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AI CONSACRATI DELLA DIOCESI DI BERGAMOFrammento di elevazione spirituale sabato 25 novembre 2017(don Mauro Orsatti)

FELICI PROVOCAZIONI AI CONSACRATI DELLA DIOCESI DI BERGAMO

La Vita Consacrata è un grande valore, dinamismo irrinunciabile nella realtà ecclesiale. A imitazione di Gesù, il perfetto Consacrato al Padre e dopo Maria stupenda icona di suo Figlio, molti hanno accolto e vissuto con gioia e impegno la loro vocazione. Il nostro tempo, pur ricco di lusinghiere aspettative e di felici realizzazione, al pari di ogni epoca, sperimenta incertezze e problemi. Tra questi segnaliamo la diminuzione quantitativa e il massiccio invecchiamento. Potrebbero sorgere ansie per il futuro e titubanza per il presente. La Parola di Dio, corroborata nella storia, offre motivi di fondata speranza e incoraggia a fidarsi di Dio più che di statistiche o di funeree previsioni. Lasciamo spazio alla fiducia e intensifichiamo la nostra vocazione con una risposta sempre più generosa e aperta. Sarà il migliore antidoto a paura e catastrofismo.

Valore della vita consacrataNon spendiamo troppe parole su una comune e serena condivisione, il valore della vita consacrata. Basti una citazione autorevole, l’incipit dell’Esortazione apostolica post-sinodale Vita Consecrata (25 marzo 1996)1. La vita consacrata, profondamente radicata negli esempi e negli insegnamenti di Cristo Signore, è un dono di Dio Padre alla sua Chiesa per mezzo dello Spirito. … Lungo i secoli non sono mai mancati uomini e donne che, docili alla chiamata del Padre e alla mozione dello Spirito, hanno scelto questa via di speciale sequela di Cristo, per dedicarsi a Lui con cuore «indiviso» (cfr 1 Cor 7, 34). Anch'essi hanno lasciato ogni cosa, come gli Apostoli, per stare con Lui e mettersi, come Lui, al servizio di Dio e dei fratelli. In questo modo essi hanno contribuito a manifestare il mistero e la missione della Chiesa con i molteplici carismi di vita spirituale ed apostolica che loro distribuiva lo Spirito Santo, e di conseguenza hanno pure concorso a rinnovare la società.2. Siamo tutti consapevoli della ricchezza che, per la comunità ecclesiale, costituisce il dono della vita consacrata nella varietà dei suoi carismi e delle sue istituzioni. Insieme rendiamo grazie a Dio per gli Ordini e gli Istituti religiosi dediti alla contemplazione, alle opere di apostolato, per le Società di vita apostolica, per gli Istituti secolari e per altri gruppi di consacrati, come pure per tutti coloro che, nel segreto del loro cuore, si dedicano a Dio con speciale consacrazione. Così, se in alcune regioni della terra gli Istituti di vita consacrata sembrano attraversare un momento di difficoltà, in altre essi prosperano con sorprendente vigore, mostrando che la scelta di totale donazione a Dio in Cristo non è per nulla incompatibile con la cultura e la storia di ogni popolo. Pur consci di questo valore, i dati e la storia sembrano remare contro, agitando le acque della nostra esistenza. Abbiamo bisogno di una guida sicura, di un tracciato che ci aiuti a vincere paure e a superare incertezze, togliendoci quei blocchi che rallentano o impediscono la nostra fiduciosa dedizione. Abbiamo bisogno di una road map, come si dice oggi usando un’espressione inglese, di un itinerario che tracci il cammino. Non c’è road map migliore di quella che il Salmo chiama “Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino” (Sal 119,105). La Parola di Dio ha guidato e sorretto il Popolo di Israele, oggi continua la sua azione in modo potenziato all’infinito perché quella Parola si è fatta carne ed è Il Signore in mezzo a noi.

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Tra i numerosi motivi che affliggono le nostre comunità, ne prenderemo in considerazione due: il numero dei membri in continuo calo e il massiccio invecchiamento. Guardiamoli un poco da vicino, illuminati dalla Parola di Dio.

NUMERI Un motivo di angoscia per quasi tutti gli Istituti, almeno in Europa, è il numero dei membri che decresce vertiginosamente. Le file si assottigliano e l’ansia cresce. Le opere rischiano di trasformarsi in strutture scheletriche e senz’anima. Si tenta di rimediare riscoprendo il valore dei laici, istituzionalizzandoli in una specie di terz’ordine, oppure le opere sono affidate a cooperative e a consorzi. Che cosa ci suggerisce la Parola di Dio sul problema dei numeri? Prendiamo due situazioni, quella di Gedeone in Giudici 7 e quella di Elia in 1Re 19.

Il caso Gedeone: Giudici 7,1-9Testo biblico1 Ierub-Baal dunque, cioè Gedeone, con tutta la gente che era con lui, alzatosi di buon mattino, si accampò alla fonte di Carod. Il campo di Madian era, rispetto a lui, a settentrione, ai piedi della collina di Morè, nella pianura. 2Il Signore disse a Gedeone: "La gente che è con te è troppo numerosa, perché io consegni Madian nelle sue mani; Israele potrebbe vantarsi dinanzi a me e dire: "La mia mano mi ha salvato". 3Ora annuncia alla gente: "Chiunque ha paura e trema, torni indietro e fugga dal monte di Gàlaad"". Tornarono indietro ventiduemila uomini tra quella gente e ne rimasero diecimila. 4Il Signore disse a Gedeone: "La gente è ancora troppo numerosa; falli scendere all'acqua e te li metterò alla prova. Quello del quale ti dirò: "Costui venga con te", verrà; e quello del quale ti dirò: "Costui non venga con te", non verrà". 5Gedeone fece dunque scendere la gente all'acqua e il Signore gli disse: "Quanti lambiranno l'acqua con la lingua, come la lambisce il cane, li porrai da una parte; quanti, invece, per bere, si metteranno in ginocchio, li porrai dall'altra". 6Il numero di quelli che lambirono l'acqua portandosela alla bocca con la mano, fu di trecento uomini; tutto il resto della gente si mise in ginocchio per bere l'acqua. 7Allora il Signore disse a Gedeone: "Con questi trecento uomini che hanno lambito l'acqua, io vi salverò e consegnerò i Madianiti nelle tue mani. Tutto il resto della gente se ne vada, ognuno a casa sua". 8Essi presero dalle mani della gente le provviste e i corni; Gedeone rimandò tutti gli altri Israeliti ciascuno alla sua tenda e tenne con sé i trecento uomini. L'accampamento di Madian gli stava al di sotto, nella pianura.9In quella stessa notte il Signore disse a Gedeone: "Àlzati e piomba sul campo, perché io l'ho consegnato nelle tue mani. 1

Nel nostro testo non c’è spazio per allusioni o sottintesi, perché fin dall’inizio il Signore comunica a Gedeone il significato della drastica riduzione del numero di soldati: “La gente che è con te è troppo numerosa perché io consegni Madian nelle tue mani: Israele potrebbe vantarsi dinanzi a me dire: “La mia mano mi ha salvato””. Il messaggio è trasparente come un bicchiere d’acqua. “La salvezza viene dal Signore” (Giona 2,10), come concluderà anche Giona alla fine dei tre giorni di permanenza nel ventre del pesce.I numeri sono necessari per un sano realismo e per la concretezza storica. Attenzione a non essere numero-dipendenti: il numero potrebbe diventare una droga che dà dipendenza. Lasciamo i numeri agli uffici di statistica, e agli organizzatori di eventi. Sappiamo poi quanto i numeri, in quest’ultimo caso, siano ballerini, spesso gonfiati o sgonfiati secondo l’interesse. Non è una novità sentire che per gli organizzatori i partecipanti erano un certo numero e secondo gli organi istituzionali un numero inferiore, talora anche dimezzato.

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Spesso ripiegati su noi stessi, siamo incapaci di percepire il fremito di vita che si nasconde sotto la scorza della storia. Accade anche agli uomini di grande fede, impegnati a tempo pieno per il Signore, com’è il caso di Elia.

Il caso Elia: 1Re 19,9-21Testo biblico9Là entrò in una caverna per passarvi la notte, quand'ecco gli fu rivolta la parola del Signore in questi termini: "Che cosa fai qui, Elia?". 10Egli rispose: "Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita". 11Gli disse: "Esci e férmati sul monte alla presenza del Signore". Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. 12Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. 13Come l'udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all'ingresso della caverna. Ed ecco, venne a lui una voce che gli diceva: "Che cosa fai qui, Elia?". 14Egli rispose: "Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita".1 5Il Signore gli disse: "Su, ritorna sui tuoi passi verso il deserto di Damasco; giunto là, ungerai Cazaèl come re su Aram. 16Poi ungerai Ieu, figlio di Nimsì, come re su Israele e ungerai Eliseo, figlio di Safat, di Abel-Mecolà, come profeta al tuo posto. 17Se uno scamperà alla spada di Cazaèl, lo farà morire Ieu; se uno scamperà alla spada di Ieu, lo farà morire Eliseo. 18Io, poi, riserverò per me in Israele settemila persone, tutti i ginocchi che non si sono piegati a Baal e tutte le bocche che non l'hanno baciato".1 9Partito di lì, Elia trovò Eliseo, figlio di Safat. Costui arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il dodicesimo. Elia, passandogli vicino, gli gettò addosso il suo mantello. 20Quello lasciò i buoi e corse dietro a Elia, dicendogli: "Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò". Elia disse: "Va' e torna, perché sai che cosa ho fatto per te". 21Allontanatosi da lui, Eliseo prese un paio di buoi e li uccise; con la legna del giogo dei buoi fece cuocere la carne e la diede al popolo, perché la mangiasse. Quindi si alzò e seguì Elia, entrando al suo servizio.

Elia deve fuggire perché ricercato dalla regina Gezabele che lo vuole condannare a morte.Sebbene abbia sperimentato e continui a sperimentare la benevolenza di Dio, un amaro pessimismo inonda la sua esistenza e in due occasioni ripete: “Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita” (vv. 10 e 14). Non riesce a percepire i fremiti di novità che il Signore sta suscitando. Al pessimismo di Elia fa da contrappunto l’ottimismo di Dio che dichiara la presenza di ben 7.000 fedeli (v. 18), numero con valenza simbolica (7x1000) per indicare un numero elevato. La prospettiva di Dio è sempre positiva, trasuda vita e speranza, a differenza di quella dell’uomo, sempre incline a vedere nero.

Per concludere questa riflessione sui numeri, ricordiamo che nostro Signore scelse 12 apostoli, non alcune centinaia o migliaia. Il numero è reale e simbolico nello stesso tempo: reale perché effettivamente erano dodici persone, simbolico perché ha voluto richiamare le 12 tribù di Israele per mettere in luce sia una continuità sia una nuova partenza. Questi dodici si sono moltiplicati fin dall’inizio e hanno annunciato il vangelo al

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mondo con la forza dello Spirito Santo. Il vero problema non sta nel numero, semmai nella qualità.INVECCHIAMENTOSenectus ipsa est morbus sentenziò lo scrittore latino Publio Terenzio verso l’anno 160 (commedia Phormio, atto IV, scena I). Davvero la vecchiaia è per se stessa una malattia, come sostiene lo scrittore? Siamo d’accordo? Personalmente no. Essa fa parte del ciclo naturale della vita. Nessuno vorrebbe morire giovane, e se vive… invecchia. Logicamente con gli anni crescono affanni e acciacchi, compresi nel prezzo da pagare al tempo che passa. Le numerose primavere potrebbero portare depressione e rassegnazione. Se riflettiamo un poco, possiamo trovare qualche salutare rimedio.

Guardiamo la natura e impariamo la lezione. Se è bella la primavera con lo sfavillio dei colori e della vita che rinasce dopo l’inverno, non è meno incantevole l’autunno con i suoi magici colori. Altro esempio: certi tramonti hanno un fascino uguale e anche superiore a quello di certe aurore. Non potrebbe essere così anche per la vita, ricca di valore nel suo tramonto come lo era nel suo sorgere? Il Signore Gesù ci ha affrancati dalla mentalità del pensionato per quanto riguarda la vita spirituale e il nostro impegno di cammino ascetico. Che cosa significa “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” di Mt 5,48 e il suo corrispondente di Luca 6,36 “Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso”? I due imperativi ci richiamano che, non potendo mai essere perfetti o misericordiosi come il Padre, non possiamo fermarci o sentirci soddisfatti di aver fatto abbastanza. Insomma, non possiamo sederci e vivere da pensionati dello spirito, ripiegati su se stessi e piagnucolosi per il tempo che passa.

Letto positivamente, l’imperativo è una potente carica di giovinezza, una specie di pila atomica che ci stimola a progredire sempre. Insomma, un moto perpetuo dello spirito. La vecchiaia rimane una bella opportunità da sfruttare e può rivelarsi perfino ricca di fascino.

Ancora una volta prendiamo la Parola di Dio come road map che guida il nostro pensiero e lasciamo istruire dall’esempio di Abramo e di Anna.

AbramoIniziamo con il patriarca Abramo, capostipite del popolo ebraico e pure di quello cristiano e musulmano. “Il Signore disse ad Abram: “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò”… Abramo aveva settantacinque anni, quando lasciò Carran“ (Gn 12,1-4). Non c’è che dire: è una vocazione adulta, si potrebbe dire anche tardiva! Inizia tardi e non conosce una carriera fulminante, perché di ostacoli, di intrighi, di peripezie ne conosce in abbondanza, come la discesa in Egitto, la separazione da Lot e, più grave ancora, la mancanza di un erede. Abramo sembra un generale senza esercito.

Gli era stata promessa una discendenza numerosa e non ha nessuno. Sconsolato, si lamenta con il Signore: “Ecco a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede”. Come risposta riceve la solenne promessa: “Non sarà costui il tuo erede, ma uno nato da te… Guarda in cielo e conta le stelle se riesci a contarle… Tale sarà la tua discendenza” (Gn 15,2-5). Il testo biblico continua: “Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia” (Gn 15,6).

Pur rincuorato dalla parola divina, il patriarca non vede la situazione migliorare e il figlio della promessa non arriva. Quante volte le nostre aspettative sono disattese, i nostri programmi rimangono incompiuti o inceppati. I tempi di Dio non sono i tempi dell’uomo, e le lancette del suo orologio si muovono diversamente dalle nostre, come scrive Pietro nella sua lettera: “Davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno” (2Pt 3,8), chiosando il Sal 90,4: “Mille anni, ai tuoi occhi, sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte”.

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Si inserisce a questo punto la vicenda della nascita di Ismaele, avuto dalla schiava Agar. Come indicato nel diritto mesopotamico, non potendo un patriarca rimanere senza discendenza, è la stessa moglie Sara che gli offre la schiava Agar perché possa avere un figlio. Incontriamo un altro dato cronologico di vecchiaia: “Abramo aveva ottantasei anni quando Agar gli partorì Ismaele” (Gn 16,16).

Il tempo passa e Sara continua a rimanere sterile. Una seconda volta Dio rinnova l’alleanza con Abramo, promettendo la nascita di Isacco. Il patriarca chiede perplesso: “A uno di cento anni può nascere un figlio? E Sara, all’età di novant’anni potrà partorire?” (Gn 17,17). Siamo fuori tempo massimo, siamo contro le leggi della natura! Eppure Isacco nasce davvero, partorito da Sara, perché “C’è forse qualche cosa d’impossibile per il Signore?” (Gn 18,14) chiede Dio a Sara. La frase trasmigra e attraversa i secoli, confermata dalle parole dell’angelo a Maria, alla quale annuncia il concepimento verginale (cf Lc 1,37). Davvero non esistono ostacoli all’onnipotenza divina. O meglio, un ostacolo c’è: la nostra incredulità.

Dopo Sara, altre donne sterili documenteranno l’amorosa provvidenza divina che interviene come e quando vuole: Anna, la madre di Samuele, la moglie di Manoach e madre di Sansone, Elisabetta, la madre di Giovanni Battista. La potenza divina è tale che può suscitare figli di Abramo anche dalle pietre (cf Mt 3,9).

Si potrebbe obiettare che forse gli anni di Abramo e di Sara non erano proprio come i nostri. Non abbiamo argomentazioni e conoscenze sufficienti per dire che gli antichi computassero gli anni diversamente da noi. Al di là di ogni critica o possibile obiezione, rimane il fatto che la loro età è davvero avanzata e ciononostante non costituisce ostacolo per realizzare la loro vocazione, obbedendo alla volontà divina anche se non raramente incomprensibile e apparentemente contradditoria.

Anna, la profetessaLasciamo l’Antico Testamento e inoltriamoci un poco nel Nuovo. Con tanta simpatia Luca riferisce di un’arzilla vecchietta, Anna, sulla quale indugia con un’insolita dovizia di particolari (Lc 2,36-38). Oltre a nome e paternità, conosciamo il suo stato civile, prima coniugata per sette anni e ora vedova. Ha la verde età di 84 anni, traguardo invidiabile e non comune in quel tempo. L’attributo di profetessa la qualifica come donna di Dio, una consacrata, totalmente dedita al suo servizio nel tempio, dove rimane giorno e notte. Preghiera e digiuno sono i capisaldi della sua spiritualità che la rende attenta a percepire il soffio dello Spirito. Ed è proprio questo Spirito a renderla teologa, perché parla del bambino Gesù con competenza e lungimiranza, introducendo il complesso e complessivo concetto di “redenzione”.

Nella presentazione di Luca fa coppia con il vecchio Simeone e i due diventano araldi della buona novella, perché gettano sostanziosi semi di speranza, disvelando non poco l’identità del bambino. L’età, anche se avanzata, non è un impedimento per parlare di Gesù, per essere annunciatori del Vangelo. Preghiera, digiuno – potremmo anche dire ascesi personale - e annuncio sono ingredienti sempre validi e attuali che non conoscono scadenza o variazione di latitudine.

Con un acrobatico salto nel tempo arriviamo ai nostri giorni e ricordiamo Papa Giovanni XXIII, oggi santo. Eletto papa alla soglia dei 77 anni, era considerato “un papa di transizione” per la sua età avanzata. E il vecchietto ha rivoluzionato la Chiesa, indicendo un Concilio, contro il parere di molti. Per la prima volta nella storia si voleva celebrare un Concilio senza che ci fosse la minaccia di un’eresia o un problema grave da risolvere. In parte erano comprensibili sia la perplessità di molti sia la contrarietà di alcuni. Al Papa oggi riconosciamo di essere stato carismatico, guidato dal soffio dello Spirito che voleva una chiesa rinnovata nel suo interno, più che agguerrita contro l’esterno. Un anziano dal

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cuore giovane, uno con poco tempo davanti a sé e con forze umanamente limitate, ha dato ascolto gli impulsi dello Spirito e non alla ritrosia di collaboratori e teologi. Anche lui ha dimostrato che “nulla è impossibile a Dio” e ha acceso la miccia al fatto ecclesiale più rivoluzionario del XX secolo.

Concludendo questa prima parte, la Parola di Dio ci ha mostrato che un numero ridotto di persone e la vecchiaia non sono impedimento al compimento delle opere del Signore. A Lui nulla è impossibile. Con il suo aiuto, Gedeone ha potuto sconfiggere un agguerrito esercito solo con un manipolo di uomini e il vecchietto Abramo ha realizzato la sua vocazione di capopopolo, pur con una vertiginosa età.

ALCUNE SERENE PROVOCAZIONIQualcuno potrà obiettare che, a differenza di quanto abbiamo detto sopra, non sempre la situazione conosce un lieto fine e la vita non assomiglia alle fiabe che terminano tutte allo stesso modo: “E vissero felici e contenti”. Tante volte la conclusione è tragica. “Come potrà vivere il nostro carisma se non ci sono più vocazioni? E che sarà delle nostre opere e delle nostre strutture?”. Le domande, come un rovello, agitano le notti dei nostri superiori e inquietano anche noi. Una giusta preoccupazione è indice di amore per la nostra vocazione e per il nostro Istituto. Ed è positivo.

Forse è il caso di un ripensamento globale, di mescolare le carte per iniziare una nuova partita. Le difficoltà sono anche opportunità. Dobbiamo rispondere alla domanda: “Che cosa vuol dirci il Signore attraverso le difficoltà che stiamo attraversando? Sta forse preparando una nuova nascita che arriva dopo le doglie del parto?”.

Scala assiologicaIl titolo, un poco altisonante, richiama la scala dei valori. Per analizzarla potremmo rispondere ad alcune domande: Abbiamo una corretta scala dei valori? Chi o che cosa collochiamo in cima? Sono le nostre opere? Il nostro carisma? Oppure in cima ci sta la Trinità, l’unico Dio che è comunione di persone? La nostra vocazione si realizza con il fare o con l’essere?

Le risposte sembrano scontate e ovvie. Però non dobbiamo dare risposte verbali, ma comportamentali. Per facilitare l’esame di coscienza, guardiamo al documento più importante del Concilio Vaticano II, la Lumen gentium, costituzione dogmatica sulla Chiesa. Parla dei religiosi al Cap. VI, dopo aver trattato la chiamata universale alla santità (Cap. V) e prima di parlare dell’indole escatologica della Chiesa (Cap. VII). Diciamo subito che il Concilio non ha ancora affinato il linguaggio e parla dei “religiosi”. Bisognerà aspettare una quarantina d’anni per trovare, nell’esortazione apostolica post-conciliare Vita Consecrata, un vocabolario più inclusivo e totalizzante, quello dei “consacrati”. Leggiamo quindi i “religiosi” della Lumen gentium come “i consacrati”. Nel documento conciliare essi sono collocati tra la chiamata universale alla santità e l’indole escatologica della Chiesa. Non a caso. La collocazione esprime meglio la loro funzione. I consacrati aiutano a mettere il trascendente nel nucleo stesso della vita e dell’attività quotidiana. Questa dimensione configura una “consegna che crea una speciale relazione con il servizio e la gloria di Dio” (LG 44). E proprio questo numero del documento conciliare, spiegando questa relazione, aiuta a capire meglio la vita consacrata che è:

- Segno che può e deve attrarre efficacemente a compiere la propria vocazione cristiana

- Segno che il popolo di Dio non ha cittadinanza permanente in questo mondo- Segno che manifesta meglio a tutti i credenti i beni celesti

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- Segno che offre la testimonianza della vita nuova ed eterna ottenuta dalla risurrezione di Cristo

- Segno che preannuncia la risurrezione futura e la gloria del regno celeste

In una parola: è un segno che inserisce l’escatologia nella vita. Questa è la fondamentale funzione dei consacrati: dare all’umano le ali del divino, o, espresso in modo diverso, collocare Dio al primo posto.

Cantori di speranzaTimothy Radcliffe, già Maestro dell’ordine dei Domenicani, scrisse che «Ogniqualvolta la parola di Dio viene ascoltata, essa non solo parla di speranza, ma è una speranza che prende carne e sangue nelle nostre vite e nelle nostre parole». I cristiani in generale, ma ancor più in consacrati hanno una chiamata alla speranza (cf Ef 1,8), come alla fede e alla carità: è una vocazione in vista della missione. Non si tratta di un optional e tanto meno di un bene da godere in egoistica solitudine. Appartiene al nostro statuto vivere e alimentare la fiducia nell'oggi e pensare a un futuro migliore. Facciamo fiorire in noi i segni della pasqua: per esempio, un inguaribile ottimismo, la certezza che l'amore è più forte della morte, l'impegno generoso per la vita, la voglia di comunicare con tutti per gridare le nostre certezze che vengono da Cristo. Come Dio alla fine di ogni giorno della creazione, sappiamo ripetutamente constatare che «era cosa buona» (Gn 1,4.10...). Paolo inizia le sue lettere osservando e lodando il bene presente nella comunità (cf 1Ts 1,2-3); i profeti chiudono il loro messaggio con note di speranza (cf Mi 7,18-20).

Concretamente, possiamo dirci cantori di speranza se blocchiamo la ruota della malvagità, non solo perché alieni da comportamenti scorretti, ma perché, anziché altoparlanti del negativo, facciamo riecheggiare i segni di bontà, i gesti di gratuità, le mille forme del bene quotidiano: una telefonata amica, una parola di incoraggiamento, un sincero complimento…. La speranza cristiana ha bisogno di pubblicità, perché si tratta di un bene che interessa tutti. La propaganda del bene e l'ibernazione del male ci rendono cantori di speranza.

E dobbiamo investire in speranza. Dobbiamo essere capaci di 'sprecare' come Maria di Betania (cf Gv 12,3) o, in altre parole, di investire mezzi e energie e così capitalizzare nei granai del cielo. I giovani, più degli adulti sentono l'assenza di speranza per la povertà di orizzonti loro proposti. Troppo spesso lo slogan inglese NO FUTURE caratterizza miserevolmente il mondo giovanile. Risvegliamo in loro sistematicamente la speranza: dobbiamo avere coraggio e fare coraggio che, come propone il profeta Malachia, si converta il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri (cf Mal 3,24). Se accettiamo l'espressione attribuita ad Aristotele, secondo cui «la speranza è un sogno fatto ad occhi aperti», non temiamo di additare ideali grandi e impegnativi; crediamo alle immense risorse degli altri, dei giovani in prima fila. Educhiamoli a sperare, aiutiamoli a sognare (cf Is 2), lavorando con loro perché il sogno diventi realtà. Come il profeta Ezechiele, sappiamo scorgere e, eventualmente, scrivere il TAU di salvezza sulla fronte degli uomini (cf Ez 9,4-6).

Costruire il tempo vertebratoLa professione dei voti postula un continuo riferimento al futuro. Che senso avrebbero obbedienza, povertà e castità se non richiamassero una vita futura? I consacrati contribuiscono a rendere vertebrato il tempo, raccordandolo con il passato e sbirciando già nell'eternità: «La speranza esige una sorta di diritto di prelazione dell'eternità nel futuro e di assunzione del futuro da parte dell'eternità. Ma questa implicazione e questa esigenza sono vissute nel presente» (J. Ellul). Facciamo allora della speranza una forza che abbia

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la capacità di percepire, di intuire, di prevedere. Essa non è semplice buon umore, fiducia congenita che fa volgere per il meglio le cose; è dinamismo che valorizza il passato e getta un ponte con il futuro. La speranza struttura il tempo, gli dona insieme un valore e una effettiva continuità. Quando viene meno la speranza, il legame con il passato si limita a rimorso o a rimpianto e manca l'orientamento verso il futuro: il tempo è disarticolato, vissuto in modo segmentato e frammentario. Impediamo al tempo di diventare un mollusco!

La nostra vita è un'eterna incompiuta che rimanda a un futuro e a una completezza che non potremo mai raggiungere nella storia e da soli. La speranza postula che teniamo sempre viva la coscienza, sia di un futuro che ci rimanda all'eternità, sia di un riferimento continuo ad un Altro che trascende il nostro limite. Questo Altro è Dio. Quindi la speranza non rimanda a un punto lontano del tempo, rimanda a Qualcuno. Come scrisse A.J. Heschel: «Attendere non ha mai significato una situazione di riposo o di inazione, o il rimandare a più tardi le proprie attività; significa piuttosto che il risultato di tutti gli sforzi verso la redenzione rimane sempre provvisorio ed effimero senza l'intervento di Dio».

Allora, come i profeti, prendiamo una relativa distanza dall'esistente, e, con Paolo, «ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio» (Rm 5,2), puntando all'adempimento della volontà di Dio, nella convinzione che il suo Regno, già in mezzo a noi, attende la venuta definitiva. La speranza impegna il credente in un itinerario di scoperta, in un cammino verso la vita nuova: esige una conversione continua e una pratica di vita coerente.

Grazie a questo futuro e alla nostra relazione con Dio saremo vaccinati contro la presunzione del fai da te che è il letale virus che uccide la speranza. Saremo altresì vaccinati dall'altro virus che è lo scoraggiamento nel non vedere realizzato subito o pienamente il nostro progetto. La speranza è caparra che rimanda a un saldo.

Centratura cristologica e paradisoDobbiamo fondare tutto su Gesù Cristo, vero Uomo e vero Dio: l'elemento qualificante della profezia cristiana sulla storia è la fede cristologica. Poiché Lui è entrato nella realtà umana compromessa, limitata, sofferente, l'ha non solo assunta, ma anche trasformata con la sua morte e risurrezione. Annunciare quindi il Crocifisso risorto e mostrare che dalla sofferenza può venire una speranza rafforzata. Lo suggerisce la finale del Te Deum: «In te, Domine, speravi: non confundar in aeternum» intrecciando le note di due salmi, 31,2 e 71,1. A differenza del Prometeo di Eschilo che si vantava di aver affrancato gli uomini dalla paura, usando però lo stratagemma: «Cieche speranze ho posto nei loro cuori»; noi invece annunciamo e siamo portatori della «speranza che non delude» (Rm 5,5) perché è Cristo stesso.

Fondare su Cristo la nostra speranza, significa altresì non fare sconti sulla croce: non rendiamo il nostro annuncio né impostiamo la nostra vita apostolica come una continua 'cuccagna', cedendo alla mentalità festaiola che ammorba l'aria. Il mistero pasquale è senz'altro celebrazione della festa per eccellenza, festa però che giunge dopo che si è saliti sulla collina del Calvario.

Il discorso biblico ci ha educato a considerare la speranza come fiduciosa attesa della salvezza, indirizzandoci verso la comunione con Cristo, e, di conseguenza, con tutta la Trinità. Sant’Agostino ha mirabilmente sintetizzato il desiderio di infinito presente in ogni uomo, con la famosa frase collocata all'inizio della sua opera più conosciuta, Le Confessioni: «Ci hai fatto per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te». La speranza si colora di paradiso, che sta alla confluenza di due correnti: eternità e amore.

Poiché il Paradiso è la meta finale del nostro cammino, occorre che la nostra vita cristiana riscopra il valore e il significato dei 'novissimi': morte, giudizio, inferno, paradiso. Evitando toni da Savonarola e terrorismo psicologico, dobbiamo richiamare di più le realtà

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ultime, insistendo sul positivo; la meta ultima cui siamo chiamati per vocazione è il paradiso, l'incontro con la Trinità, il trionfo pieno e definitivo del Dio-Amore. La speranza diventa allora per noi, oggi, il futuro dell'amore.

Con tale meta davanti agli occhi e sorretti dalla grazia, sarà possibile vivere in pienezza l'oggi, affrontare le difficoltà, coltivare la certezza, di essere definitivamente e per sempre «concittadini dei santi e familiari di Dio» (Ef 2,19).

Uomini e donne della gioiaUn marchio indelebile, una specie di stimmate, dovrebbe caratterizzare la nostra vita e divenire sicuro segno di riconoscimento: la gioia. Lasciamoci istruire da Papa Francesco che scrive prima Evangelii gaudium e poi Amoris laetitia con voluta insistenza sul tema.

Rimasi ben impressionato un giorno, in Brasile, quando camminando lungo un marciapiede fui attirato da un singolare cartello posto vicino al campanello di una casa: “Qui vive una famiglia felice”. Non so per quale motivo qualcuno abbia sentito il bisogno di comunicare agli altri il sentimento della gioia. Possiamo metterlo anche noi accanto al campanello di casa? E anche se non collochiamo nessun cartello, chi viene da noi o ci incontra per strada o in qualunque altra occasione, possa dire che siamo persone o comunità felici. Sarebbe il migliore apostolato, anche senza proferire parola!

Nella Lettera ai Filippesi ritorna ben 16 volte il vocabolario della gioia: eppure Paolo si trova in prigione e alcuni della sua comunità sparlano di lui! La gioia non è assenza di problemi, né una patina dorata che riflette chissà quale luccichio. La gioia è pienezza di vita perché Cristo sta al centro, occupa tutto il nostro cuore. Santa Teresa direbbe: “Solo Dio basta”.

Nathan André Chouraqui (1917-2007) – scrittore e filosofo francese, ebreo nato in Algeria, impegnato nella promozione del dialogo interreligioso tra Ebraismo, Islam e Cristianesimo - dispose che sulla sua tomba fosse scritto: “Morto di gioia”: una geniale intuizione, più efficace di mille parole, certamente frutto di un’esistenza gioiosa

Se il numero diminuisce e l’età cresce, anche nella malaugurata ipotesi che il nostro Istituto dovesse finire, se avremo vissuto nella gioia, pur senza scriverlo come epitaffio, sarà questo il nostro luminoso contributo e, credetelo, la migliore propaganda vocazionale.

ConclusioneIl messaggio conclusivo e sintetico è chiaro, facile da capire, sebbene non altrettanto facile da attuare. Non sono i nostri sforzi, né il nostro vigore, né l’immensità dei numeri che potranno creare i cieli nuovi e la terra nuova. Non saremo noi creature a rinnovare il mondo. Nostro primo e più importante compito è quello di fidarci di Lui, lasciarci guidare dalla sua Provvidenza, fare quello che possiamo ed essere quello che dobbiamo. Un grappolo di riferimenti biblici, illustrerà ed espliciterà l’idea appena espressa.

Con la bocca dei bimbi e dei lattanti riduci al silenzio nemici e ribelli (cf Sal 8): Dio si serve di mezzi umanamente inadeguati per raggiungere il suo scopo, come l’elezione di un minuscolo popolo, quello ebraico, per stipulare l’alleanza, come la scelta di una sconosciuta ragazzina di Nazareth per realizzare l’incarnazione, come la chiamata di un gruppetto di uomini semplici e illetterati per annunciare il vangelo.

Nella tua volontà è la nostra gioia (cf Sal 119,16): ottemperare con amore alla volontà divina, assicura realizzazione alla nostra vita e efficacia al nostro apostolato. In altre parole, accettiamo i tempi e le modalità divine che sanno bene dove e come condurre la storia.

Il Signore ricolma dei beni i suoi amici nel sonno (cf Sal 127): stiamo tranquilli, liberiamoci da psicosi da numeri e da ansie da età, convinti che il Signore, al quale nulla è impossibile, è capace di realizzare il suo progetto di salvezza.

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Papa Leone Magno suggeriva ai suoi fedeli: “Cristiano, diventa quello che sei!”. Mi permetto di copiare la frase, adattandola a voi: “Consacrati, diventate quello che siete!”

Per la riflessione personale e di gruppo1. Ho una giusta preoccupazione per la crescita e lo sviluppo del mio Istituto? In che

cosa consiste il mio apporto? Come potrei impegnarmi di più?2. La preoccupazione diventa forse ansia e inquietudine? Che cosa mi dice la frase

che “nulla è impossibile a Dio”? 3. Verifico periodicamente la mia scala di valori? Chi o che cosa sta in cima? Le

nostre ansie o eccessive preoccupazioni non sono forse dovute ad una errata scala di valori? Che cosa imparo dalla Parola di Dio? Che cosa imparo dalla bimillenaria storia della Chiesa che ha visto nascere e morire molti istituti e congregazioni?

4. Quali pensieri attraversano la mia mente quando considero l’età dei miei confratelli o consorelle? Quali sono le valutazioni e i giudizi che esprimo? Sono velati forse di pessimismo? Ho la capacità di guardare l’oggi e il domani con la speranza e la fiducia che vengono dal Signore? Come potrei migliorare i miei giudizi?

5. Come vivo la mia età? Se non sono più molto giovane, mi lascio turbare da pensieri sul mio futuro? Mi preoccupo in modo eccessivo del mio stato di salute? Come posso trovare il giusto equilibrio?

6. Sono nella gioia e cerco di trasmetterla agli altri? Come? Posso dire che anche la nostra comunità vive una sostanziale serenità, pur nei problemi e nelle difficoltà della vita e del vivere comune?

PreghieraO Signore, chiuso nel cerchio ristretto del mio miope orizzonte,sono spesso preoccupato, talora anche angosciato,per il calo di vocazioni e l’invecchiamento del mio Istituto.Aiutami a respirare l’aria ossigenata della tua speranza,ad alimentare la serena coscienza che TU SOLO BASTI,che il mio primo impegno è di vivere nella gioia la mia vocazione,contagiando benevolmente gli altri,più per quello che sono che non per quello che faccio.Apri il mio cuore alla speranza,infondi in me la serena fiducia che per Te nulla è impossibile,e che un giorno mi chiederei conto,non di quanti siamo e di quanto tempo ho vissuto,ma di quanto amore ho ricevuto da Tee restituito agli altri.AMEN.

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AI CONSACRATI DELLA DIOCESI DI BERGAMOFrammento di elevazione spirituale Seconda relazione sabato 25 novembre 2017(don Mauro Orsatti)

FREMITI DI STORIA SACRA NEL CAROSELLO DI NOMIMatteo 1,1-17

«C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico»: adottiamo l’inizio de L’aquilone del poeta Giovanni Pascoli per introdurre la prima pagina di Matteo. Un passato è ricapitolato e un fiammante presente incendia la storia. Nonostante le apparenze. Una scheletrica lista di nomi dà il benvenuto a csi avventura nella lettura. Sembra posta lì per scoraggiare e indisporre, stendendo un velo opaco alla nostra comprensione che stenta ad orientarsi in tanti nomi esotici.

La prima reazione, comprensibile e legittima, non deve impedire una elementare riflessione. Se Matteo ha ritenuto opportuno iniziare con questa pagina, non sarà senza motivo. Lui non è uno sprovveduto, né un ingenuo. Avrà avuto le sue buone ragioni. Le scopriremo in seguito. Per il momento ci basti sapere che con sapienza ha ricapitolato quasi due mila anni di storia, offrendo subito una chiave di lettura: la ricca storia di Israele, carica di fremiti e di sussulti, nel suo turbinoso incedere si muove verso il punto capitale, che è la persona di Gesù. Lui è il frutto maturo di una plurisecolare attesa, è il compimento di una storia che tocca il suo punto omega. A Matteo riconosciamo la genialità di dirci tanto in poco spazio e la finezza teologica di aver puntato subito al centro del suo interesse. Nel ritmo incalzante della storia, emerge Gesù, radicato nel tessuto del tempo e atteso dal suo popolo.

Un supplemento di attenzione e il superamento del disagio iniziale aiuteranno a squarciare orizzonti a dir poco entusiasmanti. Dietro la fredda cortina di nomi scorre un rivolo di freschezza e di attualità che sarà apprezzato anche dal lettore moderno.

Tematica e dinamismoIl movimento del brano è semplice e robusto allo stesso tempo. Siamo in presenza di un abile e artistico lavoro di cesello, provvisto di una introduzione che funziona da titolo (v.1), di uno sviluppo articolato in tre momenti (vv. 2-16), e di una conclusione (v. 17). L'inizio aiuta il lettore a capire fin dalle prime battute che il soggetto in questione è Gesù. Di lui si dà una triplice titolatura che il seguito del vangelo s'impegnerà a illustrare: «Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo». In perfetta simmetria con la frase iniziale si colloca la conclusione che, ricapitolando per sommi capi uno spaccato di storia, riprende i nomi di Abramo, Davide e Cristo presenti nel titolo. L'insistenza è voluta: si parte da Cristo e si arriva a lui. Tra la ripetizione di Cristo, citato all'inizio e alla fine, danza una serie di nomi che si succedono a ritmo di storia: tre gruppi di quattordici, segmenti di vita di Israele che principiano nel capostipite Abramo, passano attraverso lo splendore del regno di Davide, si affossano nel baratro della deportazione a Babilonia, e infine riemergono per puntare diritti su Colui che chiude la lista.

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BREVE COMMENTOLa genealogia è la tessitura di più generazioni in una trama ordinata e successiva. Ai nostri giorni essa interessa un numero limitato di persone, cultori di araldica e nobili che devono documentare la loro origine da un antenato blasonato. Per tutti gli altri è un accessorio di scarso utilizzo. Non così nella società antica che, sprovvista di computers e di registri anagrafici, provvedeva diversamente a inserire i singoli nella compagine sociale. Un modo era offerto dalla genealogia che legava un individuo a un ceppo e lo caratterizzava, garantendogli una "carta di riconoscimento" indispensabile per vivere. Ancora oggi alcuni beduini dello Yemen sono in grado di risalire per trenta generazioni e proclamarsi discendenti di Maometto, assicurandosi così una legittimazione sociale e la fruizione di certi diritti.

Anche la Bibbia conosce il genere letterario genealogico, impiegato in varie situazioni e con scopi diversi: alcune genealogie hanno valore puramente connettivo, perché vogliono legare insieme periodi molto lunghi e sprovvisti di dati storici (cf Gn 5; 11,10-27; Rut 4,18-22). Altre intendono legittimare un ufficio che non poteva essere esercitato senza previa documentazione, come nel caso dei sacerdoti postesilici che dovevano dimostrare di essere di autentica discendenza sacerdotale (liste dei libri di Esdra e Neemia). Altre ancora sono elenchi che servivano al fisco per la riscossione delle tasse, o all'autorità per l'arruolamento dei soldati (cf 1 Cr 7,5.11.40); infine, alcune genealogie sono tramandate per celebrare la gloria di un personaggio, come Mosè (cf Es 6,14-20).

Perché una genealogia di Gesù? Sembrerebbe ovvio pensare che un tale personaggio debba averne una che ne celebri la gloria e lo relazioni palesemente con i grandi della storia ebraica. Non è questo il motivo. Lo stile scarno ed essenziale del vangelo rifugge da simili intenti. Matteo è un uomo di fede, ha conosciuto e amato Gesù come Figlio di Maria e pure come Figlio di Dio. In lui trova realizzate le promesse che hanno scandito l'esistenza di Israele. La sua presenza nella comunità degli uomini, non solo determina una svolta storica, ma ne è, per così dire, l'ago magnetico, il punto di polarizzazione. La storia di Israele prende pieno significato con Lui e per Lui. Persone e fatti che si sono avvicendati nel tempo, preparavano la sua venuta, gli facevano strada e bisbigliavano il suo nome che ora, per la prima volta e proprio all'inizio del vangelo, risuona chiaro e distinto: «Gesù Cristo». Matteo ha raggiunto il suo intento combinando sapientemente diversi elementi quali il raggruppamento numerico dei nomi, l'inserimento di alcune donne e la stranezza letteraria del v. 16. Li consideriamo più da vicino.

Raggruppamento numerico dei nomiLa prima serie di quattordici nomi presenta fatti significativi della storia di Israele: la sua nascita con Abramo, la fondazione giuridica con le dodici tribù e l'apice del regno con Davide. La fonte può essere ricercata in archivi storici come 1Cr 2,1 e Rut 4,18-25, con l'aggiunta dei patriarchi. Quasi a creare un effetto di vistoso contrasto, la seconda serie parte dal periodo aureo del regno al tempo di Davide e Salomone per precipitare nella polvere dell'abbandono e dell'annientamento, l'esilio. È ancora il libro delle Cronache la fonte attendibile (cf 1Cr 3,5-16). La terza e ultima serie si affida alla solita fonte solo per i primi nomi, imboccando poi vie a noi sconosciute.

La voluta insistenza sul numero quattordici ha scatenato la fantasia degli studiosi che hanno trovato bizzarre interpretazioni: dal doppio di sette, numero della completezza, passanto per la gematria del nome Davide – la somma delle lettere ebraiche darebbe quattordici – fino alle complesse interpretazioni apocalittiche. Tutte interpretazioni con margini più o meno ampi di possibilità. Senza dirimere la questione, una soluzione semplice potrebbe essere quella che legge il quattordici come numero trovato per la prima

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serie, e in seguito applicato anche alle altre due, sia pure con qualche forzatura, per mostrare una sorprendente regolarità.

Ciò che più meraviglia, è la capacità di Matteo di leggere una storia tanto sconnessa e disordinata come una tavola pitagorica, dove tutto ha senso e valore: tre volte una lista di quattordici nomi sta ad indicare una perfezione, una regolarità, una finalizzazione che rivelano la mano di Dio. Ciò che gli uomini non avevano preventivato o addirittura ritenuto una vergogna, tutto ha preso consistenza nella formula 3x14 su cui Matteo insiste, citandola esplicitamente alla fine della genealogia. Più che un riassunto, diventa una chiave interpretativa per leggere un piano perfetto che Dio ha tessuto con mano silenziosa nel fluire dei secoli. Matteo non si rivela un homo mathematicus, bensì un teologo, perché aiuta a leggere, sotto l’apparente freddezza dei numeri, il calore di una storia che genera il suo figlio più illustre. Perciò il punto di arrivo è Lui, Gesù Cristo. Egli esprime al contempo, sia la continuità con l’Antico Testamento, sia il sussulto di novità che la sua presenza introduce nella storia del suo popolo. Perciò abbiamo citato l’incipit della poesia di Pascoli: «C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico»-

L’inserimento di alcune donneTrovare alcuni nomi di donne in una genealogia desta non piccola sorpresa, perché la discendenza si trasmetteva di solito per linea paterna. La sorpresa diventa sconcerto quando sono identificate le donne: Tamar (v. 3), Racab (v. 5), Rut (v. 5), «la moglie di Uria» cioè Betsabea (v. 6), non famose e dal passato non sempre brillante. Perché non scegliere le nobili mogli dei patriarchi, come Sara, Rebecca, Rachele e Lia? La loro presenza avrebbe dato lustro alla genealogia e fugato ogni dubbio. Matteo si muove invece in modo strano, anticonformista, al limite della provocazione.

Molti commentatori hanno tentato di capire e interpretare la scelta dell'evangelista ricorrendo al binomio "peccatrici e straniere". Effettivamente queste donne hanno alle spalle una vita non certo adamantina (Racab è una prostituta, Betsabea ha una relazione extramatrimoniale con Davide…) e sono di origine pagana (Rut proviene dalla regione di Moab al di là del Giordano, Racab vive a Gerico). Matteo, collocandole nella genealogia, potrebbe dare il messaggio che Gesù viene per tutti, peccatori e stranieri compresi. La spiegazione possiede una sua logica, e non può essere facilmente scartata. Non mancano comunque alcune perplessità che sollecitano a guardare più lontano.

Matteo è un ebreo che scrive prima di tutto ad ebrei. Diventa urgente esaminare come il mondo giudaico valuta le donne citate. La grande sorpresa sta nel verificare che tutte le fonti reperibili parlano con stima di tali donne, additandole, a diverso titolo, a modello. Di conseguenza, l'interpretazione che le considera straniere e peccatrici misconosce l'alto indice di gradimento, nonché la profonda stima che il mondo giudaico attribuiva a quei nomi. Resterebbe anche da dimostrare che siano tutte straniere e tutte peccatrici: Rut non ha nulla al suo passivo, se non quello di essere straniera, additata però come esempio di attaccamento alla suocera, e pure alla fede e alla tradizione di lei. Di Tamar e di Betsabea si presume l’origine straniera, senza poterla certificare con la massima sicurezza. Infine, seguendo tale linea interpretativa, Maria sarebbe da isolare dal gruppo, perché né straniera, né peccatrice. Per tutti questi motivi, non pochi commentatori hanno preso un diverso orientamento.

Tutte le donne della genealogia, Maria compresa, non appartengono di diritto alla storia a cui prendono parte e vi arrivano in modo strano, come di soppiatto. Esse mostrano che, nonostante situazioni anomale e non prive di difficoltà umanamente insormontabili come l'appartenenza a un altro popolo (Racab e Rut), sono state chiamate da Dio a preparare la venuta di Gesù. Dietro la loro persona si intravede Dio come "Signore della storia", che guida e determina gli avvenimenti. È Lui che chiama con disposizioni provvidenziali

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Tamar, Racab, Rut e Betsabea a far parte del popolo ebraico e a concorrere per preparare la dinastia del Cristo. È ancora e sempre Dio a chiamare Maria affinché porti il suo contributo, originale ed esclusivo, di madre di Gesù Cristo. Il suo concepimento verginale è la "stranezza" che mostra ancora una volta la fantasiosa provvidenza divina. Tutte partecipano, sia pure a diverso titolo, a tracciare la strada di Gesù. Proprio in vista di Lui, Dio ha condotto la storia che, grazie anche alla presenza di queste donne (tutte e cinque), si rivela il luogo teologico dove opera la Sapienza divina. Questa Sapienza che con le quattro donne dell'Antico Testamento si lasciava appena intravedere, diventa con Maria pienamente visibile.

La stranezza letteraria del v. 16Con stucchevole monotonia la lista genealogica procede presentando il figlio che diviene padre obbedendo allo schema «A generò B, B generò C...», interrotta qua e là da qualche annotazione come il titolo di «re» attribuito a Davide. Improvvisamente il ritmo si spezza allorché arriva il v.16: «Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo». Qui incontriamo vistose anomalie. Per la prima e unica volta si passa dal padre alla madre. Ritorneremmo nella solita costruzione se fosse scritto «Maria generò Gesù». Invece la grammatica fa un salto e introduce Gesù come soggetto e Maria come complemento d'agente: «dalla quale è nato Gesù». Se aggiungiamo la mancanza di padre e la presenza della sola madre come parte attiva della generazione, dobbiamo concludere di essere in presenza di un fatto insolito che deve essere spiegato.

Perché questa manifesta trasformazione? Di chi è figlio Gesù? Come può egli dirsi discendente di Davide, se Giuseppe non ha un ruolo attivo nella generazione? A queste legittime interrogazioni intende rispondere il brano di Mt 1,18-25, chiamato «la lunga nota esplicativa del v.16». Solo alla luce di quel passo diventerà intellegibile l’anomalia del versetto sedici.

Uno stupendo affrescoIl vangelo di Matteo vuole presentare la persona di Gesù come il soddisfatto desiderio della plurisecolare attesa del popolo ebraico che a partire da Abramo ha coltivato la speranza della promessa. Dio, che è sempre fedele, porta a compimento nel Gesù di Nazaret il suo piano: «Quando venne la pienezza del tempo di Dio mandò il suo figlio...» (Gal 4,4). Per far toccare con mano la benignità di Dio e per far vedere la derivazione di Gesù dalla linea Abramo-David, l’evangelista usa la genealogia.

La pagina proposta è uno stupendo affresco, ricco di colore, popolato da tanti personaggi. Matteo mostra la linfa vitale che sale dal vecchio tronco della storia. Domina la scena il nome e la persona di Gesù, presentato come il Messia (Cristo) atteso; il suo nome apre e chiude il brano, come causa sorgiva e meta finale di tutta la storia di Israele.

La genealogia si presenta come una danza di nomi al ritmo della storia: le generazioni si susseguono e scandiscono gli anni e i secoli, eventi gloriosi e tristi si intrecciano, figure illustri e meschine si alternano, la vita sembra scorrere dimentica del passato e ignara del futuro. Invece tutto prende senso e valore quando Matteo ricapitola la storia tracciando un diagramma così nitido e preciso che solo la mano di Dio può aver disegnato. Gesù arriva nella famiglia umana preparato da tutti coloro che lo hanno preceduto perché tutti, ciascuno a proprio modo, nel bene o nel male, hanno contribuito a far fluire il tempo e a vivere al ritmo della storia. Matteo guarda con compiacimento tutto questo, seleziona i numerosi fatti e persone, scegliendo i più espressivi; aiuta a leggere in profondità gli avvenimenti, causati dagli uomini, ma determinati da Dio.

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Lui è, in ultima analisi, il pilota della storia. Gli uomini possono, al massimo, rallentare o deviare, mai impedire, il suo progetto. Risulta a caratteri evidenti la Provvidenza di Dio. Quello che gli uomini non avevano preventivato o addirittura ritenuto non idoneo e disprezzato, ciò che sembrava o era marginale, tutto questo è stato inglobato e utilizzato per tessere con mano silenziosa il piano di Dio, per spianare la corsia sulla quale doveva correre la storia che portava il suo più illustre personaggio. Essendo tutto questo poco comprensibile alla venuta di Gesù perché mancava la chiave teologica per leggere e interpretare gli avvenimenti, ora, dopo l'esperienza con il Gesù-Cristo, Matteo si preoccupa di sottolinearlo anche con la genealogia. Tale piano diventa luminosamente chiaro per coloro che nella semplicità del cuore sono disposti a riconoscerlo. La storia diventa allora il palcoscenico delle rappresentazioni degli uomini, il luogo dove si dispiega l'amore di Dio, una festa segnata da un primordiale applauso alla vita. Il carosello di nomi lascia percepire il fremito della storia.

La Provvidenza inserisce Gesù Cristo nel tessuto genealogico come figlio di Davide, figlio di Abramo e figlio di Maria. Si intuisce al v. 16 una novità che solo i brani successivi permetteranno di decodificare appieno: la presenza dello Spirito Santo prepara la comprensione di Figlio di Dio, vertice teologico di tutto il Vangelo. Colui che, grazie a Maria, è divenuto figlio degli uomini, possiede anche l'identità di Figlio di Dio. Il Vangelo di Matteo si impegna a dimostrarlo, partendo dalla scena del battesimo: «Questi è il mio Figlio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto» (Mt 3,17), passando attraverso il riconoscimento di Satana: «Se tu sei Figlio di Dio...» (Mt 4,6), e la testimonianza di Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16), fino alla presentazione del Risorto stesso: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).

Con Maria l'inserimento di Gesù nella storia umana è totale e definitivo. La storia, dopo Gesù, non ha più futuro. Dopo di Lui non corre più la sequenza genealogica e sembrerebbe interrotto il flusso della vita: in realtà nasce con Lui una nuova umanità, quella che proviene dal Figlio di Dio che è altresì il Figlio di Maria, il Figlio di Davide e il Figlio di Abramo. Per capirlo bene, il lettore deve continuare la lettura del vangelo. Matteo lo ha incuriosito, stuzzicato, preparato per una corretta comprensione di quanto segue.

ConclusioneMatteo ci ha regalato una pagina di sintesi, ricapitolando quasi due mila anni di storia ebraica, educandoci a una lettura positiva. Come evangelista, e quindi come profeta cioè uomo di Dio, legge e interpreta la storia con gli occhi stessi di Dio. Sono occhi benevoli e misericordiosi che sanno leggere il positivo e vedono la trasformazione del negativo in bene. Anche personaggi meschini ed equivoci, come Manasse, hanno offerto il loro contributo alla costruzione della storia, magari una storia striata di sangue, ma trasformata dalla misericordia e provvidenza di Dio che tutto orienta verso il bene.

Saper leggere così la storia è il grande insegnamento di Matteo, che vale come pressante invito perché anche noi, pur nelle difficoltà e nelle sofferenza della vita, possiamo scorgere il bene, individuare la mano di Dio che orienta verso il compimento. San Paolo ha espresso l’idea con una frase che vale quanto un intero trattato di teologia: «Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno» (Rm 8,28).

Tutti, i consacrati in prima fila, devono apprendere questa stupenda lezione di speranza e di ottimismo, leggere con occhi profetici la storia e vivere di conseguenza.

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Per la riflessione personale e di gruppo1. Sono attento a leggere la mia piccola storia inserita nella grande storia del mio

ambiente, del mio Istituto, del mio popolo, dell'umanità intera? Oppure vivo isolato dagli altri, narcisisticamente impegnato a costruire la mia vita da solo, o addirittura in concorrenza con gli altri? Qual è il mio contributo alla storia degli uomini?

2. So leggere la storia come il luogo dove il Signore dispiega la sua bontà? Sono capace di fare "teologia della storia", cioè vedere la presenza di Dio nelle persone e negli avvenimenti, piccoli e grandi, di ogni giorno? Mi riservo, per questo, spazi di silenzio contemplativo per leggere nelle pieghe profonde della mia vita? Sono capace di sana e seria introspezione? Mi è facile passare poi alla preghiera di lode e di ringraziamento per il bene che vi trovo, alla preghiera di pentimento per le insufficienze e le inadempienze?

3. Sono convinto che per il cristiano tutto ha un senso, anche se non immediatamente comprensibile, perché Dio promuove sempre verso il bene? Vivo, di conseguenza, la mia esistenza con un fondamentale ottimismo? Posso dire che sia stata proprio così la settimana appena trascorsa?

PreghieraAscoltiamo, Signore, i battiti del cuore e li misuriamo.Anche la storia ha i suoi, ma non sempre siamo attenti a percepirli.Donaci la consapevolezza che il tempo scorre perché Tu ce lo doni,ed è pieno quando sappiamo leggervi un significato.Nulla avviene per caso, nulla è trascurabile,se inserito nella trama della vita e orientato verso una pienezza.Ti chiediamo di renderci saggi,acuti lettori della storia,intelligenti interpreti degli eventi,degni figli che tutto ricevonodal Padre che vuole il loro bene.AMEN.

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