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Il pensiero del figlio: il nuovo testamento Mutazioni divine Quanti, tra i più devoti tra i cristiani, sono cristiani anche per l’amore che rivolgono nei confronti del Cristo, si riconoscono nella passione di Gesù, ne accettano la parola e si definiscono anche praticanti, alla domanda “la parola di Gesù è la parola del Cristo?” risponderanno indubbiamente con un sì deciso. In un testo come questo non posso consentirmi disquisizioni teologiche e dunque devo proporre uno scenario comprensibile per tutti, mi augurerei anche per i bambini. Che Gesù, il nazareno, al suo tempo abbia fatto convergere su di sé notevole attenzione pubblica, seppur in ambito strettamente locale, è fuori discussione e questo per due precise ragioni: la sua tendenza ad interpretare in modo non proprio ultraortodosso la legge rigidamente espressa nella Torah ebraica, ovvero nell’Antico Testamento, e per l’eventualità sfiorata che quella predicazione potesse attizzare in terra di Palestina sollevazioni popolari oltreché diatribe religiose. Il rischio di agitazioni e rivolte derivava dal fatto che l’attesa del messia era intesa dalla popolazione giudea come quella dell’avvento di un liberatore del popolo d’Israele da tutti i suoi nemici, compresi dunque gli occupanti di Roma. In aggiunta, intorno a quel rabbino si accalcavano folle curiose e speranzose per ascoltarne i discorsi, richiamate dal tam-tam di voci che noi potremmo definire virale, relative a prodigiose capacità.

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Il pensiero del figlio: il nuovo testamento

Mutazioni divine

Quanti, tra i più devoti tra i cristiani, sono cristiani anche per l’amore che rivolgono

nei confronti del Cristo, si riconoscono nella passione di Gesù, ne accettano la

parola e si definiscono anche praticanti, alla domanda “la parola di Gesù è la parola

del Cristo?” risponderanno indubbiamente con un sì deciso.

In un testo come questo non posso consentirmi disquisizioni teologiche e dunque

devo proporre uno scenario comprensibile per tutti, mi augurerei anche per i

bambini.

Che Gesù, il nazareno, al suo tempo abbia fatto convergere su di sé notevole

attenzione pubblica, seppur in ambito strettamente locale, è fuori discussione e

questo per due precise ragioni: la sua tendenza ad interpretare in modo non

proprio ultraortodosso la legge rigidamente espressa nella Torah ebraica, ovvero

nell’Antico Testamento, e per l’eventualità sfiorata che quella predicazione potesse

attizzare in terra di Palestina sollevazioni popolari oltreché diatribe religiose. Il

rischio di agitazioni e rivolte derivava dal fatto che l’attesa del messia era intesa

dalla popolazione giudea come quella dell’avvento di un liberatore del popolo

d’Israele da tutti i suoi nemici, compresi dunque gli occupanti di Roma. In aggiunta,

intorno a quel rabbino si accalcavano folle curiose e speranzose per ascoltarne i

discorsi, richiamate dal tam-tam di voci che noi potremmo definire virale, relative

a prodigiose capacità. Il crescente successo popolare di Gesù in virtù del suo

carisma e degli argomenti religiosi ma anche sociali (come sempre noi diciamo)

con cui intratteneva proseliti ed astanti curiosi, non poteva non indispettire,

indignare e anche allarmare, più che il console dell’impero, chi nella Giudea di

2000 anni fa aveva una qualche autorità religiosa ovvero coloro che erano

esponenti ultraortodossi della fede assoluta nel dio dell’antico testamento e nella

lettera della sua legge. La legge di dio coincideva sostanzialmente con la legge

civile. Le sanzioni per i reati, le pratiche igieniche e sanitarie, il diritto di famiglia

derivavano, per quella cultura e in quel contesto, direttamente da Dio e dunque

non erano oggetto di una distinta giurisprudenza e di ricerca medica.

L’amministrazione della giustizia, le scelte politiche e le guerre, il comportamento

pubblico (se non quello privato) erano profondamente influenzate dalla legge di

Dio così come espressamente sancita nella Torah. Sicché i sacerdoti del Tempio di

Gerusalemme (gli unici veri depositari della Torah) e altri gruppi e potentati (ad

esempio i Farisei), avevano comprensibili motivi di diffidenza per quel rabbino con

tratti anticonformistici la cui predicazione ed interpretazione della parola di Dio

poteva interferire sulla coesione religiosa e sul loro stesso potere. Per gli ebrei la

parola di Dio non era oggetto di personale interpretazione ma di assoluta

sottomissione. Nessuno studioso sostiene che Gesù abbia mai inteso di sovvertire il

verbo del Dio del vecchio Testamento (non lo suggerisce la logica e non lo dicono i

vangeli) ma qualche cosa di divergente sicuramente deve essere stata espressa. Se

si fosse mosso nella pura tradizione dei sacerdoti del Tempio, Gesù non si sarebbe

creato nemici e oggi egli sarebbe uno tra i tanti rabbini di duemila anni fa di cui

non abbiamo memoria o notizie. Dall’altra parte c’erano, come detto, i dominatori

romani. A loro la questione religiosa non interessava molto, per lo meno all’inizio. I

conquistatori dell’impero, in Palestina come in ogni altro territorio occupato,

agivano in base al presupposto che nessuna conquista territoriale poteva essere

compromessa per ragioni derivanti dalla repressione di un qualsivoglia culto.

La politica imperiale romana si basava sulla coabitazione di numerose entità

supreme in un pantheon che si arricchiva sempre più delle deità dei popoli

conquistati. Roma non imponeva alcun culto e questo si può ben capire: erano

politeisti. Roma è piena di templi dedicati a molteplici divinità che frequentemente

sono dèi stranieri naturalizzati. Che a Gerusalemme ci fosse un tempio in nome ed

onore dell’ennesimo dio, a loro non interessava. Ognuno pregasse o facesse

sacrifici per chi gli pareva; ciò che contava per l’impero era che sulla terra si

obbedisse all’autorità di Roma. Poteva infastidire il riverbero politico-sociale delle

questioni religiose poste da quel predicatore e magari qualche reclamo posto

all’autorità di Roma (ad esempio in conseguenza del fatto che il mercato si tenesse

nel Tempio e che Gesù avesse rischiato di generare un tumulto nell’opporsi a

quella pratica commerciale), ma niente di più. Roma non interferiva nelle questioni

religiose dei popoli sottomessi.

Ho dovuto fare questa premessa (e, nel frattempo mi sono perso i bambini) ma

spero di recuperarli chiedendo loro? Cosa succederebbe se Gesù, anziché essere

nato allora, fosse un contemporaneo e si facesse notare come presunto messia,

diventando protagonista della storia della Palestina attuale? Certamente prima o

poi – tenendo conto anche della tensione politica che caratterizza quei territori, se

ne accorgerebbero i mass media, a partire dai giornali e dalle televisioni locali, se

ne parlerebbe nei telegiornali di mezzo mondo e se ne interesserebbero i gabibbi

(soprattutto per i miracoli più eclatanti). Potremmo parlare di Gesù come

personaggio dell’anno, candidato magari ad un nobel, naturalmente per la pace, e

se ne otterrebbero interviste. Ci sarebbe anche chi avrebbe motivi di sospetto sulle

reali mire di quel predicatore, ma se ne parlerebbe. Esattamente come è avvenuto

allora, tranne che per un particolare: allora non c’era internet, non c’erano radio,

televisioni. Gesù non era rincorso da reporters e non veniva paparazzato in

conseguenza della sua benevolenza nei confronti di Maria Maddalena (accusata di

immoralità dai moralisti dell’epoca) facendo la fortuna della stampa gossip. D’altra

parte Gesù raccoglieva sempre più adepti e il passaparola faceva il resto. Le parole

di questo predicatore che si diceva fosse il Messia si diffondevano (tuttavia

nemmeno i Vangeli affermano che lui l’abbia mai esplicitamente dichiarato),

moltiplicando i testimoni diretti ed indiretti (di chi aveva saputo cose dette da altri

che a loro volta avevano saputo da chi aveva assistito) e le testimonianze orali non

necessariamente attendibili. In quell’epoca non era facile prendere appunti per

strada né si potevano fare riprese coi telefonini e farne l’upload su Youtube.

Oltretutto se si pensa che Gesù abbia detto esattamente ciò che è scritto nei Vangeli

si deve giungere a sostenere che gli astanti avevano capacità (oltre che

motivazioni) tali da portarli a memorizzare anche concetti non sempre ordinari e

talvolta complicati senza alterarne il significato. Come sostiene la teoria

probabilistica dell’elaborazione dell’informazione, la via secondaria della

persuasione è frequentemente praticata soprattutto se la fonte di influenza è

dotata di spiccate qualità dialogiche ed espressive, come non è difficile immaginare

nel caso di Gesù, magari anche di aspetto seducente e di una montante notorietà.1

1 Ci si richiama qui al modello ELM di Petty, R. E. e Cacioppo, J. T. (1986).

Se qualcuno avesse obiezioni al riguardo di queste considerazioni, provi a

raccontare ad altri ciò che il sacerdote officiante ha detto esattamente nel corso

dell’omelia domenicale.

Spero che non si voglia cogliere un intento blasfemo nello scenario proposto.

Quella delineata è la realtà fattuale che riguarda personaggi che si fanno

riconoscere e che ammaliano le folle, così come succede per Osama Bin Laden,

Julian Assange di Wikileaks, Maradona, Madonna, Berlusconi o Carlo d’Inghilterra

se ne danno la minima occasione. D’altra parte, se Gesù non ricevesse la stessa

attenzione oggi, non sarebbe il Cristo. Vi immaginate quante organizzazioni

umanitarie si attiverebbero per salvargli la vita sulla croce? Vi immaginate i

problemi mediatico-politici di Ponzio Pilato? Ne parlerebbero certamente Porta a

porta e Matrix.

Insomma, se Dio avesse deciso di mandare il Messia sulla terra, potrebbe mai Gesù

non essere oggetto di sistematica attenzione mediatica? Diciamo che Dio,

decidendo di sacrificare il figlio per salvare l’umanità, non potrebbe non ottenere il

suo scopo. D’altra parte, la vita di Gesù ha tutti gli ingredienti di una storia di

successo anche ai nostri giorni. Oggi non potrebbe che avere lo stesso successo di

ieri, avendo anche Dio alle spalle (a proposito di conoscenze ed entrature).

In sostanza oggi potremmo accumulare una documentazione immensa sulla vita, le

opere e i miracoli di Gesù, un materiale anche controverso, soggetto a polemiche e

dibattiti ma disporremmo di interviste registrate, documenti filmici, interventi

scritti per diverse occasioni e appunti autografi stesi in occasione di viaggi da una

parte all’altra del mondo, magari accumulati nel suo laptop. Una grande quantità di

file sarebbero presenti on line e scaricati in formato mp3 come canti sacri di

successo in stile rap.

Potremmo magari discettare sull’interpretazione di alcune fortunate parabole o

sulle sue reali intenzioni ma potremmo farlo a partire dalle sue parole come egli le

ha dette. Certamente le polemiche giornalistiche non mancherebbero perché come

si sa i giornalisti amano i titoli a effetto; le strumentalizzazioni e manipolazioni

informative sarebbero reciprocamente contestate da sostenitori e detrattori come

sempre accade quando la cronaca ci offre occasioni tanto stimolanti per i partigiani

di ogni fede ed ideologia.

Ci si chiederebbe dove sono finiti alcuni nastri originali (d’altra parte pur oggi

spariscono carteggi e registrazioni dagli archivi pubblici oppure si innalza il

segreto di stato di fronte a malefatte dei servizi deviati) e ci si interrogherebbe,

anche, se un certo sermone è stato scritto veramente da lui o da un suo apostolo (è

forse Beppe Grillo a scrivere i testi dei suoi stessi spettacoli?). Comunque sia,

avremmo un ampio data base di espressioni e pensieri attribuibili con elevatissima

probabilità a Gesù, il Cristo, l’unto dal Signore.

Ma se ci riferiamo al Gesù di duemila anni fa, le cose come possono essere andate?

Le vicende che lo riguardano, sono andate così come sono rappresentate dalle

sacre scritture o sono divulgate nelle parrocchie e nelle chiese? Le parole che

attribuiamo oggi a Gesù sono le stesse che egli ha effettivamente pronunciato?

Sono state forse registrate o in qualche modo acquisite? E quando è stata edita la

sua opera omnia: il Nuovo Testamento, sequel del libro al primo posto delle vendite

di tutti i tempi?

Tramandarsi le storie

Tutti gli psicologi conoscono Frederic Bartlett (1886-1969) che, superando la

lezione meccanicista di Herman Ebbinghaus (1850-1909), fu tra i primi

eminentissimi studiosi dei processi cognitivi a spiegare la natura socialmente

costruita della memoria a partire da un semplicissimo esperimento, quello della

trasmissione del messaggio. In particolare, diversamente da Ebbinghaus che per i

suoi studi sulla capacità della memoria di conservare l’informazione aveva

utilizzato sillabe prive di senso, Bartlett (1932) approfondì le trasformazioni che

subisce una storia significante - la guerra degli spettri – allorché viene riferita da

più narratori in sequenza. Davvero nulla di complicato, stiamo parlando del

telefono senza fili, un gioco che conoscono anche i bambini. Basta sussurrare una

frase all’orecchio del vicino; quest’ultimo riferirà quanto ascoltato a un'altra

persona e così via, uno dopo l’altro, al fine di confrontare ciò che è detto all’inizio e

quanto è arrivato alla fine. E divertirsi.

Per anni, quasi trent’anni fa, assieme ad un caro amico e collega, Rodolfo Parlato, ci

siamo divertiti a “stupire” i partecipanti a gruppi di formazione con quello che è un

fatto banale: le trasformazioni del contenuto sono pressoché garantite e molto

poco della narrazione originaria sopravvive se non alterando profondamente gli

aspetti critici e perturbanti o semplicemente percepiti anomali del racconto. Tali

trasformazioni dipendono da molti fattori: dalle idee personali degli individui sui

fatti specifici che costituiscono l’oggetto della narrazione, dalla loro abilità e

competenza linguistica, dal loro ruolo, dalla situazione, dalla disponibilità di storie

simili, ecc. In tal senso le trasformazioni possono prendere anche vie diverse ma

ciò che colpisce è che, se una narrazione viene modificata, coloro che la raccolgono

oltre che eliminare molti elementi narrativi, introducono nella storia nuovi fatti,

dettagli e significati, al fine di aumentarne coerenza e raccontabilità. Altrimenti

non arriva niente alla fine della catena: la storia muore e non ne rimane più traccia.

Di una narrazione può sopravvivere solo ciò che “acquisisce senso”. In altri termini,

affinché qualcosa nella nostra mente possa essere conservata e tramandata, deve

essere trasformata.

Rifacendomi a Segre (1979) ebbi modo di osservare a proposito delle alterazioni

del testo che riscontravamo sottoponendo ai “testimoni” vari articoli di cronaca

nera e giudiziaria:

Può essere utile richiamare il concetto di diasistema. Considerando l’opera dei

copisti, grazie ai quali un antico testo giunge a noi, si può osservare che

l’infedeltà dei copisti è stata il prezzo per la sopravvivenza del testo: esso può

vivere solo se deformato. Il compromesso tra il sistema del testo e quello del

copista realizza un diasistema. L’emendatio è una specie di dialisi che separa

dal sistema di base elementi dei sistemi di mediazione. 2

2 Il concetto di diasistema è introdotto in campo filologico e linguistico da Uriel Weinreich e poi sviluppato da Cesare Segre (Segre Cesare, Critica testuale, teoria degli insiemi e diasistema, in: id., Semiotica filologica. Testo e modelli culturali, Torino, 1979) per riferirsi a lingue che si configurano come il prodotto di più lingue. S.Smiraglia, Identità sociale e sistemi di riferimento categoriale nei processi di deformazione del messaggio, Congresso nazionale della divisione di psicologia sociale AIPs, Padova 1983. Vedi anche: Rodolfo Parlato, Modi e forme della comunicazione. La metamorfosi conservativa, Liguori, 2001. Una vastissima base di conferme dei processi psicologici attivati dalla testimonianza unisce gli studi fondativi di Cesare Musatti e le più recenti opere in campo giuridico di Guglielmo

Assumendo questa premessa fattuale, i tempi, i modi e i contenuti della

predicazione di Gesù, il Cristo, sono stati indiscutibilmente oggetto di una

plurisecolare inevitabile manipolazione.

Per farla semplice, quando comunemente si dice: date ascolto alla voce di Cristo, a

quali parole di Gesù ci si riferisce? Altrimenti detto: quando sono state redatte le

pagine che compongono i Vangeli di cui siamo in possesso?

Basta osservare che i Vangeli pur attribuiti ai quattro apostoli, Marco, Matteo, Luca

e Giovanni sono più correttamente definiti dalla stessa Chiesa come i Vangeli

secondo Marco, Matteo, Luca e Giovanni. Dunque, nel migliore dei casi, le vicende e

le parole sono attribuite a Gesù secondo quanto possono aver appreso i quattro

evangelisti che spesso, moltissimi credenti identificano erroneamente con quattro

degli apostoli di Gesù. Ma questo si può ben comprendere; tutti hanno difficoltà a

ricordare i sette nani di Biancaneve (se ne dimentica sempre qualcuno), come si

può pretendere di ricordare i nomi di ben dodici apostoli?

Il fatto è che i Vangeli non sono stati affatto scritti dagli apostoli e nemmeno da

coloro che possono essere stati i diretti testimoni oculari delle vicende di Gesù. E

nemmeno dalle persone che – nel breve periodo – erano stati a contatto indiretto

con quei testimoni. Si consideri al riguardo la figura di Paolo di Tarso e lo status

elevatissimo dei suoi scritti nell’ambito della tradizione cattolica. Egli non è

propriamente un apostolo e non ha sicuramente conosciuto Gesù, come egli stesso

conferma. Paolo, che tra tutti i proseliti della nuova fede era certamente il più colto,

è correttamente riconosciuto come autore di lettere indirizzate ad alcune

congreghe cristiane nella seconda metà del primo secolo, ma in nessuna sua opera

egli si riferisce compiutamente ad azioni e parole del maestro. Anch’egli, come la

quasi totalità dei primi credenti, nella sua opera di proselitismo si affidava alla

diffusione orale della buona novella come si evince dalle sue stesse lettere che

riferiscono dei frequenti incontri e si ricollegano alle conversazioni che

intratteneva con le comunità sparse nell’area mediterranea orientale.

Anche la datazione degli scritti ci suggerisce di considerare i vangeli come il

prodotto di una decennale se non secolare sovrapposizione di narrazioni

Gulotta.

trasmigrate da credenti a nuovi adepti prima che si procedesse a raccogliere ed

organizzare le “testimonianze” in una forma prossima a quella che credenti e

praticanti di oggi ritengono essere la testimonianza autentica della parola e delle

opere di Cristo.

Si consideri altresì che i famosi dodici apostoli difficilmente potevano disporre di

competenze e mezzi per registrare con la dovuta accuratezza le parole che avevano

ascoltato: Pietro era un pescatore, al pari di suo fratello Andrea; poco si sa di

Giacomo (detto il maggiore), di Giovanni, Tommaso, Bartolomeo, dell’altro

Giacomo (detto il minore), di Simone, Filippo, Giuda Taddeo (da non confondersi

col Giuda che tradì Cristo) che si ipotizza che ne fosse cugino, di Mattia (che

divenne apostolo dopo la morte del traditore Giuda, sembra per sorteggio). Di loro

si hanno notizie biografiche di scarsa consistenza e anche i loro nomi oltre che le

identità sono oggetto di disaccordo tra gli stessi studiosi di tradizione cristiana e

cattolica. Dunque ci mancano notizie biografiche che ci possano dar conto della

loro capacità di prendere nota dei discorsi del maestro e dei suoi eventi di vita ma

certamente leggere e scrivere doveva essere una competenza piuttosto rara

all’epoca, soprattutto se si tiene conto del milieu sociale di provenienza. Né, come

detto, si avevano a disposizione papiri, pergamene e verghe allo stesso modo di

quanto oggi avviene per block notes e penne, telefonini e registratori digitali.

Solo Matteo (pare fosse un esattore delle tasse) potrebbe essere stato un

potenziale cronista dei fatti. Ma gli esattori di allora non erano quelli di oggi,

sapevano contare i denari e potevano non saper leggere. Ma sono solo ipotesi che,

in un caso o nell’altro, perdono di interesse di fronte al fatto riconosciuto da tutti

gli studiosi che nessun evangelista può essere identificato con quegli apostoli, o

con coloro che hanno frequentato davvero Gesù, i testimoni oculari delle vicende

dell’epoca. In sostanza non esiste alcun documento di prima mano che riferisca

date e fatti se non per quel che è arrivato a noi attraverso duemila anni di

alterazioni ed elaborazioni della vita e della parola di Gesù.

Il Vangelo secondo Marco, ritenuto come il più antico, risalirebbe infatti a 40-50

anni dopo la morte di Gesù; le opere riconducibili agli altri tre evangelisti sono

concordemente collocate dagli studiosi tra la fine del primo secolo e la metà del

secondo.

Mi auguro che il lettore riesca a immaginare quanto, nel corso di oltre cent’anni, il

passaparola abbia influito sulla corrispondenza tra narrazioni e vicende storiche,

non dimenticando – come meglio avremo modo di chiarire – che anche le

successive testimonianze scritte hanno dovuto attraversare un oceano di

traduzioni approssimate e di copie a cura di scribi semianalfabeti. Ciò prima che si

realizzassero le condizioni per la stessa preservazione dei papiri e delle

pergamene allora utilizzate per la scrittura; è solo con il IV secolo che si afferma,

con la tradizione monastica e grazie all’opera di amanuensi professionali,

un’autentica cura per la tutela delle opere, una cura che non ha impedito affatto il

moltiplicarsi delle versioni disponibili.3

Ancor più oltre, bisognerà attendere l’introduzione della tecnica a stampa a

caratteri mobili con Johannes Gutenberg (a partire dal 1450) per arrivare alla

diffusione di copie stabilizzate e sempre più numerose, esenti dagli errori

introdotti dai trascrittori pur quando adottavano il medesimo originale.

Avere chiesto al lettore di immaginare Gesù nello scenario della modernità serve,

dunque, a far riflettere su fatto che un secolo ancora dopo la sua morte non si

disponeva di una qualsiasi documentazione scritta, organica, delle parole del

messia. E questo è un fatto ampiamente comprensibile per ragioni che hanno a che

fare con l’innovazione delle tecniche e con l’evoluzione culturale.

Come riconosce Oscar Cullmann, teologo luterano ed eminente filologo, “non

abbiamo documenti originali del Nuovo Testamento, ma soltanto copie. I più

antichi manoscritti completi che noi possediamo non risalgono oltre il IV secolo;

perciò, senza voler considerare alcuni frammenti più antichi, circa trecento anni

separano dunque la redazione originale degli scritti neotestamentari dal testo che

di essi ci è stato tramandato.”4

3 I papiri non ci trasmettono che frammenti di testo ma sono i più preziosi perché sono le testimonianze più antiche e risalgono per lo più al III secolo. Le pergamene più antiche rimontano al massimo al IV secolo ma contengono testi completi. Come riferisce Cullmann tutti questi testi sono scritti in greco (koinè, il greco comunemente parlato nell’impero) e denotano una “morfologia semplificata e deformata, la sintassi è spesso irregolare e il vocabolario ha subito un’evoluzione, a causa di influenze linguistiche diverse” (Cullmann Oscar, Il Nuovo Testamento, Il Mulino, 1968, p. 15)4 Cullmann Oscar, cit., p.14

Oltretutto, quando si parla del Nuovo Testamento, ci si riferisce solamente ad

alcuni Vangeli (ovvero agli scritti ricordati con i nomi dei quattro evangelisti:

Giovanni, Paolo, Marco e Luca) che consistono nella narrazione della nascita, degli

insegnamenti e della morte di Gesù e ad alcuni altri scritti storici ed esegetici (gli

Atti e le Lettere degli apostoli) e profetici (come l’Apocalisse). Oltre a questi scritti,

sussistono altri Vangeli, detti apocrifi, che sono stati esclusi dal cosiddetto canone,

ovvero dalla versione del Vangelo semanticamente fissata e definita autentica per

determinazione ecclesiale. Dunque alcune testimonianze sono state ammesse e

altre no per ragioni diverse ma soprattutto riconducibili al principio della presunta

ortodossia. Sono state accettate le opere che nel corso di una storia millenaria di

dispute teologiche, di diatribe movimentiste e di conflitti politici sono risultate

coerenti con le idee e le convinzioni di chi, in quei contesti, ha avuto il potere e

l’autorità di decidere. Le opere ammesse sono così diventate il basamento della

tradizione cattolica. Gli scritti che invece fornivano testimonianze difformi dalle

verità ritenute tali sono stati rimossi.5 E comunque – come già detto - tutti questi

scritti sono giunti a noi (e gli originali sono conservati in diversa condizione di

completezza, lingua e attribuzione) solo a partire da documenti sistematizzati che

risalgono al secondo e terzo secolo dell’epoca volgare (ovvero dopo Cristo).

Come chiarisce Bart D. Ehrman che è uno dei più autorevoli e documentati studiosi

della lunga storia del Nuovo Testamento, le parole di Gesù sono state affidate per

secoli al passaparola della comunicazione orale, prima, e poi trasmesse attraverso

sempre più numerose “copie” eseguite da scribi e da traduttori nelle diverse lingue,

dal sanscrito al greco, dal greco al latino, e poi nelle lingue contemporanee, laddove

ognuna di queste copie è stata discussa, corretta e manipolata da una moltitudine

di autorità spirituali e redattori, sia in buonafede (errori) sia in malafede

(manipolazioni) al fine di rendere le parole del Messia coerenti e conformi alla

propria stessa interpretazione e visione.6

5 È curioso osservare che – nonostante quelle esclusioni testuali - alcune delle tradizioni natalizie più diffuse, come quella del presepe, devono molto proprio agli scritti apocrifi. In particolare la collocazione della natività in una grotta, con il bambino riscaldato dal fiato del bue e dell’asinello, è riconducibile a testi che non fanno parte dei Vangeli canonici, eppure è sopravvissuta al di là delle “verità” che la stessa Chiesa ha inteso autenticare.6 Si veda anche Cullmann Oscar, cit.

“Durante i secoli iniziali della Chiesa, i testi cristiani venivano riprodotti

ovunque fossero stati scritti o portati. Essendo copiati localmente, non

sorprende che luoghi diversi sviluppassero tipologie diverse di tradizione

testuale. Questo significa che a Roma i manoscritti contenevano molti errori

dello stesso genere perché erano in gran parte documenti “interni”, copiati

uno dall’altro; non erano molto influenzati da manoscritti copiati in Palestina;

anche in Palestina i testi assumevano caratteristiche proprie, che non erano le

medesime di quelli trovati in un posto come Alessandria d’Egitto.”7

Per dirla tutta, se Gesù è il figlio di Dio (eppure umano, dunque soggetto a

contraddizioni), non sono certamente divine (e dunque infallibili) le sterminate

schiere dei testimoni, dei seguaci, degli interpreti di quelle parole.

Se Gesù ha parlato, dicendo quello che può aver detto, ciò che giunge a noi è il

prodotto evoluzionistico di una storia testuale di particolare salienza nella

prospettiva memetica. Le parole e i concetti, gli episodi e le vicende così come ci

sono pervenuti, evidenziano tutte le processualità ampiamente riconosciute dalla

psicologia della comunicazione, in termini di fenomeni sperimentalmente ben

spiegabili sulla base del contributo degli studi cognitivisti oltre che filologici. Una

storia che consiste di millecinquecento anni di errori e manipolazioni nella

traduzione dei vangeli, come recita il sottotitolo dell’opera di Ehrman.

Tutto questo è quello che possiamo definire verità fattuale.

Per convincercene, basta considerare che il dibattito intorno a quali siano i testi

che costituiscono testimonianza effettiva della predicazione del Cristo, non è tema

di speculazione anticristiana ed anticattolica. È parte integrante della stessa storia

della cristianità e del cattolicesimo. Le dispute sull’interpretazione e sul significato

degli eventi assunsero un valore cruciale per la stessa sopravvivenza della parola

di Cristo già - e soprattutto - allora. Tali dispute, oltreché le circostanze naturali

(smarrimento, incendi, degrado dei supporti di scrittura, ecc.) hanno certamente

determinato la perdita e la distruzione di alcuni documenti e la sopravvivenza di

altri, tanto degli originali che delle copie. Copie di copie di copie eseguite da scribi

talvolta dotti e talvolta semianalfabeti, da traduttori esperti o approssimativi tanto

7 Bart D. Ehrman, Gesù non l’ha mai detto, Mondadori, 2008, p. 85-86

da contribuire alla plurisecolare elaborazione delle parole di Gesù e delle sue

vicende: narrazione dopo narrazione, copia dopo copia a partire da narrazioni e da

copie diverse.

Alla base di tutto è il fatto che gli evangelisti hanno attinto significativamente a

fonti orali. La buona novella per circa quarant’anni si è trasmessa esclusivamente

attraverso le voci dei primi adepti che hanno diffuso essenzialmente detti e

racconti isolati. I proto evangelisti hanno potuto, al massimo, solo collegare

racconti e detti ricevuti dalla tradizione locale, ciascuno a suo modo, ciascuno

secondo la propria personalità e le proprie particolari inclinazioni teologiche. Né si

sottovaluti che, all’epoca, le capacità di leggere e scrivere erano assolutamente

poco diffuse; per ragioni connesse alla loro estrazione sociale prevalentemente

molto bassa, i seguaci del nuovo credo erano generalmente ancor meno istruiti e

sostanzialmente analfabeti.8 Per tale ragioni il processo di diffusione orale delle

parole e delle vicende del Cristo è proseguita per secoli contribuendo, per via

popolare, alla costruzione dal basso delle verità di fede che si sono imposte anche

al di là dell’ortodossia testuale. Ecco perché le testimonianze su Gesù si sono

moltiplicate in misura esponenziale e dunque anche incontrollata favorendo in

molti casi edificazioni che poi sarebbero state definite eretiche.9

Fermare le mutazioni: la definizione del canone.

8 Una significativa conferma della condizione illetterata dei primi cristiani viene da

uno dei padri della chiesa, Origene (c. 185, c.284), il quale in una sua risposta ad un’opera di Celsio, feroce nelle sue critiche per l’ignoranza e la stupidità dei cristiani, vanta per essi il pregio dell’ignoranza per le conoscenze umane, affermando il primato della sapienza per le cose divine (Contra Celsum). Si veda Spiazzi Raimondo, Cristianesimo e cultura dai Padri della Chiesa a S. Tommaso d'Aquino, Edizioni Studio Domenicano, 1990, p.69-70.9 Nel 1550 John Mill, sulla base di trent’anni di approfondite analisi di un centinaio di documenti neotestamentari disponibili in lingua greca, giunse ad individuare trentamila variazioni fra le testimonianze superstiti. Cit. in Ehrman, p.99. Attualmente, sulla base del notevole ampliamento dei reperti si dispone di un numero di varianti che oscilla - in base alle valutazioni dei diversi studiosi - tra le 200mila e le 400mila. Ma, pur disponendo di tecnologie informatiche in grado di elaborare masse enormi di dati, nessuno è stato in grado di contarle tutte. Ibi, p.105.

Come spiegato in altra parte del nostro lavoro, la prospettiva memetica delinea

uno scenario universale di replicanti egoisti, i memi, le unità segniche sottoposte

ad una dura competizione con altri replicanti e comunque associati ad altri memi

(altre idee, segni e formulazioni linguistiche) aggregate in forma mutualistica di

complessi memetici. La proliferazione delle narrazioni e delle interpretazioni delle

vicende inerenti alla vita e alla morte del messia se da un lato consentiva al meme

Cristo di diffondersi viralmente con mutazioni, dall’altro faceva sorgere un

problema di coesione e coerenza del credo.

Per molti secoli i vari movimenti cristiani hanno fondato la loro fede su scritti

evangelici profondamente differenziati (opere diverse, di diversi autori e in

diverse lingue e versioni) e questo inevitabilmente accentuava contrasti che

andavano ben oltre il dibattito esegetico investendo anche la questione

dell’autorità degli interpreti testuali e delle rispettive comunità di appartenenza, a

preludere la questione cruciale in epoca moderna del primato spirituale e

dell’autorità dottrinale. In sintesi, i complessi memetici delle epistole e dei vangeli

dei diversi discepoli presentavano variazioni significative che rischiavano di

mettere in crisi la coesione della minoranza cristiana del primo e secondo secolo

e.c..

Si ponevano problemi di egemonia e di controllo che la Chiesa nascente non

avrebbe potuto tollerare: nessun potere religioso è possibile se non si è depositari

dell’unica e vera parola di Dio, nello specifico del messia, il figlio di Dio.

Quella che definiamo la parola vera di Gesù, il Cristo ovvero il Dio fatto uomo, è

quanto raccolto nel Vangelo codificato, ovvero istituzionalizzato dopo secoli di

conflitti, discussioni, anatemi e scomuniche tra gruppi e movimenti vari, correnti e

chiese. Il tutto sulla base di fonti testamentarie spesso divergenti e contraddittorie,

scritte in lingue diverse e ripetutamente copiate introducendo errori involontari e

alterazioni strumentali non fosse che per rendere più chiaro quanto Gesù avrebbe

detto. Questa esigenza sta alla base del processo di formazione del canone. Il

canone è, in sostanza, la versione ufficiale della verità della parola di Cristo, così

determinata a partire dalle molte verità disponibili.

Le tante verità sulla vita, le opere e le parole di Cristo esigevano una nuova verità,

stabile e dogmatica; come rileva Cullman (1968), “in via generale, il canone del

Nuovo Testamento non si è formato per addizione, come si potrebbe credere, ma

per eliminazione.”10

Per comprendere questo aspetto è utile ricordare la storia di un illustre cristiano

vissuto nel II secolo, Marcione, uomo di larghe disponibilità economiche derivanti

da attività nel settore delle costruzioni navali ed inusualmente erudito,

profondamente impegnato apostolicamente nel diffondere le sue personali idee

(come tutti, d’altra parte) sul messia. Egli, fu il primo a impegnarsi a redigere una

raccolta sistematica di scritti che potessero costituire sacri testi di fede e per farlo

egli adottò a riferimento gli scritti dell’unico apostolo che egli considerava vero,

Paolo. Come abbiamo ricordato Paolo non ha scritto alcun Vangelo ma solo lettere.

Marcione adottò dunque come premessa del sacro libro dieci lettere di Paolo (che

erano quelle di cui disponeva) e una versione di quello che è il vangelo di Luca, che

Marcione ipotizzava essere il vangelo cui Paolo si richiamava.

Che cosa manca nella proposta di canone marcioniano rispetto ai sacri testi su cui

poggia la nuova tradizione cattolica? Lasciando da parte le opere minori, non

comparivano ben tre Vangeli ma, soprattutto, veniva escluso il Vecchio Testamento,

il testo sacro di Israele e con esso la parola del Dio della genesi e della legge.

In effetti come evidenzia Ehrman: “… in alcune sue lettere, come quella ai romani e

quella ai galati, Paolo aveva insegnato che una buona reputazione al cospetto di

Dio derivava solo dalla fede in Cristo, non dal compimento di alcuna delle opere

prescritte dalla legge ebraica. Marcione condusse questa differenziazione fra la

legge ebraica e la fede in Cristo a quella che riteneva la sua conclusione logica,

l’esistenza di una distinzione assoluta fra la legge antica da una parte e il vangelo

(la buona novella) dall’altra. Vangelo e legge erano a dire il vero tanto diversi da

non poter essere scaturiti entrambi dallo stesso dio. Marcione ne deduceva che il

Dio di Gesù (e di Paolo) non fosse, pertanto, il Dio dell’Antico Testamento.

Esistevano, sosteneva, due diversi dèi: il Dio degli ebrei, che aveva creato il mondo

e chiamato Israele a essere il suo popolo dandogli la sua severa legge, e il Dio di

Gesù, che aveva mandato Cristo nel mondo per salvare la gente dall’adirata

vendetta del Dio creatore degli ebrei.”11

10 Cullman, cit. p. 14111 Ehrman, cit. p.42-43

La posizione di Marcione (dichiarato successivamente eretico) alimentò alcune

contrapposizioni comunque preesistenti, così come il bisogno di definire la verità

su Cristo ed il suo Dio; certamente la sua formulazione accelerò il processo di

definizione del canone, un processo che tuttavia durò non poco, fino al 367, anno in

cui Atanasio, vescovo di Alessandria d’Egitto, in una lettera pastorale formula un

suggerimento di testi canonici che per la prima volta coincidono con quelli che i

credenti conoscono come le attuali sacre scritture: l’Antico ed il Nuovo

Testamento, sostanzialmente incentrato sui 4 Vangeli. Ma ovviamente la storia per

il completamento del canone è durata molti altri secoli ancora.

Come si evince da questa vicenda, le questioni non sono tanto e soltanto relative ai

testi o inerenti alla filologia testuale: la scelta dei testi o di un testo conduce alla

definizione di diverse concezioni sul Cristo, del suo rapporto col padre e perfino

della sua natura divina. In sostanza, modificando o selezionando i testi cambia la

stessa base del credo e, dunque, l’oggetto della fede.

Questo allorché è stato deciso che si doveva definire quali testimonianze erano da

considerarsi espressione autentica delle parole di Cristo e quali no e dunque si

sono limitate le testimonianze vere a quelle che costituiscono oggi il cuore del

Nuovo Testamento, i Vangeli. Ma le copie più fedeli avrebbero dovuto attendere

l’avvento della stampa: è solo con questa innovazione che si eliminano le variazioni

a partire da quello che viene adottato come testo originale (il Vangelo canonico).12

Una sola verità fatta di molte verità

Una volta definito il canone, tuttavia, i problemi non si sono certamente esauriti. I

testi canonici, per quanto scelti tra quelli maggiormente compatibili, conservano

molte differenze di grande peso. Il paradosso è che la sempre più scrupolosa

attenzione per la preservazione dei testi cristallizza nel canone - ad un certo tempo

12 la prima elencazione dei 27 libri del nuovo testamento come opera canonica (così come noi la consideriamo) risale alla seconda metà del IV secolo ad opera di Atanasio, vescovo di Alessandria. Ibi, p.46. Altro esempio, citato da Ehrman, è relativo alla prima copia completa della lettera di Paolo ai Galati che risale a 150 anni dopo che Paolo l’aveva scritta. Centocinquanta anni di trascrizioni ora corrette, ora errate prima che venisse eseguita una copia giunta fino a noi. (Ibi, p. 70)

- testi differenti e differenti verità. Certamente, come abbiamo detto, molti antichi

testi sono stati persi o sono andati distrutti e possiamo parlare al riguardo di una

vera e propria selezione naturale prodottasi sui supporti testuali e dunque

concepire l’idea che alcune verità non sono sopravvissute. Laddove i testi sono

arrivati sino a noi e dunque sono sopravvissute le verità lì conclamate, dobbiamo

riconoscere che questi testi hanno inevitabilmente subito delle mutazioni di copia

(così come avviene per gli errori di copiatura sia a livello genetico sia a livello

memetico) consegnandoci delle verità non fattuali. Con riferimento alla

prospettiva memetica è importante notare che il processo evoluzionistico che

determina la sopravvivenza di un’idea, di una formulazione linguistica o di un

segno (i memi), per la sua complessità (fatta di variabilità e mutazioni

incontrollabili), non è affatto governabile da alcuna fonte di autorità anche

istituzionale. I Vangeli non possono essere intesi come un prodotto di pura scelta

intenzionale da parte dell’istituzione ecclesiastica. Questa considerazione sarebbe

politica ed ideologica ma non rispettosa delle verità fattuali. I memi sono replicanti

egoisti e dunque si possono replicare nei cervelli e nelle culture anche a scapito

degli organismi e delle istituzioni. E i cervelli e le istituzioni non decidono

liberamente quali idee possono colonizzarli anche perché ogni cervello non è

colonizzato esattamente dalle stesse idee, formulazioni linguistiche e segni. Sicché

il prodotto finale della propagazione memetica originata dal Cristo va interpretato

come un esito probabilistico di affermazione della verità. Mutare è il prezzo

inevitabile per poter sopravvivere ma l’esito delle mutazioni non può essere affatto

previsto e sicuramente pilotato. Questa visione è in accordo con quanto

sostengono gli stessi interpreti del credo. Come si suole dire è la parola di Cristo

che si impone ai cuori e alle menti. È Dio che sceglie noi e non noi che scegliamo Dio.

Con riferimento al processo della formazione del canone, la prospettiva memetica

è dunque implicitamente e inconsapevolmente condivisa dagli interpreti ortodossi.

Come osserva Cullmann, “non bisogna credere che il canone si sia formato in

seguito ad una serie di decisioni precise. I libri ammessi più tardi, in un certo qual

senso, si sono imposti da sé ai membri della chiesa”.13

13 Cullmann, cit., p.142.

Non meraviglia dunque che i vangeli presentino molte diversità ed incongruenze.

La stessa comprensibile esigenza di preservare l’originalità delle scritture, e con

esse la verità autentica della parola, ha fossilizzato nel corpo testuale tutte le

manipolazioni intenzionali e gli errori di copia involontari che il lungo processo ha

comportato. Non è nostra intenzione approfondire questi temi ma una vastissima

letteratura, anche e soprattutto cristiana e cattolica, ha dovuto e deve fare i conti

con questa evidenza. Gli stessi vangeli sinottici14, quelli di Marco, Luca e Matteo,

così detti perché affiancabili in ragione della sistematizzazione ed organizzazione

cronologica delle vicende narrate, sono tali non perché siano il frutto di tre

testimonianze indipendenti (cosa che darebbe valore alle testimonianze) ma

perché, è l’ipotesi più accreditata, si tratta di versioni differenti (soprattutto per

stile e inclinazioni teologiche personali) elaborate a partire da una fonte comune.

L’interpretazione più valorizzata dagli studiosi è che il vangelo di Marco sia il più

antico e che Luca e Matteo si siano rifatti a Marco per la loro stesura. Altri studiosi

ipotizzano una fonte antecedente di collocazione aramaica (la cosiddetta fonte Q,

per altro mai identificata) e riproposta da Marco in greco. Non possiamo rendere

conto delle diverse ipotesi interpretative elaborate dagli studiosi ma ci preme

sottolineare come tanto le diversità quanto le contiguità siano presenti nei vangeli

canonici. Così, i miracoli non sono ricordati da tutti gli evangelisti e non si tratta di

miracoli di poco conto.

Solo Giovanni narra del miracolo della conversione dell’acqua in vino (che segna

l’esordio prodigioso di Gesù) oppure quello della resurrezione di Lazzaro e in

Giovanni non compare alcuna delle notissime parabole del maestro.

Analogamente in Marco (come noi attualmente lo leggiamo), si osserva un finale

della sepoltura e resurrezione di Cristo che è dimostrato essere frutto di

un’aggiunta successiva rispetto alle antecedenti versioni di quell’apostolo.

Insomma nella prospettiva memetica ed evoluzionistica si delineano spazi più che

sufficienti per comprendere i processi naturali attraverso cui si costituisce la base

di verità della vita e delle opere di Gesù. In sostanza, prendendo coscienza di

quanto la mano dell’uomo sia intervenuta sulle parole del presunto figlio di Dio.

14 Dal greco sỳnopsis che significa “veduta d'insieme”

Epilogo della storia

Nonostante le innumerevoli mutazioni delle parole di Gesù (per meglio dire, grazie

ad esse), il meme Cristo immolatosi sulla croce per il suo stesso credo si è

trasferito da quel tempo al nostro; la vicenda che lo riguarda non può che essere

riconosciuta come formidabile espressione di successo religioso, con un altrettanto

formidabile impatto politico, sociale e culturale che ha radicalmente segnato la

storia dei due ultimi millenni.

Per approfondirne il senso in chiave di processi naturali dobbiamo riconsiderare lo

scenario in cui si trovano ad agire i seguaci di Gesù ed i primi cristiani dopo la

morte del maestro.

Per i romani - certamente – ma anche per la più parte della popolazione rimasta

ancorata alla tradizione giudaica, una volta eseguita la condanna la questione era

chiusa. Che fosse sparito o meno il cadavere, difficilmente i contemporanei si

saranno fatti impressionare dal teorema della resurrezione; non erano stati

convinti dai presunti miracoli verificabili (ad esempio quello concernente

Lazzaro), potevano mai credere che Gesù fosse risorto dal momento che il

cadavere era sparito e che di Gesù vivo ne parlava al massimo solo qualcuno di

quei suoi fanatici adepti? In qualche modo, morto Gesù, la tensione politico-

religiosa era scemata e nessun cristiano aveva la forza di manifestarsi troppo

spudoratamente. In ogni caso un po’ tutti pensarono che morto Gesù e perso il suo

carisma, i suoi seguaci si sarebbero eclissati senza altro seguito.

In termini sociologici possiamo plausibilmente ritenere che la questione del

presunto messia non sia rimasta a lungo nell’Agenda Setting dell’epoca: ciò

nonostante la fede in Gesù anziché estinguersi si alimentò per via di un

proselitismo crescente che dalla Palestina si diffuse gradualmente ma

potentemente toccando prima Bisanzio capitale emergente della parte orientale e,

dopo, il vecchio cuore dell’impero, Roma.

Come è potuto avvenire tutto questo? La risposta che possiamo ricavare dalla

prospettiva memetica è che questa storia contiene tutti gli elementi utili e

necessari per la sopravvivenza del meme-cristo. Inquadrando la prospettiva

memetica sullo sfondo del darwinismo universale, sono necessarie tre condizioni

perché si abbia evoluzione e dunque riproducibilità dei memi: variazione,

ritenzione e selezione.

Variazione

Nei primi due secoli le differenze teologiche tra coloro che si identificavano nel

vero messaggio di Cristo erano assai spiccate. Come osserva Ehrman, i primi

cristiani aderivano a numerosissime credenze e pratiche che tutti i fedeli di oggi

considererebbero senz’altro illegittime ma che all’epoca si contendevano tutte il

crisma della verità diffusa dal maestro. 15

Alcuni gruppi credevano in un unico dio, altri, abbiamo accennato a Marcione,

ritenevano che vi fossero due distinte divinità, quella dell’Antico Testamento e

quella del Nuovo. Ma vi erano anche cristiani che erano arrivati a concepire un

numero maggiore di divinità. Alcune comunità affermavano che Gesù Cristo era al

tempo stesso del tutto umano e del tutto divino, altri proclamavano che Cristo era

del tutto umano e per nulla divino, o del tutto divino e per nulla umano, e altri

ancora che in Gesù Cristo sussistevano due persone distinte: un essere divino

(Cristo) e un essere umano (Gesù). Alcune di queste comunità credevano che la

morte di Cristo avesse o avrebbe portato la salvezza al mondo, altre che la sua

morte non avesse nulla a che fare con la salvezza e, altre, infine, asserivano che

Gesù non era mai morto. Le divergenze toccavano le pratiche in misura ancora più

eclatante di quanto già non fosse per le credenze e intorno a tutte queste

divergenze il confronto e lo scontro era assai acceso.

Il fatto che ciascuna versione e pratica fosse difesa come espressione autentica

dipendeva dal fatto che i depositari delle versioni vere avevano accolte come vere

le verità che avevano ricevuto. Eppoi, dato il carattere non sempre trasparente di

quelle verità, il resto lo faceva la corretta interpretazione. Ma come mai non ci si

confrontava con il nuovo testamento per stabilire quale fosse la verità vera?

Semplicemente perché, come abbiamo già evidenziato, non esisteva alcun Nuovo

Testamento e la verità si trasferiva attraverso narrazioni orali e scritti disarticolati

anche profondamente divergenti e perchè solo a partire dal terzo e quarto secolo si

è andato definendo il cosiddetto canone. È proprio questa pluralità di verità ad

15 Ehrman, cit., p. 176 e sgg.

aver reso possibile, in chiave memetica, l’affermazione di almeno una di queste

verità, tra le molte che avrebbero potuto sopravvivere. È qui possibile

riconsiderare uno specifico effetto prodotto dalle minoranze attive (Moscovici,

1979), il cosiddetto effetto divergenza esaminato da Charlan Nemeth (1986).

Quest’effetto è favorito nelle situazioni in cui il contesto (quando si impone la

norma sociale di originalità o di innovazione), il compito o il tipo di stimolo (la

presenza di una minoranza) sollecitano le persone a pensare e ad agire in modo

autonomo, assumendo posizioni personali o esprimendo idee nuove o originali. La

teoria della divergenza di Nemeth, che in pratica costituisce un’estensione della

teoria dell’influenza minoritaria, supera la definizione ristretta dell’influenza in

termini di "prendere il sopravvento", proponendo una definizione che tiene conto

anche del modo in cui il dissenso minoritario condiziona le persone a pensare a un

dato argomento in modi diversi. Le persone esposte all’influenza minoritaria si

impegnano in un’attività di pensiero divergente per cui invece di adottare

semplicemente le posizioni minoritarie, cercano e scoprono soluzioni alternative,

diverse da quelle direttamente proposte dalla minoranza, soluzioni nuove che

senza la sua influenza non sarebbero state scoperte. Invece oggi, essendo il

cristianesimo ed il cattolicesimo forme maggioritarie, quanti vi si riconoscono

raramente pensano in modo divergente. La minoranza è diventata maggioranza e,

comprensibilmente, alla luce delle formulazioni sperimentali di Sherif, Asch,

Milgram e Moscovici, i fedeli non elaborano più in profondità il loro credo. Essi si

comportano e ragionano in base ai principi dell’acquiescenza, della conformità e

dell’obbedienza, il più delle volte acritica.16

Dunque, quanti oggi credono e concepiscono la versione sopravvissuta come

rispondente alla verità, credono questo semplicemente perché è quella che è

sopravvissuta nelle scritture e nei cervelli e quindi è quella a cui le persone

credono. Come sostiene Dawkins un meme è un buon meme semplicemente perché

sopravvive, non necessita di essere vero.

16 Per un esame più approfondito di queste dinamiche e di questi effetti si rimanda ad una precedente nostra pubblicazione: Smiraglia Stanislao, Le vie della persuasione sono infinite, Scriptaweb, 2009.

Ritenzione

La ritenzione del meme-cristo si è verificata per via orale, nei primi cinquanta-

cento anni, e successivamente attraverso testimonianze scritte oggetto di ripetute

copie. Questo lungo e articolato processo che ha prodotto tante diverse verità si è

basato su comportamenti imitativi che compendiano le due forme di processo

previste da Susan Blackmore (2002): copia il prodotto, copia l’istruzione. Nel

primo caso, copia il prodotto, ci si riferisce a copie di scritti effettuati da scribi

approssimati ma anche, all’opposto, da amanuensi professionali (ambedue i tipi

cercavano di copiare ciò che era scritto senza capacità o intenzione di intervenire

sul testo). Nel caso della forma imitativa detta copia l’istruzione, possiamo

concepire la trasmissione orale e l’eredità scritta come un processo in cui gli

individui hanno introdotto mutazioni delle vicende e alterazioni del testo perché si

sono avvicinati alle verità del Cristo cercando di coglierne il significato, ovvero ciò

che Gesù aveva inteso dire.

Questa processualità binaria trova riscontro anche nel periodo successivo alla

formazione del canone, sebbene si realizzi in modi diversi. Una volta che il canone

è stato fissato, le variazioni di copia del testo si sono sostanzialmente fermate. Ciò

nonostante, nella pratica religiosa i processi di mutazione attraverso il copia il

comportamento non si sono mai fermati e questo per due ragioni: in primo luogo

non vengono mai letti tutti i passi delle Sacre Scritture. Nel corso delle funzioni

domenicali, ad esempio, si privilegiano sistematicamente alcune parti e alcuni

passi a scapito di altri. Sicché, se la scrittura è complessivamente fissata, è

variamente orientata la lettura.

Naturale dunque che nella testa dei fedeli la colonizzazione sia prodotta da alcune

verità a scapito di altre, nonostante le une e le altre siano la vera parola di Dio e del

figlio, il Cristo.

Il secondo motivo di mutazione reso possibile dalla ritenzione sta nel fatto che le

Sacre Scritture, pur rimanendo il testo base del credo religioso, sono state

affiancate da una vastissima produzione di testi dottrinali che, nella pratica,

comportano l’adozione di ritualità e credenze che non sono affatto presenti nelle

sacre scritture codificate ma che, al massimo, sono frutto di interpretazioni dei

testi ed innovazioni dottrinali ad hoc.17 La dottrina della chiesa, ancor più delle

scritture, dunque, definisce le pratiche di culto e le credenze che concretamente

colonizzano i cervelli dei credenti.

La prospettiva memetica si integra molto bene con altri contributi teorici che

approfondiscono i processi di ritenzione. F. Craik e M. Watkins (1973) hanno

identificato due tipi di ripetizione: la ripetizione di mantenimento e la ripetizione

elaborativa. Con il primo tipo di ripetizione, che consiste nel ripetere in maniera

pedissequa ciò che si intende ricordare, il mantenimento delle informazioni si

produce solo nella memoria a breve termine e, dunque non sopravvive a lungo. Il

secondo tipo di ritenzione consiste invece nel creare delle connessioni all’interno

del nostro magazzino di memoria, elaborando e articolando la nozione in un

quadro concettuale, e questo ci consente di conservare l’informazione cruciale più

a lungo.18

La fede cristiana, soprattutto nella prima fase storica, si è indubbiamente fondata

su questa opportunità mnestica.

In tal senso, pur a partire da molte varianti conseguenti alle accese e talvolta dotte

elaborazioni sul significato della morte del messia, è stata soprattutto

l’elaborazione profonda di tale evento e l’avvertita esigenza di correlare le profezie

dell’Antico Testamento con le vicende di Gesù, a favorire la conservazione di

alcune idee guida all’interno del complesso memetico religioso cristiano. Tutte

queste varianti hanno consentito la millenaria sopravvivenza dell’unico dato certo:

la morte del rabbino Gesù, detto il Cristo, e del suo meme, la croce.

A tal proposito, sono congruenti i rilievi sperimentali di Craik e Lockhart (1972)

che confluiscono nella loro teoria della profondità dell’elaborazione per la quale a

livelli di elaborazione maggiore corrispondono livelli di memorizzazione migliori.19

Da qui l’enorme sviluppo della letteratura esegetica e del corpo dottrinale che

accompagna e sostiene la verità cristiana.

17 Tratteremo queste innovazioni con specifico riferimento al culto di Maria, la Madonna, in un altro paragrafo.18 Craik, F.I.M., & Watkins, M.J. (1973). The role of rehearsal in short-term memory. Journal of Verbal Learning and Verbal Behavior, 12, 599-60719 Craik, F.I.M., & Lockhart, R.S. Levels of processing: A framework for memory research. Journal of Verbal Learning and Verbal Behavior, 1972, 11, 671-684

Affinché il cristianesimo si imponesse nel cuore dell’impero romano, si sarebbe

resa necessaria una conglobazione mutualistica delle parole di Gesù nella Parola

del Cristo in forma sufficientemente organizzata intorno ad alcune verità

codificate. Al riguardo sarebbe importante, ma non è possibile in questa

trattazione, riferirsi al contributo elaborativo dei cosiddetti padri della chiesa,

apologeti e teologi operanti fino a tutto il settimo secolo con l’intento di giustificare

il credo e di riconnettere tutte le altre verità interpretative (persino quelle

riconducibili alla cultura e filosofia greca pre-cristiana) al progetto divino che si

manifesta nell’opera salvatrice del messia. E con essi che le verità prendono corpo

ed è attraverso essi che le verità diventano la Verità.

Come ha mostrato Moscovici nei suoi studi sull’influenza minoritaria le minoranze

si affermano e producono una nuova prospettiva di massa, solo in virtù

dell’estrema consistenza. Esse producono un’elaborazione profonda delle nuove

verità, in termini che l’autore molto appropriatamente definisce effetto di

conversione.

Moscovici definisce la congruenza come sintesi di perseveranza e riproposizione

sistematica di una stessa congruente e irriducibile verità. Sicuramente il presunto

figlio di Dio aveva dato prova di una notevole congruenza espressiva e

comunicativa. Era perfino morto per le sue idee e aveva subito il calvario senza

sottrarvisi. Possiamo senza dubbio convenire che il cristianesimo è una

straordinaria esemplificazione di un’idea religiosa minoritaria che consegue

successo evoluzionistico.

In parallelo, la complessità dei problemi oggetto di disputa (la complessificazione

dottrinale) abbisogna di “riduzione di complessità” nella forma espositiva sino a

coagularsi intorno ad alcune espressioni ripetute. Quasi degli slogan, come è tipico

della propaganda politica e religiosa ma anche della comunicazione pubblicitaria.

Da qui le comuni pratiche di devozione quotidiana, i rituali, basati sulla semplice

comunicazione di comportamenti elementari, i segni e i simboli su cui si fonda

prevalentemente la fede popolare. Ma siamo ormai in epoca che abbiamo definita

dell’influenza maggioritaria e l’elaborazione profonda non è più necessaria. Con la

fissazione del canone la chiesa diventa fonte di potere convenzionale e il

cristianesimo costituitosi in base ad un principio di divergenza si configura come

principio di conformità.

Selezione

Delle molte varianti alcune si sono polverizzate nel corso del tempo e poche sono

sopravvissute recepite dall’ortodossia delle chiese d’oriente, delle chiese medio-

orientali e della chiesa cattolica. Altre varianti si sono prodotte in tempi più

recenti, a partire dalla cosidetta riforma protestante che ha generato ulteriori

varianti del credo e delle pratiche. Possiamo cogliere in questi processi gli effetti

della competizione tra complessi memetici (vere e proprie sottospecie di

credenze) per il controllo del territorio e dei cervelli. Inevitabilmente la

competizione e la selezione si è accompagnata a conversioni eccellenti quale ad

esempio, quella di Costantino (272-337) con la dichiarazione che ha trasformato

una fede minoritaria in una fede istituzionale e maggioritaria. Come direbbe

Moscovici, la congruenza della minoranza ha condotto alla conversione la

maggioranza.

Ma cosa è stato infine selezionato? Fondamentalmente l’idea che Dio sia buono e

misericordioso, pronto a perdonare (più che a punire) coloro che peccano, egli non

è più il dio del popolo di Israele (nemico di altri popoli) ma il dio di tutti gli uomini.

In sintesi la predicazione di Gesù, questo rabbino alternativo rispetto alla

concezione fondamentalista dei sacerdoti del Tempio di Gerusalemme, apre a una

profonda mutazione nella rappresentazione sociale dell’idea stessa di Dio. Tant’è

che tra i primi seguaci della nuova fede (perché di nuova fede si deve parlare) vi

sono molti (di Marciano abbiamo detto) che sostengono che il dio di Gesù sia un

dio diverso da quello della Torah e non il medesimo. Ma come abbiamo visto la

selezione memetica non ha condotto a sostituire un dio all’altro. L’esito di un

processo così articolato e complesso ha cristallizzato un sistema di credenze che

pur affermando la bontà di Dio (la sua cristianità, potremmo dire), ha conservato

un testo (l’Antico Testamento) che contiene parole che non depongono in tal senso

e che hanno, nei fatti, reso possibile al potere temporale cattolico un agire storico

tutt’altro che cristiano, fatto di guerre di conquista, di stermini di massa e di

persecuzioni, di anatemi, scomuniche e inquisizioni, perfettamente interpretata

nello spirito del dio del vecchio testamento. Dunque la croce in una mano e la

spada nell’altra.

È in ultimo interessante osservare che le mutazioni della parola divina che si

osservano a livello della processualità memetica sono riconducibili alle stesse

modalità evoluzionistiche che sono suggerite dai sostenitori della speciazione: un

piccolo gruppo si stacca dalla popolazione di appartenenza (la diaspora cristiana) e

sviluppa attraverso la separazione una progressiva accentuazione dei caratteri

differenziali rispetto a quelli comuni che caratterizzano la popolazione di

provenienza.