0000 OSSERVATORIO NOVEMBRE 2012 0 - Difesa.it · sizioni prese dalle autorità cinesi nei confronti...

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Osservatorio StrategicoAnno XIV numero 11 novembre 2012

L’Osservatorio Strategico raccoglie analisi e reports sviluppati dal Centro Militare di Studi Strategici, realiz-zati sotto la direzione del Gen. D. CC. Eduardo Centore.

Le informazioni utilizzate per l’elaborazione delle analisi provengono tutte da fonti aperte (pubblicazioni astampa e siti web) e le fonti, non citate espressamente nei testi, possono essere fornite su richiesta.

Quanto contenuto nelle analisi riflette, pertanto, esclusivamente il pensiero degli autori, e non quello del Mi-nistero della Difesa né delle Istituzioni militari e/o civili alle quali gli autori stessi appartengono.

L’Osservatorio Strategico è disponibile anche in formato elettronico (file PDF) nelle pagine CeMiSS delCentro Alti Studi per la Difesa: www.casd.difesa.it

SommarioEDITORIALE

MONITORAGGIO STRATEGICO

Valter Conte

Regione Adriatico - Danubiana - BalcanicaAccordo Bulgaria – Gazprom e via Libera alla costruzione di South Stream, il gasdotto dei BalcaniPaolo Quercia 7

Comunità Stati Indipendenti - Europa OrientaleLa Contro-Riforma Della Difesa RussaAndrea Grazioso 13

Teatro AfghanoLa ripresa del «warlordismo»: da Herat la scintilla di una nuova guerra civile?Claudio Bertolotti 17

Medio Oriente - Golfo PersicoLa guerra lampo di Gaza e il “trionfo” di Mohammad Mursi nel negoziato della tregua tra Hamas e IsraeleNicola Pedde 23

AfricaRisvolti africani degli esiti del XIV vertice della francofoniaMarco Massoni 29

CinaBipartitismo alla pechineseNunziante Mastrolia 35

IndiaIndia: una nuova politica estera in vista del ritorno degli Stati Uniti in Asia.Claudia Astarita 41

America LatinaHaiti: l’isola che non c’èAlessandro Politi 47

Iniziative Europee di DifesaLe molte sfide che si addensano sui cieli islandesiStefano Felician Beccari 55

Relazioni Transatlantiche - NATOUltime evoluzioni del dibattito strategico statunitenseLucio Martino 63

Organizzazioni Internazionali e Cooperazione Centro AsiaticaLa Presenza Militare Russa In Asia Centrale: Breve Punto Di Situazione Sul Finire Del 2012Lorena Di Placido 69

Organizzazioni InternazionaliSri-Lanka e responsabilità di proteggere: il fallimento dell’ONUValerio Bosco 75

Settore EnergeticoProgramma nucleare iraniano: breve storia, analisi e prospettiveAngelantonio Rosato 81

RecensioniCriteri per un giusto bilanciamento fra efficacia dello strumento militare e costi per l'implementazione delle nuove tecnologieAndrea Locatelli 91

Sistemi di Supporto alle Decisioni basati su metodologie avanzate di pianificazione, (modelli matematici della complessita’, soft-co-puting) per usi di Stato MaggioreGerardo IovineGerardo Iovane 93

Osservatorio StrategicoVice Direttore Responsabile

C.V. Valter Conte

Dipartimento Relazioni InternazionaliPalazzo Salviati

Piazza della Rovere, 83 00165 – ROMAtel. 06 4691 3204 fax 06 6879779

e-mail [email protected]

Questo numero è stato chiuso30 novembre 2012

- Editing grafico a cura di Massimo Bilotta -

Anno XIV - n° 11 novembre 2012

EDITORIALE

USA – Cina: Prospettive dopo la rielezione di ObamaL'esito delle presidenziali statunitensi sembra rappresentare uno sviluppo positivo per il futurodelle relazioni tra Stati Uniti e Cina. Tra le altre cose, la nuova affermazione politica di Obama edel partito democratico sembra aver l’effetto di consolidare il processo di riavvicinamento con laFederazione Russa e di ridurre notevolmente il rischio di nuovi avventurismi mediorientali e cau-casici. Inoltre, per quanto sia senz'altro vero che un certo livello d'insofferenza nei confronti diPechino è ormai un qualcosa di quasi endemico per l’intero sistema politico statunitense e, più inparticolare, per chiunque coltivi ambizioni presidenziali, è altrettanto vero che erano in molti acredere che un’eventuale elezione di Romney avrebbe condotto all’adozione nei riguardi dellaCina di una strategia di diretto confronto.D'altra parte, anche il presente ottimismo potrebbe rivelarsi infondato. Sono numerose le iniziativedecise dall’amministrazione Obama che la leadership cinese non può interpretare come propria-mente distensive, mentre il presidente stesso ha più volte sostenuto con decisione l’esigenza dicontingentare il volume delle importazioni dalla Cina attraverso l'imposizione di sempre nuovetariffe doganali e ha ripetutamente denunciato come illegittime le misure adottate dalle autoritàcinesi a protezione della propria economia.Ancor meno si può sostenere che l'amministrazione Obama abbia riservato alla Cina un occhio diriguardo nel riposizionare il proprio baricentro strategico in prossimità della tradizionale sferad'influenza cinese. Un ulteriore prova della complessa natura dei rapporti statunitensi con il Regnodi Mezzo è offerta dalla decisione di assicurare a Taiwan ancora un altro pacchetto di fornituremilitari, nonostante la relativa distensione registrata nei rapporti tra le due Cine in questi ultimianni. Da ultimo l’intera amministrazione Obama si è poi impegnata in un’accesa critica delle po-sizioni prese dalle autorità cinesi nei confronti delle presenti questioni mediorientali.Il progressivo emergere di una strategia di contenimento della Cina è ancor più evidente nellaserie di dichiarazioni rilasciate dagli uomini dell'amministrazione Obama in merito alle disputeche dividono quell'insieme di grandi e piccoli stati che si affacciano sul Mar Cinese Meridionale.Sebbene gli Stati Uniti continuino a dichiararsi neutrali, il comportamento dell'amministrazioneObama, di fatto, sembra di ben diversa natura, a cominciare dall'appoggio offerto al Giappone inmerito al destino delle isole Diaoyu e per non dire del sostegno garantito al Vietnam, alle Filippinee a tutti gli altri paesi intenzionati a sfidare le pretese territoriali cinesi.Nel frattempo, l’avvento della nuova leadership cinese dovrebbe marcare l’inizio di una fase dicrescita economica che potrebbe rivelarsi ancora più forte di quanto non si aspettino i mercati fi-nanziari. Tuttavia, il fatto che l’inflazione cinese sembri destinata ad attestarsi su valori non menosorprendentemente alti, vale a dire oltre il quattro per cento, sembrerebbe dimostrare che la Cinacontinuerà nel prossimo futuro a crescere molto al di sotto delle proprie possibilità, cosa questache potrebbe rendere ancora più complesso il rapporto con gli Stati Uniti.Nell’insieme, questo stato di cose sembra indicare che a dispetto della rielezione di Obama, StatiUniti e Cina potrebbero andare incontro a nuovi momenti di tensione stemperati solo dall’inten-zione di non compromettere seriamente quell’enorme volume di scambi finanziari e commercialiche lentamente, ma progressivamente, sta creando per i due paesi una condizione di reciproca di-pendenza.

Valter Conte

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MONITORAGGIO STRATEGICO

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RegioneAdriatico - Danubiana - Balcanica

Paolo Quercia

Eventi►Turchia, Putin in visita ad Ankara il 3 dicembre. Il presidente russo Vladimir Putin si recheràin visita in Turchia il 3 dicembre 2012. Tale missione diplomatica è stata riprogrammata dopoche la precedente visita fu annullata a seguito delle proteste russe per “l’incidente” relativo alvolo Mosca – Damasco, fermato dalle autorità di Ankara mentre sorvolava lo spazio aereo turcoa causa di una presunta violazione dell’embargo di armi verso la Siria. Sul tavolo della visita visaranno i positivi rapporti economici tra i due paesi (35 miliardi di dollari) e gli altrettanto im-portanti rapporti di collaborazione energetica. Nel corso degli incontri istituzionali saranno si-curamente affrontati anche vari temi politici, tra cui quelli relativi alle questioni mediorientali,come il conflitto siriano, che vedono Mosca e Damasco posizionate su due fronti differenti e chehanno più volte rischiato di portare i due paesi in rotta di collisione.►L’Aja, assolto ex premier kosovaro e leader UCK Ramush Haradinaj. Una delle figure simbolodell’indipendenza kosovara, Ramush Haridinaj, già uno dei comandanti dell’UCK durante il con-flitto con le forze serbe e primo ministro kosovaro nel 2004, è stato assolto dal Tribunale Penaledell’Aja dalle accuse di aver ordinato la tortura e l’uccisione di civili serbi ed albanesi nel campodi Jablanica nel corso del conflitto del 1998. Il processo conferma il verdetto di assoluzione didue anni fa, quando l’ex premier kosovaro fu assolto da numerosi capi di imputazione, ma per seidi essi era stata chiesta una ripetizione perché si ritenne che alcuni testimoni erano stati intimiditi.Verosimilmente, anche la nuova sentenza di assoluzione sarà accompagnata da molte polemiche,a causa del generale clima di insicurezza in cui si è svolto il processo, con l’Accusa che più volteha avuto difficoltà a portare in tribunale testimoni attendibili. L’assoluzione di Haradinaj dai casicontestati mette comunque un punto fermo alla vicenda, ma l’intera gestione processuale ha evi-denziato le difficoltà a cui va incontro un tribunale internazionale a raccogliere prove di reaticommessi, e documentati nello stesso processo, in un territorio su cui non esercita sovranità alcunae con la mancata collaborazione della popolazione e delle autorità locali. Di tutta la vicenda delprocesso Haradinaj, un aspetto sicuramente poco chiaro è rappresentato dalle morti sospette edagli omicidi – tra cui quello di un testimone sotto protezione – che si sono verificati nel corsodel processo e che hanno indotto molti altri possibili testimoni a decidere di non testimoniare.Quel che conta però oggi è il dato politico di rilievo, che vedrà Haradinaj rientrare in Kosovo as-solto da ogni indizio e verosimilmente in grado di rientrare nello scenario politico kosovaro.

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MONITORAGGIO STRATEGICO

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►Balcani, la russa Sberbank rinomina la rete balcanica della Volksbank international. La Sber-bank, la maggiore banca russa – il cui azionista di maggioranza è la Banca Centrale della Fede-razione Russa – ha deciso di rinominare Sberbank Europe AG la rete estera della Volksbankaustriaca, recentemente acquistata per 505 milioni di euro. L’acquisto della Volksbank Interna-tional AG Group, la holding che possedeva la rete Volksbank nei paesi dell’Europa Orientale, erastato completato nel mese di agosto scorso e ha visto passare sotto l’autorità russa le controllatedella Volksbank di Serbia, Bosnia Erzegovina e Croazia. ►Classifiche 2012 della competitività economica dell’Europa Sud Orientale. La rivista ameri-cana Forbe’s ha pubblicato un aggiornamento della propria graduatoria annuale dei paesi in cuila condizione interna è maggiormente favorevole allo sviluppo degli affari e, in particolare, agliinvestimenti esteri. Su un totale di 141 paesi censiti, per quanto riguarda la regione dell’EuropaSud Orientale, il primo paese della regione per business climate è la Slovenia (23° posto in gra-duatoria), seguito da Cipro (25°), dalla Macedonia (37°) e dal Montenegro (45°). I grandi paesidella regione non sono tra questo primo gruppo di economie maggiormente aperte agli investi-menti esteri, caratterizzate anche dalle ridotte dimensioni dei mercati interni. La Croazia (47°),la Bulgaria (49°), la Turchia (52°), la Romania (60°), la Grecia (68°), l’Albania (74°) e la BosniaErzegovina (85°) fanno parte di un secondo livello di mercati considerati meno competitivi. Chiudela graduatoria “regionale” la Serbia al 90esimo posto. La classifica conferma una seria di “suc-cessi”, Slovenia e Macedonia in particolare, ma anche di ritardi, come quello dell’Albania chedovrebbe essere nel gruppo di testa e della Serbia, che chiude la classifica come paese meno ap-petibile agli investimenti internazionali. ►Macedonia, segnali di tensione all’interno della comunità religiosa islamica. Un’ineditaforma di tensione si è recentemente sviluppata all’interno della comunità islamica macedone trafedeli di nazionalità albanese e musulmani di etnia rom. Il disaccordo è stato originato da un con-tenzioso sui permessi per costruire una nuova moschea, che erano stati negati dalla ComunitàReligiosa Islamica macedone (egemonizzata dall’etnia albanofona) a fedeli di etnia rom, chestanno procedendo autonomamente alla costruzione di una propria moschea nella città di Prelip.La questione, da una semplice vicenda urbanistica/autorizzativa sta aumentando di interesse siada parte delle istituzioni islamiche che delle autorità di governo macedoni, e la questione di cosafare di eventuali luoghi di culto eretti senza l’autorizzazione della Comunità Religiosa islamicamacedone. Il rischio della proliferazione di moschee non autorizzate e la collegata possibilità dicostruzione di istituzioni islamiche parallele riguarda non solamente le comunità islamiche di di-versa nazionalità di quella maggioritaria, come nel caso dei rom, ma soprattutto anche l’operatodelle anime più radicali dell’islam balcanico.

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MONITORAGGIO STRATEGICO

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ACCORDO BULGARIA – GAZPROM E VIA LIBERA ALLA COSTRUZIONE

DI SOUTH STREAM, IL GASDOTTO DEI BALCANI

Le società partner del progetto South Stream(Gazprom 50%, ENI 20%, EDF 15%, Winter-shall 15%) hanno concordato l’avvio per ilmese di dicembre 2012 delle prime opere di co-struzione del progetto di gasdotto sottomarinoche già dal 2015 dovrebbe iniziare il trasportodelle prime quantità di gas e che nel 2019 po-trebbe arrivare a pieno regime a trasportare unmassimo di 63 bcm. L’ultimo tassello della ca-tena che consentirà di passare alla fase opera-tiva del progetto è stato il completamentodell’ultimo degli accordi intergovernativi nellapenisola balcanica, quello tra Gazprom e la Bul-garia. Firmato alla metà di novembre, l’accordoprevede il passaggio di South Stream sul terri-torio bulgaro e che consente di completare lavia terrestre del gasdotto che prevede il passag-gio Russia – Mar Nero (acque territoriali tur-che) – Bulgaria – Serbia – Ungheria – Slovenia– Italia (Tarvisio). La firma di tale accordo è ve-nuta a coincidere con la scadenza dei contrattipluriennali di fornitura del gas tra Russia e Bul-garia, alla fine del 2012. Dai comunicati uffi-ciali che hanno seguito la firma dell’accordo traSofia e Mosca emerge che la Bulgaria ha otte-nuto, apparentemente, condizioni piuttosto van-taggiose come contropartita della firmadell’accordo. In particolare Sofia ha negoziatoun elevato sconto (del 20%) sui prezzi per leforniture di gas per i prossimi 6 anni. Tale ridu-zione è superiore a quella che agli inizi del 2012la Bulgaria era riuscita a ottenere da Gazprom,che aveva concesso un taglio dei costi dell’11%,condizionandolo però alla firma degli accordisulla costruzione del ramo bulgaro di SouthStream. Complessivamente il nuovo accordoprevede la fornitura di 2,9 bcm di gas naturale(sostanzialmente l’intera capacità di assorbi-

mento del mercato bulgaro) per una durata disei anni con un contratto basato per l’80% sullaclausola take or pay. Il precedente accordo difornitura di gas era basato sempre su una for-mula take or pay ma al 90%, ed era ovviamentepiù oneroso per l’acquirente. Questi migliora-menti contrattuali sicuramente sono in parte ilfrutto del negoziato di adesione della Bulgariaal progetto South Stream, ma fanno anche partedi un trend generalizzato europeo di revisioneal ribasso dei contratti di fornitura di gas natu-rale in virtù della situazione di eccesso di of-ferta realizzatasi sui mercati a causa siadell’esplosione del fenomeno del LNG (il gasliquefatto commercializzato via metaniera, ac-quistabile sui mercati spot senza i vincoli geo-politici e di lungo termine connessi con lepipeline) sia della contrazione dei volumi euro-pei a seguito degli effetti della crisi economicapost 2008. I miglioramenti delle clausole contrattuali nonsono, tuttavia, il solo aspetto di rilievo che laBulgaria ha ottenuto nel rapporto con Gazprom.Avendo Sofia dichiarato di non avere disponi-bilità finanziarie per la costruzione del ramobulgaro del progetto (540 chilometri, con stimedi costo pari a 3,3 miliardi di euro, ma che pro-babilmente aumenteranno), né di volersi inde-bitare per la sua realizzazione, la costruzionedelle infrastrutture sul territorio bulgaro sarà acarico di Gazprom che dovrebbe provvedere al-l’intero finanziamento della loro progettazioneed esecuzione. Come contropartita, però, laBulgaria devolverà all’azienda russa il valoredelle royalty per il transito del gas sul proprioterritorio per un periodo di 15 anni, perdendodunque un’entrata netta che costituiva un nonsecondario vantaggio dell’intera operazione.

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Al di là delle considerazioni politiche, strategi-che e di sicurezza energetica, quale sarà il pesoenergetico dei nuovi accordi contrattuali per laBulgaria e come essi influiranno sul rapportocon Mosca? Attualmente, considerando i datidisponibili del 2011, il fabbisogno di energiaprimaria della Bulgaria è stimato essere pari a19,2 MTOE (milioni di tonnellate equivalential petrolio). Questo fabbisogno è soddisfatto al47% dall’utilizzo del carbone, dal 19% dal nu-cleare, dal 18% dal petrolio e dal 13,6% dal gasnaturale. Il gas equivale pertanto a un decimocirca dell’intero fabbisogno del paese e sarà in-teramente coperto dalle forniture russe per iprossimi anni. Ma la Bulgaria dipende daMosca pressoché interamente anche per quantoriguarda la fornitura di petrolio (85%) e di com-bustibile nucleare (contratto con la russa TWELfino al 2026), portando la dipendenza energe-tica dalla Russia circa al 50% del fabbisognonazionale. Anche questi due settori sono difattidominati dalla cooperazione russo – bulgara.Per quanto riguarda il petrolio essa si manifestacon la presenza di Lukoil Bulgaria come prin-cipale pivot del settore e con il progetto dellacostruzione di una pipeline Burgas – Alexan-dropolis (attualmente congelato), mentre per ilsettore nucleare (forse quello in cui la coopera-zione è più avanzata) nella partnership atomicanelle centrali nucleari di Kozloduy (in funzione)e Belene (in progettazione). Nel 2009, il nuovo governo di centrodestra gui-dato da Boyko Ivanov aveva cercato di segnareuna discontinuità politica con il precedente go-verno di centro sinistra e rispetto all’influenzache aveva decisamente puntato sulla partner-ship energetica con Mosca. Tale cambio dirotta, non aveva solo una dimensione di politicainterna ma in qualche modo era anche legatoalle vicende dell’interruzione delle forniture digas connesse con la crisi del 2009, che avevavisto la Bulgaria restare tagliata per tre setti-

mane dalle forniture di gas russo. Tuttavia, losviluppo successivo dell’azione del governoBorisov ha confermato che poche alternativesussistono per Sofia alla cooperazione sui temienergetici con Mosca e la partita politica non èquella se decidere o meno di collaborare con laRussia su temi energetici, quanto piuttosto dimantenere il più possibile trasparenti e legate alogiche di mercato le relazioni di fornitura deiprincipali combustibili energetici, a iniziare dagas e petrolio. Tra le altre cose la Bulgaria si ètrovata alla fine del 2012 a rappresentare, sia daun punto di vista temporale che geopolitico, unprezioso tassello per l’avanzamento del pro-getto South Stream che al momento, tra quelli“concorrenti” per l’Europa Sud Orientale, restail più concreto e appetibile, anche se sussistonoancora aspetti non del tutto chiari in merito aicosti finali, alla divisione dei costi delle opereinfrastrutturali, ai soggetti che le realizzeranno,nonché del loro regime giuridico di possesso(ciò anche alla luce delle disposizioni del Terzopacchetto energia europeo). Sono probabil-mente questi aspetti ancora in via di definizioneche hanno fatto inserire tra le clausole di parte-cipazione dei tre azionisti non russi di SouthStream un’opzione di abbandono del progetto.Una tale eventualità, in mano ai soci europei diSouth Stream, rappresenta un rischio di conge-lamento del progetto che i paesi balcanici attra-versati dal suo percorso, inclusa la Bulgaria,non possono non aver tenuto in considerazione.Anche per questo motivo, il governo bulgaro haoptato all’ingresso in South Stream cercando dinon pregiudicare un proprio ruolo in altri pro-getti che, come Nabucco, sono nati concorrentima che potrebbero rivelarsi complementari adesso. Per Sofia la massimizzazione del propriointeresse energetico sarebbe quello di ottenere,oltre all’avvio di South Stream, anche la realiz-zazione del cosiddetto Nabucco West – la ver-sione ridotta del Nabucco – del quale sarebbe il

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primo paese europeo di transito e da cui po-trebbe beneficiare non in termini di gas, avendogià soddisfatto il proprio fabbisogno energetico,ma come transit fee e leverage politico. Bisogna anche tenere presente che la Bulgaria,per la propria sicurezza energetica, ha tantobisogno di diversificare i propri fornitori,quanto quello di ridurre i prezzi di acquisto delleproprie materie prime energetiche che quello diavere un rapporto il più diretto possibile con ipaesi produttori, eliminando il rischio di tran-sito. Le logiche estremamente complesse dellasicurezza energetica insegnano che è estrema-mente difficile per i paesi importatori massimiz-zare al tempo stesso tutte le dimensioni dellasicurezza energetica. Con la partecipazione inSouth Stream, la Bulgaria punta a migliorare gliultimi due aspetti della propria sicurezza ener-getica, ampliando però il ruolo del suo fornitore

monopolista nel campo del gas e petrolio. Ciò èprobabilmente una scelta obbligata, che può es-sere tuttavia temperata con il sostegno attivo adaltri progetti paneuropei e con la costruzione dibretelle di interconnessioni con altri paesi dellaregione. Infine Sofia non sembra neanche dis-degnare la possibilità di aprire alle nuove formedi gas non convenzionale come lo shale che,oltre certi limiti dei prezzi del petrolio e con lacapacità di gestirne le controindicazioni ambi-entali, possono aprire inattese nuove produzionidomestiche. Per questo motivo la Bulgaria in-coraggia le compagnie straniere (come laChevron e la Direct Petroleum Exploration) chepossono portare le nuove tecnologie sperimen-tate in USA e Canada per l’esplorazione e leprove di estrazione di shale gas delle rocce deidepositi del blocco di Novi Pazar.

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►Procede la realizzazione della nuova base navale russa di Novorossisk, in Mar Nero. I lavoriprincipali vertono sul dragaggio del fondo e sulla realizzazione di nuovi moli, per consentire allabase di ospitare anche Unità di maggiore tonnellaggio, oggi basate a Sebastopoli, in Ucraina.Come noto, nell’Aprile del 2010 Russia e Ucraina raggiunsero un accordo per il prolungamentodell’affitto della base di Sebastopoli per almeno altri 25 anni. Fin dal 1997, però, per cautelarsirispetto al possibile “sfratto” dalla principale infrastruttura a disposizione della Flotta del MarNero, la Russia aveva avviato la realizzazione della nuova base militare presso Novorossisk, sulproprio territorio. Secondo le notizie più recenti, a completamento della prima fase dei lavori,l’operatività iniziale della nuova base potrebbe essere raggiunta già nel 2013.►L’Ucraina sembra decisamente intenzionata a ridurre, già nel medio termine, la propria di-pendenza dell’importazione di gas naturale proveniente dalla Russia. Nel mese di novembre,Kiev ha avviato l’importazione di gas dalla società tedesca RWE, con l’obiettivo dichiarato di ri-durre del 4% le importazioni di quest’anno dalla Russia, e del 16% nel corso del 2013. Ancorapiù significativo il progetto di realizzare un impianto off-shore, nel Mar Nero, per la rigassifica-zione, al fine di importare gas liquefatto da altri produttori. Un simile impianto, quando funzio-nante a regime, abbatterebbe molto significativamente la dipendenza dalla Russia. È opportunosegnalare, però, come esistano forti dubbi tecnici sulla concreta realizzabilità di ambedue i citatiprogrammi, sia per la limitata capacità dei gasdotti che, attraverso la Polonia, consentirebberodi importare gas dalla Germania, sia per gli oneri associati alla costruzione dell’impianto di ri-gassificazione in Mar Nero.

Comunità di Stati Indipendenti Europa Orientale

Andrea Grazioso

Eventi

LA CONTRO-RIFORMA DELLA DIFESA RUSSA

Il 6 novembre, attuando una decisione che eraprobabilmente maturata da tempo, il Presidenterusso Putin ha sollevato dall’incarico il Ministro

della Difesa, Anatoly Serdyukov, rimpiazzan-dolo con Sergei Shoigu, Governatore della re-gione di Mosca e, per oltre venti anni, a capo

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del Dicastero per “le situazioni di emergenza”.Con tale mossa, si sblocca una situazione distallo che durava ormai da molti mesi, situa-zione causata dalla inconciliabilità degli inte-ressi politici ed economici che ruotano attornoal mondo della Difesa.

La Riforma mancata di SerdyukovAnatoly Serdyukov sarà certamente ricordatoquale protagonista di uno dei più arditi, com-plessi e controversi programmi di riforma nellastoria della Russia post-sovietica. Uomo d’af-fari in quella San Pietroburgo da dove provieneanche il Presidente Putin, Serdyukov deve lasua ascesa politica al matrimonio in secondenozze con la figlia di Victor Zubkov, influenteed ascoltato accolito di Putin, già Primo Mini-stro nella seconda metà degli anni duemila.Il riferimento al legame parentale acquisito, nelcaso di Serdyukov, non è affatto materia da gos-sip, giacché, a parere di molti, l’ultimo e deter-minante fattore che ha imposto a Putin diprocedere con la sua sostituzione è stato loscandalo “sessuale” che lo ha coinvolto, conl’accusa di intrattenere una relazione extraco-niugale con Eugenia Vasilyeva, alto dirigentedel Dicastero guidato da Serdyukov.Non si deve tuttavia credere che il moralismo oaddirittura il “perbenismo” abbia fatto irruzionenella società e nella politica russe, a similitudinedi quanto avviene in alcune realtà occidentali.Serdyukov, al contrario, era da molto tempo di-venuto un personaggio scomodo per il suo pro-cedere nella riforma della Difesa russa e, inparticolare, per le posizioni assunte nei nume-rosi contenziosi con l’apparato industriale for-nitore della stessa Difesa.È bene ricordare come fu proprio Putin a vo-lerlo alla guida del Dicastero, e fu proprio ilPresidente a proteggerlo, fino ad un recente pas-sato, perché evidentemente convinto della ne-cessità di rimuovere i molti “interessi paralleli”

che, nei decenni, hanno trasformato le Forze ar-mate ed il business delle forniture militari inuno dei maggiori centri di corruzione del Paese.Ma, come detto, nel corso degli anni il proce-dere di Serdyukov “contro corrente” ha pro-dotto una tale resistenza, in tutti i livellidell’apparato militare e dell’industria, da co-stringere alla fine il Presidente a rimpiazzarlo,di fatto rinunciando a perseguire la “sua” stessalinea di riforma del sistema militare, rinnegan-dola ed anzi compiendo una completa inver-sione di rotta, nel senso di un deciso ritornoverso il passato.

La Contro-Riforma di ShoiguCon la nomina di Sergei Shoigu, Putin ha rapi-damente adottato un nuovo corso, di fatto can-cellando quasi con un tratto molti dei passi inavanti compiuti negli ultimi anni.In primo luogo, è opportuno segnalare comeallo stesso Shoigu sia stato assegnato il gradodi “Generale” (tecnicamente parlando, si trattadel grado di “Generale dell’Esercito”, ovvero“a quattro stelle”, cioè il grado più alto, nell’at-tuale ordinamento militare russo, fra quelli ef-fettivamente assegnati). Shoigu, in effetti, nonera un militare, sebbene egli abbia diretto, comegià detto, il Ministero per le situazioni di emer-genza, che ha una sua tecnostruttura militariz-zata. Proprio ricorrendo a questo suo incaricoprecedente, è stato “richiamato” in servizio contale grado apicale. In questo modo, la Russiatorna ad avere un Generale in uniforme a capodel Dicastero della Difesa.Alla nomina del nuovo Ministro è immediata-mente – e quasi inevitabilmente – seguita unavasta purga fra i vertici militari e civili della Di-fesa.Nikolai Makarov, Capo di Stato Maggiore dellaDifesa, è stato congedato appena tre giorni dopol’insediamento di Shoigu e rimpiazzato da Va-lery Gerasimov, già Comandante del Distretto

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Militare Centrale.Makarov, certamente uno dei falchi dell’appa-rato russo – famoso, al riguardo, il suo atteggia-mento sprezzante e le sue dichiarazioni a dirpoco minacciose, relative all’eventuale accessodella Finlandia alla NATO –, era nondimenoconsiderato il braccio destro di Serdyukov e,come tale, non poteva certo sperare di avere unalunga sopravvivenza.Gerasimov, dal canto suo, è piuttosto noto inOccidente, in particolare fra gli “addetti ai la-vori” che, negli ultimi anni, hanno gestito ilcontroverso dossier della difesa missilistica, no-toriamente uno dei punti di maggior conten-zioso con la Russia.Gerasimov, infatti, nel corso della “conferenza”(in verità, una ben costruita scenografia funzio-nale agli obiettivi politici e mediatici del Crem-lino ) sulla difesa missilistica, tenutasi a Moscanel Maggio 2012, presentò la posizione russanella forma più dura e intransigente.Egli è stato immediatamente incaricato – nel-l’atto stesso della sua nomina – di agire, di con-certo col nuovo Ministro, per ristabilire unarelazione “stabile e positiva” con le varie com-ponenti del sistema militar-industriale.Con questo, si disvela una parte – probabil-mente quella principale – delle motivazioni die-tro alla rimozione di Serdyukov ed al cambio dirotta voluto da Putin.Dopo il settore dell’energia, infatti, quello dellaproduzione militare è il principale compartoeconomico russo, capace di generare enormiutili, soprattutto grazie alle esportazioni che,negli ultimi anni, sono tornate su livelli davveroragguardevoli.Si deve tuttavia considerare come, sempre piùspesso, le produzioni militari russe debbanoconcorrere con quelle occidentali e, più di re-cente, cinesi su un piano di diretto confrontocommerciale. Con sempre maggiore frequenza,infatti, i potenziali acquirenti impongono vere

competizioni fra le proposte dei vari “big” mon-diali del settore; i mercati “protetti”, dove learmi russe non hanno concorrenti, si sono oggimolto ristretti, essendo limitati a quegli “Staticanaglia” con i quali l’Occidente non vuoleavere nulla a che fare. Ma sono, ovviamente,anche acquirenti con modeste disponibilità eco-nomiche e, quindi, poco interessanti.In forza di tale nuova condizione di concor-renza, le produzioni militari russe devono giun-gere sul mercato a prezzi competitivi e concontenuti tecnologici tendenzialmente parago-nabili a quelli dei prodotti occidentali. Questo,a causa degli oltre dieci anni di profonda crisieconomica e di conseguente arresto negli inve-stimenti in ricerca e sviluppo, risulta sempre piùdifficile per i produttori russi.Ecco perché questi ultimi hanno necessità di ungrande sostegno da parte del “committente do-mestico”, cioè da parte delle Forze armaterusse, le quali dovrebbero finanziare lo sviluppodei nuovi sistemi e pagare poi l’acquisizione deiprimi lotti di produzione, quelli in genere piùonerosi da realizzare e non ancora pienamenteefficienti, proprio per garantire ai potenzialiclienti esteri i prezzi più bassi e le prestazionimigliori.Altrettanto evidente è che questa prassi – peral-tro comune a molti altri Paesi con un’industriaper la difesa fortemente orientata verso l’espor-tazione – determini forti penalizzazioni per leForze armate nazionali.Serdyukov e Makarov, negli ultimi anni, sierano opposti a tale pratica, tanto da giungere apreferire l’importazione di prodotti stranieri –emblematico il caso del “Lince” italiano – allaproduzione dell’industria nazionale.Ma, considerato il grande peso economico, equindi politico, di questo settore produttivo, eraprevedibile che, prima o poi, Serdyukovavrebbe pagato questa sua “ortodossia” effi-cientista.

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Così è stato, alla fine, e ciò è avvenuto quandol’ennesimo scandalo lo ha privato di quella“protezione familiare” che, fin dall’inizio dellasua carriera, ne aveva garantito le fortune.

Ma i problemi rimangonoNon si può, comunque, ridurre la “Riforma Ser-dyukov” alla sola, sebbene fondamentale que-stione del rapporto fra Forze armate e industriadegli armamenti. Serdyukov ha anche smantel-lato il sistema di mobilitazione o, più esatta-mente, ha imposto una riorganizzazione delleForze operative dell’Esercito tale da non preve-dere più la mobilitazione delle riserve per por-tare alla piena operatività le formazionicombattenti.Questo, però, solo sulla carta. Infatti, le nuove“Brigate pronte al combattimento” non sonomai divenute realmente tali, per un duplice pro-blema: la grave carenza negli organici (anchesotto il 50%, in molte Unità) e lo scarso adde-stramento di buona parte del personale, in fermaobbligatoria di un anno.Questo “fallimento” di uno degli obiettivi

chiave della Riforma (la ricerca di una mag-giore prontezza operativa) non va però ascrittoa Serdyukov, giacché è il risultato ultimo diquelle fragilità strutturali già segnalate propriosu queste pagine, fragilità che non possono es-sere di certo affrontate e risolte a livello di Mi-nistero della Difesa.

Con una demografia così in crisi e conl’enorme difficoltà a reclutare personale di ac-cettabile qualità, nessuna possibile struttura oforma organizzativa potrà funzionare.Di certo, però, la “marcia indietro” voluta daPutin in tema di Difesa, qualora dovesse ri-guardare anche il “nuovo Modello” introdottoda Serdyukov, finirebbe per peggiorare la situa-zione complessiva. O, più esattamente, an-drebbe incontro anche al forte malumore deitanti alti gradi delle Forze armate che hannovisto compromesse le loro aspettative di car-riera con il discioglimento delle Unità quadrodelle Forze armate, ma ridurrebbe ulterior-mente il grado di operatività di queste ultime.

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Teatro Afghano

Claudio Bertolotti

Eventi►La produzione di oppio ha registrato un incremento in conseguenza dell’aumento del prezzoalla vendita (si rimanda a «Osservatorio Strategico - Teatro Afghano 10/2012») e della decrescentecapacità di controllo del territorio da parte delle ANSF e di ISAF che avrebbe garantito un mag-gior margine di manovra ai produttori e ai narcotrafficanti. Ulteriore fattore di crescita del feno-meno è la mancata capacità del governo afghano di applicare un’efficace politica di contrasto.►L’Arabia Saudita costruirà un imponente complesso universitario islamico, comprensivo dimoschea, nella capitale Kabul. Si valuta che l’infrastruttura, la cui costruzione sarà avviata neiprossimi mesi, costerà cento milioni di dollari e potrà ospitare oltre cinque mila studenti.►1 novembre – Il governo afghano, attraverso l’Afghanistan’s Independent Election Commission,ha annunciato l’intenzione di procedere alle elezioni provinciali e presidenziali fissando la dataal 5 aprile 2014. La decisione, una dimostrazione della volontà di rispetto dei principi democratici,è funzionale al contenimento del rischio potenziale di guerra civile conseguente al disimpegnodella Nato. Al termine del suo secondo mandato, Karzai non potrà partecipare alla competizioneelettorale.►6 novembre – In aderenza alla linea politica statunitense, l’Afghanistan ha accolto con favorela decisione delle Nazioni Unite di applicare delle sanzioni nei confronti dell’Haqqani network(già inserita nella lista Specially Designated Global Terrorists statunitense), escludendone la pos-sibilità di partecipazione ai colloqui di pace.►5 novembre – Il mullah Sangin Zadran, comandante di alto livello dell’Haqqani Network, giàgovernatore ombra dei taliban nella provincia di Paktika e responsabile della cattura e detenzionedi un militare statunitense, è apparso in un video diffuso da un sito web jihadista turco; nel videosono presenti espliciti appelli ai turchi e ai curdi, invitati a prendere parte alla guerra di libera-zione dell’Afghanistan.►7 novembre – L’Iran, nel rispetto degli accordi siglati nel mese di marzo, avvierà la costruzionedi una pipeline verso l’Afghanistan finalizzata all’esportazione di derivati del petrolio, in parti-colare gasolio, carburante per aviazione e benzina.►8 novembre – Afghanistan e India hanno siglato alcuni accordi e memorandum of understandingfinalizzati alla cooperazione economica e strategica per il post-2014.►12 novembre – L’economia dell’Afghanistan è aumentata dell’11 per cento nel corso del 2012,

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All’avvicinarsi della transizione e al conse-guente disimpegno militare della Nato, aumen-tano le spinte dirette e indirette volte a portarel’Afghanistan verso un processo di progressivadestabilizzazione interna. Ismail Khan, ricco epotente ex-mujaheddin, «warlord» e attual-mente ministro del governo afghano, ha mani-festato preoccupazione e mancanza di fiducianei confronti dello stesso esecutivo e delle forzedi sicurezza nazionali (ANSF) chiamando araccolta i suoi seguaci, alleati e compagni diHerat al fine di creare una milizia per difendereil Paese dalla minaccia dei taliban.Una situazione paradossale e preoccupante al

tempo stesso, che ha il merito di mettere in lucel’umore che serpeggia all’interno delle stesseistituzioni afghane. Le reazioni non sono man-cate, così come non sono mancate le critiche ei riferimenti a una potenziale escalation dellaviolenza all’indomani del disimpegno delleforze della Nato.

Chi è l’uomo che contribuirebbe ad alimen-tare le possibilità di una nuova guerra civile?Mohammad Ismail Khan è uno dei più potentiex-mujaheddin e warlord in vita, impegnatonella lotta anti-sovietica, prima, e contro i tali-ban successivamente. Tagico di Herat, è un ex

LA RIPRESA DEL «WARLORDISMO»: DA HERAT LA SCINTILLA DI UNA NUOVA GUERRA CIVILE?

molto di più delle aspettative del Fondo Monetario Internazionale (IMF). Anche l’inflazione è in-feriore alle previsioni dell’IMF, avendo toccando una percentuale del cinque per cento nel mesedi settembre. ►14 novembre – Il Pakistan ha proceduto al rilascio di alcuni detenuti taliban che Kabul ritienepossano contribuire ad avviare il dialogo negoziale con il principale movimento insurrezionale.Islamabad avrebbe in questo modo dimostrato il suo impegno nel processo di pace afghano.►19 novembre - Facendo seguito all’annuncio dell’avvio dei lavori per la definizione della pre-senza militare statunitense in Afghanistan nel post-2014 (Bilateral Security Agreement), il presi-dente afghano Karzai, in un evidente intento mediatico indirizzato all’opinione pubblica interna,ha accusato gli Stati Uniti di continuare nelle azioni di cattura e detenzione di soggetti apparte-nenti ai gruppi di opposizione armata, in esplicita violazione degli accordi firmati tra i due paesi(Strategic Partnership Agreement).►20 novembre – La Francia ha formalmente concluso la sua partecipazione alle operazioni dicombattimento della guerra afghana, procedendo al ritiro delle proprie truppe schierate a nord-est di Kabul. La Francia, unilateralmente e senza tenere in considerazione gli effetti diretti e in-diretti sull’Alleanza atlantica, si ritira dal campo di battaglia con due anni di anticipo rispettoalla time-line definita dalla Nato. Poco meno di 1.500 militari francesi rimarranno in Afghanistansino al 2013 per la prosecuzione delle attività logistiche e in qualità di «consiglieri» delle ANSF.►22 novembre – In anticipo rispetto al disimpegno della Nato, la Russia aumenta il proprio im-pegno in Afghanistan. Il presidente Karzai ha dimostrato il proprio interessamento a una futuracollaborazione con Mosca approvando la costruzione di un centro culturale russo nel centro dellacapitale Kabul.

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ufficiale dell’esercito afghano che nel 1979,all’inizio dell’occupazione dell’Afghanistan,diede inizio a una rivolta contro i «consiglieri»militari sovietici che lo portò a divenire il piùimportante comandante mujaheddin della zonadi Herat e, nel 1992, governatore della provin-cia. Impegnato nella successiva guerra civile,combatté contro i taliban sino a quando non fucatturato nel 1997. Riuscì a fuggire divenendo,successivamente, uno degli elementi chiavedella coalizione militare anti-taliban (Alleanzadel Nord/Fronte Unito) che agevolò l’opera-zione Enduring Freedom per l’occupazione del-l’Afghanistan da parte delle forze statunitensinel 2001. Riassunta la funzione di governatore,rimase a Herat sino al 2004, momento in cuiKarzai lo chiamò a Kabul per ricoprire l’inca-rico di «Ministro dell’acqua e dell’energia» alfine di “distrarlo” da quello che era divenuto unvero e proprio feudo personale fatto di interessieconomici e politici; una scelta politica «sim-bolica» volta a marginalizzare un uomo, dive-nuto troppo potente e influente, che era riuscitoa raccogliere intorno a sé un grande consensodi massa: Ismail Khan è il «leone di Herat» ed«Emiro dell’ovest», come viene chiamato an-cora oggi dai suoi sostenitori.Ora, in prossimità del disimpegno delle forzeinternazionali e in previsione di una crisi poli-tica interna, Ismail Khan ha pubblicamente an-nunciato di essere intenzionato a mobilitaretutte le forze disponibili al fine di contrastarel’espansione dei taliban. Una decisione che sipresenta come non inverosimile, e che potrebbeprovocare una reazione a catena in grado dispingere il Paese verso una «nuova guerra ci-vile» alimentata dal timore e dalla corsa allariorganizzazione di quelle milizie che, nel corsodegli ultimi undici anni, hanno aderito ai pro-grammi di smobilitazione e disarmo (Disarma-ment, Demobilization, and Reintegrationprogram) costati milioni di dollari agli Stati

Uniti e alla Nato.All’inizio di novembre, Khan, ha riunito in undistretto di Herat da lui fatto costruire e messoa disposizione delle famiglie dei mujaheddinmorti in guerra – all’interno dell’area di respon-sabilità del contingente italiano (ISAF RegionalCommand West) – migliaia di suoi sostenitori– tra questi molti esponenti locali di spicco –,incoraggiandoli a riorganizzarsi e ad avviareun’attività di coordinamento a livello distret-tuale e provinciale basata su strutture di co-mando e controllo. L’attività di reclutamento,così come la costituzione di comandi e gruppia livello locale, avrebbe già portato ad alcuniprimi risultati in termini di mobilitazione e allacostituzione del cosiddetto Mujaheddin Coun-cil. Secondo alcune fonti locali sarebbe già ini-ziata la distribuzione di armi, ma i casi accertatisarebbero circoscritti e limitati; anche l’intelli-gence afghana (National Directorate of Secu-rity, NDS) avrebbe confermato la distribuzionedi armi e denaro all’interno di alcune comunitàdella provincia di Herat, così come l’arresto dialcuni individui coinvolti. Khuwaja Shamsud-din, ex luogotenente di Ismail Khan, in un’in-tervista rilasciata a Tolo Tv ha negato ladistribuzione di armi ma ha confermato la co-stituzione di «trenta – quaranta unità mujahed-din» e «la nomina dei rispettivi comandanti».Daud Shah Saba, governatore della provincia diHerat, ha invece dichiarato di essere a cono-scenza da mesi dell’attività riorganizzativa dellemilizie nella sua provincia, ammettendo diaverle sottovalutate considerandole inizial-mente come «movimento civile» e realizzandosolo in un secondo momento le vere finalità mi-litari e politiche.Toni più pacati hanno invece caratterizzato laconferenza tenuta a Kabul da Ismail Khan lasettimana successiva; in quell’occasione, Khanha rassicurato la platea e risposto alle vivaci cri-tiche sostenendo che le milizie non andrebbero

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a sostituire le ANSF, bensì ne diverrebbero ele-mento locale di supporto. Un passo indietro ri-spetto a quanto sostenuto pochi giorni prima o,più verosimilmente, la manifestazione della raf-finata ars politica di un vecchio e abile war-lord?Insistendo sulla necessità e sul diritto di auto-difesa, Khan ha in realtà insistito sull’urgenzadi compensare l’incapacità delle ANSF attra-verso forme di difesa di tipo locale; in estremasintesi un sistema di protezione non troppo dis-simile da quello che avrebbe dovuto essere ga-rantito dalle forze di polizia locali (AfghanLocal Police) ma i cui risultati sono stati delu-denti, se non controproducenti. Una scelta che,presentata come altruistica, nasconderebbe fi-nalità verosimilmente non orientate al bene del-l’Afghanistan inteso come entità unica.Il presidente Karzai, così come numerosi espo-nenti del governo, del parlamento e delle istitu-zioni afghane – in primis le ANSF – e lo stessogovernatore di Herat hanno duramente criticatol’iniziativa bollandola come illegale e irrespon-sabile. Aimal Faizi, portavoce di Karzai, ha uti-lizzato toni non meno severi contestandofortemente la proposta e qualificandola come«in totale disaccordo con la linea politica delgoverno afghano e in contrapposizione con glisforzi volti a creare una legittima struttura di si-curezza nazionale e non locale».Ma Ismail Khan non è l’unico a ritenere oppor-tuna la costituzione di una nuova alleanza infunzione anti-taliban. L’ex-comandante muja-heddin Marshal Muhammad Qasim Fahim(oggi uno dei vice presidenti di Karzai) già asettembre, in occasione di un discorso pubblico,aveva auspicato l’intervento dei mujaheddin incaso di fallimento delle ANSF. E Ahmad ZiaMassoud, altro resistente della prima ora e fra-tello del Leone del Panjshir Ahmad Shah, inun’intervista televisiva ha ammesso, a frontedel timore diffuso di un collasso dello Stato

dopo il disimpegno delle forze internazionali,di aver dato disposizione ai propri uomini dipredisporre «misure preventive», una sorta di«piano B» che non escluda il riarmo delle mili-zie locali. Un approccio che avrebbe portato alrifiorire del mercato nero e al traffico illegaledi armi – basti considerare che nell’ultimo annoi prezzi dei Kalashnikov sarebbero triplicati – ealla ricomparsa del fenomeno del «warlordi-smo», a tutto svantaggio del processo di smo-bilitazione e disarmo delle milizie.La scelta di Ismail Khan è evidentemente di na-tura politica – come tale si pone in un momentostorico particolarmente delicato – e potrebbedare un contributo significativo al fallimentodell’intera strategia per l’Afghanistan post-Natoriportando il paese in una condizione di guerracivile.

Breve analisi conclusivaL'iniziativa di riorganizzare milizie armate nonrappresenta di certo una novità nel panoramaafghano; le forze di polizia locale, (circa ottantaunità forti complessivamente di 13-20.000 uo-mini) volute e sostenute dagli Stati Uniti, rap-presentano un esempio di non-successo nelcomplesso dei piani e delle attività avviate pergarantire il controllo del territorio e contenereil fenomeno insurrezionale (si rimanda all’arti-colo dell’Autore Tactical mistakes and strategicconsequences: the example of the Afghan LocalPolice, in CeMiSS Quarterly Summer 2/2012),che hanno contribuito al rafforzamento e alla le-gittimazione di molti warlord.La più grande preoccupazione è che queste mi-lizie locali e regionali possano concorrere alladestabilizzazione locale, ma ancor più ad acu-tizzare le già profonde linee di demarcazionetribali, etniche e di fazione presenti all’internodelle ANSF e che potrebbero accentuarsi all’in-domani del disimpegno delle forze di sicurezzadella Nato. In tale contesto, il timore non sa-

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rebbe quello di un’escalation di violenza daparte dei taliban, bensì la frammentazione delleANSF e le ripercussioni sull’ipotesi di guerracivile.Al di là degli effetti operativi che tale iniziativapotrebbe provocare (conflitto centro-periferia,competizione milizie-ANSF, riduzione della ca-pacità di controllo del territorio, ecc..), vannoconsiderate le potenziali ripercussioni sul pianopolitico e sociale, in particolare sull’opinionepubblica afghana. Se da un lato non è possibileescludere la riaccensione di contrasti di naturapolitica e, principalmente, etnica (per semplifi-cazione «pashtun» versus «non pashtun») dalleconseguenze tutt’altro che contenibili, dall’altroè bene considerare gli effetti amplificati che taliprese di posizione avrebbero sulle conflittualitàlatenti a cui si uniranno il generale e diffuso di-sagio e l’alto tasso di disoccupazione.

In questa situazione gli attori regionali, in unasorta di gioco degli equilibri instabili, tente-ranno con buona probabilità di sostenere igruppi di potere affini in una sorta di competi-zione parallela volta a un reciproco tentativo dicontro-bilanciamento e compensazione. È dun-que prevedibile che un disimpegno della Natopossa essere accompagnato da una sensibile in-tensificazione del conflitto che potrebbe portareall’indesiderato, quanto difficilmente reversibilesul breve-medio termine, effetto di guerra civilesu più livelli alimentato da competizioni e scon-tri tra fazioni afghane e relativi supporteresterni. Il rischio potenziale di una nuova fasedi guerra civile afghana, alimentata dall’ampli-ficazione dei conflitti locali coinvolti e proiettatiin un più ampio e pericoloso conflitto transna-zionale e regionale, non è dunque da escludere.

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Medio Oriente - Golfo Persico

Nicola Pedde

►Siria – Si è tenuta a Doha, in Qatar, alla metà di novembre, la conferenza che ha riunito levarie anime dell’opposizione siriana, dando vita ad una coalizione unitaria presieduta da AhmedMoaz al-Khatib. Il primo obiettivo della Coalizione (Cns) è stato quello del riconoscimento inter-nazionale, che non è risultato facile ed è tuttora in corso a causa delle perplessità da parte degliStati Uniti e di molti altri attori internazionali su alcune delle componenti della Coalizione stessa.Hanno invece riconosciuto subito il Cns i francesi, che non hanno tardato a sollevare il problemadell’embargo europeo delle armi nei confronti delle forze di opposizione, chiedendone l’immediatasospensione per favorirne la capacità d’azione contro le forze regolari dell’esercito e della poliziasiriana.Anche la Turchia ha riconosciuto il Cns come rappresentante legittimo delle forze politiche de-mocratiche della Siria, seguita dalla Lega Araba, dalla Gran Bretagna, dal Consiglio di Coope-razione del Golfo e dall’Unione Europea. Non hanno ancora espresso il proprio riconoscimentoformale, invece, gli Stati Uniti, la Libia e la Tunisia, che intendono approfondire maggiormenteil ruolo di alcune delle organizzazioni che compongono il Cns, mentre hanno fatto sapere di nonvoler riconoscere la Coalizione il Libano, l’Iraq e l’Iran.Pesa, sul definitivo riconoscimento, la caotica organizzazione della catena di comando dell’or-ganizzazione, soprattutto sul piano militare, e la costante invasiva presenza delle organizzazioniradicali salafite, che si muovo con indipendenza e senza alcuna volontà – almeno ad oggi – di as-soggettarsi a una formula centralizzata di controllo. Insieme di condizioni che, di fatto, pone lanuova Coalizione su un piano poi non così differente rispetto al passato, e dove il rischio di unaderiva integralista a danno della componente laica resta estremamente elevato.Sono ripresi nel frattempo gli scontri in alcune città della Siria, tra cui Aleppo e Damasco, conscambi di colpi nelle periferie delle città, attacchi dinamitardi e imboscate.►Egitto – Ancora instabile il quadro politico nazionale egiziano, caratterizzato da una forte espo-sizione mediatica sul piano regionale del presidente Mursi, e una contestuale ondata di manife-stazioni e scioperi in patria, animati dalle opposizioni politiche per protestare contro il progressivoaccentramento del potere nelle mani del presidente.Questa volta sono scesi in piazza i magistrati, che accusano Mursi di voler scardinare il sistemadella giustizia rendendo la magistratura soggetta al dominio politico e perdendo quindi quel ca-

Eventi

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rattere di indipendenza che la Costituzione le aveva sempre garantito. La protesta si è poi inten-sificata dopo che il Presidente ha esteso i propri poter nell’ambito del sistema della giustizia, li-cenziando al tempo stesso il procuratore generale Abdel Meguid Mahmoud e provocando lasospensione di tutte le attività giudiziarie in gran parte dell’Egitto.Il 25 novembre, infine, Mursi ha voluto mostrarsi più conciliante con i magistrati circa la diatribasulla riforma costituzionale, indicando la propria volontà di coinvolgere “tutte le forze politiche”nella sua definitiva stesura.L’oggetto del contenzioso, in questa occasione, è derivato da un decreto presidenziale in base alquale Mursi ha stabilito che le decisioni del Presidente siano inappellabili, e volendo inserire taledispositivo anche nel testo della Costituzione. La magistratura, supportata dai partiti di opposi-zione, ha immediatamente avviato un intenso ciclo di proteste in tutto l’Egitto, sfociato spesso inaperto scontro nelle piazze, provocando oltre 300 feriti.Il grande successo internazionale della mediazione di Mursi tra Hamas e Israele rischia quindidi essere cancellato, o comunque offuscato, dal progredire degli eventi di piazza in Egitto. E ancheper questa ragione il Presidente è apparso nel corso degli ultimi giorni decisamente più concilianterispetto alle settimane precedenti.►Giordania – Nuove e sempre più intense manifestazioni di piazza in Giordania, successivamenteall’annuncio, il 14 novembre scorso, della liberalizzazione del mercato energetico e della conte-stuale fine del sistema di sovvenzioni che per anni hanno calmierato il mercato nazionale.Pochi minuti dopo l’annuncio televisivo del premier Abdallah Ensour, insediatosi lo scorso ottobre,una imponente folla si è radunata nel centro della città e nei pressi del Ministero dell’Interno,chiedendo la revoca del provvedimento e, soprattutto, la fine del “regime”.Quelle del 14 notte sono solo le ultime di una lunga serie di manifestazioni pubbliche che hannoturbato l’ordine del regno hashemita negli ultimi mesi, con una crescente partecipazione di piazzache in modo sempre più diretto ed insistente indirizza le proprie proteste al sovrano e al sistemadi governo da questo presieduto.Da più parti viene individuata la Fratellanza Musulmana come sorgente ispiratrice delle protestee delle sempre più intense e organizzate manifestazioni, mentre il sovrano non sembra capace diprendere decisioni e ordinare misure concrete né in merito alla politica economica nazionale né,più in generale, in termini istituzionali. Vacillando timidamente di fronte alle sempre più consistentimasse di dimostranti e dimostrando ancora una volta di possedere una stoffa ben diversa da quelladel padre Hussein.A peggiorare ulteriormente la situazione, quantomeno per quanto concerne la credibilità del so-vrano, ha contribuito l’offerta dell’Iran in base alla quale Tehran sarebbe pronta e disponibile afornire petrolio a costa zero alla Giordania per i prossimi trent’anni, in cambio dell’adesione aun fronte comune regionale anti-israeliano e pro-siriano. Proposta che il sovrano si è dovuto af-frettare a rifiutare ufficialmente nel corso di una intervista televisiva, e che aveva d’altra parteinfastidito non poco anche la stessa Fratellanza Musulmana, nel modo più assoluto interessataad una deriva pro-iraniana del paese.

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Il 14 novembre,in risposta al persistere dei lancimissilistici e dei colpi di mortaio provenientidalla striscia di Gaza, le forze armate israelianehanno sferrato un attacco militare contro le po-sizioni di Hamas, scatenando un conflitto dalledimensioni e dagli esiti ancora incerti. Tra iprimi obiettivi colpiti, l’auto di un responsabilemiliare di Hamas, ritenuto il cervello delle ope-razioni contro Israele, e successivamente i cen-tri di comando e controllo e delle milizieterritoriali.L’antefatto alla nuova crisi di Gaza deve indi-viduarsi in due specifiche analisi, rispettiva-mente inerenti alla politica interna palestinesee a quella israeliana.In campo palestinese, da tempo si segnalava lapericolosità nella stasi nei negoziati tra Israelee l’autorità politica rappresentata da MahmudAbbas, e sempre più profondo appariva il diva-rio di vedute tra Hamas e Fatah. Le due entitàterritoriali della striscia di Gaza e della Cisgior-dania sono di fatto evolute parallelamente, main modo alquanto disomogeneo sia in terminipolitici che economico-sociali, alimentandoprogressivamente un divario che ha generato lasostanziale spaccatura politica tra Hamas aGaza e Fatah in Cisgiordania.Hamas ha accusato con crescente veemenzaFatah di aver optato per una linea politica di co-modo, contraria agli interessi di riunificazionedelle entità palestinesi, e soprattutto alla defini-zione di una politica indipendente dallo Stato diIsraele. In sintesi, ciò che Hamas ha lamentato,è una stasi nel processo negoziale con Tel Aviv,a vantaggio del mantenimento di uno status quofunzionale agli interessi della leadership diFatah, ormai impegnata a suo giudizio nel meroconsolidamento economico delle proprie ren-

dite.Hamas ha avuto tuttavia più di un dissidioanche con alcune delle componenti politiche edeconomiche della stessa striscia di Gaza, denun-ciando in sostanza le stesse accuse mosse con-tro Fatah, e lamentando la pericolosa stasi nelnegoziato con Israele. In aggiunta a ciò, in senoalle milizie al servizio di Hamas è da tempo dif-fuso un evidente e tangibile malcontento, sfo-ciato in più occasioni in aperto dissenso con lastessa linea del vertice politico della striscia diGaza. Una prima analisi sulle dinamiche del conflitto,quindi, vede come attore protagonista deglieventi l’unità militare delle Brigate Al Qassam,interessate a scardinare il sistema di potere con-solidatosi a Ramallah, ma anche a scuotereHamas stessa dal suo interno, forzandola ad es-sere più combattiva e a tornare ad occuparsidelle priorità del popolo palestinese e della suaindipendenza.La decisione di incrementare i lanci di razzi eprovocare quindi la reazione di Israele, sembre-rebbe essere maturata nell’ambito di una stra-tegia orientata non già al conseguimento diimprobabili obiettivi militari sul terreno, quantopiù a suscitare scalpore sul piano internazio-nale. Forzando la comunità soprattutto deglistati europei e degli Stati Uniti a intervenire perla ripresa del negoziato e – almeno nelle inten-zioni – per indebolire l’attuale establishmentpolitico di Fatah in Cisgiordania.Sono stati quindi lanciati missili di fabbrica-zione iraniana sul territorio israeliano e sullecittà di Tel Aviv e Gerusalemme, provocandoalcuni morti ma, soprattutto, alimentando unnuovo consistente clima di tensione sfociato poinella reazione militare israeliana e nella mobi-

LA GUERRA LAMPO DI GAZA, L’EQUILIBRIO RECIPROCAMENTE VANTAGGIOSO TRA HAMAS E

ISRAELE, E IL “TRIONFO” DI MOHAMMAD MURSI NELLA GESTIONE DEL NEGOZIATO

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litazione della Riserva, in previsione della pos-sibilità di un assalto terrestre alla striscia diGaza.Anche il momento è stato accuratamente calco-lato, facendo leva sulle imminenti elezioni po-litiche israeliane, il prossimo gennaio, eritenendo quindi con un considerevole marginedi certezza che il premier Benjam Netanyahunon avrebbe potuto sottrarsi all’esigenza di unaritorsione in una fase politica così delicata.Un altro obiettivo perseguito è stato quello divalutare la reazione delle nuove classi politicheregionali post “primavera araba”, valutando laconcretezza e la sostanza delle manifestazionidi supporto verbale sino ad oggi espresse.Al tempo stesso, per il governo di BenjaminNetanyahu la nuova crisi di Gaza ha costituitol’occasione per condurre in fase pre-elettoraleun’operazione militare alternativa alla tanto an-nunciata e sempre più difficilmente perseguibileazione contro l’Iran. Dimostrando ai propri elet-tori la consistenza e la gravità della minacciaregionale, ma anche la volontà dell’esecutivo dinon trascurare le dinamiche di sicurezza dellostato ebraico. Con l’approntamento e l’esecu-zione di un’operazione militare in grande stilenell’arco di pochi giorni.Difficile, come sempre, identificare quindi unvincitore e uno sconfitto nell’infinita lotta trapalestinesi ed israeliani.L’obiettivo primario dell’ala militare di Hamas,rappresentato dall’interesse internazionale e dalgenerale – quanto spesso meramente retorico –sdegno nei confronti dell’operazione militareisraeliana, è stato senza dubbio raggiunto. Con-sapevoli di provocare le reazioni più critichedell’opinione pubblica occidentale alla vistadelle distruzioni che sarebbero seguite a unaoperazione militare israeliana, i palestinesihanno potuto contare su una massiccia campa-gna mediatica a loro favore soprattutto attra-verso la rete dei social media, conquistando in

tal modo le prima pagine dei giornali.L’ala militare di Hamas ha dovuto tuttavia con-statare come il sostegno dei leader politici re-gionali, e soprattutto della FratellanzaMusulmana egiziana, sia stato orientato in di-rezione delle frange meno estreme, e nell’otticadi una immediata soluzione alla crisi. Consta-tando, inoltre, come anche gli Stati Uniti ab-biano saputo adottare una politica negoziale diconcretezza tesa alla cessazione delle ostilità edella salvaguardia dei civili nelle aree di con-flitto. Uno smacco politico e morale senza dub-bio eclatante per coloro che ritenevano possibileavviare all’interno di Hamas una nuova fase diconflittualità con Israele con il sostegno del-l’Egitto, sul quale l’ala militante dovrà rifletteree rimodellare le eccessive aspettative politicheregionali.Israele, di contro, con le operazioni militari in-crementa il proprio isolamento internazionale,nell’errata convinzione dell’ineluttabilità dellescelte politiche del governo Netanyahu che, tut-tavia, incassa con l’operazione a Gaza un ago-gnato vantaggio politico da spendersi ilprossimo gennaio.Grazie alla mediazione del presidente egizianoMursi, Israele ha infine accettato di decretareun “cessate il fuoco” unilaterale a decorrere dal21 novembre, che non risolve le questioni difondo del confronto con Hamas, ma che per-mette una dignitosa fase di sospensione utile adentrambe le parti.La tregua ha retto nonostante nella prima mat-tina del 22 novembre siano stati lanciati unadozzina di razzi dalla striscia di Gaza versoIsraele, senza provocare vittime.Esce senza dubbio trionfante da questo con-flitto, almeno per il momento, se la tregua do-vesse reggere, il presidente egiziano Mursi,grazie alla cui mediazione è stato possibile rag-giungere in pochi giorni un accordo, definendole basi per una futura stabile piattaforma di me-

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diazione. Successo amplificato dalla necessitàper Israele di dover constatare, se non aperta-mente ammettere, quanto la Fratellanza Musul-mana stia rappresentando non già un elementodi instabilità regionale, quanto, al contrario, unprezioso strumento di consolidamento della si-curezza a vantaggio dello Stato ebraico.La vittoria di Mursi sembra avere tuttavia un ri-svolto amaro per Hamas, stante l’indisponibilitàdel presidente egiziano di sostenere le istanzepiù interventiste del movimento palestinese, chedimostra come l’interesse primario dell’Egittosia quello di poter contare su una stabile e du-ratura condizione di sicurezza regionale. Dove,quindi, poco spazio viene concesso all’irruenzadelle milizie e delle unità più intransigenti al-l’interno della complessa ed eterogenea matricepolitica e sociale della striscia di Gaza.

I lanci missilistici contro Israele sono stati ripe-tuti e indiscriminati, senza tuttavia mai rappre-sentare una vera minaccia strategica contro ilpaese e provocando vittime per lo più acciden-tali. L’enfasi posta sulla minaccia dal governodi Tel Aviv è stata quindi più strumentale chereale, nell’ottica di non perdere l’occasione perpoter condurre un’operazione alternativa aquella contro l’Iran, che in questo momento,non sembra alla portata dell’esecutivo, e soprat-tutto delle relazioni con gli Stati Uniti.Il prezzo più alto del conflitto, quindi, è statocome sempre pagato dalla popolazione civiledella striscia di Gaza, dove si calcola che ab-biano perso la vita sotto i bombardamenti israe-liani circa un centinaio di persone, incluso ungran numero di bambini, e dove il numero deiferiti sarebbe prossimo al migliaio.

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Africa

Marco Massoni

►Algeria: il 15 novembre ad Algeri il Presidente del Consiglio italiano, Mario Monti – presentianche i Ministri della Difesa Di Paola, degli Esteri Terzi, degli Interni Cancellieri e dello SviluppoEconomico e delle Infrastrutture e Trasporti, Passera – ha siglato accordi con il Presidente delleRepubblica Abdelaziz Bouteflika, nei settori delle infrastrutture, dell’energia (in particolare perquanto riguarda il gasdotto tra l’Algeria e la Sardegna), del contro-terrorismo, del contrasto al-l’immigrazione irregolare e della difesa. Il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, e l’AltoRappresentante per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza dell’Unione Europea, CatherineAshton, si sono recate in visita ad Algeri, per discutere della crisi del Mali.►Benin: il Presidente della Repubblica nonché Presidente di turno per l’anno in corso del-l’Unione Africana, Thomas Boni Yayi, è stato vittima di un fallito tentativo di avvelenamento daparte di alcuni membri della sua più stretta cerchia di collaboratori. Proseguono le indagini, perindividuare il mandante.►Burundi: un nuovo gruppo ribelle, il Fronte del Popolo Murundi Abatabazi (FPM), con re-trovie nella confinante Repubblica Democratica del Congo, si sta facendo largo a Cibitoke nellaprovincia settentrionale del paese.►Costa D’Avorio: il Presidente della Repubblica, Alassane Dramane Ouattara, ha inaspetta-tamente sciolto l’Esecutivo in carica dallo scorso marzo. Tale decisione è probabilmente impu-tabile alle divergenze interne alla maggioranza. Le autorità ivoriane hanno annunciatoun’imminente esercitazione militare congiunta con le Forze Armate della confinante Liberia.►Eritrea: secondo fonti delle opposizioni al regime di Asmara, gli Afar, una minoranza etnicanomade che abita l’arida regione della Dancalia, stanno subendo uno sfollamento arbitrario ecoatto da parte delle autorità governative, per meglio controllare il loro territorio, strategico, inquanto confinante con l’Etiopia.►Etiopia: si sono registrate violenze nella capitale, Addis Abeba, in occasione dell’elezione delnuovo Consiglio Supremo per gli Affari Islamici, del quale è stato nominato Presidente SheikhKhiyar Mohammed. Non è la prima volta che i musulmani lamentano discriminazioni religioseda parte delle autorità etiopiche. Dopo alcuni mesi di inerzia sono ripresi i colloqui tra Egitto,Etiopia e Sudan sullo sfruttamento delle acque del Nilo in seno all’Eastern Nile Subsidiary ActionProgram (ENSAP). I colloqui bilaterali avviati a Nairobi a settembre tra il Governo e il Fronte di

Eventi

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Liberazione Nazionale dell’Ogaden (ONLF), al fine di pacificare quanto prima l’omonima regionea maggioranza somala, sono in fase di stallo per profonde divergenze tra le parti.►Guinea Bissau: l’ex Primo Ministro, Carlo Gomes Junior, l’intero blocco lusofono della Co-munità dei Paesi di Lingua Portoghese (CPLP) e lo stesso Portogallo sono stati accusati di averordito un colpo di stato sventato il 21 ottobre. Le autorità transitorie bissau-guineensi hannochiesto a Lisbona l’estradizione di Gomes Juionr, per processarlo in patria.►Kenya: si svolgeranno il 4 marzo le elezioni generali con un possibile secondo turno per lePresidenziali in aprile.►Liberia: al Presidente della Repubblica, Ellen-Johnson Sirleaf, è stata conferita l’onorificenzadella Gran Croce della Légion d’Honneur da parte del Presidente francese, Hollande, per i suoialti meriti legati alla pacificazione del Paese.►Libia: il Ministro degli Esteri, Terzi, ha incontrato a Tripoli il Primo Ministro, Ali Zidan, dapoco insediatosi.►Mali: l’ex Presidente burundese, Pierre Buyoya, è stato nominato “Alto Rappresentantedell’Unione Africana (UA) per il Mali e il Sahel”. L’UA ha riammesso il Mali tra gli Stati Membridell’Unione. In un apposito Summit, svoltosi nella capitale nigeriana, Abuja, i Capi di Stato e diGoverno della Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (CEDEAO) hanno ap-provato l’intervento militare in Mali. La Missione della CEDEAO in Mali (MICEMA) sarà com-posta da 3.300 uomini forniti da: Niger, Nigeria, Senegal e Togo con un’opzione aperta anche aBurkina Faso, Ciad, Ghana, Mauritania e Sudafrica in un secondo tempo. Il Consiglio degli AffariEsteri dell’UE del 15 ottobre ha stabilito la necessità di predisporre una missione per l’addestra-mento delle Forze Armate del Mali nel quadro della Politica Comune di Sicurezza e Difesa(CSDP). In tale ottica a metà novembre i Ministri della Difesa e degli Esteri di Italia, Francia,Germania, Polonia e Spagna si sono riuniti a Parigi, per definire quale tipo di contributo l’UEpossa fornire per una soluzione maliana in particolare e del Sahel più in generale. Il lettone PeterisUstubs è il nuovo Direttore per l’Africa Centrale e Occidentale e Coordinatore per il Sahel delServizio Europeo di Azione Esterna (SEAE). Il Presidente tunisino, Moncef Marzouki, si è dettomolto preoccupato per l’evoluzione della situazione saheliana, che in termini di sicurezza internarischia concretamente di minare i precari equilibri dei Paesi delle Primavere Arabe, per le con-seguenze che l’avvio delle operazioni della MICEMA provocherebbe lungo i loro confini meri-dionali. La minaccia dell’imminente intervento militare internazionale nel Mali settentrionalesembra spingere alcuni tra i movimenti che ne controllano i territori a cedere in favore del nego-ziato, ma il braccio di ferro continua. Il numero dei profughi provocati dalla crisi si attesta ormaia quasi mezzo milione tra sfollati interni e rifugiati.►Marocco: Rupert Joy, di nazionalità britannica, è stato nominato nuovo Capo Delegazionedell’UE nel Paese. Rabat ha annunciato lo smantellamento di un importante gruppo terroristicolocale, che stava tessendo legami con Al Qaida nel Maghreb Islamico (AQMI). Il 29 ottobre il Redel Marocco, Mohammed VI, ha ricevuto in visita l’Inviato Speciale del Segretario Generale del-l’ONU per il Sahara Occidentale, Christopher Ross, il quale ha poi proseguito per El Ayoun, lacittà principale dei territori contesi, per poi recarsi in Mauritania.►Niger: un rilevante accordo di cooperazione militare è stato siglato tra il Presidente nigerino,Mahmadou Issoufou, e il suo omologo nigeriano, Goodluck Jonathan. L’intesa è volta a raf-

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forzare il pattugliamento lungo il confine tra i due Stati, in modo da contrastare le attività dei mo-vimenti terroristici legati ad Al Qaida.►Nigeria: un bastimento russo carico di armi leggere è stato sequestrato nel porto di Lagos. Nonè ancora data per certa la possibilità che il Governo riesca a intavolare un negoziato con la settaterroristica Boko Haram.►Repubblica Democratica del Congo (RDC): i ribelli del Movimento del 23 marzo (M23) – oEsercito Rivoluzionario Congolese (ARC) – dopo aver conquistato Goma, si stanno dirigendoverso Bukavu. In questo modo M23 dimostra di potersi muovere agilmente attraverso le provinceorientali del Kivu, senza incontrare resistenza da parte delle Forze Armate regolari di Kinshasa.►Rwanda: anche l’antica potenza coloniale, il Belgio, ha sospeso ogni forma di cooperazionemilitare con Kigali, allineandosi in questa maniera tanto con gli USA quanto con il resto del-l’Unione Europea. La motivazione è data dal supposto sostegno fornito dal Rwanda a M23, perquanto sempre ufficialmente smentito dalle autorità ruandesi.►Senegal: a seguito del rimpasto del Governo, voluto dal Presidente della Repubblica, MackySall, Mankeur Ndiaye è il nuovo Ministro degli Esteri, mentre Pathé Seck il nuovo Ministro del-l’Interno.►Sierra Leone: Ernest Bai Koroma, Presidente uscente e capo del All Peoples Congress (APC),è stato confermato al potere in occasione delle elezioni Presidenziali, Parlamentari e Locali del17 novembre.►Somalia: il 24 ottobre il Ministro degli Esteri, Terzi, ha effettuato una visita lampo a Moga-discio, per testimoniare l’attenzione e la vicinanza dell’Italia alle sorti del Paese in transizione.Terzi ha incontrato a Villa Italia sia il Presidente della Repubblica, Hassan Sheikh Mohamud, siail Primo Ministro, Abdi Farah Shirdon ‘Saaid’. Il nuovo Esecutivo somalo conta dieci Ministri:Fowsiyo Yusuf Hajji Aden (Esteri), Abdihakim Mohamoud Fiqi (Difesa), Abdullahi Abyan Nuur(Giustizia), Abdullahi Alimoge Hirsi (Informazione), Muhayadin Mohamed (Ricostruzione), Ab-dirisak Omar Mohamed (Risorse Naturali), Maryam Kassim (Sviluppo Sociale), Mohamud AhmedHassan (Industria e Commercio), Mohamud Hassan Suleiman (Finanze e Pianificazione) e Abdi-karim Husein Guled (Interni e Sicurezza). ►Sudan: il 24 ottobre l’aviazione militare israeliana ha bombardato la fabbrica di armi di Yar-mouk nella capitale sudanese, Khartoum. La Lega Araba e l’Unione Africana hanno condannatol’atto unilaterale, peraltro del tutto smentito da Tel Aviv. Le sorti della contesa regione di Abyei,frontaliera con il Sud Sudan, saranno decise da un referendum sostenuto dall’UA, da svolgersi aottobre 2013. Lungo il confine fra i due Paesi è operativa dallo scorso anno la United Nations In-terim Security Force for Abyei (UNISFA).

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L’Organizzazione Internazionale della Franco-fonia (OIF) nasce nel 1970, al fine di tutelare ilpatrimonio linguistico, culturale e identitario daparte di quei Paesi in cui o la lingua francese siaquella materna o che ne abbiano fatto la proprialingua ufficiale per ragioni storiche o che ne siainserito regolarmente l’apprendimento comelingua straniera nei programmi scolastici, dun-que per opportunità politica. Il motto dell’OIFè uguaglianza, complementarietà, solidarietà.Oggigiorno sono circa 250 milioni le personeche parlano il francese nel mondo; è evidente-mente un patrimonio da salvaguardare, tantopiù se circondato dal diffondersi e dal predomi-nio di altre lingue veicolari ed emergenti a li-vello globale come l’inglese, l’arabo, il cinesee lo spagnolo ad esempio. Nella sola Africa siconcentra la maggior parte degli Stati membridell’OIF, annoverando ben 31 Nazioni africanefacenti parte dell’Organismo su un totale di 57Paesi e per l’esattezza: Benin, Burkina Faso,Burundi, Camerun, Capo Verde, Ciad, Comore,Repubblica del Congo, RDC, Costa D’Avorio,Egitto, Gabon, Ghana (membro associato), Gi-buti, Guinea, Guinea Bissau, Guinea Equato-riale, Madagascar, Mali, Marocco, Mauritania,Mauritius, Mozambico (membro osservatore),Niger, Repubblica Centrafricana, Rwanda, SãoTomé e Principe, Senegal, Seychelles, Togo eTunisia. Non ne fa parte l’Algeria per due mo-tivi chiari: la presenza del Marocco nell’OIF,con cui sin dai tempi della Guerra delle Sabbiedel 1963 i rapporti sono tesi, e l’impasse dellerelazioni fra Parigi ed Algeri, acuitasi con posi-zioni diametralmente opposte circa l’intervento

militare nel Mali settentrionale. Tutto ciò lasciaintuire in che misura l’OIF sia percepita dai suoidetrattori, prima di ogni altra cosa, come unmero strumento della politica estera francese.Considerare la Francofonia una sorta di longamanus della politica estera francese in Africa ri-manda inevitabilmente al vituperato concetto diFrançafrique, cioè al sistema del mantenimentodegli interessi economici, politici e militarifrancesi in rapporto alle ex colonie, ben oltre leloro indipendenze, che da cinquant’anni a que-sta parte resiste a ogni tentativo di smantella-mento. Tanto è vero che ancora in questi giornilo “scandalo Bourgi” è sempre sulle prime pa-gine dei media d’Oltralpe: in sostanza le accusemosse dall’avvocato Robert Bourgi riguardanoi cospicui finanziamenti illeciti che le massimecariche dello Stato avrebbero ricevuto dai loroomologhi africani anche per quanto attiene allerispettive campagne elettorali per le presiden-ziali francesi. Al di là di qualsiasi insinuazionein questo senso, vero è che la Cellula Africanadell’Eliseo –sovente svincolata dalla politicaestera del Quai d’Orsay – è sempre stata attivaindipendentemente che fosse in carica un golli-sta oppure un socialista. Dedicato al tema “Francophonie, enjeux envi-ronnementaux et économiques face à la gouver-nance mondiale”, il XIV Vertice dellaFrancofonia si è svolto dal 12 al 14 ottobrescorsi nella capitale della Repubblica Democra-tica del Congo (RDC), Kinshasa, che è membrodell’OIF dal 1977. Non è un caso che il Verticesia stato convocato nel Paese più ricco quantoa risorse naturali dell’Africa francofona, come

RISVOLTI AFRICANI DEGLI ESITI DEL XIV VERTICE DELLA FRANCOFONIA

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non è un caso che sin dal 2002 ne sia SegretarioGenerale proprio un africano, l’ex Presidentesenegalese, Abdou Diouf. Il Summit è stato pre-ceduto dalla XXVIII Conferenza Ministerialedella Francofonia. Tra i vari temi trattati è so-prattutto quello relativo a Paix, Démocratie etdroits de l’homme ad essere maggiormente si-gnificativo, poiché da alcuni anni l’agendadell’OIF è venuta allargandosi alla pace e allasicurezza, intensificando le azioni rivolte allapacificazione e alla stabilizzazione dei Paesifrancofoni africani coinvolti nelle crisi. Attra-verso le dichiarazioni di Bamako nel 2000 e diSaint Boniface sulla prevenzione dei conflitti ela sicurezza umana nel 2006 e ancor più me-diante la Risoluzione “Bamako+10” – diecianni dopo – adottata in occasione del suo qua-rantennale al Vertice di Montreux il 24 ottobre2010, l’OIF si sta attestando quale nuovo attoreglobale sulla scena internazionale, accompa-gnando i processi di transizione in numerosiPaesi afferenti allo spazio francofono. Già loscorso maggio da Kinshasa era stato lanciatol’appello per uno spazio geoculturale franco-fono mondiale, che tanto evoca la ricerca daparte dell’OIF di nuovi ambiti, dove posizio-narsi il più stabilmente possibile e da dove ri-

vendicare il proprio punto di vista nell’ambitodi una globalizzazione che rischia di schiacciareo di appiattire chi non le si pieghi e chi non sap-pia giocare d’anticipo sui tempi e sui modi. Daallora lo stato di diritto, elezioni libere e traspa-renti ed il controllo democratico delle istituzionidei Paesi membri della Francofonia sono diven-tati prioritari per la rivitalizzazione dell’Orga-nismo ma, secondo alcuni, rappresentano unpretesto per esercitare pressioni indebite conprecise finalità politiche in particolar modo inAfrica. Attraverso un accorto utilizzo dei sem-pre più potenti mezzi di cui dispone – forte diun budget di quasi duecento milioni di euroannui – la leadership dell’OIF si sta facendosentire sempre meno sommessamente nelle re-gioni di sua diretta pertinenza, dimostrandosi unattore internazionale di ampie vedute. È il casodello stallo politico-istituzionale che sta attana-gliando dal 2009 il Madgascar, dove l’OIFsvolge un ruolo chiave nella mediazione fra l’exPresidente deposto, Marc Ravalomanana, an-cora costretto all’esilio in Sudafrica da una partee il Presidente ad interim Andry Rajoelina.L’iniziativa francofona si sovrappone, nonsenza scontri, con il parallelo tentativo portatoavanti con estrema difficoltà dalla Comunità per

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lo Sviluppo dell’Africa Australe (SADC), arte-fice della roadmap, che porterà l’Isola del-l’Oceano Indiano a elezioni nel 2013. Sipotrebbe effettivamente obiettare che, onde sca-gionare ogni ipotesi di ingerenza esterna alloscacchiere, dovrebbe forse essere deputato allaconciliazione solamente il blocco regionale diappartenenza, ovvero proprio la medesimaSADC e non altri. Non si può d’altronde na-scondere che la Francia da alcuni anni sia statacostretta a ricorrere a una sorta di controllo delmultilateralismo, ripartendo attraverso le istitu-zioni sovranazionali e internazionali i costi dellapropria agenda politica in Africa, altrimenti nonpiù sostenibili per le sue sole finanze. Altret-tanto vero è che Parigi ha formalmente preso ledistanze dal vecchio modello con cui si relazio-nava alle ex colonie in Africa, perché troppo co-stoso. Anche dal punto di vista militare oggisono rimaste solo due basi permanenti nel Con-tinente, a Gibuti e in Gabon. In un’ottica di cost-cutting il modo più sicuro, quindi menodispendioso, per la Francia di non perdere, maaddirittura di aumentare la propria influenza inAfrica, è quello di sviluppare accordi con un piùristretto numero di Stati e di convogliare allostesso tempo il massimo delle energie verso unmultilateralismo per gruppi regionali. Così fa-cendo, la Francia potrà essere in grado di razio-nalizzare la spesa e di avvicinarsi alle potenzeemergenti non francofone del Continente da unpunto di vista economico, politico e militare.Sembrano del resto lontani i tempi in cui Wa-

shington e Parigi si facevano la guerra per chimeglio riuscisse a garantirsi sfere d’influenza inAfrica, perché oggi più che mai Francia eRegno Unito condividono responsabilità, costie dividendi geopolitici, come l’attivismo inCosta D’Avorio e in Libia nel 2011 e ora nellacrisi in Mali e nel Sahel, mentre gli USA sem-brano in seconda fila. Ebbene l’apparente disim-pegno americano in Africa non è tale. Alcontrario si tratta di una forma di smart power,perché Washington è perfettamente consapevoleche fare un passo indietro non può certo signi-ficare allontanarsi da quello che sarà sempre piùil centro nevralgico della geopolitica mondiale:l’Africa. I detrattori della politica francese inAfrica considerano l’azione della Francofonianon un legittimo tentativo di gestire la coope-razione multilaterale dei Paesi e delle culturedi lingua francese, bensì un modo surrettizio,per imporre precise volontà politiche sotto lementite spoglie della collaborazione fra i po-poli. In realtà in un’epoca come quella attuale,in cui un’incessante pletora di nuovi attori re-gionali e sovranazionali si sta aggressivamenteattrezzando, per giocare al meglio la propriapartita nella globalizzazione in un mondo nonpiù bipolare, bensì multipolare, anche i playermeno moderni non possono non ricorrere amodi innovativi per resistere, auspicando d’in-fluenzare le sorti globali, pena il loro definitivotramonto dalla scena internazionale anche làdove si parli francese.

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Cina

Nunziante Mastrolia

►Continua la politica americana del roll-back in Asia, la riconquista, cioè, di spazi di influenzapolitica in aree che sempre più gravitavano nell'orbita cinese. In occasione del ventunesimo verticedell'ASEAN (Phnom Penh, Cambogia 18-20 novembre), mentre la questione delle dispute territo-riali tra Pechino ed i paesi rivieraschi nel Mar cinese meridionale, rendevano pesante il climaper la Cina (il vertice si è rivelato di fatto un flop per Pechino), Washington coglieva un importantesuccesso e cioè l'istituzionalizzazione del vertice ASEAN-USA: d'ora in poi i leader dei paesi asia-tici interessati si incontreranno annualmente con i leader americani. In questa stessa prospettiva(roll-back) va letto anche lo storico viaggio di Obama a Myanmar e i nuovi accordi di coopera-zione militare firmati con l'Indonesia. Di qui il disappunto cinese, espresso chiaramente sul Quo-tidiano del popolo, secondo il quale i paesi dell'ASEAN, sotto la nefasta influenza di potenzeesterne, stanno deviando dalla retta via. Più esplicito il China Daily, secondo il quale “US derailsASEAN from the right track”. ►Si terranno il prossimo 16 dicembre le elezioni generali in Giappone dopo lo scioglimentoanticipato delle camere. Il Partito democratico del premier uscente Yoshihiko Noda è dato per-dente dai sondaggi. Con le elezioni di dicembre potrebbe ritornare così al potere l'ex premierShinzo Abe (di nuovo alla guida del Partito liberal democratico), che promette pugno di ferro neiconfronti della Cina: le relazioni economiche tra i due giganti stanno infatti deteriorandosi a se-guito degli incidenti degli scorsi mesi. Abe di recente ha compiuto gesti che hanno profondamenteirritato Pechino: la visita al tempio Yasukuni, e le critiche rivolte alla Cina per la sua politica ti-betana. A correre alle prossime elezioni potrebbe anche esserci Shintaro Ishihara, autore dellacampagna di raccolta di fondi per l'acquisto delle isole Diaoyu/Senkaku.

Eventi

BIPARTITISMO ALLA PECHINESE

Sembrano passati secoli da quando gli occiden-tali guardavano con un misto di sconcerto, in-

vidia ed ammirazione alla Cina. Eppure sonpassati solo pochi anni. Una crescita stellare,

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l'efficacia di un governo che in un batter d'oc-chio era in grado di costruire infrastrutturespettacolari, con una leadership politica cheappariva colta, preparata e certa del proprioruolo e della propria missione. Una leadershipefficace, il cui lavoro non veniva intralciato dalchiacchiericcio fastidioso dei parlamenti nésoggetta ai colpi di una stampa impicciona e ir-riverente. Poi si è scoperto che i treni inizia-vano a deragliare e i ponti a crollare, sgretolatidalla corruzione; la crescita economica conti-nua a calare e la leadership politica appare to-talmente disorientata.Non è solo il fatto che il “sol dell'avvenire” nonpare più illuminare i raggianti visi dei compa-gni cinesi: Hu Jintao, per la prima volta, lo haammesso francamente: se non si vince la lottaalla corruzione il partito rischia di scomparire.Impresa difficile visto che è la stessa strutturapolitica cinese a produrre naturalmente la cor-ruzione.C'è dell'altro. Nel suo discorso di addio all'As-semblea Nazionale del Popolo, il presidente HuJintao è stato chiarissimo nell'esprimere l'inde-cisione di tutta una classe politica: il Partitodeve continuare ad andare avanti, abbando-nando la vecchia strada, ma senza imboccarela strada delle democrazie occidentali. Unaterza via, dunque? Ma quale? Hu Jintao pro-babilmente non sa che storicamente non esisteuna terza via in grado di conciliare autoritari-smo e democrazia o autoritarismo e mercato.Lo si è scritto tante volte su queste pagine: o laCina imbocca la strada delle società aperta(democrazia più mercato) o continuerà il cam-mino su cui Hu Jintao l'ha portata e cioè il ri-torno alla società chiusa (un potere assolutoche domina ogni cosa), terzium non datur.Scomparsa l'invidia e l'ammirazione, ora, tutti,in coro, sembrano chiedersi se e quando lanuova leadership uscita dal XVIII Congressosarà in grado di fare le riforme politiche: de-

mocrazia, libertà e diritti. Sta prendendo piedeuna riflessione fatta spesso sull'Osservatoriostrategico: qui non si tratta di promuovere mag-giori libertà e una maggiore tutela dei diritti innome di un qualche imperativo morale. La que-stione è più prosaica: senza riforme politichela macchia economica si inceppa e il partitotrascinerà con sé nel declino un intero paeseche ha, al contrario del PCC, tutti i numeri pervivere e prosperare.

L'eredità di DengL'universo politico cinese odierno si muove an-cora all'interno di quella struttura creata o soloabbozzata dalle riforme di Deng. L'assillo delpiccolo timoniere era quello di fornire una strut-tura istituzionale a un potere nuovo (quello delpartito). In primo luogo bisognava evitare cheogni passaggio di potere si trasformasse in unguerra civile. Di qui la scansione decennaledelle transizioni politiche; di qui i limiti d'etàposti ad alcune cariche; e di qui l'avvio di unasorta di bipartitismo con caratteristiche cinesi. In massima sintesi, i due maggiori schieramentipolitici in Cina sono (sia perdonata la semplifi-cazione) i “meridionalisti” di Hu Jintao, i Tuan-pai, coloro che hanno fatto carriera all'internodella Lega giovanile del partito (dalle forti ve-nature maoiste e massimaliste) prestando servi-zio nelle aree più disagiate e povere del paese;e i “settentrionalisti” di Jiang Zemin, gli uominidella aree costiere, attigui, anche personal-mente, al mondo degli affari e più a loro agionella globalizzazione economica.I primi si fidano poco del mercato e credono nelbig government: di qui l'avvio con Hu Jintao eWen Jiabao della costruzione di uno stato so-ciale in grado di alleviare la sorte dei più umili;e di qui il lento ma duro strangolamento cui èstata sottoposta l'impresa privata a vantaggiodei colossi di Stato o delle imprese a controllopubblico. In sintesi, più stato, meno mercato.

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I secondi sono fautori di un governo minimo,che interferisca poco nelle questioni economi-che, e propendono per una maggiore liberaliz-zazione del sistema economico e finanziario. Insintesi, più mercato, meno stato.C'è un terzo gruppo, non numeroso ma potente,costituito dai cosiddetti principi rossi, i figli dicoloro che hanno creato l'attuale sistema poli-tico in Cina. E che di volta in volta si presen-tano come l'elite di uno dei due schieramenti. Ilcomun denominatore di questi tre gruppi è ov-viamente la fedeltà al Partito.Ora, non è da escludere che Deng avesse inmente un'alternanza di tipo dialettico (il proce-dere di tesi, antitesi e sintesi di Hegel) o, perdirla in maniera più triviale, un percorso deltipo “una botta al cerchio e una alla botte”: unalternarsi cioè di fasi di sviluppo economico egiustizia sociale; balzi in avanti nella crescitaalternati con fasi di ridistribuzione economicae sociale. Infatti, se si assume l'era Deng comepunto zero si può notare che: con Jiang Zeminè alto il vessillo della “crescita ad ogni costo”;mentre la presidenza Hu Jintao è all'insegnadella società armoniosa (redistribuzione so-ciale).In quest'ottica la quinta generazione di Xi Jin-ping potrebbe essere contraddistinta, di nuovo,da un maggiore accento posto sulle questionidello sviluppo: il che significa riforme econo-miche e finanziarie e riduzione dell'ingerenzastatale.Non a caso: il XVIII Congresso è stato “vinto”dagli uomini di Jiang Zemin, il partito di Shan-ghai. Non a caso l'ex presidente, più volte datoper morto o in fin di vita negli ultimi mesi, èstato al centro della scena del Congresso e nona caso il Comitato permanente del Politburo, ilsancta santorum, del potere politico in Cina, èdominato dagli uomini fedeli a Deng, (più equi-librata invece la composizione del più ampioPolitburo).

Se si continua su questa strada si può compren-dere anche una delle maggiori novità del XVIIICongresso e cioè la rinuncia (forzata o meno)di Hu Jintao alla presidenza della CommissioneMilitare Centrale (Jiang Zemin la mantenne perdue anni dopo lo scadere del mandato di Presi-dente della repubblica e di Segretario generaledel partito), utile ad assicurare la sopravvivenzapolitica (e fisica) dei membri della sua fazione.La decisione di Hu ha reso il passaggio di con-segne completo e affidato alla quinta genera-zione un mandato pieno per governare.In questa ottica si potrebbe sostenere che il si-stema politico-istituzionale cinese si va norma-lizzando: alternanza politica, sotto l'ombrellodel PCC, di due partiti e l'inizio di un sistemadi spoiling system.

La quinta generazioneSulla carta, dunque, il governo della nuova ge-nerazione al potere (non si può parlare di unapresidenza Xi Jinping, vista la collegialità delgoverno dei sette del Politburo) è chiamato a ri-fare le riforme economiche (un nuovo colpoalla botte) e, appoggiandosi su quanto fatto daHu Jintao e Wen Jiabao (l'avvio di un Welfarestate cinese), far cambiar pelle all'economia delpaese: agganciando la crescita ai consumi in-terni, ampliando il perimetro dell'impresa pri-vata, ristrutturando le imprese di Stato ecercando di sfuggire a quella trappola del red-dito medio, che è lì pronta a scattare, se il paesedovesse fallire nello scalare la catena del valore.Il che significherebbe produrre tecnologia, ri-cerca scientifica e conoscenza, con presuntacrescita dei salari.A Pechino hanno la consapevolezza delle diffi-coltà di questo compito, di qui la necessità diuna forte un'unità di intenti della classe politica:in questo senso la sostanziale omogeneità delComitato permanente. Ma ciò non basta. Laquinta generazione deve poter avere la certezza

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del controllo totale di quegli strumenti in gradodi conquistare i cuori e le menti dei cinesi: l'im-menso apparato di controllo, prevenzione e re-pressione che ha come vertice istituzionale ilComitato per gli Affari Politici e Legislativi(PLAC - il cui budget è superiore a quello delleForze Armate) e l'altrettanto imponente appa-rato della propaganda. Di qui la seconda impor-tante novità del XVIII Congresso, l'esclusionedi questi due “dicasteri” dal Comitato perma-nente. Il motivo è semplice: come si diceva po-c'anzi quello cinese è un governo collegiale(una forma peculiare di assicurazione control'arbitrio dei singoli, gli esempi più classici sonoi “colpi di testa” di Mao che produssero la folliadel grande balzo in avanti e della rivoluzioneculturale). Xi Jinping è solo un primus interpares: per converso, far parte del Comitato cen-trale significa possedere quasi un diritto di vetosulla politica del paese. Di qui la necessità diavere, allineati e coperti, quei due dicasteri.La quinta generazione potrebbe avere, sullacarta, pertanto, tutti gli strumenti per portare acompimento i propri obiettivi: lotta alla corru-zione, più economia di mercato, ristrutturareuna qualche forma di legittimità politica intornoall'operato del partito. In altre parole, stando aquanto affermano molti osservatori di cose ci-nesi, se ci sono dubbi che Xi Jinping farà le ri-forme politiche, sicuramente i nuovi leaderfaranno le necessarie riforme economiche.Nuove riforme economiche uguale nuova cre-scita; più ricchezza uguale una maggiore legit-timazione politica per il partito.Sia consentito nutrire qualche dubbio circa que-sta previsione: il governo di Hu Jintao e WenJiabao non è stato solo un “decennio perduto”,ma anche una vera e propria involuzione delPaese. Alle considerazioni fatte nel precedentenumero dell'Osservatorio, va aggiunto il fattoche la mano della censura di Stato si è fattasempre più pesante e opprimente, soffocando

quei pochi spazi di libertà che si erano andatiformando. Il peso delle imprese di Stato si èfatto insopportabile asfissiando la libera im-presa: non è un caso che ad aver successo nelbusiness sia solo chi può vantare contatti più omeno forti nel mondo del partito. Chi non è pro-tetto ha vita durissima. Allo stesso modo, la pro-paganda del partito è ubiqua e praticamenteinesistenti le possibilità di libera espressione delproprio pensiero. Di qui l'esplosione del feno-meno dei social network, in particolare SinaWeibo, dove la capacità di controllo informa-tico (censura) da parte delle autorità trova mag-giori ostacoli. Il paese, dunque, sotto Hu Jintaosi è chiuso sempre più: di qui la fuga di chi puòfarlo, siano essi studenti che emigrano negliUSA, o quanti portano i capitali all'estero. Inbuona sostanza, il partito è ritornato a occuparetutti quegli spazi dai quali si era in parte ritiratonegli anni Novanta.Questo significa che se il partito è dappertutto,ovunque il bisturi del riformatore provi ad in-cidere rischia di danneggiare interessi legati alsistema politico.In altre parole, siamo giunti a un punto in cuiqualsiasi riforma, anche quella che può apparirepiù neutra, sia essa in campo economico o so-ciale, ha come effetto quello di intaccare la sferapolitica, di ridurre il peso del partito, il che si-gnifica ledere gli interessi di quanti, in questianni, hanno abbondantemente lucrato grazie alsuo monopolio.Per avere più mercato si dovrebbero riformarele imprese pubbliche, ma i boiardi di Stato e leloro cordate politiche, rinunceranno alle lororendite? Per avere un sistema finanziario piùmoderno ed efficiente servirebbe, tra le altrecose, una maggiore libertà di stampa, ma se giàora privati internauti sono in grado di smasche-rare casi di corruzione di pubblici funzionari,che cosa succederà quando i cani da guardiadella libera stampa conquisteranno indipen-

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denza e gusto per la libertà? Per avere un'eco-nomia che produce innovazione e conoscenza,servirebbe un sistema scolastico che non facciadell'indottrinamento la sua principale materiad'insegnamento. E, infine, quella che potrebbeessere la più grande delle riforme economiche:la costituzione di una magistratura indipen-dente, non soggetta al controllo del partito. Main tal caso, chi può garantire che magistrati in-dipendenti non chiamino gli stessi funzionaridel partito a rispondere dei propri reati?In buona sostanza non c'è riforma economicache non sia anche una riforma politica e tutte leriforme economiche e politiche di cui il paeseavrebbe bisogno sono in antitesi totale con ilmonopolio del potere da parte del partito comu-nista cinese. Il che è quanto dire che il princi-pale fardello che pesa sullo futuro cinese è ilPartito comunista cinese stesso. Se questa analisi è corretta, ne consegue una do-manda: sarà la quinta generazione ad avviare ilprocesso di eutanasia del PCC e ad aprire quelcantiere per la costruzione di pluralismo poli-tico, di uno stato di diritto e di una separazionedei poteri essenziali all'avvento di un regime de-mocratico? E' improbabile.Come si apre un sistema chiuso? Questo pro-cesso può essere l'opera di un grande despota il-luminato, che dopo aver dato al proprio popolouna costituzione repubblicana e democratica,scompare: basti pensare al caso di Romolo oanche di Deng Xiaoping. Può essere il prodottodi un errore di valutazioni: è il caso di Gorba-ciov: nel tentativo di ridar fiato all'economia(come aveva fatto Lenin negli anni venti con laNEP) allentò il controllo del partito sulla so-cietà, di qui lo sfascio. Può essere il risultato diuna rivolta popolare, di una pressione dal bassoverso l'altro, che alla fine fa saltare il tappo po-litico che blocca il paese: la rivoluzione francesee la carta costituzionale del 1791. C'è un'ultima eventualità: l'inizio di una lotta in-

testina all'interno del partito, una faida che po-trebbe condurlo alla dissoluzione. L'ipotesi nonè campata in aria. Si è visto che con l'ultimoCongresso si è dato avvio, forse per la primavolta compiutamente, a un sistema di alternanzabipartitica. Perché un tale sistema possa funzio-nare ha, prima di ogni altra cosa, bisogno di unacondizione: che la fazione, la parte esclusa dalpotere possa avere la certezza di riacquistarlo ei suoi membri devono avere la certezza di aversalva la vita. Jiang Zemin e i principi rossi di XiJinping hanno riconquistato il potere, nei pros-simi anni (o anche mesi) si dovrà prestare unaparticolare attenzione alla sorte di quanti sonousciti sconfitti da questo Congresso. Parados-salmente sarà più importante tentare di capireche fine farà Hu Jintao piuttosto che tener fissal'osservazione su Xi Jinping, al fine di compren-dere l'evoluzione del sistema politico cinese.Ora, a ben guardare, si tratta quasi sempre dicasi extra-ordinari: il che significa che questi or-ganismi politici chiusi non sono riformabilisenza un gesto di rottura, una cesura che dia vitaa una fase costituente.Le speranze, dunque, che la quinta generazioneal potere possa realizzare quella quinta moder-nizzazione (la democrazia) di cui il paese ha bi-sogno sono assai flebili1. Non solo: visto che, come si diceva in prece-denza, ogni riforma economica è anche un ri-forma politica, il rischio è che la nuovaleadership non riesca a metter mano neanche aun ammodernamento della sfera economica.Siamo dunque a un punto critico, senza riformepolitiche, non ci saranno neanche riforme eco-nomiche salutari. Senza democrazia e senza ri-forme l'economia continuerà a rallentare. Senzacrescita economica è a rischio la stabilità in-terna. Il distacco già siderale tra il Palazzo e ilPaese reale si farà allora sempre più ampio.Dallo scontro tra i pochi, che traggono vantag-gio dal monopolio del PCC, e i molti che intra-

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vedono un futuro sempre più nero per sé ed ipropri figli, ne uscirà un solo vincitore: o il par-tito o la Cina.Se a vincere sarà il partito, si ritornerebbe allasocietà chiusa di Mao. Se a vincere dovesse es-

sere il Paese reale si aprirebbe allora uno sce-nario totalmente nuovo e potrebbe essere utileiniziare a chiederci sin da ora che cosa sarà laCina senza il partito comunista.

1 Un speranza infatti c'è, anche se, giova ripeterlo, davvero debolissima. Tre elementi: un sondaggiopubblicato condotto dal Quotidiano del Popolo e uscito pochi giorni prima dell'inizio del congresso, circale aspettative dei cinesi dalla nuova leadership. Ebbene, al primo posto c'è la speranza in una riforma demo-cratica in Cina, al secondo posto la lotta alla corruzione, poi un miglioramento del proprio tenore di vita eall'ultimo posto lo sviluppo economico. Ora ciò che va segnalato non sono tanto le risposte degli intervistati,quanto il fatto che il Quotidiano del popolo le abbia pubblicate poco prima del Congresso: nell'etichetta enei riti della dirigenza cinese nulla è lasciato al caso. In secondo luogo l'incontro tra Xi Jinping e il riformistaHu Deping, anche in questo caso potrebbe essere un segnale. E, infine, un passaggio del discorso di Xi dopola sua incoronazione: riferendosi alla corruzione ha detto “i vermi possono prosperare solo in un corpo giàin decomposizione”, il che potrebbe significare che è il partito stesso, o meglio la sua assoluta autocrazia agenerare naturalmente la corruzione. Se si vuole combattere realmente la corruzione, dunque, bisogna sman-tellare il PCC. Si tratta solo di supposizioni, sia ben chiaro, dettate dalla speranza di un reale cambiamentoin quel paese. Il South China Morning Post di Hong Kong sostiene che Xi Jinping è un vero riformatore estupirà il mondo. Non c'è che da augurarselo. La preoccupazione, tuttavia, resta.

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India

Claudia Astarita

Eventi►Pechino riaccende la questione della sovranità in Arunachal Pradesh. In una fase in cui laCina ha assunto un atteggiamento fin troppo assertivo nella gestione delle dispute territoriali sianel Mare cinese orientale sia nel Sudest Asiatico, Pechino ha scelto di provocare anche New Delhiribadendo il proprio interesse sull’Arunachal Pradesh, lo stato dell’India orientale che confinacon il Tibet e ospita Tawang, una cittadina che dai tempi dell’annessione del Tibet il Partito co-munista cinese teme possa trasformarsi nella roccaforte della comunità tibetana in esilio. Questavolta Pechino lo ha fatto aggiornando la mappa del Paese sui nuovi passaporti, stampandone unache include anche i territori contesi con l’India, Arunachal Pradesh e Aksai Chin (la porzione ci-nese del Kashmir).Dopo la protesta formale da parte del governo di New Delhi, che ha condannato l’iniziativa come“inaccettabile”, il Ministero degli Esteri ha deciso di stampare nuovi visti da utilizzare solo peri cittadini cinesi, nei quali è inserita una mappa dell’India che ribadisce la visione del Subconti-nente sui confini. L’offensiva cinese è indubbiamente molto sottile: dal punto di vista di Pechino, che oltre ai territoricontesi dell’Himalaya ha aggiornato su questa nuova mappa anche la propria percezione dei con-fini marittimi della Repubblica Popolare, i paesi che apporranno il loro timbro su questo nuovopassaporto approveranno indirettamente i “veri” confini della Cina. Volendo evitare di farsi coin-volgere in un’escalation come quella in cui si sono ritrovati Pechino e Tokyo per le Diaoyu/Sen-kaku e Pechino, Hanoi, Manila e Taipei per le Spratly e le Paracelso, New Delhi ha deciso dilimitarsi a protestare “con un timbro” con cui, però, rifiuta di fatto la nuova carta geografica dif-fusa dai cinesi. ►India: Manmohan Singh cerca di ricompattare la maggioranza. Appena è stato chiaro cheanche l’ultima sessione parlamentare aperta a New Delhi avrebbe potuto chiudersi (il 20 dicembreprossimo) nell’ennesimo nulla di fatto, la coalizione di maggioranza ha convocato un incontromultilaterale in cui ha coinvolto tutti i partiti nella speranza di riuscire a sbloccare la situazione,ricompattando il consenso sulle riforme economiche di cui la nazione ha urgente bisogno. Un’ini-ziativa che il Bharatiya Janata Party (BJP), la principale forza di opposizione, ha sfruttato perchiedere al Partito del Congresso di organizzare un dibattito sulle riforme in cui venga garantital’opportunità ai partecipanti di votare sull’approvazione di cambiamenti tanto radicali. Eppure,

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gli ultimi dati economici testimoniano che il tempo per discutere sulle riforme da implementaresia abbondantemente finito. Se il tasso di crescita del 5,5% per il trimestre luglio-settembre fosseconfermato, si tratterebbe del terzo intervallo consecutivo in cui la terza economia asiatica non èriuscita a superare il tetto del 6%. Resta da segnalare che in questa fase di profonda indeterminatezza qualcosa sta cambiando anchenegli equilibri dei due principali partiti indiani. All’interno del Congresso sta progressivamenteaumentando il consenso per Rahul Gandhi, parallelamente al numero di alti dirigenti che auspi-cano che al figlio di Sonia possa essere riservato un ruolo di primo piano nel panorama politicoindiano. In linea con questo nuovo orientamento, il giovane Gandhi è stato nominato direttoredel comitato che si occuperà di tutte le questioni legate alle elezioni nazionali del 2014. Unacarica che, implicitamente, conferma che sarà lui a prendere in mano l’eredità del Premier Man-mohan Singh. Il BJP ha invece scelto di confermare Nitin Gadkari alla guida dell’opposizione,rifiutandosi di sostituirlo a fronte delle accuse di corruzione recentemente mosse contro di lui.Nel braccio di ferro tra chi riteneva le sue dimissioni necessarie per dare un segnale di maggiorecoerenza in vista delle elezioni del 2014 e chi era convinto che solo uscendo a testa alta da unprocesso il BJP avrebbe potuto sperare di recuperare la propria credibilità, è stata quindi la se-conda linea a prevalere. ►Censura e repressione: aumentano in India i segnali di una presunta deriva autoritaria delpaese. Non è la prima volta che il Subcontinente decide di censurare le voci che, direttamente oindirettamente, deridono il governo. Quello che però oggi fa paura in India è il fatto che, dopoaver dibattuto a lungo sull’opportunità di “aumentare i controlli”, quindi censurare, social net-work come Twitter e Facebook, gli arresti di chi manifesta critiche e perplessità nei confronti delpaese siano diventati troppo frequenti. Tra i casi più recenti: due ragazze, Shaheen Dhada e RenuSrinivasan, “colpevoli” di aver criticato la deferenza con cui il paese, e Mumbai in particolare,ha deciso di ricordare il defunto leader dell’estrema destra indù Bal Thackeray, e Ravi Srinivasane quello di un uomo che ha scritto su Twitter che il figlio del ministro delle finanze indiano avevaaccumulato enormi ricchezze attraverso la corruzione, probabilmente più di Robert Vadra, il ge-nero di Sonia Gandhi recentemente coinvolto in uno scandalo. Esempi, questi, che lasciano intuireche, contrariamente a quanto ufficialmente dichiarato, il controllo sul dissenso interno è, di fatto,aumentato, cosa che spinge tanti a chiedersi se l’India possa ancora essere considerata una na-zione in cui la libertà di espressione è sempre garantita. ►Eseguita la condanna a morte per impiccagione di Mohammad Ajmal Amir Kasab. Il venti-quattrenne pakistano, unico terrorista sopravvissuto negli attentati di Mumbai del 2008, condan-nato a morte da un tribunale speciale indiano il 6 maggio 2010 dopo essere stato riconosciutocolpevole di omicidio e azione di guerra contro l'India è stato giustiziato. L’esecuzione di Kasab(la prima dal 2004, la seconda negli ultimi quindici anni) è stata gestita con la massima segretezzadal carcere di Pune, nello stato centrale del Maharashtra, dopo che il presidente della Repubblica,Pranab Mukherjee, ne aveva respinto la domanda di grazia. L’esecuzione della condanna è stataaccolta con soddisfazione dai familiari delle vittime e dall’opposizione indo-nazionalista, mentrenon è ancora chiaro se e come New Delhi abbia comunicato al Pakistan la decisione di procedereall’impiccagione. Il ministro degli Esteri indiano Salman Kurshid ha precisato che l’ambasciatapachistana avrebbe ignorato un fax inviato dal suo ministero in cui si comunicava la decisione,

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INDIA: UNA NUOVA POLITICA ESTERA IN VISTA DEL RITORNO DEGLI STATI UNITI IN ASIA.

Il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha

inaugurato il suo secondo mandato con un viag-

gio nel Sud-est Asiatico, durante il quale si è

fermato in Myanmar, Thailandia e Cambogia.

Un itinerario solo apparentemente insolito, per-

ché è verosimile che la Casa Bianca lo abbia

studiato apposta per ribadire il proprio interesse

in Asia.

Nel 2011 l’amministrazione Obama aveva già

annunciato il ritorno degli Stati Uniti in Oriente

legandolo all’implementazione della nuova

strategia “Pivot”. Nello stesso periodo Washin-

gton è stata anche ammessa all’East Asian Sum-

mit, con un allargamento che molti hanno

interpretato come l’ennesimo tentativo da parte

dell’Asean, ancora oggi il cuore del regionali-

smo asiatico, di estendere i confini dell’orga-

nizzazione per tenere meglio sotto controllo

l’ascesa cinese.

I motivi per cui New Delhi dovrebbe osservare

con molta attenzione queste evoluzioni sono

due. Il ritorno degli Stati Uniti in Asia ha sem-

pre posto l’India nella condizione di prendere

in considerazione l’ipotesi di ridefinire le pro-

prie alleanze regionali. Oggi, però, la determi-

nazione americana potrebbe costringere New

Delhi a dover prendere una decisione, abban-

donando la tradizionale middle-of-the-road po-licy che Washington l’accusa di mantenere dai

tempi della decolonizzazione. In secondo

luogo, il fatto che Obama abbia scelto questo

insolito itinerario Myanmar-Thailandia-Cam-

bogia dimostra che gli Stati Uniti non vogliono

più limitarsi ad appoggiare gli “alleati storici”

nella regione, vale a dire Giappone, Australia e,

in seconda battuta, India. Ma che, al contrario,

puntano a erodere il consenso cinese laddove

questo si è ben consolidato. Il semplice fatto

che per la prima volta il Presidente Obama

abbia fatto riferimento al Myanmar chiaman-

dolo con il suo attuale nome, vale a dire quello

con cui, nel 1989, la giunta militare ha sostituito

quello storico, Birmania, è un segnale evidente

di quanto gli Stati Uniti siano (o quanto meno

vogliano sembrare) oggi più predisposti a scen-

dere a compromessi per raggiungere il loro

principale obiettivo, quello di rafforzare la pro-

pria presenza in Asia.

In un contesto di questo tipo, diventa fonda-

mentale per l’India evitare di essere “dimenti-

cata” sia dagli Stati Uniti sia dagli altri paesi

asiatici, che al consolidamento dei propri le-

che da Islamabad non sarebbe giunta nessuna richiesta di riavere il corpo dell’uomo, ma che NewDelhi resta disponibile a restituirlo, se invitata a farlo. Una versione immediatamente confermatadal Pakistan.Nonostante Islamabad abbia riconosciuto che gli attacchi del 2008 siano stati concepiti sul suoterritorio (negando però ogni coinvolgimento diretto) e abbia avviato un’inchiesta contro le pre-sunte “menti” dell’operazione, queste ultime restano ancora oggi libere “per l’assenza di provesufficienti contro di loro”. New Delhi ha sempre criticato la passività pakistana sul fronte del-l’antiterrorismo, da qui la scelta di chiudere in maniera definitiva il “caso Kasab”, cercando,però, di gestire il problema in maniera da non compromettere i recentissimi miglioramenti sulfronte bilaterale.

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gami con il Subcontinente potrebbero finire colpreferire quello con altri partner. Da qui l’ur-genza di ridefinire la politica estera regionale,ponendosi l’obiettivo di chiarire la propria po-sizione nei confronti di tre tipologie di poten-ziali alleati: Stati Uniti, alleati americani storicinella regione (Giappone e Australia), e nazionidel Sudest Asiatico. Per quel che riguarda gli alleati di seconda fa-scia, la posizione di New Delhi sta diventandosempre più chiara. Nel mese di ottobre, nelcorso di un incontro al vertice tra il Primo Mi-nistro australiano Julia Gillard e il suo omologoindiano Manmohan Singh, quest’ultimo è riu-scito a convincere Canberra a negoziare un ac-cordo per vendere legalmente uranio a NewDelhi. Un’intesa già descritta come l’ennesimaconferma dell’interesse dei due paesi a raffor-zare la loro alleanza strategica. India e Australiasi sono poste l’obiettivo di firmare, entro unmassimo di due anni, un accordo per la coope-razione nucleare civile, molto simile a quelloche l’India ha siglato qualche anno fa con gliStati Uniti. L’evoluzione strategica dei rapporti tra Austra-lia e India era già stata in qualche modo antici-pata nel 2011, quando la prima aveva rivisto lanormativa che le impediva di vendere uranio alSubcontinente in quanto paese non firmatariodel Trattato di Non Proliferazione nucleare. Ri-manendo fedele a questa nuova linea, Canberraha successivamente ribadito di essersi resaconto del fatto che New Delhi non solo non uti-lizzerebbe mai l’uranio per scopi militari, maanche che oggi più che mai ha bisogno del-l’aiuto “dei suoi alleati” se vuole rilanciare lacrescita economica interna. E dal momento chequesto obiettivo potrà essere raggiunto solo seil governo sarà in grado di soddisfare le esi-genze energetiche della nazione, l’Australia hadeciso di contribuire con la vendita dell’uranio,aiutando l’India ad alimentare i trenta nuovi re-

attori che intende costruire entro il 2030. Il riavvicinamento tra India e Australia è impor-tante sotto due punti di vista. Da un lato, aiutaNew Delhi a consolidare i propri rapporti anchecon altre potenze che, sulla scia di Washingtone Canberra, potrebbero decidere di negoziareaccordi simili per la cooperazione nucleare ci-vile, assicurandosi così sia nuovi canali perl’approvvigionamento dell’uranio, sia maggioribenefici sul piano del trasferimento di tecnolo-gie avanzate e know how. Dall’altro, aumentala visibilità di New Delhi in Asia, regione in cuil’inerzia della sua tanto decantata Look East Po-licy ne ha già profondamente minato la credibi-lità. Consapevole del fatto che per molte nazioni,orientali e non, l’India rappresenta oggi più chemai una possibile alternativa alla Cina (perquanto il fatto che sia un’opzione altrettanto va-lida non è ancora stato dimostrato in manierainequivocabile), va riconosciuto che il riavvici-namento a Canberra è stato gestito talmentebene dal governo di Manmohan Singh da per-mettergli di raggiungere altri due risultati: il vialibera sull’accordo sul nucleare con il Canada,e il consolidamento dei rapporti economici conil Giappone. Nel primo caso, è stato finalmentesbloccato un trattato firmato nel 2010 e succes-sivamente congelato per la difficoltà di NewDelhi di assecondare il desiderio di Ottawa dicontrollare il modo in cui l’uranio sarebbe statoimpiegato. Nel secondo, in un momento parti-colarmente delicato per quel che riguarda gliequilibri tra Cina e Giappone, viste le ripercus-sioni della vicenda Diaoyu/Senkaku sui rapportieconomici tra le due superpotenze asiatiche,New Delhi e Tokyo hanno firmato un accordoin cui la seconda si è impegnata a investirequindici miliardi di dollari in progetti infrastrut-turali nel Subcontinente, nella realizzazione deiquali sono state coinvolte le principali aziendenipponiche, da Hitachi a Mitsubishi. Nella spe-

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ranza che il completamento delle nuove infra-strutture sia seguito da un’ondata di delocaliz-zazioni di aziende del Sol Levante, Infosys, unadelle più grandi compagnie informatiche in-diane, ha studiato un nuovo software, India ina Box, per aiutare gli imprenditori nipponici arisolvere nel più breve tempo possibile tutti iproblemi di natura burocratica che potrebberoincontrare in India. Il fatto che questo strumentosia stato studiato apposta per i giapponesi con-ferma il fortissimo interesse di New Delhi a raf-forzare la partnership con Tokyo. Ritornando alla necessità di New Delhi di ride-finire la politica estera regionale in vista del ri-torno degli Stati Uniti in Asia, è evidente chel’apertura commerciale nei confronti del Giap-pone contribuisce a rafforzare il legame conquelli che abbiamo definito alleati di secondafascia. Allo stesso tempo, però, se l’India nonsarà in grado di cogliere le opportunità legateal ritorno degli Stati Uniti in Oriente potrebberitrovarsi a ricoprire una posizione marginalenella regione.

In un’ottica strategica di medio periodo, il riav-vicinamento di New Delhi a Canberra e aTokyo potrebbe essere interpretato come la ver-sione contemporanea della Middle-of-the-roadPolicy degni anni ’50: legarsi ai paesi “menoproblematici” della regione per rimanere viciniagli Stati Uniti e all’Asean senza schierarsi inmaniera esplicita. Ecco perché, oggi, l’unico

modo in cui New Delhi potrà dimostrare di vo-lere essere più attiva in Asia sfatando ogni dub-bio è legato a ciò che il governo sceglierà difare con gli alleati di prima e terza fascia. In una fase in cui Washington ha chiarito in ma-niera inequivocabile il proprio interesse a gio-care in Oriente un ruolo da protagonista, èchiaro che l’incertezza strategica di New Delhidifficilmente garantirà a quest’ultima buoni ri-sultati. Allo stesso tempo, va riconosciuto cheschierarsi è difficile. Del resto, nessun’altra na-zione asiatica, pur avendo dato il benvenuto aWashington nella regione, ha manifestato un in-teresse più o meno esplicito a modificare la pro-pria politica cinese. Ecco perché un buoncompromesso potrebbe essere quello di puntaretutto sul consolidamento commerciale, aprendoil mercato interno soprattutto agli Stati Uniti,che da tempo fanno pressioni per la creazionedi un’area di libero scambio. Se Washingtoninizierà a fidarsi dell’India, è ragionevole at-tendersi che molti altri paesi asiatici inizie-ranno a fare altrettanto. Un’evoluzione, questa,che aiuterebbe il Subcontinente sul piano eco-nomico oltre che strategico. Per riuscirci, però,New Delhi ha bisogno di dare un segnale, el’implementazione delle riforme tanto care alPartito del Congresso sono l’unico strumentoa disposizione del governo per farlo. Ed è inquest’ottica che le implicazioni dell’attuale im-passe parlamentare diventano ancora più pre-occupanti.

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America Latina

Alessandro Politi

Eventi►Il mese di novembre vede una forte attività nel campo della politica economica per Argentina,Messico e la Alianza del Pacifico. L’Argentina, nonostante le drastiche misure economiche dellapresidentessa Cristina Fernandez nei riguardi della politica valutaria e delle attività estrattive,vede l’inflazione crescere a ritmo pericoloso. In ottobre è salita dell’1,9% secondo stime private,mentre quelle pubbliche danno uno 0,9% per settembre. Sempre secondo stime private (visto chequelle ufficiali sono messe in dubbio), l’inflazione dall’inizio dell’anno è salita al 19%. La BancaCentrale continua una politica monetaria espansiva.Allo stesso tempo in Messico uno studio della Camera dei Deputati rivela pericoli latenti perl’economia del paese a causa dell’incertezza fiscale negli USA e della crisi economica nell’UE.Le misure suggerite consistono nel rinforzare i meccanismi di regolazione e supervisione nonchénell’attribuire alle autorità finanziarie poteri per liquidare in modo ordinato banche eventualmenteinsolventi (il 72% delle banche universali del paese sono straniere). Il documento non è ancoradisponibile, ma le sue raccomandazioni sono assai insufficienti per la reale situazione messicana,già duramente colpita dalla recessione statunitense e che sta vivendo una bolla d’investimenti inun quadro inquinato dalla narcoeconomia.La nota positiva è che la Alianza del Pacifico (un’alleanza commerciale tra Cile, Colombia, Mes-sico, Perù) sta compiendo progressi nell’integrazione e si prepara ad accogliere Panamá e CostaRica. Resta da vedere il futuro di questo gruppo rispetto alla Trans Pacific Partnership a guidastatunitense, visto che Cile e Perù ne fanno parte e il Messico tratta per accedervi.►In Cile l’8/11/2012 la celebre leader studentesca Camila Vallejo Dowling ha pubblicato unadura autocritica del movimento studentesco. Segnalando che, dopo le dure lotte del 2011, il 2012è un’anno di riflusso, ha sottolineato il rischio crescente che il movimento studentesco si isolisempre più dalla società civile per evidenti tendenze settarie. Il movimento non può produrre inecessari cambiamenti nella società cilena agendo da solo o pensandosi come l’asse principaledella trasformazione. Dal canto suo il presidente Sebastián Piñera ha rimaneggiato il governoper il ritiro di due suoi ministri (Golborne e Allamand) che iniziano appunto la campagna eletto-rale presidenziale per il 2013.►Il 10/11/2012 in Brasile gl’indigeni abitanti del quartiere Maracaná hanno protestato a favoredei loro confratelli Guaraní-Kaiowá dello stato del Mato Grosso do Sul. La questione è esplosa

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Nonostante la lunga missione ONU di stabiliz-zazione ad Haiti e la graduale preparazione alritiro dei contingenti, l’idea che il monopoliodella forza finisca per essere affidato a maniprofessionalmente capaci e a corpi democrati-camente affidabili rimane molto aleatoria.Il ritmo di creazione di una forza di poliziadegna delle speranze degli haitiani è molto lentoed è difficile immaginare finisca entro il 2016,data stimata del ritiro delle forze internazionali.Nel frattempo il neopresidente Michel Martellyha aperto il dibattito sulla ricostituzione del-l’esercito, sciolto nel 1995 per manifesta inaf-fidabilità democratica. Si tratta di un dibattitofuorviante perché i paesi donatori insistonosulla modernizzazione della polizia e perchérallenterebbe il raggiungimento dell’obbiettivodi garantire con forze civili la legge e l’ordine.Molti analisti politici temono che il nuovo eser-cito possa diventare uno strumento di controlloautoritario, come è tradizionalmente stato nellastoria del paese.Nel frattempo, da più di un decennio i parami-litari di vari corpi non sono stati né reintegraticon successo nella vita civile, né adeguatamenterepressi per via giudiziaria, mentre San Do-mingo continua ad offrire loro un santuario pe-ricoloso per la stabilità di Haiti.Il rischio concreto è che una possibile involu-zione antidemocratica non solo non sia contra-stata da una polizia professionale, ma anzi ne

venga appoggiata, anche senza il concorso delcostituendo esercito.

Le lunghe radici di un conflitto socio-razzialeLa MINUSTAH (Mission des Nations Uniespour la stabilisation en Haïti) è la terza missionepiù costosa dell’ONU e la quinta in ordine diforze presenti sul terreno; operante dal 30 aprile2004, è molto probabile che il suo mandato siaesteso a tutto il 2013 e oltre.Stabilita con la risoluzione 1542 (2004) e inter-venuta su richiesta del locale governo transito-rio in coordinamento politico con leorganizzazioni regionali dell’OSA (Organizza-zione degli Stati Americani) e la CARICOM(Caribbean Community and Common Market.),essa ha avuto nel suo mandato iniziale le se-guenti missioni:I. garantire un ambiente sicuro e stabileper lo sviluppo degli appropriati processipolitici e costituzionali, inclusa la riforma dellaPNH (Police Nationale d'Haïti) e il disarmo e ilreinserimento dei gruppi armati;II. sostenere i processi costituzionali epolitici, tra cui quelli di riconciliazione e d’or-ganizzazione delle diverse tornate elettorali;III. promuovere i diritti umani.A otto anni di distanza, dopo un rovinoso terre-moto nel 2010 e alcune tempeste tropicali, chehanno fortemente complicato gli sforzi di ri-costruzione di un’isola già devastata dalla quasi

HAITI: L’ISOLA CHE NON C’È

il mese scorso quando è stato pubblicato un documento in cui un gruppo di 170 Guaraní-Kaiowáha dichiarato di essere pronti alla morte collettiva se le loro terre ancestrali non verranno deli-mitate dallo stato. La situazione dell’intera etnia (45.000 persone) è stata qualificata come similead una pulizia etnica dolce in quanto, senza confini certi, le grandi fattorie a coltura intensivacontinuano ad espandersi nei territori ancestrali.

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trentennale dittatura della famiglia cleptocraticadei Duvalier (1957-1986) e dall’instabilità po-litica che ne è seguita, il mandato (RES/2070del 12/10/2012) fissa la forza mista della mis-sione a 6.270 soldati e 2.601 poliziotti e modi-fica la missione in alcuni significativi aspetti:• si tiene conto della necessità di una col-laborazione politica con l’UNASUR (Unión deNaciones Suramericanas), che ha creato nel2010 un’agenzia per gestire gli aiuti ad Haiti;1

• il mantenimento dei livelli di forza èlegato non solo alle condizioni di sicurezza, maanche alle condizioni sociopolitiche ed allagraduale costruzione dello stato nazionalehaitiano;• si riconosce che la responsabilità pri-maria della stabilizzazione è del governo e delpopolo haitiano;• si riconferma che il rafforzamento dellapolizia è essenziale per ristabilire la legge el’ordine, in modo che il governo locale assumapiena responsabilità della sicurezza del paesecercando di avere per il 2016 almeno 15.000funzionari di polizia effettivamente operativi eaffidabili (20.000 è l’obbiettivo implicito);2

• s’incoraggia la MINUSTAH ad assi-stere il governo nella lotta alle diverse forme dicriminalità organizzata e di violenza alle donnee bambini, in un quadro di attento rispetto deidiritti umani già violati da passati governi.Il documento è un classico nella preparazioneal ritiro graduale della missione in un quadrogià visto di “nazionalizzazione” (haitianiz-zazione) della gestione del conflitto locale,come confermato dal governo di Brasilia già unanno fa (9/9/11).3 I progressi vi sono stati, mainferiori a quanto auspicato perché l’apparentecaotica instabilità sottosviluppata dello statocaribico ha radici profonde e tutt’altro cherisolte.Haiti nasce, prima nel suo genere, come repub-blica fondata dagli schiavi neri liberatisi sul-

l’onda della Rivoluzione Francese nel 1804.L’indipendenza viene persa nel 1915 con l’oc-cupazione statunitense a seguito della succes-sione di effimeri imperatori e presidenti, spessodeposti da gruppi di rivoltosi al soldo di fazionipolitiche opposte. Il punto di fissione della società locale è la dis-tinzione tra bianchi (cacciati dal potere), mulatti(la nuova élite) e neri (raramente in ascesa so-ciale), mentre l’occupazione degli USA (finitanel 1934) crea una guardia nazionale che saràla prima forza di sicurezza senza affiliazioni re-gionali, ma che al tempo stesso svolgerà unruolo di guardia pretoriana più o meno visibilenei successivi cambi di regime, tanto più chelarga parte della Garde d'Haïti era composta daneri.Nel 1946 la Garde (ribattezzata un anno dopoArmée d’Haïti) assumerà direttamente il poteresotto forma di giunta militare, inaugurando unalunga stagione di colpi di stato. Il presidenteespresso dal golpe rivoluzionario, DumarsaisEstimé, introduce due elementi che resterannonella politica locale: l’alleanza tra i neri delnord e l’emergente classe media contro i mulattie il vodou come possibile alternativa nera allareligione cattolica. Al vecchio presidente esiliato dai militari suc-cede, nel 1950, un presidente favorevole allaclasse mulatta elitista, lui stesso ex-ufficialedell’esercito, Paul E. Magloire, a sua volta es-iliato per eccessiva corruzione. Un membro delprecedente governo, François Duvalier, riusciràa vincere nel 1957 con largo margine le elezionipresidenziali e legislative contro un oppositorericco e per di più mulatto, trasformandosi poiin presidente a vita. Le forze armate, con fun-zioni esclusivamente di sicurezza interna, ven-gono ribattezzate Forces Armées d’Haïti(FAd’H) nel 1958.La terribile dittatura di Duvalier (Papa Doc) edi suo figlio Jean-Claude (Baby Doc) è segnata

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dalla rivincita dell’elemento nero, dal rilanciodel culto vodou come simbolo identitario emezzo di controllo sociale e dalla creazione diuna milizia volontaria popolare (Volontaires dela Sécurité Nationale – VSN), meglio notacome Tonton Macoutes e usata come con-trappeso all’esercito considerato meno affid-abile. Uno dei motivi che indebolirono ladittatura delle famiglia fu il matrimonio delfiglio con una ricca mulatta.4

Questo elemento di milizia perdura sotto varieforme e colori politici anche oggi creando forteinsicurezza soprattutto nella regione della cap-itale. La sua lunga traccia si estende all’attualegoverno. Il presidente, Michel Martelly “SweetMicky”, amico intimo dell’allora capo dei Ton-ton Macoutes, ha fatto rientrare Baby Doc edne ha pubblicamente sostenuto l’amnistia.5

Martelly viene evidentemente dai circoli duva-lieristi e neoduvalieristi. Sono i medesimi chehanno deposto nel 1991 il legittimo presidenteJean-Bertrand Aristide, un prete salesiano eteologo della liberazione (segnando un ritornodunque alle tradizioni cattoliche e una svoltaprogressista). Aristide riuscirà a tornare al potere nel 1994, adeffettuare una transizione democratica con ilsuo alleato René Préval, e a rivincere la presi-denza nel 2001, prima di essere deposto defin-itivamente da un colpo di stato nel 2004,orchestrato da uomini d’affari e militari dell’e-sercito dissolto nel 1995. Durante la seconda presidenza, Aristide orga-nizzò la propria milizia armata (Chimères,Chimè o Lame san tèt - l’armée sans tête), cheaveva compiti repressivi e intimidatori oltre acommettere delitti comuni. Proveniente daibassifondi di Port-au-Prince, la formazionecercò di contrastare il golpe del 2004 e poi rifluìnella criminalità comune.6

Se è difficile dimostrare che il golpe ebbe l’ap-poggio di Francia e Stati Uniti, è certo che il

governante ad interim, Boniface Alexandre, ènipote dell’ex primo ministro Martial Célestin,ugualmente legato alla giunta Namphy comeManigat, e che, in qualità di presidente, chiedeun intervento di stabilizzazione dell’ONU, cheverrà continuato nel giugno 2004 sotto l’egidaMINUSTAH.Dal 2006 al 2011 vi sarà la seconda presidenzaPréval in condizioni sempre più difficili e insta-bili. Il tentativo di far eleggere il suo protettoJude Célestin, fallisce, nonostante il suo passag-gio al primo turno, per le continue violenze e leaccuse di brogli. Dopo che i sostenitori diMartelly (forse la milice rose, vedi infra) bru-ciarono il quartier generale del partito diCélestin nel dicembre 2010, il partito lo ritiradalla competizione. Martelly è dichiarato vinci-tore dopo il secondo ballottaggio concludendoun ciclo riassumibile con questo grafico.

Schema della struttura e andamento della po-litica interna

Fonte: elaborazione propria da compilazionistoriche7

L’incerta transizione e il nodo della forzaNonostante due anni di soccorsi internazionalidopo il sisma, le pessime condizioni socioeco-nomiche haitiane sono sufficientemente note,mentre meno esplorato, anche dalla letteratura

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scientifica, è il classico problema del monopoliodella forza ad Haiti come condizione per rico-struire una società stabile e un governo funzio-nante.Dal 2004 la MINUSTAH ha il monopolio dellaforza e, a guardare i dati standard della crimi-nalità, i risultati sono stati tangibili: solo alcuneperiferie della capitale Port-au-Prince sono con-trollate da bande (p.e. la Cité Soleil, Croix-des-Bouquets, Carrefour, Bel Air, Martissant), comesi vede anche nell’immagine del dispiegamentodella forza ONU. Tuttavia è interessante notare che, se i principalicentri abitati sono coperti, la lunga e porosafrontiera con la Repubblica Dominicana e lecampagne sono assai meno controllate. È lì chesi annidano le forze paramilitari che continuanoad influenzare la vita del paese.

Schieramento della MINUSTAH

Fonte: ONU, MINUSTAH

Dall’era dei Duvalier vi sono state quattro ge-nerazioni di paramilitari, spesso addestrati negliStati Uniti:1. i Tonton Macoutes in relazione simbi-otica con i militari e la polizia rurale;2. gli aggregati all’esercito (attachés) durantele successive giunte Namphy e Cedras;3. il FRAPH (Front Révolutionnaire Armé

pour le Progrès d’Haiti, successivamente Frontpour l’Avancement et le Progrès Haitien -FAPH), un gruppo paramilitare il cui capo eracontrollato dalla CIA in funzione anti-Aristide;4. il FLRN (Front pour la Liberation etReconstruction Nationales), composto da ex-militari, ex-poliziotti rurali (anch’essi smantel-lati da Aristide) ed ex paramilitari in fuga daitribunali di Haiti, addestrati in Ecuador e dislo-cati nella compiacente Repubblica Dominicanada dove compievano incursioni durante la se-conda presidenza Aristide. Il sedicente frontepoteva contare su una quinta colonna d’infiltratinel governo e sulle complicità di un nucleo diuomini dei vecchi regimi riarruolati nella nuovapolizia haitiana (PNH).8

Questo personale di risulta rispetto alle diversepassate formazioni, da un lato opera in campid’addestramento in campagna che non vengonochiusi dalla MINUSTAH, dall’altro si riciclanella polizia o nelle compagnie di sicurezza pri-vata o, ancora, può costituirsi in bande criminalioppure tenta di prepararsi ad entrare nel cos-tituendo esercito, che già sta effettuando dei pre-arruolamenti. Infatti il presidente Martelly ritiene che il disci-olto esercito vada ricostituito su base apartitica,attingendo a meccanismi di coscrizione e conuna precisa missione di protezione delle fron-tiere terrestri e marittime, specie da trafficicriminali, nonché di sussidio alla polizia quandola situazione lo richieda. Due altri argomenti asostegno della tesi consistono nella diversifi-cazione del monopolio della forza rispetto aun’unica forza di polizia e nella necessità dicreare le condizioni per il ritiro della MINUS-TAH.Mettendo anche da parte i sospetti dell’oppo-sizione sulle ambizioni autoritarie del presi-dente, che potrebbero essere ben servite da unesercito con i quadri imbottiti di ex miliziani divaria tendenza destrorsa, la proposta urta contro

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la diffusa volontà tra i paesi donatori di dare lamassima priorità alla costituzione di una poliziaefficiente e contro la realtà di statistiche crimi-

nali in ascesa generale (tranne che per i se-questri di persona).

1 L’agenzia è la UNASUR-Haiti, creata un mese dopo il terremoto (febbraio 2010). Vedi http://en.merco-press.com/2010/02/09/unasur-pledges-300-m-usd-for-haiti-sees-ecuador-and-colombia-edging-closer. Unodei problemi di questa cooperazione è l’insufficiente attenzione ad una soluzione integrata dei problemi deimigranti haitiani nello spazio UNASUR, affrontati per ora con rimedi ad hoc, http://alainet.org/active/48018(20/11/2012).2 La forza di polizia UNPOL è piuttosto eterogenea (46 paesi). Secondo le informazioni ONU le provenienzesono: Argentina, Bangladesh, Benin, Brasile, Burkina Faso, Burundi, Cameroon, Canada, Central AfricanRepublic, Chad, Chile, China, Colombia, Côte d'Ivoire, Croazia, Egitto, El Salvador, France, Guinea, India,

Fonte: UN, Office of Internal Oversight Services,Audit report, The United Nations Police operationsin MINUSTAH, 24/8/2012

Non solo l’azione dell’UNPOL è stata giudicatainsufficiente dal citato audit, ma le capacità dibase della PNH sono assolutamente insufficientisia in termini assoluti che in quelli relativi, spe-cialmente nel campo delle investigazioni crimi-nali.

In conclusione• La creazione di polizia moderna, im-parziale, professionale ed efficiente procede adun ritmo talmente lento che è difficile immag-

inare che venga completata prima della fine delmandato della missione ONU;• Il dibattito sulla ricostruzione dell’esercitoè, quanto meno, un falso dibattito con effetti negativisulla distribuzione delle risorse a favore di unapolizia nazionale efficiente;• Da un decennio i vari paramilitari nonsono stati né reintegrati con successo nella vitacivile, né adeguatamente repressi per via giu-diziaria, mentre San Domingo continua ad of-frire loro rifugio;Il rischio concreto è che una possibile in-voluzione antidemocratica non solo non siacontrastata da una polizia professionale, maanzi ne venga appoggiata.

Statistiche criminali tra il 2007 ed il 2011

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Indonesia, Giamaica, Giordania, Kyrgyzstan, Madagascar, Mali, Nepal, Niger, Nigeria, Norvegia, Pakistan,Filippine, Romania, Russia, Rwanda, Senegal, Serbia, Sierra Leone, Spagna, Sri Lanka, Svezia, Thailandia,Togo, Turchia, USA, Uruguay, Yemen.3 Cfr. http://america.infobae.com/notas/33228-La-mision-de-la-ONU-reducira-su-presencia-en-Haiti-;http://en.mercopress.com/2011/09/09/haiti-un-peacekeeping-force-led-by-brazil-will-begin-gradual-pullout(18/11/2012).4 Chiaramente, un’alleanza politica per riconciliarsi con la leadership mulatta decimata da Papa Doc, mache creò una spaccatura all’interno della costellazione di governo.5 In realtà l’ONU preme per far incriminareDuvalier per delitti contro l’umanità, ma il locale governo non ha collaborato e un giudice ha incriminatol’ex dittatore solo per corruzione e riciclaggio al’inizio del 2012; http://es.globedia.com/llama-onu-enjui-ciar-duvalier-crimenes-humanidad. 6 Cfr. http://www.alterpresse.org/spip.php?article1919 (21/11/2012).7 Il grafico copre un arco di tempo di 56 anni. Le frecce: verso l’alto indicano ascesa di potere; verso ilbasso, il calo di potere; in orizzontale una relazione o un potere in stallo; con curva verso l’alto, il ritorno inauge, senza potere istituzionale; il cerchio barrato rappresenta l’esclusione dal potere; la freccia che escedal rettangolo è una possibilità di ritorno agli affari politico-economici; il punto interrogativo è invece il di-battito sulla ricostituzione dell’esercito, aperto da Martelly e il cui addestramento potrebbe esser curato daBrasile ed Ecuador. Vedi http://ilpoliti.ilcannocchiale.it/2012/11/20/haiti_e_chissene.html.8 Cfr. http://www.counterpunch.org/2012/10/26/the-assault-on-democracy-in-haiti/. Durante e dopo la cam-pagna elettorale si è parlato anche di una “milice rose”e (il rosa è il colore del partito di Martelly) che ha ri-petutamente attaccato i candidati rivali e che potrebbe restare a disposizione del nuovo presidente,http://www.counterpunch.org/2012/10/26/the-assault-on-democracy-in-haiti/.

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Iniziative Europee di Difesa

Stefano Felician Beccari

Eventi►Il 5 novembre 2012 il nuovo governo olandese ha giurato nella mani della Regina, aprendoufficialmente la nuova legislatura. I risultati elettorali emersi dal voto di settembre hanno con-dotto alla creazione di un governo “bipartisan”, sostenuto dal partito liberal-conservatore e daquello laburista: come primo ministro è stato riconfermato l’uscente Mark Rutte, già premier delprecedente governo. Il suo partito, il liberal-conservatore Volkspartij voor Vrijheid en Democratieo VVD, ha vinto, seppur di poco, le elezioni di settembre, riconfermando la sua posizione nellacompagine politica olandese. A differenza dalla precedente esperienza, però, questa volta il noto“Partito della libertà” dell’antieuropeista Geert Wilders è all’opposizione. Il Ministero della Di-fesa, assegnato nello scorso mandato al partito centrista Christen-Democratisch Appèl o CDA, ètornato nelle mani del VVD, ed è stato affidato, per la prima volta nella storia olandese, a unadonna, Jeanine Hennis-Plasschaert. Nata nel 1973, il neoministro ha cominciato la sua carrieracome dipendente dell’Unione Europea; dopo un’esperienza nel settore privato è tornata a Bru-xelles come Europarlamentare del VVD (2004-2010), per poi essere eletta al Parlamento olandesenel 2010. La coalizione di governo ha ribadito l’impegno internazionale dell’Olanda riguardoalle esigenze della NATO e alle operazioni di crisis management, ma non mancheranno anchedelle riflessioni sulla futura “vision” delle forze armate, che verrà realizzata d’intesa con il Mi-nistero degli Affari Esteri, quest’ultimo a guida laburista. ►Il 6 novembre il generale francese Patrick de Rousiers è subentrato al generale svedese HåkanSyrén quale nuovo presidente del Comitato Militare dell’Unione Europea. Dopo tre anni di in-carico, il generale Syrén lascia a un generale dell’Armee de l’Air francese la più alta carica mi-litare dell’Unione Europea. Il neo-presidente si troverà ad affrontare uno dei momenti più difficiliper le politiche di difesa europee. In uno dei suoi primi discorsi, tenuto davanti al Comitato Po-litico e di Sicurezza della UE, il generale de Rousiers ha ribadito l’importanza della complemen-tarietà fra le forze militari dell’Unione così come la necessità di <<operare congiuntamente>>fra gli stati membri. ►Il 7 novembre la sottocommissione “Sicurezza e Difesa” del Parlamento Europeo ha incon-trato l’Alto Rappresentante Catherine Ashton per discutere su alcuni sviluppi della Politica diSicurezza e Difesa Comune (PSDC). All’interno del Parlamento Europeo le tematiche inerentila sicurezza e la difesa sono ricomprese nella più ampia compagine della “Commissione Affari

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Esteri”, che analizza gli argomenti in questione tramite un’apposita sottocommissione. Agli inizidi novembre, l’Alto Rappresentante Catherine Ashton ha aggiornato i componenti della sottocom-missione con alcune informazioni riguardanti principalmente due aree, ovvero le missioni militariin corso e i possibili sviluppi della difesa europea. Nel suo discorso, l’Alto Rappresentante haesordito ricordando il contributo che le forze armate degli stati membri offrono nei diversi teatrioperativi, soffermandosi in particolare sulle missioni in Sudan, Mali e Libia, per poi proseguirecon alcune riflessioni sul Corno d’Africa. Molte parole sono state spese a questo riguardo, sotto-lineando l’impegno dell’Unione Europea, tralasciando qualsiasi riferimento ad alcune pesanticonseguenze delle azioni antipirateria avvenute nei mesi scorsi. La seconda parte dell’interventosi è focalizzata sulla PSDC, e, in particolare, sulle capacità che occorrono per dare corpo a questosettore. L’Alto Rappresentante ha quindi indicato alcuni ambiti ritenuti prioritari, quali la capacitàdi rifornimento in volo, il “pooling and sharing”, l’investimento in ricerca e sviluppo e le tecno-logie “dual use”. Oltre agli aspetti interni, ha aggiunto l’Alto Rappresentante, l’Unione Europeaè attenta anche alle evoluzioni nel contesto globale, e sta iniziando una serie di discussioni su te-matiche di sicurezza e difesa con molti stati asiatici, quali l’India, l’Indonesia, la Corea del Sud,il Vietnam e la Cina. ►Il 9 novembre l’Alto Rappresentante Catherine Ashton ha effettuato una serie di nuove no-mine del Servizio Europeo di Azione Esterna (SEAE). Oltre alla scelta di alcuni capi-delegazionepresso degli stati extraeuropei (Isole Fiji, Islanda, Marocco e Uruguay), l’Alto Rappresentanteha nominato dei nuovi direttori di area del SEAE. Fra questi spiccano Joelle Jenny, nuovo direttoreper la Prevenzione dei Conflitti e la Politica di Sicurezza, Stephan Auer, direttore per le RelazioniMultilaterali e le Questioni Globali, e, infine, Jacek Bylica, Inviato Speciale per la Non Prolife-razione e il Disarmo. Tutti i nuovi direttori, al pari dei capi-delegazione, vantano molti anni diservizio e importanti esperienze nel settore internazionale. ►L’Indonesia sembra essere una ulteriore destinazione per l’export militare tedesco, in parti-colare per quanto riguarda i carri armati Leopard 2. Se verrà confermata l’intenzione di Jakartadi acquisire un centinaio di mezzi, la fama del celebre veicolo corazzato, già ribattezzato “GlobalLeopard”, si rafforzerà ancora di più. Dopo le discussioni negli scorsi mesi sulle vendite a Qatare Arabia Saudita, i Leopard 2 tornano al centro dell’attenzione anche in un altro teatro, quelloindonesiano. Già durante l’estate sulla stampa erano apparsi alcuni articoli dedicati al possibileinteresse di Jakarta per il carro tedesco, ma ultimamente le voci inziali sembrano essersi trasfor-mate in prospettive più concrete. Stando ad alcune indiscrezioni, infatti, le consegne dei primimezzi all’Indonesia potrebbero avvenire già entro la fine del 2012. Oltre a un centinaio di Leopard2, Jakarta sembra intenzionata ad acquisire anche una cinquantina di cingolati “Marder”, deiveicoli da combattimento per fanteria (Infantry Fighting Vehicles o IFV), armati di un cannoneda 20 mm e con sistemi missilistici quali il MILAN. L’importo dell’accordo, relativo a materialed’occasione revisionato prima della consegna, è stimato intorno ai 280 milioni di dollari (pocomeno di 220 milioni di euro), destinati all’acquisto dei Leopard 2 modello “A4”. L’arrivo di questimezzi in Asia conferma ulteriormente la solidità dell’export tedesco, e soprattutto aumenta la pre-senza della Germania in un mercato – quello dell’Asia Pacifica – in notevole sviluppo ed espan-sione. ►“Nessuno otterrà niente dal separatismo”, disse nel 2011 il Presidente del Consiglio Europeo,

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Da alcune settimane uno dei territori geografi-camente più remoti del continente europeo, ov-vero l’Islanda, è tornato a far parlare di sé, equesta volta per motivazioni di carattere poli-tico-militare. Apparentemente può sembrareuna contraddizione in termini: è notorio, infatti,che la piccola isola non disponga di forze ar-mate, pur essendo un membro a pieno titolodella NATO. Per quanto marginale geografica-mente e abitata da sole 312.000 persone (datiCIA World Factbook 2012) l’Islanda è ormaial centro di una serie di complesse partite geo-politiche, geostrategiche e addirittura econo-mico-industriali, che solo in parte toccano isuoi interessi nazionali. La crisi del sistemabancario dell’isola, che dal 2008 si è abbattutasu una delle economie più stabili del mondo, hacambiato anche la geopolitica del paese. Dopoanni di distanza dalle politiche del VecchioContinente, tranne che per quanto riguarda i

rapporti con i paesi scandinavi, ora l’Islandacerca la piena adesione all’Unione Europea, e,ad oggi, i negoziati sono aperti e in piena atti-vità. La recente decisione della Svezia e dellaFinlandia di contribuire alla sorveglianza deglispazi aerei islandesi, poi, ha riacceso l’inte-resse per l’Islanda, e non solo per i suoi aspettidi difesa, ma anche per alcune partite ben piùimportanti che si svolgono a nord della piccolaisola. Ridurre tutta l’attenzione alla sola dimen-sione della sfida più evidente, la questione delPolo Nord, rischia però di far dimenticare altriinteressanti piani di lettura, come le potenzia-lità del Gripen svedese, famoso aereo militareprodotto dalla Saab, il desiderio finlandese dismarcarsi dalla “neutralità forzata” dei tempisovietici o la maggiore necessità di coopera-zione fra paesi nordici. Molte sono quindi lepartite che si stanno giocando nei cieli dell’Is-landa.

LE MOLTE SFIDE CHE SI ADDENSANO SUI CIELI ISLANDESI

Van Rompuy, nell’ambito di un incontro pubblico. Questa frase sarebbe passata quasi inosser-vata se negli ultimi tempi non fosse riemerso, in modo così deciso, il dibattito sull’indipendenza,in particolare dopo le manifestazioni in Catalogna e il referendum in Scozia. L’intervento diVan Rompuy, registrato l’anno scorso, è tornato alla ribalta in seguito alle recenti manifestazionipro-indipendenza tenutesi soprattutto in Scozia e Catalogna. Questa notizia – ripresa da autorevolitestate quali il “Times”, il “Daily Mail” o “El Mundo” – si inserisce nel più ampio dibattito dellerivendicazioni di indipendenza di alcune regioni e, soprattutto, sulla loro possibile integrazionenell’Unione Europea. In altri termini, se la Scozia o la Catalogna diventassero pienamente in-dipendenti, sarebbero automaticamente parti dell’Unione Europea o no? Nel secondo caso, ovverose dovessero “aderire” per divenire membri dell’Unione, come si comporterebbero Spagna eRegno Unito? Utilizzerebbero il veto? La posizione di Van Rompuy non ha citato nessun caso con-creto, ma si è nettamente espressa contro qualsiasi forma di “separatismo”; anzi, ha aggiunto ilPresidente nel suo discorso, <<la parola del futuro è unione>>. La stessa Unione Europea, quindi,sembra propensa alla seconda soluzione: Scozia e Catalogna – se indipendenti – dovrebberorichiedere formalmente l’adesione alla UE, e perciò gestirsi diversi anni di negoziati per poterne(ri)diventare membri. Questa soluzione, teoricamente, dovrebbe servire a raffreddare le simpatiepro-indipendenza, e, nel contempo, rinfrancare alcuni governi, come quello britannico e spagnolo,che sicuramente non gradirebbero menomazioni del proprio territorio nazionale.

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La difesa islandese

Molto spesso l’Islanda viene indicata come un

modello virtuoso per gli stati europei, poiché

non solo dispone di una alta qualità della vita

(fatta anche di democrazia, libertà di stampa,

elevato PIL pro capite, e via discorrendo), ma

anche perché “non ha forze armate”. Questa

frase, spesso adottata come slogan, offre una

lettura deformata della realtà. L’Islanda, infatti,

pur mancando di un sistema militare in senso

tradizionale (ovvero le forze armate) dispone di

una serie di precisi accordi per la salvaguardia,

anche militare, della propria sovranità nazio-

nale; in aggiunta, poi, dispone di unità parami-

litari che in caso di necessità possono

attivamente contribuire alla difesa nazionale,

nonostante gli organici limitati.

Nel corso della seconda guerra mondiale l’Is-

landa venne invasa da truppe britanniche e poi

statunitensi, preoccupate di un’eventuale blitztedesco sulla scorta delle operazioni in Dani-

marca e Norvegia. Al termine del conflitto, no-

nostante la tradizionale neutralità, il governo

islandese optò per il campo occidentale e aderì

alla NATO. In più, il governo di Reykjavik ac-

cettò la presenza permanente sul proprio terri-

torio di un contingente militare statunitense a

carattere interforze (chiamato Icelandic De-fence Force o IDF), che venne rischierato

presso la base di Keflavik, a pochi chilometri

dalla capitale. Dal 1951 al 2006 l’IDF costituì,

seppur indirettamente, il dispositivo militare

dell’Islanda, e nonostante il contingente sia

stato completamente ritirato nel 2006, è ancora

in vigore un trattato fra Islanda e Stati Uniti che

riguarda la difesa dell’isola. L’Islanda, inoltre,

in qualità di membro NATO dispone della “pro-

tezione” ex articolo 5 del Trattato dell’Alleanza.

Oltre al legame con gli Stati Uniti e la parteci-

pazione atlantica, a livello nazionale l’Islanda

ha una limitata capacità paramilitare, concen-

trata principalmente nella Guardia Costiera

(Landhelgisgæsla Íslands) e nell’Iceland CrisisResponse Unit o ICRU. La Guardia Costiera ha

soprattutto il compito di pattugliare le acque ter-

ritoriali, mentre l’ICRU, che dipende dal Mini-

stero degli Affari Esteri, è una unità di piccole

dimensioni, caratterizzata però da una notevole

flessibilità. Negli ultimi anni l’ICRU ha preso

parte a missioni internazionali molto diverse,

dal monitoraggio elettorale alla missione Inter-national Security Assistance Force (IASF) in

Afghanistan o alla NATO Training Mission inIraq. L’Islanda inoltre dispone di una rete di sor-

veglianza radar, pur mancando di una propria

aeronautica militare. In seguito al trasferimento

delle unità americane, nel 2006, è stata la Nor-

vegia che ha provveduto alla difesa aerea del-

l’isola, grazie a un accordo del 2007.

Recentemente, però, anche la Finlandia e la

Svezia si sono proposte di aiutare l’Islanda nella

sorveglianza aerea, offrendo, a partire dal 2014,

un’aliquota delle proprie aeronautiche militari.

La data d’inizio di questa missione è ancora

lontana perché per attuarla occorrono le appro-

vazioni dei singoli stati nazionali e della NATO.

A questo riguardo va sottolineato che fin da su-

bito i governi di Svezia e Finlandia hanno riba-

dito che si tratta di una <<solidarietà fra stati

nordici>>, che nulla ha a che vedere con le ob-

bligazioni dell’Alleanza Atlantica, di cui né

Svezia né Finlandia sono parte. Il problema

della difesa dell’Islanda, quindi, presenta delle

sfumature ben più ampie di quelle meramente

nazionali.

Il contributo della Finlandia

La “solidarietà nordica” è uno slogan “politica-

mente corretto” che suona più adatto per le opi-

nioni pubbliche che per gli analisti, anche se, a

livello generale, ha il suo fondamento. I vari

paesi nordici hanno dato vita, nel 1952, a una

prima forma di coordinamento regionale, chia-

mato “Consiglio Nordico” (Nordic Council),

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mato “Consiglio Nordico” (Nordic Council),che continua ad esistere e costituisce uno deiprincipali forum di discussione fra le varie na-zioni che lo compongono, ovvero Danimarca,Finlandia, Svezia, Norvegia e Islanda oltre aGroenlandia, isole Åland e isole Fær Øer.

I rapporti fra le varie nazioni nordiche, aiutatianche da una certa vicinanza culturale, hannofavorito nel corso degli anni una cooperazionepiù focalizzata sui temi economici e del mercatodel lavoro che della difesa. Tuttavia, negli ultimianni il notevole interesse che si sta sviluppandoper l’Artico e per le zone circostanti sta com-portando l’inizio di una riflessione più ampia,che comprende anche la sicurezza regionale. In questa vicenda la Finlandia si inserisce conuna posizione assolutamente peculiare. Comenoto, dopo la seconda guerra mondiale l’URSSpermise al paese di mantenere un sistema poli-tico “occidentale” a costo di una neutralità com-pleta e tramite la non-partecipazione allaNATO. La fine della Guerra fredda contribuì a

mitigare questa limitazione, ma non la rimossetotalmente. Oggi la Finlandia non è un membrodella NATO, e continua a perseguire una poli-tica estera filoccidentale, ma comunque attentaa non inimicare troppo il potente vicino russo;inoltre, questa linea più “neutralista” è ben ra-dicata nell’opinione pubblica e nei programmipolitici di diversi partiti. Qual è dunque la ra-gione che ha spinto l’aeronautica militare fin-landese ad offrirsi per questo compito così“interventista” in favore dell’Islanda? Le unitàfinlandesi non sono nuove ad operazioni al-l’estero, anche in aree delicate. Da diversi annile Puolustusvoimat (le forze armate finlandesi)cooperano con successo anche alle missioniNATO, e addirittura contribuiscono all’impegnodi ISAF in Afghanistan. Non è un caso che men-tre la politica finlandese dibatte se contribuire omeno alla missione in Islanda, il 15 novembreil Segretario generale della NATO si sia recatoin Finlandia, dove ha discusso con il Presidentedella Repubblica e con il Primo Ministro deipossibili sviluppi della cooperazione con l’Al-leanza Atlantica, anche in chiave addestrativa,di esercitazioni congiunte e di sviluppo di capa-cità militari. L’offerta dell’aeronautica finlan-dese, quindi, va letta considerando l’interesseche Helsinki ha sia nel cooperare militarmentecon i partner nordici, quali la Svezia o l’Islanda,che con la NATO. Quest’ultima organizzazionesegue da tempo il tema dell’High North, ovverola sfida al Polo Nord, argomento in cui anche laFinlandia è coinvolta. Dimostrare le proprie ca-pacità militari tramite una missione decisamente“soft” e chiaramente pacifica come il pattuglia-mento dei cieli islandesi può essere un ottimostrumento su cui successivamente innestare ul-teriori attività di cooperazione con la NATO econ gli altri alleati regionali. La linea ufficialedel governo di Helsinki, però, ribadisce che l’of-ferta sia solo una cooperazione fra gli stati nor-dici. Questa cautela è d’obbligo, in quanto la

I membri del Consiglio Nordico e l’anno di ade-sione: Danimarca, Islanda Norvegia, Svezia (fonda-tori, 1952), Finlandia (1955), isole Far Oer, isoleÅland (1970) e Groenlandia (1984). Fonte:www.miosjournal.org

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notizia del coinvolgimento finlandese non soloha riacceso il dibattito interno sulla neutralità,con i partiti di opposizione nettamente contrarial pattugliamento aereo, ma ha anche richia-mato l’attenzione di Mosca, che ha immediata-mente criticato questa scelta. La decisione delgoverno, poi, dev’essere approvata dal Parla-mento (Suomen eduskunta), nel quale non man-cano posizioni contrastanti, anche all’internodei partiti di maggioranza. La vicenda, quindi,sembra confermare l’interesse finlandese ad unamaggiore cooperazione con gli altri partner re-gionali, il che, un domani, potrebbe offrire in-teressanti prospettive anche sul pianoindustriale o, magari, della difesa europea. Benpiù lontana è invece una logica di pieno inseri-mento nella NATO, anche se attualmente il go-verno di Helsinki non sembra disegnare unmaggior avvicinamento alle posizioni atlanti-che.

Il contributo della Svezia Sebbene non abbia le stesse limitazioni della di-fesa finlandese, la Svezia ha sempre mantenutoun ruolo abbastanza defilato nell’ambito dellaGuerra fredda, pur simpatizzando apertamenteper il blocco occidentale. Anche per il governodi Stoccolma la fine della contrapposizione bi-polare aprì ulteriori margini per l’integrazionecon l’Europa, e verso la metà degli anni ’90, ilpaese aderì alla Comunità Europea, ma non allaNATO, sebbene non manchino le esercitazionicongiunte. Anzi, negli ultimi anni le Forze Ar-mate Svedesi (Försvarsmakten) hanno dato ilproprio contributo in diverse missioni, sia neiBalcani che in Afghanistan. La dottrina d’im-piego e i minori condizionamenti russi sul go-verno di Stoccolma rendono più facile per laSvezia l’approccio al rebus islandese. Partendodal piano interno, infatti, sembra che non vi siacosì tanta opposizione al potenziale contributodell’Aeronautica militare (Flygvapnet), a parte

alcune critiche dei gruppi di sinistra. Secondoquanto riporta una recente intervista effettuatada Radio Svezia, sembra che lo stesso partitoSocialdemocratico, attualmente all’opposizione,non abbia nulla da obiettare su questa scelta delgoverno di centrodestra. Sul piano internazio-nale, invece, mentre la NATO (oltre che la Fin-landia e, naturalmente, l’Islanda) gradisce unmaggior impegno svedese, è molto probabileche a Mosca le reazioni siano ben più fredde.Tuttavia nei confronti della Svezia la Russiamanca di quegli strumenti di pressione che in-vece possono essere utilizzati con la Finlandia,dove, inoltre, si potrebbero facilmente sfruttarele posizioni “neutraliste”, diffuse tanto nella po-polazione che nei partiti. In definitiva, la posi-zione svedese risente meno dei condizionamentiinterni ed esterni, e quindi in questo frangentepresenta una maggiore libertà di azione per uneventuale coinvolgimento delle Forze Armate.Vi è poi un punto molto delicato da considerare,che sembra essere stato dimenticato dallastampa. La generosa cooperazione svedese inmateria di pattugliamento aereo non potrebbeche basarsi sul Gripen, il famoso caccia multi-ruolo prodotto da Saab. Questo velivolo, chenegli scorsi anni è riuscito a ritagliarsi una nic-chia di tutto rilievo a livello di export (i Gripensono in servizio presso le forze aeree di Repub-blica Ceca, Ungheria, Sud Africa, Tailandia eSvezia), sta ultimamente soffrendo non solo acausa dei costi crescenti delle nuove versioni –problema ben noto all’industria aeronautica –ma anche perché, a fronte della diminuzionedella richiesta da parte della difesa svedese,un’importante commessa con la Svizzera non èancora “decollata”. Il solo governo svedese nonpuò più sostenere l’onere economico dei nuovimodelli del Gripen; in altre parole, se non si tro-verà un altro partner per continuare a sviluppareil progetto (e dividerne i costi), tutto il pro-gramma Gripen potrebbe risentirne. L’incer-

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tezza della commessa svizzera, che questa estatenon ha mancato di sollevare polemiche e, addi-rittura, un’inchiesta parlamentare, non agevolala situazione. Una success story del Gripen neicieli islandesi potrebbe chiaramente servireanche per finalità di marketing, dimostrandocome l’apparecchio sia affidabile e, pertanto, siaun competitor al pari di altri aerei omologhi pre-senti sul mercato. Questa dimostrazione po-trebbe servire sia a rafforzare le acquisizioni giàin corso, come nel caso svizzero, che magari in-fluenzare a favore di Saab altre gare ancoraaperte, come, ad esempio, quella brasiliana.Dietro l’offerta svedese, quindi, oltre al beaugeste della cooperazione fra paesi nordici, nonmancherebbero esigenze industriali ben piùconcrete, e oggi particolarmente determinantiper questo importante comparto dell’economiasvedese.

Dall’Islanda alla geostrategia del Polo NordLa questione islandese, infine, va a coinvolgereuna delle maggiori sfide di tutta la regione nor-dica: la partita dell’Artico, che nei prossimitempi potrebbe diventare una delle principalifonti di contenziosi fra le molte potenze che siaffacciano nell’area. Il progressivo ridimensio-namento della calotta polare permetterà in fu-turo un maggiore sfruttamento delle acqueartiche e, soprattutto, delle preziose risorse chevi sottostanno. Alcuni attori, per motivi geogra-fici, godono di un “accesso diretto” all’Oceanoartico (ovvero Danimarca, Canada, Stati Unitie Russia), ma ve ne sono altri, come gli statiscandinavi o l’Islanda, che, seppur poco più di-stanti, non mancano di rivendicare interessinella zona. Le riduzioni delle spese per la difesastanno influendo anche in questa benestanteparte del continente europeo: in altri termini, sesi vorrà continuare a mantenere un elevato stan-dard militare nell’area – utile anche a salvaguar-dare gli interessi comuni dei paesi scandinavi –

l’unica soluzione passa per una maggiore coo-perazione nel settore della difesa. Un maggiorrafforzamento del legame, anche politico-mili-tare, dei paesi nordici si può effettuare sia coo-perando maggiormente con la NATO, tramiteesercitazioni, addestramenti e attività congiunte,sia tramite una maggiore sinergia fra le varieforze armate dei vari stati. L’assistenza all’Is-landa consegue entrambi questi obiettivi, cui siaggiunge poi il desiderio svedese di promuovereil caccia Gripen sui mercati ancora aperti. La li-nearità di questo disegno, però, va a scontrarsicon alcune difficoltà che potrebbero sorgere neiprossimi mesi, in quanto l’inizio del pattuglia-mento congiunto per ora è previsto nel 2014. Iparlamenti nazionali dovranno pronunciarsi suquesta iniziativa, ed è probabile che i vari partitie movimenti che si oppongono a questa opzionedaranno battaglia ai sostenitori dell’assistenzamilitare. Spetterà poi anche alla NATO deciderein merito, ma in questo caso la soluzione sembranettamente più semplice. L’Alleanza Atlantica,infatti, al momento è favorevole a questa op-zione. Rimane infine da considerare la reazionerussa, che sicuramente non vedrà di buon oc-chio un maggiore coinvolgimento militare dipaesi fino a poco fa neutrali o comunque inca-paci di incidere seriamente sugli interessi diMosca nell’area. La sfida nei cieli islandesi,quindi, va letta oltre la sua intrinseca dimen-sione aeronautica, e calata nel complesso con-testo che oggi ruota attorno alla ben più difficile“corsa al Polo Nord”.Sebbene manchi oltre un anno all’inizio del pat-tugliamento aereo, i governi di Helsinki, Stoc-colma e Reikiavik sono già al lavoro per vederecome gestire positivamente l’impresa. Riuscirea mettere a sistema tutto quanto non sarà sem-plice, ma un successo in questo settore potrebbeessere una valida “lesson learned” per ulteriorisviluppi futuri, anche fra i paesi nordici. Seb-bene gli stati continuino a perseguire i propri

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interessi nazionali (si pensi alla posizione sve-dese), la cooperazione oggi sembra sempre piùla soluzione migliore per evitare che gli inte-

ressi dei paesi nordici vengano limitati o com-promessi da quelli dei grandi e ben più potentivicini, a partire da Russia, Stati Uniti e Canada

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Relazioni Transatlantiche - NATO

Lucio Martino

Eventi

ULTIME EVOLUZIONI DEL DIBATTITO STRATEGICO STATUNITENSE

►In quest’ultimo periodo il dibattito riguardante il futuro delle capacità nucleari strategicherusse e statunitensi si è riacceso anche grazie alla decisione di rendere pubblico un rapporto go-vernativo, originariamente preparato esclusivamente per il Congresso, nel quale il National In-telligence Council e il dipartimento della Difesa sembrano minare alla base tanto le ragioni diuna sempre più complessa e, apparentemente, inefficacie architettura di difesa antimissile, quantole ragioni di coloro i quali si oppongono al lancio di un nuovo processo di disarmo strategico.

In base alle prescrizioni del trattato START2010, gli Stati Uniti e la Federazione Russasono tenuti ad aggiornarsi reciprocamente sullostato dei rispettivi arsenali nucleari. Dal feb-braio del 2011, data di entrata in vigore del trat-tato, i dati finora prodotti dipingono un quadrocaratterizzato da una sostanziale inferiorità nu-merica russa. Nell’insieme, Washington sembrapoter in qualsiasi momento contare su di unquindici per cento di testate strategiche e un ses-santa per cento di sistemi di consegna in più diquanto non possa fare Mosca. Più esattamente,gli Stati Uniti schierano 1.722 testate strategi-che e ottocentosei bombardieri pesanti e missilia lungo raggio, mentre la Federazione Russanon supera le 1.499 testate strategiche e i quat-trocentonovantuno vettori. Considerando che il

nuovo START fissa in 1.550 per parte il numeromassimo delle cariche nucleari strategiche clas-sificate come schierate e in ottocento i relativisistemi di consegna, appare chiaro come lastrada da percorrere per verificare le disposi-zioni del trattato sia ancora lunga per gli StatiUniti, ma non per la Federazione Russa.D’altra parte, la Federazione Russa sembravoler rispondere alla lentezza con la quale gliStati Uniti implementano lo START 2010 e, so-prattutto, alla decisione della NATO di proce-dere in direzione di un’European PhasedAdaptive Approach (EPAA) strutturato sul pro-gressivo dispiegamento nel Mediterraneo e nel-l’Europa orientale di successive versioni delmissile intercettore SM-2 e dei relativi sistemidi scoperta e controllo, con una serie di inizia-

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tive che hanno finito con il destare non pochepreoccupazioni a Washington. Tra queste, hasuscitato particolare sensazione la progettazionedi un nuovo vettore balistico intercontinentale(ICBM) in grado di trasportare un elevato nu-mero di testate nucleari strategiche e, soprat-tutto, di dispositivi adatti a ingannare i sistemidi guida dei missili intercettori. Secondo quantodichiarato dal comandante delle forze missili-stiche strategiche russe, Karakayey, se il pro-gramma di sviluppo continuerà secondo leprevisioni, la messa in linea del nuovo ICBMpermetterà il ritiro degli R-36M2 (SS-18 SatanMk.6) a partire dai primi del 2018.Posto che anche questo nuovo vettore strategicoè progettato per esser collocato all’interno diimpianti di lancio che non sono prevedibil-mente in grado di sopravvivere a un attaccocondotto non solo facendo ricorso ad armi nu-cleari, ma anche per tramite di armi convenzio-nali a elevata precisione, il nuovo ICBM sipresenta come un assetto utile solo nell’ambitodi un attacco di sorpresa, oppure di una rispostada lanciarsi ai primi segnali di un attacco ne-mico. Il problema è che tanto nel presentequanto nel prevedibile futuro, entrambe questeipotesi d’impiego sembrano così remote, se nonsemplicemente assurde, da alimentare l’impres-sione che lo sviluppo del nuovo ICBM sia so-prattutto concepito come una pedina daspendere nell’ambito di un futuro meccanismonegoziale.Inoltre, per quanto è senz’altro vero che gli StatiUniti sembrano procedere a rilento nell’imple-mentazione dello START 2010, è altrettantovero, come spiegato alla fine di ottobre dal di-partimento della Difesa, che questo particolareaccordo non prevede nessuna scadenza interme-dia, tanto che l’amministrazione Obama hasempre sostenuto di voler procedere al grossodelle prescritte riduzioni nelle capacità strate-giche statunitensi proprio in prossimità della

scadenza del trattato, vale a dire con l’appros-simarsi del 2018. L’obiettivo di questa strategiaè di assicurare la continuità nel tempo di unatriade di sistemi strategici da sempre divisa intre diverse e indipendenti aliquote di ICBM, dibombardieri pesanti a lungo raggio e di sotto-marini nucleari lancia missili balistici (SSBN).

Vecchi e nuovi problemi di una difesa anti-missile globaleIntanto gli Stati Uniti si muovono in direzionedi una notevole espansione delle capacità di di-fesa antimissile in settori geografici anche di-versi e lontani, come il Pacifico occidentale, ilMedio Oriente e l’Europa orientale, nel dichia-rato intento di contrastare lo sviluppo delle ca-pacità missilistiche iraniane e nord coreane. Equesto nonostante che Cina e FederazioneRussa continuano a palesare le proprie riservesullo sviluppo di un sistema d’arma che giudi-cano potenzialmente in grado di comprometterela credibilità dei propri arsenali strategici e,forse, costringere una nuova corsa agli arma-menti.Nell'ambito del riposizionamento nel pacificoOccidentale del baricentro strategico statuni-tense annunciato dall'amministrazione Obama,gli Stati Uniti stanno progressivamente espan-dendo la propria cooperazione con il Giapponee la Corea del Sud anche nel settore della difesaantimissile. Nell'agosto scorso il Pentagono haannunciato il dispiegamento in Giappone di unsecondo impianto radar in banda X di tipoAN/TPY-2 in grado di tracciare, almeno nelleaspettative, ogni traiettoria balistica, mentre giàda qualche tempo le Forze di Autodifesa giap-ponesi hanno acquistato tanto il sistema imbar-cato Aegis quanto gli intercettori SM-3 BlockIA. Inoltre, il Giappone è anche direttamentecoinvolto nello sviluppo dello SM-3 Block IIAche secondo quanto previsto dall'EPAA do-vrebbe arrivare in Europa dal 2018. Oltre al

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Giappone, l’altro paese che gli Stati Uniti

stanno cercando di coinvolgere in una sempre

più complessa rete di difesa antimissile è la

Corea del Sud.

Sul finire di ottobre, in occasione di un incontro

a Washington, il segretario della Difesa Panetta

e la controparte sud coreana Kim Kwwan-jin

hanno convenuto un aumento dell'interoperabi-

lità dei rispettivi sistemi di comando e controllo

e lanciato una nuova partnership volta allo svi-

luppo di un comune sistema di difesa antimis-

sile. Almeno per il momento ogni sviluppo in

materia sembra condizionato dal desiderio nor-

dcoreano di non impensierire le autorità cinesi,

tanto che il governo sudcoreano sembra inten-

zionato a dare alla propria collaborazione con

gli Stati Uniti in questo settore un’esclusiva di-

mensione regionale. Forse anche per questa ra-

gione, gli Stati Uniti sembra stiano valutando la

possibilità di coinvolgere anche le Filippine in

questa particolare architettura difensiva, realiz-

zando nel territorio di questo paese un altro

AN/TPY-2 con l’obiettivo di creare le condi-

zioni per un sempre più accurato tracciamento

delle traiettorie balistiche provenienti non solo

dalla Corea del Nord, ma anche da alcune par-

ticolari regioni del territorio nazionale cinese.

Dato che gli impianti AN/TPY-2 sono progettati

per dialogare efficacemente l’uno con l’altro e

per integrarsi flessibilmente con le unità di lan-

cio marittime e di superficie degli intercettori

SM-2, con il passare del tempo sembra sempre

più forte l’impressione che Stati Uniti stiano

realizzando un dispositivo potenzialmente in

grado di fronteggiare anche le capacità strategi-

che cinesi. Sempre l’estate scorsa, il Ministero

della Difesa cinese ha reagito all’annuncio della

realizzazione del secondo impianto AN/TPY-2

sul territorio giapponese simbolicamente con-

dannando la diffusione di un modo di concepire

la propria sicurezza che va a danno della sicu-

rezza nazionale altrui. Scelte retoriche a parte,

nonostante l'alone di segretezza che da sempre

circonda i programmi nucleari militari cinesi, le

autorità di Pechino sembrano intenzionate a ri-

spondere a queste iniziative statunitensi aumen-

tando le capacità di quello che, comunque,

rimane un arsenale nucleare relativamente mo-

desto. Un passo importante in questa direzione

è sicuramente costituito dallo sviluppo di un

nuovo vettore strategico mobile, quel Don-

gfeng-41 testato per la prima volta alla fine del

luglio scorso che, come nel caso del nuovo

ICBM russo, si ritiene sia in grado di trasportare

su distanze ampiamente intercontinentali una

decina di testate nucleari e di contromisure volte

ad aumentarne le probabilità di evasione e pe-

netrazione dei presenti e prevedibili sistemi di

difesa occidentali.

Anche in Medio Oriente gli Stati Uniti stanno

cercando di estendere e amalgamare le capacità

di difesa antimissile proprie e altrui. Sono già

diversi i paesi che in questa parte del mondo

schierano un tipo o l’altro d’intercettore anti ba-

listico. Il sistema a corto raggio MIM-104 è già

relativamente diffuso, mentre sembra sempre

più probabile l’arrivo di sistemi d’intercetta-

zione dal maggiore raggio d’azione, come il

Terminal High Altitude Area Defense

(THAAD) acquistato lo scorso anno dagli Emi-

rati Arabi Uniti. Come in Europa, anche in

Medio Oriente l’aumento del numero dei si-

stemi antimissile dovrebbe condurre a un au-

mento del volume di collaborazione

internazionale in questo particolare settore.

L’integrazione di sistemi d’intercettazione di

raggio diverso e diverse caratteristiche, a co-

minciare dalle sempre molto flessibili unità

Aegis della U.S. Navy, sembra un qualcosa che

va a vantaggio di tutti, perché dovrebbe aumen-

tare la probabilità di bloccare un attacco a pre-

scindere dalle sue specifiche caratteristiche e dai

suoi particolari obiettivi.

A questo punto, sembra evidente che gli Stati

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Uniti stanno ormai da diverso tempo investendorisorse politiche e finanziarie anche notevoli perrealizzare un po’ ovunque nel mondo un com-plesso dispositivo di difesa antimissile che sem-bra a breve destinato a tradursi in un aumentoconsiderevole del numero delle unità Aegisdella U.S. Navy e con il passare del tempo inun’intera serie di stazioni terresti di vario tipo enatura sistemate all'interno del territorio nazio-nale di paesi anche diversi e lontani quali la Tur-chia e il Giappone, la Polonia e la Corea delSud, la Romania e le Filippine. Tuttavia, il si-stema d'arma sul quale poggia questa semprepiù complessa architettura sembra tutt'altro cheaffidabile perché anche il test dello scorso 25ottobre si è risolto in un pieno fallimento, con-fermando l’opinione di quanti, all’interno e al-l’esterno degli Stati Uniti, hanno sempre postol’accento sul fatto che gli unici lanci di provadello SM-2 coronati da un certo successo sonostati quelli eseguiti al tempo dell’amministra-zione del Bush più giovane.

Nuove conferme di vecchie strategie e relativisistemi d’armaIntanto, secondo un documento coordinato daldirettore nazionale dell’Intelligence e preparatodal dipartimento della Difesa originariamente auso esclusivo del Congresso, la vecchia deter-renza strategica sembrerebbe nuovamente inauge. La semplice capacità dei sistemi strategicinucleari statunitensi di sopravvivere a un at-tacco russo è ribadita come il più importante tratutti i possibili parametri, quali la consistenzanumerica dei rispettivi arsenali oppure la capa-cità d'intercettare un'aliquota anche considere-vole di vettori balistici. Sempre secondo quantosostenuto nel Report on the Strategic NuclearForces of the Russian Federation, anche nellapeggiore delle ipotesi, vale a dire nel caso in cuidovessero subire un attacco lanciato di sorpresadalla Federazione Russa facendo pieno ricorso

alle proprie forze nucleari strategiche, gli StatiUniti sarebbero comunque in grado di rispon-dere lanciando un contro attacco dalla portataassolutamente devastante. Inoltre, in una presadi posizione ancora più interessante, secondo iresponsabili di questo documento non c’è nullache la Federazione Russa possa fare per cam-biare questo stato di cose. Anche nel caso in cuiMosca decidesse improvvisamente di non ri-spettare più le prescrizioni dello START 2010,nessuna plausibile espansione delle proprieforze nucleari strategiche potrebbe mai riuscirenell’obiettivo di sopprimere in un attacco di sor-presa il dispositivo nucleare statunitense. Sottoogni concepibile scenario, la risposta nuclearestatunitense sarebbe soprattutto garantita dalleelevate capacità di sopravvivenza tipiche degliSSBN, un certo numero di unità della quale èperennemente in navigazione.Nel rievocare questioni così lontane nel tempo,quali la minaccia di un attacco nucleare russo disorpresa, il Pentagono e l’Intelligence sembranoabbiano voluto soprattutto colpire quanti riten-gono pericolosa la possibilità (a più riprese pro-spettata) che la Casa Bianca prenda inconsiderazione nuove riduzioni nel numerodelle proprie testate strategiche in aggiunta aquelle previste dallo START 2010. Questa presadi posizione del Pentagono e dell’Intelligence èancora più rilevante perché arriva dopo la spe-rimentazione da parte del Cremlino di un nuovoICBM e l’annuncio di un vigoroso programmadi modernizzazione delle proprie forze armatedestinato nel giro di una decina di anni a con-durre lo schieramento di oltre quattrocentonuovi vettori strategici in grado di trasportareun qualche tipo di carica nucleare.Che la presente amministrazione statunitensesia disponibile ad accelerare la velocità di sman-tellamento delle testate e dei vettori strategici,anche a fronte dell’eventuale futuro riarmorusso, è evidente dai contenuti di un altro re-

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cente rapporto governativo, questa volta curatodall’International Security Advisory Board delsegretario di Stato. Secondo questo rapportoun’eventuale nuovo impeto statunitense in que-sta direzione potrebbe aver l’effetto di favorireun ripensamento da parte della FederazioneRussa della decisione di schierare nel 2018 ilnuovo missile balistico intercontinentale ap-pena testato senza per questo compromettere inalcun modo la credibilità del deterrente nuclearestatunitense. Sotto questo punto di vista è op-portuno rilevare come, in termini reali, le forzenucleari russe non sono destinate ad andare in-contro ad alcun effettivo incremento. Anche nelcaso in cui il programma di modernizzazionemissilistico annunciato pochi mesi fa dal presi-dente Putin fosse mai portato a termine, nel-l’arco dei prossimi dieci anni l’inevitabile ritirodi tutta una serie di dispositivi balistici già pros-simi alla fine della propria vita operativa nonpotrà non tradursi in una netta riduzione quan-titativa delle forze nucleari strategiche russe.Il concetto che il Report on the Strategic Nu-clear Forces of the Russian Federation affermacon maggior vigore è dunque che la sicurezza

nazionale degli Stati Uniti non richiede nessunavera parità nucleare, nessun nuovo approcciodottrinario e ancor meno nessun nuovo sistemad’arma. Per gli Stati Uniti è quindi sufficientecontinuare a confidare nel mantenimento di unlivello minimo di quella stessa deterrenza nu-cleare per lunghi decenni posta alla base dellastrategia di contenimento dell’Unione Sovie-tica. Se possibile, di ancor maggiore rilevanzaè poi la considerazione secondo la quale la Fe-derazione Russa molto probabilmente non ten-terà mai un attacco di sorpresa finalizzatoall’obiettivo di disarmare gli Stati Uniti. Nellepresenti circostanze internazionali, la quasi as-soluta ovvietà di questa considerazione rischiadi trarre in inganno perché nel sostenerla per laprima volta in modo ufficiale, Pentagono e In-telligence hanno, di fatto, lasciato venir menola ragione in base alla quale era ancora neces-sario mantenere in stato di allerta una piccolaaliquota di ICBM e di unità SSBN. Il semplicefatto che anche solo alcune di queste unità sianosemplicemente in navigazione è ora giudicatocome più che sufficiente per garantire un credi-bile livello di stabilità strategica.

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Organizzazioni Internazionalie cooperazione centro asiatica

Lorena Di Placido

Eventi►Inaspettato contatto tra i presidenti di Uzbekistan e Tagikistan. Il 29 ottobre, in occasione delventesimo anniversario dell’avvio delle relazioni bilaterali, il presidente tagiko, Emomali Ra-khmon, ha avuto l’iniziativa di telefonare alla sua controparte uzbeka, Islam Karimov, per porgerele proprie congratulazioni. Secondo quanto riporta Radio Free Europe/Radio Liberty, entrambiavrebbero espresso la speranza di condurre i rapporti bilaterali a un più alto livello. La telefonatae, forse, ancor più i suoi contenuti distensivi rappresentano un evento di portata eccezionale, poi-ché tra i due capi di stato non intercorrono rapporti diretti ormai da molti anni. Uzbekistan e Ta-gikistan sono distanti su diverse questioni di enorme sensibilità nazionale, che vanno dalle disputein ambito idrico ed energetico, alle irrisolte delimitazioni del confine comune e al trattamentodelle minoranze etniche. Nei periodi di maggiore tensione, l’Uzbekistan ha isolato il Tagikistanbloccandone vie e trasporti ferroviari, nonché interrompendo il flusso di gas e di elettricità. Almomento, il cruciale nodo del contendere è costituito dal progetto di costruzione della centraleidroelettrica di Rogun, la cui realizzazione è tanto desiderata dal Tagikistan per conquistare l’ago-gnata indipendenza energetica, quanto osteggiata dall’Uzbekistan che perderebbe una enormequantità di acqua, indispensabile per le vaste piantagioni di cotone, di cui è il sesto produttoremondiale. L’unica vera ricchezza del Tagikistan, che a differenza del vicino non possiede gas oaltre risorse naturali, è, infatti, proprio l’acqua, giacché detiene il 60% di tutta quella disponibilenella regione. La realizzazione del progetto costituisce pertanto una priorità assoluta per il go-verno Tagiko. Tuttavia, il tentativo di finanziare la costruzione di Rogun anche mediante la venditadi quote azionarie sembrerebbe essere definitivamente naufragato, non avendo riscontrato alcuninteresse da parte del pubblico. Anche quest’anno, il governo tagiko aveva lanciato un’aggressivacampagna per convincere i cittadini ad acquistare azioni della centrale per un totale di 169 milionidi dollari al costo unitario di 21 dollari. La prima iniziativa proponente tale forma di finanzia-mento venne lanciata a gennaio del 2011, producendo allora risultati piuttosto incoraggianti, perpoi precipitare nel disinteresse. Per completare il progetto, avviato in epoca sovietica e non ancoraultimato, al governo occorrono ulteriori 1,37 miliardi di dollari; qualora venisse realizzato pro-durrebbe 3,6 miliardi di kw/h all’anno e risolverebbe i problemi di approvvigionamento del paese.►Ancora in crisi la ricostituzione di una rete energetica in Asia Centrale. Resta ancora indefi-nita la situazione energetica nella regione centroasiatica, nonostante il proseguire di (infruttuosi)

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negoziati tra Kazakhstan, Kirghizstan e Uzbekistan per sanare i dissidi nella gestione del sistemadi distribuzione ereditato dall’Unione Sovietica. In particolare, risulta di difficile soluzione il di-vario tra Kazakhstan e Uzbekistan, giacché le autorità di Astana sostengono di aver subito daparte di quest’ultimo furti di elettricità e di non aver ancora visto la restituzione di un debito di20 milioni di dollari. Questi sono stati i motivi alla base, all’inizio del 2012, della minaccia delKazakhstan di distaccarsi dalla rete.►CAREC: nuovi progetti infrastrutturali. Nel corso di un incontro svoltosi nella città di Wuhan(Cina centrale) il 31 ottobre, i 10 membri della Central Asia Regional Economic Cooperation(CAREC: Afghanistan, Azerbaigian, Cina, Kazakhstan, Kirghizstan, Mongolia, Pakistan, Tagik-istan, Turkmenistan e Uzbekistan) hanno deciso di investire più di 23 miliardi di dollari per lacreazione di un sistema integrato di progetti nell’ambito dei trasporti e dell’energia. Nel suosviluppo, il cosiddetto “Wuhan Action Plan” ambisce a costruire sei diversi corridoi di collega-mento tra i porti orientali della Cina, il Caucaso e il Pakistan, passando per l’Asia Centrale.L’Asian Development Bank (ADB), che svolge funzioni di segretariato del CAREC, ha annunciatoche l’iniziativa consisterà di 68 nuovi progetti, i cui partner saranno il Fondo Monetario Inter-nazionale, la Banca Mondiale, il Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP), la BancaIslamica di Sviluppo, la Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (EBRD), l’ADB e alcunidonatori bilaterali di Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Giappone. Nello stesso periodo, l’ADBha stanziato un prestito di 150 milioni di dollari all’Uzbekistan per la modernizzazione delle in-frastrutture energetiche della Valle del Ferghana. Già nel 2001, CAREC aveva stanziato 19 mil-iardi di dollari per la realizzazione di 120 progetti tra i quali sistemi di trasmissione di energiaelettrica, strade e ferrovie.►Atambaev annuncia la presidenza kirghiza della CSTO. In un comunicato del 13 novembre,seguito a un incontro con il segretario generale della CSTO, Nikolai Borduzha, il presidentekirghizo Almazbek Atambaev ha annunciato che il Kirghizstan ne assumerà la presidenza nellasessione del Consiglio di Sicurezza Collettiva della CSTO che si svolgerà a Mosca il 19 dicembre. ►La SCO e la CSTO si preparano al 2014. In vista del significativo ritiro delle truppe operativedal teatro afghano, previsto per il 2014, le principali organizzazioni regionali stanno dedicandoincontri specifici all’analisi del contesto sicurezza nella regione centroasiatica. Il 6 novembre, siè riunito a Mosca un gruppo di lavoro dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva(CSTO) della Comunità di Stati Indipendenti, nel corso del quale il segretario generale, NikolajBorduzha, ha sottolineato la necessità di coordinare azioni preventive contro possibili contami-nazioni dei traffici che dall’Afghanistan potrebbero ancor più penetrare all’interno degli staticentroasiatici. Secondo Borduzha, le questioni chiave sono la stabilità delle istituzioni di Kabul ela capacità delle medesime di tenere sotto controllo la situazione del paese dopo il 2014, oltrealla sicurezza del confine settentrionale dell’Afghanistan. Egli ha, infine, annunciato che il 3dicembre si terrà un vertice per discutere del transito delle forze straniere in ritiro dall’Afghanistanattraverso i paesi della CSI (tutti i vicini centroasiatici dell’Afghanistan hanno stipulato accordicon la NATO e gli Stati Uniti per sostenere lo sforzo militare internazionale). Il 14 novembre,hanno avuto luogo le consultazioni ministeriali della Shanghai Cooperation Organization, allequali hanno preso parte ministri degli Esteri e rappresentanti dei paesi membri e degli osservatori,del Segretariato Generale della SCO e del Comitato Esecutivo della Struttura Regionale Antiter-

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rorismo e della Missione di Assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (UNAMA). Nel comu-nicato finale, si legge che, oltre a concordare sulla necessità di unire gli sforzi per il contrasto alterrorismo, al traffico di droga e al crimine organizzato transnazionale, le parti hanno dedicatogrande attenzione alla situazione dell’Afghanistan. In particolare, in accordo con la Dichiarazionecongiunta delle Nazioni Unite e della SCO (5 aprile 2010), e la risoluzione dell’Assemblea Gen-erale sulla “Cooperazione tra le Nazioni Unite e la SCO” (18 dicembre 2009), i rappresentantidegli stati membri e il responsabile dell’UNAMA, Yan Kubish, hanno deciso di stabilire contattidiretti per coordinare gli sforzi di ciascun organismo per la stabilizzazione dell’Afghanistan. Dal2002 è parte del Gruppo di Contatto SCO-Afghanistan e da giugno 2012 è osservatore della SCO.►Turkmenistan e Azerbaigian discutono della sicurezza nel Mar Caspio Il 15 e 16 novembre,ad Ashgabat si è svolta una tavola rotonda di rappresentanti delle istituzioni militari di Turk-menistan e Azerbaigian, che hanno discusso di cooperazione militare nell’ambito del forum “Part-nership for Securing Safety on the Sea: Prevention of Threats and Exchange of Experiece”. ►Piccoli passi per la diplomazia preventiva in Asia Centrale Il ministero degli Affari Esteri delTurkmenistan e il Centro per la Diplomazia Preventiva in Asia Centrale delle Nazioni Unite diAshgabat hanno annunciato che, in occasione del quinto anniversario della sua apertura, l’11dicembre si svolgerà nella capitale turkmena un forum internazionale, che ha raccolto i consensidel segretario generale delle Nazioni Unite Baan Ki—moon. ►Difficile percorso per il TAPI Il 16 novembre, le autorità turkmene hanno espresso impazienzaper la realizzazione del gasdotto TAPI, che collegherebbe il paese a India e Pakistan, passandoper l’Afghanistan. Restano, tuttavia, aperte le questioni relative alla sicurezza del transito attra-verso questi due ultimi paesi, mentre la costruzione delle condutture si trova in una fase di stallo.Dalla realizzazione del progetto derivano enormi prospettive di guadagno per il Turkmenistan,che conta di commercializzare 33miliardi cubici di gas all’anno, proveniente dal giacimento diDauletabad. ►Privatizzazioni in Turkmenistan e Uzbekistan Il 18 novembre, i presidenti di Turkmenistan eUzbekistan hanno avuto colloqui bilaterali ad Ashgabat, in gran parte concentrati sul tema delleprivatizzazioni. Si tratta di un ambito piuttosto nuovo per un incontro tra i leader di due tra i paesiche a livello regionale risultano essere i meno propensi all’iniziativa privata. Il governo turkmenoavrebbe intenzione di condurre le privatizzazioni mediante tre programmi di stato che verrannoattuati nel 2013, 2014-15 e 2016, focalizzati su costruzioni, trasporti e comunicazioni. L’Uzbek-istan ha, dal canto suo, annunciato la costituzione di un apposito comitato che supervisionerà ilprocesso e di un altro che si occuperà di de-monopolizzare la concorrenza. ►Nuova moneta per l’Unione Doganale? A margine di un incontro editoriale in ambito CSI, èemersa la notizia che Russia, Kazakhstan e Bielorussia, membri dell’Unione Doganale, si stareb-bero dotando di una nuova moneta da utilizzare negli scambi commerciali reciproci a partire dal1 gennaio 2015. La nuova moneta dovrebbe chiamarsi Eurasia. Una proposta analoga era statalanciata già nel 2010 dal presidente kazako, Nursultan Nazarbaev, come artificio utile per superarele tensioni valutarie connesse alla crisi finanziaria in corso. La nuova moneta avrebbe dovuto es-sere adottata nei commerci dello spazio euroasiatico.►Visita della Ashton in Asia Centrale Il 26 novembre, il referente dell’Unione Europea per lapolitica estera, Catherine Ashton, ha iniziato un viaggio che la porterà in Georgia e Asia Centrale.

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Sul finire del 2012, la Russia si prepara a con-solidare la propria posizione in Asia Centrale,rafforzando presenza e penetrazione in un am-bito che le è particolarmente congeniale, quellomilitare. Accordi conclusi, aiuti promessi, riav-vicinamenti attuati offrono il segnale di un in-teresse senz’altro vivo, ma che si innesta nelloscenario regionale con toni tradizionali piutto-sto che calati nel quadro evolutivo corrente. Lasfida della sicurezza si ripropone con sfaccetta-ture nuove, dettate in primo luogo dalla situa-zione di incertezza che si prospetta per il 2014,anno del ritiro della coalizione NATO/USA, apartire dal quale verosimilmente maggiori dif-ficoltà si verificheranno per i paesi vicini neltentativo di arginare i traffici transfrontalieriche dall’Afghanistan avranno agio di dipanarsinella regione circostante e oltre. Le risposte chela Russia sembrerebbe predisporre risultano im-postate su una logica di mero presidio, che, sep-pure utile per la finalità di rimanere stabilmentenella regione, appare di dubbia efficacia ri-spetto all’esigenza di farsi parte attiva in unsempre più precario contesto di sicurezza.

Il supporto militare a Kirghizstan e Tagiki-stanAgli inizi del mese di novembre, fonti di stamparusse hanno reso noto che le autorità di Moscahanno accordato sostanziosi aiuti militari pari a1,1 miliardi di dollari per l’ammodernamentodelle dotazioni dell’esercito del Kirghizstan, e200 milioni di dollari per le forze armate del Ta-gikistan, con in più sconti di altri 200 milioniper il rifornimento di prodotti petroliferi. I primi aiuti al Kirghizstan (che possiede forzearmate tra le più esigue della regione) sono at-tesi per l’estate del 2013, sotto forma di armi da

fuoco di piccolo e medio calibro, veicoli dacombattimento, mezzi da pattugliamento eospedali da campo. Al momento dell’indipen-denza dall’Unione Sovietica, gli uomini in arminel paese ammontavano a circa 20 mila unità;successivamente, è stata decisa la riduzione delservizio militare da 18 a 12 mesi (2006) e degliuomini a 15 mila, il 75% dei quali mercenari.La formazione militare viene espletata daun’università per i giovani ufficiali e dal LiceoNazionale Militare per i comandanti di livellointermedio. Attualmente, la dotazione in uso ri-sale all’epoca sovietica e il governo non è ingrado di sostenere autonomamente un ammo-dernamento complessivo della struttura, né diacquisire mezzi idonei per gli spostamenti nelmontuoso territorio del paese. Solo la 25esimaBrigata Speciale Scorpion, addestrata dallaNATO, possiede i requisiti minimi per dirsi mo-dernamente equipaggiata. Il sostegno offerto al Tagikistan è di gran lungapiù modesto, per quel che riguarda la spesa, everrà collocato essenzialmente per la ristruttu-razione della difesa aerea e per alcune ripara-zioni. Benché anch’esse non brillino permodernità e abbondanza di equipaggiamento, leforze armate tagike hanno un adeguato numerodi uomini, tutti di leva; il servizio militare duradue anni, uno solo per coloro che hanno ulti-mato gli studi universitari. Nel mese di ottobre,la Russia ha concordato con il Tagikistan dimantenere per altri 29 anni la propria perma-nenza, con la 201esima divisione motorizzata,di stanza nel paese fin dall’indipendenza. In unadichiarazione rilasciata il 21 novembre, il segre-tario generale della CSTO (Collective SecurityTreaty Organization), Nicolai Borduzha,avrebbe tuttavia escluso che quelle forze po-

LA PRESENZA MILITARE RUSSA IN ASIA CENTRALE:BREVE PUNTO DI SITUAZIONE SUL FINIRE DEL 2012

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tranno essere impiegate per operazioni relativealla sicurezza nazionale, avendo riscontratoun’efficace capacità di intervento delle forze ta-gike nel caso dell’intervento a Khorog (GornoBadakhshan) nell’agosto (2012). A questo punto, risulta di immediata compren-sione il vantaggio che le due piccole repubbli-che centroasiatiche ricavano dalla presenzarussa sul proprio territorio: aiuti diretti ai go-verni (si pensi al condono di parte del debito bi-laterale kirghizo accordato da parte russa);ammodernamento e adeguamento dei disposi-tivi militari; maggiore vicinanza con il paeseche ospita un elevato numero di migranti di Kir-ghizstan e Tagikistan (per entrambi, una rile-vante quota del PIL – nell’ordine,rispettivamente, del 20 e 30% - è data dalle ri-messe dall’estero). Quale il vantaggio per laRussia? Data la volontà di non interferire nellequestioni interne agli stati partner, espressa nonsolo nelle dichiarazioni di Borduzha, ma soprat-tutto nella prassi della SCO (Shanghai Coope-ration Organization), sembrerebbe esclusaun’esigenza di sicurezza regionale della qualela Russia si renderebbe garante con la propriapresenza, giacché questa non implica automati-camente un intervento in caso di crisi o neces-sità. Se non è il porsi quale argine attivo eproattivo negli avamposti prossimi all’Afghani-stan, in vista del ritiro delle forze NATO/USAnel 2014, l’ipotesi che si fa largo potrebbe es-sere quella di creare postazioni di mero presidio,a tutto vantaggio di un interesse nazionale e noncollettivo. Lo scopo potrebbe essere (almeno)duplice: ricostituire posizioni tradizionalmentedetenute fin dall’epoca sovietica, tanto più men-tre gli Stati Uniti stanno per uscire dalla regione

– stipulando con i centroasiatici accordi di tran-sito per gli uomini e i mezzi in ritirata e la-sciando in quei paesi stessi parte delle dotazioni– e l’Uzbekistan ha assunto decisioni che lo ren-dono inaffidabile agli occhi di Mosca. Il ruoloche l’Uzbekistan assumerà nello scenario che siva delineando risulta particolarmente delicato,rappresentando un perno in ambito regionalesotto diversi punti di vista. In seguito alla deci-sione assunta nell’estate 2012 di sospendere lapropria partecipazione alla CSTO (il che equi-vale, di fatto, a scegliere di uscire dalla sfera diinfluenza della Russia), il riavvicinamento diBishkek e Dushanbe a Mosca potrebbe essereinterpretato dalle autorità di Tashkent come ungesto ostile. Nel corso del 2012, si sono, infatti,alternati periodi di crisi più o meno intensa tral’Uzbekistan e i suoi vicini, a causa delle ten-sioni generate dalle condizioni di vita della mi-noranza uzbeka residente nella regionemeridionale del Kirghizstan (quella che fu teatrodei gravissimi scontri del giugno 2010, chehanno indotto decine di migliaia di profughi uz-beki a rifugiarsi oltreconfine) e della gestionedelle acque da parte tagika, che rischia di com-promettere l’approvvigionamento idrico a finiagricoli dei paesi a valle (primo fra tutti, l’Uz-bekistan). Priva di una manifesta volontà proattiva a tuteladella sicurezza regionale e palesemente sbilan-ciata a vantaggio di finalità proprie nonché in-terne ai due più svantaggiati paesi dell’areacentroasiatica, la presenza russa rischia di di-ventare ragione di contrasto e squilibrio, piut-tosto che elemento stabilizzatore, fondato sudecenni di conoscenza e interazione con gli at-tori locali.

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Eventi

Organizzazioni Internazionali

Valerio Bosco

►Il 7 novembre il Consiglio di Sicurezza dell’ONU (CdS) ha prolungato il mandato della forzadell’Unione Africana in Somalia, AMISOM, sino al 7 marzo 2012, disponendo l’estensionedello UN support package mediante il dispiegamento di 50 unità di personale civile nelle areerecentemente sottratte al controllo delle forze di Al-Shabab. La risoluzione 2073 ha invitatoAMISOM a continuare la sua azione di contrasto ad Al-Shabaab e a lavorare ulteriormente alrafforzamento della cooperazione con le autorità di sicurezza somale al fine di garantire nuoviprogressi in materia di governance, riconciliazione e accesso delle popolazioni bisognose all’as-sistenza umanitaria.►Il 14 novembre il CdS ha approvato la risoluzione 2074 sull’estensione di un anno del man-dato di EUFOR Althea in Bosnia Herzegovina. Il Consiglio ha incoraggiato i leader politicinazionali ad abbandonare il ricorso a retoriche destabilizzanti e a compiere progressi tangibilie concreti per l’integrazione del Paese nell’Unione Europea. ►Il 20 novembre il CdS ha approvato la risoluzione 2076 sulla situazione nella RepubblicaDemocratica del Congo (RDC). Il Consiglio ha chiesto al gruppo armato 23 Marzo (M23) di ri-tirarsi immediatamente dalla città di Goma condannandone duramente la ripresa di attacchi con-tro i civili, il personale della United Nations Organization Stabilization Mission in the DemocraticRepublic of the Congo (MONUSCO) e gli operatori umanitari. Il Consiglio ha inoltre chiesto lacessazione di ogni sostegno esterno al movimento M23 e ha invitato il Segretario Generale del-l’ONU a presentare, in cooperazione con la Conferenza Internazionale sulla Regione dei GrandiLaghi e l’Unione Africana, un rapporto in materia. Il palazzo di vetro ha infine annunciato l’in-tenzione di assumere sanzioni mirate contro gli external supporters e la leadership di M23. BanKi-Moon ha ricevuto infine il mandato di presentare proposte per il ridispiegamento di MONU-SCO al fine di garantire la protezione dei civili e impedire il passaggio di armi ai confini orientalidella RDC.►Il 21 novembre la terza commissione dell’Assemblea Generale ha adottato una nuova riso-luzione in favore della moratoria sull’uso della pena di morte, la quarta dal 2007. La risoluzioneè stata approvata con 110 voti favorevoli – due in più rispetto al 2010 – 39 contrari e 36 asten-sioni. Il Sud Sudan, Paese da oltre un anno membro delle Nazioni Unite, ha votato in favore dellarisoluzione sebbene il suo ordinamento preveda l’istituto della pena capitale. Tra gli altri Paesia votare per la prima volta in favore della moratoria si segnalano Repubblica Centroafricana,

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Il 14 novembre l’ONU ha pubblicato il rapportodel panel del Segretario Generale sull’azionedelle Nazioni Unite in Sri Lanka. Il rapporto do-cumenta nel dettaglio il fallimento del sistemaonusiano nel tentativo di garantire la protezionedei civili nel contesto delle massicce violazionidei diritti umani verificatesi nel corso dellaGuerra civile in Sri Lanka tra il 2008 e il 2009.Il rapporto sembra aver parzialmente confer-mato le critiche di quanti, nei mesi scorsi, hannoapertamente accusato le Nazioni Unite di nonaver agito prontamente o con efficacia rispettoai crimini commessi nel Paese. Nondimeno, re-sponsabilità altrettanto rilevanti possono essereindividuate in seno alla comunità degli Statimembri dell’ONU e nell’ambito delle persi-stenti divergenze rispetto ai modi e alle formedi implementazione della responsabilità di pro-teggere le popolazioni civili, invocato più recen-temente, con esiti antitetici, rispetto alle crisiscoppiate in Libia ed in Siria.

Le violenze in Sri Lanka e l’azione del-l’ONU: l’inchiesta interna promossa dal SGTra l’estate 2008 e la primavera 2009 la guerracivile in Sri Lanka fu segnata da una dramma-tica escalation di violenza tra le forze governa-tive e il gruppo Liberation Tigers of Tamil

Eelam (LTTE), movimento meglio noto comeTigri del Tamil che, sin dagli anni ‘70, rivendicala creazione dello stato autonomo del TamilEelam nel nord del Paese. In particolare, le vio-lenze più atroci furono concentrate nella zonasettentrionale del Wanni dove lo scontro armatotravolse diverse migliaia di civili, privandolidell’accesso all’assistenza umanitaria, nonchédel cibo e della possibilità di ricorrere alle curesanitarie di base. Diverse critiche furono in se-guito formulate da organizzazioni non governa-tive e della società civile rispetto alla decisionedell’ONU di abbandonare il nord del Paese nelmaggio del 2009, dopo l’annuncio del governorispetto all’impossibilità di garantire la prote-zione del personale onusiano, nonché la distri-buzione degli aiuti umanitari. Tale circostanza,sin dalla fine del 2009, ha incoraggiato il Segre-tario Generale ad avviare indagini volte ad ac-certare i responsabili delle gravi violazioni deidiritti umani e verificare altresì la performancedelle Nazioni Unite nel garantire la protezionedei civili. Nell’aprile del 2011, dopo la pubbli-cazione di un primo documento che aveva rive-lato le gravi lacune e inefficienze mostrate dalsistema onusiano nel corso della guerra civile,il SG aveva infine disposto la creazione di unInternal Review Panel on UN actions in Sri

SRI-LANKA E RESPONSABILITÀ DI PROTEGGERE: IL FALLIMENTO DELL’ONU

Tunisia e Niger. La risoluzione sarà oggetto di una seconda votazione nel corso di una sessioneplenaria dell’ Assemblea Generale che si svolgerà presumibilmente nel corso del mese di dicem-bre.►IL 22 novembre il CdS ha prolungato di un anno l’autorizzazione accordata all’azione in-ternazionale, in cooperazione con le autorità di Mogadiscio, per il contrasto alla pirateria allargo delle coste somale. La risoluzione 2077 ha rinnovato l’invito agli Stati membri e alle or-ganizzazioni regionali dotate di capacità e risorse adeguate a dispiegare mezzi militari per ilcontrollo delle coste e il sequestro delle imbarcazioni impiegate negli atti di pirateria.

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Lanka, il cui rapporto, appena pubblicato, parlachiaramente, senza alcun linguaggio diploma-tico, di “UN failure”.

Cronaca di un fallimento: l’aspetto cultu-rale...Attraverso un’investigazione fondata sull’inter-vista di diversi funzionari del sistema ONU al-lora al lavoro in Sri Lanka, il rapporto del 14novembre documenta in maniera dettagliata unfallimento registratosi a vari livelli. Oggetto delduro atto d’accusa è la performance dello UNcountry team, il pool di agenzie onusiane impe-gnate in diversi settori (UNICEF, World FoodProgram, World Health Organization, Office ofHigh Commissioner for Human Rights, Officeof High Commissioner for Refugees, etc) e ge-neralmente coordinate dal Resident Coordina-tor, rappresentante del Segretario Generale ecapo dello UN Development Program (UNDP),principale attore dell’ONU nell’assistenza aiPaesi in via di sviluppo.Un primo aspetto del fallimento documentatodal rapporto sarebbe legato alla cultura dell’or-ganizzazione che, secondo diversi Senior Offi-cers, avrebbe spinto molti funzionari a non fareriferimenti alle violazioni commesse dal go-verno e dai ribelli al fine di assicurare la capa-cità del sistema ONU di difendere la possibilitàdelle popolazioni di accedere all’assistenzaumanitaria offerta dal palazzo di vetro. In par-ticolare, anche in relazione ai briefings svoltipresso il Consiglio di Sicurezza sarebbe pre-valsa la scelta di concentrarne il focus sulla di-mensione umanitaria della crisi piuttosto chesulla cause del conflitto o sugli obblighi in ma-teria di diritto internazionale violati dalle parti.Tale impostazione, promossa dalla leadershipdel country team per favorire il dialogo con leparti fu altresì accompagnata dalla decisione disostenere la creazione del campo per gli sfollatidalla regione del Wanni, nonostante vi fosse

l’evidente rischio di negare agli Internal Di-splaced Peoples (IDPs) la libertà di movimentonelle strutture di accoglienza e, al contempo,l’incapacità delle agenzie onusiane di monito-rarne la correttezza del trattamento da partedelle autorità nazionali. In altre parole, il rap-porto formula una durissima critica a quella chedefinisce una cultura istituzionale di trade-offs,segnata dalla tendenza del processo decisionaledel Segretariato ONU e delle sue strutture di-spiegate sul field a comporsi nella logica dei“dilemmas”, spesso capaci di oscurare la realtàdelle responsabilità onusiane. Appare infattichiaro che proprio in ragione della pluralità dimandati ed expertise assegnate alle varie agen-zie del sistema ONU, l’organizzazione avrebbedovuto essere in grado di negoziare o imporrel’accesso all’assistenza umanitaria senza rinun-ciare a una drastica e ferma condanna degli au-tori e degli ideatori dei massacri. Il rapporto haperaltro aggiunto che l’organizzazione avrebbedovuto invocare con forza il rispetto dellenorme internazionali nell’assistenza agli IDPs,evitando così ogni possibile accusa di compli-cità rispetto alle inumani e degradanti condi-zioni nelle quali questi erano sottoposti nellestrutture di accoglienza, rivelatisi presto comerepressivi centri di detenzione. Nondimeno, purricordando l’eccezione rappresentata dalla duradichiarazione rilasciata dall’Ufficio dell’AltoCommissario per i diritti umani nel marzo 2009– le azioni del governo e delle forze ribelli fu-rono indicate come possibili crimini di guerra econtro l’umanità - il rapporto riferisce altresì diuna continua e sistematica riluttanza delle isti-tuzioni del country team - vale la pena di ripor-tarlo in inglese vista la durezza della formulausata - “to stand up for the rights of the peoplethey were mandated to assist”. In particolare,nella città di Colombo, funzionari più espertiavrebbero affermato di non aver avvertito laprevenzione delle uccisioni di civili come loro

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propria responsabilità, soprattutto alla luce delfatto che i leaders delle rispettive agenzie o uf-fici del Segretariato non avevano comunquedato istruzioni in tal senso. Il giudizio finale ela-borato dal Panel è dunque estremamente severoe merita di essere riportato integralmente:“...Valutata nel complesso, l’incapacità del-l’ONU di contraddire il governo circa i calcoliapprossimativi rispetto al numero di civili am-massati nei campi, di contestare la politicaostruzionista dell’esecutivo rispetto all’assi-stenza umanitaria...la mancanza di volontà po-litica dell’organizzazione, del Segretariato edell’autorità di Colombo nell’affrontare le re-sponsabilità degli attacchi e dei crimini controi civili, i toni e i contenuti delle comunicazionitra Nazioni Unite e il governo dello Sri-Lanka,forniscono il quadro complessivo del fallimentodelle Nazioni Unite nel rispondere al propriomandato istituzionale di protezione dei civili”.

...e quello sistemicoIl rapporto non dimentica di sottolineare comealtro fattore importante nel fallimento del-l’ONU sia evidentemente rappresentato dall’as-senza totale di sostegno da parte del governo diColombo, elemento indispensabile per metterein condizione l’Organizzazione di eseguire ilproprio mandato di protezione dei civili asse-gnatole dagli Stati membri delle Nazioni Unitenel corso di decenni di prassi e interventi inaeree di crisi. Pur riconoscendo la capacità delcountry team di assicurare, in condizione diemergenza, l’assistenza ad oltre 280.000 IDPs,l’abilità nel persuadere il governo alla revisionedi alcuni piani di gestione degli sfollati, l’atten-zione dedicata alla crisi da alcuni senior offi-cials, incluso l’ex Under Secretary General forHumanitarian Affairs, il britannico John Hol-mes, - il Panel si dice “colpito dalla passione dimolti membri dello staff ONU nel difendere epromuovere i principi dell’organizzazione” nel

corso della loro esperienza in Sri Lanka – ilrapporto parla anche di “systemic failure”.Tale fallimento complessivo del sistema ONUin Sri-Lanka si sarebbe esplicitato, in partico-lare, nei seguenti elementi: i) la mancanza di unadeguato e condiviso senso di responsabilità perle violazioni dei diritti umani tra le varie agen-zie; ii) l’incoerenza del sistema onusiano di ge-stione delle crisi, incapace di pianificare eapplicare una strategia efficace di risposta agravi segnali early warnings e alle successivemassicce violazioni dei diritti umani e del di-ritto internazionale umanitario; iii) un modellod’azione sul field che ha privilegiato la dimen-sione dell’assistenza allo sviluppo piuttosto chequella della “risposta al conflitto”; iv) la deci-sione di degradare al primo rango direttivo –Director 1 – la massima autorità ONU presentein Sri Lanka, chiamata a ricoprire funzioni e re-sponsabilità di maggior rilevanza, solitamenteassegnate a un rappresentante del SegretarioGenerale, al livello di Under-Secretary General(incarico del rango successivo al D-2); v) lamancanza di un pool adeguato di funzionari se-niors, esperti in materia di conflitti, questionipolitiche, diritti umani e diritto internazionaleumanitario.

Non solo UN failure: le responsabilità degliStati membri e della Comunità Internazio-naleCircostanziata e dettagliata, l’accurata ricostru-zione del fallimento onusiano in Sri Lanka,drammaticamente testimoniato dalla frettolosaevacuazione del nord Paese da parte del countryteam, ha altresì il merito di storicizzare la de-bacle delle Nazioni Unite nel contesto di unapiù ampia inazione e passività degli Stati mem-bri, i quali non riuscirono ad adottare alcuna de-libera significativa in seno alle maggioriistituzioni onusiane, il Consiglio di Sicurezza,il Consiglio dei diritti umani e l’Assemblea Ge-

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nerale. Sebbene il concetto della responsabilitàdi proteggere la popolazione civile da criminiguerra, genocidio e crimini contro l’umanità(R2P, responsibility to protect) fosse stato invo-cato sporadicamente nel corso delle discussioniinternazionali sulla crisi in Sri Lanka, gli Statimembri non riuscirono a delineare alcuna ini-ziativa incisiva capace di ispirarsi all’imple-mentazione di quel principio emergente,codificato dal World Summit del 2005.Addirittura, alla luce delle persistenti diver-genze riguardo a portata e contenuto della R2P,quelle invocazioni del principio rispetto allo SriLanka sono sembrati ostacolare ulteriormentela capacità dell’organizzazione di risponderealla crisi.Più in generale, pur riconoscendo i profondi li-miti della “cultura operativa” dell’organizza-zione, nonché le gravi mancanze nell’assicurarelo sviluppo di un’azione coordinata del sistemaonusiano in materia di protezione dei civili, sa-rebbe indubbiamente corretto interpretare il fal-limento dell’ONU in Sri Lanka anche comefunzione dell’assenza di volontà politica daparte degli Stati nel sostenere e incoraggiareazioni adeguate da parte delle Nazioni Unite.Nondimeno, è proprio nel campo della crea-zione e promozione di un sostegno internazio-nale degli Stati all’azione ONU in Sri Lankache il Segretariato avrebbe potuto probabil-mente dedicare maggiore attenzione ed energie.Sarebbe cioè mancata una specifica azione intermini di outreach, ovvero di popolarizzazionee sensibilizzazione internazionale sulla gravitàdella situazione nello Sri-Lanka e dei criminicompiuti tra il 2008 e 2009.

La R2P dopo il rapporto del 18 novembreIl rapporto del 18 novembre schiude indubbia-mente nuove opportunità per una riflessioneseria e articolata sul rafforzamento dell’azionedell’ONU in materia di protezione della popo-

lazione civile. Indiscutibile merito del Segreta-rio Generale Ban Ki-Moon è quello di aver resopubblico il contenuto del rapporto, evitando unapratica che in passato ha limitato ai più ristretticircoli diplomatici newyorchesi il dibattito sualcune disfunzioni presenti nel sistema ONU.Intenzione del SG è quella di dare un seguitoconcreto ai risultati dell’inchiesta e di trarrespecifiche lesson learned dal fallimento in Sri-Lanka, alfine di rinnovare i metodi dell’azioneonusiana nell’assistenza e protezione dei civili.In primo luogo, il rapporto offre un’occasioneimportante per un prezioso rilancio della lottaall’impunità rispetto ai gravi crimini internazio-nali e all’avvio di una campagna di pressionipresso il governo di Colombo per l’individua-zione e il processo degli autori delle violenze. Più in particolare, sebbene il rapporto abbia sal-vato l’opera dell’ex USG per l’assistenza uma-nitaria John Holmes, lo UN Office forCoordination of Humanitarian Affairs (OCHA)sarà forse al centro di un tentativo di riforma oristrutturazione. Appare altresì possibile cheuna più attenta riflessione possa anche investirele modalità d’azione di UNDP in situazione dicrisi. Il lavoro dell’agenzia a capo dello UNCountry Team in occasione della guerra civilein Sri-Lanka è sembrato infatti rivelarsi nonall’altezza della gravità della situazione, laquale richiedeva chiaramente il ricorso a unapostura più decisa e meno reticente, ovverol’adozione di un “vocal approach” capace dipretendere dalle parti in conflitto il rispetto difondamentali obblighi in materia di protezionedei civili e di accesso all’assistenza umanitaria.Sarà dunque altrettanto importante riflettere suquei passaggi del rapporto del panel che riferi-scono di una cultural failure, probabilmente im-putabile a una quasi naturale tendenza delloUNDP, istituzione che funge di fatto da “amba-sciata dell’ONU” nelle realtà dei paesi in via disviluppo, a concentrarsi su temi economici e so-

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ciali, non suscettibili di dar vita a controversieo tensione nei rapporti con gli Stati ospiti, ri-spetto a più delicate questioni politiche legatealla promozione della buona governance, ai di-ritti umani o alla risposta alle crisi, questioni chepure figurano nella mission e nel mandato delsuddetto programma onusiano.Più in generale, i risultati del rapporto sottoli-neano l’importanza della prevenzione delleatrocità e della risposta rapida ai crimini inter-nazionali, nonché le tragiche conseguenze diun’azione dell’ONU e della Comunità Interna-zionale che, al di là della differenze sulla R2P,non assegni la necessaria priorità alla protezione

dei civili nelle aeree di conflitto. Tali divergenze- in gran parte legate alle persistenti polemichecontro la presunta manipolazione del concettodella R2P da parte delle potenze occidentali inrelazione all’implementazione della risoluzione1973 sulla Libia - sembrano ostacolare lo svi-luppo di un’azione decisa della Comunità Inter-nazionale tesa a fermare quelle violenze costatela vita a migliaia di persone in Sri-Lanka tra il2008 e il 2009 e che oggi, in Siria, avrebberoportato la tragica contabilità del conflitto al nu-mero di 20mila vittime civili e oltre 200.000 ri-fugiati.

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Settore Energetico

Angelantonio Rosato

Eventi►South Stream – Prima luce verde al tratto sottomarino del gasdotto South Stream che porteràil gas russo in Europa, aggirando da sud l’Ucraina. E’ stato dato l’assenso ufficiale alla costru-zione del tratto sotto il Mar Nero a metà novembre, nel corso di una riunione dei soci di SouthStream Transport (società costituita per la posa della condotta sul fondale marino), tenutasi aSan Donato Milanese, presso la sede dell’Eni. Della società fanno parte, oltre all’impresa ener-getica italiana (20%), la tedesca Wintershall (15%), la francese Edf (15%) e la compagnia diStato russa Gazprom (50%), azionista di maggioranza e futuro fornitore del metano. Tuttavia, isoci europei di minoranza hanno posto una duplice condizione: in primis, per quanto concerne ilfinanziamento del progetto, l’onere della garanzia dovrà essere a carico dei clienti finali del gasrusso, ovvero inserito nei contratti “ship or pay” da questi siglati con Gazprom. In secondo luogo,l’Unione Europea dovrà concedere l’esenzione dal cosiddetto “third party access”, ossia dall’ob-bligo di concedere l’accesso al tubo a una parte terza che ne facesse richiesta, secondo le nuoveregole europee. Il prossimo 7 dicembre partiranno i lavori di costruzione della stazione di compressione di Anapa,sulla riva russa del Mar Nero. Da lì il gasdotto percorrerà circa 2.300 chilometri per giungere aTarvisio, adagiato sul fondale marino per ben 940 km chilometri e poi attraverso i Balcani. Con-trariamente ai piani iniziali, resta per ora sospesa la biforcazione meridionale del tubo che dallaGrecia sarebbe dovuta approdare via Mar Adriatico in Puglia, per poi risalire la penisola. Mancainfatti la giustificazione economica del “secondo braccio” di South Stream, a causa della persi-stente grave crisi greca, della mancanza di alti consumi di gas nel centro-sud Italia, e, al momento,della concorrenza di altre condotte come il Tap e Itgi. Il costo complessivo di South Stream si aggira intorno ai 16 miliardi di euro a valori 2010, di cui10 miliardi per la sola tratta sottomarina, chiaramente la più complessa e impegnativa dal puntodi vista tecnico. Ciò tuttavia non spaventa l’Eni che candida la sua controllata Saipem, la qualesi è già fatta le ossa nel Mar Nero con il gasdotto Blue Stream, alla realizzazione dell’ardita operaingegneristica. Se tutto andrà secondo i piani, il primo flusso di gas dovrebbe giungere a Tarvisioentro la fine del 2015.►Arabia Saudita – La compagnia di Stato dell’Arabia Saudita, Saudi Aramco, ha reso noto cheintende investire oltre 26 miliardi di euro nei prossimi 5 anni al fine di assicurare un flusso costante

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Introduzione

Per gli sciiti duodecimani, alla fine dei tempi il

Mahdî (o dodicesimo Imam) si manifesterà ri-

pristinando l’autorità legittima e la giustizia fra

gli uomini. Nel frattempo, si è occultato per

sfuggire alle persecuzioni (l’Imam nascosto).

Gli Iraniani di fede sciita vivono oggi nell’at-

tesa della parusia del dodicesimo Imam che,

alla fine dei tempi, tornerà a manifestarsi e a ri-

stabilire la giustizia in Terra. La storia attuale

del programma nucleare di Teheran ricorda in

un certo senso quella dell’Iman nascosto: la

strategia iraniana prevede che il programma

resti occultato, al riparo da occhi indiscreti e

maligni, ma che contemporaneamente proceda

senza incertezze; e un giorno, presto o tardi,

giungerà a compimento restituendo all’Iran il

prestigio e l’autorità che merita nella regione e

nel mondo. Nel presente studio tenteremo di ri-

percorrere le fasi cronologiche del programma

nucleare iraniano, di analizzare la dimensione

internazionale e quella interna iraniana del pro-

blema, e di spiegare, senza però voler giustifi-

care, perché per gli Iraniani il raggiungimento

di petrolio verso i mercati internazionali. L’annuncio ha fatto notizia in una situazione di crisieconomico-finanziaria globale con conseguente calo della domanda di idrocarburi. Tuttavia lamajor saudita, una delle più grandi al mondo, è convinta che la ripresa sia vicina, dunque i con-sumi e la domanda di oro nero sarebbero destinati a crescere e a tornare ai livelli precedenti allacrisi. Pertanto Saudi Aramco, che produce 10 milioni di barili al giorno, unica a livello planetario,conferma che proseguirà nell’esplorazione e nello sviluppo di nuovi pozzi e tecnologie. Secondoun’altra versione non ufficiale, dietro questa decisione saudita c’è pure la vicenda dell’embargopetrolifero all’Iran a causa del suo programma nucleare. Infatti, oggi è Riyadh a “coprire” laquota iraniana di idrocarburi assente sul mercato. Gli investimenti suddetti si rendono dunquenecessari per poter continuare a farlo in futuro.►Riscaldamento globale – Il mondo dovrà tagliare le emissioni di anidride carbonica a un livellomolto più alto di quello previsto per il 2050 al fine di impedire che le temperature salgano di oltre2 gradi Celsius entro la fine del secolo. Lo afferma un report pubblicato dal Pricewaterhouse-Coopers (PwC) il 5 novembre.►Compagnie energetiche unite per la politica ambientale europea – Nasce a Bruxelles una coa-lizione di compagnie energetiche internazionali risolute a sostenere una low-carbon energy policyper l’Europa. La coalizione riunisce aziende energetiche come Alpine Energie, DONG Energy,First Solar, GE Energy, e Shell – grandi investitori nel gas e nelle rinnovabili, - i quali hannopreso posizioni forti a supporto della politica ambientale climatica europea “who have takenstrong positions supporting EU climate action”.►Anidride carbonica e ghiacciai – Secondo uno studio del MIT pubblicato sul “Journal ofPhysics D”, l’anidride carbonica, se presente ad alti livelli, accelera lo scioglimento dei ghiac-ciai. I ricercatori del MIT hanno scoperto che la CO2 indebolisce il ghiaccio ostacolando ilegami di idrogeno che tengono unite le molecole d’acqua

PROGRAMMA NUCLEARE IRANIANO: BREVE STORIA, ANALISI E PROSPETTIVE

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della capacità nucleare civile e militare è unaquestione primaria di giustizia e sovranità na-zionale.

Fasi cronologiche del programma nucleareiranianoAl fine di inquadrare correttamente il problemasarà necessario ripercorrerne le varie fasi, in or-dine cronologico. Durante la metà degli anni ‘80, l’Iran di Kho-meini decise di riprendere segretamente un pro-gramma nucleare avviato durante il regno delloShah di Persia. Il programma khomeinista,come quello del vecchio regime, includeva lacostruzione di ordigni nucleari. Pare che la de-cisione di Khomeini fosse stata fortemente in-fluenzata dalle conseguenze dell’uso di armichimiche da parte di Saddam Hussein durantela Prima Guerra del Golfo, ossia il conflittoIran-Iraq. Dagli anni ‘90 in poi, Teheran si concentra sullosviluppo delle infrastrutture necessarie per rea-lizzare il proprio ciclo nucleare: acquisizione earricchimento dell’uranio, produzione di acquapesante per un reattore in grado di produrre plu-tonio, notoriamente utilizzato negli ordigni nu-cleari. Intorno alla metà degli anni ‘90, l’Iran inizia acomprare segretamente centrifughe per l’arric-chimento dell’uranio dal network di Abdul Qa-deer Khan, scienziato nucleare pakistano,considerato il padre dell’atomica di Islamabad.Teheran comincia a testare queste centrifughenel 2000. L’anno successivo l’Iran comincia acostruire il suo principale impianto per l’arric-chimento a Natanz, circa duecento miglia a suddi Teheran. La centrale è concepita per acco-gliere cinquantamila centrifughe, al fine di pro-durre quantità massicce di uranio arricchito. Intanto già dalla metà anni ‘90, Washington cer-cava di fermare o almeno rallentare il pro-gramma nucleare iraniano. In quegli stessi anni

Teheran si accordava con il Ministero russo perl’energia atomica al fine di portare a termine lacostruzione del reattore nucleare ad acqua pres-surizzata a Bushehr. Infatti, nel 1975 un’im-presa tedesca aveva cominciato la costruzionedell’impianto suddetto; il reattore era stato pe-santemente danneggiato durante la guerra conl’Iraq. La costruzione del reattore di Bushehr neglianni ‘90 era l’elemento più visibile del pro-gramma nucleare iraniano, pertanto l’Ammini-strazione Clinton focalizzò la sua pressionediplomatica su Mosca, al fine di dissuadere ilgoverno russo dal dare assistenza tecnica agliIraniani. Gli sforzi del Dipartimento di Stato eb-bero un parziale successo: Mosca fu persuasa anon fornire tecnologia per l’arricchimentodell’uranio, e nemmeno i reattori ad acqua pe-sante richiesti da Teheran; inoltre, la Russia siimpegnò sia a fornire che a ritirare (una voltaesausto) il combustibile nucleare che sarebbeservito per alimentare la centrale di Bushehr.Ciò al fine di impedire che gli Iraniani potesseroutilizzare l’uranio o il plutonio derivante dallafissione nucleare per fabbricare la bomba ato-mica. La strategia della diplomazia clintoniana deglianni ‘90 contro il programma nucleare iranianoaveva due punti deboli. Il primo: all’epoca ilcomportamento di Teheran era ineccepibile inquanto Stato non-nucleare membro del Trattatodi Non-Proliferazione nucleare (Nuclear Non-proliferation Treaty – NTP) del 1968. In effetti,l’NTP statuisce che lo Stato membro non-nu-cleare rinuncia ad acquisire armi nucleari, e incambio riceve dagli altri Stati membri dotati dicapacità nucleare pieno accesso alla tecnologiaatomica a scopi pacifici. Nella metà degli anni ‘90, così come fa oggi,Teheran sosteneva di avere il diritto legale san-cito dalla legge internazionale di beneficiare delnucleare civile, come tutti gli altri Stati membri.

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Da parte sua l’Amministrazione Clinton insi-steva che, al contrario, Teheran non rispettavail NTP in quanto perseguiva un programma nu-cleare segreto. Pertanto, secondo Washington,non aveva diritto all’accesso a quella tecnologianucleare che avrebbe viepiù accelerato il pro-gramma suddetto. Allora, la tesi funzionò abba-stanza bene a Washington e Gerusalemme, manon nel resto del mondo. La seconda debolezza della strategia clinto-niana è intrinsecamente connessa a quanto ap-pena scritto. Nella metà degli anni ’90 lacomunità di intelligence statunitense sospettaval’esistenza di un programma nucleare segretoiraniano, ma le prove erano quasi interamenteindiziarie, highly classified, o entrambe le cose.Questo rese pressoché impossibile per Washin-gton ottenere allora un largo sostegno interna-zionale agli sforzi diplomatici volti a fermare ilprogramma iraniano, e persino di condurre trat-tative costruttive con il regime di Teheran.

L’ingresso degli EU3 nel gioco diplomaticoNel 2002 le cose cambiano: le attività segreteiraniane relative al ciclo del combustibile ven-gono pubblicamente rivelate e ciò cambia pro-fondamente l’atteggiamento della comunitàinternazionale o, almeno, di una parte impor-tante di essa. Da questo momento in poi, GranBretagna, Francia e Germania (il cosiddettoEU-3), insieme all’Agenzia Internazionale perl’Energia Atomica (International AtomicEnergy Agency - IAEA), cominciano a giocareun ruolo diplomatico molto più attivo nella par-tita sul nucleare iraniano1. L’IAEA conduce li-mitate ispezioni negli impianti iraniani fino adallora segreti, e trova prove ulteriori del tenta-tivo iraniano di nascondere siti e attività non di-chiarati relativi al ciclo del combustibilenucleare.A fine 2003, il terzetto europeo persuade il go-verno del Presidente Mohammad Khatami a so-

spendere il suo programma di arricchimento nu-cleare e a accettare il Protocollo Addizionaledell’NTP. Inoltre, la comunità di intelligenceamericana afferma che nell’autunno del 2003Teheran ha fermato il suo programma segretoper la ricerca e sviluppo di ordigni nucleari, manon quello relativo ai sistemi per il ciclo delcombustibile nucleare, come le centrifughe, ne-cessarie per produrre il materiale fissile poten-zialmente impiegabile per una bomba. Tuttavia,i servizi di intelligence britannici sostengonoche, sebbene l’Iran abbia davvero interrotto leattività per costruire la bomba nel 2003, questesono poi riprese. In sintesi, le prove indiziariesuggeriscono che Teheran ha quanto menocome fine quello di sviluppare una capacità diarmamenti nucleari. Probabilmente, la presenzamilitare americana e della NATO in Afghani-stan, ovvero sul confine orientale dell’Iran, equella statunitense in Iraq, sul confine occiden-tale iraniano, sono state un fattore importantenelle decisioni nucleari di Teheran nel periodo2003-2004.Malgrado i buoni risultati del terzetto europeonel 2003, due anni dopo l’elezione del presi-dente Mahmoud Ahmadinejad, l’accordo EU-3con il governo iraniano collassa.Nel 2009 Teheran comunica all’IAEA l’esi-stenza di un nuovo impianto per l’arricchimentodell’uranio a Fordow, vicino la città santa diQom. In realtà questo sito era già stato scopertodall’intelligence occidentale. La IAEA ritieneche le operazioni di arricchimento dell’uraniosono cominciate in tale impianto nel dicembre2011, che lo scopo della centrale è di arricchirel’uranio oltre la concentrazione del 5% dell’U-235 raggiunta presso l’impianto di Natanz, eche vi sono in corso lavori di ampliamento perinstallare nel sito oltre tremila centrifughe.L’impianto di Fordow è meglio protetto diquello di Natanz e dunque meno a rischio di es-sere distrutto da attacchi aerei o missilistici, ma-

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gari di provenienza israeliana, come temono gliIraniani.

La situazione odiernaOggi, al contrario degli anni ‘90, secondo gliesperti americani del Council of Foreign Rela-tions autori dello studio “Iran: the NuclearChallenge” di recente pubblicazione2, esisteun’ampia, diretta evidenza dei tentativi iranianidi ingannare la comunità internazionale, in vio-lazione del NTP e degli accordi di salvaguardiacon l’IAEA, circa lo sviluppo di capacità nu-cleari dual-use pertinenti al ciclo del combusti-bile nucleare. In sostanza, Teheran starebbecercando di nascondere il più a lungo possibilei suoi piani per ottenere la bomba, sviluppandoal contempo programmi nucleari duali ovverocon ricadute e applicazioni finali possibili sianel campo civile che in quello militare. Comun-que, non ci sono informazioni pubbliche uffi-ciali circa i concreti sforzi iraniani di costruirearmi nucleari.La centrale di Bushehr ha cominciato a operaresotto stretto controllo dell’IAEA nel 2010, gra-zie al successo della diplomazia americana neiconfronti di Mosca, fornitore ufficiale di tecno-logia nucleare per scopi pacifici all’Iran. Il con-tributo diretto di Bushehr al programmanucleare militare iraniano è modesto perché nonc’è possibilità che una quantità significativa dimateriale fissile utilizzabile per costruire labomba possa essere spostata da Bushehr senzache la Comunità internazionale non se ne ac-corga con largo anticipo.Oltre a Bushehr, l’Iran ha dichiarato 14 impiantinucleari e nove siti non inclusi in quelle instal-lazioni dove la ricerca nucleare viene condottasotto lo stretto controllo della IAEA. Da uno deipiù recenti report dell’Agenzia Internazionaleper l’Energia Atomica si ricava che Natanz con-tiene 9.156 centrifughe. Non tutte però sonooperative: combustibile nucleare viene im-

messo per essere arricchito in 8.088 centrifu-ghe. Lo stesso rapporto dell’IAEA afferma chel’Iran possiede 5.451 chilogrammi di uranio ar-ricchito al di sotto del 5%. Tutte le centrifughepresenti a Natanz sono del vecchio modello IR-I, ma si sa che Teheran ha sperimentato anchemacchine più avanzate. Sebbene sia chiaro che l’Iran si è focalizzatosull’arricchimento dell’uranio come base dellasua capacità di produzione di materiale fissile,non ha rinunciato al plutonio, l’altro materialefissile comunemente usato negli ordigni nu-cleari. Gli impianti per la produzione di acquapesante a Esfahan e la quasi completa centralead Arak stanno lì a dimostrarlo. Nonostante lacrescente l’attenzione della comunità interna-zionale sulle capacità di arricchimento dell’ura-nio di Teheran, gli scienziati iraniani stannocercando di diversificare le opzioni nucleari delproprio Paese, al fine di offrire al decisore po-litico molteplici vie per acquisire la capacità dicostruire ordigni nucleari.Tuttavia, sin dal 2007, i servizi di intelligencestatunitensi affermano che non ci sono proveche il Leader Supremo Ali Khamenei abbia giàpreso la decisione finale di costruire tali armi didistruzione di massa; però è chiaro che sta atti-vamente accumulando risorse e tecnologie ne-cessarie per poter compiere questa scelta. Comeha dichiarato James Clapper, direttore del Na-tional Intelligence americano, nel corso dellasua testimonianza davanti al Senate SelectCommittee on Intelligence nel febbraio 2012,gli Iraniani “si stanno certamente muovendoverso quella direzione, ma non riteniamo cheessi abbiano davvero preso la decisione di an-dare avanti con un ordigno nucleare”3. Sebbene l’acquisizione delle capacità relativeal ciclo del combustibile possa essere giustifi-cata da Teheran con l’argomentazione legaleche l’Iran ha diritto ad usufruire dei beneficidella tecnologia nucleare per scopi pacifici,

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quello che non convince è che l’Iran ha sceltodi procedere in segreto e spesso in violazionedegli impegni presi con l’IAEA.

La questione chiaveLa questione chiave di tutto il discorso sull’Iranè la seguente: quanto tempo è necessario a Te-heran per dotarsi di ordigni nucleari? La rispo-sta a tale quesito ne presuppone altri due: qualisono i reali obiettivi iraniani in termini di ordi-gni nucleari, e come Teheran procederà a dise-gnare e costruire il proprio arsenale atomico?.Prima di andare avanti occorre fare un paio diprecisazioni. Innanzitutto, ogni Paese è teorica-mente in grado di dotarsi di ordigni nucleari. Al-cuni Stati, il Giappone per esempio, grazie alleloro avanzate strutture e capacità atomiche ci-vili, avrebbero bisogno soltanto dei tempi tec-nici per assemblare la bomba. Altri Paesi comel’Arabia saudita, l’Egitto, la Nigeria o il Brasilenon hanno tali strutture e capacità, dunqueavrebbero molta più strada da fare, ma certa-mente alla fine anche loro arriverebbero a de-stinazione. L’Iran si trova in mezzo a questi duegruppi. In effetti, a nessun Paese è preclusa la possibilitàdi dotarsi di ordigni nucleari, se davvero lovuole. Dunque, il giusto criterio per giudicaregli accordi di non proliferazione e di disarmonon è tanto se essi eliminano l’opzione di acqui-sire armi atomiche, il che è impossibile, mapiuttosto di quanto gli stessi estendono il temponecessario per realizzare tale opzione. In secondo luogo, quando uno Stato decide dicostruire ordigni nucleari, esso deve prenderediverse e importanti decisioni riguardo al tipo,numero e qualità di tali ordigni; tali decisionidetermineranno non solo quando il Paese potràacquisire una capacità nucleare, ma pure di chespecie essa sarà. La storia ci offre circa due dozzine di esempi diPaesi che hanno sviluppato tali armi di distru-

zione di massa, hanno considerato di farlo, o lostanno facendo adesso. Ciò che appare chiaro èche ciascuna nazione decide autonomamente,prendendo decisioni basate sulle sue capacità erisorse, sul contesto strategico, sulla politica in-terna, e imparando dagli altri. Detto questo, in estrema sintesi la risposta alladomanda iniziale - quanto tempo occorre al-l’Iran per armarsi nuclearmente – è duplice: • se Teheran aspira ad avere solo poche testatenucleari, ma nel più breve tempo possibile, oc-correrà circa un anno, una volta che la decisionesia presa; • se invece il governo iraniano ha orizzonti tem-porali e ambizioni più grandi, diciamo 100 or-digni nucleari accoppiati con i vettori necessariper consegnarli, occorreranno almeno 10 anni,una volta che la decisione è stata presa.Costruire un ordigno nucleare richiede a unoStato di portare a compimento una complessaserie di attività tecniche, e dopo, di integrarlecoerentemente tra loro. Questi possono esseresvolti contemporaneamente, il che è più difficilee può condurre più facilmente all’errore, oppurein ordine sequenziale. Pertanto decidere di ral-lentare il progresso in un’area specifica del pro-gramma, per dedicare più tempo e risorse adaltre, non solo non è negativo, ma, anzi, puòpermettere di raggiungere meglio e più veloce-mente l’obiettivo finale. Questo ci svela un aspetto importante e contro-intituitivo inerente alle policy di non-prolifer-azione: la pressione diplomatica internazionaleche abbia come obiettivo di sospendere solo unparticolare aspetto del programma nucleare ira-niano potrebbe non avere alcun effetto ai fini diestendere i tempi necessari a Teheran per ac-quisire armi di distruzione di massa, anzi para-dossalmente potrebbe accorciarli.

La dimensione internaNaturalmente, la crisi iraniana non ha solo una

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dimensione internazionale, ma pure una interna,molto importante, per cui è essenziale compren-dere le motivazioni e le aspirazioni delle varieelite che influenzano la questione. A livello gov-ernativo, negli ultimi sette anni chiaramente ilPresidente Ahmadinejad, ma non solo lui, hafatto del tema nucleare una questione di sovran-ità nazionale e di grandeur. In realtà le ragioniprofonde della posizione iraniana vanno ricer-cate nella difficile situazione strategica dell’I-ran, circondato da Paesi potenzialmente ostili,e con pochi amici, soprattutto ora che l’alleatosiriano è in preda ai suoi demoni; nel sentirsierede e custode di un Impero persiano mil-lenario, nonché il baricentro dell’Islam sciita;infine, nelle molteplici divisioni interne a polit-ica e società iraniane. Per quanto concerne l’elite degli scienziati, lastoria del programma nucleare iraniano è unica:di fatto l’Iran non ha padrini atomici, ma stafacendo tutto da solo, o quasi. Non è stato cosìper la maggior parte dei Paesi nuclearizzati: laRepubblica popolare cinese ha ottenuto dall’U-nione Sovietica non solo consigli ma pure imezzi per costruire un reattore nucleare, i dis-egni tecnici per gli ordigni e persino una forni-tura di missili balistici. A sua volta la Cina hafornito al Pakistan abbastanza uranio arricchitoper due bombe, lo ha aiutato nella costruzionedelle centrali per l’arricchimento e per il pluto-nio, e ha fornito i disegni tecnici. Israele ha rice-vuto dalla Francia un reattore nucleare, impiantiper ri-processare il plutonio e i progetti per gliordigni. Persino lo Stato pariah del Sud Africapre-Mandela ricevette tritio, cruciale per l’es-plosione di ordigni termonucleari da Israele. L’Iran, al contrario - sebbene abbia ricevuto as-sistenza russa per il suo reattore ad acqua leg-gera, difficile da utilizzare per scopi diversi daquelli civili, e centrifughe rudimentali dal net-work pakistano di A. K. Khan – non ha maidavvero goduto del patrocinio internazionale

dei Paesi summenzionati. Ancora più impor-tante, nessuno Stato si è dovuto confrontare consistematici tentativi di distruggere il proprioprogramma nucleare attraverso la negazionedella tecnologia e delle risorse necessarie, iripetuti cyber attack con virus informatici di ul-tima generazione e persino l’uccisione di scien-ziati coinvolti nel programma. Malgrado ciò,l’Iran ha superato da solo molteplici ostacoli, econtinua a farlo. Tutto questo indica che le capacità tecnico-sci-entifiche iraniane non vanno sottovalutate.Negli anni ‘80 per varie cause, non ultimi laRivoluzione khomeinista e la guerra con l’Iraq,le scienze non hanno avuto vita facile in Iran.Però da allora molte cose sono cambiate: oggiè impressionante il numero di pubblicazioni sci-entifiche universalmente riconosciute ad operadi scienziati iraniani e molte università iranianehanno sufficienti risorse per offrire i propri corsidi dottorato. Inoltre, i fisici nucleari iranianiodierni non ricordano tanto il sovieticoSakharov, scienziato pacifista, dissidente e at-tivista per il disarmo nucleare, ma piuttosto fer-venti nazionalisti disinteressati alla lotta politicainterna e pronti a fornire al proprio Paese ilmeglio del sapere, anche a scopi bellici. Para-dossalmente, ma non troppo, le sanzioni e l’iso-lamento internazionale dell’Iran, l’esclusionedegli accademici iraniani dai progetti sponsoriz-zati dall’occidente, hanno avvicinato l’elite sci-entifica a quella politica. Si è creata unacollaborazione virtuosa, dal punto di vista ira-niano, tra gli scienziati che forniscono laconoscenza e la classe dirigente che dà loro lerisorse necessarie per permettere alla Patria diraggiungere i più alti traguardi tecnico-scien-tifici, ordigni nucleari inclusi. Questo discorsovale non solo per l’elite scientifica, ma ancheper altri settori della società iraniana: le sanzionie l’ostracismo imposti dalla comunità inter-nazionale potrebbero, se protratti troppo a lungo

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nel tempo, avere l’effetto in-intenzionale di raf-forzare l’attuale regime e di far dimenticare agliIraniani i molti errori da esso compiuti. In-somma, le sanzioni rischiano di essere non soloinefficaci, ma persino contro-producenti nellungo periodo, come nel caso dell’Italia fascistaper l’invasione dell’Etiopia (1935-36). Co-munque, per ora, esse sembrano in grado dicolpire duramente l’Iran, almeno dal punto divista economico.

Conclusioni Per i precedenti regimi iraniani, il possesso diarmi nucleari poteva essere un semplice mezzodi deterrenza, ma per l’attuale regime esso rap-presenta lo strumento principe per raggiungereil fine geopolitico dell’egemonia dell’Iran sullaregione. Teheran è particolarmente sensibile atutto ciò che percepisce come una minaccia allasua sovranità nazionale; questo è dovuto allasua lunga storia di oggetto dell’interventostraniero sul suo territorio e l’imposizione dicapitolazioni. Dal punto di vista iraniano, il suoprogramma nucleare e l’identità nazionale sonoormai una cosa sola, pertanto il compromesso el’acquiescenza sono da rigettare, in linea diprincipio.Naturalmente, questo avviene con diversegradazioni e tatticismi all’interno del regime ira-niano. I più duri sono all’interno dell’elite deiGuardiani della Rivoluzione, i quali rifiutanoqualsiasi negoziazione con la comunità inter-nazionale, in particolare con gli USA, e spin-gono per portare a compimento al più presto ilprogramma nucleare senza alcuna concessione.Tuttavia, l’arbitro finale della questione resta ilLeader Supremo Khamenei. Sinora questi ha se-guito con successo un approccio diplomaticogradualista e giudizioso: ogni volta è riuscito aspuntare ulteriori importanti concessioni per ilprogramma atomico iraniano, senza mai

rompere completamente con la comunità inter-nazionale e con l’NPT. I risultati sono che le in-frastrutture si sono ampliate, alcune linee rossetracciate dagli occidentali sono state superate;ma il prezzo da pagare è l’isolamento inter-nazionale e una pesante situazione economico-sociale all’interno. Potrà durare questa strategiadi tirare la corda fino a un attimo prima di spez-zarla? E che cosa farà Israele? Un attacco aereoo missilistico sui siti nucleari iraniani è menoprobabile oggi, dopo il re-insediamento allaCasa Bianca di Obama, risolutamente contrarioa questa opzione. Tuttavia, c’è sempre il rischioche Gerusalemme riesca a trascinare Washing-ton sulle sue posizioni, oppure che la crisi siri-ana degeneri in un conflitto regionale. Mai darenulla per scontato. In conclusione, l’Iran oggi può essere descrittocome un Paese determinato a: preservare per sél’opzione di acquisire armi nucleari nel futuro;a ridurre il più possibile il tempo necessario percostruire tali armi, una volta che la decisione siastata presa, attraverso lo sviluppo di capacitàatomiche dual-use nel presente; infine a ri-pararsi dalla pressione internazionale dietro loscudo del NPT, in particolare la clausola deldiritto di accesso alla tecnologia nucleare perscopi pacifici. Dall’altra parte il punto centrale è che per la co-munità internazionale, Stati Uniti inclusi, è pos-sibile solo contenere il programma nucleareiraniano, rallentarlo, ma non annullarlo comple-tamente. La strategia internazionale può dunqueessere solo di containment e non di roll-back,nella speranza che i tempi mutino a sfavore del-l’attuale regime iraniano. Qualsiasi decisionepolitico-diplomatica deve dunque sempre tenerpresente questo presupposto al fine di ottenereil miglior risultato al minor prezzo. In attesa deldodicesimo Imam.

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1 Questi tre Paesi europei, insieme a Cina, Russia e Stati Uniti formano il gruppo negoziale cosiddetto 5+1,ovvero i 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, oltre la Germania.2 Cfr. E. Abrams, R. D. Blackwill (editor), R. M. Danin, R. A. Falkenrath, M. L. O’Sullivan, R. Takeyh,Iran: The Nuclear Challenge, Council on Foreign Relations Press, June 2012.3 Cfr. J. Risen, Mark Mazzetti, U.S. Agencies See No Move by Iran to Build a Bomb, New York Times, Feb-ruary 24, 2012.

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Titolo: Criteri per un giusto bilanciamento fra efficacia dello strumento militare e costi per l'implementazione delle nuove tecnologie.

Autore: Andrea Locatelli

T.Col. Volfango Monaci

Edizione: 2012Editore: Centro Militare di Studi Strategici Prezzo: Disponibile gratuitamente, all'indirizzo web:http://www.difesa.it/SMD/CASD/Istituti_militari/CeMISS/Pubblicazioni/News206/2012-03/Pa-gine/locatelli.aspx

Alla luce degli scenari in cui vengono attualmente impegnate le Forze Armate, il ruolo degliarmamenti che richiedono un costo di esercizio elevato si rivela insostenibile a lungo termine.

D'altro canto la necessita' di sviluppare edotarsi di tecnologia allo stato dell'arte,applicandola ai nuovi sistemi d'arma,garantisce la necessaria deterrenza che unanazione avanzata deve perseguire peressere preparata ad un conforonto ''forceon force''. Il Rapporto di Ricerca offre al lettoreinteressato all’efficacia dello strumentomilitare una serie di punti di vista perconsentire una percezione ''stereoscopica''della tematica: a seconda delle diverseprospettive si otterranno dissimili criteridi ottimalita'. Ciascuno di questi valido(a_seconda degli ambiti ) ma nessuno deiquali, da solo, capace di fornire al decisoreesaustive ed imperative ragioni, perlomenonon in ogni circostanza.

I criteri che dovrebbero determinare il giusto bilanciamento, fra efficacia dello strumento militaree costi per l'implementazione delle nuove tecnologie, dovranno partire necessariamente dal livellodi ambizione del Paese, senza trascurare le considerazioni inerenti le ricadute che le nuovetecnologie sviluppate per il settore militare possono avere in ambito industriale.

Il Rapporto di Ricerca, che richiede lo sforzo di una partecipata lettura, nonche' una preparazionedi livello elevato, nei primi capitoli esamina, illustra e spiega:- le logiche sfumate (''fuzzy'') che mimano alcuni modi di pensiero umano;

- le reti neuronali artificiali, che mimanoil funzionamento biologico;- gli algoritmi genetici, che mimano laselezione del piu' adatto;- i modi per combinare queste''simulazioni'';- una implementazione, riferita allagestione di un territorio.Nella parte specialistica, l'autore esponenel dettaglio un Motore Computazionale,mostrandone componenti, logicheimplementative, funzionamenti (a livellodi macrostati e microstati) e ''risposte'',con l'ausilio di diagrammi ove il ricorso

alla terminologia termodinamica (energia-entropia) permette di riconoscere le ''regioni'' ed i''percorsi'', scegliendo tra diverse opzioni di possibili ottimalita' alternative.

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RECENSIONE

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Titolo: Sistemi di Supporto alle Decisioni basati su metodologie avanzate di piani-ficazione, (modelli matematici della complessita’, soft-computing) per usidi Stato Maggiore.

Autore: Prof. Gerardo Iovane

T.Col. Volfango Monaci

Edizione: 2012Editore: Centro Militare di Studi StrategiciPrezzo: Disponibile gratuitamente, all'indirizzo web:http://www.difesa.it/SMD/CASD/Istituti_militari/CeMISS/Pubblicazioni/News206/2012-04/Pagine/iovane.aspx