01-2014 Rischiamo il coraggio

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1 Rischiamo il coraggio Tariffa Assoc. Senza Fini di Lucro: Poste Italiane S.P.A - In A.P -D.L. 353/2003 (Conv. in L. 27/02/ 2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB/43/2004 - Arezzo - Anno XVIII n° 1 / 2014

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Giornalino di Romena n.01/2014 di Marzo 2014

Transcript of 01-2014 Rischiamo il coraggio

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trimestrale Anno XVIII - Numero 1 - Marzo 2014REDAZIONElocalità Romena, 1 - 52015 Pratovecchio (AR)tel. 0575/582060 - [email protected]

DIRETTORE RESPONSABILE:Massimo OrlandiREDAZIONE e GRAFICA:Raffaele Quadri, Massimo Schiavo

FOTO:Piero Checcaglini, Raffaele Quadri, Paolo Dalle Nogare COPERTINA: Paolo Dalle Nogare

HANNO COLLABORATO:Luigi Verdi, Pier Luigi Ricci,Maria Teresa Marra Abignente, Giorgio Bonati

Filiale E.P.I. 52100 ArezzoAut. N. 14 del 8/10/1996

Il giornalino è anche online suwww.romena.it

SOMM

ARIO

Primapagina3

Il coraggio nasce dalla fame 4

Quella forza sottile che sostiene la vita6

La speranza bisogna conquistarsela10

La libertà del rischio 8

La rivoluzione di Papa Francesco14

Il punto di innesto delle ali 12

La storia ha bisogno di noi20

Come un girasole 18

Quindici anni di calore e fantasia 22

La domenica delle famiglie24

Romena Incontri 2014 25

I nuovi spazi di Romena26

Pasqua a Romena29

Veglia di Romena - Prossime tappe 28

Graffiti 30

La cartolina trova spazio nell’unica fessura di quel vagone piombato. Lo percorre all’inverso volando, quasi per salutarlo, poi scivola verso terra finché trova l’ap-poggio di un prato.Qualche giorno dopo un contadino la intercetta per caso nella scia di una falce. La spedisce così al mittente, pensando che l’abbia perduta. Ma Etty Hillesum non potrà rileggerla. Morirà ad Auschwitz pochi giorni dopo aver affidato al vento quel suo ultimo pensiero: “Abbiamo lasciato il campo cantando”.

Vorrei seguire con voi la scia di questa cartolina per provare a dire qualcosa sul coraggio. Mi aiuta una riflessione di Giovanni Vannucci. In un suo incontro il monaco delle Stinche utilizza le leggi della fisica per spiegarci come si muove la vita.Prendete una pietra, ci dice, e poi lasciatela. Cade a terra, naturalmente, per effetto della legge di gravità.Guardate invece una pianta. Ha un peso simile a quello di un solido, ma un movimento contrario: Non scende giù, ma sale, indirizzando verso l’alto i rami e le foglie: è la vita che ha dentro che fa la differenza. Ciò che è inanimato si muove verso il basso, ciò che è vivo segue direzioni diverse: “la vita – ci dice Vannucci - consiste in una prodigiosa violazione di tutte le leggi del mondo fisico”.

Nella nostra realtà quotidiana la forza di gravità è rappresentata dai mille motivi che ciascuno di noi ha per scivolare giù: pesantezze, limiti, paure, destini avversi. Un pool di forze che, con concentrazioni diverse, ci invitano a mollare, a lasciarci cadere. Questa corrente dal pollice verso, specie quando le cose non vanno, ci sembra la più naturale, inevitabile come una legge della fisica. Eppure, se ci guardiamo intorno, ci accorgiamo che non è tutto così scontato: anzi notiamo spesso che proprio dove il peso delle situazioni negative cresce, sale anche la spinta ad opporvisi, che dove sembra inevitabile la disperazione, trova spazi imprevisti la speranza.

Ecco il coraggio: il coraggio consiste nell’ostinata scelta della direzione contraria a quella che ci viene impacchettata dalla sorte, nell’opposizione coriacea alla forza di gravità dell’appiatti-mento, del realismo cupo, dell’apatia.Il coraggio segue la vita sempre, anche quando farlo sembra inutile. A chi scrive quel biglietto Etty, durante il trasferimento dal campo di Westerbork al lager polacco? Lo scrive a chiunque possa raccoglierlo, lo scrive per piantarlo nella vita di chi resterà. “Abbiamo lasciato il campo cantando” non sono le parole di un addio, è la frase di chi vuol far presente che non si può arrestare mai il movimento di ascensione dell’uomo.

Non è una questione di eroismo. Al contrario: se notiamo poco coraggio intorno a noi è perché il coraggio è così sparso nel nostro vivere quotidiano, che spesso non lo riconosciamo. Il coraggio è quello di chi affronta a viso aperto una malattia sua o di un familiare, di chi ha perso tutto ma ricomincia, di chi, se vede un’ingiustizia, la denuncia. È un coraggio che opera forse di più in dimensioni intime che pubbliche, ma che c’è, esiste, tutti ne possiamo disporre.

La radice etimologica della parola coraggio è ‘cor habeo’ ho cuore. Se ci pensate è proprio il cuore l’organo che, primo, marca la differenza tra ciò che è inanimato e ciò che è vivo. Davanti alle analisi più cupe del nostro presente e delle sue crisi, ricordiamoci che abbiamo a disposizione una risorsa fatta di cuore, per questo capace da sola di ribaltare tutto. Persino la forza di gravità.

Massimo Orlandi

PRIMAPAGINA

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Non è un dono di natura. Il coraggio nasce dalla vita, dalle prove che offre. Non è collegato all’eroismo. Il coraggio è una questione di creatività.

Don Abbondio diceva: “Se uno il coraggio non ce l’ha, non se lo può dare”. Per me non è così. Il coraggio vero non è quello degli eroi, perché per me il coraggio vero nasce dalla fame. Vi racconto delle due figure che mi han-no insegnato il coraggio: la prima è Gio-suè, questo vecchio monaco morto due anni fa che mi ha insegnato a fare le ico-ne con i metalli. Lui ha avuto il coraggio di lasciarmi il suo laboratorio antico e tutti gli arnesi. Si è accorto a 75 anni che gli venivano i crampi alle mani e ha detto, “Prendo solo un biro Gigi, ti lascio tutto!”. Non ho mai trovato uno così grande da lasciare le cose, prima che le cose lo la-scino. Noi sempre appiccicati, finché si campa, a tutto quello che abbiamo rag-giunto. Che meraviglia andare oltre, e non trattenere sempre tutto per noi.La seconda persona coraggiosa è il mio babbo. Lui, 5 figlioli, non aveva un lavoro, e chiede agli amici un pezzo di terra, fa un po’ d’orto da coltivare; poi prende un carretto e va a cercare i cartoni, va a cer-care i travi vecchi da rivendere per porta-re avanti la vita dei suoi figlioli.Vedete queste due persone non sono due eroi, sono due persone che sempli-cemente hanno fame, fame di oltrepas-sare un fosso. Mi sono messo a leggere ultimamente il libro “Carne e sangue”, di Michael Cun-ningham: parla di una famiglia di gre-ci poveri, che va in America. Il babbo fa un orto e il bambino di otto anni gli chie-de “Babbo, fammi fare un pezzo d’orto anche a me”. E il babbo gli dà un pezzo

di due metri per due di sabbia, e questo bambino di notte va nel pezzo di cam-po buono del babbo, prende una zolla di terra e se la mette in bocca, e la sputa sul suo pezzo. Vedete dov’è il coraggio di questo bambino? Non nell’aver chie-sto un pezzo di orto, non nell’aver preso in bocca quelle zolle. Il coraggio vero di questo bambino è il coraggio della fan-tasia, quello di pensare che in due metri per due di sabbia ci può venire un orto, se ti dai da fare. Nel Vangelo c’è il coraggio di Zaccheo, esattore delle tasse, ricco, che deside-ra vedere Gesù, ma lui è basso. E allora che fa? Invece di stare a lamentarsi, vede che c’è un albero e ci sale sopra: usa la creatività. Quell’albero era un sicomoro, che in ebraico vuol dire l’albero della paz-zia. Lui, esattore delle tasse che tutti co-noscevano, non teme di passar da matto e come un bambino sale su un albero. Se noi abbiamo un problema o si usa la creatività o il coraggio. Non c’è un altro modo.Vi ricordo che ognuno di noi ha bisogno di tre sole cose: di un pezzo di pane, di un po’ d’affetto e di sentirsi a casa da qual-che parte; se uno non trova queste tre cose impazzisce. E allora il coraggio non è quello degli eroi, è quello della fame. Coraggiosi sono un babbo e una mamma che gli è morto un figlio, e la mattina pro-vano a rialzarsi; è come Gesù con Lazza-ro, quando con gli amici va e grida “esci fuori, non sopporto che tu stia lì in quella tomba, voglio continuare a portare la vita avanti anche per te”.

Il coraggio nasce dalla famedi Luigi Verdi

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Coraggioso è chi non ha lavoro e se lo inventa. Noi ci siamo ac-comodati troppo, pensiamo che tutto ci sia dovuto; il coraggio è quello di muoversi, non quello di lamentarsi sempre. Il coraggio vero è quello di togliere questo maledetto egocentrismo che ci ha avvelenato. Si può campare come si vuole, o con l’egoismo pieno o con il cuore che si apre in un altro modo. Il coraggio è anche quello di scegliere da che parte vuoi stare. Per finire, io amo molto il corag-gio del pettirosso. A Romena ab-biamo un caco, nel giardino. Noi abbiamo colto i cachi bassi, e lasciamo sempre quelli in cima, perché se no d’inverno gli uccel-lini non sanno dove beccare da mangiare, e vedi questi pettirossi sempre lì in cima. Ma quando c’è la neve e copre tutto, tante volte ho visto questi pettirossi venire alla finestrina dove sto io e pic-chiettare. Bello il pettirosso per-ché è coraggioso, per fame non ha paura di niente, apparente-mente. Ma vedete, soprattutto il pettiros-so è gioioso, danza, gioca. Mi-chael Ende diceva: “Soltanto chi esce dal labirinto sarà felice, ma solo se sarai felice uscirai dal la-birinto”. Solo se esci da una crisi sarai felice, ma se dentro quella crisi, quella fatica, non trovi un punto di gioia, non saprai uscirne. Co-raggio, è anche questo. Trovare la gioia dentro la fatica.

A volte vengono notti che hanno fretta di partorire, vengono giorni che hanno voglia di cambiare. Questa forma di coraggio è un’ala che batte, confusa, tenera, ma che fiorirà.

Luigi Verdi

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Il coraggio nasce dall’essere veri. È un’energia che non si compra ed è naturale nell’essere umano quando riesce a toccarsi, a sentire il proprio volto, a buttare via le maschere.

Mi vengono in mente, per esempio, i ragazzi della Comunità, il Ceis di Arezzo, di cui mi oc-cupo da tanto tempo, mentre cercano di uscire dalla tossicodipendenza. Per anni hanno vissu-to in fuga da se stessi e dalla vita, poi piano piano rinasce in loro il coraggio. Ma nessuno glielo ha insegnato! Ho provato ad osservarli per capire da dove venisse quella forza sottile, ma determinata che a volte li porta a stare con le proprie paure senza abbattersi e ad affrontare con semplicità situazioni difficili. E sempre ho trovato la stessa risposta: la sorgente del coraggio è nell’attac-camento a sé. Quando un essere umano im-para a volersi bene e si accetta anche dentro le proprie tristezze e le proprie fragilità non ha più voglia di scappare o di far finta di niente.

Il coraggio è passione. Se stai con te, il giudi-zio degli altri ti potrebbe anche interessare, ma non ha più la forza di distrarti da ciò che desideri veramente. Tu senti l’insicurezza, ma non ti va più di avere le stampelle. Senti che l’ambiente si aspetta da te delle cose e che assecondarlo ti converrebbe, ma preferisci decidere diversamente, anche se forse questo potrebbe non piacere.

Mi sono accorto che a volte le persone quando parli di coraggio pensano alle grandi occasio-ni. Ma non funziona così. Nessuno nelle grandi occasioni riesce ad improvvisare. In quelle rare circostanze in cui la vita ti potrebbe chiedere di compiere in solitudine un gesto grande e significativo, farai ciò che hai sempre fatto. Ognuno muore con lo stile in cui ha vissuto, si butta per salvare qualcuno se si è sempre

curato degli altri, così come potrebbe arriva-re a sparare a qualcuno, se quello è ciò che ha coltivato nel suo cuore. Le grandi decisioni sono il frutto dei piccoli ge-sti di coraggio che puoi compiere ogni giorno. In fondo poi non c’è differenza se il tuo atto di coraggio viene espresso in un momento stra-ordinario o se è declinato nelle piccole occa-sioni quotidiane. È lo stesso movimento, è la stessa energia che devi mettere in gioco.

La misura del tuo coraggio non è definita da ciò che stai affrontando, ma dal modo con cui lo fai. Sta nell’intensità del gesto, nella direzio-ne che gli imponi. Si gioca tutto in una frazione di secondo. È un atteggiamento significativo e forte, ma estremamente rapido. È come girare una chiave ed aprire una porta, mentre avresti potuta tenerla chiusa.È dire un sì, o anche un no, invece che far finta di non aver capito.Non è vero che la vita cambia anche per uno solo di questi gesti, perché è ammesso l’errore, il tornare sui nostri passi, il cambiare idea.La vita cambia se c’è quel timbro e quella fir-ma su qualcuna delle sue pagine. Cambia se gli metti dentro l’energia e la vibrazione del tuo essere, la passione del tuo voler scegliere, l’autenticità del tuo volto.

Non so se ti arriva cosa ti voglio dire. Se tu ti accorgessi che in certi periodi non riesci a sce-gliere e prendi le cose come sono, che il co-raggio non ti viene e spesso è la paura che ti gestisce, fermati. Non hai bisogno di diventare più bravo o di aumentare l’impegno. O sei di fronte a cose che non meritano i tuoi atti di co-raggio, oppure hai bisogno di ritrovarti. Cerca te, cerca il tuo cuore ed il tuo volto. Non lascia-re che siano le circostanze o gli altri a definirti, non scendere a compromessi. Il coraggio na-sce dall’essere veri.

Dove nasce il coraggio? Come si attiva questa energia che ci permette di alzare la testa quando invece vorremmo nasconderla? Con quali risorse sa smontare i nostri castelli di paure e insicurezze?

Quella forza sottile che sostiene la vitadi Pier Luigi Ricci

Immagine di Raffaele Quadri

I ragazzi sentono il tempo nuovo che viene, la stagione nuova che viene, la primavera storica che viene e fanno come le rondini: si preparano ad uscireverso queste frontiere nuove della storia.

Giorgio La Pira

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Leggo da bastian contrario la parabola dei tre che un giorno si trovarono nelle mani, e qua-si non credevano ai loro occhi, una somma di denaro da capogiro, una cifra smisurata, solo che si pensi che un talento in quei tempi corri-spondeva verosimilmente alla paga di sudore di anni a anni di dura fatica. E uno di loro di ta-lenti se ne trovò tra le mani cinque, uno tre, il terzo un talento, e non era poco! Il loro signo-re era in partenza per un viaggio, consegnava alla fantasia delle loro mani una parte ingente dei suoi beni. Era uno che credeva nelle loro capacità. Così è Dio. È un generoso, ha fiducia. Non è di quelli che ti stanno con il fiato sul collo, con mille controlli, non è della razza sospettosa dei sorveglianti, lui se ne va, si fida. Vuole che, se tu ti dai da fare, non sia per occhi di padro-ne, ma per risposta a una fiducia.

Sappiamo anche che per i primi due quella fi-ducia fu come spinta, spinta di vento nelle vele di una barca in rada. Il loro signore al ritorno li vide arrivare con un lago di gioia negli occhi, tenevano in mano l’attestato di un aumento, di un raddoppio dei talenti. E, come fossero riusciti a tanto, forse non sarebbe stato facile nemmeno per loro spiegare. Che poi il loro signore fosse un generoso ne ebbero la ripro-va appena lo sentirono reagire: non solo non esigeva il ritorno dei talenti, che anzi li faceva partecipi della gestione del suo patrimonio. E non solo del patrimonio, anche della sua gio-ia. Ognuno dei due se lo sentì dire, le parole erano queste: “prendi parte alla gioia del tuo padrone”. Quelle parole cantavano nell’anima. C’era da stropicciarsi gli occhi. Così fa Dio.

Ma il terzo? Lo videro quello stesso giorno arrivare senza festa, aveva un lago buio negli occhi, un buio che teneva il viso, da parte a parte. Quando prese a parlare si accorse che le parole gli uscivano come legate e precipito-se insieme, aspre, aspre come il cuore che gli martellava dentro, disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai semi-nato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talen-to sotto terra. Ecco ciò che è tuo!”.

Ho letto la parabola e ti confesso che mi sono fermato qui, come ci fosse un inciampo, un in-ciampo di dolore. Quasi non mi interessasse, più di tanto, proseguire. Erano parole che ro-vesciavano impudenti l’immagine, quella del signore della parabola e quella di Dio. E tu ci ri-mani male, male da morire quando rovesciata è la tua immagine, con un’accusa di durezza. Dio uomo duro?

Ma a fermarmi nella lettura, ti dirò, anche le parole a seguire: «Ho avuto paura, sono anda-to a nascondere sotto terra… ». Mi riportava-no d’istinto ad altre parole, quelle delle origi-ni, quelle di Adamo di risposta a Dio quando lui e la sua donna udirono il rumore dei passi del Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno: «Ho udito la tua voce nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto» (Gn 3, 8). Sorprendenti asso-nanze. «Ho avuto paura e mi sono nascosto». «Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra».

La paura che ci fa nascondere, la paura che fa nascondere i talenti! La paura fa nascondere,

*Il testo è parte della riflessione tenuta da Angelo Casati in autunno, durante l’incontro del gruppo “Romena a Milano”

Dio non ci vuole pavidi e sottomessi, ma creativi e liberi. Paura è ciò che mortifica i nostri talenti, coraggio è la disponibilità a metterli in gioco per fare della propria vita un capolavoro

La libertà del rischiodi Angelo Casati*

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sotterra, la nostra intelligenza. Quasi fosse at-tentato all’umiltà o arroganza dello spirito il pensare con la propria testa.La paura fa nascondere, sotterra il nostro ta-lento. Siamo stati educati più a imitare che a inventare. A osare noi stessi, in un modello inedito. E in questo senso vorrei dire, spero non scan-dalizzando nessuno, che a noi non tocca imi-tare i santi. Nessuno! Non si tratta di copiare. Perché Dio è fantasia e non ama le fotocopie. Non lasciarti dunque inti-midire da modelli di san-tità di altri, a volte, poco saggiamente, ingenua-mente, gonfiati. Tu non sei fotocopia. È tuo il capola-voro, e lo dico sottraendo la parola “capolavoro” a qualsiasi ombra di presun-zione. Lasciati modellare come argilla dalle mani di Dio, dalla luce delle be-atitudini, lasciale spirare dentro di te. Poco impor-ta, a te non interessa, se non sarai mai celebrato sugli altari, se non sarai proclamato beato dagli uomini. Ti sentirai felice tu di aver vissuto la vita che ti era stata donata, di aver tenuto con passione il tuo posto, di aver dato quello che era nella tua misura, di essere stato nascosto nella folla di quelli che sul monte ascoltavano le parole nuove del Maestro. Con il desiderio in cuore di dare loro forma nella vita. Per la felicità tua, per la felici-tà e il bene di questa terra. In attesa fiduciosa dell’altra terra, quella a venire.

Mettere dunque in azione la nostra creatività, e nello stesso tempo sostenere la creatività degli altri. Come? Regalando fiducia. Mi chie-do se, anziché allungare la serie delle lamenta-zioni sulla nequizia dei tempi, non potremmo riconoscere in questa nuova situazione quasi una opportunità per il nostro essere credenti:

sbenda la tua intelligenza! Qualcuno forse ri-corderà come in un tempo di spada, di fame e di peste, in un tempo di desolazione e di assedio il profeta Geremia (Ger. 32) si sentì rivolgere da Dio una parola che lo invitava paradossalmente a comprare campi e case. Proprio quando le macchine d’assedio aveva-no raggiunto la città per occuparla.

Ricordo l’emozione patita ritrovando l’imma-gine in una lettera scritta da Dietrich Bonho-

effer dal carcere militare di Tegel-Berlino, il 12 agosto 1943. Il 9 aprile 1945, su ordine di Hitler, sarebbe stato giustiziato. La let-tera è indirizzata a Maria von Wedemeyer, una ra-gazza diciannovenne che Dietrich, teologo e pasto-re della chiesa confessan-te tedesca, aveva da poco fidanzata:“Se poi penso alla situazio-ne del mondo, alla totale oscurità che avvolge il no-stro destino personale e alla mia attuale prigionia, credo che la nostra unio-ne – se non è stata una leggerezza e sicuramente non lo è stata – può esse-re soltanto un segno della grazia e della bontà di Dio, che ci chiama alla fede. Sa-

remmo ciechi se non lo vedessimo. Geremia, nel grave bisogno del suo popolo, dice che “in questo paese si devono ancora comprare case e campi”, come segno della fiducia del futuro. Per far questo ci vuole fede; che Dio ce la doni ogni giorno. Non intendo la fede che fugge dal mondo, ma quella che resiste nel mondo e ama e resta fedele alla terra malgrado tutte le tribolazioni che essa ci procura. Il nostro matri-monio deve essere un sì alla terra di Dio, deve rafforzare in noi il coraggio di operare e di creare qualcosa sulla terra. Temo che i cristiani che osano stare sulla terra con un piede solo, saranno con un piede solo anche in cielo…”.

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Come è cominciato il tuo cammino nel sud d’Italia?

“Sono nato a Brescia e ho lavorato fin da quando ero un ragazzino in una fabbrica. e lì ho imparato la parola “speranza”, che allora chiamavo “giustizia”: lottare e scioperare per un mondo migliore, più giusto e più umano, porta in sé infatti la luce della speranza. A ventitré anni ho scelto di farmi prete e poi sono arrivato in Calabria. e con 30 persone, molte disabili, ho messo su una comunità autoge-stita.

Che obiettivi ti sei dato?

Ho cercato di lavorare insieme a loro per scoprire il valore della parola speranza. Solo così, muo-vendosi in relazione, dal basso, le persone capiscono che sono pro-prio loro ad ottenere le cose, a farle cambiare, che non c’è qual-cun altro che te le regala. Perchè la speranza, bisogna prenderse-la, bisogna conquistarsela.

Per poter realizzare un sogno, quello di dare una casa e una dignità ai disabili, hai messo in gioco la tua vita: come hai fatto a non aver paura?

Io non sono un eroe, io faccio finta di non aver paura, ma ho paura, eccome! Recitare, facen-do finta di non aver paura quando c’è qualcu-no che mi vuole uccidere, ecco, io questo lo so fare. Ci sono dei metodi di sopravvivenza che vanno imparati, perché la posta in gioco è grande e le scommesse sono meravigliose.Lamezia Terme, settantamila abitanti e una

lista di beni confiscati alla mafia che nessuna giunta attribuiva mai, per paura dei mafiosi. L’idea è venuta a quella gente in carrozzina: i disabili mi dicono “Se tu ci sei, noi ci stiamo a prendere le case confiscate, così facciamo un regalo alla nostra gente e diamo meno paura alla città”. Si può rischiare qualcosa per “dare meno paura alla città”, no? Ecco da dove è nato tutto, da un gruppo sgangherato di gente che ha in mente cosa è la dignità ed è consapevole

che nella dignità e nella sua bel-lezza ci può star dentro anche la paura. A questo punto, la paura me la tengo, anzi, ce la teniamo.

Che cosa hai imparato, in que-sto contesto, sul coraggio e sulla paura?

Ho capito che la paura è meglio viverla. Non importa se la spe-ranza è impastata alla paura, perchè siamo davvero noi stessi solo quando la paura e la spe-ranza ce le viviamo.

Come puoi sintetizzare questi 30 anni di im-pegno al sud?

Con le parole di Emma, una disabile che ha iniziato con noi la prima comunità: “Prima di essere una disabile – ha detto – sono una persona che ha diritti e doveri e che quindi ha anche una responsabilità rispetto al suo territorio, territorio con una grossa piaga, la ‘ndrangheta; e io non ci sto bene, soffoco. Posso accettare la disabilità perchè è un fatto naturale, ma non posso accettare la sofferenza provocata dall’uomo. E questo è il motivo del mio impegno”.

Da trent’anni in Calabria, dove ha fondato una comunità formata in gran parte da persone disabili, don Giacomo ci racconta il coraggio ‘normale’ di chi vive ogni giorno la piccola grande speranza di conquistare un pezzetto di dignità.

“La speranza bisogna conquistarsela”Conversazione con don Giacomo Panizza

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Il grande coraggio lo si ottiene con un continuo ricominciare. Infatti coraggio è aver paura, ma andare avanti lo stesso.

René Bazin

Foto Paolo Dalle Nogare

12

I bambini lo capiscono istintivamente, loro lo sanno che per riuscire a non aver paura devo-no farci amicizia, con la paura. E li vedi gioca-re con risatine nervose ed eccitate, li senti di-scorrere tra loro con voci concitate, guardi nei loro occhi il tremore e la voglia di addentrarsi ancora un po’ più oltre. I bambini l’hanno ca-pito che per trovare il coraggio di affrontare le loro paure le devono corteg-giare e misurare. E misurarsi con esse.Noi adulti perdiamo con gli anni questo istinto, e le no-stre paure si trasformano in nemici da sconfiggere invece che in amici da capire; assu-mono le orrende forme di draghi e mostri da scacciare e respingere, in ogni modo. Eppure diceva Rilke che i dra-ghi stanno sempre a guardia di meravigliosi tesori…Carlotta tutto questo lo aveva intuito e di fronte alla paura più grande e terribile ha fatto come il bambino curioso e tremante: ha guardato ne-gli occhi la sua paura.

“Dunque ne parlo, ne parlo con chiunque mi chieda di farlo, con chiunque sappia ascoltar-mi anche solo per qualche istante. Ne parlo perché voglio che queste cicatrici diventino la mia forza, i trofei della mia vittoria, perché fin dal primo istante ho capito che tutto in me sa-rebbe stato diverso dopo quella diagnosi, che ogni cosa avrebbe acquisito una forma altra, mai più incastrabile in quella che da sempre avevo stabilito per me stessa. Ne parlo perché so che l’unico modo per con-

vivere con questo peso è portarlo sulle spalle come fosse un premio, un trofeo, un vanto, da mostrare a testa alta senza paura di esserne schiacciata o svilita o indebolita. Perché confi-do che anche questo dolore possa convertirsi in energia, in forza, in passione e determina-zione e diventare infine il mio più grande or-goglio, il mio più grande successo.

Ne parlo perché è la mia vita, che in questa veste mi sem-bra ancora più meravigliosa.Ne parlo perché sento che siamo tutti uniti in un ab-braccio.”

Carlotta, Carlotta Nobile: forse qualcuno nell’estate scorsa avrà sentito per ra-dio o alla tv la notizia della sua morte, perchè Carlotta era una violinista afferma-ta ed era Direttore Artistico dell’Accademia di Santa So-fia. Perchè Carlotta aveva

scritto due libri ed era anche una appassio-nata di arte figurativa. Perchè Carlotta aveva ventiquattro anni e da quando aveva saputo di essere gravemente ammalata di cancro aveva affidato ad un blog le sue riflessioni e le sue domande. E le sue paure. Ma su quel blog ciò che vince non è il terrore, non è lo sterile lamento vittimistico, non è il vuoto autocom-piangersi, ma la forza coraggiosa e lo slancio temerario di chi sa che forse la sua battaglia la perderà. Ma in quella battaglia e grazie ad essa trova il sapore nuovo della sua vita. “Eccomi qui, sospesa fra ciò che è facile e ciò che è impossibile. E comunque sempre più sedotta dall’impossibile che dal facile.

Quando si impara a volare nella vita? La storia di Carlotta Nobile ci parla di questo. È la storia di chi, affrontando una terribile malattia, ha scoperto che le ali per volare stavano spuntando proprio nei solchi delle sue cicatrici…

Il punto di innesto delle alidi Maria Teresa Abignente

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Sono come un fiume che per immettersi nel mare sceglie sempre la strada più tortuosa, la più lunga. La più difficile.Forse perchè, in fondo, credo che vincere con facilità sia come perdere.E che perdere dinnanzi all’impossibile sia come aver vinto. Per il solo fatto di averci pro-vato…Eccomi qui. Pronta a sprofondare pur di non restare in superficie. Pur di scoprire cosa c’è. Oltre.”

Fino in fondo, sugli scogli più scivolosi e aspri Carlotta ha danzato la sua vita, accompagnata dalle note del suo violino, ma anche dalle sue cicatrici. “Non so più neanche quanti centime-tri di cicatrici chirurgiche ho. Ma li amo tutti, uno per uno, ogni centimetro di pelle incisa che non sarà mai più risanata. Sono questi i punti d’innesto delle mie ali.”Sarebbe bello che anche noi trovassimo, nelle paure nelle quali affoghiamo, il coraggio di un battito d’ala, lo slancio per lasciarci trasporta-re un po’ più in alto, un po’ più liberi, in un cielo reso più pulito dalla nostra lotta e anche dalle nostre lacrime.I bambini lo sanno bene, lo sentono a fior di pelle che quel coraggio poi li farà crescere, che quel brivido li prende per mano e li con-duce più lontano. Oltre la paura.

Il suo blog si intitolava Il cancro…E poi. Carlotta ha rischiato tutto il suo coraggio su quell’e poi, su quel che ancora non si vede, ma si avverte nella sua pura essenza. Un di-stillato di vita.“E capisci che la vita non ti è mai sembrata così straordinariamente meravigliosa, uni-ca, imprevedibile, brillante, preziosa, piena, ricca, che il tuo respiro non è mai stato così consapevole, che ogni più piccola emozione non ha mai avuto in te una tale grandissima risonanza. E capisci che se davvero serviva tutto questo per guarire nell’anima, allora le tribolazioni del corpo saresti disposta a viver-le altre mille volte!”

Questa è Carlotta, un fiume assetato di acqua, un desiderio costantemente vivo di non la-sciarsi fermare, di trovare nella sua vita gli ac-cordi giusti. Come sulla tastiera di un violino.Poco importa allora se quella battaglia è stata apparentemente persa in una notte di luglio: i bambini lo sanno che sfidando le paure possono anche piangere, ma resta in loro l’ebbrezza di un coraggio che hanno sentito possibile. Carlotta ha trovato il suo meraviglioso tesoro: il drago è diventato un cucciolo amico, o uno strumento sul quale suonare un’altra e nuova melodia. Il drago è stato addomesticato con uno stratagemma che Carlotta ci trasmette con la leggerezza di una nota che risuona nel vento: “L’amore intorno e la disciplina dentro. Solo così possiamo lottare. Solo così possiamo vincere.”

Solo così dalle nostre paure possono spuntare un paio di piccole ali.

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Papa Francesco e il coraggio. Cosa ti sug-gerisce questo accostamento?

Mi viene in mente un’immagine-simbo-lo, una foto scattata a Lampedusa che lo ritrae come il condottiero di una bar-ca che ha un timone fatto dai resti delle barche degli ultimi. Francesco è così, un condottiero il cui coraggio è enorme, è il coraggio di rendere concreta la rivo-luzione cristiana che consiste nel rimet-tere Cristo al centro, e di avere i poveri come riferimento. Il coraggio del papa è il coraggio del concilio che finalmente trova una re-alizzazione. “La chiesa deve imparare dal mondo” dice il papa, è una chiesa aperta al mondo, a partire dalle sue pe-riferie.

Qual è stata la sua azione più coraggiosa in questo primo anno?

La prima apparizione è stata un po’ il big bang del suo pontificato. Quel-la sera, va detto, è stata preparata dal grandissimo atto di Papa Benedetto, la cui rinuncia ha innescato dentro la chiesa un dinamismo che Francesco ha saputo subito far fiorire.

E così è stato possibile quel 13 marzo: ricorderete il momento in cui il nuovo Papa è apparso sulla loggia delle Bene-dizioni senza alcun orpello, e si è inchi-nato non solo alla piazza, ma al mondo, e ha chiesto di essere benedetto: un gesto geniale nel quale si è subito capita l’aper-tura immensa di questo Papa, la gran-

Non è solo un cambiamento di stile. Papa Francesco sta cambiando la chiesa dal di dentro. Una prova di amore, di fede. E anche di coraggio.

La rivoluzione di Papa Francesco

Conversazione con Raffaele Luise*

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dezza e la profondità del suo percorso, volto a far fiorire l’amore cristiano.

In cosa hai trovato il segnale di disconti-nuità più forte rispetto al passato?

Il segno più evidente e concreto è l’aver rifiutato i palazzi apostolici. La sua casa è in un albergo, Santa Marta, dove, come in tutti gli alberghi si è ospiti, si hanno due stanze e si condividono piani con gli altri, dove si mangia con gli altri al self-service; è una scelta emblematica: non più la chiesa autoreferenziale che sta sul monte, ma la chiesa che sta in mezzo alla gente.Francesco non è solo il Papa dei gesti, o il papa della parola, è il papa che crea eventi in cui gesto e parole si mettono in comunicazione con noi, ci fanno parteci-pi. In fondo, lo dico con un po’ di timore, ma è come faceva Gesù.

Tu lo segui costantemente per lavoro. Come cristiano, come credente, quali sono stati i momenti che ti hanno tocca-to di più?

Ne scelgo due, uno più pubblico, uno più privato.Per il primo aspetto la visita a Lampedu-sa. Quella è l’icona più grande di Papa Francesco. Lui ha scelto di andare di persona, praticamente da solo. È andato per stare lì e incontrare quelle persone sofferenti, e indicare alla politica, alle isti-tuzioni, al cuore delle persone che se le nostre vite non si convertono e trovano una maniera di interagire con tutti i fra-telli e le sorelle, a partire dagli ultimi, si rischia di vivere in una bolla di sapone, ‘anestetizzati’ dalla vita. Mi ha trafitto come credente, come uomo, questo suo

abbraccio diretto, questo messaggio fat-to esplodere a Lampedusa, nel cuore del dramma.

Il secondo episodio che mi ha profonda-mente toccato è stato quando ho accom-pagnato Arturo Paoli dal Papa. Arturo e Papa Francesco si conoscevano: Arturo era stato 14 anni missionario in Argenti-na, allora era già un teologo della libe-razione ante litteram, perciò entrambi avevano condiviso dai loro inizi la scelta dei poveri. Alla fine del colloquio privato, quando li ho raggiunti, Arturo, 101 anni e un’immensa passione, salutandolo gli ha detto “Santità, non ceda alla corte. Conti-nui a girare con questo abito bianco, sen-za orpelli. Cosa c’è di più bello di questo bianco?” E il Papa si è chinato su Arturo con quella dolcezza semplice e gli ha ri-sposto: “Sì, Arturo”, e lo ha abbracciato baciandolo in testa tra i capelli come si fa con i bambini.

È recentemente uscito un tuo libro dedi-cato alla primavera della chiesa di Papa Francesco. Qual è il concetto di fondo che hai voluto esprimere?

Con il libro ho voluto testimoniare la grande rivoluzione spirituale e culturale che stiamo vivendo. Questa non è sem-plicemente una riforma della chiesa, ma un ritorno ai fondamenti vivi del cristia-nesimo. Non a caso Francesco è un gesu-ita che si è fatto francescano altrimenti non ci sarebbe stato respiro possibile per quest’impresa visionaria e anche un po’ pazzesca. Francesco ci fa vedere il Vangelo: questa è la rivoluzione che stiamo vivendo.

*Raffaele Luise è giornalista vaticanista del giornale Radio Rai. Nel suo ultimo libro “Con le periferie nel cuore” racconta la nuova era della Chiesa di Fran-cesco: il libro contiene anche un’intervista sul Papa al nostro don Luigi Verdi.

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Immagine di Raffaele Quadri

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Viandanteil sentiero non è altro che le orme dei tuoi passi.Viandante non c’è sentiero. Il sentiero si apre camminando.

Antonio Machado

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“Quando ballo sento di sparire” dice il prota-gonista del film Billy Elliott. Simona Atzori no: lei quando balla sente di esserci, con tut-ta se stessa. È un incanto degli occhi vederla sprigionare tutta quella bellezza nei movi-menti, nei salti, in quell’intarsio di traiettorie che ti fanno subito dimentica-re l’inciampo del limite. È così armonica che le sue gambe e i suoi piedi sembrano aver totalmente sostituito gli arti mancanti: aveva ragione quel bambino di 7 anni che un giorno le ha detto: “Simona ha semplicemente le mani più in basso”.La serata in cui la incontro è un incrocio di arte e di parole. Quando arriva l’ora delle pa-role siamo ancora nel fiume di emozioni della danza. Così la prima domanda Simona se la fa da sola.

“Come fai a danzare senza le braccia?” Mi chiedono spesso. Io non lo so come faccio, un po’ come il calabrone che non dovrebbe volare secondo le leggi della fisica, ma lui non le conosce e vola lo stesso. Se danzo è per istinto, per la volontà, per l’amore, ingre-dienti che ci permettono di fare delle cose che pensi non riuscirai a fare o che gli altri giudicano impossibili.

Hai scritto che spesso i limiti non sono reali, ma che sono solo negli occhi di chi ci guarda. Come reagisci quando ti senti guardata solo per il tuo handicap?Sorrido. Ho trovato questo modo di difen-dermi. Il sorriso è l’ arma più bella che io

possa avere scoperto della mia vita perché penso che se qualcuno, mentre mi guarda, pensa di me che sono poverina e che la mia vita sia difficile, e io di risposta sorrido, bene, forse questa persona potrà magari farsi del-le domande. Se nasce il germe del dubbio,

allora è possibile fare un passo in più, conoscerci.

Nel tuo percorso di vita sei stata sorretta anche dalla fede?Il mio percorso è sempre stato nella fede, ma c’è stato un mo-mento speciale in cui questa fede è sbocciata. È stato nel 2000 per il Giubileo: mentre danzavo in una chiesa meravi-gliosa a Roma, davanti a tanti giovani, mi sono resa conto che con la mia danza stavo pregando. La danza era il mio modo di pregare e di dire gra-zie al Signore, grazie per aver-

mi dato la vita e di avermela data in questo modo, con queste mani-piedi, grazie per avermi fatto incontrare i miei genitori. Noi ci siamo scelti, senza di loro non sarei assolu-tamente quella che sono e non li ringrazierò mai abbastanza.

A proposito dei tuoi genitori, tu dici che non ti hanno accettato, ma accolto. Qual è la differenza?La mia mamma mi raccontava sempre che mi hanno scelta due volte: mi hanno scelta nel momento in cui hanno deciso di avere un altro figlio, e mi hanno scelta una secon-da volta nel momento in cui io sono nata. Mi hanno scelta, non solo accettata, con la

Simona è nata senza braccia. Ma si muove e danza leggera e libera come una farfalla. Il suo coraggio è figlio di uno sguardo: lo sguardo di chi non ha voluto cedere alle ombre, ma anche in mezzo alla tormenta, ha sempre cercato la luce. Proprio come fa il suo fiore preferito…

Come un girasoledi Massimo Orlandi

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consapevolezza dell’accoglienza, dell’amore che passa attraverso l’ amore. I miei genito-ri mi ha sempre fatto sentire che ero io che dovevo arrivare, che ero io che loro stavano aspettando anche se non lo sapevano.

Quando hai cominciato a ballare?A sei anni, ma già a tre scalpitavo. Mi piaceva così tanto che sono stata da subito una allie-va molto seria, molto disciplinata: quando si andava alla sbarra, per esempio, io dovevo imparare a fare tutti gli esercizi senza poter-mi appoggiare. Il mio equilibrio l’ho sicura-mente sviluppato in questo modo.

C’è stato un periodo durissimo della tua vita, nel quale oltre alle protesi che stavi sperimentando (per poi abbandonarle in seguito), portavi anche il busto perchè c’erano grossi rischi per il tuo sviluppo…Cosa ti è rimasto di quella fase?È stato uno dei periodi più difficili della mia vita anche perché ero una ragazzina quin-di era come se tutto mi crollasse in testa. All’epoca avevo anche l’apparecchio per i denti, sembravo un robot. Allora però ho sperimentato una cosa im-portante: quando siamo dentro un tunnel buio e lungo, se teniamo chiusi gli occhi non possiamo vedere la luce quando arriva; dentro quel tunnel la cosa che mi ripetevo sempre era di non chiudere mai gli occhi e

andare avanti sempre con gli occhi aperti perchè quando la luce sarebbe arrivata, sa-rebbe stata la prima cosa che avrei visto e lì avrei capito che il tunnel era finito.

Qual è l’immagine che più ti rappresenta?È legata a un episodio. Un giorno mi sono affacciata dal mio balcone di casa e c’era dell’ erba che spuntava tra il cemento . Lo volevamo togliere e la mamma disse: “no è un girasole”. L’ abbiamo guardata come se avesse detto una cosa stranissima. Dopo qualche tempo in realtà da lì è spuntato davvero un girasole. È spuntato tra le mat-tonelle del cortile quindi un posto dove i fiori non nascono e aveva messo la sua testa cercando il sole perché il girasole va verso il sole. Allora io mi sono sentita un po’ come quel girasole che è nato un po’ così nella difficoltà, ma che guardando sempre il sole, cercando sempre il sorriso, cercando sem-pre la vita, va anche oltre le difficoltà che ci sono, per cercare sempre il sole. Il girasole mi ricorda sempre che è davvero bello cre-dere nella vita. Simona Atzori è una ballerina di fama internazionale e una pittrice di successo. È stata ambasciatrice per la dan-za nel Giubileo del 2000 e protagonista della cerimonia di apertura delle Paraolimpiadi di Torino nel 2006. Nel 2011 è uscito il suo primo libro “Cosa ti manca per essere felice?” (Mondadori). L’intervista completa a Simona Atzori ap-parirà nel libro “A regola d’arte” in uscita a maggio per le Edizioni Romena.

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La rabbia e il coraggio Sant’Agostino diceva che la speranza ha due bei figli: la rabbia e il coraggio. La rabbia nel vedere come vanno le cose, il coraggio di ve-dere come potrebbero andare. Dobbiamo animare la speranza di rabbia e di coraggio. Una rabbia sana, sia ben chia-ro. La rabbia per me è un atto d’amore: ci si arrabbia per le cose che ci stanno a cuore, ci si arrabbia quando ci si sente impotenti di fronte a certe ingiustizie, all’arroganza, alla sopraffazione. Ma accanto alla rabbia, per Sant’Agostino c’è anche il secondo figlio della speranza, il coraggio. Coraggio deriva da “cor habeo”, ho cuore. Avere coraggio si-gnifica avere cuore. Abbiamo bisogno oggi di mettere più cuore, amici, di più! La prima prova di coraggio è quindi guardare dentro la propria coscienza, ribellandosi all’impo-tenza. Il Padreterno ci chiede di graffiare an-cora di più la realtà perché le situazioni d’im-poverimento, di sofferenza, di fatica intorno a noi impongono uno scatto delle coscienze. Il cambiamento, per potersi realizzare, ha bisogno di un “di più” da parte di ciascuno di noi.

Ho un sogno Ho un sogno. Sogno che un giorno il vo-lontariato diventi superfluo. La solidarietà non può essere la virtù di qualcuno, non può essere l’eccezione. Deve essere la re-gola di tutti. Nessuno può considerarsi un vero cittadino se non si guarda attorno e se non comincia a risolvere i piccoli problemi che man mano gli si presentano. E nessuno può considerarsi un vero cristiano se non è solidale. Il cittadino è tale se è volontario: è

troppo comodo considerare il volontariato come un’eccezione. Com’è ovvio, resta ne-cessario mantenere delle forme organizzate di solidarietà, in modo da poter affrontare le questioni in maniera più efficace, ma il vero obiettivo è quello di lavorare tutti assieme in modo da migliorare il proprio quartiere, la propria scuola e le condizioni di vita di colo-ro che ci circondano. Il volontariato non deve essere confuso con l’impegno sociale in spe-cifici settori. Il vero volontariato è dono, gra-tuità, spontaneità, passione, messa in gioco. Dovrebbe essere prerogativa di tutti.

Non dobbiamo fermarci “Se dovrai attraversare le acque sarò con te, i fiumi non ti sommergeranno” dice un passo del libro di Isaia” (XLIII,2). É un versetto che ci conforta, ma non impedisce di sentirci, in certi momenti, smarriti, in crisi, pieni di dub-bi, di insicurezze. Questi momenti di sfidu-cia esistono per tutti. Spesso mi chiedo se i 18 anni di attività con Libera sono serviti, se sono serviti i 48 anni di Gruppo Abele. Ma se è vero che ci sono problemi che sembra-no insuperabili, se è vero che ci sono tante sofferenze che non siamo riusciti a evitare, è anche vero che quei servizi, quelle comuni-tà, quelle associazioni hanno aiutato molte persone a essere meno schiacciate, più libe-re. Allora, anche se l’orizzonte di una mèta ci appare lontano, anche se a volte è naturale sentirsi scoraggiati, non dobbiamo fermarci. La storia ha bisogno di noi. Nella storia c’è una pagina bianca che siamo chiamati a scri-vere. È nostra, ci è affidata. È Dio che ci dice: “Scrivila tu”.

* Questi testi del fondatore del gruppo Abele e di Libera sono estratti dal libro “Il morso del più - Incontri con Luigi Ciotti” di Massimo Orlandi (Edizioni Romena 2013)

La storia ha bisogno di noidi Luigi Ciotti*

A conclusione di queste riflessioni sul coraggio, raccogliamo gli inviti di un uomo che si è affidato al vento della vita per propagare ovunque fosse possibile segni di giustizia, di amore, di libertà.

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Si muore per troppa prudenza. Bisogna osare.

Luigi Ciotti

foto Alexandra Calandrin

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Cadevano rari fiocchi di neve, figli del gelo, in quel pomeriggio d’inverno a Colfiorito. Ma nel grande container che ospitava tutto, dalle riunioni alle messe, erano rari anche i bambini che erano accorsi per lo spettacolo della Compagnia delle arti di Romena. Eppure non c’era molto altro da fare in quel luogo battuto dal vento e dalla sventura del terremoto. Lo spettacolo si fece lo stesso per una ventina di bimbi e per i loro genitori, e fu comunque bellissimo, intenso, pieno di calore.Qualche tempo dopo, il parroco del paese umbro scrisse alla Compagnia una breve lettera riassumibile in poche parole: “Dal vostro spettacolo, quel pomeriggio, abbiamo ricominciato a essere una comunità”. Il terremoto non solo aveva dissestato la terra, ma anche le relazioni umane, piegate dai disagi dai mesi duri vissuti nei container. Quel giorno la Compagnia aveva riacceso un lume. Non solo si potevano ricostruire le

case abbattute, ma anche ripristinare il valo-re smarrito dello stare insieme.

Di piccole e grandi storie come questa è in-tessuto l’ordito della Compagnia delle arti di Romena. Anche per questo è bello augurarle buon compleanno, in occasione della sua quindi-cesima candelina. È dalla primavera del 1999, infatti, che il gruppo porta i suoi spettacoli e le sue ani-mazioni in giro per la Toscana e, come ab-biamo visto, anche oltre. Ed è Romena il luogo dove tutto è iniziato. In realtà l’onda di creatività e di calore che negli anni la Compagnia ha cercato di por-tare nei luoghi dove ce n’è più bisogno (case di riposo, centri per diversamente abili, ospedali) esisteva già prima. Era però un’on-da che scaricava i suoi benefici effetti in una sera soltanto, la domenica di Pasqua. Lo spettacolo della fraternità che andava in

Dal 1999 la Compagnia delle arti di Romena ha in corso una tournée speciale: porta in giro per la Toscana e oltre il sorriso della festa e i colori della creatività. E lo fa dove ce n’è più bisogno: nelle case di riposo, negli ospedali, nei centri per diversamente abili.

Quindici anni di calore e fantasia

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scena al teatro Antei di Pratovecchio, propo-neva un estroso mix di canzoni, sketch, bal-letti nei quali si mettevano in gioco tantissi-mi di coloro che erano passati per Romena. Quel momento di festa zampillante, che si ripeteva tradizionalmente ogni anno aveva però fatto nascere alcune domande: perché solo a Pasqua? E perchè solo qui? Così era nata l’idea di riprodurre quell’at-mosfera colorata anche in altri momenti e, soprattutto, di portarla laddove ce ne fos-se davvero necessità. E tutto questo sareb-be stato fatto nella più assoluta gratuità: la Compagnia si sarebbe presentata in questi luoghi ‘speciali’ con i colori del sorriso e la libertà di non dipen-dere o far dipendere da alcun compenso.

Il piccolo sogno co-struito allora, pur nel variare delle perso-ne, dei tempi, delle condizioni è andato avanti rispettando quello spirito: andare non per portare uno spettacolo, ma uti-lizzare lo spettacolo come momento d’in-contro, di conoscenza, di condivisione.Così per ogni pubblico, la Compagnia del-le arti ha inventato una modalità artistica appropriata: negli anziani ha risvegliato i ricordi riproponendo le canzoni, i balletti, gli sketch di quando loro erano giovani, nei bambini ha toccato le corde del gioco, ispi-randosi ai loro personaggi preferiti, e utiliz-zando i burattini. E così in quindici anni sono stati realizzati quasi 300 tra spettacoli, in-contri, animazioni, tutti diversi ma uniti dal-lo stesso obiettivo: “portare un sorriso dove ce n’è più bisogno”. “Non ci è mai interessato perfezionarci dal punto di vista artistico – di-cono i ragazzi della Compagnia – piuttosto ci preme migliorarci invece nello stare insieme

tra di noi e con le persone a cui rivolgiamo i nostri spettacoli”.

È un’esperienza unica trascorrere una gior-nata insieme alla Compagnia. Lo spettacolo non è che espressione di uno stare insieme corale la cui finalità è che chi si esibisce si faccia tutt’uno con chi gli è davanti. Si crea così in poche ore un’intimità speciale: nelle case di riposo, dove gli anziani si sentono spesso ai margini della loro vita e del mon-do, è come se arrivassero tutti insieme figli e nipotini: c’è tanta voglia di parlare, di te-nersi per mano, di raccontare i propri stati d’animo. E così accade con i ragazzi diver-

samente abili che negli spettacoli della compagnia diventa-no parte attiva dello spettacolo.

Non si può racconta-re quanta bellezza di umanità nasca dalla scintilla creativa di questi incontri.Si può solo viverla. Anzi, forse è proprio questo il modo mi-gliore per festeggiare

i 15 anni della Compagnia: vedere quello che fa, dove lo fa, e magari sentire la voglia di mettersi in gioco. “La nostra porta è aper-ta, anzi spalancata per accogliere chiunque voglia fare un pezzo di strada con noi. Non ser-ve saper fare nulla – ci tengono a dire – conta solo la voglia di stare insieme e di andare verso gli altri”.

Buon cammino, allora, Compagnia delle arti di Romena, piccolo germoglio di creativi-tà che sa illuminare di gioia luoghi troppo spesso in ombra. E buon cammino a voi, amici, messaggeri di una fantasia semplice. Che tocca il cuore.

L’associazione onlus Compagnia delle arti di Romena si riunisce a Firenze ogni martedì sera dalle 21.30 presso il Kantiere, in via del Cavallaccio 1/Q (zona Isolotto).

Questi i recapiti: E-mail: [email protected] Telefono: 380-5118607, sito internet: www.lacompagniadellearti.org

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Arrivano sempre più numerosi i bambini a Romena: li vedi nei prati correre e giocare, li senti ridere e chiacchierare e guardare cu-riosi questi spazi che ai loro occhi devono sembrare infiniti. Li vedi teneramente ab-bracciati ai loro genitori, sostenuti nei loro passi, guidati nelle loro scoperte, a volte sgridati… Oppure vedi vagare lo sguardo assorto di un adolescente, in quella faticosa età in cui tut-to si stravolge e ogni cosa può diventare una ferita o una vittoria…e i genitori a inseguire, a cercare di interpretare quello sguardo, con la paura lancinante di non capire.Li vedi innamorati, pronti a spiccare il volo, con il bagaglio tutto pronto… e leggi nel cuore delle mamme e dei papà la fatica di lasciarli andare.Insomma, famiglie…A loro quest’anno abbiamo voluto dedicare una serie di incontri mensili, per tentare di capire insieme le mille piccole insidie che possono ostacolare il nostro cammino di fa-

miglia; per cercare le tante risorse alle quali possiamo attingere nei momenti di crisi; per riscoprire i compiti, a volte difficili e verso i quali ci sentiamo impreparati, che siamo chiamati a svolgere. Gli incontri saranno coordinati da un’amica di Romena, la dott. Stefania Ermini; ci ritro-veremo ogni mese nei nuovi spazi della Fra-ternità, seguendo le tracce di un percorso che cerca di abbracciare gran parte della dimensione familiare. I bambini avranno un loro spazio e una adeguata animazione e questo ci permetterà di lavorare in coppia prima, ma poi anche tutti insieme. Mange-remo insieme, semplicemente, portando ognuno qualcosa e poi condividendo. Per-ché siamo famiglia ed è bello così.Sarà un prendersi cura in modo diverso del-la nostra famiglia, rintracciando quelle radici da cui è nato il nostro amore per giungere a quelle ali che dobbiamo dare ai nostri figli…perchè possano “volare alti, liberi e sicuri”.

È la novità più rilevante nel nuovo calendario della Fraternità: da quest’anno una domenica al mese Romena dedicherà una attenzione speciale alle famiglie con un percorso di incontri, di condivisione e uno spazio ad hoc per i bambini…

La domenica delle famiglie

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I due incontri del 2013 – “Perchè avete paura?” e “Una fede nuda” – ci hanno fatto sperimentare un nuovo modo di stare insieme. Anche nel 2014, negli stessi periodi organizzeremo altri due grandi momenti corali di incontro.

Romena incontri 2014

Il tema del primo incontro - da venerdì 18 a domenica 20 luglio - sarà “Rischiamo il coraggio” proprio come la veglia di quest’anno. L’idea è di centrare il percorso su come ‘ri-attivare’ il coraggio che abbiamo dentro, e affrontare così le difficoltà personali, esistenziali, economiche della fase che stiamo vivendo.

Il secondo incontro - da venerdì 19 a domenica 21 settembre - avrà per titolo “Osare nuovi passi”: una volta capito come risvegliare il coraggio cercheremo di individuare quali potranno essere i primi passi di cambiamento da compiere nell’educazione e nella società, nell’economia e nella politica, nella chiesa e nel rapporto con l’ambiente.

Stiamo predisponendo i programmi dei due incontri (le iscrizioni si apriranno a maggio). Tra gli ospiti che attendiamo quest’anno: don Luigi Ciotti, Roberto Mancini, Vito Mancuso, Gabriella Caramore, Antonietta Potente, Eraldo Affinati, Grazia Francescato.

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I nuovi spazi di Romena

La fattoria Appena oltre la strada che fiancheggia la pieve c’è il nostro nuovo spazio di ospitalità. La casa del fattore che amministrava i terreni intorno alla pieve, dalle radici settecentesche, è stata ristrutturata e messa a disposizione degli ospiti che qui trovano una piccola cucina, una saletta da pranzo, alcune camere e la sala del focolare, dove possono ritrovarsi piccoli gruppi.

La cappella di NazarethNel cuore della fattoria abbiamo realizzato una piccola cappella, riscaldata da manufatti di legno che don Luigi ha trovato nelle campagne vicine e restaurato: “Gesù era un falegname - spiega – e volevo ricreare un ambiente di preghiera che gli assomigliasse”. Attualmente stiamo sistemando una nuova via d’accesso alla cappella. Sarà pron-ta per Pasqua.

L’ex stalla La stalla, che ospitava negli anni Sessanta un al-

levamento di mucche da latte dell’allora azienda agricola di Romena è un cantiere che, pian piano, rilascia nuovi spazi abitabili. È qui che è stato ri-cavato il punto ristoro, per condividere una sosta, un pasto, una piccola merenda e fermarsi a par-lare con un amico assaporando prodotti di quali-tà e biologici, ed è qui che si può trovare la libreria nella quale sono disponibili le pubblicazioni delle Edizioni Romena (la sede della casa editrice è al primo piano dell’ex stalla) e alcuni oggetti di ar-tigianato espressione della creatività degli amici di Romena. A fianco della libreria un portico che è funzionale a realizzare incontri e momenti comu-nitari, di fronte il cortile con un bellissimo prato che si apre come finestra sul Casentino: una scul-tura moderna occupa il centro di questo spazio, ricordando il gesto che è al cuore di ogni incontro di Romena: l’abbraccio.

L’arcaÈ lo spazio che abbiamo pensato per i gruppi che

di Massimo Orlandi

Fare casa, creando nuove opportunità accoglienti per stare insieme, per sviluppare i nostri percorsi, per condividere momenti di riflessione, di preghiera, di festa. È questo lo spirito con cui mese dopo mese stiamo ristrutturando, sistemando, abbellendo i nuovi spazi offerti dalla fattoria e dall’ex stalla. Cerchiamo di avvicinarci con cura a ogni luogo, perché respiri della sua storia, anzi la esprima ancor meglio, offrendo quel calore e quel senso di bellezza che è necessario perché diventi ‘casa’, la casa di tutti i viandanti di Romena.A tre anni di distanza dall’inizio dei lavori, ci piace ricordare e ricordarci quanto è stato realizzato sin qui e quanto ci accingiamo a realizzare.

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si vogliono ritrovare a Romena: un grande ambiente dove incontrarsi, stare insieme e magari condivide-re un pasto (c’è anche una spaziosa cucina). L’arca si trova sempre nell’area dell’ex stalla: sarà pronta a essere utilizzata a partire da Pasqua 2014.

L’ortoNel 2013 abbiamo cominciato a arricchire i nostri pa-sti con i prodotti dell’orto di Romena. Questo spazio di terra coltivato lo sentiamo in sintonia con il nostro cammino di riscoperta dei valori di autenticità e di bellezza che ci vengono dalla terra.

La via resurrectionis È una camminata meditativa che si sviluppa intorno alla Fraternità, toccando i campi, il bosco, sfiorando il fiumiciattolo (Fosso delle Pillozze) che scorre a pochi passi dalla pieve. Una camminata scandita da otto soste, rese visibili dalle icone di don Luigi. Ciascuna è dedicata a soffermarci sulle parole che possono aiutare ciascuno di noi a rinascere: umiltà, fiducia, libertà, leggerezza, perdono, fedeltà, tenerezza, amo-re. Ogni sosta è resa visibile da un’icona. Un libretto di pensieri e preghiere accompagna il cammino.

L’auditoriumAl centro dell’ex stalla c’è un grande spazio che diven-terà un auditorium per incontri. Avrà una capienza di 300 posti. È il prossimo grande obiettivo che speria-mo di poter realizzare tra non molto tempo.

Tutti questi lavori li abbiamo realizzati utilizzando i nostri risparmi e l’aiuto quotidiano di tanti amici. Dobbiamo ancora far molto, e dobbiamo anche far sì che questi spazi una volta realizzati siano curati, vissuti, tenuti con amore. Se potete vi chiediamo di sostenere questo cammino: un modo immediato è la destinazione del 5 per mille nella vostra dichiarazione dei redditi alla Fraternità che ha il codice

92 04 02 00 518Anche negli anni passati il vostro aiuto è stato preziosissimo. La destinazione del vostro 5 per mille ci aiuterà in maniera fondamentale nel proseguimento delle attività e nei lavori di ristrutturazione della fattoria, e in particolare, adesso, nella realizzazione dell’auditorium.

5x1000… Grazie!

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Rischiamo il CoraggioRoma 05 maggio 2014Parrocchia San Frumenzio - via Cavriglia 8 ore 21.00 GRosseto 06 maggio 2014Seminario Vescovile-Via Ferrucci,11 ore 21.00LIVoRNo 07 maggio 2014Parrocchia Sant’ Agostino - via Aldo Moro, 2 ore 21.00maRINa DI CaRRaRa 08 maggio 2014Parr. Santissima Annunziata-loc. Bassagrande ore 21.00PeRUGIa 20 maggio 2014Chiesa di Santo Spirito - via Parione,17 ore 21.00BRINDIsI 26 maggio 2014Chiesa San Vito Martire, via Sicilia 10 ore 20.30GaLatoNe (Le) 27 maggio 2014Chiesa di San Francesco d’Assisi-via Metello ore 21.00NoCI (Ba) 28 maggio 2014Parr.Maria SS. Della Natività – Chiesa Madre ore 20.30BaRI 29 maggio 2014Chiesa di San Marcello - L.go D. F. Ricci, 1 ore 20.30aLtamURa 30 maggio 2014Chiesa San Sabino - Loc. Fornello ore 20.30aNDRIa 31 maggio 2014Chiesa S. Agostino - P.zza S. Agostino 2 ore 20.30

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Pasqua a Romena

Vivere insieme i giorni di Pasqua e la festa della fraternità: anche quest’anno vi propo-niamo un percorso di incontri, di preghiera, di riflessioni e di festa durante la settimana santa. Un programma nel solco della tradizione cui si aggiungono però alcune novità come lo spettacolo teatrale in programma domenica sera, ore 21: un monologo su una santa (Caterina da Siena) e una poetessa (la rimatrice analfabeta Beatrice di Pian degli Ontani) di una grande attrice come Elisabetta Salvatori. Vi aspettiamo!

Per informazioni tel. 0575-582060

Giovedì 17 ore 21 lavanda dei piediVenerdì 18 ore 21 Veglia al ‘crocifisso’Sabato 19 ore 22.30 messa di Pasqua

Domenica 20 ore 17 Messaore 21 spettacolo “Piantate in terra come un faggio o una croce” con Elisabetta Salvatori (al violino Matteo Ceramelli)

Lunedì 21 festa della fraternitàore 10 camminata lungo la via resurrectionisore 11.30 Messa col Vescovo di Fiesole Mario Meiniore 13 pranzoore 15 spettacolo-animazione per bambini a cura della Compagnia delle arti di Romenaore 16 Camminando s’apre cammino, canzoni, letture, interventi dei collaboratori di Romenaore 17.30 intervento di don Luigi Verdi

Programma

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he vorrà dire “rischiare il coraggio”? Mi viene in mente il don Abbondio di manzoniana memoria: se il coraggio uno non ce l’ha non se lo può dare! Ed aveva ragione, poveri-

no, mi scapperebbe da dire. Anche io non mi sento di avere il coraggio di atti grandi, eroici.Usciamo (spero) da un periodo sciatto per la società civile e per la chiesa, che della società fa parte, dove chi criticava era a rischio di emarginazione, di essere classificato come “co-munista” o contestatore. Devo dire che un po’ mi sono adagiato a questo clima conformisti-co, anche se con un certo fastidio e mal di stomaco.Oggi la politica sembra in fermento e la vita della chiesa è scossa dalle continue provoca-zioni, positive, di Papa Francesco: è tempo di buttare via il conformismo, che fa solo male a chi lo vive, e anche a chi lo richiede o lo vorrebbe, alla società e alla chiesa. Bisogna “rischiare il coraggio”: ma che vuol dire realmente?Io ho tanti limiti, tante paure e irrequietezze che sono racchiuse nella mia interiorità, come faccio a rischiare questo coraggio!? Ma forse il mio vero coraggio è di accogliere questa mia complessità interiore, questi miei limiti e queste mie paure. Il vero coraggio è accogliermi e volermi bene come sono: solo in questo modo mi metto in condizione di riprendere il cammino della vita, di darmi la possi-bilità di cambiare, di diventare una persona più “bella”. Solo con questo coraggio di volermi bene, io posso voler bene all’altro, senza la pretesa che diventi come lo voglio io. Per me cristiano e prete a monte c’è l’amore di Dio, che mi ama come sono, fin da ora, subito: “Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente” scrive l’apostolo Giovanni, che se ne intendeva, nella sua prima lettera e

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Carlo Prezzolini

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riafferma poco dopo che “noi fin d’ora siamo figli di Dio” (3,1-2).Gesù ha accolto tutte le persone che incon-trava come erano e il suo camminare con loro ha aperto la strada alla conversione, al ritornare in se stessi per scoprirsi amati da Dio in modo unico. Zaccheo, capo de-gli esattori delle tasse per conto dei roma-ni, collaborazionista e ladro, lo chiama per nome e si invita a casa sua: e Zaccheo si converte alla solidarietà con i poveri donan-do molto delle sue ricchezze (Luca 19,1-10). E a proposito di pubblicani, Gesù aveva già chiamato Matteo a far parte dei suoi colla-boratori più stretti: e Matteo lo aveva segui-to ed aveva fatto festa a casa sua (Matteo 9,9-13). Allora il vero coraggio è non prendersi in giro, scoprirsi come siamo veramente e volersi bene, dandosi la possibilità di anda-re avanti e di cambiare. Il vero coraggio è accogliere la quotidianità della vita, con le sue povertà e le sue ricchezze e impegnarsi perché la mia quotidianità sia coerente con le mie scelte di vita.E il vero coraggio però è anche ribellarsi, denunciare con forza le offese alla digni-tà dell’uomo e le offese all’ambiente, i più grandi peccati dell’umanità del Terzo Millen-nio dell’era cristiana.

omena, pieve dalle porte aperte, percorse da venti di idee e noi,

assetati, siamo venuti ad abbeverarci.Abbiamo ascoltato parole nuove delle Scritture, parole che la nostra ragione fi-nalmente condivideva. Si è aperta un stra-da che non immaginavamo,un terreno per noi inesplorato che stiamo attraversando con fatica ma con l’entusiasmo dei neofiti. Dalle Scritture ma anche dall’uomo e dalla donna e dalla loro storia prendiamo spunti che ci accompagnano. Noi non cerchiamo la pace:il nostro è un percorso di tensione, una ricerca di verità, ma con spirito libero.

Per ora il trascendente resta in un angolo. Non siamo tra gli atei ma neppure tra i cre-denti tout court. Ci piace Meister Eckhart che diceva: “Ti prego Dio, tienimi lontano da dio.” Il dio totem non fà per noi. Non tutte le domande hanno risposte, ci sono zone d’ombra, ma ormai il cammino è co-minciato e non si può tornare indietro, nè lo vorremmo. L’avventura dello spirito è il più bel viaggio che abbiamo la grazia di intra-prendere.

Ercole Ciampo

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isorgi, e donaci parole coraggiose e spighe di calore, affinché questa generazione spezzi le catene e prepari la ricostruzione.

Luigi Verdi

Rfoto Paolo Dalle Nogare