirci dimorire veramente. Invececambiammo. Ci svegliammo insiemenella tomba, vestiti con i nostri abitimigliori, adagiati sulle lastre fianco afianco. Eravamo troppo deboli perpoterci ancora nuocere a vicenda; ilsangue era bastato a malapena.Eravamo anche confusi. ChiamaiDamon, ma lui scappò fuori nellanotte.

Fortunatamente, eravamo statiseppelliti con gli anelli cheKatherine ci aveva dato. E io trovaiil suo anello nella mia tasca».Inconsciamente, Stefan accarezzò ilcerchietto d'oro. «Suppongo abbianopensato che me l'avesse dato lei.

Tentai di andare a casa. Fu unacosa stupida. La servitù urlòvedendomi e corse a chiamare unprete. Io scappai. Nel solo postodove ero al sicuro, nelle tenebre.

Ed è là che sono rimasto da allora.È quella la mia casa, Elena. Houcciso Katherine con il mio orgoglio

e la gelosia, e ho ucciso Damon conil mio odio. Ma ho fatto qualcosa dipeggio che uccidere mio fratello.L'ho dannato.

Se non fosse morto allora, con ilsangue di Katherine così forte nellesue vene, avrebbe avuto unapossibilità. Col tempo il sangue sisarebbe indebolito, e poi sarebbescomparso. Sarebbe ridiventato unnormale essere umano. Uccidendoloallora, l'ho condannato a vivere nellanotte. Gli ho tolto la sola possibilitàdi salvezza».

Stefan rise amaramente. «Sai cosa

significa il nome Salvatore initaliano, Elena? Significa "salvezza,colui che salva". Io porto quel nome,e quello di Santo Stefano, il primomartire. E invece ho condannato miofratello all'inferno».

«No», disse Elena. E poi, convoce più forte, aggiunse: «No,Stefan. Si è condannato da solo. Haucciso te. Ma cosa gli è successodopo?»

«Per un po' si unì a una compagniadi ventura, mercenari spietati il cuilavoro era derubare e saccheggiare.Vagò per il paese con loro,

combattendo e bevendo il sanguedelle sue vittime.

Io vivevo oltre le porte della cittàallora, mezzo morto di fame,cacciando animali, io stesso unanimale. Per molto tempo, non ebbinotizie di Damon. Poi un giornosentii la sua voce nella mia mente.

Era più forte di me, perché bevevasangue umano. E uccideva. Gli umanihanno l'essenza vitale più forte, e illoro sangue dà potere. E quandovengono uccisi, in qualche modo laloro essenza vitale è la più forte inassoluto. È come se in quegli ultimi

istanti di terrore e di lotta l'animafosse più viva. Siccome Damonuccideva esseri umani, era in gradodi attingere ai Poteri meglio di me».

«Quali... poteri?», chiese Elena. Sistava formando un'idea.

«La forza, come hai detto tu, e larapidità. Un acuirsi di tutti i sensi,specialmente di notte. Questi sono iPoteri di base. Possiamo anche...sentire le menti. Percepiamo la loropresenza, e a volte la natura dei loropensieri. Possiamo confondere lementi più deboli, o per sopraffarle oper piegarle alla nostra volontà. Ce

ne sono altri. Con abbastanza sangueumano possiamo cambiare forma,diventare animali. E più uccidi, piùforti diventano tutti i tuoi Poteri.

La voce di Damon nella mia menteera molto forte. Diceva che eradiventato il condottiere della suacompagnia e che stava ritornando aFirenze. Diceva che se fossi stato làal suo ritorno mi avrebbe ucciso. Glicredetti, e partii. Da allora l'ho vistoun paio di volte. La minaccia èsempre la stessa, e lui è sempre piùpotente. Damon ha sfruttato al megliola sua natura, e sembra godere del

suo lato più oscuro.«Ma è anche la mia natura. Le

stesse tenebre sono dentro di me.Pensavo di poterle vincere, ma misbagliavo. Ecco perché sono venutoqui, a Fell's Church. Pensavo che semi fossi sistemato in una piccolacittadina, lontano dai vecchi ricordi,avrei potuto sfuggire alle tenebre. Einvece, stanotte, ho ucciso un uomo».

«No», esclamò Elena con forza.«Non ci credo, Stefan». La sua storial'aveva riempita di orrore e pietà... eanche paura. Doveva ammetterlo. Mala sua ripugnanza era svanita, e di

una cosa era sicura: Stefan non era unassassino. «Cos'è successo stanotte,Stefan? Hai litigato con Tanner?»

«Io... non ricordo», risposecupamente. «Ho usato il Potere perconvincerlo a fare ciò che volevi.Poi me ne sono andato. Ma più tardimi sono sentito sopraffatto davertigini e debolezza. Com'erasuccesso prima». La guardò in mododiretto. «L'ultima volta è successonel cimitero, proprio vicino allachiesa, la notte che Vickie Bennett èstata aggredita».

«Ma non sei stato tu. Non puoi

essere stato tu... Stefan?»«Non lo so», rispose aspro.

«Quale altra spiegazione puòesserci? E ho davvero bevuto ilsangue del vecchio sotto il ponte,quella notte che voi ragazze sietescappate dal cimitero. Avrei giuratodi non averne bevuto abbastanza danuocergli, ma è quasi morto. Ed erosempre presente quando Vickie eTanner sono stati aggrediti».

«Ma non ti ricordi di averliaggrediti», disse Elena, sollevata.L'idea che le si stava sviluppandonella mente era ormai quasi una

certezza.«Che differenza fa? Chi altri può

essere stato, a parte me?»«Damon», rispose Elena.Stefan trasalì e lei lo vide

irrigidire di nuovo le spalle. «È unabella idea. All'inizio speravo chepotesse esserci una spiegazione comequesta. Che potesse essere qualcunaltro, qualcuno come mio fratello.Ma ho cercato con la mente e non hotrovato niente, nessun'altra presenza.La spiegazione più semplice è chesono io l'assassino».

«No», replicò Elena, «non capisci.

Non voglio semplicemente dire chequalcuno come Damon potrebbe averfatto ciò che abbiamo visto. Vogliodire che Damon è qui, a Fell'sChurch. L'ho visto».

Stefan la fissò.«Dev'essere lui», continuò Elena,

facendo un profondo respiro. «L'hovisto già due volte, forse tre. Stefan,tu mi hai appena raccontato una lungastoria, e ora ne ho una io daraccontarti».

Il più velocemente esemplicemente possibile, gliraccontò ciò che era successo nella

palestra, e a casa di Bonnie. Stefanascoltò a labbra serrate mentre Elenagli riferiva come Damon avessetentato di baciarla. Le siinfiammarono le guance quandoricordò la propria reazione, come gliavesse quasi ceduto. Ma raccontò aStefan ogni cosa.

Anche a proposito del corvo, e ditutte le altre strane cose che le eranocapitate da quando era tornata a casadalla Francia.

«E, Stefan, penso che Damon fossealla Casa Stregata stanotte», terminò.«Subito dopo che hai avuto le

vertigini, qualcuno mi è passatoaccanto. Era vestito come... come laMorte, con una veste nera e uncappuccio, e non sono riuscita avederlo in faccia. Ma c'era qualcosadi familiare nel modo in cui simuoveva. Era lui, Stefan. Damon eralà».

«Ma questo non spiega ancora lealtre volte. Vickie e il vecchio. Io hodavvero bevuto il sangue delvecchio». Stefan aveva il voltotirato, quasi avesse paura di sperare.

«Ma hai detto tu stesso che non nehai bevuto abbastanza da nuocergli.

Stefan, chi sa cos'è successo aquell'uomo dopo che te ne seiandato? Non sarebbe stata la cosapiù facile del mondo per Damonaggredirlo allora? Specialmente seDamon ti ha spiato per tutto il tempo,forse in qualche altra forma...».

«Come un corvo», mormoròStefan.

«Come un corvo. E quanto aVickie... Stefan, tu hai detto che puoiconfondere le menti più deboli,sopraffarle. Non potrebbe essere ciòche Damon ha fatto a te? Sopraffarela tua mente come tu puoi sopraffare

quella di un umano?»«Sì, e nascondermi la sua

presenza». C'era un crescenteentusiasmo nella voce di Stefan.«Ecco perché non ha risposto allemie chiamate. Voleva...».

«Voleva che accadesse propriociò che è accaduto. Voleva chedubitassi di te stesso, che pensassi diessere un assassino. Ma non è vero,Stefan. Oh, Stefan, ora che lo sai nondevi più aver paura». Si alzò,pervasa di gioia e sollievo. Daquella notte orribile era natoqualcosa di meraviglioso.

«È per questo che eri così distantecon me, vero?», chiese tendendoglile mani. «Perché avevi paura di ciòche potevi fare. Ma non ce n'è piùbisogno».

«Ah no?», respirava di nuovoaffannosamente, e guardò quelle manitese come se fossero due serpenti.«Pensi che non ci sia ragione di averpaura? Può essere stato Damon adaggredire quelle persone, ma lui noncontrolla i miei pensieri. E tu non saiche pensieri ho avuto su di te».

Elena mantenne un tono di vocepacato. «Tu non vuoi farmi del

male», replicò sicura.«No? Ci sono state volte, mentre ti

guardavo tra la gente, in cuisopportavo a stento di non toccarti.In cui la tua gola candida mi tentavacosì tanto, la tua piccola golacandida con quelle pallide veneazzurre sotto pelle...». Le fissava ilcollo con uno sguardo che ricordavaquello di Damon, ed Elena sentì ilsuo battito accelerare. «Volte in cuiho pensato di prenderti con la forzaproprio là, nella scuola».

«Non hai bisogno di prendermicon la forza», rispose Elena. Sentiva

il proprio battito ovunque oramai; neipolsi e nella parte interna deigomiti... e nella gola. «Ho preso lamia decisione, Stefan», dissedolcemente, sostenendo il suosguardo. «Lo voglio».

Lui deglutì a fatica. «Non sai cosastai chiedendo».

«Penso di sì. Mi hai raccontatocom'è stato con Katherine, Stefan.Voglio che sia così fra noi. Non dicoche voglio che tu mi cambi. Mapossiamo condividerne un po' senzache questo accada, vero? So»,aggiunse, ancora più dolcemente,

«quanto amavi Katherine. Ma lei nonc'è più ora, e io sono qui. E ti amo,Stefan. Voglio stare con te».

«Non sai di cosa stai parlando!».Stava in piedi rigido, l'espressionefuriosa, lo sguardo tormentato. «Semi lascio andare una volta, cosa mitratterrà dal cambiarti, o ucciderti?La passione è più forte di quanto tupossa immaginare. Non capisciancora cosa sono, cosa posso fare?».

Lei rimase là, guardandolo insilenzio, il mento leggermente alzato.Questo sembrò infuriarlo.

«Non hai visto ancora abbastanza?

O devo mostrarti di più? Non riesci aimmaginare cosa potrei farti?». Siavvicinò a grandi passi al camino eafferrò un lungo pezzo di legno, piùgrosso di entrambi i polsi di Elena.Con una mossa, lo spezzò in duecome uno stuzzicadenti. «Le tuefragili ossa», disse.

Dall'altra parte della stanza c'eraun cuscino del letto; lo raccolse econ un'unghiata ridusse la federa diseta a strisce. «La tua pelledelicata». Poi si diresse verso Elenacon rapidità sovrannaturale; in unattimo era là e le aveva afferrato le

spalle prima che lei si rendesseconto di ciò che stava succedendo.La guardò in viso per un istante, poi,con un sibilo selvaggio che le fecerizzare i peli del collo, ritrasse lelabbra.

Era lo stesso ringhio che avevavisto sul tetto, quei denti bianchiscoperti, i canini incredibilmentelunghi e affilati. Erano le zanne di unpredatore, un cacciatore. «Il tuocollo bianco», disse con vocedistorta.

Elena rimase paralizzata ancora unistante, fissando come se fosse

costretta quel volto raggelante, e poiqualcosa dal profondo del suoinconscio prese il sopravvento. Siinfilò nella morsa delle sue bracciaprendendogli il viso fra le mani.Aveva le guance fredde contro i suoipalmi. Lo tenne in quel modo,delicatamente, molto delicatamente,quasi a rimproverargli la forte strettasulle spalle nude. E vide laconfusione manifestarsi lentamentesul suo volto, man mano che sirendeva conto che Elena non volevaopporsi a lui o respingerlo.

Elena aspettò che quella

confusione raggiungesse gli occhi,placando il suo sguardo, che divennequasi implorante. Sapeva di avereun'espressione impavida, dolceeppure intensa, le labbra socchiuse.Respiravano entrambiaffannosamente ora, insieme, con lostesso ritmo. Elena lo sentìrabbrividire, tremare come quando iricordi di Katherine erano diventatiinsopportabili. Poi, deliberatamentee con molta dolcezza, la ragazzaattirò quella bocca ringhiante versola sua.

Lui cercò di opporsi. Ma la sua

dolcezza era più forte di tutta quellaforza inumana. Lei chiuse gli occhi epensò solo a Stefan, non alle cosespaventose che aveva appreso quellanotte ma a Stefan, che avevaaccarezzato i suoi capelli con grandelicatezza, quasi che lei gli sipotesse rompere fra le mani. Pensò aquesto, e baciò quella bocca dapredatore che l'aveva minacciatapochi minuti prima.

Allora percepì il cambiamento, latrasformazione della sua boccaquando lui cedette, non potendo farealtro che risponderle, ricambiando i

suoi teneri baci con uguale tenerezza.Percepì il brivido che attraversò ilcorpo di Stefan mentre anche la fortestretta sulle sue spalle si addolciva,trasformandosi in abbraccio. E seppedi aver vinto.

«Non mi farai mai del male»,sussurrò.

Fu come se, baciandosi,scacciassero tutta la paura, ladesolazione e la solitudine cheavevano dentro. Elena sentì lapassione irrompere in lei come unlampo estivo, e Stefan ricambiarlacon la stessa passione. Ma ogni altra

cosa era permeata di una dolcezzaquasi spaventosa nella sua intensità.Non c'era bisogno di fretta oveemenza, pensò Elena mentre Stefandelicatamente la faceva sedere.

Pian piano, i baci diventarono piùinsistenti, ed Elena sentì quel lampoestivo guizzare in tutto il corpo,elettrizzarlo, farle battere il cuore etrattenere il fiato. La faceva sentirestranamente debole e stordita, lefaceva chiudere gli occhi e piegare latesta indietro abbandonata.

È venuto il momento, Stefan,pensò. E, molto delicatamente, attirò

di nuovo la bocca del ragazzo a sé,questa volta alla gola. Sentì le suelabbra sfiorarle la pelle, sentì il suorespiro caldo e freddo allo stessotempo. Poi sentì una fitta acuta.

Ma il dolore svanì quasiimmediatamente. Fu sostituito da unasensazione di piacere che la facevatremare. Una grande dolcezzaimpetuosa la invase, fluendo inStefan attraverso lei.

Alla fine si ritrovò a fissargli ilviso, un volto che finalmente nonalzava barriere contro di lei, né muri.E lo sguardo che vide la fece sentire

debole.«Ti fidi di me?», lui sussurrò. E

quando lei si limitò ad annuire, luisostenne il suo sguardo e afferròqualcosa di fianco al letto. Era ilpugnale. Lei lo osservò senza paura,e poi fissò gli occhi sul suo volto.

Stefan non distolse mai lo sguardomentre sguainava la lama e sitagliava leggermente alla base delcollo. Elena lo guardò a occhispalancati, quel sangue rosso accesocome le bacche di agrifoglio, maquando lui la esortò non tentò diresistergli.

Poi Stefan la abbracciò a lungo,mentre i grilli fuori intonavano laloro musica. Alla fine si mosse.

«Vorrei che tu potessi restarequi», mormorò. «Vorrei che potessirestare per sempre. Ma non puoi».

«Lo so», rispose Elena, altrettantodolcemente. I loro sguardi siincrociarono ancora in silenziosacomunione. C'erano molte cose dadire, molte ragioni per stare insieme.«Domani», disse lei. Poi,appoggiandosi alla sua spalla,sussurrò: «Qualunque cosa accada,Stefan, starò con te. Dimmi che mi

credi».La sua voce era sommessa, attutita

dai capelli di lei. «Oh, Elena, ticredo. Qualunque cosa accada,staremo insieme».

Capitolo 15

Non appena ebbe lasciato Elena acasa sua, Stefan andò nel bosco.

Prese la Old Creek Road,guidando, sotto le nuvole fosche chenon lasciavano filtrare neanche unpezzetto di cielo, verso il posto doveaveva parcheggiato il primo giornodi scuola.

Lasciata la macchina, tentò diripercorrere i suoi passi esattamentefino alla radura dove aveva visto ilcorvo. I suoi istinti da cacciatore lo

aiutarono, ricordandogli la forma diun cespuglio o di una radice nodosa,finché arrivò nello spiazzo apertocircondato da vecchie querce.

Qui. Sotto questa coperta di fogliemarrone sporco, poteva ancorarimanere qualche osso del coniglio.

Inspirando a lungo per calmarsi,per raccogliere i Poteri, lanciò unpensiero indagatore, inquisitorio.

E per la prima volta da quando eraarrivato a Fell's Church, sentì unbarlume di risposta. Ma sembravadebole e titubante, e non riuscì acollocarlo.

Sospirando, si voltò... e si fermòdi colpo.

Damon stava davanti a lui, lebraccia incrociate sul petto,appoggiato alla quercia più grossa.Aveva l'aria di stare lì da ore.

«Allora», disse Stefan lentamente,«è vero. È da tanto che non civediamo, fratello».

«Non tanto quanto pensi, fratello».Stefan ricordava quella voce, quellavoce vellutata e ironica. «Ti hotenuto d'occhio nel corso degli anni»,continuò calmo Damon. Scosse unpezzo di corteccia dalla manica del

giubbotto di pelle con la stessanoncuranza con cui una volta si eraaggiustato i polsini di broccato. «Main fondo, non potevi saperlo, no? Ah,no, i tuoi Poteri sono deboli comesempre».

«Stai attento, Damon», disseStefan a bassa voce, minaccioso.«Stai molto attento stanotte. Nonsono di umore tollerante».

«Santo Stefan stizzito? Pensa unpo'. Sei un po' stressato a causa dellemie piccole incursioni nel tuoterritorio, immagino. L'ho fatto soloperché volevo starti vicino. I fratelli

dovrebbero stare vicini».«Hai ucciso, stanotte. E hai

cercato di farmi credere di esserestato io».

«Sei proprio sicuro di non esseretu? Forse l'abbiamo fatto insieme.Attento!», disse mentre Stefan gli siavvicinava. «Neanche il mio umore èdei più tolleranti stanotte. Io ho presosolo un piccolo insegnante di storiarinsecchito, tu una bella ragazza».

La furia di Stefan aumentò,concentrandosi all'apparenza in ununico punto incandescente, come unsole dentro di lui. «Sta' lontano da

Elena», mormorò così minacciosoche Damon tirò davvero un po'indietro la testa. «Sta' lontano da lei,Damon. So che l'hai spiata, che l'haiosservata. Ma ora basta. Avvicinatiancora a lei e te ne pentirai».

«Sei sempre stato egoista. La tuaunica colpa. Non vuoi condividereniente, vero?». All'improvviso, lelabbra di Damon si incurvarono in unsorriso di singolare bellezza. «Maper fortuna la bella Elena è piùgenerosa. Non ti ha parlato dellanostra piccola relazione? Caspita,quando ci siamo conosciuti si è quasi

concessa a me lì sul posto».«Questa è una bugia!».«Oh, no, caro fratello. Non mento

mai sulle cose importanti. O volevodire non importanti? Comunque, latua leggiadra donzella mi è quasisvenuta fra le braccia. Secondo me lepiacciono gli uomini vestiti di nero».Mentre Stefan lo guardava, cercandodi controllare il respiro, Damonaggiunse, quasi con delicatezza: «Tisbagli su di lei, sai. Pensi che siatenera e docile, come Katherine. Nonlo è. Non è affatto il tuo tipo, miosanto fratello. Ha uno spirito e un

fuoco che non sapresti neanchemaneggiare».

«Invece tu sì, immagino».Damon distese le braccia e

lentamente sorrise di nuovo. «Oh,sì».

Stefan voleva balzargli addosso,distruggere quel sorriso bellissimo earrogante, dilaniare la gola diDamon. Disse, con voce a stentocontrollata: «Hai ragione su unacosa. Lei è forte. Abbastanza forte darespingerti. E ora che sa chi seiveramente, lo farà. Tutto ciò cheprova per te adesso è ripugnanza».

Damon inarcò le sopracciglia.«Ma davvero? Lo vedremo. Forsescoprirà che le vere tenebre sono piùdi suo gusto del tenue crepuscolo. Io,almeno, sono capace di ammettere laverità sulla mia natura. Ma adesso mipreoccupo per te, fratellino. Sembridebole e malnutrito. Lei ti provoca,eh?».

Uccidilo, chiedeva qualcosa nellamente di Stefan. Uccidilo, spezzagliil collo, fagli la gola a brandelli. Masapeva che Damon si era nutritomolto bene quella notte. L'aura scuradi suo fratello era gonfia, pulsante,

quasi brillava dell'essenza vitale cheaveva preso.

«Sì, ho bevuto a fondo», disseDamon amabilmente, come sesapesse ciò che Stefan aveva inmente. Sospirò e si passò la linguasulle labbra con aria soddisfatta alricordo. «Era piccolo, ma aveva unasorprendente quantità di succo. Nonpiacevole come Elena, e di certo nonaveva quel buon odore. Ma è semprestimolante sentire il sangue frescoche canta dentro di te». Damonrespirò profondamente,allontanandosi dall'albero e

guardandosi attorno. Stefan ricordavaanche quei movimenti pieni di grazia,ogni gesto controllato e preciso. Isecoli non avevano fatto altro cheraffinare il naturale portamento diDamon.

«Mi fa venir voglia di farequesto», disse Damon, dirigendosiverso un alberello a pochi metri didistanza. Era alto il doppio di lui, equando lo afferrò, le dita non sirichiudevano intorno al tronco. MaStefan vide il respiro rapido e ilguizzo dei muscoli sotto la sottilecamicia nera di Damon, e poi

l'albero si staccò dal suolo, le radicia mezz'aria. Stefan sentiva l'odorepungente di umidità della terrasmossa.

«Non mi piaceva là comunque»,disse Damon, e lo sollevò tanto inalto quanto le radici ancoraimpigliate gli permettevano. Poisorrise in modo attraente. «Mi favenir voglia di fare anche questo».

Con un movimento rapidissimoDamon era sparito. Stefan si guardòintorno ma non vide traccia di lui.

«Qui sopra, fratello». La voceveniva dall'alto, e quando Stefan

guardò in su vide Damon appollaiatosui rami allargati della quercia. Ci fuun fruscio di foglie rossicce, e poisparì di nuovo.

«Qui dietro, fratello». Stefan sivoltò sentendosi toccare la spalla,ma non trovò niente dietro di sé.«Proprio qui, fratello». Si voltòancora. «No, prova qui». Furioso,Stefan si girò dall'altra parte,cercando di afferrare Damon. Ma lesue dita ghermirono solo l'aria.

"Qui, Stefan". Questa volta la voceera nella sua mente, e il suo Potere loscosse profondamente. Ci voleva

un'enorme forza per proiettare ipensieri in modo così chiaro.Lentamente, si voltò ancora unavolta, e vide Damon di nuovo nellasua posizione originaria, appoggiatoalla grande quercia.

Ma questa volta l'ironia erasvanita da quegli occhi scuri. Eranoneri e senza fondo, e Damon aveva lelabbra serrate.

"Quali altre prove ti servono,Stefan? Sono molto più forte di te,come tu sei più forte di questipatetici umani. Sono anche piùveloce di te, e ho altri Poteri di cui tu

hai a stento sentito parlare. GliAntichi Poteri, Stefan. E non hopaura di usarli. Se mi combatti, liuserò contro di te".

«È per questo che sei venuto? Pertorturarmi?».

"Sono stato misericordioso con te,fratello. Molte volte avrei potutoucciderti, invece ti ho semprerisparmiato la vita. Ma questa volta èdiverso". Damon si allontanò ancoradall'albero e parlò ad alta voce. «Tiavverto, Stefan, non opporti a me.Non importa perché sono venuto qui.Ciò che voglio adesso è Elena. E se

cercherai di impedirmi di prenderla,ti ucciderò».

«Provaci», replicò Stefan. Ilpuntino incandescente di furoredentro di lui bruciava piùabbagliante che mai, riversando ilsuo fulgore come un'intera galassia distelle. Sapeva, in qualche modo, cheminacciava l'oscurità di Damon.

«Pensi che non possa farlo? Nonimpari mai, vero, fratellino?». Stefanebbe appena il tempo di notare cheDamon scrollava stancamente la testaquando avvertì un altro movimentofulmineo e si sentì afferrare da mani

robuste. Cominciò subito a lottare,con violenza, cercando con tutte leforze di togliersele di dosso. Maerano mani d'acciaio.

Picchiò selvaggiamente, cercandodi colpire il punto più vulnerabilesotto la mascella di Damon. Nonservì a niente; aveva le bracciabloccate dietro la schiena, il corpoimmobilizzato. Era indifeso come unuccellino sotto gli artigli di un gattosnello ed esperto.

Si afflosciò per un istante, come unpeso morto, e poi all'improvvisoscattò con tutti i muscoli, cercando di

liberarsi, cercando di assestare uncolpo. Quelle mani crudeli silimitarono a stringersi su di lui,rendendo i suoi sforzi inutili.Patetici.

"Sei sempre stato testardo. Forsequesto ti convincerà". Stefan guardòsuo fratello in faccia, che era pallidacome le finestre di vetro smerigliatoalla pensione, e in quegli occhi neri esenza fondo. Poi sentì le ditaafferrargli i capelli, tirargli indietrola testa, esponendo la gola.

Gli sforzi raddoppiarono,diventando frenetici. "Non

disturbarti", disse la voce nella suatesta, e poi sentì il dolore acuto elacerante dei denti. Provòl'umiliazione e l'impotenza dellavittima del cacciatore, dell'animalebraccato, della preda. E poi il doloredel sangue toltogli contro la suavolontà.

Si rifiutò di arrendersi, e il dolorepeggiorò, come se la sua anima sistesse staccando, allo stesso mododell'albero divelto. Lo trafiggevacome una lancia di fuoco,concentrandosi sulle punture nellasua carne, dove Damon aveva

affondato i denti. Il bruciore siallargò alla mascella e alla guancia escese al petto e alla spalla. Sentìun'ondata di vertigini e capì chestava perdendo conoscenza.

Poi, improvvisamente, quelle manilo lasciarono andare e cadde alsuolo, su un letto di foglie di querciaumide e sbriciolate. Ansimando, simise dolorosamente carponi.

«Vedi, fratellino, sono più forte dite. Abbastanza forte da prenderti,prendere il tuo sangue e la tua vita sevoglio. Lascia Elena a me, o lofarò».

Stefan guardò in su. Damon era inpiedi con la testa all'indietro, legambe leggermente divaricate, comeun conquistatore che poggia il piedesul collo della vittima conquistata.Quegli occhi neri come la nottebruciavano trionfanti, e il sangue diStefan era sulle sue labbra.

Stefan fu sopraffatto dall'odio, unodio che non aveva mai sentitoprima. Fu come se tutto il suo odioprecedente per Damon fosse statouna goccia d'acqua in confronto aquesto oceano fragoroso e fumante.Molte volte negli ultimi lunghi secoli

aveva provato rimorso per ciò cheaveva fatto a suo fratello, e avrebbevoluto con tutta l'anima tornareindietro. Ora voleva solo rifarlo.

«Elena non è tua», disse roco,rimettendosi in piedi, tentando di nonrivelare quale sforzo gli costasse. «Enon lo sarà mai». Concentrandosi suogni passo, mettendo un piededavanti all'altro, cominciò adandarsene. Tutto il corpo gli doleva,e la vergogna che sentiva era ancorapiù grande del dolore fisico. Avevapezzetti di foglie umide e zolle diterra attaccati ai vestiti, ma non se ne

curò. Lottò per continuare amuoversi, per resistere alladebolezza che gli avvolgeva gli arti.

"Non impari mai, fratello".Stefan non si guardò indietro né

tentò di rispondere. Strinse i denti econtinuò a muovere le gambe. Unaltro passo. E un altro passo. E unaltro passo.

Se avesse potuto sedersi solo perun momento, riposare...

Un altro passo, e un altro passo.L'auto non poteva essere lontana,oramai. Le foglie gli scricchiolavanosotto i piedi, e poi sentì altre foglie

scricchiolare dietro di sé.Cercò di voltarsi velocemente, ma

i riflessi erano quasi spariti. E quelmovimento brusco fu troppo per lui.L'oscurità lo avvolse, gli avvolse ilcorpo e la mente, e cadde. Cadde persempre nel nero della notte assoluta.E poi, pietosamente, perseconoscenza.

Capitolo 16

Elena si affrettò verso il Robert E.Lee, con la sensazione di essernestata lontana per anni. La notteprecedente sembrava appartenerealla sua lontana infanzia, un ricordostentato. Ma sapeva che quel giornoci sarebbero state delle conseguenzeda affrontare.

La notte precedente aveva dovutoaffrontare zia Judith. Sua zia erarimasta terribilmente sconvoltaquando i vicini le avevano raccontato

dell'omicidio, e ancora più sconvoltadal fatto che nessuno sembravasapere dove fosse Elena. QuandoElena era tornata a casa, quasi alledue del mattino, la zia era stravoltadalla preoccupazione.

Elena non era stata in grado difornire una spiegazione. Seppe solodire che era stata con Stefan, e chesapeva che lui era stato accusato, eche sapeva che era innocente. Tutto ilresto, tutto ciò che era successo,aveva dovuto tenerlo per sé. Anchese zia Judith le avesse creduto, nonavrebbe mai capito.

Quella mattina Elena avevadormito troppo, e ora era in ritardo.Per strada non c'era nessuno a partelei, mentre si affrettava verso lascuola. In alto, il cielo era grigio e sistava alzando il vento. Volevadisperatamente vedere Stefan. Tuttala notte, mentre dormiva cosìprofondamente, aveva avuto incubisu di lui.

Un sogno in particolare erasembrato reale. In esso vedeva ilvolto pallido di Stefan e i suoi occhiarrabbiati e accusatori. Le teneva unlibro davanti agli occhi e diceva:

«Come hai potuto, Elena? Come haipotuto?». Poi faceva cadere il libroai suoi piedi e se ne andava. Lei lochiamava, implorante, ma luicontinuava a camminare fino asparire nell'oscurità. Quando leiguardò il libro, vide che era rilegatoin velluto blu scuro. Il suo diario.

Un brivido di rabbia la attraversòmentre ripensava a come era statorubato il suo diario. Ma cosasignificava il sogno? Cosa c'era nelsuo diario da provocare quellareazione in Stefan?

Non lo sapeva. Tutto ciò che

sapeva era che aveva bisogno divederlo, di sentire la sua voce, diavere le sue braccia intorno a sé.Stare lontana da lui era come essereseparata dalla propria carne.

Fece di corsa le scale del liceofino ai corridoi quasi deserti. Sidiresse verso l'aula di linguestraniere, perché sapeva che la primalezione di Stefan era latino. Seavesse potuto vederlo solo per unmomento, sarebbe andato tutto bene.

Ma lui non era in classe.Attraverso la finestrella nella porta,vide il suo posto vuoto. Matt c'era, e

l'espressione sul suo volto laspaventò più che mai. Continuava aguardare il banco di Stefan con ariadi grande apprensione.

Elena diede meccanicamente lespalle alla porta. Come un automa,salì le scale ed entrò nella sua classedi trigonometria. Quando aprì laporta, vide ogni faccia voltarsi versodi lei, allora si infilò veloce nelbanco vuoto di fianco a Meredith.

La signora Halpern interruppe lalezione per un momento e la guardò,poi continuò. Quando l'insegnante sigirò verso la lavagna, Elena guardò

Meredith.Meredith si allungò per prenderle

la mano. «Va tutto bene?», sussurrò.«Non lo so», rispose Elena

intontita. Si sentiva come se fosseproprio l'aria intorno a lei asoffocarla, come se fosse avvolta daun peso opprimente. Le dita diMeredith erano secche e calde altatto. «Meredith, sai cos'è successo aStefan?»

«Vuoi dire che tu non lo sai?», gliocchi scuri di Meredith sispalancarono, ed Elena sentì il pesodiventare ancora più opprimente. Era

come nuotare in acque moltoprofonde senza una tuta pressurizzata.

«Non lo hanno... arrestato, vero?»,chiese, pronunciando a fatica leparole.

«Elena, è ancora peggio. Èscomparso. La polizia è andata allapensione stamattina presto e lui nonc'era. Sono venuti anche a scuola, manon si è fatto vivo oggi. Dicono chehanno trovato la sua autoabbandonata vicino alla Old CreekRoad. Elena, pensano che se ne siaandato, che abbia lasciato la città,perché è colpevole».

«Non è vero», replicò Elena fra identi. Vide la gente voltarsi aguardarla, ma non le importava. «Èinnocente!».

«So che lo pensi, Elena, ma perquale altro motivo se ne sarebbeandato?»

«Non lo avrebbe fatto. Non l'hafatto». Qualcosa bruciava dentroElena, un fuoco di rabbia cherespingeva la paura che laopprimeva. Respiravaaffannosamente. «Non se ne sarebbemai andato di sua volontà».

«Vuoi dire che qualcuno lo ha

obbligato? Ma chi? Tyler nonoserebbe...».

«Obbligato, o peggio», lainterruppe Elena. L'intera classe lestava guardando ora, e la signoraHalpern aprì la bocca. Elena si alzòimprovvisamente, guardandoli senzavederli. «Che Dio l'aiuti se ha fattodel male a Stefan», disse. «Che Diol'aiuti». Poi si voltò e si diresse allaporta.

«Elena, torna indietro! Elena!».Sentiva le urla dietro di sé, quelle diMeredith e della signora Halpern.Continuò a camminare, sempre più

veloce, vedendo solo ciò che avevadirettamente davanti a sé, la mentefissa su una sola cosa.

Pensavano che stesse andando acercare Tyler Smallwood. Bene.Potevano perdere tempo nelladirezione sbagliata. Lei sapeva cosadoveva fare.

Lasciò la scuola, immergendosinella fresca aria autunnale. Si mossevelocemente, le gambe divorarono ladistanza tra la scuola e la Old CreekRoad. Da lì svoltò verso WickeryBridge e il cimitero.

Un vento gelido le sferzava i

capelli e pizzicava il viso. Le fogliedi quercia volavano intorno a lei,volteggiando nell'aria. Ma laconflagrazione nel suo cuore eraincandescente e quel calore cacciòvia il freddo. Ora sapeva cosasignificava l'espressione furiaestrema. Oltrepassò i faggi viola e isalici piangenti arrivando al centrodel vecchio cimitero e guardandosiintorno con occhi febbrili.

In alto, le nuvole scorrevano comeun fiume color grigio piombo. I ramidi querce e faggi si sferzavanofuriosamente. Una folata le gettò

alcune manciate di foglie in faccia.Era come se il cimitero stessecercando di scacciarla, come se lemostrasse il suo potere, raccogliendole forze per farle qualcosa diterribile.

Elena ignorò tutto. Si girò, losguardo bruciante che perlustrava lelapidi. Poi si voltò e urlòdirettamente nella furia del vento.Solo una parola, ma quella che,sapeva, lo avrebbe portato a lei.

«Damon!».

[Continua]