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Francesca Bina 3F LETTERE DAL FRONTE PRIMA GUERRA MONDIALE Queste due lettere sono state scritte durante la battaglia di Caporetto da due soldati, entrambi lontani dalla loro famiglia. Scrivono per “allontanarsi” per un momento dagli orrori della guerra, per ricordarsi dei loro cari e per informarli; scrivere era anche un momento per sopravvivere. Il lessico utilizzato nei due scritti è informale e comune. La prima lettera è stata scritta da Alberto a sua moglie Maria nel novembre del 1917 durante la battaglia di Caporetto. Alberto ha vent’anni e le racconta come ha perso le gambe. Cerca di sopravvivere ricordando e raccontando al suo amico Giovanni di Maria; pensa ai bei giorni passati insieme a lei e ai progetti che avevano in mente dopo la fine della guerra. Scrive a sua moglie perché sa che sta per morire, vuole salutarla e ricordarle che resterà sempre nel suo cuore. La seconda lettera è di un soldato di nome Alessandro inviata a sua madre, nella quale le riferisce la sua storia al fronte. Alessandro scrive la lettera il 3 novembre del 1917. Le racconta la vita durante la guerra con la paura di morire da un momento all’altro e che ogni giorno deve uccidere persone innocenti; dice che nessuno potrà mai capire come ci si sente ad uccidere un uomo soltanto perché qualcuno te lo ordina. Scrive questa lettera per comunicare alla madre come sta ed esprime la sua paura mentre si trova al fronte. – Ospedale da campo – Novembre 1917 Cara Maria, amore mio è dolce scrivere il tuo nome su questo foglio stropicciato. La mia mano trema, ma pensare a te mi regala un po’ di luce in quest’inferno infinito. Sapessi quanto è lunga la notte. Non passa mai, mai, mai. E’ atroce la mia notte. Resto qui, sospeso tra i sogni e l’incubo che non mi lascia solo un istante. Il dolore alle gambe è lancinante. Senza tregua. Sento una lama conficcata nella carne. Ma quale carne poi? Non ho più le mie gambe, Maria. Le ho lasciate sulla montagna quella sera, strappate come stracci. C’era la luna, lo sai? La trincea era silenziosa da far paura, nemmeno un rumore, nemmeno un sospiro. Era così da giorni. Si aspettava, si aspettava e basta. Immobili,

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Francesca Bina 3F

LETTERE DAL FRONTE PRIMA GUERRA MONDIALE

Queste due lettere sono state scritte durante la battaglia di Caporetto da due soldati, entrambi lontani dalla loro famiglia. Scrivono per “allontanarsi” per un momento dagli orrori della guerra, per ricordarsi dei loro cari e per informarli; scrivere era anche un momento per sopravvivere. Il lessico utilizzato nei due scritti è informale e comune.

La prima lettera è stata scritta da Alberto a sua moglie Maria nel novembre del 1917 durante la battaglia di Caporetto. Alberto ha vent’anni e le racconta come ha perso le gambe. Cerca di sopravvivere ricordando e raccontando al suo amico Giovanni di Maria; pensa ai bei giorni passati insieme a lei e ai progetti che avevano in mente dopo la fine della guerra.Scrive a sua moglie perché sa che sta per morire, vuole salutarla e ricordarle che resterà sempre nel suo cuore.

La seconda lettera è di un soldato di nome Alessandro inviata a sua madre, nella quale le riferisce la sua storia al fronte. Alessandro scrive la lettera il 3 novembre del 1917. Le racconta la vita durante la guerra con la paura di morire da un momento all’altro e che ogni giorno deve uccidere persone innocenti; dice che nessuno potrà mai capire come ci si sente ad uccidere un uomo soltanto perché qualcuno te lo ordina.Scrive questa lettera per comunicare alla madre come sta ed esprime la sua paura mentre si trova al fronte.

– Ospedale da campo – Novembre 1917Cara Maria, amore mioè dolce scrivere il tuo nome su questo foglio stropicciato. La mia mano trema, ma pensare a te mi regala un po’ di luce in quest’inferno infinito. Sapessi quanto è lunga la notte. Non passa mai, mai, mai. E’ atroce la mia notte.Resto qui, sospeso tra i sogni e l’incubo che non mi lascia solo un istante. Il dolore alle gambe è lancinante. Senza tregua. Sento una lama conficcata nella carne. Ma quale carne poi? Non ho più le mie gambe, Maria. Le ho lasciate sulla montagna quella sera, strappate come stracci. C’era la luna, lo sai? La trincea era silenziosa da far paura, nemmeno un rumore, nemmeno un sospiro. Era così da giorni. Si aspettava, si aspettava e basta. Immobili, in quelle ferite della terra che erano diventate la nostra culla. Nostra, di noi bambini poco più che ventenni vestiti con una divisa troppo larga. Nostra, di noi che avevamo una baionetta in mano, sapendo che quel giocattolo avrebbe portato la morte, un giorno o l’altro. Si aspettava in silenzio.Ci guardavamo ogni tanto, Giovanni ed io, ci guardavamo interrogandoci con gli occhi, cercando di nascondere la paura che ci paralizzava il resto del corpo. Quanti discorsi in quegli sguardi muti. Un soldato non può tremare, non può. Sembrava così lontana la guerra tra quelle montagne, alla luce della luna. Sembrava lontana, inesistente. Sembrava un’invenzione che ci avevano raccontato per mandarci lì, ad aspettare. Quelle ferite infinite tracciate nella terra ci avevano ingoiato perché non fosse il male ad ingoiarci tutti come bocconi superflui. Ogni giorno, prima che scendesse l’oscurità, Giovanni scriveva alla “zita”(fidanzata) Rosalba che lo aspettava laggiù in Sicilia. Scriveva poche righe al giorno, un pezzetto e nient’altro. Perché, diceva, finché scrivo sono vivo, la sogno, vedo il suo sorriso. Era il suo modo per aggrapparsi alla vita ed alla chimera di un futuro pericolosamente a rischio. Io invece gli parlavo di te, in continuazione, sotto le stelle che sembrano complici delle mie confidenze. Gli parlavo dei tuoi occhi chiari come un lago di montagna, dei tuoi capelli dorati come il grano di un’estate che sbocciava per noi innamorati timidi e timorosi di quell’amore impetuoso come un uragano. Gli parlavo dei tuoi baci furtivi, dell’abbraccio dal quale ogni sera non volevo staccami mai. Gli raccontavo dei miei progetti con te, della vita che avremmo vissuto insieme, quando sarei tornato a casa. Parlando sorridevo e Giovanni diceva che mi s’illuminava il volto. E’ vero, mi s’illuminava la vita. Raccontavo incessantemente, e mi sentivo meno solo. L’ultimo giorno, quel maledetto giorno, gli confessai il

segreto che mi avevi svelato sottovoce alla stazione poco prima della mia partenza, il nostro segreto. Portando la mia mano sul tuo ventre mi avevi sussurrato dolcemente: “Saremo in tre, torna

presto. Ti aspettiamo”. Io ti guardai, con le lacrime di gioia già pronte a sgorgare dai miei occhi immersi nei tuoi, incapace di dire una parola. Quanto avrei voluto che quel treno non mi portasse via da te. Quanto avrei voluto stringerti forte, in silenzio, senza fine. Non ti ho mai amata tanto come in quell’istante. Com’eri bella Maria, giovane e bionda come un angelo. Eri il mio destino ed il mio futuro. Mi hai donato il tuo amore, la tua tenerezza, i tuoi sogni. Tutta te stessa. Mi hai fatto il regalo più bello, la speranza. Avrei voluto fermarlo, quell’istante e farne un dipinto sulla tela del cuore. E come mi batteva forte il cuore, Maria mia. Un tamburo impazzito, un tamburo a festa. Ma non c’era tempo, ricordi? Salii sul vagone e rimasi a guardarti dal finestrino, mentre diventavi un puntino lontano, sempre più lontano, un puntino vestito di azzurro con i capelli accarezzati dal vento tiepido di aprile. Giovanni non l’ha mai finita, la sua lettera. Rosalba riceverà tre fogli di carta bruciacchiata, scritti con una grafia traballante e rotta in più punti, come se in quelle pause il mio fraterno amico avesse voluto riprendere fiato, riordinare i pensieri e cacciare indietro la paura per aggrapparsi di nuovo ai suoi vent’anni, respirando forte. E’ stato un attimo. Tutto è successo in modo fulmineo. La luce della luna che era la nostra lanterna divenne improvvisamente un fulgore di fiamme, mentre bagliori rossi insanguinavano la notte. Il silenzio fu squarciato da mille esplosioni, una dietro l’altra, una sopra l’altra, ovunque. Fu l’inferno. Ci arrivarono alle spalle, senza far rumore. Ho ucciso due uomini, amore mio. Mi aspettavo un nemico diverso, con una faccia diversa. Vidi un ragazzo come me, spaventato come me, diverso era solo il colore della divisa. E poi un altro, dietro di lui. Due ragazzi come me, con una divisa simile. Che faccia ha il nemico, Maria? Ho sentito un fruscio, ho avuto solo il tempo di voltarmi e di puntare la mia arma. Il mio giocattolo letale. Li ho visti cadere all’indietro, con un grido strozzato che mi è rimasto dentro, un’eco che risuona ancora cullandomi come una nenia imbevuta di colpa. Potrai mai perdonarmi, amore mio? Ho ucciso due uomini, prima di sentire il fuoco alle gambe, prima di vedere il buio negli occhi.Mi sono svegliato qui, in questa tenda che sa di morte e di sangue. Quanto tempo è passato? Quante notti sono trascorse? Quanto è durato il mio sonno scuro come un pozzo senza fondo e senza luce? Non tornerò a casa, anima mia, lo so. Li ho sentiti parlare. Bruciavo di febbre, ma li sentivo, di là da questa branda che è già la mia bara. Ho perso troppo sangue, l’amputazione è stata inutile. Nel delirio ripercorro con le mente il tuo profilo perché la morte che mi dorme accanto non mi rubi anche il ricordo di te, accarezzo con le dita della memoria il tuo volto radioso, più e più volte, per stamparti nel cuore. Per vederti ancora nella penombra di questa vista già annebbiata. Non tornerò, Maria. Come non tornerà Giovanni, saltato in aria con i suoi fogli per Rosalba ancora da finire. Di lui non hanno trovato quasi nulla, se non brandelli senza nome ed una piastrina infangata. Di me resterà questa lettera per te. Su quella montagna ho lasciato tutti i miei sogni. Ho lasciato i miei vent’anni. A chi vorrà raccoglierli, e farne fiori.Portami nel cuore, amore mio, per sempre. Io porterò con me i tuoi occhi e quelli di un figlio che non conoscerò mai. Come sei bella, Maria… Per te, solo per te, fino all’eternità.

Alberto 

Caporetto, 3 novembre 1917         Carissima madre, come state?Qui la situazione è terribile, non si può vivere e ogni giorno le bombe sono boati che sgretolano un’intera parte del mondo. La guerra è spietata sotto ogni aspetto: molti miei compagni rimpiangono giorno e notte di essersi allontanati dalle proprie famiglie per abbandonarsi alla presunta morte. Io però non mi arrendo, spero ancora di farcela e di uscire vivo da questo inferno.Voi non potete nemmeno immaginare quanto io soffra ogni ora per quello che vedo e sento.Ogni mattina mi alzo prestissimo al suono delle fucilate, tra i defunti della trincea e le persone morenti che esalano gli ultimi respiri pregando il buon Dio nell’attesa di trovare la pace. Quando arriva il mio turno provo un dolore e una tristezza infinita, quasi come un fuoco che brucia ogni

speranza. Quasi per miracolo, riesco a resistere per qualche tempo. Questi casi sono i più disperati: devi uccidere senza guardare in faccia alcuno, non importa chi ti troverai davanti perché dovrai

ugualmente sparare, e farlo quasi con fierezza o passione; dovrai continuare, senza poterti opporre agli ordini, anche se avrai la polvere negli occhi e le lacrime nel cuore. E in quei momenti sai che stai commettendo del male, ma non puoi fermarti, anche se sei consapevole che chi sta al di là di quel confine è giovane come te e non è colpa sua se indossa una divisa di un altro colore o alza una bandiera diversa dalla tua.C’è invece chi muore di fame e di stenti, anche perché il cibo è scarso e quel poco che possiamo mettere sotto i denti è rancido. I più deboli muoiono per colpa del freddo che ci tormenta dalla sera al mattino. Le coperte, infatti, sono poche e chi riesce a procurarsele è così avido da non volerle condividere con nessuno.Alla fine di una settimana abbiamo conquistato o perso solo pochi metri, che ai miei occhi sembrano solo allagati dal caldo sangue innocente di chi ha lottato fino alla fine.Sono stufo, mia carissima e preziosissima madre, di tutto quello che sta succedendo; qui si sta verificando l’impossibile: morti a destra, morti a sinistra, morti dietro ai miei lenti passi scoraggiati. Ognuno di noi sa che non può in alcun modo tornare indietro e recuperare ciò che è ormai  perduto per sempre: la vita di un amico, di un fratello lontano che ora non può più abbracciare.Basta, basta, basta! Non ne posso più, ho il cuore freddo come una pietra e le lacrime calde che parlano da sole: ho ucciso. Non credevo che sarei mai stato capace di spezzare la vita di un uomo così velocemente, senza permettere di dare ad entrambi un senso all’orrore della guerra.Chi non prova a vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo e detta solo leggi dalla propria scrivania, dicendo di combattere sempre e comunque, non sa che cosa noi abbiamo visto, udito, provato, e non potrà mai, dico mai, rendersene conto.Solamente ora, ahimè, capisco che a noi qui non è rimasto più niente, solo i boati nelle orecchie, il freddo sulle gambe, il respiro dell’ingiustizia nella mente e il peso di vite umane che grava sul cuore, e guardando come incantato il mondo intorno a me, per la prima volta nella mia vita, ho paura.Un saluto e un abbraccio, 

Alessandro

Sabrina Fusi 3F

Somma Lombardo 1916

Amatissimo figlio Giovanni,

benché piccolo ed innocente bambino, tuo padre, tanto lontano, che forse a rivederlo non lo riconosceresti, vuole darti un consiglio che terrai a memoria fino a che avrai conoscenza: per tutta la vita ubbidisci alla tua mamma, siili fedele e affettuoso non mancando mai ai suoi detti, rispetta i vecchi e aiuta i poveri, adempi i tuoi doveri verso il prossimo e verso la tua Patria.Sii virtuoso nei tuoi sentimenti e vedrai che Dio ti darà la Santa Benedizione come te la offre tuo padre ora che si trova fra la vita e la morte.Questo sarà un mio ricordo, un mio testamento se la sfortuna a me toccasse di non rivederti assieme a mamma e al tuo caro fratello, e ti raccomando di dare anche a lui i dovuti consigli quando sarai nell’essere di conoscenza. Ma se la fortuna mi assiste per poter ritornare sarà e dovrà restare conservata questa carta come una memoria eterna nell’avvenire.Con la penna non posso dirti quanto soffre il tuo genitore per sé e per la sua Patria; tutto è dovuto all’istinto di conservazione di questa vita, tutte le sofferenze ed i disagi, la morte momentanea che legge impone, come quella che si impose al nostro Altissimo Creatore Iddio, che morì per noi sul patibolo della Santa Croce.Amato figlio, avrei troppo da narrarti e benché tuo padre non è tanto padrone della penna e della lingua con questo poco scritto ti inculca generosità ed educazione.Mi piange il cuore a doverti dire questo e ne avrei ancora, ma non posso perché dovrei rigare queste pagine di pianto.Stai buono, educato ed obbediente, ama le tue nonne e mostrale sempre ed ovunque il tuo rispetto, abbi per ultimo ancora tanto rispetto per il nonno Nicolaio che il tuo padre tiene in cuore come memoria. Basta. Baci ad Emanuele e mamma, tanti alle nonne e nonno, zie e zii tutti.

Ti bacia tanto tuo padre che tanto ti pensa.

Questa lettera è stata scritta nel 1916 da Stefano Rum per il figlio di 4 anni, Giovanni, quando si trovava a Somma Lombardo.

Stefano si rivolge al figlio con saggezza e virtuosità, cercando di trasmettergli valori importanti, tra cui il rispetto verso ognuno e il dovere di aiutare i più bisognosi. Vuole che dia consigli al fratello Emanuele: di essere educato, di obbedire e ascoltare sempre la propria madre e di amare coloro che gli sono vicino. Racconta della sua sofferenza per la lontananza dalla famiglia e della vita difficile che conduce in guerra. E desidera che tenga questa lettera, scritta come piccolo testamento in caso la sfortuna lo colpisse, per possedere un ricordo del padre.

Nonostante abbia frequentato soltanto due anni di scuola elementare, scrive con una forma corretta, senza influssi dialettali, con registro informale.

Giugno 1916

Caro padre,

sono qui in trincea da più di un mese, credo. Ho perso la condizione del tempo. Non ricordo più nemmeno il giorno in cui vi ho lasciato. Siamo partiti in tanti e c’erano anche i miei amici. Sono giorni che non li vedo e credo che abbiamo cessato di combattere. Come sta vostra moglie? Mi manca tanto anche lei, la sua voce, il suo profumo, la sua cucina. Con molta fatica siamo riusciti a scavare la trincea e a circondarla di filo spinato. Fin dall’alba si sentono suoni acuti, rimbombanti, forti che sogno anche la notte. Delle volte mi è capitato che, mentre stavo dormendo, mi svegliavo di soprassalto, credendo che avessero sparato o lanciato qualcosa. Come vi ho già detto, padre, le condizioni di vita sono molto dure: spesso siamo costretti a camminare nelle trincee con l’acqua che arriva fin sopra la vita. Il clima è rigido, con qualche fiocco di neve, sono poche le volte che ho visto la luce del sole. Quanto vorrei poter essere adesso vicino a voi, come quando ero bambino. Ricordate? Quando la madre mi stringeva al petto dicendomi che sarei diventato forte e coraggioso. Quando giocavo insieme ai miei fratelli a nascondino con la gonna della nonna. Bei tempi! Non avrei mai pensato di poter finir qui, sul fronte, a combattere per la patria, per completare l’Italia e per sentir la soddisfazione di dire: Sì sono italiano e ho combattuto per la mia nazione e proprio come direbbe Manzoni: Oh dolente per sempre colui che da lunge, dal labbro d’altrui, come un uomo straniero, le udrà! Che a’suoi figli narrandole un giorno dovrà dir sospirando: io non c’era. Ma accanto a questo mio incoraggiamento positivo ce n’è uno negativo che mi fa sentire un codardo, un traditore, un topo in cerca di un nascondiglio per non essere trovato. Ho paura che la morte mi prenda e mi trascini con sé. Non voglio. Mi sento colpevole, ma non so di cosa. Non sto in pace con me stesso. Mi basterebbe vedere il vostro volto, padre, per trovare un po’ di forza e di fiducia. Tristemente devo lasciarvi, il generale Cadorna ci chiama.

Un abbraccio.

Vostro figlio.

Questa lettera è scritta da un ragazzo per il proprio padre nel giugno 1916 mentre era al fronte.

Scrive al proprio padre per sentirlo un po’ più vicino, chiedendogli della madre, raccontandogli di come vive, dei suoi ricordi, del suo orgoglio per combattere per la patria, ma anche dei suoi sensi di colpa e le sue paure, che potrebbero essere cancellate alla vista del padre, che per il ragazzo è un punto di riferimento per trovare un po’ di forza. Si rivolge al padre dandogli del voi e riferendosi alla madre con ‘vostra moglie’, portando un gran rispetto verso i suoi genitori. La forma con cui è scritta la lettera è piuttosto corretta, senza influssi dialettali, e il registro è informale.

Bianchessi Michela 3F

“TI BACIO IL CUORE” DERVIO, MARZO 1917

Mio unico amore,

sento il bisogno di scriverti perché aspettando la tua risposta attenderei a lungo (…) Ora dunque mi sono messo qui al tavolo per scriverti perché sento che avrei bisogno di dirti tante cose.

Ma non so spiegarmi; quando ti ho detto che ti voglio sempre tanto bene ho detto tutto. Che mai non posso distaccare il mio pensiero da te, dalla mia famiglia, che solo per essa tutto sopporto, tutto soffro, tutto spero e ho fiducia che un giorno bello, pieno di sole e di vita mi sarà dato di abbracciarti e per non distaccarmi mai più. Ieri (…) andai a fare (…) una bellissima passeggiata a Bellano e a Varenna (…) Che bei paesi, che ville, che vigne, giardini, ulivi, fiori e sempre camminate sulle rive del lago. In quelle ore pensavo a te e mi ricordavo di quella nostra passeggiata che facemmo a Salò il giorno delle nostre nozze! Mi sembrava proprio che le onde, la severità e la dolcezza insieme dei monti mi sussurrassero all’orecchio e mi ripetessero quelle parole d’amore e quei baci che tu mi prodigavi in quella passeggiata in quella passeggiata e in quel giorno sì tanto solenne per noi. Invece ero solo, ma sentivo però il mio spirito volare, attraverso lo spazio, venirti a cercare e invitarti di unirti meco a contemplare queste meraviglie della natura, poiché tutte parlano d’amore. Ma un amore fedele, cotante, indissolubile. E questo io lo sento, lo nutro per te e capisco che non viene mai meno, anzi aumenta sempre più e volge all’infinito. (…)

Sento che sono ancora degno di te, del tuo amore che mi immagino sarà sempre puro, immacolato come il mio. Per cui sento che ho bisogno di una tua parola che mi rinfranchi, che mi dica che mi ami ancora, sempre, che mi aspetti, che mi farai felice.

Questa lettera è stata spedita dal fronte durante la Prima Guerra mondiale. Mostra l’intenso scambio epistolare di una coppia, un fitto carteggio che inizia il 21 giugno 1916 e termina nel 1918, rimasto per più di novant’anni chiuso in una scatola nella stanza da letto di Felice (il presunto ragazzo che scrisse la lettera). Un giorno la nipote decise di recuperare, riordinare e pubblicare questa corrispondenza nel libro Lettere d’amore dal fronte di Felice el Sartùur (1916-1918), a cura di Giancarla Arisi.

Il lessico è comune, tra il formale e l' informale e, secondo me, utilizza un’espressione grammaticale adeguata.

Ho scelto di commentare questa lettera per il progetto di Storia sulle lettere dal fronte della Prima Guerra mondiale perché leggendola ho capito che, anche se si aveva paura di morire da un momento all’altro, per distogliersi da questo pensiero i militari si consolavano rivivendo nelle loro menti i momenti felici passati insieme ai loro cari.

Marialuisa Arroyo 3F

Lettere di soldati Silvio D' Amico, Diario di guerra (in: Corriere della Sera del 30 marzo 1980.)

"I discorsi dei fanti non sono allegri. E oggi parlavano sul tema: fucilazioni. Che è il più lugubre. Che c'è di vero nei racconti delle iniquità e delle ingiustizie senza nome attribuite ai tribunali militari? Serrentino racconta di come fu mandato a morire sotto il fuoco nemico un aspirante di diciannove anni, arrivato da tre ore in trincea, i cui uomini si erano sbandati davanti alle mitragliatrici austriache.

Ma il fatto più atroce è un altro. Presso un reggimento di fanteria, avviene un'insurrezione. Si tirano dei colpi di fucile, si grida non vogliamo andare in trincea. Il colonnello ordina un'inchiesta, ma i colpevoli non sono scoperti. Allora comanda che siano estratti a sorte dieci uomini; e siano fucilati. Sennonché, i fatti erano avvenuti il 28 del mese, e il giudizio era pronunciato il 30. Il 29 del mese erano arrivati i " complementi", inviati a colmare i vuoti prodotti dalle battaglie già sostenute: 30 uomini per ciascuna compagnia. Si domanda al colonnello: "Dobbiamo imbussolare anche i nomi dei complementi? Essi non possono aver preso parte al tumulto del 28: sono arrivati il 29 ". Il colonnello risponde:." Imbussolate tutti i nomi". Così avviene che, su dieci uomini da fucilare, due degli estratti sono complementi arrivati il 29. All'ora della fucilazione la scena è feroce. Uno dei due complementi, entrambi di classi anziane, è svenuto. Ma l'altro, bendato, cerca col viso da che parte sia il comandante del reggimento, chiamando a gran voce: "Signor colonnello! signor colonnello! ". Si fa un silenzio di tomba. Il colonnello deve rispondere. Risponde: "Che c'è figliuolo? "." Signor colonnello! " grida l'uomo bendato "io sono della classe del '75. Io sono padre di famiglia. Io il giorno 28 non c'ero. In nome di Dio! ". "Figliuolo" risponde paterno il colonnello "io non posso cercare tutti quelli che c'erano e che non c'erano. La nostra giustizia fa quello che può. Se tu sei innocente, Dio te ne terrà conto. Confida in Dio".

Lettera di Mario Bonaldi dall'Alpe di Sant'Antonio (Molazzana)sopravvissuto, poi emigrato. Non faccia stupore se il fronte di guerra viene descritto come" un campo estivo". La principale preoccupazione del soldato, diffusa poi tra tutti i commilitoni, è la volontà di rassicurare i propri cari.

"Cari Genitori,la mi salute al presente è ottima come spero di voi tutti in famiglia. Come vi replico ancora mi trovo in questo paese che si chiama Galeriano, qui mi fanno fare l'istruzione tutto il giorno altro che si sta male con il rangio che tutti i soldati si lamentino. Sarebbi pronto anco a rinunciavvi al rangio pure che mi lascino qui e non mandammi in trincea. Adesso cari genitori posso ringraziare il Signore che mi ritrovo qui in Italia i miei compagni sono in trincea  e gli tocca fa il turno di 21 giorni e se dice peggio anco 40. Anco se siamo a 100 chilometri si sentino i cannoni come fossero li. Questo meso di maggio un è poi bello perchè arrivino gli ordini sempre di avanzare e fare le avanzate è molto brutto. Caro Padre fatemi sape come va la campagna se hanno fiorito bene, se ci  si pole già accorge dei frutti e delle semine e lo so che siete

solo, poi con tutte quelle bestie nella stalla..."

 

Come si nota, il linguaggio è molto semplice, sgrammaticato, con influssi dialettali molto evidenti: è la lettera di un giovane contadino, costretto dalla leva obbligatoria a fare il soldato.

Jacopo Resenterra 3F

LETTERE DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE

Nell’estate del 1914, l’Europa prima e il mondo intero poi precipitarono nella prima guerra di massa su scala mondiale: la Grande Guerra. Per la prima volta, nonostante il teatro di guerra si sia concentrato soprattutto in Europa, sono stati coinvolti simultaneamente nazioni e territori coloniali di tutti i continenti, dall’Australia al Medio Oriente, dal Giappone alla Thailandia. Per la prima volta la guerra ha coinvolto una quantità di uomini fino ad allora inimmaginabile: le fonti riportano circa 74 milioni di soldati mobilitati su tutti i fronti, oltre 10 milioni di morti e almeno 21 di feriti. Per la prima volta la popolazione civile è stata massicciamente coinvolta dalle operazioni di guerra.

Il battesimo del fuoco significherà per molti soldati anche il battesimo della penna. Nei primi decenni del XIX secolo, secondo le diverse situazioni regionali, e con crescente intensità soprattutto nel periodo tra la fine dell’Ottocento e il 1914, i fenomeni migratori avevano favorito l’ingresso nell’universo della scrittura di milioni di uomini e donne comuni, costretti dalla lontananza alla pratica della comunicazione scritta. La Prima guerra mondiale ha impresso un’accelerazione immensa alla diffusione della pratica della scrittura, non solo perché ha obbligato grandi masse, generalmente contadini, a prendere in mano una matita e quindi a confrontarsi con l’uso scritto attivo della lingua, ma soprattutto perché lo fecero in modo simultaneo, concentrato nel tempo e in condizioni limite.

La frequenza con la quale i soldati al fronte scrivevano a casa è la dimostrazione di quanto fosse urgente la necessità di scrivere e ricevere posta. La principale differenza tra il bisogno di scrivere degli emigranti e quello dei soldati è determinata dalle caratteristiche dell’esperienza di guerra, che è tanto traumatica da riuscire a trasformare la scrittura in uno strumento di sopravvivenza. Il mestiere di prender la matita rappresenta la possibilità di testimoniare la propria esistenza in vita, di rassicurare i propri cari, ma svolge anche la funzione terapeutica di allontanare momentaneamente e virtualmente i soldati dagli orrori della guerra, offrendo loro un rifugio negli affetti di casa, nei ritmi della vita della comunità.

I soldati nei loro scritti dal fronte ci hanno lasciato una testimonianza diretta di questo terribile evento. Un’impronta «a caldo» lasciata su lettere e cartoline in franchigia,1 spesso sofferte, sgrammaticate, dalla grafia incerta, che ci conduce attraverso uno straordinario viaggio indietro nel tempo: sulle trincee del Carso, attraverso i reticolati della terra di nessuno o nelle retrovie, fra i camminamenti scavati in prossimità degli argini dell’Isonzo o nelle terre irredente, oltre i confini con l’Austria. Emerge così la guerra come esperienza privata, tante storie singole di individui uniti dalla stessa sorte e dall’appartenenza allo stesso mondo.

Le lettere qui di seguito furono scritte da soldati al fronte, per lo più coloni, braccianti, operai, che morirono in combattimento. Questi scritti offrono uno spaccato interessante del ceto popolare italiano durante la grande guerra; dalla loro lettura emergono alcuni elementi ricorrenti quali i forti legami familiari, la cultura contadina, le difficoltà finanziare, il diffuso analfabetismo. Colpiscono, poi, in particolar modo, le riflessioni dei soldati, che con incisività riescono a comunicare l’insensatezza e l’atrocità della guerra.

1 I soldati italiani della Grande Guerra potevano scrivere a casa usufruendo della "franchigia", cioè dell'esenzione dal pagamento, utilizzando apposite "cartoline in franchigia" del Regio Esercito distribuite dalla struttura militare. La parte anteriore era prestampata negli spazi riservati i dati del destinatario e del mittente, la parte posteriore era bianca per contenere il testo.

Zona di guerra 16/8/1915

Carissima Madre

Invio la presente assicurandovi che per il momento che scrivo, trovarmi in buona salute, e

voglio sperare che il simile segue di voi: con la presente vi dirò che io mi trovo in un paese

molto vicino, e presto prenderemo parte anche noi, voi fatevi coraggio, e non pensate a niente

che io mi sento di tornare presto fralle vostra braccia. Cercherò di farmi distinguere, e guarderò

di fare una buona caccia di questi vigliacchi: ricevete in tanto i più cari saluti e tanti baci vostro

aff.mo figlio

Bolognesi Silvio

Il soldato di cavalleria Silvio Bolognesi, barrocciaio, morì a 21 anni nel 1915.

La lettera che segue, scritta tra commilitoni e amici, descrive efficacemente la brutalità del combattimento in trincea.

Zona di guerra li 19/ 10/1916

Carissimo Amico

Con premura rispondo subito alla tua cartolina dove mi ha dato un grosso dispiacere di

dovere tornare sopra alla sventura del nostro caro Vittorio, più dolore ancora mi sento dovendo

dirti che il povero nostro amico morì senza fare nessuna parola, sarebbe stato anche per noi

stessi una grossa consolazione avendogli sentito pronunciare una sola parola. Ma devo dirti che

non fece nessuna esclamazione lui si trovava costi seduto con un docile pensiero e cosi tranquillo

mai non avrebbe creduto un fatto simile. Devi sapere che un momento prima mi ci trovavo

ancora io che gli scrissi una lettera alla sua moglie, dopo mi dilontanai per andare a pigliare una

burraccia d’acqua e lui stava mangiando un boccone di pane, non appena che mi fui alzato di li

arrivo una nostra granata scoppiando di dietro pochi metri in modo una scheggia lo venne a

colpire lui con altri compagni.

Caro Amico, non credere che fosse stata una grossa ferita la sua ma però il dove lo prese lo

ridusse mortale. Fu colpito in una tempia. Non ho altro che dirti solo che lasciò noi tutti suoi

amici in un profondo dolore compreso tutto la comp. dovettero piangerlo perche era un bravo

soldato per tutti e poi tutti siamo in riposo.

Caro Amico, mi domandi del Pisaneschi Lui si trova qui al mio fianco mentre che scrivo e s i

trovava presente al fatto mentre il Cecchi mori il giorno stesso di Vittorio colpito da una

pallottola austra. Non avendo altro che dire solo scrivo la lettera con dolore ma però ti prego

farti coraggio speriamo sempre in bene.

Ricevi saluti e Baci da me come Pisaneschi Amici saluti da tuo fratello Pietro tuoi amici

Ghianda Pisaneschi

Zona di guerra, 29 luglio 1915

Carissimi genitori,

rispondo alla vostra lettera da me tanto

desiderata la quale mia datto molto piacere nel

sentire che siete tutti in perfetta salute e così vi

posso assicurare che segue di me.

Sono rimasto molto contento nel sentire che

avete ricomprato i vittelli e le vacche più mi dite

che avette rivenduti i vittelli e avette fatto un bel

guadagno questo lo avutto.

Carissimi genitori ora vi faccio sapere che o

ricevuto il vaglia di lire 8 più sento volete sapere

dove mi trovo se sono sempre in Italia. In quanto a

trovarmi io mi trovo in Austria e sono diversi giorni

ma pero none state in penzieri perche perora sono

distante sempre dal fuoco e mi trovo da una buona

parte perche almeno siamo in un casolare alpino e

siamo vicini a entrare in nel Trieste e si spera

quando siamo nel Trieste di andare anche meglio

perche ce anche la marina.

Qui termino di scrivere con salutarvi tutti in

famiglia più saluterete amici e parenti e chi

dimanda di me più saluterete il padrone da parte

mia. Di nuovo vi saluto dandovi una stretta di

mano e mi firmo figlio Pilade.

Caro fratello Sisto ti scrivo questi due richi per farti

sapere atte dove mi trovo io mi trovo in seconda linia e uno di questi giorni si va a dare il cambio

alla prima linia pero speriamo sempre in bene adio apresto e mi firmo tuo fratello Pilade.

Ti prego di non fare sapere niente a babo e a mamma.

Bellucci Pilade

Il soldato di fanteria, Pilade Bellucci, morì in combattimento il primo agosto 1915. Era un colono e aveva vent'anni.