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Il pensiero del figlio: il nuovo testamento
Mutazioni divine
Quanti, tra i più devoti tra i cristiani, sono cristiani anche per l’amore che rivolgono
nei confronti del Cristo, si riconoscono nella passione di Gesù, ne accettano la
parola e si definiscono anche praticanti, alla domanda “la parola di Gesù è la parola
del Cristo?” risponderanno indubbiamente con un sì deciso.
In un testo come questo non posso consentirmi disquisizioni teologiche e dunque
devo proporre uno scenario comprensibile per tutti, mi augurerei anche per i
bambini.
Che Gesù, il nazareno, al suo tempo abbia fatto convergere su di sé notevole
attenzione pubblica, seppur in ambito strettamente locale, è fuori discussione e
questo per due precise ragioni: la sua tendenza ad interpretare in modo non
proprio ultraortodosso la legge rigidamente espressa nella Torah ebraica, ovvero
nell’Antico Testamento, e per l’eventualità sfiorata che quella predicazione potesse
attizzare in terra di Palestina sollevazioni popolari oltreché diatribe religiose. Il
rischio di agitazioni e rivolte derivava dal fatto che l’attesa del messia era intesa
dalla popolazione giudea come quella dell’avvento di un liberatore del popolo
d’Israele da tutti i suoi nemici, compresi dunque gli occupanti di Roma. In aggiunta,
intorno a quel rabbino si accalcavano folle curiose e speranzose per ascoltarne i
discorsi, richiamate dal tam-tam di voci che noi potremmo definire virale, relative
a prodigiose capacità. Il crescente successo popolare di Gesù in virtù del suo
carisma e degli argomenti religiosi ma anche sociali (come sempre noi diciamo)
con cui intratteneva proseliti ed astanti curiosi, non poteva non indispettire,
indignare e anche allarmare, più che il console dell’impero, chi nella Giudea di
2000 anni fa aveva una qualche autorità religiosa ovvero coloro che erano
esponenti ultraortodossi della fede assoluta nel dio dell’antico testamento e nella
lettera della sua legge. La legge di dio coincideva sostanzialmente con la legge
civile. Le sanzioni per i reati, le pratiche igieniche e sanitarie, il diritto di famiglia
derivavano, per quella cultura e in quel contesto, direttamente da Dio e dunque
non erano oggetto di una distinta giurisprudenza e di ricerca medica.
L’amministrazione della giustizia, le scelte politiche e le guerre, il comportamento
pubblico (se non quello privato) erano profondamente influenzate dalla legge di
Dio così come espressamente sancita nella Torah. Sicché i sacerdoti del Tempio di
Gerusalemme (gli unici veri depositari della Torah) e altri gruppi e potentati (ad
esempio i Farisei), avevano comprensibili motivi di diffidenza per quel rabbino con
tratti anticonformistici la cui predicazione ed interpretazione della parola di Dio
poteva interferire sulla coesione religiosa e sul loro stesso potere. Per gli ebrei la
parola di Dio non era oggetto di personale interpretazione ma di assoluta
sottomissione. Nessuno studioso sostiene che Gesù abbia mai inteso di sovvertire il
verbo del Dio del vecchio Testamento (non lo suggerisce la logica e non lo dicono i
vangeli) ma qualche cosa di divergente sicuramente deve essere stata espressa. Se
si fosse mosso nella pura tradizione dei sacerdoti del Tempio, Gesù non si sarebbe
creato nemici e oggi egli sarebbe uno tra i tanti rabbini di duemila anni fa di cui
non abbiamo memoria o notizie. Dall’altra parte c’erano, come detto, i dominatori
romani. A loro la questione religiosa non interessava molto, per lo meno all’inizio. I
conquistatori dell’impero, in Palestina come in ogni altro territorio occupato,
agivano in base al presupposto che nessuna conquista territoriale poteva essere
compromessa per ragioni derivanti dalla repressione di un qualsivoglia culto.
La politica imperiale romana si basava sulla coabitazione di numerose entità
supreme in un pantheon che si arricchiva sempre più delle deità dei popoli
conquistati. Roma non imponeva alcun culto e questo si può ben capire: erano
politeisti. Roma è piena di templi dedicati a molteplici divinità che frequentemente
sono dèi stranieri naturalizzati. Che a Gerusalemme ci fosse un tempio in nome ed
onore dell’ennesimo dio, a loro non interessava. Ognuno pregasse o facesse
sacrifici per chi gli pareva; ciò che contava per l’impero era che sulla terra si
obbedisse all’autorità di Roma. Poteva infastidire il riverbero politico-sociale delle
questioni religiose poste da quel predicatore e magari qualche reclamo posto
all’autorità di Roma (ad esempio in conseguenza del fatto che il mercato si tenesse
nel Tempio e che Gesù avesse rischiato di generare un tumulto nell’opporsi a
quella pratica commerciale), ma niente di più. Roma non interferiva nelle questioni
religiose dei popoli sottomessi.
Ho dovuto fare questa premessa (e, nel frattempo mi sono perso i bambini) ma
spero di recuperarli chiedendo loro? Cosa succederebbe se Gesù, anziché essere
nato allora, fosse un contemporaneo e si facesse notare come presunto messia,
diventando protagonista della storia della Palestina attuale? Certamente prima o
poi – tenendo conto anche della tensione politica che caratterizza quei territori, se
ne accorgerebbero i mass media, a partire dai giornali e dalle televisioni locali, se
ne parlerebbe nei telegiornali di mezzo mondo e se ne interesserebbero i gabibbi
(soprattutto per i miracoli più eclatanti). Potremmo parlare di Gesù come
personaggio dell’anno, candidato magari ad un nobel, naturalmente per la pace, e
se ne otterrebbero interviste. Ci sarebbe anche chi avrebbe motivi di sospetto sulle
reali mire di quel predicatore, ma se ne parlerebbe. Esattamente come è avvenuto
allora, tranne che per un particolare: allora non c’era internet, non c’erano radio,
televisioni. Gesù non era rincorso da reporters e non veniva paparazzato in
conseguenza della sua benevolenza nei confronti di Maria Maddalena (accusata di
immoralità dai moralisti dell’epoca) facendo la fortuna della stampa gossip. D’altra
parte Gesù raccoglieva sempre più adepti e il passaparola faceva il resto. Le parole
di questo predicatore che si diceva fosse il Messia si diffondevano (tuttavia
nemmeno i Vangeli affermano che lui l’abbia mai esplicitamente dichiarato),
moltiplicando i testimoni diretti ed indiretti (di chi aveva saputo cose dette da altri
che a loro volta avevano saputo da chi aveva assistito) e le testimonianze orali non
necessariamente attendibili. In quell’epoca non era facile prendere appunti per
strada né si potevano fare riprese coi telefonini e farne l’upload su Youtube.
Oltretutto se si pensa che Gesù abbia detto esattamente ciò che è scritto nei Vangeli
si deve giungere a sostenere che gli astanti avevano capacità (oltre che
motivazioni) tali da portarli a memorizzare anche concetti non sempre ordinari e
talvolta complicati senza alterarne il significato. Come sostiene la teoria
probabilistica dell’elaborazione dell’informazione, la via secondaria della
persuasione è frequentemente praticata soprattutto se la fonte di influenza è
dotata di spiccate qualità dialogiche ed espressive, come non è difficile immaginare
nel caso di Gesù, magari anche di aspetto seducente e di una montante notorietà.1
1 Ci si richiama qui al modello ELM di Petty, R. E. e Cacioppo, J. T. (1986).
Se qualcuno avesse obiezioni al riguardo di queste considerazioni, provi a
raccontare ad altri ciò che il sacerdote officiante ha detto esattamente nel corso
dell’omelia domenicale.
Spero che non si voglia cogliere un intento blasfemo nello scenario proposto.
Quella delineata è la realtà fattuale che riguarda personaggi che si fanno
riconoscere e che ammaliano le folle, così come succede per Osama Bin Laden,
Julian Assange di Wikileaks, Maradona, Madonna, Berlusconi o Carlo d’Inghilterra
se ne danno la minima occasione. D’altra parte, se Gesù non ricevesse la stessa
attenzione oggi, non sarebbe il Cristo. Vi immaginate quante organizzazioni
umanitarie si attiverebbero per salvargli la vita sulla croce? Vi immaginate i
problemi mediatico-politici di Ponzio Pilato? Ne parlerebbero certamente Porta a
porta e Matrix.
Insomma, se Dio avesse deciso di mandare il Messia sulla terra, potrebbe mai Gesù
non essere oggetto di sistematica attenzione mediatica? Diciamo che Dio,
decidendo di sacrificare il figlio per salvare l’umanità, non potrebbe non ottenere il
suo scopo. D’altra parte, la vita di Gesù ha tutti gli ingredienti di una storia di
successo anche ai nostri giorni. Oggi non potrebbe che avere lo stesso successo di
ieri, avendo anche Dio alle spalle (a proposito di conoscenze ed entrature).
In sostanza oggi potremmo accumulare una documentazione immensa sulla vita, le
opere e i miracoli di Gesù, un materiale anche controverso, soggetto a polemiche e
dibattiti ma disporremmo di interviste registrate, documenti filmici, interventi
scritti per diverse occasioni e appunti autografi stesi in occasione di viaggi da una
parte all’altra del mondo, magari accumulati nel suo laptop. Una grande quantità di
file sarebbero presenti on line e scaricati in formato mp3 come canti sacri di
successo in stile rap.
Potremmo magari discettare sull’interpretazione di alcune fortunate parabole o
sulle sue reali intenzioni ma potremmo farlo a partire dalle sue parole come egli le
ha dette. Certamente le polemiche giornalistiche non mancherebbero perché come
si sa i giornalisti amano i titoli a effetto; le strumentalizzazioni e manipolazioni
informative sarebbero reciprocamente contestate da sostenitori e detrattori come
sempre accade quando la cronaca ci offre occasioni tanto stimolanti per i partigiani
di ogni fede ed ideologia.
Ci si chiederebbe dove sono finiti alcuni nastri originali (d’altra parte pur oggi
spariscono carteggi e registrazioni dagli archivi pubblici oppure si innalza il
segreto di stato di fronte a malefatte dei servizi deviati) e ci si interrogherebbe,
anche, se un certo sermone è stato scritto veramente da lui o da un suo apostolo (è
forse Beppe Grillo a scrivere i testi dei suoi stessi spettacoli?). Comunque sia,
avremmo un ampio data base di espressioni e pensieri attribuibili con elevatissima
probabilità a Gesù, il Cristo, l’unto dal Signore.
Ma se ci riferiamo al Gesù di duemila anni fa, le cose come possono essere andate?
Le vicende che lo riguardano, sono andate così come sono rappresentate dalle
sacre scritture o sono divulgate nelle parrocchie e nelle chiese? Le parole che
attribuiamo oggi a Gesù sono le stesse che egli ha effettivamente pronunciato?
Sono state forse registrate o in qualche modo acquisite? E quando è stata edita la
sua opera omnia: il Nuovo Testamento, sequel del libro al primo posto delle vendite
di tutti i tempi?
Tramandarsi le storie
Tutti gli psicologi conoscono Frederic Bartlett (1886-1969) che, superando la
lezione meccanicista di Herman Ebbinghaus (1850-1909), fu tra i primi
eminentissimi studiosi dei processi cognitivi a spiegare la natura socialmente
costruita della memoria a partire da un semplicissimo esperimento, quello della
trasmissione del messaggio. In particolare, diversamente da Ebbinghaus che per i
suoi studi sulla capacità della memoria di conservare l’informazione aveva
utilizzato sillabe prive di senso, Bartlett (1932) approfondì le trasformazioni che
subisce una storia significante - la guerra degli spettri – allorché viene riferita da
più narratori in sequenza. Davvero nulla di complicato, stiamo parlando del
telefono senza fili, un gioco che conoscono anche i bambini. Basta sussurrare una
frase all’orecchio del vicino; quest’ultimo riferirà quanto ascoltato a un'altra
persona e così via, uno dopo l’altro, al fine di confrontare ciò che è detto all’inizio e
quanto è arrivato alla fine. E divertirsi.
Per anni, quasi trent’anni fa, assieme ad un caro amico e collega, Rodolfo Parlato, ci
siamo divertiti a “stupire” i partecipanti a gruppi di formazione con quello che è un
fatto banale: le trasformazioni del contenuto sono pressoché garantite e molto
poco della narrazione originaria sopravvive se non alterando profondamente gli
aspetti critici e perturbanti o semplicemente percepiti anomali del racconto. Tali
trasformazioni dipendono da molti fattori: dalle idee personali degli individui sui
fatti specifici che costituiscono l’oggetto della narrazione, dalla loro abilità e
competenza linguistica, dal loro ruolo, dalla situazione, dalla disponibilità di storie
simili, ecc. In tal senso le trasformazioni possono prendere anche vie diverse ma
ciò che colpisce è che, se una narrazione viene modificata, coloro che la raccolgono
oltre che eliminare molti elementi narrativi, introducono nella storia nuovi fatti,
dettagli e significati, al fine di aumentarne coerenza e raccontabilità. Altrimenti
non arriva niente alla fine della catena: la storia muore e non ne rimane più traccia.
Di una narrazione può sopravvivere solo ciò che “acquisisce senso”. In altri termini,
affinché qualcosa nella nostra mente possa essere conservata e tramandata, deve
essere trasformata.
Rifacendomi a Segre (1979) ebbi modo di osservare a proposito delle alterazioni
del testo che riscontravamo sottoponendo ai “testimoni” vari articoli di cronaca
nera e giudiziaria:
Può essere utile richiamare il concetto di diasistema. Considerando l’opera dei
copisti, grazie ai quali un antico testo giunge a noi, si può osservare che
l’infedeltà dei copisti è stata il prezzo per la sopravvivenza del testo: esso può
vivere solo se deformato. Il compromesso tra il sistema del testo e quello del
copista realizza un diasistema. L’emendatio è una specie di dialisi che separa
dal sistema di base elementi dei sistemi di mediazione. 2
2 Il concetto di diasistema è introdotto in campo filologico e linguistico da Uriel Weinreich e poi sviluppato da Cesare Segre (Segre Cesare, Critica testuale, teoria degli insiemi e diasistema, in: id., Semiotica filologica. Testo e modelli culturali, Torino, 1979) per riferirsi a lingue che si configurano come il prodotto di più lingue. S.Smiraglia, Identità sociale e sistemi di riferimento categoriale nei processi di deformazione del messaggio, Congresso nazionale della divisione di psicologia sociale AIPs, Padova 1983. Vedi anche: Rodolfo Parlato, Modi e forme della comunicazione. La metamorfosi conservativa, Liguori, 2001. Una vastissima base di conferme dei processi psicologici attivati dalla testimonianza unisce gli studi fondativi di Cesare Musatti e le più recenti opere in campo giuridico di Guglielmo
Assumendo questa premessa fattuale, i tempi, i modi e i contenuti della
predicazione di Gesù, il Cristo, sono stati indiscutibilmente oggetto di una
plurisecolare inevitabile manipolazione.
Per farla semplice, quando comunemente si dice: date ascolto alla voce di Cristo, a
quali parole di Gesù ci si riferisce? Altrimenti detto: quando sono state redatte le
pagine che compongono i Vangeli di cui siamo in possesso?
Basta osservare che i Vangeli pur attribuiti ai quattro apostoli, Marco, Matteo, Luca
e Giovanni sono più correttamente definiti dalla stessa Chiesa come i Vangeli
secondo Marco, Matteo, Luca e Giovanni. Dunque, nel migliore dei casi, le vicende e
le parole sono attribuite a Gesù secondo quanto possono aver appreso i quattro
evangelisti che spesso, moltissimi credenti identificano erroneamente con quattro
degli apostoli di Gesù. Ma questo si può ben comprendere; tutti hanno difficoltà a
ricordare i sette nani di Biancaneve (se ne dimentica sempre qualcuno), come si
può pretendere di ricordare i nomi di ben dodici apostoli?
Il fatto è che i Vangeli non sono stati affatto scritti dagli apostoli e nemmeno da
coloro che possono essere stati i diretti testimoni oculari delle vicende di Gesù. E
nemmeno dalle persone che – nel breve periodo – erano stati a contatto indiretto
con quei testimoni. Si consideri al riguardo la figura di Paolo di Tarso e lo status
elevatissimo dei suoi scritti nell’ambito della tradizione cattolica. Egli non è
propriamente un apostolo e non ha sicuramente conosciuto Gesù, come egli stesso
conferma. Paolo, che tra tutti i proseliti della nuova fede era certamente il più colto,
è correttamente riconosciuto come autore di lettere indirizzate ad alcune
congreghe cristiane nella seconda metà del primo secolo, ma in nessuna sua opera
egli si riferisce compiutamente ad azioni e parole del maestro. Anch’egli, come la
quasi totalità dei primi credenti, nella sua opera di proselitismo si affidava alla
diffusione orale della buona novella come si evince dalle sue stesse lettere che
riferiscono dei frequenti incontri e si ricollegano alle conversazioni che
intratteneva con le comunità sparse nell’area mediterranea orientale.
Anche la datazione degli scritti ci suggerisce di considerare i vangeli come il
prodotto di una decennale se non secolare sovrapposizione di narrazioni
Gulotta.
trasmigrate da credenti a nuovi adepti prima che si procedesse a raccogliere ed
organizzare le “testimonianze” in una forma prossima a quella che credenti e
praticanti di oggi ritengono essere la testimonianza autentica della parola e delle
opere di Cristo.
Si consideri altresì che i famosi dodici apostoli difficilmente potevano disporre di
competenze e mezzi per registrare con la dovuta accuratezza le parole che avevano
ascoltato: Pietro era un pescatore, al pari di suo fratello Andrea; poco si sa di
Giacomo (detto il maggiore), di Giovanni, Tommaso, Bartolomeo, dell’altro
Giacomo (detto il minore), di Simone, Filippo, Giuda Taddeo (da non confondersi
col Giuda che tradì Cristo) che si ipotizza che ne fosse cugino, di Mattia (che
divenne apostolo dopo la morte del traditore Giuda, sembra per sorteggio). Di loro
si hanno notizie biografiche di scarsa consistenza e anche i loro nomi oltre che le
identità sono oggetto di disaccordo tra gli stessi studiosi di tradizione cristiana e
cattolica. Dunque ci mancano notizie biografiche che ci possano dar conto della
loro capacità di prendere nota dei discorsi del maestro e dei suoi eventi di vita ma
certamente leggere e scrivere doveva essere una competenza piuttosto rara
all’epoca, soprattutto se si tiene conto del milieu sociale di provenienza. Né, come
detto, si avevano a disposizione papiri, pergamene e verghe allo stesso modo di
quanto oggi avviene per block notes e penne, telefonini e registratori digitali.
Solo Matteo (pare fosse un esattore delle tasse) potrebbe essere stato un
potenziale cronista dei fatti. Ma gli esattori di allora non erano quelli di oggi,
sapevano contare i denari e potevano non saper leggere. Ma sono solo ipotesi che,
in un caso o nell’altro, perdono di interesse di fronte al fatto riconosciuto da tutti
gli studiosi che nessun evangelista può essere identificato con quegli apostoli, o
con coloro che hanno frequentato davvero Gesù, i testimoni oculari delle vicende
dell’epoca. In sostanza non esiste alcun documento di prima mano che riferisca
date e fatti se non per quel che è arrivato a noi attraverso duemila anni di
alterazioni ed elaborazioni della vita e della parola di Gesù.
Il Vangelo secondo Marco, ritenuto come il più antico, risalirebbe infatti a 40-50
anni dopo la morte di Gesù; le opere riconducibili agli altri tre evangelisti sono
concordemente collocate dagli studiosi tra la fine del primo secolo e la metà del
secondo.
Mi auguro che il lettore riesca a immaginare quanto, nel corso di oltre cent’anni, il
passaparola abbia influito sulla corrispondenza tra narrazioni e vicende storiche,
non dimenticando – come meglio avremo modo di chiarire – che anche le
successive testimonianze scritte hanno dovuto attraversare un oceano di
traduzioni approssimate e di copie a cura di scribi semianalfabeti. Ciò prima che si
realizzassero le condizioni per la stessa preservazione dei papiri e delle
pergamene allora utilizzate per la scrittura; è solo con il IV secolo che si afferma,
con la tradizione monastica e grazie all’opera di amanuensi professionali,
un’autentica cura per la tutela delle opere, una cura che non ha impedito affatto il
moltiplicarsi delle versioni disponibili.3
Ancor più oltre, bisognerà attendere l’introduzione della tecnica a stampa a
caratteri mobili con Johannes Gutenberg (a partire dal 1450) per arrivare alla
diffusione di copie stabilizzate e sempre più numerose, esenti dagli errori
introdotti dai trascrittori pur quando adottavano il medesimo originale.
Avere chiesto al lettore di immaginare Gesù nello scenario della modernità serve,
dunque, a far riflettere su fatto che un secolo ancora dopo la sua morte non si
disponeva di una qualsiasi documentazione scritta, organica, delle parole del
messia. E questo è un fatto ampiamente comprensibile per ragioni che hanno a che
fare con l’innovazione delle tecniche e con l’evoluzione culturale.
Come riconosce Oscar Cullmann, teologo luterano ed eminente filologo, “non
abbiamo documenti originali del Nuovo Testamento, ma soltanto copie. I più
antichi manoscritti completi che noi possediamo non risalgono oltre il IV secolo;
perciò, senza voler considerare alcuni frammenti più antichi, circa trecento anni
separano dunque la redazione originale degli scritti neotestamentari dal testo che
di essi ci è stato tramandato.”4
3 I papiri non ci trasmettono che frammenti di testo ma sono i più preziosi perché sono le testimonianze più antiche e risalgono per lo più al III secolo. Le pergamene più antiche rimontano al massimo al IV secolo ma contengono testi completi. Come riferisce Cullmann tutti questi testi sono scritti in greco (koinè, il greco comunemente parlato nell’impero) e denotano una “morfologia semplificata e deformata, la sintassi è spesso irregolare e il vocabolario ha subito un’evoluzione, a causa di influenze linguistiche diverse” (Cullmann Oscar, Il Nuovo Testamento, Il Mulino, 1968, p. 15)4 Cullmann Oscar, cit., p.14
Oltretutto, quando si parla del Nuovo Testamento, ci si riferisce solamente ad
alcuni Vangeli (ovvero agli scritti ricordati con i nomi dei quattro evangelisti:
Giovanni, Paolo, Marco e Luca) che consistono nella narrazione della nascita, degli
insegnamenti e della morte di Gesù e ad alcuni altri scritti storici ed esegetici (gli
Atti e le Lettere degli apostoli) e profetici (come l’Apocalisse). Oltre a questi scritti,
sussistono altri Vangeli, detti apocrifi, che sono stati esclusi dal cosiddetto canone,
ovvero dalla versione del Vangelo semanticamente fissata e definita autentica per
determinazione ecclesiale. Dunque alcune testimonianze sono state ammesse e
altre no per ragioni diverse ma soprattutto riconducibili al principio della presunta
ortodossia. Sono state accettate le opere che nel corso di una storia millenaria di
dispute teologiche, di diatribe movimentiste e di conflitti politici sono risultate
coerenti con le idee e le convinzioni di chi, in quei contesti, ha avuto il potere e
l’autorità di decidere. Le opere ammesse sono così diventate il basamento della
tradizione cattolica. Gli scritti che invece fornivano testimonianze difformi dalle
verità ritenute tali sono stati rimossi.5 E comunque – come già detto - tutti questi
scritti sono giunti a noi (e gli originali sono conservati in diversa condizione di
completezza, lingua e attribuzione) solo a partire da documenti sistematizzati che
risalgono al secondo e terzo secolo dell’epoca volgare (ovvero dopo Cristo).
Come chiarisce Bart D. Ehrman che è uno dei più autorevoli e documentati studiosi
della lunga storia del Nuovo Testamento, le parole di Gesù sono state affidate per
secoli al passaparola della comunicazione orale, prima, e poi trasmesse attraverso
sempre più numerose “copie” eseguite da scribi e da traduttori nelle diverse lingue,
dal sanscrito al greco, dal greco al latino, e poi nelle lingue contemporanee, laddove
ognuna di queste copie è stata discussa, corretta e manipolata da una moltitudine
di autorità spirituali e redattori, sia in buonafede (errori) sia in malafede
(manipolazioni) al fine di rendere le parole del Messia coerenti e conformi alla
propria stessa interpretazione e visione.6
5 È curioso osservare che – nonostante quelle esclusioni testuali - alcune delle tradizioni natalizie più diffuse, come quella del presepe, devono molto proprio agli scritti apocrifi. In particolare la collocazione della natività in una grotta, con il bambino riscaldato dal fiato del bue e dell’asinello, è riconducibile a testi che non fanno parte dei Vangeli canonici, eppure è sopravvissuta al di là delle “verità” che la stessa Chiesa ha inteso autenticare.6 Si veda anche Cullmann Oscar, cit.
“Durante i secoli iniziali della Chiesa, i testi cristiani venivano riprodotti
ovunque fossero stati scritti o portati. Essendo copiati localmente, non
sorprende che luoghi diversi sviluppassero tipologie diverse di tradizione
testuale. Questo significa che a Roma i manoscritti contenevano molti errori
dello stesso genere perché erano in gran parte documenti “interni”, copiati
uno dall’altro; non erano molto influenzati da manoscritti copiati in Palestina;
anche in Palestina i testi assumevano caratteristiche proprie, che non erano le
medesime di quelli trovati in un posto come Alessandria d’Egitto.”7
Per dirla tutta, se Gesù è il figlio di Dio (eppure umano, dunque soggetto a
contraddizioni), non sono certamente divine (e dunque infallibili) le sterminate
schiere dei testimoni, dei seguaci, degli interpreti di quelle parole.
Se Gesù ha parlato, dicendo quello che può aver detto, ciò che giunge a noi è il
prodotto evoluzionistico di una storia testuale di particolare salienza nella
prospettiva memetica. Le parole e i concetti, gli episodi e le vicende così come ci
sono pervenuti, evidenziano tutte le processualità ampiamente riconosciute dalla
psicologia della comunicazione, in termini di fenomeni sperimentalmente ben
spiegabili sulla base del contributo degli studi cognitivisti oltre che filologici. Una
storia che consiste di millecinquecento anni di errori e manipolazioni nella
traduzione dei vangeli, come recita il sottotitolo dell’opera di Ehrman.
Tutto questo è quello che possiamo definire verità fattuale.
Per convincercene, basta considerare che il dibattito intorno a quali siano i testi
che costituiscono testimonianza effettiva della predicazione del Cristo, non è tema
di speculazione anticristiana ed anticattolica. È parte integrante della stessa storia
della cristianità e del cattolicesimo. Le dispute sull’interpretazione e sul significato
degli eventi assunsero un valore cruciale per la stessa sopravvivenza della parola
di Cristo già - e soprattutto - allora. Tali dispute, oltreché le circostanze naturali
(smarrimento, incendi, degrado dei supporti di scrittura, ecc.) hanno certamente
determinato la perdita e la distruzione di alcuni documenti e la sopravvivenza di
altri, tanto degli originali che delle copie. Copie di copie di copie eseguite da scribi
talvolta dotti e talvolta semianalfabeti, da traduttori esperti o approssimativi tanto
7 Bart D. Ehrman, Gesù non l’ha mai detto, Mondadori, 2008, p. 85-86
da contribuire alla plurisecolare elaborazione delle parole di Gesù e delle sue
vicende: narrazione dopo narrazione, copia dopo copia a partire da narrazioni e da
copie diverse.
Alla base di tutto è il fatto che gli evangelisti hanno attinto significativamente a
fonti orali. La buona novella per circa quarant’anni si è trasmessa esclusivamente
attraverso le voci dei primi adepti che hanno diffuso essenzialmente detti e
racconti isolati. I proto evangelisti hanno potuto, al massimo, solo collegare
racconti e detti ricevuti dalla tradizione locale, ciascuno a suo modo, ciascuno
secondo la propria personalità e le proprie particolari inclinazioni teologiche. Né si
sottovaluti che, all’epoca, le capacità di leggere e scrivere erano assolutamente
poco diffuse; per ragioni connesse alla loro estrazione sociale prevalentemente
molto bassa, i seguaci del nuovo credo erano generalmente ancor meno istruiti e
sostanzialmente analfabeti.8 Per tale ragioni il processo di diffusione orale delle
parole e delle vicende del Cristo è proseguita per secoli contribuendo, per via
popolare, alla costruzione dal basso delle verità di fede che si sono imposte anche
al di là dell’ortodossia testuale. Ecco perché le testimonianze su Gesù si sono
moltiplicate in misura esponenziale e dunque anche incontrollata favorendo in
molti casi edificazioni che poi sarebbero state definite eretiche.9
Fermare le mutazioni: la definizione del canone.
8 Una significativa conferma della condizione illetterata dei primi cristiani viene da
uno dei padri della chiesa, Origene (c. 185, c.284), il quale in una sua risposta ad un’opera di Celsio, feroce nelle sue critiche per l’ignoranza e la stupidità dei cristiani, vanta per essi il pregio dell’ignoranza per le conoscenze umane, affermando il primato della sapienza per le cose divine (Contra Celsum). Si veda Spiazzi Raimondo, Cristianesimo e cultura dai Padri della Chiesa a S. Tommaso d'Aquino, Edizioni Studio Domenicano, 1990, p.69-70.9 Nel 1550 John Mill, sulla base di trent’anni di approfondite analisi di un centinaio di documenti neotestamentari disponibili in lingua greca, giunse ad individuare trentamila variazioni fra le testimonianze superstiti. Cit. in Ehrman, p.99. Attualmente, sulla base del notevole ampliamento dei reperti si dispone di un numero di varianti che oscilla - in base alle valutazioni dei diversi studiosi - tra le 200mila e le 400mila. Ma, pur disponendo di tecnologie informatiche in grado di elaborare masse enormi di dati, nessuno è stato in grado di contarle tutte. Ibi, p.105.
Come spiegato in altra parte del nostro lavoro, la prospettiva memetica delinea
uno scenario universale di replicanti egoisti, i memi, le unità segniche sottoposte
ad una dura competizione con altri replicanti e comunque associati ad altri memi
(altre idee, segni e formulazioni linguistiche) aggregate in forma mutualistica di
complessi memetici. La proliferazione delle narrazioni e delle interpretazioni delle
vicende inerenti alla vita e alla morte del messia se da un lato consentiva al meme
Cristo di diffondersi viralmente con mutazioni, dall’altro faceva sorgere un
problema di coesione e coerenza del credo.
Per molti secoli i vari movimenti cristiani hanno fondato la loro fede su scritti
evangelici profondamente differenziati (opere diverse, di diversi autori e in
diverse lingue e versioni) e questo inevitabilmente accentuava contrasti che
andavano ben oltre il dibattito esegetico investendo anche la questione
dell’autorità degli interpreti testuali e delle rispettive comunità di appartenenza, a
preludere la questione cruciale in epoca moderna del primato spirituale e
dell’autorità dottrinale. In sintesi, i complessi memetici delle epistole e dei vangeli
dei diversi discepoli presentavano variazioni significative che rischiavano di
mettere in crisi la coesione della minoranza cristiana del primo e secondo secolo
e.c..
Si ponevano problemi di egemonia e di controllo che la Chiesa nascente non
avrebbe potuto tollerare: nessun potere religioso è possibile se non si è depositari
dell’unica e vera parola di Dio, nello specifico del messia, il figlio di Dio.
Quella che definiamo la parola vera di Gesù, il Cristo ovvero il Dio fatto uomo, è
quanto raccolto nel Vangelo codificato, ovvero istituzionalizzato dopo secoli di
conflitti, discussioni, anatemi e scomuniche tra gruppi e movimenti vari, correnti e
chiese. Il tutto sulla base di fonti testamentarie spesso divergenti e contraddittorie,
scritte in lingue diverse e ripetutamente copiate introducendo errori involontari e
alterazioni strumentali non fosse che per rendere più chiaro quanto Gesù avrebbe
detto. Questa esigenza sta alla base del processo di formazione del canone. Il
canone è, in sostanza, la versione ufficiale della verità della parola di Cristo, così
determinata a partire dalle molte verità disponibili.
Le tante verità sulla vita, le opere e le parole di Cristo esigevano una nuova verità,
stabile e dogmatica; come rileva Cullman (1968), “in via generale, il canone del
Nuovo Testamento non si è formato per addizione, come si potrebbe credere, ma
per eliminazione.”10
Per comprendere questo aspetto è utile ricordare la storia di un illustre cristiano
vissuto nel II secolo, Marcione, uomo di larghe disponibilità economiche derivanti
da attività nel settore delle costruzioni navali ed inusualmente erudito,
profondamente impegnato apostolicamente nel diffondere le sue personali idee
(come tutti, d’altra parte) sul messia. Egli, fu il primo a impegnarsi a redigere una
raccolta sistematica di scritti che potessero costituire sacri testi di fede e per farlo
egli adottò a riferimento gli scritti dell’unico apostolo che egli considerava vero,
Paolo. Come abbiamo ricordato Paolo non ha scritto alcun Vangelo ma solo lettere.
Marcione adottò dunque come premessa del sacro libro dieci lettere di Paolo (che
erano quelle di cui disponeva) e una versione di quello che è il vangelo di Luca, che
Marcione ipotizzava essere il vangelo cui Paolo si richiamava.
Che cosa manca nella proposta di canone marcioniano rispetto ai sacri testi su cui
poggia la nuova tradizione cattolica? Lasciando da parte le opere minori, non
comparivano ben tre Vangeli ma, soprattutto, veniva escluso il Vecchio Testamento,
il testo sacro di Israele e con esso la parola del Dio della genesi e della legge.
In effetti come evidenzia Ehrman: “… in alcune sue lettere, come quella ai romani e
quella ai galati, Paolo aveva insegnato che una buona reputazione al cospetto di
Dio derivava solo dalla fede in Cristo, non dal compimento di alcuna delle opere
prescritte dalla legge ebraica. Marcione condusse questa differenziazione fra la
legge ebraica e la fede in Cristo a quella che riteneva la sua conclusione logica,
l’esistenza di una distinzione assoluta fra la legge antica da una parte e il vangelo
(la buona novella) dall’altra. Vangelo e legge erano a dire il vero tanto diversi da
non poter essere scaturiti entrambi dallo stesso dio. Marcione ne deduceva che il
Dio di Gesù (e di Paolo) non fosse, pertanto, il Dio dell’Antico Testamento.
Esistevano, sosteneva, due diversi dèi: il Dio degli ebrei, che aveva creato il mondo
e chiamato Israele a essere il suo popolo dandogli la sua severa legge, e il Dio di
Gesù, che aveva mandato Cristo nel mondo per salvare la gente dall’adirata
vendetta del Dio creatore degli ebrei.”11
10 Cullman, cit. p. 14111 Ehrman, cit. p.42-43
La posizione di Marcione (dichiarato successivamente eretico) alimentò alcune
contrapposizioni comunque preesistenti, così come il bisogno di definire la verità
su Cristo ed il suo Dio; certamente la sua formulazione accelerò il processo di
definizione del canone, un processo che tuttavia durò non poco, fino al 367, anno in
cui Atanasio, vescovo di Alessandria d’Egitto, in una lettera pastorale formula un
suggerimento di testi canonici che per la prima volta coincidono con quelli che i
credenti conoscono come le attuali sacre scritture: l’Antico ed il Nuovo
Testamento, sostanzialmente incentrato sui 4 Vangeli. Ma ovviamente la storia per
il completamento del canone è durata molti altri secoli ancora.
Come si evince da questa vicenda, le questioni non sono tanto e soltanto relative ai
testi o inerenti alla filologia testuale: la scelta dei testi o di un testo conduce alla
definizione di diverse concezioni sul Cristo, del suo rapporto col padre e perfino
della sua natura divina. In sostanza, modificando o selezionando i testi cambia la
stessa base del credo e, dunque, l’oggetto della fede.
Questo allorché è stato deciso che si doveva definire quali testimonianze erano da
considerarsi espressione autentica delle parole di Cristo e quali no e dunque si
sono limitate le testimonianze vere a quelle che costituiscono oggi il cuore del
Nuovo Testamento, i Vangeli. Ma le copie più fedeli avrebbero dovuto attendere
l’avvento della stampa: è solo con questa innovazione che si eliminano le variazioni
a partire da quello che viene adottato come testo originale (il Vangelo canonico).12
Una sola verità fatta di molte verità
Una volta definito il canone, tuttavia, i problemi non si sono certamente esauriti. I
testi canonici, per quanto scelti tra quelli maggiormente compatibili, conservano
molte differenze di grande peso. Il paradosso è che la sempre più scrupolosa
attenzione per la preservazione dei testi cristallizza nel canone - ad un certo tempo
12 la prima elencazione dei 27 libri del nuovo testamento come opera canonica (così come noi la consideriamo) risale alla seconda metà del IV secolo ad opera di Atanasio, vescovo di Alessandria. Ibi, p.46. Altro esempio, citato da Ehrman, è relativo alla prima copia completa della lettera di Paolo ai Galati che risale a 150 anni dopo che Paolo l’aveva scritta. Centocinquanta anni di trascrizioni ora corrette, ora errate prima che venisse eseguita una copia giunta fino a noi. (Ibi, p. 70)
- testi differenti e differenti verità. Certamente, come abbiamo detto, molti antichi
testi sono stati persi o sono andati distrutti e possiamo parlare al riguardo di una
vera e propria selezione naturale prodottasi sui supporti testuali e dunque
concepire l’idea che alcune verità non sono sopravvissute. Laddove i testi sono
arrivati sino a noi e dunque sono sopravvissute le verità lì conclamate, dobbiamo
riconoscere che questi testi hanno inevitabilmente subito delle mutazioni di copia
(così come avviene per gli errori di copiatura sia a livello genetico sia a livello
memetico) consegnandoci delle verità non fattuali. Con riferimento alla
prospettiva memetica è importante notare che il processo evoluzionistico che
determina la sopravvivenza di un’idea, di una formulazione linguistica o di un
segno (i memi), per la sua complessità (fatta di variabilità e mutazioni
incontrollabili), non è affatto governabile da alcuna fonte di autorità anche
istituzionale. I Vangeli non possono essere intesi come un prodotto di pura scelta
intenzionale da parte dell’istituzione ecclesiastica. Questa considerazione sarebbe
politica ed ideologica ma non rispettosa delle verità fattuali. I memi sono replicanti
egoisti e dunque si possono replicare nei cervelli e nelle culture anche a scapito
degli organismi e delle istituzioni. E i cervelli e le istituzioni non decidono
liberamente quali idee possono colonizzarli anche perché ogni cervello non è
colonizzato esattamente dalle stesse idee, formulazioni linguistiche e segni. Sicché
il prodotto finale della propagazione memetica originata dal Cristo va interpretato
come un esito probabilistico di affermazione della verità. Mutare è il prezzo
inevitabile per poter sopravvivere ma l’esito delle mutazioni non può essere affatto
previsto e sicuramente pilotato. Questa visione è in accordo con quanto
sostengono gli stessi interpreti del credo. Come si suole dire è la parola di Cristo
che si impone ai cuori e alle menti. È Dio che sceglie noi e non noi che scegliamo Dio.
Con riferimento al processo della formazione del canone, la prospettiva memetica
è dunque implicitamente e inconsapevolmente condivisa dagli interpreti ortodossi.
Come osserva Cullmann, “non bisogna credere che il canone si sia formato in
seguito ad una serie di decisioni precise. I libri ammessi più tardi, in un certo qual
senso, si sono imposti da sé ai membri della chiesa”.13
13 Cullmann, cit., p.142.
Non meraviglia dunque che i vangeli presentino molte diversità ed incongruenze.
La stessa comprensibile esigenza di preservare l’originalità delle scritture, e con
esse la verità autentica della parola, ha fossilizzato nel corpo testuale tutte le
manipolazioni intenzionali e gli errori di copia involontari che il lungo processo ha
comportato. Non è nostra intenzione approfondire questi temi ma una vastissima
letteratura, anche e soprattutto cristiana e cattolica, ha dovuto e deve fare i conti
con questa evidenza. Gli stessi vangeli sinottici14, quelli di Marco, Luca e Matteo,
così detti perché affiancabili in ragione della sistematizzazione ed organizzazione
cronologica delle vicende narrate, sono tali non perché siano il frutto di tre
testimonianze indipendenti (cosa che darebbe valore alle testimonianze) ma
perché, è l’ipotesi più accreditata, si tratta di versioni differenti (soprattutto per
stile e inclinazioni teologiche personali) elaborate a partire da una fonte comune.
L’interpretazione più valorizzata dagli studiosi è che il vangelo di Marco sia il più
antico e che Luca e Matteo si siano rifatti a Marco per la loro stesura. Altri studiosi
ipotizzano una fonte antecedente di collocazione aramaica (la cosiddetta fonte Q,
per altro mai identificata) e riproposta da Marco in greco. Non possiamo rendere
conto delle diverse ipotesi interpretative elaborate dagli studiosi ma ci preme
sottolineare come tanto le diversità quanto le contiguità siano presenti nei vangeli
canonici. Così, i miracoli non sono ricordati da tutti gli evangelisti e non si tratta di
miracoli di poco conto.
Solo Giovanni narra del miracolo della conversione dell’acqua in vino (che segna
l’esordio prodigioso di Gesù) oppure quello della resurrezione di Lazzaro e in
Giovanni non compare alcuna delle notissime parabole del maestro.
Analogamente in Marco (come noi attualmente lo leggiamo), si osserva un finale
della sepoltura e resurrezione di Cristo che è dimostrato essere frutto di
un’aggiunta successiva rispetto alle antecedenti versioni di quell’apostolo.
Insomma nella prospettiva memetica ed evoluzionistica si delineano spazi più che
sufficienti per comprendere i processi naturali attraverso cui si costituisce la base
di verità della vita e delle opere di Gesù. In sostanza, prendendo coscienza di
quanto la mano dell’uomo sia intervenuta sulle parole del presunto figlio di Dio.
14 Dal greco sỳnopsis che significa “veduta d'insieme”
Epilogo della storia
Nonostante le innumerevoli mutazioni delle parole di Gesù (per meglio dire, grazie
ad esse), il meme Cristo immolatosi sulla croce per il suo stesso credo si è
trasferito da quel tempo al nostro; la vicenda che lo riguarda non può che essere
riconosciuta come formidabile espressione di successo religioso, con un altrettanto
formidabile impatto politico, sociale e culturale che ha radicalmente segnato la
storia dei due ultimi millenni.
Per approfondirne il senso in chiave di processi naturali dobbiamo riconsiderare lo
scenario in cui si trovano ad agire i seguaci di Gesù ed i primi cristiani dopo la
morte del maestro.
Per i romani - certamente – ma anche per la più parte della popolazione rimasta
ancorata alla tradizione giudaica, una volta eseguita la condanna la questione era
chiusa. Che fosse sparito o meno il cadavere, difficilmente i contemporanei si
saranno fatti impressionare dal teorema della resurrezione; non erano stati
convinti dai presunti miracoli verificabili (ad esempio quello concernente
Lazzaro), potevano mai credere che Gesù fosse risorto dal momento che il
cadavere era sparito e che di Gesù vivo ne parlava al massimo solo qualcuno di
quei suoi fanatici adepti? In qualche modo, morto Gesù, la tensione politico-
religiosa era scemata e nessun cristiano aveva la forza di manifestarsi troppo
spudoratamente. In ogni caso un po’ tutti pensarono che morto Gesù e perso il suo
carisma, i suoi seguaci si sarebbero eclissati senza altro seguito.
In termini sociologici possiamo plausibilmente ritenere che la questione del
presunto messia non sia rimasta a lungo nell’Agenda Setting dell’epoca: ciò
nonostante la fede in Gesù anziché estinguersi si alimentò per via di un
proselitismo crescente che dalla Palestina si diffuse gradualmente ma
potentemente toccando prima Bisanzio capitale emergente della parte orientale e,
dopo, il vecchio cuore dell’impero, Roma.
Come è potuto avvenire tutto questo? La risposta che possiamo ricavare dalla
prospettiva memetica è che questa storia contiene tutti gli elementi utili e
necessari per la sopravvivenza del meme-cristo. Inquadrando la prospettiva
memetica sullo sfondo del darwinismo universale, sono necessarie tre condizioni
perché si abbia evoluzione e dunque riproducibilità dei memi: variazione,
ritenzione e selezione.
Variazione
Nei primi due secoli le differenze teologiche tra coloro che si identificavano nel
vero messaggio di Cristo erano assai spiccate. Come osserva Ehrman, i primi
cristiani aderivano a numerosissime credenze e pratiche che tutti i fedeli di oggi
considererebbero senz’altro illegittime ma che all’epoca si contendevano tutte il
crisma della verità diffusa dal maestro. 15
Alcuni gruppi credevano in un unico dio, altri, abbiamo accennato a Marcione,
ritenevano che vi fossero due distinte divinità, quella dell’Antico Testamento e
quella del Nuovo. Ma vi erano anche cristiani che erano arrivati a concepire un
numero maggiore di divinità. Alcune comunità affermavano che Gesù Cristo era al
tempo stesso del tutto umano e del tutto divino, altri proclamavano che Cristo era
del tutto umano e per nulla divino, o del tutto divino e per nulla umano, e altri
ancora che in Gesù Cristo sussistevano due persone distinte: un essere divino
(Cristo) e un essere umano (Gesù). Alcune di queste comunità credevano che la
morte di Cristo avesse o avrebbe portato la salvezza al mondo, altre che la sua
morte non avesse nulla a che fare con la salvezza e, altre, infine, asserivano che
Gesù non era mai morto. Le divergenze toccavano le pratiche in misura ancora più
eclatante di quanto già non fosse per le credenze e intorno a tutte queste
divergenze il confronto e lo scontro era assai acceso.
Il fatto che ciascuna versione e pratica fosse difesa come espressione autentica
dipendeva dal fatto che i depositari delle versioni vere avevano accolte come vere
le verità che avevano ricevuto. Eppoi, dato il carattere non sempre trasparente di
quelle verità, il resto lo faceva la corretta interpretazione. Ma come mai non ci si
confrontava con il nuovo testamento per stabilire quale fosse la verità vera?
Semplicemente perché, come abbiamo già evidenziato, non esisteva alcun Nuovo
Testamento e la verità si trasferiva attraverso narrazioni orali e scritti disarticolati
anche profondamente divergenti e perchè solo a partire dal terzo e quarto secolo si
è andato definendo il cosiddetto canone. È proprio questa pluralità di verità ad
15 Ehrman, cit., p. 176 e sgg.
aver reso possibile, in chiave memetica, l’affermazione di almeno una di queste
verità, tra le molte che avrebbero potuto sopravvivere. È qui possibile
riconsiderare uno specifico effetto prodotto dalle minoranze attive (Moscovici,
1979), il cosiddetto effetto divergenza esaminato da Charlan Nemeth (1986).
Quest’effetto è favorito nelle situazioni in cui il contesto (quando si impone la
norma sociale di originalità o di innovazione), il compito o il tipo di stimolo (la
presenza di una minoranza) sollecitano le persone a pensare e ad agire in modo
autonomo, assumendo posizioni personali o esprimendo idee nuove o originali. La
teoria della divergenza di Nemeth, che in pratica costituisce un’estensione della
teoria dell’influenza minoritaria, supera la definizione ristretta dell’influenza in
termini di "prendere il sopravvento", proponendo una definizione che tiene conto
anche del modo in cui il dissenso minoritario condiziona le persone a pensare a un
dato argomento in modi diversi. Le persone esposte all’influenza minoritaria si
impegnano in un’attività di pensiero divergente per cui invece di adottare
semplicemente le posizioni minoritarie, cercano e scoprono soluzioni alternative,
diverse da quelle direttamente proposte dalla minoranza, soluzioni nuove che
senza la sua influenza non sarebbero state scoperte. Invece oggi, essendo il
cristianesimo ed il cattolicesimo forme maggioritarie, quanti vi si riconoscono
raramente pensano in modo divergente. La minoranza è diventata maggioranza e,
comprensibilmente, alla luce delle formulazioni sperimentali di Sherif, Asch,
Milgram e Moscovici, i fedeli non elaborano più in profondità il loro credo. Essi si
comportano e ragionano in base ai principi dell’acquiescenza, della conformità e
dell’obbedienza, il più delle volte acritica.16
Dunque, quanti oggi credono e concepiscono la versione sopravvissuta come
rispondente alla verità, credono questo semplicemente perché è quella che è
sopravvissuta nelle scritture e nei cervelli e quindi è quella a cui le persone
credono. Come sostiene Dawkins un meme è un buon meme semplicemente perché
sopravvive, non necessita di essere vero.
16 Per un esame più approfondito di queste dinamiche e di questi effetti si rimanda ad una precedente nostra pubblicazione: Smiraglia Stanislao, Le vie della persuasione sono infinite, Scriptaweb, 2009.
Ritenzione
La ritenzione del meme-cristo si è verificata per via orale, nei primi cinquanta-
cento anni, e successivamente attraverso testimonianze scritte oggetto di ripetute
copie. Questo lungo e articolato processo che ha prodotto tante diverse verità si è
basato su comportamenti imitativi che compendiano le due forme di processo
previste da Susan Blackmore (2002): copia il prodotto, copia l’istruzione. Nel
primo caso, copia il prodotto, ci si riferisce a copie di scritti effettuati da scribi
approssimati ma anche, all’opposto, da amanuensi professionali (ambedue i tipi
cercavano di copiare ciò che era scritto senza capacità o intenzione di intervenire
sul testo). Nel caso della forma imitativa detta copia l’istruzione, possiamo
concepire la trasmissione orale e l’eredità scritta come un processo in cui gli
individui hanno introdotto mutazioni delle vicende e alterazioni del testo perché si
sono avvicinati alle verità del Cristo cercando di coglierne il significato, ovvero ciò
che Gesù aveva inteso dire.
Questa processualità binaria trova riscontro anche nel periodo successivo alla
formazione del canone, sebbene si realizzi in modi diversi. Una volta che il canone
è stato fissato, le variazioni di copia del testo si sono sostanzialmente fermate. Ciò
nonostante, nella pratica religiosa i processi di mutazione attraverso il copia il
comportamento non si sono mai fermati e questo per due ragioni: in primo luogo
non vengono mai letti tutti i passi delle Sacre Scritture. Nel corso delle funzioni
domenicali, ad esempio, si privilegiano sistematicamente alcune parti e alcuni
passi a scapito di altri. Sicché, se la scrittura è complessivamente fissata, è
variamente orientata la lettura.
Naturale dunque che nella testa dei fedeli la colonizzazione sia prodotta da alcune
verità a scapito di altre, nonostante le une e le altre siano la vera parola di Dio e del
figlio, il Cristo.
Il secondo motivo di mutazione reso possibile dalla ritenzione sta nel fatto che le
Sacre Scritture, pur rimanendo il testo base del credo religioso, sono state
affiancate da una vastissima produzione di testi dottrinali che, nella pratica,
comportano l’adozione di ritualità e credenze che non sono affatto presenti nelle
sacre scritture codificate ma che, al massimo, sono frutto di interpretazioni dei
testi ed innovazioni dottrinali ad hoc.17 La dottrina della chiesa, ancor più delle
scritture, dunque, definisce le pratiche di culto e le credenze che concretamente
colonizzano i cervelli dei credenti.
La prospettiva memetica si integra molto bene con altri contributi teorici che
approfondiscono i processi di ritenzione. F. Craik e M. Watkins (1973) hanno
identificato due tipi di ripetizione: la ripetizione di mantenimento e la ripetizione
elaborativa. Con il primo tipo di ripetizione, che consiste nel ripetere in maniera
pedissequa ciò che si intende ricordare, il mantenimento delle informazioni si
produce solo nella memoria a breve termine e, dunque non sopravvive a lungo. Il
secondo tipo di ritenzione consiste invece nel creare delle connessioni all’interno
del nostro magazzino di memoria, elaborando e articolando la nozione in un
quadro concettuale, e questo ci consente di conservare l’informazione cruciale più
a lungo.18
La fede cristiana, soprattutto nella prima fase storica, si è indubbiamente fondata
su questa opportunità mnestica.
In tal senso, pur a partire da molte varianti conseguenti alle accese e talvolta dotte
elaborazioni sul significato della morte del messia, è stata soprattutto
l’elaborazione profonda di tale evento e l’avvertita esigenza di correlare le profezie
dell’Antico Testamento con le vicende di Gesù, a favorire la conservazione di
alcune idee guida all’interno del complesso memetico religioso cristiano. Tutte
queste varianti hanno consentito la millenaria sopravvivenza dell’unico dato certo:
la morte del rabbino Gesù, detto il Cristo, e del suo meme, la croce.
A tal proposito, sono congruenti i rilievi sperimentali di Craik e Lockhart (1972)
che confluiscono nella loro teoria della profondità dell’elaborazione per la quale a
livelli di elaborazione maggiore corrispondono livelli di memorizzazione migliori.19
Da qui l’enorme sviluppo della letteratura esegetica e del corpo dottrinale che
accompagna e sostiene la verità cristiana.
17 Tratteremo queste innovazioni con specifico riferimento al culto di Maria, la Madonna, in un altro paragrafo.18 Craik, F.I.M., & Watkins, M.J. (1973). The role of rehearsal in short-term memory. Journal of Verbal Learning and Verbal Behavior, 12, 599-60719 Craik, F.I.M., & Lockhart, R.S. Levels of processing: A framework for memory research. Journal of Verbal Learning and Verbal Behavior, 1972, 11, 671-684
Affinché il cristianesimo si imponesse nel cuore dell’impero romano, si sarebbe
resa necessaria una conglobazione mutualistica delle parole di Gesù nella Parola
del Cristo in forma sufficientemente organizzata intorno ad alcune verità
codificate. Al riguardo sarebbe importante, ma non è possibile in questa
trattazione, riferirsi al contributo elaborativo dei cosiddetti padri della chiesa,
apologeti e teologi operanti fino a tutto il settimo secolo con l’intento di giustificare
il credo e di riconnettere tutte le altre verità interpretative (persino quelle
riconducibili alla cultura e filosofia greca pre-cristiana) al progetto divino che si
manifesta nell’opera salvatrice del messia. E con essi che le verità prendono corpo
ed è attraverso essi che le verità diventano la Verità.
Come ha mostrato Moscovici nei suoi studi sull’influenza minoritaria le minoranze
si affermano e producono una nuova prospettiva di massa, solo in virtù
dell’estrema consistenza. Esse producono un’elaborazione profonda delle nuove
verità, in termini che l’autore molto appropriatamente definisce effetto di
conversione.
Moscovici definisce la congruenza come sintesi di perseveranza e riproposizione
sistematica di una stessa congruente e irriducibile verità. Sicuramente il presunto
figlio di Dio aveva dato prova di una notevole congruenza espressiva e
comunicativa. Era perfino morto per le sue idee e aveva subito il calvario senza
sottrarvisi. Possiamo senza dubbio convenire che il cristianesimo è una
straordinaria esemplificazione di un’idea religiosa minoritaria che consegue
successo evoluzionistico.
In parallelo, la complessità dei problemi oggetto di disputa (la complessificazione
dottrinale) abbisogna di “riduzione di complessità” nella forma espositiva sino a
coagularsi intorno ad alcune espressioni ripetute. Quasi degli slogan, come è tipico
della propaganda politica e religiosa ma anche della comunicazione pubblicitaria.
Da qui le comuni pratiche di devozione quotidiana, i rituali, basati sulla semplice
comunicazione di comportamenti elementari, i segni e i simboli su cui si fonda
prevalentemente la fede popolare. Ma siamo ormai in epoca che abbiamo definita
dell’influenza maggioritaria e l’elaborazione profonda non è più necessaria. Con la
fissazione del canone la chiesa diventa fonte di potere convenzionale e il
cristianesimo costituitosi in base ad un principio di divergenza si configura come
principio di conformità.
Selezione
Delle molte varianti alcune si sono polverizzate nel corso del tempo e poche sono
sopravvissute recepite dall’ortodossia delle chiese d’oriente, delle chiese medio-
orientali e della chiesa cattolica. Altre varianti si sono prodotte in tempi più
recenti, a partire dalla cosidetta riforma protestante che ha generato ulteriori
varianti del credo e delle pratiche. Possiamo cogliere in questi processi gli effetti
della competizione tra complessi memetici (vere e proprie sottospecie di
credenze) per il controllo del territorio e dei cervelli. Inevitabilmente la
competizione e la selezione si è accompagnata a conversioni eccellenti quale ad
esempio, quella di Costantino (272-337) con la dichiarazione che ha trasformato
una fede minoritaria in una fede istituzionale e maggioritaria. Come direbbe
Moscovici, la congruenza della minoranza ha condotto alla conversione la
maggioranza.
Ma cosa è stato infine selezionato? Fondamentalmente l’idea che Dio sia buono e
misericordioso, pronto a perdonare (più che a punire) coloro che peccano, egli non
è più il dio del popolo di Israele (nemico di altri popoli) ma il dio di tutti gli uomini.
In sintesi la predicazione di Gesù, questo rabbino alternativo rispetto alla
concezione fondamentalista dei sacerdoti del Tempio di Gerusalemme, apre a una
profonda mutazione nella rappresentazione sociale dell’idea stessa di Dio. Tant’è
che tra i primi seguaci della nuova fede (perché di nuova fede si deve parlare) vi
sono molti (di Marciano abbiamo detto) che sostengono che il dio di Gesù sia un
dio diverso da quello della Torah e non il medesimo. Ma come abbiamo visto la
selezione memetica non ha condotto a sostituire un dio all’altro. L’esito di un
processo così articolato e complesso ha cristallizzato un sistema di credenze che
pur affermando la bontà di Dio (la sua cristianità, potremmo dire), ha conservato
un testo (l’Antico Testamento) che contiene parole che non depongono in tal senso
e che hanno, nei fatti, reso possibile al potere temporale cattolico un agire storico
tutt’altro che cristiano, fatto di guerre di conquista, di stermini di massa e di
persecuzioni, di anatemi, scomuniche e inquisizioni, perfettamente interpretata
nello spirito del dio del vecchio testamento. Dunque la croce in una mano e la
spada nell’altra.
È in ultimo interessante osservare che le mutazioni della parola divina che si
osservano a livello della processualità memetica sono riconducibili alle stesse
modalità evoluzionistiche che sono suggerite dai sostenitori della speciazione: un
piccolo gruppo si stacca dalla popolazione di appartenenza (la diaspora cristiana) e
sviluppa attraverso la separazione una progressiva accentuazione dei caratteri
differenziali rispetto a quelli comuni che caratterizzano la popolazione di
provenienza.