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Antologia kantiana “Il cielo stellato sopra di me” Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto piú spesso e piú a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me . Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza. La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo a una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro movimento periodico, del loro principio e della loro durata. La seconda comincia dal mio io indivisibile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un mondo che ha la vera infinitezza, ma che solo l’intelletto può penetrare, e con cui (ma perciò anche in pari tempo con tutti quei mondi visibili) io mi riconosco in una connessione non, come là, semplicemente accidentale, ma universale e necessaria. Il primo spettacolo di una quantità innumerevole di mondi annulla affatto la mia importanza di creatura animale che deve restituire al pianeta (un semplice punto nell’Universo) la materia della quale si formò, dopo essere stata provvista per breve tempo (e non si sa come) della forza vitale. Il secondo, invece, eleva infinitamente il mio valore, come [valore] di una intelligenza, mediante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall’animalità e anche dall’intero mondo sensibile, almeno per quanto si può riferire dalla determinazione conforme ai fini della mia esistenza mediante questa legge: la quale determinazione non è ristretta alle condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all’infinito” (I. Kant, Critica della ragion pratica) Leibniz: la venatura del marmo “Può darsi che il nostro valente autore [John Locke] non sia del tutto lontano dalla mia opinione. Infatti, dopo aver impiegato tutto il suo I libro a confutare le idee innate, prese in un certo senso, riconosce tuttavia, all'inizio del II, e in seguito, che le idee che non si originano nella sensazione vengono dalla riflessione: ora, la riflessione non è altro che un'attenzione a

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Antologia kantiana

“Il cielo stellato sopra di me”

Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto piú spesso e piú a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza. La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo a una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro movimento periodico, del loro principio e della loro durata. La seconda comincia dal mio io indivisibile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un mondo che ha la vera infinitezza, ma che solo l’intelletto può penetrare, e con cui (ma perciò anche in pari tempo con tutti quei mondi visibili) io mi riconosco in una connessione non, come là, semplicemente accidentale, ma universale e necessaria. Il primo spettacolo di una quantità innumerevole di mondi annulla affatto la mia importanza di creatura animale che deve restituire al pianeta (un semplice punto nell’Universo) la materia della quale si formò, dopo essere stata provvista per breve tempo (e non si sa come) della forza vitale. Il secondo, invece, eleva infinitamente il mio valore, come [valore] di una intelligenza, mediante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall’animalità e anche dall’intero mondo sensibile, almeno per quanto si può riferire dalla determinazione conforme ai fini della mia esistenza mediante questa legge: la quale determinazione non è ristretta alle condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all’infinito” (I. Kant, Critica della ragion pratica)

Leibniz: la venatura del marmo

“Può darsi che il nostro valente autore [John Locke] non sia del tutto lontano dalla mia opinione. Infatti, dopo aver impiegato tutto il suo I libro a confutare le idee innate, prese in un certo senso, riconosce tuttavia, all'inizio del II, e in seguito, che le idee che non si originano nella sensazione vengono dalla riflessione: ora, la riflessione non è altro che un'attenzione a ciò che si trova in noi, e i sensi non ci danno affatto ciò che portiamo già in noi medesimi. Ciò posto, come negare che vi siano molte cose innate nella nostra mente, dal momento che noi, per cosí dire, siamo innati a noi stessi, e in noi si trova essere, unità, sostanza, durata, azione, percezione, piacere e mille altri oggetti di nostre idee intellettuali. E poiché questi oggetti sono immediati, e sempre presenti al nostro intelletto (sebbene non sempre siano percepiti, a cagione delle nostre distrazioni e dei nostri bisogni), come meravigliarsi se noi diciamo che queste idee ci sono innate, con tutto ciò che da esse dipende? Talvolta mi son servito anche del paragone di un blocco di marmo venato, diverso da un blocco di marmo tutto unito, o dalle tavolette vuote: ossia, da ciò che i filosofi chiamano tabula rasa. Poiché, se l'anima fosse simile a queste tavolette vuote, le verità sarebbero in noi come la figura d'Ercole in un blocco di marmo,

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quando il blocco sia assolutamente indifferente a ricevere questa o quella figura. Ma se vi fossero venature nel marmo, tali da segnare la figura di un Ercole a preferenza di altre, quel blocco avrebbe una maggior determinazione, e l'Ercole vi sarebbe, in qualche modo, innato, pur restando necessario un certo lavoro per scoprire le vene e per mettere a nudo la figura, togliendo il soverchio che le impedisce di apparire. È questo il senso in cui le idee e le verità sono innate in noi, come inclinazioni, disposizioni, abitudini o virtualità naturali, e non come azioni: anche se tali virtualità sono sempre accompagnate da una qualche azione corrispondente, spesso insensibile”. (G. W. Leibniz, Nuovi saggi sull'intelletto umano)

Hume: la conclusione delle Ricerche sull’intelletto umano

“La scienza del divino o teologia, in quanto prova l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima, risulta in parte di ragionamenti su fatti particolari, in parte di ragionamenti su fatti generali. Essa ha un fondamento nella ragione, in tanto in quanto è sostenuta dall’esperienza. Ma il suo fondamento migliore e piú solido è la fede e la rivelazione divina.

La morale e la critica non sono propriamente oggetti dell’intelletto, quanto del gusto e del sentimento. La bellezza, sia morale che naturale, è piú propriamente sentita, che percepita con l’intelletto. O, se ragioniamo intorno ad essa e cerchiamo di stabilirne il criterio, consideriamo un fatto nuovo, cioè i gusti generali degli uomini, o qualche fatto del genere, che possa esser oggetto di ragionamento e di ricerca speculativa.

Quando scorriamo i libri di una biblioteca, persuasi di questi princípi, che cosa dobbiamo distruggere? Se ci viene alle mani qualche volume, per esempio di teologia o di metafisica scolastica, domandiamoci: Contiene qualche ragionamento astratto sulla quantità o sui numeri? No. Contiene qualche ragionamento sperimentale su questioni di fatto e di esistenza? No. E allora, gettiamolo nel fuoco, perché non contiene che sofisticherie ed inganni. (D. Hume, Ricerche sull’intelletto umano, Sez. dodicesima, Parte prima)”

Il tribunale della ragione

“È vano infatti fingere indifferenza nei riguardi di indagini del genere, il cui oggetto non può mai essere indifferente alla natura umana. Gli stessi presunti indifferenti, anche se cercano di mimetizzarsi dando un tono popolare al linguaggio di scuola, tosto che pensano qualcosa, finiscono inevitabilmente per cadere in quelle affermazioni metafìsiche verso cui ostentavano tanto spregio. Tuttavia, è un fenomeno degno di attenzione e riflessione questa indifferenza che ha luogo nel pieno fiorire delle scienze tutte e che concerne proprio quella alle cui conoscenze meno si vorrebbe rinunciare, se fosse dato averne. Essa non è di certo l’effetto della leggerezza, ma della matura capacità di valutazione a dell’epoca che non vuol più lasciarsi tenere a bada da un falso sapere, ed è un richiamo alla ragione affinché assuma nuovamente il più arduo dei suoi compiti, cioè la conoscenza di sé, e istituisca un tribunale che la tuteli nelle sue giuste pretese, ma tolga di mezzo quelle prive di fondamento, non già arbitrariamente, ma in base alle sue leggi eterne ed immutabili; e questo tribunale altro non è se non la critica della ragion pura

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stessa. Con questa espressione non intendo alludere a una critica dei libri e dei sistemi, ma alla critica della facoltà della ragione in generale, rispetto a tutte le conoscenze a cui essa può aspirare indipendentemente da ogni esperienza; quindi alla decisione sulla possibilità o impossibilità di una metafisica in generale, alla determinazione tanto delle fonti quanto dell’estensione e dei limiti della medesima, il tutto però in base a princìpi”. (Immanuel Kant, Prefazione alla prima edizione della “Critica della Ragion Pura” (1781))

La rivoluzione copernicana

“Se la logica è tanto ben riuscita, deve questo vantaggio semplicemente alla sua delimitazione, ond'essa e autorizzata, o, meglio, obbligata, ad astrarre da tutti gli oggetti della conoscenza e dalla loro differenza; sicché l'intelletto non deve nella logica occuparsi d'altro che di se stesso e della propria forma. Doveva naturalmente riuscire assai più difficile per la ragione entrare nella via sicura della scienza, quando avesse avuto da fare non solo con se stessa, ma ancora cogli oggetti; quindi la logica, in quanto propedeutica, non costituisce quasi altro che il vestibolo delle scienze, e, quando si parla di conoscenze, si presuppone bensì una logica pel giudizio su di esse, ma la loro acquisizione deve cercarsi nelle scienze propriamente ed oggettivamente dette.  Ora, in quanto in queste deve aver parte la ragione, e necessario che in esse qualcosa sia conosciuto a priori; e la sua conoscenza si può riferire al loro oggetto in doppia maniera: o semplicemente per determinar questo e il suo concetto (che deve esser dato d'altronde), o per realizzarlo. L'una e conoscenza teoretica della ragione, l'altra pratica. Dell'una e dell'altra e necessario che la parte pura, ampio o ristretto che ne sia il contenuto, cioè quella nella quale la ragione determina il suo oggetto interamente a priori, sia esposta dapprima da sola, e ciò che proviene da altre fonti non vi deve essere menomamente mescolato; giacche e cattiva amministrazione spendere alla cieca tutti gli introiti, senza poter poi distinguere, quanto si sia in imbarazzo, qual parte di essi possa sopportare le spese e quale richieda che si limitino.La matematica e la fisica sono le due conoscenze teoretiche della ragione, che devono determinare a priori il loro oggetto: la prima in modo del tutto puro, la seconda almeno in parte, ma poi tenendo conto ancora di altre fonti di conoscenze oltre a quella della ragione.La matematica, dai tempi più remoti a cui giunge la storia della ragione umana, è entrata, col meraviglioso popolo dei Greci, sulla via sicura della scienza. Soltanto, non bisogna credere che le sia riuscito cosi facile come alla logica, dove la ragione ha da fare solo con se stessa, trovare, o meglio aprire a se medesima, la via regia; io credo piuttosto che a lungo (specialmente presso gli Egizi) sia rimasta ai tentativi incerti, e che questa trasformazione definitiva debba essere attribuita a una rivoluzione, posta in atto dalla felice idea d'un uomo solo, con una ricerca tale che, dopo di essa, la via da seguire non poteva più essere smarrita, e la strada sicura della scienza era ormai aperta e tracciata per tutti i tempi e per infinite tratto. […] La fisica giunse ben più lentamente a trovare la via maestra della scienza; giacché non è passato più di un secolo e mezzo circa dacché la proposta del giudizioso Bacone di Verulamio, in parte provocò, in parte, poiché si era già sulla traccia di essa,

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accelerò la scoperta, che può allo stesso modo essere spiegata solo da una rapida rivoluzione precedente nel modo di pensare. Io qui prenderò in considerazione la fisica solo in quanto è fondata su principi empirici.Quando Galilei fece rotolare le sue sfere su di un piano inclinato, con un peso scelto da lui stesso, e Torricelli fece sopportare all'aria un peso, che egli stesso sapeva di già uguale a quello di una colonna d'acqua conosciuta, e, più tardi, Stahl trasformo i metalli in calce, e questa di nuovo in metallo, togliendovi o aggiungendo qualche cosa, fu una rivelazione luminosa per tutti gli investigatori della natura. Essi compresero che la ragione vede solo ciò che lei stessa produce secondo il proprio disegno, e che, con princìpi de' suoi giudizi secondo leggi immutabili, deve essa entrare innanzi e costringere la natura a rispondere alle sue domande; e non lasciarsi guidare da lei, per dir così, colle redini; perché altrimenti le nostre osservazioni, fatte a caso e senza un disegno prestabilito, non metterebbero capo a una legge necessaria, che pure la ragione cerca e di cui ha bisogno. E necessario dunque che la ragione si presenti alla natura avendo in una mano i princìpi, secondo i quali soltanto è possibile che fenomeni concordanti abbian valore di legge, e nell'altra l'esperimento, che essa ha immaginato secondo questi princìpi: per venire, bensì, istruita da lei, ma non in qualità di scolaro che stia a sentire tutto ciò che piaccia al maestro, sibbene di giudice, che costringa i testimoni a rispondere alle domande che egli loro rivolge. La fisica pertanto è debitrice di così felice rivoluzione compiutasi nel suo metodo solo a questa idea, che la ragione deve (senza fantasticare intorno ad essa) cercare nella natura, conformemente a quello che essa stessa vi pone, ciò che deve apprenderne, e di cui nulla potrebbe da se stessa sapere. Così la fisica ha potuto per la prima volta esser posta sulla via sicura della scienza, laddove da tanti secoli essa non era stato altro che un semplice brancolamento. Alla metafisica, conoscenza speculativa razionale, affatto isolata, che si eleva assolutamente al di sopra degli insegnamenti dell'esperienza, e mediante semplici concetti (non, come la matematica, per l'applicazione di questi all'intuizione), nella quale dunque la ragione deve essere scolara di se stessa, non è sinora toccata la fortuna di potersi avviare per la via sicura della scienza; sebbene essa sia più antica di tutte le altre scienze, e sopravvivrebbe anche quando le altre dovessero tutte quante essere inghiottite nel baratro di una barbarie che tutto devastasse. Giacché la ragione si trova in essa continuamente in imbarazzo, anche quando vuole scoprire (come essa presume) a priori quelle leggi, che la più comune esperienza conferma. In essa si deve innumerevoli volte rifar la via, poiché si trova che quella già seguita non conduce alla mèta; e, quanto all'accordo dei suoi cultori nelle loro affermazioni, essa è così lontana dall'averlo raggiunto, che è piuttosto un campo di lotta: il quale par proprio un campo destinato ad esercitar le forze antagonistiche, in cui nemmeno un campione ha mai potuto impadronirsi della più piccola parte di terreno e fondar sulla sua vittoria un durevole possesso. Non v'è dunque alcun dubbio, che il suo procedimento finora sia stato un semplice andar a tentoni e, quel che è peggio, tra semplici concetti.

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Da che deriva dunque che essa non abbia ancora potuto trovare il cammino sicuro della scienza? Egli è forse impossibile? Perché dunque la natura ha messo nella nostra ragione questa infaticabile tendenza, che gliene fa cercare la traccia, come se fosse per lei l'interesse più grave tra tutti? Ma v'ha di più: quanto poco motivo abbiamo noi di ripor fede nella nostra ragione, se essa non solo ci abbandona in uno dei più importanti oggetti della nostra curiosità, ma ci attira con lusinghe, e alla fine c'inganna? Oppure, se fino ad oggi abbiamo semplicemente sbagliato strada, di quali indizi possiamo profittare, per sperare di essere più fortunati che gli altri finora non siano stati, rinnovando la ricerca? Io dovevo pensare che gli esempi della matematica e della fisica, che sono ciò che ora sono per effetto di una rivoluzione attuata tutta d'un colpo, fossero abbastanza degni di nota, per riflettere sul punto essenziale del cambiamento di metodo, che è stato loro di tanto vantaggio, e per imitarlo qui, almeno come tentativo, per quanto l'analogia delle medesime, come conoscenze razionali, con la metafisica ce lo permette. Sinora si è ammesso che ogni nostra conoscenza dovesse regolarsi sugli oggetti; ma tutti i tentativi di stabilire intorno ad essi qualche cosa a priori, per mezzo dei concetti, coi quali si sarebbe potuto allargare la nostra conoscenza, assumendo un tal presupposto, non riuscirono a nulla. Si faccia, dunque, finalmente la prova di vedere se saremo più fortunati nei problemi della metafisica, facendo l'ipotesi che gli oggetti debbano regolarsi sulla nostra conoscenza: ciò che si accorda meglio colla desiderata possibilità d'una conoscenza a priori, che stabilisca qualcosa relativamente agli oggetti, prima che essi ci siano dati. Qui è proprio come per la prima idea di Copernico; il quale, vedendo che non poteva spiegare i movimenti celesti ammettendo che tutto l'esercito degli astri rotasse intorno allo spettatore, cercò se non potesse riuscir meglio facendo girare l'osservatore, e lasciando invece in riposo gli astri. Ora in metafisica si può veder di fare un tentativo simile per ciò che riguarda l'intuizione degli oggetti. Se l'intuizione si deve regolare sulla natura degli oggetti, non vedo punto come si potrebbe saperne qualcosa a priori; se l'oggetto invece (in quanto oggetto del senso) si regola sulla natura della nostra facoltà intuitiva, mi posso benissimo rappresentare questa possibilità. Ma, poiché non posso arrestarmi a intuizioni di questo genere, se esse devono diventare conoscenze; e poiché è necessario che io le riferisca, in quanto rappresentazioni, a qualcosa che ne sia l'oggetto e che io determini mediante quelle; così non mi rimane che ammettere: o che i concetti, coi quali io compio questa determinazione, si regolino anche sull'oggetto, e in questo caso io non mi trovo nella stessa difficoltà, circa il modo cioè in cui possa conoscerne qualche cosa a priori; oppure che gli oggetti o, ciò che è lo stesso, l'esperienza, nella quale soltanto essi sono conosciuti (in quanto oggetti dati), si regolino su questi concetti; allora io vedo subito una via d'uscita più facile, perché l'esperienza stessa è un modo di conoscenza che richiede il concorso dell'intelletto, del quale devo presupporre in me stesso la regola prima che gli oggetti mi sieno dati, e perciò a priori; e questa regola si esprime in concetti a priori, sui quali tutti gli oggetti dell'esperienza devono necessariamente regolarsi, e coi quali devono accordarsi. Per ciò che riguarda gli oggetti in quanto sono semplicemente pensati dalla ragione, ossia necessariamente, ma non possono esser dati punto

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nell'esperienza (almeno come la ragione li pensa), i tentativi di pensarli (devono pur potersi pensare!) forniranno quindi una eccellente pietra di paragone di quel che noi assumiamo come il mutato metodo nel modo di pensare, e cioè: che noi delle cose non conosciamo a priori, se non quello stesso che noi stessi vi mettiamo.” (Immanuel Kant, Prefazione alla seconda edizione della “Critica della Ragion Pura” (1787))

Il concetto di “trascendentale”“[…] la ragione è la facoltà che ci dà i princìpi della conoscenza a priori. Ragion pura è quindi quella che contiene i princìpi per conoscere qualcosa prettamente a priori. Un organo della ragion pura sarebbe un insieme di quei princìpi in base ai quali tutte le conoscenze pure a priori possono essere acquisite ed effettivamente poste in atto. L’applicazione totale d’un tale organo costituirebbe un sistema della ragion pura. Ma poiché questo sistema, pur essendo assai richiesto, lascia ancora aperta la questione se anche qui, ed in quali casi, una estensione in generale della nostra conoscenza sia possibile, possiamo allora considerare una scienza della semplice valutazione della ragion pura, delle sue sorgenti e dei suoi limiti, come la propedeutica al sistema della ragion pura. Una scienza siffatta non dovrebbe chiamarsi dottrina, ma soltanto critica della ragion pura; e, rispetto alla speculazione, la sua utilità sarebbe in realtà solo negativa, poiché servirebbe, anziché all’allargamento, alla semplice purificazione della nostra ragione, liberandola dagli errori; il che è di già un grandissimo guadagno. Chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupi, in generale, non tanto di oggetti quanto del nostro modo di conoscere gli oggetti nella misura in cui questo deve essere possibile a priori. Un sistema di tali concetti potrebbe esser detto filosofia trascendentale. Ma questa, d’altronde, per cominciare, è ancora troppo. Dovendo infatti tale scienza racchiudere compiutamente tanto la conoscenza analitica quanto la sintetica a priori, viene ad avere un’ampiezza eccessiva rispetto al nostro scopo, che consiste nello spingere l’analisi fin dove è richiesta necessariamente per chiarire in tutta la loro portata i princìpi della sintesi a priori, cioè l’unica questione che qui ci interessi. Tale ricerca, di cui ora appunto ci occupiamo, non può propriamente esser detta dottrina, ma soltanto critica trascendentale, poiché non si propone di ampliare le conoscenze, ma semplicemente di rettificarle e di rintracciare la pietra di paragone per determinare il valore o il non valore di tutte le conoscenze a priori. Una tale critica è dunque la preparazione ad un organo, se almeno è possibile; e se ciò non dovesse riuscire, è preparazione almeno ad un canone della ragione, in base al quale, comunque, si potrebbe un giorno esporre, tanto analiticamente che sinteticamente, l’intero sistema della filosofia della ragion pura, – si risolva esso in un’estensione o in una semplice limitazione della relativa conoscenza”. (Immanuel Kant, Critica della Ragion Pura)

Giudizi analitici e giudizi sintetici

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In tutti i giudizi, in cui è pensato il rapporto fra un soggetto e un predicato (considero qui soltanto gli affermativi, poiché l’applicazione ai negativi risulta poi facile) questo rapporto è possibile in due modi diversi. O il predicato B appartiene al soggetto A come qualcosa che è contenuto (dissimulatamente) in questo concetto A; oppure B si trova totalmente al di fuori del concetto A, pur essendo in connessione con esso. Nel primo caso dico il giudizio analitico, nel secondo sintetico. Giudizi analitici (affermativi) sono pertanto quelli in cui la connessione del predicato col soggetto è pensata per identità, mentre quelli in cui la connessione è pensata senza identità, si debbono chiamare sintetici. I primi potrebbero anche esser detti giudizi esplicativi, gli altri ampliativi; i primi infatti, mediante il predicato, nulla aggiungono al concetto del soggetto, limitandosi a dividere, per analisi, il concetto nei suoi concetti parziali, che erano in esso già pensati (benché confusamente); i secondi, invece, aggiungono al concetto del soggetto un predicato che in quello non era minimamente pensato e che non poteva esserne ricavato mediante alcuna scomposizione. Se dico, ad esempio: «Tutti i corpi sono estesi », si tratta di un giudizio analitico; non ho infatti bisogno di andare al di là dal concetto che collego alla parola «corpo» per rintracciare l’estensione che ad esso si connette, ma mi è sufficiente scomporre quel concetto, ossia rendermi conto del molteplice che io penso sempre in esso contenuto, per ritrovarvi questo predicato; si tratta dunque di un giudizio analitico. Al contrario, se dico: «Tutti i corpi sono pesanti», allora il predicato è qualcosa di completamente diverso da ciò che io penso nel semplice concetto di corpo in generale. L’aggiunta d’un tal predicato ci dà quindi un giudizio sintetico. I giudizi d’esperienza, come tali, sono tutti sintetici. Sarebbe infatti assurdo fondare un giudizio analitico sull’esperienza, quando, per formulare il giudizio, non ho alcun bisogno di uscire dal mio concetto, e non mi occorre pertanto alcuna testimonianza dell’esperienza. Che un corpo sia esteso, è una proposizione che sta salda a priori e non un giudizio d’esperienza. Infatti, prima ancora di accedere all’esperienza, posseggo tutte le condizioni del mio giudizio già nel concetto, dal quale non ho che da ricavare il predicato secondo il principio di contraddizione, e così acquistare coscienza della necessità del giudizio, che mai potrebbe derivarmi dall’esperienza. Al contrario, benché nel concetto di un corpo in generale io non includa di già il predicato della pesantezza, tuttavia quel concetto designa un oggetto dell’esperienza mediante una parte di essa, a cui io posso quindi aggiungere ulteriori parti della medesima esperienza, che non appartenevano al concetto. Posso, in un primo tempo, conoscere il concetto di corpo analiticamente, tramite le note dell’estensione, dell’impenetrabilità, della forma, ecc., che sono tutte pensate dentro questo concetto. Successivamente estendo però la mia conoscenza e, ricorrendo nuovamente all’esperienza da cui avevo tratto questo concetto di corpo, trovo che alle note suddette va sempre connessa anche quella della pesantezza e l’aggiungo quindi sinteticamente, come predicato, a quel concetto. È dunque l’esperienza ciò su cui si fonda la possibilità della sintesi tra il predicato della pesantezza e il concetto del corpo, perché i due concetti, benché uno non sia contenuto nell’altro, appartengono tuttavia, se pur solo accidentalmente, l’uno all’altro come parti di un tutto, cioè dell’esperienza. Ma nel caso dei giudizi sintetici a priori questo punto di appoggio

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manca del tutto. Se debbo procedere oltre il concetto A per conoscerne un altro B, come ad esso legato, in cosa consisterà ciò su cui mi fondo e mediante cui la sintesi è resa possibile? Qui infatti non ho il vantaggio di poter ricorrere alla guida dell’esperienza. Si prenda la proposizione: «Tutto ciò che accade ha una causa». Nel concetto di «qualcosa che accade», in verità io penso un’esistenza, preceduta da un tempo ecc., dal che è possibile ricavare giudizi analitici. Ma il concetto di causa giace interamente fuori da quel concetto e designa qualcosa di diverso da ciò che accade e non è quindi per nulla contenuto in quest’ultima rappresentazione. Come mai dunque io giungo ad affermare, di qualcosa che accade in generale, alcunché di affatto diverso, ed a considerare il concetto di causa, sebbene non contenuto in quello, tuttavia come in esso rientrante, e addirittura necessariamente? Che cos’è in questo caso l’incognita x su cui l’intelletto si appoggia, allorché crede di rintracciare, fuori del concetto A, un predicato B, ad esso estraneo, ritenendolo tuttavia ad esso connesso? Non può trattarsi dell’esperienza, perché il principio in questione ha aggiunto questa seconda rappresentazione alla prima, non solo con un’universalità maggiore, ma anche con la nota della necessità, quindi interamente a priori, nonché in base a semplici concetti. Ora, è su tali princìpi sintetici, cioè estensivi, che riposa l’intero scopo finale delle nostre conoscenze speculative a priori; perché gli analitici, pur essendo estremamente importanti e necessari, lo sono esclusivamente per giungere a quella chiarezza dei concetti che è richiesta per una sintesi sicura ed ampia, come per un’acquisizione realmente nuova”. (Immanuel Kant, Critica della Ragion Pura)

Come sono possibili i giudizi sintetici a priori?Si ottiene già non poco quando un gran numero di ricerche può essere raccolto sotto forma di un unico problema. In tal modo, infatti, non solo si agevola il nostro lavoro, dandogli una esatta delimitazione, ma si reca giovamento anche a chiunque altro voglia prenderlo in esame per stabilire se siamo riusciti o meno nel nostro intento. Il vero e proprio problema della ragion pura è pertanto contenuto nella domanda: COME SONO POSSIBILI GIUDIZI SINTETICI A PRIORI? Che la metafisica sia finora rimasta in uno stato così oscillante di incertezza e di contraddizioni, non ha altra causa se non il fatto che questo problema, e forse addirittura la differenza fra giudizi sintetici e analitici, non sono stati finora presi in esame. La vita o la morte della metafisica dipendono in realtà dalla soluzione di questo problema o da una dimostrazione fondata che la possibilità di cui richiede la giustificazione è priva di consistenza. David Hume, che si avvicinò più di ogni altro filosofo a questo problema, anche se fu ben lontano dal pensarlo con sufficiente determinatezza e nella sua universalità, essendosi fermato semplicemente alla proposizione sintetica della connessione dell’effetto con le sue cause (principium causalitatis), credette di poterne trarre la conclusione che un tale principio a priori è del tutto impossibile. Stando alle sue conclusioni, tutto ciò che chiamiamo metafìsica si risolverebbe nella semplice illusione di conoscere razionalmente ciò che, in realtà, ci proviene

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dall’esperienza, traendo dall’abitudine l’apparenza della necessità. Mai egli sarebbe scivolato in una affermazione del genere, distruttrice di ogni filosofìa, se avesse avuto innanzi agli occhi il nostro problema nella sua universalità; in tal caso, infatti, avrebbe visto che, stando al suo argomento, non potrebbe esistere neppure la matematica pura, dato che essa include certamente princìpi sintetici a priori: affermazione, questa, dalla quale il suo buon senso lo avrebbe senza dubbio tenuto lontano. Nella soluzione del suddetto problema è racchiusa senz’altro la possibilità dell’uso puro della ragione nel fondare e nell’edificare tutte le scienze che contengono una conoscenza teoretica a priori di oggetti, ossia la risposta alle domande: Come è possibile la matematica pura? Come è possibile la fisica pura? Poiché queste scienze sono effettivamente date, conviene di certo domandarsi come siano possibili; infatti, che esse siano possibili è dimostrato dalla loro realtà. Quanto alla metafisica, il suo cattivo andamento fino ad oggi, unito al fatto che nessuna delle metafisiche fin qui offerte si può dire che realmente sussista rispetto al suo scopo essenziale, fa dubitare chiunque, a ragione, della sua possibilità. Tuttavia, anche questa specie di conoscenza deve in certo senso esser considerata come data, e la metafisica, anche se non come scienza, è tuttavia reale come disposizione naturale (metaphysica naturalis). Infatti la ragione umana, anche senza il pungolo della semplice vanità dell’omniscienza, è perpetuamente sospinta da un proprio bisogno verso quei problemi che non possono in nessun modo esser risolti da un uso empirico della ragione o in base ai princìpi su cui esso riposa; e così in tutti gli uomini una qualche metafisica è sempre esistita e sempre esisterà, appena che la loro ragione si innalzi alla speculazione. Dunque, anche per essa vale la questione: Come è possibile la metafisica in quanto disposizione naturale? Ossia: come scaturiscono dalla natura della ragione umana universale i problemi che la ragion pura affronta e a rispondere ai quali, meglio che può, essa è sospinta da un proprio bisogno? (Immanuel Kant, Critica della Ragion Pura)

Spazio e tempoPer mezzo del senso esterno (che è una proprietà del nostro animo), noi ci rappresentiamo gli oggetti come fuori di noi e come tutti assieme nello spazio. In questo, sono determinati, o determinabili, la loro forma, la loro grandezza, e i loro rapporti reciproci. Il senso interno, per mezzo del quale l’animo intuisce se stesso o il suo stato interno non ci offre, in verità, alcuna intuizione dell’anima stessa, come di un oggetto; ma c’è tuttavia una determinata forma, sotto la quale soltanto è possibile l’intuizione del suo stato interno, sicché tutto ciò che è proprio delle determinazioni interne è rappresentato in rapporti di tempo. Il tempo non può essere intuito esternamente, allo stesso modo che lo spazio non può essere intuito come qualcosa in noi. Che cosa sono allora spazio e tempo? Forse entità reali? O sono semplicemente determinazioni o rapporti delle cose, che appartengono comunque alle cose in sé, anche se non sono intuite? O sono tali da appartenere soltanto alla forma dell’intuizione e così alla costituzione soggettiva del nostro animo, senza di che questi predicati non potrebbero essere attribuiti a cosa alcuna? […] 1) Lo spazio non è un concetto empirico, proveniente da esperienze esterne.

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Infatti, affinché certe sensazioni siano riferite a qualcosa fuori di me (ossia a qualcosa che si trovi in un luogo dello spazio diverso dal mio), e affinché io possa rappresentarmele come esterne e accanto l’una all’altra – e quindi non soltanto come differenti ma come poste in luoghi diversi – deve già esserci a fondamento la rappresentazione di spazio. Conseguentemente, la rappresentazione dello spazio non può derivare, mediante l’esperienza, dai rapporti del fenomeno esterno; al contrario, l’esperienza esterna è possibile solo in virtù di detta rappresentazione. 2) Lo spazio è una rappresentazione a priori, necessaria, che sta a fondamento di tutte le intuizioni esterne. Non è possibile farsi la rappresentazione che non ci sia spazio, mentre si può benissimo pensare che non ci sia in esso alcun oggetto. Lo spazio va pertanto considerato come la condizione della possibilità dei fenomeni e non come una determinazione da essi dipendente; ed è una rappresentazione a priori, che sta necessariamente a fondamento dei fenomeni esterni. […] Come può dunque trovarsi nell’animo un’intuizione esterna, precostituita agli oggetti stessi e in cui il concetto di tali oggetti possa esser determinato a priori? Evidentemente, solo in quanto essa abbia la sua sede esclusivamente nel soggetto, costituendo in esso la disposizione formale ad essere affetto dagli oggetti dei quali riporta in tal modo una rappresentazione immediata, cioè un’intuizione; e quindi solo come forma del senso esterno in generale. […] il concetto trascendentale dei fenomeni nello spazio è un avvertimento critico vólto a ricordarci che, in generale, nulla di ciò che viene intuito nello spazio è cosa in sé; e che lo spazio non è una forma delle cose, appartenente in qualche modo alle cose in se stesse, ma che, al contrario, gli oggetti in sé non ci sono minimamente noti e che tutto ciò cui diamo il nome di oggetti esterni non è costituito da altro che da semplici rappresentazioni della nostra sensibilità, la cui forma è lo spazio, ma il cui vero correlato, cioè la cosa in sé, resta in tal modo interamente sconosciuto ed inconoscibile e nell’esperienza non è neppure in questione […]Il tempo è una rappresentazione necessaria, che si trova a fondamento di tutte le intuizioni. Rispetto ai fenomeni in generale, non è possibile sopprimere il tempo come tale, mentre è possibilissimo toglier via tutti i fenomeni dal tempo. Il tempo è dunque dato a priori. Solo in esso è possibile una qualunque realtà dei fenomeni. Questi possono tutti dileguare, ma il tempo come tale (in quanto condizione universale della loro possibilità) non può essere soppresso […] a) Il tempo non è alcunché di sussistente per se stesso o di inerente alle cose come loro determinazione oggettiva, tale quindi che rimarrebbe anche se si astraesse da tutte le condizioni soggettive della loro intuizione. Nel primo caso, infatti, risulterebbe come qualcosa che, senza un oggetto reale, sarebbe tuttavia reale. Per quanto concerne il secondo caso, non sarebbe possibile che il tempo, in qualità di determinazione o ordine inerente alle cose stesse, potesse precedere gli oggetti come loro condizione ed esser conosciuto ed intuito a priori per via di proposizioni sintetiche. La qual cosa può invece aver luogo benissimo se il tempo altro non è che la condizione soggettiva per la quale tutte le intuizioni possono aver luogo in noi. Allora, infatti, questa forma dell’intuizione interna può essere rappresentata anteriormente […] b) Il tempo non è altro che la forma del senso interno, ossia dell’intuizione di noi stessi e del nostro stato interno […] c) Il tempo è la condizione formale a priori di tutti i

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fenomeni in generale. Lo spazio, in quanto forma pura di ogni intuizione esterna, è circoscritto, come condizione a priori, ai soli fenomeni esterni. Di contro, poiché tutte le rappresentazioni – abbiano o no come loro oggetti cose esterne – appartengono in se stesse, quali determinazioni dell’animo, allo stato interno, e siccome questo stato interno ubbidisce alla condizione formale dell’intuizione interna, ossia del tempo, ne segue che quest’ultimo è la condizione a priori di ogni fenomeno in generale: condizione immediata dei fenomeni interni (delle nostre anime) e, di conseguenza, condizione mediata di quelli esterni […]Posti assieme, essi [spazio e tempo] sono forme pure di tutte le intuizioni sensibili e in questa veste rendono possibili proposizioni sintetiche a priori. Ma queste sorgenti conoscitive a priori, non essendo altro che condizioni della sensibilità, si determinano per ciò stesso i loro limiti, consistenti nel riferirsi agli oggetti solo in quanto siano considerati come fenomeni, e non pretendano esibire cose in sé. Il campo della loro validità è circoscritto ai fenomeni, uscendo dai quali non è più dato alcun uso oggettivo di queste sorgenti conoscitive. (Immanuel Kant, Critica della Ragion Pura)

L’intelletto e l’Analitica trascendentaleSe vogliamo chiamare sensibilità la recettività del nostro animo nel ricevere le rappresentazioni, in quanto ne venga in qualche modo colpito, daremo invece il nome di intelletto alla capacità di produrre spontaneamente rappresentazioni, ossia alla spontaneità della conoscenza. La nostra natura è tale che l’intuizione non può mai essere che sensibile, ossia tale da non contenere che il modo in cui veniamo colpiti dagli oggetti. Per contro, la facoltà di pensare l’oggetto dell’intuizione sensibile, è l’intelletto. Nessuna di queste due facoltà è da anteporsi all’altra. Senza sensibilità, nessun oggetto ci verrebbe dato e senza intelletto nessun oggetto verrebbe pensato. I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche. È quindi egualmente necessario rendere sensibili i propri concetti (ossia aggiungere loro l’oggetto nell’intuizione), e rendere intelligibili le proprie intuizioni (ossia sottoporle a concetti). Queste due facoltà o capacità non possono scambiarsi l’un l’altra le loro funzioni. L’intelletto non può intuire nulla, e i sensi nulla pensare. Solo dalla loro unione può scaturire la conoscenza […] La conoscenza di ogni intelletto, almeno umano, è una conoscenza per concetti, non intuitiva, ma discorsiva. Tutte le intuizioni, in quanto sensibili, riposano su affezioni; i concetti, quindi, su funzioni. Per funzione intendo l’unità dell’operazione che ordina diverse rappresentazioni sotto una rappresentazione comune. Dunque i concetti si fondano sulla spontaneità del pensiero, allo stesso modo che le intuizioni sensibili si fondano sulla recettività delle impressioni. Ora, di questi concetti l’intelletto non può fare un uso diverso da quello consistente nel giudicare per mezzo di essi. Siccome nessuna rappresentazione, eccettuata l’intuizione, si riferisce all’oggetto in modo immediato, ne segue che un concetto non avrà mai un riferimento immediato a un oggetto, ma soltanto a qualche altra rappresentazione di questo oggetto (si tratti

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d’una intuizione o già d’un concetto). Il giudizio è pertanto la conoscenza mediata d’un oggetto, quindi la rappresentazione di una rappresentazione dell’oggetto. Ogni giudizio contiene un concetto che si addice a una molteplicità di rappresentazioni, fra cui comprende anche una rappresentazione data; quest’ultima, poi, è riferita all’oggetto immediatamente. Così, ad esempio, nel giudizio: «Tutti i corpi sono divisibili», il concetto di divisibile si riferisce a molti altri concetti; ma in questo caso è specificamente riferito al concetto di corpo, il quale, da parte sua, si riferisce ad alcuni fenomeni che ci si presentano […] tutti i giudizi sono funzioni dell’unità fra le nostre rappresentazioni; in quanto cioè, per la conoscenza dell’oggetto, in luogo della rappresentazione immediata, è usata una rappresentazione più alta, tale da riunire sotto di sé la rappresentazione immediata assieme a molte altre; e in tal modo vengono raccolte e unificate molte conoscenze possibili. Ma noi possiamo ricondurre a giudizi tutte le operazioni dell’intelletto, sicché l’intelletto può esser concepito in generale come la facoltà di giudicare. In base a quanto fu detto sopra esso è la facoltà di pensare. Pensare è conoscere mediante concetti. Ma i concetti, in quanto predicati di giudizi possibili, si riferiscono a una qualche rappresentazione di un oggetto ancora indeterminato. Così il concetto di corpo significa qualcosa, ad esempio un metallo, che può esser conosciuto tramite quel concetto. Esso è dunque un concetto solo in quanto sotto di esso si trovano raccolte altre rappresentazioni, per mezzo delle quali può riferirsi ad oggetti. Esso è dunque il predicato di un giudizio possibile, ad esempio: ogni metallo è un corpo. Le funzioni dell’intelletto possono pertanto esser tutte rintracciate, se è possibile esporre compiutamente le funzioni dell’unità nei giudizi. (Immanuel Kant, Critica della Ragion Pura)

Le categorieCome in séguito vedremo, la sintesi in generale è il semplice risultato dell’immaginazione, ossia di una funzione dell’anima, cieca e tuttavia indispensabile, senza la quale non potremmo a nessun titolo avere una qualsiasi conoscenza, ma della quale siamo consapevoli solo di rado. Ma il ricondurre questa sintesi a concetti è una funzione che compete all’intelletto e mediante la quale esso ci dà per la prima volta la conoscenza nell’autentico significato della parola […] Quella medesima funzione che conferisce unità alle diverse rappresentazioni in un giudizio, dà anche unità alla semplice sintesi delle diverse rappresentazioni in una intuizione; questa unità è detta, con espressione generale, concetto puro dell’intelletto. Il medesimo intelletto, dunque, e proprio per mezzo delle medesime operazioni con cui, mediante l’unità analitica, ha posto in essere nei concetti la forma logica di un giudizio, introduce anche, mediante l’unità sintetica del molteplice nell’intuizione in generale, un contenuto trascendentale nelle sue rappresentazioni; le quali, dunque, proprio per questo, prendono il nome di concetti puri dell’intelletto, capaci di riferirsi a priori ad oggetti; la qual cosa non è possibile alla logica generale. Sorgono in tal modo tanti concetti puri dell’intelletto, vólti a priori agli oggetti dell’intuizione in generale, quante funzioni logiche in tutti i possibili giudizi risultavano dalla tavola precedente; infatti le suddette funzioni

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esauriscono integralmente l’intelletto, misurandone pertanto l’intera capacità. (Immanuel Kant, Critica della Ragion Pura)

La deduzione trascendentale dei concetti puri dell’intellettoLa spiegazione del come i concetti a priori si possano riferire a oggetti, costituisce ciò che io chiamo la deduzione trascendentale dei medesimi, deduzione trascendentale che distinguo dalla deduzione empirica, la quale fa vedere come un concetto sia acquisito mediante l’esperienza e la riflessione su di essa, e riguarda pertanto non la legittimità, ma il fatto da cui risulta il possesso […] Senza grande fatica ci è stato sopra possibile chiarire come i concetti di spazio e di tempo, pur essendo conoscenze a priori, debbano tuttavia riferirsi necessariamente ad oggetti, rendendo così possibile una loro conoscenza sintetica indipendentemente da ogni esperienza […] Le categorie dell’intelletto, al contrario, non costituiscono per noi le condizioni alle quali ci vengono dati gli oggetti nell’intuizione; ci possono quindi ben apparire oggetti senza che debbano necessariamente riferirsi a funzioni dell’intelletto e senza che questo contenga le loro condizioni a priori. Qui emerge dunque una difficoltà che non abbiamo incontrato nel campo della sensibilità: in qual modo, cioè, le condizioni soggettive del pensiero debbano avere una validità oggettiva, ossia ci diano le condizioni della possibilità di ogni conoscenza degli oggetti; infatti, anche senza funzioni dell’intelletto, possono senz’altro esserci dati fenomeni nell’intuizione. Prendo, ad esempio, il concetto di causa, il quale sta ad indicare una particolare maniera di sintesi, nella quale a un qualcosa A è posta assieme un’altra cosa B del tutto diversa, secondo una regola. A priori non è per nulla chiaro perché nei fenomeni sia contenuto qualcosa di simile (non è infatti possibile addurre esperienze a titolo di prova, poiché la validità oggettiva di questo concetto deve esser mostrata a priori); ed è quindi a priori dubbio se un concetto del genere non sia alcunché di completamente vuoto e se trovi fra i fenomeni il proprio oggetto. Infatti, che gli oggetti dell’intuizione sensibile non possano non essere conformi alle condizioni formali della sensibilità che si ritrovano a priori nell’animo, è chiaro per il fatto che, diversamente, non avrebbero alcuna possibilità di divenire oggetti per noi; ma che essi non possano non essere conformi anche alle condizioni di cui l’intelletto abbisogna per l’unità sintetica del pensiero, non è così facile a dimostrarsi. Potrebbe infatti darsi che i fenomeni siano tali che l’intelletto non li trovi conformi per nulla alle condizioni della sua unità, e che tutto giaccia in uno stato di confusione tale che, ad esempio, nella serie ordinata dei fenomeni, nulla si trovi che sia in grado di darci una regola della sintesi e corrisponda così al concetto di causa e di effetto; per cui questo concetto risulterebbe del tutto vuoto, nullo e privo di significato. I fenomeni non cesserebbero per questo di offrire oggetti alla nostra intuizione, perché l’intuizione non ha bisogno in nessun modo delle funzioni del pensiero. Se si pensasse di liberarsi da queste faticose indagini facendo notare come l’esperienza offra in continuità esempi di una siffatta regolarità dei fenomeni, e dia in tal modo una sufficiente giustificazione all’astrazione del concetto di causa, nonché la prova della validità oggettiva di tale concetto, allora non ci si renderebbe conto che il concetto di causa non può avere un’origine di

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questo genere, perché esso o deve trovare un fondamento del tutto a priori nell’intelletto, o deve essere decisamente abbandonato come una semplice chimera. Questo concetto, infatti, richiede che una cosa A sia tale che un’altra B ne segua necessariamente e secondo una regola assolutamente universale. Certamente i fenomeni ci esibiscono casi dai quali è possibile desumere una regola secondo la quale qualcosa accade abitualmente, ma non possono mai garantirci che quanto segue sia necessario. Pertanto alla sintesi di causa e di effetto si addice una dignità, che non può venir espressa empiricamente, una dignità per la quale l’effetto non solo segue alla causa, ma viene posto da essa e deriva da essa. L’universalità rigorosa della regola, da parte sua, non è per nulla un carattere delle regole empiriche, alle quali l’induzione non conferisce che un’universalità comparativa e cioè una diffusa applicabilità. Dunque, l’uso dei concetti puri dell’intelletto risulterebbe del tutto alterato, se si volessero trattare tali concetti come semplici prodotti empirici […]

Sono possibili soltanto due casi in cui la rappresentazione sintetica e i suoi oggetti possono collegarsi, riferirsi l’un l’altro necessariamente e in certo modo convenire reciprocamente: quando l’oggetto rende possibile la rappresentazione o quando la rappresentazione rende possibile l’oggetto. Nel primo caso, il rapporto non è che empirico e la rappresentazione non è mai possibile a priori. E questo è ciò che accade nel fenomeno, rispetto a quanto è in esso appartenente alla sensazione. Nel secondo caso, invece, poiché la rappresentazione in se stessa (essendo qui fuori questione la sua causalità mediante il volere) non produce il suo oggetto quanto all’esistenza, occorre, affinché tale rappresentazione possa essere determinante a priori rispetto all’oggetto, che solo per mezzo di essa qualcosa si renda conoscibile come oggetto. Ma ci sono due condizioni senza le quali non è possibile la conoscenza d’un oggetto: in primo luogo l’intuizione, per cui l’oggetto è dato, benché esclusivamente come fenomeno; in secondo luogo il concetto, per cui è pensato un oggetto corrispondente a questa intuizione. (Immanuel Kant, Critica della Ragion Pura)

La critica all’empirismoIl celebre Locke fece derivare anche tali concetti dall’esperienza; e tuttavia procedette in modo tanto inconseguente da avventurarsi in tentativi di conoscenze che vanno di gran lunga al di là dei confini dell’esperienza. David Hume riconobbe che, per fare qualcosa di simile, è indispensabile che questi concetti abbiano un’origine a priori. Ma non riuscendo per nulla a capacitarsi come sia possibile che l’intelletto pensi concetti che, senza essere connessi per sé nell’intelletto, lo siano tuttavia necessariamente nell’oggetto, e non avendo sospettato che proprio l’intelletto, per mezzo di questi concetti, è l’autore dell’esperienza nella quale si riscontrano i suoi oggetti, si vide nella necessità di farli derivare dall’esperienza (cioè da una necessità soggettiva, traente la sua origine dalla frequente associazione dell’esperienza e scambiata alla fine per oggettiva; ossia dall’abitudine); tuttavia procedette in modo assai coerente, perché proclamò l’impossibilità di varcare, per mezzo di questi

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concetti e dei princìpi fondamentali che ne derivano, i confini dell’esperienza. Ma la derivazione empirica, a cui fecero l’uno e l’altro ricorso, è incompatibile con la reale esistenza delle conoscenze scientifiche a priori che sono in nostro possesso, cioè con la matematica pura e la fisica generale e risulta in tal modo contraddetta dai fatti. […] [Hume] si arrese completamente allo scetticismo, perché reputò di aver scoperto una volta per sempre come non sia che un’illusione generale della nostra facoltà conoscitiva quella che fino allora era stata considerata la ragione. Ciò che ora ci proponiamo è il tentativo di condurre felicemente la ragione al di là di questi due scogli, di assegnarle i suoi precisi confini, senza per questo ledere l’intero campo della sua attività proficua. (Immanuel Kant, Critica della Ragion Pura)

La natura, l’esperienza e l’oggettività

Per natura s’intende l’esistenza delle cose in quanto determinate da leggi generali […]. La parola “natura” prende ancora un altro significato che determina l’oggetto, mentre nel significato precedente essa mettein rilievo soltanto la regolarità delle determinazioni dell’esistenza delle cose. La natura è così, materialiter considerata, l’insieme di tutti gli oggetti dell’esperienza. Ora noi dobbiamo notare in primo luogo questo: che sebbene tutti i giudizi d’esperienza siano empirici, cioè abbiano il loro fondamento nella percezione immediata dei sensi, tuttavia non per questo tutti i giudizi empirici sono inversamente giudizi di esperienza; ma che, perchè diventino tali, oltre all’elemento empirico e in genere oltre al dato dell’intuizione sensibile, debbono ancora aggiungersi certi particolari concetti, i quali hanno la loro origine del tutto a -priori nell’intelletto puro ed ai quali deve prima venire subordinata ogni percezione per essere trasformata in esperienza […] I giudizi empirici in quanto hanno valore obiettivo sono giudizi di esperienza: quelli che hanno solo valore soggettivo io li chiamo giudizi percettivi. Questi ultimi non abbisognano di alcun concetto intellettivo puro, ma solo del collegamento logico della percezione in un soggetto pensante. I primi invece richiedono sempre, oltre alle rappresentazioni provenienti dall’intuizione sensibile, il concorso di certi speciali concetti aventi l’origine loro nell’intelletto stesso, i quali appunto hanno per effetto di dare un valore obiettivo al giudizio d’esperienza.Tutti i nostri giudizi sono dapprima semplici giudizi percettivi; essi valgono solo per noi, cioè per il nostro soggetto, e solo in appresso diamo loro un nuovo rapporto, cioè li riferiamo ad un oggetto e vogliamo che essi valgano per noi in ogni tempo e, come per noi, così per .ciascun altro; chè, quando un giudizio concorda con un oggetto, devono concordare anche fra loro tutti i giudizi sullo stesso oggetto e così il valore obbiettivo del giudizio di esperienza non significa altro che la sua validità universale. Ma allo stesso modo inversamente quando abbiamo ragione di tenere un giudizio per necessario ed universalmente valido (caratteri che si fondano non sulla percezione, ma sul concetto intellettivo puro, sotto cui la percezione è stata ordinata), dobbiamo tenerlo per obbiettivo, dobbiamo ritenere cioè che esprima non solo un rapporto della percezione con un

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soggetto, ma una proprietà dell’oggetto; perchè non vi sarebbe alcuna ragione che i giudizi degli altri coincidessero necessariamente col mio, se non fosse l’unità dell’oggetto, al quale tutti si riferiscono, e concordando col quale tutti debbono concordare anche fra di loro […] Valore obbiettivo e universalità necessaria (per tutti) sono quindi concetti reciproci e, sebbene noi non conosciamo l’oggetto in sè, quando noi consideriamo un giudizio come universalmente valido e quindi necessario, diciamo che esso ha un valore obbiettivo […] Spieghiamo questo punto. Che la stanza è calda, lo zucchero dolce, l’assenzio amaro, sono semplici giudizi soggettivamente validi. Io non pretendo di dover sempre sentire così o che tutti sentano come io sento: esse esprimono solo il rapporto di due sensazioni con lo stesso soggetto, con me, ed anche solo così come esso si costituisce nel mio presente stato rappresentativo, quindi non valgono dell’oggetto; questi io li chiamo giudizi percettivi.Tutt’altra cosa sono i giudizi di esperienza. Ciò che l’esperienza m’insegna in certe circostanze, essa deve insegnarlo sempre a me e ad ogni altro e la validità sua non si limita al soggetto od al suo stato del momento. Quindi io esprimo tutti questi giudizi come obbiettivamente validi. Così, p. es., quando io dico: l’aria è elastica, questo giudizio è prima solo un giudizio percettivo, pel quale due sensazioni dei miei sensi vengono collegate l’una con l’altra. Se io voglio che sia un giudizio d’esperienza, io esigo che questo collegamento sia sottoposto ad una condizione che lo renda universalmente valido. Io voglio cioè che e io in ogni tempo ed ogni altro dobbiamo collegare, nelle stesse circostanze, le stesse percezioni in modo necessario. (Immanuel Kant, Prolegomeni ad ogni futura metafisica che possa presentarsi come scienza).

La “coscienza in generale”, il sole e il sasso

Noi dobbiamo quindi analizzare l’esperienza in genere per vedere che cosa in questo prodotto appartenga ai sensi e che cosa all’intelletto e come il giudizio d’esperienza sia possibile. A fondamento sta l’intuizione della quale ho coscienza, cioè la percezione (perceptio), che è tutta cosa del senso. Ma in secondo luogo viconcorre anche un giudizio (che è cosa del solo intelletto). Ora questo giudizio può essere di due specie, secondochè io comparo semplicemente le percezioni e le collego in una coscienza, nella coscienza del mio stato, oppure le collego in una coscienza in generale.Il primo è solo un giudizio percettivo ed ha in tanto solo valore soggettivo: esso è un puro collegamento delle percezioni nel mio stato di coscienza senza riferimento all’oggetto. Quindi non basta per l’esperienza, come si crede comunemente, comparare delle percezioni e collegarle per mezzo del giudizio in una coscienza: questo non dà ancora nessuna universalità e necessità del giudizio, per le quali proprietà soltanto esso può essere oggettivamente valido e chiamarsi esperienza.Bisogna quindi che preceda ancora un altro giudizio, perché dalla percezione si abbia l’esperienza. L’intuizione data dev’essere sussunta sotto un concetto che determina la forma del giudizio in genere in rapporto all’intuizione, collega le intuizioni della coscienza empirica in una

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coscienza generica e per questo mezzo conferisce ai giudizi empirici un valore universale; tale concetto è un concetto intellettivo puro a priori e il compito suo è semplicemente quello di determinare in rispetto ad un’intuizione il modo onde può venir costituito da essa un giudizio […]

Per avere un esempio più perspicuo si consideri il seguente: quando il sole colpisce il sasso, questo si riscalda. Questo è un semplice giudizio percettivo e non contiene necessità per quante volte e io ed altri possiamo avere ciò percepito; vi è soltanto questo, che le percezioni si trovano abitualmente così collegate. Ma se io dico: il sole riscalda il sasso, alla percezione s’aggiunge il concetto intellettivo della causa che collega necessariamente il concetto del calore con quello dello splendere del sole: il giudizio sintetico diventa necessariamente valido per tutti, quindi obbiettivo e da semplice percezione si tramuta in esperienza […]

Come concorda questa proposizione, che i giudizi d’esperienza devono costituire un collegamento necessario delle percezioni, con l’altra mia proposizione, sulla quale ho sovente insistito: che l’esperienza come conoscenza a posteriori può dare solo giudizi contingenti? Quando io dico “l'esperienza m’insegna questo” io intendo solo sempre la percezione in essa implicata, p. es. la successione costante dell’essere il sasso battuto dal sole e del suo riscaldarsi; in questo senso il giudizio d’esperienza è sempre de contingenti. Che questo riscaldamento proceda necessariamente dall’illuminazione solare, è bensì contenuto nel giudizio d’esperienza (per mezzo del concetto di causa), ma questo io non l’apprendo per mezzo dell’esperienza, che anzi al contrario l’esperienza è prodotta soltanto da questa aggiunta del concetto intellettivo (della causa) alla percezione. (Immanuel Kant, Prolegomeni ad ogni futura metafisica che possa presentarsi come scienza).

L’“Io Penso” e l’unificazione del molteplice

[…] la congiunzione (conjunctio) di un molteplice in generale non può mai provenirci dai sensi, e neppure esser racchiusa nella forma pura dell’intuizione sensibile. Essa è infatti un atto della spontaneità della facoltà rappresentativa, la quale, per esser distinta dalla sensibilità, è detta intelletto; e quindi ogni congiunzione – sia che ne siamo consapevoli o no e sia congiunzione del molteplice intuitivo o concettuale, e, nel primo caso, di un molteplice sensibile o non sensibile – è un’operazione dell’intelletto, che possiamo indicare con la designazione generale di sintesi, per accentuare il fatto che nulla possiamo rappresentare come congiunto nell’oggetto, senza precedentemente aver proceduto alla congiunzione e che, fra tutte le rappresentazioni, la congiunzione è l’unica a non esser data dagli oggetti, essendo producibile soltanto da parte del soggetto, quale atto della sua spontaneità.In realtà tutte le categorie si fondano su funzioni logiche nel giudizio, ma in queste la congiunzione, e conseguentemente l’unità dei concetti dati, è già pensata. La categoria presuppone già la congiunzione. È dunque più in alto ancora che va cercata questa unità, e precisamente in ciò che

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contiene lo stesso fondamento dell’unità di diversi concetti nei giudizi, quindi della stessa possibilità dell’intelletto, perfino nel suo uso logico […]

L’io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni; in caso diverso, si darebbe in me la rappresentazione di qualcosa che non potrebbe esser pensata; il che equivale a dire che la rappresentazione o sarebbe impossibile o, per me almeno, sarebbe nulla. Dicesi intuizione quella rappresentazione che può venir data prima di ogni pensiero. Perciò ogni molteplice dell’intuizione ha una relazione necessaria con l’io penso, nello stesso soggetto in cui questo molteplice ha luogo. Ma la rappresentazione io penso è un atto della spontaneità, ossia non può venir ritenuta propria della sensibilità. Io la chiamo appercezione pura, per distinguerla dalla empirica, o anche appercezione originaria, perché essa è quella autocoscienza che, producendo la rappresentazione io penso – che deve poter accompagnare tutte le altre, ed è una e identica in ogni coscienza – non può essere accompagnata da nessun’altra. L’unità di questa rappresentazione la chiamo anche unità trascendentale dell’autocoscienza, per designare la possibilità della conoscenza a priori, che in essa si basa. Infatti le molteplici rappresentazioni che sono date in una certa intuizione, non potrebbero tutte assieme essere mie rappresentazioni se tutte assieme non appartenessero a una sola autocoscienza; ossia, in quanto rappresentazioni mie (benché non sia consapevole di esse come tali), debbono necessariamente esser conformi alla condizione sotto la quale soltanto possono raccogliersi in un’autocoscienza universale; diversamente non mi potrebbero appartenere. Da questa congiunzione originaria è possibile ricavare molte conseguenze. E precisamente: questa costante identità dell’appercezione di un molteplice dato nell’intuizione include una sintesi delle rappresentazioni ed è possibile soltanto mediante la coscienza di questa sintesi. Infatti, la coscienza empirica, che accompagna diverse rappresentazioni, è in sé dispersa e senza riferimento alla identità del soggetto. Questo riferimento, dunque, non ha ancora luogo fin che mi limito ad accompagnare con la coscienza ogni rappresentazione, ma si dà solo quando pongo ogni rappresentazione assieme alle altre e ho coscienza della loro sintesi. Solo dunque in quanto posso congiungere in una coscienza un molteplice di rappresentazioni date, mi diviene possibile rappresentarmi l’identità della coscienza in queste rappresentazioni; ossia, l’unità analitica dell’appercezione è possibile solo sul presupposto di un’unità sintetica. Il pensiero: «Queste rappresentazioni date nell’intuizione appartengono tutte assieme a me», equivale al pensiero: «Io le raccolgo in una sola autocoscienza, o almeno posso raccoglierle in essa»; e benché non si tratti ancora delle coscienza della sintesi delle rappresentazioni, se ne presuppone tuttavia la possibilità; ossia: io chiamo quelle rappresentazioni tutte mie rappresentazioni soltanto perché posso comprendere il loro molteplice in una coscienza.

Parlando in generale, l’intelletto è la facoltà delle conoscenze. Queste consistono nella relazione determinata di date rappresentazioni a un oggetto. Ma oggetto è ciò nel cui concetto è unificato il molteplice di una data intuizione. Ogni unificazione delle rappresentazioni implica perciò l’unità della

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coscienza nella sintesi di esse. Ne deriva che l’unità della coscienza è ciò per cui solamente ha luogo la relazione delle rappresentazioni a un oggetto, quindi la loro validità oggettiva; dunque ciò che fa sì che divengano conoscenze e su cui poggia la possibilità stessa dell’intelletto. (Immanuel Kant, Prolegomeni ad ogni futura metafisica che possa presentarsi come scienza)