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L’ALIMENTAZIONE NELLA BIBBIA INTRODUZIONE Oggetto: Il sostantivo femminile alimentazione deriva dal latino alimentum, derivato di alère = nutrire. In fisiologia, con esso s’intende il processo che fornisce l’energia essenziale allo svolgimento dei processi metabolici e il materiale plastico necessario alla ricostruzione di parti corporee usurate o vecchie. L’alimento è la sostanza solida e liquida che un essere vivente ingerisce allo scopo di nutrirsi. Il valore di un alimento è in relazione al numero di calorie che è in grado di sviluppare quando sia completamente ossidato. Il sostantivo maschile cibo deriva dal latino cibus. Esso ha una certa analogia con il greco kíbos = sacco di provviste, ma senza alcun preciso riferimento se non di semplice omofonia. Con il termine generico cibo sono compresi tutti i prodotti vegetali e animali consumati dall’essere umano per sopravvivere. Il sostantivo femminile Bibbia deriva dal greco biblía = libri. La Bibbia è il libro sacro che raccoglie tutti i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento. Nel canone cattolico sono presenti 46 libri dell’Antico e 27 del Nuovo Testamento, compresi i deuterocanonici, esclusi nella Bibbia ebraica. I comportamenti di gruppo costruiti intorno al nutrimento agiscono e sono agiti in base all’appartenenza religiosa, la quale impone al credente di accettare consapevolmente tabù e digiuni. Questa dimensione esalta il valore dell’alimento come strumento di relazione, divenendo un nodo centrale di una vasta rete 1

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L’ALIMENTAZIONE NELLA BIBBIA

INTRODUZIONE

Oggetto: Il sostantivo femminile alimentazione deriva dal latino alimentum, derivato di alère =

nutrire. In fisiologia, con esso s’intende il processo che fornisce l’energia essenziale allo

svolgimento dei processi metabolici e il materiale plastico necessario alla ricostruzione di parti

corporee usurate o vecchie.

L’alimento è la sostanza solida e liquida che un essere vivente ingerisce allo scopo di nutrirsi. Il

valore di un alimento è in relazione al numero di calorie che è in grado di sviluppare quando sia

completamente ossidato.

Il sostantivo maschile cibo deriva dal latino cibus. Esso ha una certa analogia con il greco kíbos =

sacco di provviste, ma senza alcun preciso riferimento se non di semplice omofonia. Con il termine

generico cibo sono compresi tutti i prodotti vegetali e animali consumati dall’essere umano per

sopravvivere.

Il sostantivo femminile Bibbia deriva dal greco biblía = libri. La Bibbia è il libro sacro che

raccoglie tutti i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento. Nel canone cattolico sono presenti 46

libri dell’Antico e 27 del Nuovo Testamento, compresi i deuterocanonici, esclusi

nella Bibbia ebraica.

I comportamenti di gruppo costruiti intorno al nutrimento agiscono e sono agiti in base

all’appartenenza religiosa, la quale impone al credente di accettare consapevolmente tabù e digiuni.

Questa dimensione esalta il valore dell’alimento come strumento di relazione, divenendo un nodo

centrale di una vasta rete concettuale, che agevola la connessione con Dio. Il cibo è marcatore

sociale e religioso, è sia metafora della vita sia metafora dell’aldilà, dell’incontro finale con Dio. Le

religioni ci offrono la persuasione che con il cibo l’essere umano, servendosi della natura, può

conoscere i suoi fratelli e amare Dio.

A differenza di altre grandi religioni, quella cristiana cattolica non conosce alcun espresso divieto

o precetto alimentare in senso stretto. Nonostante ciò, il cristianesimo costruisce la propria identità

attorno alla parola cena (l’”ultima cena”), al pane e al vino, che alla cena di Gesù rimandano in

maniera diretta, nonché alla preghiera del «pane quotidiano». Pertanto, il tema dell’alimentazione

nella Bibbia non è indifferente e anzi esprime un tratto dell’identità cristiana.

Scopo: Questo scritto si prefigge di mostrare la ricchezza dei temi teologici e antropologici che si

condensano attorno all’immagine del mangiare e del bere nella Bibbia. Indubbiamente il testo sacro

non è un libro né di cucina né tanto meno di dietetica. In ogni modo, conoscere come si è alimentata 1

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l’umanità nelle vicende presentate nel testo sacro, è utile per capire abitudini e comportamenti.

Tuttavia non potremmo basarci sul nostro consumo di un determinato cibo, sulla considerazione che

anche nell’antichità lo mangiavano. La nostra alimentazione implica delle scelte, che sono anche

frutto della nostra particolare sensibilità, condita con il piacere e la gratificazione; ma tali scelte

hanno anche delle implicazioni etiche, che non si possono disattendere (uccisione d’animali).

Struttura: La nostra analisi s’articolerà all’inizio spiegando il significato del mangiare e del bere,

del digiuno e dell’astinenza nella Bibbia. La nostra attenzione così sarà rivolta altresì a cogliere i

passaggi tra l’antica e la nuova alleanza. Quindi seguirà l’analisi sul percorso storico, prima il

consumo di cibo nell’Antico Testamento, a partire dalle prime vicende dell’umanità presentate nel

testo sacro. Poi si procederà alla menzione del cibo nel Nuovo Testamento, mai dimenticando il

valore simbolico a esso legato.

Per i riferimenti ai salmi, ci si è attenuti alla numerazione liturgica o greco-latina.

Saremo grati a quanti vorranno segnalarci eventuali inesattezze, imprecisioni, nonché modifiche

da apportare al testo. 

1. Mangiare

  1.1. Nell’Antico Testamento

 

Nell’Antico Testamento, abbiamo il verbo ebraico ‘ākal = mangiare, prendere cibo, si dice di un

uomo (cfr. Gn 3,6), di un animale (cfr. Gn 40,17); ciò che si mangia, cioè il nutrimento (cfr. Gn 6,

21), per esempio i frutti di un albero (cfr. Lv 19,23), il pane (cfr. Es 13,3.7; Nm 28 17; Ez 45, 21), il

pane e la carne offerta in sacrificio (cfr. Es 29, 34; Lv 6,9-11); animale puro, cioè che si può

mangiare (cfr. Lv 11,47); impuro, ossia che non si può mangiare (cfr. Lv 11,13); mangiare di fronte

al Signore, si dice del pasto sacro, che accompagna un sacrificio, consumato al tempio; si pensava

che gli dèi mangiassero il grasso degli animali bruciato sull’altare; mangiare di ogni albero del

giardino dell’Eden, indica ricevere da Dio tutto ciò che occorre per vivere (cfr. Gn 2,16); mangiare,

ovvero prendere un pasto; dare da mangiare, per esempio della manna, dell’acqua e del pane a un

prigioniero, al proprio nemico; far bere la cicuta agli adoratori dei baal.

Mangiare è segno di prosperità, di benedizione, di gioia, di ricchezza; mangiare e bere significa

godere della vita (cfr. Qo 2,24; 5,17); la mancanza di cibo è, al contrario, segno di sfortuna, di

maledizione; in caso di tristezza, di cordoglio, ci si astiene volontariamente dal prendere cibo =

digiuno.

In senso figurato,‘ākal significa mangiare la felicità, cioè gustarsela; mangiare un libro, la parola

di Dio, ossia leggerla, ascoltarla; mangiare il denaro, significa spenderlo spensieratamente;

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mangiare, divorare, distruggere; si dice di un animale, del fuoco che consuma le offerte sull’altare;

mangiare, divorare un popolo, ovvero sterminarlo; nell’identico significato: mangiare la carne di

qualcuno significa farlo morire. Nel senso figurato, il verbo mangiare ha sovente il significato di

assimilare, ossia fare proprio: non si possiede veramente se non quello che si è consumato (cfr. Gn

3,1ss; Ez 3,1ss). Inoltre, la comunione a tavola si stabilisce grazie la partecipazione di tutti allo

stesso cibo.

 

1.2. Nel Nuovo Testamento

Nel Nuovo Testamento, abbiamo i verbi greci esthíō, fágomai = mangiare, si dice di un uomo, di

un animale; mangiare, per esempio il pane che si è guadagnato, il frutto di un albero, della carne, in

particolare della carne sacrificata agli idoli, i pani dell’offerta, la manna, un animale impuro, le

briciole che cadono dalla tavola di un ricco, la Pasqua, la cena del Signore, il pane spezzato;

mangiare pane, cioè prendere cibo; mangiare con qualcuno, davanti a lui, cioè in sua presenza (cfr.

Lc 13,26), alla sua tavola; il diritto di mangiare e di bere, per Paolo consiste nel diritto di essere

sostenuto dai membri della comunità; fare un pasto significa essere nella gioia (cfr. Lc 12,19), si

dice in particolare di Gesù (cfr. Mt 11,19; Lc 5,33; 7,34), in contrapposizione a Giovanni Battista

che non mangiava né beveva in segno d’afflizione dinanzi al giudizio imminente (cfr. Mt 11,18; 3,4;

9,14; non mangiare significa sottoporsi al digiuno (cfr. Lc 4,2); dare da mangiare a qualcuno (cfr.

Gv 6,52). 

In senso figurato, mangiare dell’albero della vita (cfr. Ap 2,7); essere consumato dallo zelo per la

casa di Dio (cfr. Gv 2,17); divorare dal fuoco, cioè giudicare (cfr. Eb 10,27); il verbo

greco katesthíō significa mangiarsi una casa, un uomo, ossia saccheggiare, rubare (cfr. Mc 12,40);

divorarsi l’un l’altro, cioè distruggere completamente la vita della comunità cristiana con l’odio e

con i litigi (cfr. Gal 5, 15).

Infine troviamo il verbo greco trōgō = mangiare (cfr. Mt 24,38); in Gv, mangiare il pane di

qualcuno (cfr. Gv 13,18); il pane = Cristo (cfr. Gv 6,58), la sua carne (cfr. Gv 6,54.56), Cristo stesso

(cfr. Gv 6,57)1.

1 Cfr. B. GILLIÈRON, Mangiare, in ID., Lessico dei termini biblici, Elle Di Ci Editrice, Leumann (To) 1995, 139-140.

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2. Bere

 

Il termine acqua compare 660 volte nella Bibbia, di cui 580 nell’Antico e 80 nel Nuovo

Testamento.

Nell’Antico Testamento, abbiamo il sostantivo ebraico māyim, solo al plurale per indicare le

acque. L’acqua è liquido di vitale importanza, soprattutto in Oriente; da qui i suoi molteplici

significati simbolici. Si credeva che l’acqua avesse origine nelle acque di sopra trattenute dal

firmamento e che cadevano sulla terra attraverso una serie di aperture presenti nei cieli (cfr. Gn 1,7;

Sal 103,3; 147, 4; Dn 3,60), oppure nelle acque di sotto contenute nell’abisso su cui riposa la terra e

da cui fuoriesce per via delle sorgenti (cfr. Gn 7,11; Dt 8,7; 33, 13; Ez 31,4). In senso figurato

l’acqua è indice di purezza.

Nel Nuovo Testamento, abbiamo il sostantivo greco húdôr, per indicare il liquido che serve per

dissetarsi (cfr. Mc 9,41), a lavarsi, a purificarsi (cfr. Gv 13, 5). L’acqua del battesimo è intesa come

un bagno di purificazione o come un affogamento, cioè morte con Cristo (cfr. Rm 6,3-14)2.     

L’altra bevanda comune era il vino. Nell’Antico Testamento, abbiamo il sostantivo greco yayin =

vino, chiamato alcune volte sangue dell’uva; casa del vino, ossia cantina, sala da bere (cfr. Ct 2,4);

coppa di vino inebriante, chiamato pure vino dell’ira o coppa dell’ira, come simbolo dell’ira del

giudizio che Dio fa bere sino alla feccia a coloro che colpisce (cfr. Is 29,9-10). Il vino in Israele è

segno della gioia, della benedizione che Dio dona al suo popolo e gli donerà alla fine, dell’alleanza

che ha concluso con lui; da qui l’offerta del vino nell’olocausto quotidiano e le libagioni; il vino è

così legato alla vita (cfr. Gn 2,9); aver pane e vino significa non mancare di nulla per vivere,

offrirgli, cioè dare ospitalità (cfr. Gn 14, 18). 

Nel Nuovo Testamento, abbiamo il sostantivo ôinos = vino, il quale fa parte assieme all’olio e al

grano degli alimenti di prima necessità per assicurare la sopravvivenza, usato con il fiele come

calmante, oppure con l’olio come unguento terapeutico; è la bevanda della festa (cfr. Gv 2,3ss). Il

vino nuovo è l’immagine del vangelo proclamato da Gesù e che non si può mettere in otri vecchi. Il

Figlio di Dio, diversamente da Giovanni Battista che non beveva nulla, passava per un mangione e

un beone, espressione di gioia dei tempi nuovi inaugurati da Gesù (cfr. Mt 11,19; Lc 7,34). In senso

figurato, vino dell’ira della prostituzione, si dice di Babilonia, simbolo di Roma, mondo ostile, che

scatenerà contro di essa l’ira di Dio (cfr. Ap 14,8; 18,3).

2 Cfr. Ib., “Acqua”, 13-14.4

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3. Pasto

3.1. Nell’Antico Testamento

 

   Nell’Antico Testamento, abbiamo il termine pane per indicare il pasto (cfr. 1Sam 20,27; Qo 10,

19); mangiare cioè prendere un pasto, mangiare pane con lo stesso significato (cfr. Gn 37,25).

Troviamo il verbo ebraico mišteh, letteralmente gran bevuta, da šātāh = bere. Esso indica il

banchetto, il festino, con l’idea di gioia straripante, talvolta in senso negativo; così Dio, per

vendicare il suo popolo esiliato a Babilonia, prepara apposta per i suoi nemici un banchetto in cui li

renderà ubriachi fradici, ossia eserciterà contro di loro un giudizio (cfr. Ger 51,39); si dice in

particolare, in un unico testo tardivo forse del III sec. a.C., del banchetto messianico della fine dei

tempi (cfr. Is 25, 6).

Nell’Antico Testamento, il pasto è un atto di altissima rilevanza sociale:

a) il pane condiviso assicura la vita e la sopravvivenza dell’uomo in un mondo sovente ostile;

b) il riunirsi in famiglia attorno alla tavola crea comunione d’intimità e di convivialità tra i

partecipanti, sia che essi siano fratelli di sangue o meno; la comunione di mensa è comunione di

vita;

c) ogni avvenimento importante era di solito suggellato da un pasto; in particolare i banchetti

sacri che accompagnavano le feste, i sacrifici nelle religioni cananee, oppure presso gli israeliti al

momento di un olocausto, di un’offerta di prodotti della terra, di un sacrificio per il peccato o di

pace, in occasione della Pasqua, della visita di un messaggero di Dio, del ritorno dell’arca a

Gerusalemme, della consacrazione di un sacerdote, di un profeta, di un re; banchetto di alleanza

(cfr. Gn 26, 30; 31,54; Es 13,11; Is 4,4).

 

3.2. Nel Nuovo Testamento

 

Nel Nuovo Testamento, abbiamo i verbi greci esthíō, fágomai = mangiare, prendere un pasto (cfr.

1Cor 11,21); mangiare pane con l’identico significato; rallegrarsi festeggiando.

Il sostantivo greco agápē = letteralmente amore, da cui l’italiano agape. Esso indica il pasto

fraterno fatto insieme dai cristiani, sovente turbato dagli accessi della tavola a cui conducevano i

falsi profeti.

Poi troviamo il greco áriston = letteralmente il migliore; il verbo greco aristáō significa fare

colazione. La colazione era il pasto del mattino e del mezzogiorno (cfr. Lc 11,38; 14,12).

   Il verbo greco dêipnon, dalla radice dep = mangiare, verbo deipnóō significa fare cena. Cenare =

pasto del mezzogiorno o della sera; cena del Signore, letteralmente signorile (cfr. 1Cor 11,20; Lc

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22,20); banchetto del regno di Dio (cfr. Lc 14,22ss; Ap 19,9.17).

Tra i quattro evangelisti, Luca è quello che sottolineò con maggior insistenza i pasti di Gesù nel

corso del suo ministero (cfr. Lc 5,29); egli è l’unico a riferirci che tutte le apparizioni di Gesù

risorto hanno avuto luogo nel contesto di un pasto; Luca così sottolineò la comunione di vita che

aveva unito Gesù ai suoi discepoli e a tutti coloro che l’avevano accolto, compresi i peccatori;

inoltre, il contesto del pasto gli consentì di situare l’insieme del ministero di Gesù, nella speranza

del grande banchetto della fine dei tempi, al quale Dio invierà tutti i popoli (cfr. Lc 13,29); ora

accade che questo banchetto del regno non era più solamente l’oggetto di una lunga attesa; esso era

divenuto realtà, grazie all’anticipazione, tutte le occasioni che Gesù aveva presieduto una cena; lo

diventa in modo simile, oggi, quando viene celebrata la cena del Signore. Questa (il sostantivo cena

deriva dal latino cena, che era il pasto principale dei romani che si consumava verso la metà del

pomeriggio) era il pasto che riuniva i primi cristiani in una casa particolare, all’inizio

probabilmente ogni giorno o in qualsiasi giorno (cfr. At 2,46), in seguito il primo giorno della

settimana (cfr. At 20,7) chiamato giorno del Signore sotto l’influenza della formula cena del

Signore (cfr. Ap 1,10; 1Cor 11,20); tale pasto comunitario fu, assieme al culto della sinagoga, una

delle fonti del culto cristiano; da qui, in Luca, l’espressione rompere il pane o frazione del pane

(cfr. Lc 24,35; At 2,42.46; 20,7.11; 27,35).

La storia della cena delle comunità cristiane primitive è di difficile ricostruzione; in ogni modo si

possono fare alcune osservazioni in merito:

a) la cena era celebrata durante un vero pasto, sia all’inizio di questo, sia alla fine, sia

incastonandola al suo interno. I disordini che si produssero a Corinto, spinsero Paolo a

raccomandare di separare la cena del Signore dai pasti per mangiare; questi ultimi potevano essere

consumati da ciascuno in casa propria;

b) l’espressione «rompere il pane – frazione del pane» è probabilmente l’indizio dell’assenza

della coppa del vino in origine oppure in certune comunità;

c) i pasti comunitari dei cristiani saranno posti in collegamento con l’ultima cena di Gesù con i

suoi discepoli alla vigilia della sua morte (cfr. Mt 26,26.29; Mc 14,22-25; Lc 22,19-20; 1Cor 11,23-

25), nella notte in cui egli fu tradito. Sebbene Mt, Mc e Lc facciano di quest’ultimo pasto una cena

pasquale, a questi racconti occorre preferire la testimonianza dell’evangelista e apostolo Giovanni,

secondo il quale Gesù è stato messo a morte nella giornata precedente la cena di Pasqua (cfr. Gv

18,28)3 e pertanto non ha potuto prendere parte a questa cena; si ricorda che in Lc 22,15, Gesù

dichiara di aver fortemente desiderato di mangiare la Pasqua, ma che non l’ha potuto fare. In verità

l’ultima cena fu una cena d’addio, durante la quale il morituro pronunciava delle benedizioni sopra

3 Cfr. Omelia di papa Benedetto XVI in Coena Domini 2007.6

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i suoi e consegnava loro il suo testimone;

d) i partecipanti alla cena erano i membri della comunità, compresi, almeno secondo Mt, le donne

e i bambini (cfr. Mt 14,21; 15,38) e le folle che si avvicinavano per ascoltare il vangelo;

e) la cena era probabilmente il luogo della comunione (cfr. At 2,42), ossia condivisione del pane

con i poveri, aiuto fraterno (cfr. Lc 9, 12ss; At 6,1ss; 1Cor 16,1ss);

f) nessun testo neotestamentario relativo alla cena nomina lo Spirito Santo;

g) lo stesso avvenne con la presidenza della cena di cui nulla c’indica da chi era assicurata – da

colui o da colei che accoglieva la comunità nella propria abitazione4.

4. Il digiuno

4.1. Nell’Antico Testamento

Nell’Antico Testamento, abbiamo il verbo ebraico sum e il sostantivo som, con il significato di

digiunare, cioè astenersi dal mangiare e spesso dal bere (cfr Gdc 20,26); giorno del digiuno (cfr. Is

58,3); proclamazione di un digiuno (cfr Is 58,5). Digiunare è astinenza rituale che conduce l’uomo

a umiliare la sua anima; all’origine il digiuno probabilmente era un atto di esorcismo e di scongiuro

contro le potenze malvagie. Nell’Antico Testamento, è un atto di totale abbandono a Dio: l’essere

umano rinuncia volontariamente a ogni iniziativa personale per contare unicamente sull’intervento

sovrano di Dio e rimettersi alla sua liberazione. I profeti hanno disapprovato i digiuni che, a causa

del formalismo, si erano svuotati del loro significato e hanno esortato il popolo a umiliarsi davanti a

Dio, a tornare a lui (cfr. Is 58,1-12; Ger 14,12; Gl 2,12; Am 5,21-27; Zc 7,5).

I motivi per cui si digiunava erano diversi: in caso di cordoglio, di catastrofe nazionale, alla

vigilia di un’impresa difficile, per implorare il perdono o sollevare una guarigione. Per un periodo

molto lungo la legge non prescriveva che digiuni individuali; dal ritorno dall’esilio (VI sec. a.C.)

s’istituirono diversi digiuni annuali per commemorare i disastri nazionali e dal tempo di Esdra (V

sec. a.C.) il digiuno del gran giorno dell’espiazione, chiamato yom kippur (cfr. Lv 16,29-34; 23,27-

32).

4.2. Nel Nuovo Testamento

4 Cfr. Ib., “Pasto”, 177-179.7

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Nel Nuovo Testamento, abbiamo il verbo ebraico nestéo e il sostantivo nestéia, con il significato

di digiunare, digiuno, ossia privazione volontaria di nutrimento; pratica rituale giudaica, in

particolare dei farisei o dei discepoli di Giovanni Battista; pratica delle comunità giudeo-cristiane

(cfr. At 13,2-3; 14,23), in rapporto con la preghiera (cfr. Mt 17,21; At 13,2). Al momento della sua

tentazione nel deserto, Gesù ha praticato il digiuno per manifestare la sua totale disponibilità a Dio

(cfr. Mt 4,2). A parte qualche allusione alle pratiche giudaiche e alla loro eco nelle comunità

giudaiche (cfr. At 13,2-3), il Nuovo Testamento pare aver preso un senso nuovo: secondo i vangeli

sinottici, Gesù ha ripreso brutalmente il modo con cui certi giudei ostentavano la loro pratica del

digiuno (cfr. Mt 6,16-18); oltre più, i suoi discepoli non possono digiunare nella stessa forma di

quelli di Giovanni Battista (cfr. Mc 2,18-22), in quanto le promesse di Dio ora sono giunte a

compimento: Cristo è con loro (cfr. Mt 28,20) e comunque, nel prossimo futuro, la croce li esporrà

a una prova tale che essi non potranno, in quel giorno, che digiunare in segno di cordoglio (cfr. Mc

2,20); il digiuno diventa un modo per rafforzare la preghiera, a volte indispensabile: «Questa razza

di demoni non si scaccia se non con la preghiera e il digiuno» (Mt 17,19-21). 

5. L’astinenza

Il termine tradizionale per indicare l’esclusione dall’alimentazione della carne e da altri cibi o

bevande è astinenza. Il vocabolo latino abstinentia può equivalere al greco xerofagia, il quale

designa una dieta che esclude carne e altri alimenti, privilegiando cibi secchi. L’astinenza è

normalmente ascritta alle pratiche “penitenziali”. La parola penitenza ha perduto completamente il

suo significato originario. Con metanoia i Padri della Chiesa intendevano non tanto un sentimento

di dolore o addirittura di punizione fisica, ma un vero e proprio cambiamento della mente, un

mutamento della volontà, una conversione. Si tratta di un mutamento di pensiero legato a un

cambiamento nel comportamento. Infatti, già il termine ebraico šub, significa ritornare verso

qualcuno, al punto di partenza, da cui in senso figurato tornare a Dio. La tradizione dell’astensione

da alcuni cibi e bevande, collegata a un’esperienza di preghiera profonda, è universale e

antichissima.

5.1. Nell’Antico Testamento

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Nei Pierqê ‘Avot troviamo una massima che può applicarsi anche all’alimentazione, un aspetto

della vita umana che nell’ebraismo è regolato da un’ampia e rigorosa normativa: «Il Signore volle

aumentare i meriti di Israele, e per questo moltiplicò loro leggi e precetti». Le regole alimentari

hanno come fonti principali la Bibbia. Tuttavia, esse non sono una semplice pratica al consumo e

alla preparazione del cibo, bensì rientrano a pieno diritto nella halakhah, l’insieme delle norme

legali e religiose che disciplinano, sin nei minimi particolari, l’esistenza dell’individuo e della

comunità. Pertanto, l’alimentazione è un momento di sacralizzazione della vita quotidiana, ove la

sacralità è intesa come un ideale di perfezione raggiungibile dall’essere umano; com’è riportato nel

Levitico, a riguardo del princìpio di separazione tra gli animali puri e impuri, nonché dei relativi

divieti alimentari: «Non rendete le vostre persone contaminate con alcuno di questi animali che

strisciano; non rendetevi impuri con essi e non diventate, a causa loro, impuri. Poiché io sono il

Signore, vostro Dio. Santificatevi dunque e siate santi, perché io sono santo; non rendete impure le

vostre persone con alcuno di questi animali che strisciano per terra» (Lv 11,43-44). Quindi

l’alimentazione diviene un rito, un modo di essere e agire sacralmente, uno strumento di

perfezione; non più solo un modo di sopravvivenza e una necessità biologica, ma altresì un sistema

di affermazione culturale.

5.2. Nel Nuovo Testamento

Il Nuovo Testamento è la naturale continuazione dell’Antico. Tuttavia il Nuovo si differenza

dall’Antico, anzitutto in quanto è diretto a tutta l’umanità. L’Antico, indicato da Cristo come «La

Legge e i Profeti», era diretto all’inizio agli ebrei, ossia al popolo ebraico. Tale particolare indirizzo

spiega in larga misura come nella Legge siano contenute alcune prescrizioni di natura alimentare e

igienica, legate alle condizioni ambientali di vita del popolo ebraico; per esempio, la circoncisione,

il divieto di consumare carne di maiale e altri divieti alimentari presenti soprattutto nel libro del

Levitico, il terzo della Toràh. Quando la buona novella di Gesù Cristo fu annunziata a tutti i popoli

(per gli ebrei, “i gentili”), nacque la questione se tali prescrizioni dovessero essere estese a tutti i

convertiti, a qualsiasi nazione appartenessero. La questione della conversione dei pagani fu

dibattuta dai cristiani della Chiesa di Antiochia, i quali domandarono un parere alla Chiesa di

Gerusalemme. Questa rispose che ai convertiti non si dovesse imporre nessun altro obbligo oltre

queste cose necessarie: «astenersi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e

dalle unioni illegittime» (At 15,29). La tematica del divieto di consumare le carni immolate agli

idoli, già presentato negli Atti degli Apostoli, fu ripreso in 1Cor. Qui l’apostolo Paolo evidenzia lo

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scandalo che derivava dal compiere quest’azione d’idolatria. Per capire appieno il senso di tale

proibizione, bisogna ricordare che i sacrifici che si compivano nell’antichità per propiziarsi le

divinità, avevano un loro rituale, comprendente l’uccisione di animali quadrupedi (vitelli, maiali,

pecore e in particolare agnelli), e quindi l’allestimento di un banchetto, nel corso del quale i fedeli,

in segno di adesione al culto degli idoli, ci si cibava delle carni delle bestie immolate. Nella

religione ebraica vi erano sacrifici del genere. Ma, diversamente dai culti pagani, gli animali di

solito erano immolati completamente, realizzando in tal modo l’olocausto. In Israele, di preferenza

gli animali sacrificati erano agnelli, a ricordo dell’episodio biblico della fuga del popolo ebraico

dalla terra d’Egitto, quando gli ebrei prima della fuga mangiarono queste docili bestie.  La figura

dell’agnello sacrificato fu utilizzata da Giovanni Battista nella nota espressione rivolta a Gesù, agli

inizi del suo ministero pubblico: «Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del

mondo» (Gv 1,29). Con questa espressione il Battista desiderava esprimere che Gesù, il Figlio di

Dio, era la vittima del valore infinito, che grazie alla sua passione e morte avrebbe redento l’intera

umanità: egli è l’unico Agnello capace di portare la redenzione (sono dunque aboliti tutti i sacrifici;

cfr. Lettera agli Ebrei). Ogni celebrazione eucaristica fa memoria degli eventi salvifici: alla mensa

siamo tutti invitati, poiché: «[Dio] vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla

conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini,

l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti» (1Tm 2,4-6).

6. Il cibo nell’Antico Testamento

6.1. Nei tempi antichi

Nel racconto sacerdotale (P) della creazione è scritto:

«Dio disse: “Facciamo l'uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: domini sui pesci del

mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutti gli animali selvatici e su tutti i rettili che strisciano

sulla terra». Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio

li benedisse e disse loro: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, e dominate sui

pesci del mare, sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra». Dio disse: “Ecco, io

vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra, e ogni albero fruttifero che produce seme:

saranno il vostro cibo. 30tutti gli animali selvatici, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che

strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde». E così avvenne. Dio vide

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quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. E fu sera e fu mattina: sesto giorno».

Dal princìpio (cfr. Gn 1,29-30; 2,16), tutte le piante provviste di semi (in primo luogo cereali e

ortaggi) e gli alberi fruttiferi erano utilizzati come alimento per l’essere umano, mentre l’erba verde

era il cibo per gli altri animali. La caduta di Adamo ed Eva ebbe come diretta conseguenza la fatica

del lavoro per la raccolta e per la produzione del cibo (cfr. Gn 3,18.23; 4,2-3). Nell’arca, il cibo era

quello consumato comunemente a quei tempi primordiali, ma non ci sono forniti dettagli a riguardo

(cfr. Gn 6,21). Dopo il diluvio universale, Dio promise che fin quando la terra fosse durata, sia la

semina che la raccolta non sarebbero mai cessate e tutto ciò che ha vita (oltre alla vegetazione)

poteva essere utilizzato per alimentarsi, a eccezione del sangue animale (cfr. Gn 8,22-9,4). All’epoca

del ripopolamento della terra, fece la sua comparsa la coltivazione della vite e di conseguenza

l’ebbrezza dell’uomo (cfr. Gn 9,20-21).

6.2. L’epoca patriarcale

All’inizio del II millennio a.C., in Egitto, in Canaan e in Mesopotamia, il grano e vari tipi di pane

erano l’alimento principale, assieme a latte, burro, formaggi, acqua, birra e vino. Assai

probabilmente i patriarchi, poiché erano semi-nomadi, consumavano soprattutto dei latticini ottenuti

dal proprio bestiame e dai loro greggi, ma avevano pure il pane (cfr. Gn 21,14, ove si riferisce della

scorta data ad Agar). Inoltre, talvolta si coltivava il grano stagionalmente, come fece Isacco (cfr. Gn

26,12) e presumibilmente Giacobbe (cfr. Gn 37,7), giacché egli ebbe bisogno di acquistare grano

egiziano durante la carestia (cfr. Gn 42,2,25-26; 43,2; 44,1-2). La zuppa di lenticchie era

presumibilmente un piatto comune al tempo in cui Esaù scambiò la sua primogenitura (cfr. Gn

25,29-34), come lo era certamente in seguito (cfr. 2Sam 17,28). Agli ospiti d’onore era offerto il

vitello ingrassato condito con burro e latte (cfr. Gn 18,6-8). Si può confrontare il gesto di Abramo

con i riferimenti nei testi del nord di Canaan, di Ugarit, che menzionano la macellazione e la

preparazione di «un agnello dal gregge» o «il più pingue dei vitelli da ingrasso». Nonostante la carne

non fosse un cibo quotidiano, ai tempi dei patriarchi era popolare la caccia nel deserto in Siria e in

Canaan. A Isacco piaceva la cacciagione (cfr. Gn 27,3-4), così com’era gradita all’egiziano Sinuhe,

il quale apparteneva a un periodo immediatamente precedente. I doni a dignitari potevano

comprendere delizie quali pistacchi e miele (cfr. Gn 43,11). Le tavolette di un palazzo a Mari, città

sul medio Eufrate, a confine tra Siria e Mesopotamia, del XVIII sec. a.C., indicano che grandi

quantità di miele erano offerte ai banchetti in occasione delle visite dei sovrani e, nello stesso

periodo, il re di Assiria, Ishme-Dagan inviò pistacchi al suo fratello, che governava Mari. Anche in

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terra d’Egitto il miele era una prerogativa dei sovrani e dell’alta società ma, occasionalmente, ne

godevano pure i loro sudditi. Infine, il pasto in comune era ritenuto un segno d’amicizia tra le due

parti che stringevano un patto, per esempio:

– Isacco e i filistei in Gn 26,30;

– Giacobbe e Labano in Gn 31, 54.

La Bibbia non ci fornisce dettagli in merito al pasto offerto da Giuseppe ai suoi fratelli (cfr. Gn

43,31-34).

6.3. Israele in Egitto

In Egitto, gli israeliti, nonostante la vita difficile per la schiavitù, avevano una varietà di cibo, che

in seguito, durante il cammino nel deserto, ricorderanno con nostalgia: pesce in abbondanza,

cocomeri, meloni, porri, cipolle e aglio (cfr. Nm 11,5). Tale dettagliato elenco corrisponde in

maniera abbastanza accurata agli antichi cibi egiziani noti anche nel Delta orientale (regione di

Goscen), nel XIII sec. a.C. Elogiando la regione di Ramses, uno scriba ne cantava la ricchezza di

cibi: cipolle e porri, sette varietà di pesce nelle sue acque, diversi frutti e verdure.

6.4. Il cibo in Israele

6.4.1. Cibi vegetali

In Israele, cereali, vino e olio d’oliva erano i tre prodotti di prima necessità (cfr. Dt 7,13; Ne 5,11;

Os 2,8)

6.4.1.1. I cereali

I cereali erano principalmente orzo, grano e in certi casi spelta, un grano di qualità inferiore (cfr.

Es 9,32, con riferimento all’Egitto; Dt 8,8; Is 28,25). Il pane quale indispensabile alimento, servì per

descrivere nella maniera più appropriata colui che si definì il pane della vita, Gesù Cristo (cfr. Gv

6,33-35).

6.4.1.2. Il vino

La vite era seconda per importanza nella scala alimentare, dopo i cereali, in Israele. Questa pianta

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forniva non soltanto uva fresca come frutto (cfr. Nm 6,3; Dt 23,24), ma anche l’uva passa (cfr. 1Sam

25,18; 30,12), il mosto, ‘asîs (cfr. Is 49,26; Am 9,13; Gio 3,18), il mosto parzialmente fermentato

(yayin). Il succo rosso d’uva era sovente chiamato «il sangue dell’uva» (Gn 49,11; Dt 32,14). Nelle

sue diverse forme, il vino costituiva la bevanda comune in Israele. Nell’antichità erano lodati diversi

vini dell’antico Egitto, d’Israele e dell’Asia Minore. L’aceto (vino diventato acido), diluito con

acqua, era impiegato per rinfrescare i lavoratori dei campi (cfr. Rt 2,14). Sekar, oltre a essere il

termine generico per le bevande fermentate alcooliche, pare riferirsi in modo specifico a bevande

distillate di grano (per esempio, la birra) o di datteri e probabilmente addirittura di miele. La birra

era la bevanda più popolare in Mesopotamia, mentre in Israele lo era il vino; entrambi erano comuni

in Egitto, ove sono menzionati anche il succo fermentato di datteri e altre bevande.

6.4.1.3. L’olio d’oliva

Il terzo prodotto essenziale, l’olio d’oliva, era utilizzato sia come alimento sia come grasso per la

cottura. Assieme alla farina, esso costituiva un ingrediente del pane e dei dolci (cfr. Es 29,2); esso

era utilizzato ampiamente, come indica l’episodio della vedova di Zarepta, narrato in 1Re 17,12.

6.4.1.4. Altri vegetali

Tra gli ortaggi erano consumate le fave, pôl (cfr. 2Sam 17,28; Ez 4,9). Il vocabolo era utilizzato

anche in Egitto, nel XIII sec. a.C. Oltre all’uva e alle olive, già menzionate, i frutti comprendevano i

fichi, a volte pressati in schiacciate di fichi (cfr. Is 38,21 per un uso medicinale; impiegato anche in

medicina a Ugarit, per i cavalli), e anche i frutti del sicomoro, come in Egitto. Questi ultimi

dovevano essere incisi per crescere sino al punto di poter essere consumati (una delle attività del

profeta Amos, cfr. Am 7,14). I vari tipi di noci disponibili includevano le mandorle (cfr. Ger 1,11) e

i pistacchi. In Pr 25,11; Ct 2,3-5; 7, 8; 8,5; Gl 1,12, il vocabolo tappûah significa forse «mela».

Oltre all’impiego che se ne faceva in Israele e in Egitto, alcuni testi babilonesi mostrano una

conoscenza diffusa della mela (hashûru) in Mesopotamia, così come nell’Asia Minore sud-orientale.

6.4.2. Prodotti animali

I prodotti animali comprendevano il miele, il latte e la carne.

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6.4.2.1. Il miele

Si utilizzava molto il miele di api selvatiche trovato nelle rocce, negli alberi, ecc. (cfr. Dt 32,13;

Gdt 14,8; 1Sam 14,25; 2Sam 17,29). Gli autori dell’Antico Testamento non riferirono se gli ebrei (al

pari degli egiziani) praticassero l’apicoltura. Il miele era una prelibatezza assai apprezzata (cfr. Sal

18,10; Pr 24,13). La terra d’Israele era una terra di «latte e miele» (Es 3,8): nel XV sec. a.C., il

faraone Tutmòsi III riportò dalla Siria e da Canaan centinaia di giare di miele come tributo (durante

la VII e XIV campagna. Sinuhe fece un’appassionata descrizione di queste terre quanto a grano,

vino, olio, miele, frutta e bestiame.

6.4.2.2. Il latte

Il latte era considerato un cibo di prima necessità in Israele, assieme ai suoi prodotti: formaggio e

burro. Per il latte si menzionano i seguenti testi: Pr 27,27; Is 7,22; Ez 25,4. Per il formaggio: Gb

10,10; 1Sam 17,18; 2Sam 17,29. Per il burro: Pr 30,33. Il latte era sovente offerto al visitatore o

all’ospite inaspettato, come avvenne con Misera in Gdc 4,19; 5,25 e, parecchi secoli prima, per il

fuggitivo egiziano Sinuhe.

6.4.2.3. La carne

La carne era consumata soltanto occasionalmente, a eccezione dei ricchi che probabilmente ne

disponevano regolarmente. Come fece Abramo (cfr. Gn 18), gli ospiti erano accolti e si offriva loro

vitelli, capretti o agnelli (cfr. Gdt 6,19-24; 2Sam 12,4) e questi erano doni graditi sia vivi sia cucinati

(cfr. 1Sam 16,20; 25,18). Il bue ingrassato era in certe occasioni un pasto principesco (cfr. Pr 15,17),

proprio come in Egitto o in Mesopotamia. Ne è esempio l’ufficiale che, incaricato di preparare un

banchetto per la visita dei sovrani, riferì di un bue ingrassato così pesante che «quando si alza, il

sangue scende ai piedi e non può reggersi». I figli scellerati di Eli preferirono carne arrostita alla

carne cotta in pentola (cfr. 1Sam 2,13-15). Il profeta Ezechiele usava la carne bollita in una pentola

d’acqua come parabola (cfr. Ez 24,3-5).

Il capretto non doveva essere cotto nel latte della madre (cfr. Es 23,19), probabilmente in quanto

era una pratica sacrificale cananea e pertanto avrebbe avuto implicazioni simili al problema

neotestamentario della «carne offerta agli idoli». Lv 11,1-47 e Dt 14,3-21 riportano la legge sugli

animali puri (da mangiare) e impuri (da non mangiare). Oltre al bue, alla pecora e alla capra, si

potevano consumare sette tipi di cervidi (cfr. Dt 14,5) e tutti gli altri animali ruminanti con gli

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zoccoli. Gli animali che non rispondevano a tali caratteristiche erano vietati e ritenuti “impuri”,

assieme a un gran numero di diverse specie di uccelli. Per i pesci, solo quelli con le pinne e con le

squame era permesso mangiare. Soltanto pochissime varietà d’insetti potevano essere consumate (la

famiglia delle locuste). Alcuni degli animali proibiti erano semplicemente inadatti al consumo

umano; altre, come per esempio, i maiali, erano pericolosi in un clima caldo; altri ancora erano

probabilmente non consentiti poiché strettamente identificati con forme di idolatria circostanti.

6.4.2.3. Le provviste di cibo nel palazzo di re Salomone (m. 931 a.C.)

In 1Re 4,7; 5,2-3; 7-8, si riferisce che in Israele i governatori delle dodici provincie

amministrative, dovevano provvedere cibo per un mese all’anno alla corte di re Salomone: la

fornitura giornaliera era di 30 kor di fior di farina, 60 kor di farina ordinaria, 10 buoi ingrassati, 20

buoi di pastura e 100 montoni, oltre a cervi, daini, gazzelle pollame d’allevamento e foraggio per la

stalla del re. Inoltre, re Salomone pagò a Chiran I di Tiro 20˙000 kor di olio per il suo legname e per

l’impiego dei suoi taglialegna. Tale fastoso approvvigionamento era caratteristico delle antiche corti

orientali, come attestato dai resoconti di coorte provenienti dall’Egitto e dalla Mesopotamia. La

corte di Nabucodonosor II di Babilonia (m. 562 a.C.) e quella di Ciro di Persia (m. 529 a.C.) erano

fornite mensilmente da ufficiali di provincia, seguendo un sistema simile a quello in vigore presso la

corte di re Salomone. I rifornimenti mensili di quest’ultimo erano imposti come parte di oppure in

aggiunta alle tasse locali (grano per la farina, bestiame) pagate dalle dodici regioni.

6.4.2.4. Condimenti e cottura

In Israele, il sale era una componente necessaria in un pasto (cfr. Gb 6,6). Un pasto comune era

parte integrante del conseguimento di un accordo tra due parti (cfr. Gn 26,30; 31,54) e le espressioni

«patto inalterabile» (letteralmente «di sale», Nm 18,19), «mangiare il sale del palazzo» (Esd 4,14),

erano assai comuni e indicavano accordo o fedeltà. Le erbe per il condimento comprendevano

l’aneto, il cumino (cfr. Is 28,25-27) e il coriandolo (cfr. Es 16,31; Nm 11,7). L’uso comune di tali

erbe aromatiche nell’antichità, è confermato dal ritrovamento di piante e semi nelle tombe egiziane

dalla XVIII dinastia in avanti, e dal fatto che esse sono menzionate nei testi babilonesi ed egizi5.

In tavolette greco-micenee scritte in “lineare B” provenienti da Creta e dalla Grecia, risalenti ai

secc. XV-XIII a.C., sono menzionati, tra le altre spezie, il cumino (ku-mi-no), il coriandolo (ko-ri-a-

5 Cfr. L. KEIMER, Die Gartenpflanzen im Alten Agypten, 1 1924, Nos. 24,29-30, 37-38, 40-42 e rif., 147-149.

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da-naldo-no) e il sesamo (sa-sa-ma). Tali nomi e forse pure alcune spezie, indicano prodotti

alimentari importati dal Vicino Oriente, attraverso la Siria-Canaan e Cipro. Pertanto essi

testimoniano l’antichità dell’impiego sia di spezie sia dei loro nomi nelle terre bibliche. Il sesamo è

attestato in questo medesimo periodo in Siria, a Ugarit6. Il miele poteva essere utilizzato nella

cottura (cfr. Es 16,31), ma non nei sacrifici (cfr. Lv 2,11), anche se gli egiziani lo offrivano ai loro

dèi. Vini addolciti ed aromatizzati, e birre sono attestati nei testi egiziani e mesopotamici; il miele o

le erbe erano impiegati per questo scopo. L’espressione «acqua di malva» (Gb 6,6), da alcuni

tradotta con «chiaro d’uovo», era usata come simbolo di qualcosa d’insipido. In Israele, la cottura

comprendeva quella del pane e dei dolci (con o senza lievito) al forno, la preparazione di zuppe e

stufati, e carne arrostite o bollite.

ALIMENTI DI ORIGINE VEGETALE ALIMENTI DI ORIGINE ANIMALEPassati e

zuppedi porri, cipolle, aglio,

cetrioli, lenticchie

Pane e pasta di grano o di orzo

Birradi orzoVinodi uva

Frutta:mele,

melagrane, uva,

cocomero

Frutta secca e seccata:datteri,

mandorle, pistacchi, noci, fichi,uva passa

Uova:galline,pollame

Latte:capra,mucca

Pesci vari

Arrosti:anatre, agnelli, buoi,

galline, polli

uccelli

7. Il cibo nel Nuovo Testamento

7.1. Cibi vegetali

7.1.1. Cereali

Nella Bibbia, l’alimento principale dell’essere umano è il pane, preparato con la farina di frumento

(cfr. Mt 13,33; Lc 13,21) oppure con la farina d’orzo (cfr. Gv 6,9; 13; Gdt 7,13; 2Re 4,42),

l’ingrediente abituale del pane per la gente più povera (cfr. per il valor relativo del frumento e

dell’orzo, Ap 6,6).

Il Nuovo Testamento riporta il metodo primitivo di utilizzare il grano strappando le spighe fresche

e sfregandole con le mani per rimuovere la pula (cfr. Mt 12,1: Mc 2,23; Lc 6,1). Quando ciò era fatto

nel campo di un altro individuo, era ritenuto dai rabbini l’equivalente del mietere e perciò proibito

6 Cfr. GORDON, Ugaritic Text-book, 3, 1965, 495, n. 496.16

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nel giorno di sabato (cfr. Mishnah, Shabbath 7,29). Si fa riferimento ad altri metodi di trattare il

grano in Mt 3,12 = Lc 3,17; 22,31). Una particolare menzione meritano i pani azzimi (massôt) gli

unici permessi nelle abitazioni ebraiche durante i giorni della Pasqua (cfr. Es 12,19; 13,7; 1Cor 5,7-

8).

La domanda del pane è al cuore della preghiera che il Signore ha insegnato ai sui discepoli e

consegnato a tutti i futuri credenti in lui. Questa è una domanda che situa l’essere umano nella sua

condizione di creatura e nella sua situazione di bisogno davanti a Dio creatore e datore di ogni bene.

La dimensione simbolica del pane, con le sue numerose valenze antropologiche, fa in modo che tale

domanda divenga significativa di tutta l’esistenza dell’uomo di fronte a Dio. Pregare davanti al cibo,

pregare al momento dei pasti, diventa così pratica quotidiana, feriale memoria dell’azione storica

della salvezza di Dio che si manifesta nel suo donare il pane alla creatura (cfr. Sal 135,25). Poi,

nell’eucaristia, il pane diventa segno del compimento della storia della salvezza nel dono di Cristo

per la vita del mondo. Si tratta di un dono che, mentre immette il credente nell’azione di grazie, lo

impegna altresì nell’opera di giustizia e di fraternità nei riguardi del bisognoso che non ha pane; in

quanto soltanto vivendo questa solidarietà, egli potrà pregare in autenticità la sublime preghiera del

Padre nostro.

7.1.2. Frutti e olio

La terra fertile produceva l’uva (cfr. Mt 7,16; 26,99) e le olive, anche se queste ultime (cfr. Gc

3,12) non sono mai espressamente indicate come alimento. Piuttosto, dall’oliva si ricavava l’olio

pregiato utilizzato nella preparazione del cibo e l’oliva stessa era conservata mediante un processo di

trattamento in salamoia. Le olive in salamoia erano consumate con il pane. Una salsa composta di

aceto, datteri, fichi e uva passa, chiamata haroset, era utilizzata in occasione della Pasqua (cfr. Mc

14,20; Gv 13,26; nella Mishnà, Pesahim, 2,8; 10,3). In Mt 7,16 si menziona il frutto del fico insieme

all’uva. Questi erano frutti assai pregiati in Israele. Mentre, all’estremo, le carrube era il cibo che il

figliol prodigo sarebbe stato contento di mangiare (cfr. Lc 15,16), ma in realtà si trattava di cibo per i

porci.

7.2. Prodotti animali

Nel mondo giudaico del Nuovo Testamento, le leggi alimentari si applicavano rigorosamente,

soprattutto per quanto riguardava la distinzione tra animali e uccelli puri e impuri (cfr. Lv 11,1-23;

Dt 14,4-20; At 10,9-15; trattato della Mishnah ‘Abodah Zarah). Il superamento di queste norme

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alimentari è un tema importante del Nuovo Testamento (cfr. Mc 7,18-20; At 15,20-29; Rm 14,1-12;

1Cor 8,10: idolatria, carne offerta agli idoli). Tra gli animali puri che si consumavano (a condizione

che fossero stati macellati nel modo giusto e che il sangue fosse fatto colare via, rendendoli così

kosher), sono menzionati (cfr. Lc 15,23-29) il capretto e il vitello, quest’ultimo ingrassato

appositamente per un’occasione di festa.

7.2.1. Pesce

Anche i pesci erano classificati come puri e impuri secondo l’elenco di Dt 14,9-10 (cfr. Lv 11,9-

12). Il lettore dei vangeli conoscerà bene i nomi delle città di Galilea che erano il centro

dell’industria della pesca sulle rive del lago. I primi discepoli sono chiamati «pescatori» (Mc 1,16-20

e paralleli). Oltre al riferimento in Lc 11, c’è la ben nota menzione del pesce in occasione del

miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci (cfr. Mc 6,41-44 e paralleli; Mc 8,7-9 e paralleli),

come pure nei pasti che Cristo risorto consumò con i suoi seguaci (cfr. Lc 24,42-43; Gv 21,9-13). La

popolarità del simbolo del pesce nel cristianesimo delle origini e l’utilizzo del pesce nella

celebrazione dell’eucaristia in alcuni ambiti cristiani, forse s’ispiravano a questi avvenimenti

evangelici. Il simbolo del pesce è stato, agli inizi della Chiesa, una sorta di segno di riconoscimento

per i cristiani, in quanto la parola greca pesce è un acrostico, ossia una parola composta dalle iniziali

di altre parole. In greco, infatti, pesce si scrive ICHTHYS e queste sono le iniziali della professione

di fede: Iesus Christos Theou Yios Soter (Gesù Cristo, Figlio di Dio, Salvatore). Gesù Cristo chiede

a noi di manifestare la nostra professione di fede come ha chiesto a Maria, la sorella di Lazzaro (cfr.

Gv 11,25) e a Pietro (cfr. Mt 16,15-16). Il pesce che vive necessariamente nell’acqua è divenuto

assai presto il simbolo del battezzato, in quanto segno del battesimo è l’acqua, segno della vita

nuova in Dio (cfr. Gv 3,5; Rm 6,4; 2Cor 5,17). In Mt 12,40, il greco ketos è tradotto con pesce

riferendosi a un grande pesce (ebraico dag di Gio 1,17). Per ragioni anatomiche pare che la

traduzione con pesce non sia corretta, ma una serie di balene dotate di denti sono presenti nel mar

Mediterraneo orientale e alcune di esse sono capaci d’inghiottire un uomo. Agli inizi del XX sec. vi

furono uno o due casi accertati di gente che riuscì a sopravvivere dopo essere stata inghiottita. Mt

12,40 è l’unica ricorrenza di ketos nel Nuovo Testamento, termine usato da Omero ed Erodoto per

un’ampia gamma di animali marini, reali e mitici, il cui significato preciso rimane dubbio.

7.2.2. Uccelli

Gli uccelli come cibo non sono mai menzionati nel Nuovo Testamento, a eccezione del riferimento

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generico in At 10,12, e l’implicazione della vendita di passeri in Mt 10,29 e Lc 12,6; tuttavia si fa

riferimento alle uova in Lc 11,12.

7.2.3. Insetti

Gli insetti commestibili comprendevano la locusta che, assieme al miele selvatico, costituiva la

dieta di Giovanni Battista nel deserto della Giudea. A onor del vero, pare improbabile che un essere

umano si sostenesse con questi due soli alimenti. Secondo alcuni invece di locuste si dovrebbe

intendere delle focacce, che così si sposerebbero meglio con il miele, quale companatico.

7.3. Condimenti

Tra i vari alimenti utilizzati per condire, il principale era il sale, a causa della sua particolare

proprietà di aggiungere sapore a una pietanza (cfr. Gb 6,6). Tale proprietà è invocata come base

d’insegnamenti etici nei vangeli (cfr. Mt 5,13; Mc 9,50; Lc 14,34) e nelle lettere (cfr. Col 4,6). «La

Toràh è come sale» è un detto comune tra i rabbini. Altre spezie ed erbe impiegate per insaporire

erano: la menta, l’aneto, il cumino e la ruta (cfr. Mt 23,23; Lc 11,42). In Mt 13,31-32, si fa menzione

della pianta della senape, le cui foglie erano tagliate e utilizzate per dare maggiore sapore. Secondo

l’usanza giudaica, il minuscolo seme di senape doveva essere seminato nel campo e non nell’orto e

la pianta raggiungeva un’altezza di 3 metri.

7.4. I pasti di Gesù

L’apostolo Paolo chiamò «cena del Signore» la celebrazione grazie alla quale le comunità cristiane

del I secolo «facevano memoria di Gesù». Tale espressione riassume la lunga serie delle iniziative di

Dio il quale, a partire da Abramo e poi attraverso i profeti e i sapienti, aveva reso disponibile la sua

tavola al suo popolo, oppure, al contrario, s’era accomodato alla tavola dei suoi fedeli, come a casa

di Abramo (cfr. Gn 18,1-16). Nella mentalità del popolo dell’Antico Testamento, anche il pasto

ordinario assumeva una valenza religiosa: infatti, vi si riconosceva una sorta di comunione offerta da

Dio, in quanto creatore, in quanto colui che dona all’essere umano i beni della terra e lo mantiene in

vita. Sia che bevano un po’ d’acqua sia che mangino anche solo un pezzo di pane, i credenti

d’Israele riconoscevano la propria relazione con Dio, creatore di ogni nutrimento, Signore della vita

e Padre del popolo eletto. La preghiera dei salmi esprime questa fede: «Egli dà il cibo a chi lo teme»

(Sal 110,5). «Tutti da te aspettano che tu dia loro il cibo a tempo opportuno» (Sal 103,27). «Gli

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occhi di tutti a te sono rivolti in attesa e tu dai loro il cibo a tempo opportuno. Tu apri la tua mano e

sazi il desiderio di ogni vivente» (Sal 144,15-16). «Davanti a me tu prepari una mensa» (Sal 22,5).

Inoltre, le alleanze, le quali erano un momento importante nella vita del popolo di Dio,

comportavano dei pasti: al monte Sinai, ove Mosè e gli anziani del popolo furono ammessi alla

presenza di Dio: «Essi videro Dio e tuttavia mangiarono e bevvero» (Es 24,11) e la festa delle

Settimane o Pentecoste, celebrava la memoria di tutte le alleanze e comportava un grande banchetto,

a cui si allude in Tb 2 e nel racconto di At 2,13, con la menzione del vino dolce.

Gesù ha fatto proprie tutte le grandi iniziative di Dio che si rintracciano nell’Antico Testamento,

conferendo loro un significato nuovo e definitivo. Tutto il suo ministero pubblico è segnato da pasti

significativi, a iniziare dalle nozze di Cana (cfr. Gv 2, 1-12) sino al pasto consumato in riva al lago,

dopo la risurrezione (cfr. Gv 21,1-14). Le modalità con le quali furono trascritti questi episodi ci

permettono di comprendere che gli evangelisti li collegarono all’eucaristia da lui istituita. È in primo

luogo il caso della moltiplicazione dei pani per saziare la folla, della quale troviamo ben cinque volte

il racconto nei quattro vangeli: i gesti di Gesù sono quelli che poi ritroveremo nell’ultima cena. A

tali pasti consumati da Gesù o da lui offerti, bisogna aggiungere i suoi ricorrenti riferimenti allo

stesso tema. Numerose parabole richiamano un pasto:

– gli invitati a nozze (cfr. Mt 22,1-14);

– il corteo nunziale con le dieci vergini (cfr. Mt 25,1-13);

– il Padre misericordioso e il figliol prodigo (cfr. Lc 15,11-32). Similmente, diversi gesti di

guarigione e azioni significative hanno per contesto dei pasti;

– la vicenda della peccatrice cui sono rimessi i peccati (cfr. Lc 7,36-50);

– la guarigione dell’idropico (cfr. Lc 14,1-6);

– l’unzione di Betania (cfr. Gv 12,1-11).

7.4.1. I pasti di Gesù nel IV vangelo, luogo di rivelazione

Il modo con il quale Gesù si manifesta in Gv è contrassegnato da un palese legame al cibo e al

mangiare: il banchetto nuziale di Cana (cfr. Gv 2,1-12) e il pasto del risorto sul lago (cfr. Gv 21,1-

14) sono una sorta di grande inclusione sul tema del pasto come luogo di rivelazione. È proprio a

partire dal cap. 21 giovanneo che si può sviluppare una riflessione sui pasti gesuani.

L’interpretazione diviene tanto più ricca se il brano è accostato a due passi precedenti ove compare

il motivo del cibo e del mangiare: Gv 4,31-38 e Gv 6 (il pane di vita). La manifestazione narrata

all’inizio del IV vangelo (Gv 1,19-2,12) e quella che chiude il racconto giovanneo (cap. 1), sono

strettamente collegate da una molteplicità di aspetti, non soltanto quello del pasto. I suddetti pasti

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hanno una marcata connotazione simbolica:

1) il primo indica il compimento eccedente delle promesse fatte al popolo d’Israele e manifesta

Gesù come colui nel quale s’inaugurano i tempi escatologici: la gloria che egli lascia trasparire a

Cana, lo manifesta ai discepoli come l’unigenito del Padre, e come il Figlio dell’uomo che

congiunge il cielo e la terra, e nel quale è possibile riconoscere la dimora di Dio (cfr. Gv 1,51). Il

vino del banchetto nunziale di Cana potrebbe avere un risvolto eucaristico, anche se quello

sacramentale non è il significato primario;

2) il secondo pasto, quello sul mare di Tiberìade, descrive le modalità di manifestazione del Figlio

di Dio, nel tempo che segue la sua risurrezione e precede la sua venuta (parusia). Nell’occasione egli

si manifesta ai suoi discepoli e può essere da loro riconosciuto solamente laddove la comunità si

nutre di un cibo che non contiene soltanto la dimensione sacramentale, bensì esprime altresì il frutto

della missione con cui gli esseri umani sono attirati a Gesù per avere da lui la vita

7.4.2. Cosa mangiava Gesù

I sostantivi maschili vegetarismo e vegetariano originano dalla radice sanscrita vag, che significa

“sospingere, accrescere, far crescere, rendere gagliardo”. Tale radice si ritrova nella lingua latina,

nel sostantivo vigor = vigore, salute, gagliardia e nell’aggettivo vegetus = sano, vigoroso, pieno di

vita. Pertanto, per vegetarismo s’intende quell’insieme di comportamenti che consentono all’uomo

di raggiungere lo stato di vegetus, ossia di soggetto sano e vigoroso. I termini vegetarismo e

igienismo hanno una radice linguistica comune e di conseguenza un significato simile. Infatti, dalla

radice ug (che corrisponde alla primitiva radice vag) attraverso dei vocaboli latini intermedi, deriva

ygeia = sanità e quindi ygienem = che conferisce la salute, salubre, donde, alla fine, il termine

italiano igienismo. Questi due termini furono coniati facendoli derivare dall’aggettivo latino vegetus

= sano, vigoroso, per evidenziare il concetto che per essere sani occorre astenersi, come primo

passo, dal mangiare carne. Pertanto il vocabolo vegetarismo sta a significare ogni concezione

dietetica che, basandosi su presupposti di ordine non solamente igienico, ma anche etico (illecita

uccisione di animali) e spirituale (purificazione), proscrive l’uso di alimenti carnei e reputa i cibi di

provenienza vegetale, come idonei a una completa e sana alimentazione. Il vegetarismo non è una

moda, un’opinione, ma risponde alle leggi della natura. La fisiologia e l’anatomia comparata

c’insegnano che l’uomo si classica tra i frugivori; non è per natura un animale onnivoro, semmai

sono per acquisizione. Se si rimanda all’etimologia del termine, possiamo dare risposta affermativa

alla questione se Gesù fosse vegetariano. I quattro vangeli non riportano particolari suoi problemi di

salute. Se invece ci atteniamo al significato di vegetariano come colui che non mangia carne, la

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risposta non può essere altrettanto affermativa. Tuttavia ci sembra opportuno ricordare che Eusebio

di Cesarea (m. 339), nella sua Storia ecclesiastica fa presente che Giacomo, “fratello del Signore”,

praticava l’astinenza e non beveva né vino né altro liquore inebriante, non mangiò carne di animali e

fu santo sin da quando era nel grembo materno. Paolo raccomandava e praticava l’astinenza e anche

Pietro l’esortava (cfr. 2Pt 1,5-6). Pertanto, si può dedurre che il Figlio di Dio facesse altrettanto.

Quando poi egli era invitato a consumare un pasto con altra gente, probabilmente si adeguava,

mangiando il cibo portato in tavola, godendo dell’essere insieme a condividere. A noi però più che il

suo comportamento interessa il suo spirito, il suo insegnamento. Pare opportuno ricordare che egli

sentenziò ai suoi discepoli: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io

ho amato voi» (Gv 15,12). L’amore è l’essere stesso di Dio. Per essere autentici cristiani dovremmo

amare chiunque è sua creatura. Alla disposizione del cuore segue l’azione, come ci ha insegnato

Gesù, il cui nome è salvezza (Yehoshúa = Dio salva). In definitiva, non si può orientare il nostro

comportamento alimentare, basandoci su cosa Gesù mangiava duemila anni fa. La Bibbia non è un

libro di dietetica: le nostre scelte dipendono dalla nostra sensibilità. La carne che finisce sulla tavola

è il frutto di un’uccisione, della quale ci si rende complici. In tempi recenti, monsignor Mario

Canciani, convinto sostenitore del vegetarismo di Gesù, si spinse a sostenere che Cristo, in

osservanza alle prescrizioni essene, non mangiò neanche l’agnello pasquale, preceduto in

quest’opinione da s. Basilio di Poiana Marului, abate di un celebre monastero esicasta in Romania e

recentemente confermata da papa Benedetto XVI nell’omelia del Giovedì Santo 2007.

7.4.3. L’ultima cena

«Quando venne l’ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse loro: “Ho desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, perché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio”. E, ricevuto un calice, rese grazie e disse: “Prendetelo e fatelo passare tra voi, perché io vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non verrà il regno di Dio! Poi prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: “Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me”. E, dopo aver cenato, fece lo stesso con il calice dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi”» (Lc 22,14-20; cfr. Mt 26,26-29; Mc 14,22-25; 1Cor 11,23-25).

Nell’ultima cena, Cristo si fa nutrimento con il suo corpo e il suo sangue, sotto i segni del pane e

del vino, offrendo testimonianza del suo amore senza limiti per l’umanità (cfr. Gv 13,1), per la cui

salvezza egli si offrirà in sacrificio sino alla morte in croce. Prima di lasciare i suoi, Gesù consumò

con i dodici l’ultima cena la sera precedente la passione, istituendo la comunione eucaristica.

Durante la messa, sotto le specie sacramentali del pane e del vino, si adora e si assume il corpo e il

sangue di Cristo. Gesù istituì il rito del banchetto pasquale nel corso di un pasto che riceve, per

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riflesso, i tratti della Pasqua antica, la sera del primo giorno degli azzimi, il primo giorno della

settimana, nel quale si mangiavano i pani senza lievito, il giorno che normalmente seguiva il

banchetto pasquale. I racconti dell’istituzione dell’eucaristia sono quattro, con due tradizioni precise:

– tradizione petrina o gerosolimitana: Mt - Mc;

– tradizione paolina o antiochea: Lc - 1Cor.

Abbiamo delle conclusioni storico-redazionali sui quattro testi. Essi non sono identici fra loro, ma

si osserva un’affinità tra Mc e Mt (tradizione gerosolimitana o petrina); Mc riflette la tradizione di

Pietro e, perciò della Chiesa di Gerusalemme; analogamente fra Lc e 1Cor (tradizione ellenistica o

antiochea, in quanto Paolo fu nella comunità di Antiochia di Siria). I quattro racconti suppongono

che l’eucaristia avvenga nel contesto del mangiare e del cenare. La forma più arcaica distingueva fra

«berakot» = benedizione, con il pane e «todah» = eucharistia, ringraziamento, con il calice. La

todah è l’elemento peculiare dell’eucaristia; nella tradizione antiochea il rendimento di grazie è

riferito anche al pane. L’eucaristia in quanto todah della risurrezione è la todah della piena

realizzazione dell’alleanza (cfr. Es 24,3-8): la tradizione antiochea lo rimarca, rinviando alla

promessa della nuova alleanza (cfr. Ger 31,31-34). L’eucaristia è compresa come “sacrificio”, come

vera pasqua. Si tratta di quattro testi liturgici. Essi riproducevano le celebrazioni liturgiche delle

comunità di appartenenza; non intendevano minimamente presentare la cronaca dell’ultima cena; il

fine dei testi è di far pregare, più che riferire com’era avvenuto l’episodio. La Chiesa ha fatto una

sintesi dei quattro testi, poiché ha tenuto opportuno che si disponesse un certo modo di celebrare.

Quest’operazione è la stessa di questi quattro autori della comunità cui appartenevano. I quattro testi

presentano elementi in comune fra loro e a coppie: tradizione gerosolimitana; tradizione antiochea.

Gli elementi in comune nelle due tradizioni sono:

a) «Questo è il mio corpo»;

b) le annotazioni sul prendere il pane e spezzarlo; il rendimento di grazie con il calice;

c) il riferimento al banchetto escatologico;

d) somiglianza nel richiamo alla passione: greco eckein = versare in seguito a una morte violenta,

passivo eckemoinon = sangue versato.

Gli elementi in comune nella tradizione gerosolimitana (Mt e Mc) sono:

a) «mentre mangiavano»;

b) sul pane: «detta la benedizione»; «prendete»;

c) sul calice: «il sangue dell’alleanza», «che è versato per molti».

Gli elementi in comune nella tradizione antiochea (Lc e 1Cor) sono:

a) il rendimento di grazie in connessione con il pane;

b) la sottolineatura che il pane è (dato) per voi;

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c) l’espressione «allo stesso modo» relativa al calice significa «rendendo grazie;

d) l’espressione «questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue»

e) l’esortazione «fate questo in memoria di me», in riferimento alla frazione del pane; l’ordine

implicito di ripetere il rito.

Mt sottolinea l’aspetto comunitario; l’unico che parla di remissione dei peccati (v. 28). Gli

elementi in comune possono lasciare intendere che esistesse un testo originario comune. Le

tradizioni originali erano orali.

L’argomento più forte riguardo l’autenticità è dato dall’analisi di 1Cor 11,23b-25. Paolo lo

compone, perché evidentemente allora i cristiani celebravano male la cena. L’Apostolo delle genti

scrive rivolgendosi a “voi”, come egli aveva ricevuto (v. 23).

Gv presenta delle indicazioni più attendibili sugli ultimi giorni di Gesù, benché non resoconti

l’istituzione dell’eucaristia, ma la lavanda dei piedi (cfr. Gv 13,1-20). In ogni modo la cena di Gesù

s’inserisce nel contesto della Pasqua ebraica. Il Figlio di Dio anticipò gli eventi della sua morte

imminente: il momento culminante della salvezza è proprio nell’eucaristia.

 

8. Alcune delle principali piante commestibili del Vicino Oriente antico

ITALIANO LATINO RIFERIMENTI BIBLICI EBRAICO EGIZIANO ACCADICOCEREALI

Grano(in genere)

Gn 42,2.25; 43,2; 44,1-2; Dt 7,13; Ne 5,11

zêr oîm (E) se’usigušu

Farro Triticum dicoccum kussèmeth (E) bd.t kunašuGrano duro Triticum durum Es 9,32; Dt 8,8 hmt

bd.tqutru

Grano per il Triticum vulgare 1Cor 15,37 hittā (E) sw.t kibtu

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paneSpelta Triticum spelta Es 9, 32; Is 28,25; Ez 4,9OrzoOrzo a sei file

Hordeum vulgare Es 9,31; Dt 8,8 (pane d’orzo, Gdt 7,13); 2Re 4, 42; Gv 6,9-13

śte’óra (E) ít‘nh.tsm’jsr.t

uttatuinninu

Malto bugluMiglio Andropogon

SorghumEz 4, 9 dôhan (E) duhnu

ORTAGGI, LEGUMIRiso Oryza sativa ōrez (E) šam kurangu (?)Lenticchie Lens culinaris

(Ervum lens) Gn 25, 34; 2Sam 17, 28; 2 23, 11

adâšîm (E)addes (A)

‘ršn

Fave Vicia fabaPhaseolus maximusPhaseolus vulgare

2Sam 17, 28; Ez 4, 9 pôl (E)túl (A)lūbā (A)

iwrj.tpr

lubbu (luppu)

Ceci Cicer arietanum húmmes (A) upuntu, mashâtiVeccia Vicia nissoliana kursenni (E) kiššenu (?)CrescioneCarruba

Lapidium sativum Lc 15,16 (hlin)ndh

šam sahlûšam harubu

PorroAglio

Allium kurgatAllium sativum

Nm 11,5Nm 11,5

hasir (E)shum (E)tum (A)

íz kt karašušūmu

Cipolle Allium cepa Nm 11,5 šam andahsumšam amu(s)su

Cocomero Cucumis melo Nm 11, 5;Is 1, 8

qiššu â (E)qittā’ (A)

šspt qiššu

FRUTTIFico Ficus carica Dt 8, 8; Is 36, 16; Ger 5, 17;

Os 2,12; Mt 7, 16; Mc 1,12-14; Lc 13, 6

těěnâ (E) dzb tittu

Dattero Phoeniux dectylifera

děbaš (E) bnr suluppu

Mela Phyrus malus Pr 25,11; Ct 2,3-5; 7,8; 8,5; Gl 1,12

tappûah? (E) tphph

hašhûruarsappu

Albicocca Prunus armeniaca tappûah? (E) armânu?Pera Pirus communis kameššarûMela cotogna Cydonia vulgaris appûah? (E)

safarjal (A)tîtânûsupurgillu

Nespola Mespilus germanica

šalluru

Pesca Prunus Persica darruquMelagrana Punica granatum Dt 8, 8; Ct 8,2; Gl 1,12 rimmôn (E) inhmn nurmûUva Vitis vinifera Nm 6, 3; Dt 23,24; Is 5,2;

Mt 7,16ešqōl (E) izzrt ishunnatu

karānuMelone Citrullus vulgaris Nm 11,5 ‘abtthîm (E) bddw-ks

 CONCLUSIONE

1) Quando si discorre del regime alimentare nei racconti mitici di Gn 1-9, in realtà si parla della

gestione della violenza. Man mano che il racconto procede, ciò diviene più evidente. Il regime

alimentare con soli vegetali previsto dal creatore, rappresenta un invito discreto alla mitezza nel

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dominio che la creatura umana deve esercitare sugli altri esseri viventi. Ciò chiaramente suppone

che egli da parte sua permetta di limitare il suo potere, in maniera tale che esso non sia distruttivo, a

immagine di quello di Dio, la cui potenza creativa non distrugge alcunché. Il dono del cibo nel

giardino dell’Eden sta a confermare tale necessità del limite; il racconto biblico invece dimostra a

quale disordine e a quale violenza conduca il rifiuto di un giusto limite. Sebbene nella sua mitezza

Noè fece regnare l’armonia tra gli esseri viventi entrati nell’arca con lui (cfr. Gn 7,9), tuttavia Dio ha

imparato che il cuore dell’uomo è portato alla violenza. Poi, concedendo agli esseri umani un cibo

carneo, egli ha lasciato spazio alla loro violenza, ma ne ha limitato immediatamente il campo, in

maniera tale da impedire, per quanto possibile, che l’odio se ne impadronisca e la renda

irrimediabilmente disumana.

2) Il nucleo centrale dell’alleanza (in ebraico berît, in greco diatheke) è rappresentato dalla

comunione familiare, vitale, la quale unisce il popolo al Signore. Il tema biblico dell’alleanza è

essenzialmente il tema della vita che il popolo di YHWH sviluppa in comunione con il suo Dio. Per

tale motivo, quando si forma la fede nella risurrezione, si comprende che la vita nella comunione

eterna con il Dio vivente, costituisce il compimento definitivo e sommo dell’alleanza. In questa

prospettiva, il banchetto che celebra la vita di un gruppo familiare, la vita della comunità, diviene, in

special modo nel culto, il banchetto che celebra la vita che il popolo riceve dal suo Signore, la vita

che Israele sperimenta nella comunione con il suo Dio. Il banchetto celebra la comunione con

YHWH nel dono della sua alleanza e nell’attesa dell’alleanza eterna nel suo regno. In tale ottica

acquista tutto il suo significato l’affermazione gesuana di 1Cor 11,26: «Ogni volta che mangiate di

questo pane e bevete di questo calice, voi annunciate la morte del Signore finché egli venga».

3) La differenza tra cibi “puri” e cibi “impuri” testimoniata dalla Scrittura, in particolare nel

Levitico, dev’essere compresa nell’orizzonte della distinzione tra “sacro” e “profano” che

contrassegna il rapporto con la realtà, alla luce di quanto Dio riserva per se stesso e di ciò che,

diversamente, egli affida alla libertà degli esseri umani. Questa non è tanto una distinzione di tipo

etico, quanto piuttosto investe le dinamiche del rapporto tra l’uomo e la sacralità della trascendenza

divina. Ciò non toglie che, proprio a partire da essa, la tradizione ebraica ha stabilito delle norme, la

cui osservanza ha a che vedere altresì con le scelte etiche di un popolo chiamato a vivere la santità

secondo una forma particolare desiderata da Dio, che lo separa dagli altri popoli per una

testimonianza tra le genti del mondo. In questo contesto, le norme religiose alimentari si delineano

in relazione a una via di sanità la quale, mediante la fedeltà ai precetti divini, mostra i valori

soggiacenti a una prassi che non è richiesta a tutti, bensì soltanto al “popolo di Dio”.

4) Banchettare, mangiare e bere significa celebrare la vita. Ma nel Salmo 22 si tratta di preparare

da mangiare e offrire da bere a qualcuno. Questa è l’espressione più elevata e fondamentale

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dell’amore umano: infatti, preparando da mangiare per un altro essere, noi affermiamo di desiderare

ch’egli viva. Ancora di più: in Sal 22, 5, colui che prepara la tavola e colma la coppa, è Dio, il quale

in tal modo afferma il suo amore per il fedele e la sua volontà di vita piena e di felicità per l’essere

umano.

5) La domanda sul pane presente nella preghiera del Padre nostro (Mt 6,9-13; Lc 11,2-4), al pari di

ogni preghiera cristiana, viene pronunciata in Cristo e trova esaurimento in Cristo stesso. Questa è

una domanda che plasma l’orante in povero e mendicante, che accetta di ricevere tutto da Dio e di

veder ri-significata la sua esistenza quotidiana, con il suo peso di bisogni, alla luce di Cristo. Il

Padre nostro è una preghiera che radica l’uomo orante nella fraternità soprattutto con quanti sono

senza pane e senza giustizia, senza libertà e senza parola, poiché soltanto vivendo tale solidarietà

egli può autenticamente pregare il Padre nostro.

6) «Cena del Signore» e «frazione del pane» sono le due espressioni con le quali la comunità delle

origini indicava l’assemblea eucaristica. La prima connota principalmente un’assemblea

comunitaria, senza distinzione di classi e altresì evidenzia che lo stare insieme comunitario è opera

del Signore, che rende presente il Signore stesso durante la cena. La seconda invece indica che,

accanto al rito, s’intende anche la condivisione del pane e così pone l’accento la dimensione sociale

dell’eucaristia. Da qualsiasi parte la si prenda in considerazione, essa lega profondamente culto ed

esistenza.

7) La voracità è collocata al primo posto nelle liste delle passioni, tanto in Oriente che in

Occidente. A causa sua, Adamo ed Eva sono stati esclusi dal paradiso; da essa è stato tentato Gesù

nel deserto. La voracità manifesta la deviazione dell’umano desiderio; l’uomo, fatto per rivolgersi al

suo Signore e creatore, si ferma alle creature, desidera divorare il mondo piuttosto che riceverlo in

dono e di ringraziare per esso. Antidoto a tale passione funesta sarà, per i Padri della Chiesa, la

moderazione nel mangiare, il digiuno, l’accompagnare l’atto del cibarsi con la preghiera ed il

rendimento di grazie.

La Bibbia ci offre veramente tante informazioni sull’alimentazione nell’età antica presso certi

popoli, pur non essendo propriamente un libro di dietetica né di cucina: leggerla risulterà

interessante e formativo.

STEFANO SEVERONI

BIBLIOGRAFIA

G. BORMOLINI, I vegetariani nelle tradizioni spirituali, Il leone verde, Torino 2000.

B. GILLIÈRON, Lessico dei termini biblici, Elle Di Ci Editrice, Leumann (TO) 1992, 42-43, 56-57, 70-71, 139, 168, 171-172, 177-179.

R. TANNAHIL, Storia del cibo, Rizzoli Libri, Milano 1987.27

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