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Gian Carlo Marchesini Lettere dal Sud Splendori e miserie da Capri a Ischia, dal Cilento al Golfo di Policastro 1

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Gian Carlo Marchesini

Lettere dal SudSplendori e miserie da Capri a Ischia, dal Cilento al Golfo di Policastro

Chi va al Nord cerca lavoro, al Sud va chi cerca l’anima.

Pino Aprile. Terroni

Il desiderio arde per la ricerca dell’altro, per ciò che non siamo, per il paese in cui non nascemmo.

Emmanuel Lévinas

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Sommario1. Vacanze al Sud, 5

2. Calcetto, Svimez, campane a morto, 8

3. La comunità e i suoi demoni, 10

4. Quando la comunità dice: ciao! 14

5. Una serata a Sapri, 16

6. Elogio del notturno camminare estivo, 19

7. Una serata al Porto, 22

8. Una serata a Scario, 25

9. Globalizzazione e crisi, 27

10. Ilicini, 30

11. Generi. Femminile e maschile, 31

12. Attraversamenti, 34

13. I critici furiosi della mala Unità, 36

14. Piccola ballata, 39

15. Terrazza sul mare, 40

16. Presentazione di un libro su Napoli a Cersuta, 43

17. Generazioni. Gli adolescenti, 45

18. Generazioni. I quindicenni. 47

19. Generazioni. I ventenni. 49

20. Generazioni. I trentenni. 51

21. Generazioni. I vecchi. 53

22. Generazioni. I bambini, 55

23. Piccoli incontri estivi, 58

24. Ma dove siete andati a finire, 59

25. La riscoperta della solitudine pensosa, 60

26. La riesumazione delle salme, 62

27. Noterelle in margine alla presentazione di un libro, 63

28. Ci vuole stomaco e cervello, 67

29. Brefaro: cosmopolitismo e campanacci, 68

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30. Golfo di Policastro, 70

31. Acquafredda, 75

32. Un caleidoscopico inventario, 76

33. Capri, 79

34. Napoli: uno, due, tre! 86

35. Cartoline ischitane, 89

36. Agropoli e Castellabate, 93

37. L’amore buio, 96

38. Waka Waka, 97

39. Il relativismo etico e i suoi frutti, 99

40. Nemico del popolo, 101

41. Non più vostro, 102

42. Non aprite quella porta, 105

43. Noi credevamo,110

44. Figli di un dio minore, 112

45. Oggi, se permettete, parlo di lotta alle zanzare e di mucche podoliche, 114

46. La maratoneta, 116

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Vacanze al Sud

Un torneo di calcetto…

Lo spettacolo e il tifo per i mondiali in Sud Africa hanno evidentemente incendiato le polveri dell’agonismo. Chiunque si trovi a giocare su un campetto di paese in qualche locale torneo di calcio si sente addosso il brusio adorante delle vuvuzelas e gli occhi del mondo. Ogni attacco palla al piede sembra un assalto alla baionetta, ogni tiro una cannonata, ogni scontro fisico una rissa epica. Le grida non sono di agonistica tenzone, ma secche e sparate come fucilate. I tiri in porta sono siluri e missili lanciati per espugnare e annientare ogni resistenza. Concentrato in relativamente scarso spazio, in cui anche il guizzo e una frazione di secondo possono determinare il risultato, quello che viene messo in scena in una banale partita di calcetto è quanto di più possibile vicino a uno scontro militare. Fisicità, forza, prestanza, supremazia conquistata con balzi di rapidità e vigoria, nel calcio è il corpo maschile il bellicoso protagonista. Pur senza arrivare al sangue – ma ci si arriva molto vicini – una partita di un torneo di calcio a eliminazione diretta, con il pubblico che fa un tifo infernale e aizza e istiga, è quanto più vicino agli scontri tra gladiatori nell’antica Roma.

… e un saggio di danza

Mentre i giovani uomini si affrontano in mutande tra clamori e clangori di arrembante agonismo, poco lontano, su un palco sul lungomare, ragazze e bambine sculettano alla grande. E’ il saggio di fine anno di una locale scuola di danza, le ballerine di tutte le età – dai sei ai quindici anni – si intrecciano e alternano a frotte e folate. Quello che colpisce è che tutte ripetono zelanti, con maggiore o minore abilità, lo stesso identico tipo di mosse: ancheggiano e saltellano così come oramai in ogni trasmissione di intrattenimento televisivo siamo abituati a vedere. Se mi trovassi in presenza di una mia figlia che in pubblico sculetta come un’oca tarantolata e giuliva, giuro che mi vergognerei per me e per lei come un cane in chiesa. Trovo esecrabile che la bellezza e la grazia del corpo di una fanciullina siano ridotte allo stereotipo e al cliché estetico di televisive mossette cretine. Genitori e parenti in platea sono invece estaticamente rapiti nel riprendere e fotografare le loro zompanti creature. Ma sul palco non c’è grazia né armonia e neppure vera allegria. Sulla spinta di una anfetaminica e sgraziata colonna sonora alla Lady Gaga, bamboline e bambolone mostrano natiche e polpe a comando come una mandria di papere invasate. Se quella

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è immagine di femminilità seduttiva, viene voglia di farsi monaci e chiudersi in convento.

D’altra parte, in assenza di qualsiasi sbocco, spazio o approdo, di un futuro, un destino e un lavoro, di una vita con qualche progetto sensato, come volete che i giovani maschi del Sud non si scaraventino a corpo morto nel calcio, e le ragazze non si affannino con le chiome e le natiche a percuotere il vuoto?

Poi ho mangiato una zuppa di pesce squisito in un ristorante sul lungo mare. Accanto al mio, un tavolo intorno al quale stavano sedute tre coppie adulte e una sola bambina di tre anni. Gli adulti chiacchieravano tra di loro del più e meno, la bambina, per farsi sentire, ogni trenta secondi emetteva nell’indifferenza generale un grido acutissimo e straziante. Per farla zittire, gli adulti che hanno ordinato per sé ottimo pesce, alla bambina hanno rifilato hamburger, patatine fritte e coca cola. E poi ci si chiede perché si vedono circolare quantità industriali di ragazzini e ragazzine obesi.

A mezzanotte superata, mi sono fatto a piedi i sette chilometri da Sapri ad Acquafredda, e sotto il cielo stellato e un mare fiorito di lampare, scoramento e collera mi sono sbolliti.

Una festa risorgimentale

Diversa la rappresentazione messa in scena la sera prima sul palco della piazzetta della chiesa di Acquafredda di Maratea. Istruiti e diretti dalla loro maestra, una quindicina di bambine e bambini, ragazze e ragazzi, hanno contribuito da soli o in gruppo a raccontare la storia di Costabile Carducci, partito nel luglio del 1848 dalle coste calabre e costretto a sbarcare al porticello di Acquafredda, e lì assalito, imprigionato e poi ucciso da un gruppo di contadini capitanati dal prete borbonico di Sapri don Vincenzo Peluso. Con immedesimazione intensa, con dizione efficacemente scandita, alternandosi e raggruppandosi ai microfoni, bambini e ragazzi hanno trasmesso alle persone raccolte in centinaia sotto il palco il senso vero di una drammatica meridionale, risorgimentale storia. Poi, insieme ad altri, sono intervenuto anch’io, e in buona sostanza ho detto che i valori di libertà e democrazia, alla base del cammino verso l’unità nazionale, per i quali si è battuto ed è morto Costabile Carducci il 4 luglio di 162 anni fa, non sono affatto diversi da quelli per cui hanno combattuto e sono morti i partigiani antifascisti nel 1944-45, e neppure, più recentemente, sono diverse le ragioni per cui sono morti tanti magistrati, poliziotti e giornalisti. Tratti portanti e linee costituzionali di questo nostro Paese sono diventati tali grazie al sangue versato da persone che hanno dato senso e continuità al nostro

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vivere insieme come nazione libera e democratica. Contro ogni forma di oppressione, prepotenza, dispotismo e ingiustizia: da quelli borbonici di allora, a quelli del fascismo dopo, a quelli del regime berlusconiano oggi. A me interessa – ho ribadito e concluso il mio intervento – sentire Costabile Carducci mio consonante e affine oggi, piuttosto che celebrarlo con lo sguardo rivolto all’indietro. E chiedermi cosa farebbe lui, se fosse vivo e presente qui e ora con noi: e cosa, se non il fare insieme comunità intorno a valori di democrazia, solidarietà, giustizia e libertà come stiamo facendo noi questa sera?

Le persone presenti hanno capito benissimo e approvato. Poi abbiamo mangiato, bevuto e ballato tutti insieme tarante e tarantelle. E alle due di notte abbiamo smontato il tutto, raccolto e pulito. Il costo complessivo della serata, tra palco e attrezzature affittate, compenso ai musicanti e bevande e cibo, è stato di mille euro, tutti raccolti dal pubblico partecipante attraverso sottoscrizioni e doni. Nessun contributo finanziario istituzionale è stato percepito, e anche questo ha confermato che la festa era stata realmente sentita e di tutti – e che nessun cialtrone, secondo la sciagurata definizione di un ministro di questa nostra Repubblica, ha sperperato o male speso.

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Calcetto, Svimez, campane a morto.

Sono cinque squadre di ragazzi, vengono dalle diverse frazioni della costa di Maratea. Si alternano la sera al campo di Ivano nelle gare del torneo di calcetto in onore di Filippo, che se n’è andato tre anni fa in un incidente d’auto. Pur di dare un saluto all’amico prematuramente scomparso, i ragazzi di Acquafredda, a calcio non così esperti, accettano di sottoporsi a un vero e proprio massacro. L’altra sera la partita è finita con un punteggio stratosferico: 27 a zero! Ma non per questo motivazione e accanimento nel gioco difettano. Filippo era un giocatore di calcio assiduo. Anche a prenderle sode come succede in questo torneo, la consapevolezza che lo si fa in suo ricordo basta e avanza.

Alla partita partecipa festosa l’intera comunità. Ci sono bimbetti che scorazzano e rotolano instancabili sull’erba che costeggia il campetto, e le loro mamme li covano con le scocche rosse e gli occhi orgogliosi poco lontano. Le ragazze - amiche, sorelle o fidanzate - si alternano in grida e cori di esultanza, incoraggiamento o scoramento, a seconda di come evolve la partita. C’è chi arriva spetazzando in motorino con grandi borse gonfie di birre che sollecito distribuisce. Sulla rete di recinzione del campo, su un grande lenzuolo, campeggia la scritta: Ricordando Filippo.

L’aria notturna è fresca e leggera, una bimbetta vicina a me, grassottella e rosea come un prosciutto appeso a sua madre, che invece è alta, asciutta e sottile come un palo, riceve come una minuscola Madame de Pompadour gli omaggi degli estimatori in fila. Le maglie di gioco della squadra locale spiccano per un rosa violetto su cui ramifica un indecifrabile disegno. La mamma della bimba prosciuttina mi confida che il disegno in origine non è stato voluto, ma è il risultato involontario di un lavaggio con eccesso di varechina. Le cose di maggior successo sono spesso frutto del caso. Basta non perdersi di coraggio e inventarsi a sostegno un felice concorso di circostanze.

Poi arriva volteggiando su vertiginosi tacchi una ragazza, che tu dici: ma è il mio vecchio amico tornato ai suoi migliori sedici anni che, travestito, mi vuole combinare uno scherzo! E invece è la nipote: e ti rendi conto di come l’ereditarietà e la vita, sotto rinnovate spoglie, continuano a riproporsi al meglio.

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Un ragazzo del luogo cui confido il rammarico per la scarsa capacità di gioco degli acquafreddari, protesta e sbotta che la squadra si forma solo d’estate, metà degli effettivi essendo d’inverno lontani per studio o lavoro. Quando mai potrebbero allenarsi regolarmente? Convengo e mi azzittisco pensoso.

Poi arriva il Rapporto Svimez a confermare il drammatico crollo dei dati economici che riguardano il Sud d’Italia: una famiglia su tre è a rischio di povertà assoluta. Ma è proprio questo che costringe la parte migliore dei giovani ad andarsene per ricavare un pezzo di reddito, contribuendo così ad arricchire le regioni del Nord… Anche Filippo se n’era andato a lavorare vicino a Ferrara. Perché qui, se non un paio di mesi d’estate, non c’è possibilità di lavoro. Costretto ad andartene, arriva poi la morte a sorprenderti la notte, a una curva lontano da casa.

Dopo la partita, ho incrociato davanti al bar qualcuno che legge ciò che scrivo sulle locali gazzette, e d’impeto dissente – specialmente su Francesco Saverio Nitti: per lui un criminale traditore (il “cagoia”, come artisticamente lo insultava D’annunzio). E io devo subire, e pensare: forse, rispetto all’attuale silenzio che perdura sulla destinazione di Villa Nitti, perfino qualcuno che ad alta voce in pubblico insulta il grande statista di Melfi è sempre meglio di niente.

Attraversando il paese, incrocio una vecchia amica che esasperata si confida: “ieri sera, a un certo punto, con mio figlio sono sbottata: basta, smettila con il computer, esci di casa! Trovati una ragazza!” E mi è venuto da riflettere: vuoi vedere che oggi per i ragazzi il miglior giocattolo, il più interessante e divertente è a tal punto il computer che perfino l’idea eccitante e coinvolgente di una ragazza – il suo corpo colmo di poteri straordinari e inquietanti – è passata in seconda fila?

Poi, nel cortiletto di casa, incrocio la famigliola di olandesi biondi e cortesi che pernotta nelle vicine camere del bed and breakfast: e si effondono in mille elogi sull’aria profumata e fina, il silenzio, il grido di notte della civetta e il canto del gallo di prima mattina. Roba genuina che loro, ad Arnheim, in Olanda, manco avrebbero immaginato possibile.

Filippo morto lontano da casa; i suoi amici che lo festeggiano giocando e perdendo catastroficamente a calcetto; l’intero paese che assiste facendo comunque il tifo; lo Svimez che snocciola i suoi dati che sembrano spilloni che trafiggono; Nitti, i suoi pervicaci detrattori, le mura della sua villa perennemente in mano ai muratori; i ragazzi che tradiscono le ragazze con il computer; gli olandesi strabiliati della bellezza dei luoghi: qui la vita imperterrita continua rinnovando l’antica bellezza

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dello zio nella nipote, lo splendore di oleandri e rose, le eterne rovine e il fascino dei rovi.

La comunità e i suoi demoni

Una famiglia tedesca in vacanza

In pizzeria, sotto la grande tenda, davanti al televisore che trasmette la partita, insieme ad altri singoli e gruppi c’è una famiglia tedesca in vacanza. Padre, madre e quattro figli tra i dodici e i sedici anni. La più grande dei figli è la ragazza, che sta seduta alle spalle del padre, una mano appoggiata alla sua schiena. Lo accarezza di continuo e delicatamente, con un affetto che non vuole però essere troppo invadente. Il più piccolo dei ragazzi, dodicenne, sta beatamente allungato su ginocchia e petto del padre. Succhia tranquillo un ghiacciolo alla menta mentre segue la partita. I suoi due altri fratelli, di 13 e 14 anni, sono seduti più indietro uno a fianco dell’altro. Commentano la partita e si passano a vicenda noccioline e patate fritte. La madre, unica del nucleo dall’altra parte del tavolo, sembra essere dalla visione della partita totalmente presa, ma qualcosa mi dice – un vibrare improvviso delle ciglia, una piccola ruga che affiora sulla fronte - che in realtà nulla le sfugge di ciò che le succede intorno, specialmente di ciò che riguarda la sua famiglia. Il padre, biondo, appare fisicamente più forte che bello; la madre, bionda, appare più bella che forte: il risultato sono i quattro figli uno più biondo, bello e forte dell’altro. Rappresentano la prima e fondamentale comunità naturale del consorzio sociale. Sono appagati del loro equilibrato stare insieme, ognuno per sé ma più vivo e vitale perché in relazione e funzione dell’altro. Una rappresentazione così esplicita di un gruppo famigliare in stato di salute fisica, morale e affettiva rigogliosa, si coglie intera specialmente in vacanza dopo una giornata trascorsa al sole e al mare, davanti a una pizza, una birra e ad una appassionante televisiva partita dei mondiali di calcio.

Dalla famiglia ristretta alla comunità allargata

I problemi e i guai nascono quando il campo di azione e osservazione si allarga uscendo dal nucleo famigliare ristretto, e ci si avventura a considerare le vicende di un gruppo di famiglie che compongono una antica e consolidata comunità. Lì appare evidente come le dinamiche di relazione, i giochi di competizione e di rivalsa (i “te l’avevo detto io!” se non addirittura i “mò ti faccio vedere io!”) imperversano.

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Il primo e principale problema sono gli spazi ristretti, il vivere a vista e a gomito, quindi il pericolo di invasione, le interferenze, il controllo. Il secondo è generato da problemi di invidia, gelosia, competizione. Il terzo ha a che fare con desideri, bisogni e appetiti smisurati rispetto a opportunità e risorse invece limitate. L’elenco potrebbe continuare, ma prima è necessario aggiungere che tali problematiche, una loro pratica di sufficiente e positiva soluzione, o invece inadeguata e mancata, in una comunità ristretta si sono nel tempo accumulate fino spesso a degenerare e marcire.

La mancanza di esercizio nel confronto paritario, la scarsa trasparenza e la recalcitrante assunzione di pubblica ed esplicita responsabilità, producono atteggiamenti e comportamenti di appropriazione e sottrazione rapace e violenta, di manipolazione opaca e furba. La comunità, nome che suona apparentemente piano, rassicurante e positivo, nasconde dentro la sua pancia demoni.

Compà Biasio e l’albero di fico

Qualche esempio può tornare alla comprensione utile. Compà Biasio possiede diversi alberi di fico. Uno in particolare costeggia paro paro un passaggio pubblico. Arrivato in agosto il tempo della maturazione dei frutti, compà Biasio si precipita ad avvolgere i rami carichi di fichi, troppo a portata di mano di chi si trova a passare, con teli di nera plastica traforata. L’albero dei fichi diventa così un inquietante e mostruoso monumento funebre, un mitico e simbolico albero primitivo posto a segnalare una sorta di rinnovata cacciata dal paradiso. Ragionando con alcuni amici del posto, e con compà Biasio stesso, che è persona per il resto amabile e civile, si viene a sapere che nel luogo i confini di proprietà non sono esistiti espliciti e netti da sempre. Prima seguivano come traccia il percorso dei terreni diversamente coltivati. La configurazione del primo insediamento del paese, ora abbandonato (Piano degli Zingari), è al proposito conferma e testimonianza. E’ stato l’arrivo dei forestieri nel secolo scorso, che hanno iniziato ad acquistare a buon mercato case e appezzamenti di terreno, a introdurre l’applicazione rigorosa di confini di appartenenza e proprietà. Prima il mio e il tuo erano riassunti e assorbiti nel nostro, coincidevano con le parti che erano coltivate a ortaggi, vigna e grano, o attribuite all’allevamento di maiali, galline, conigli, pecore e mucche. Le differenze venivano compensate e superate da ciò che dettava il bisogno e il reciproco necessario scambio. Ora anche compà Biasio si vergogna un po’ del telo nero a coprire a lutto i succulenti fichi: ma “mi ero proprio stufato di non trovarne a un certo punto per me neanche uno!” E come dargli torto?

La restituzione degli antichi torti subiti

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L’approfittare dell’opportunità per piegarla a proprio vantaggio non risponde tanto o soltanto a un bisogno reale, ma a logiche di rivalsa per penalizzazioni, umiliazioni e antichi torti subiti. Scopo di un impegno nel sociale non è quindi principalmente o soltanto il buon risultato dell’iniziativa, quanto la lezione e lo smacco da restituire a chi precedentemente ti ha inflitto punizione e scacco analoghi. Una sana logica vorrebbe che, rispetto a un impegno assunto per realizzare uno scopo di utilità comune, tutti concorressero in modo da far pesare su ognuno una quota di fatica minore. Succede invece che, lamentando pretesti e improvvisi ostacoli, a lavorare duramente sia una minoranza, mentre gli altri assistono con occhio sornione e malevolo, aspettando e quasi desiderando l’insuccesso dell’iniziativa per gioire del fallimento di chi si è invece totalmente impegnato. (Ma s’altronde non è spesso così anche nelle comunità organizzate dentro una azienda?)

Realizzare un progetto che per la sua piena riuscita implica il concorso e il supporto di tutti, diventa spesso opera ardua e complicatissima perché subentrano e prevalgono logiche per le quali: “io con quello non lavorerò mai!”; oppure: “quell’altro una volta mi ha fatto sgarbo e sgambetto, quindi io adesso glielo restituisco!”. O infine: “piuttosto che il merito della riuscita premi quella persona, quella famiglia o contrada, farò del mio meglio per remare contro, per impedire che l’impresa abbia successo e far fallire la baracca”.

L’acquazzone e l’arsura

Ci sono in una comunità tante e tali antiche ferite, tali rabbie sepolte, e odi e frustrazioni e secolari umiliazioni, e vendette così a lungo covate e preparate, che l’arrivo di qualche positiva goccia d’acqua, o anche di un intero temporale e acquazzone, si scioglie in sfrigolii e vapori come rugiada su una piastra arroventata. E nella pancia di una comunità ribollono tante e tali ambizioni e aspirazioni mai realizzate, tanti sogni e aneliti, tali ansie di affermazione e successo, che chi procura anche soltanto qualche spiraglio e occasione, qualche varco e possibile via d’uscita, chi si segnala come portatore di qualche speranza, diventa padre e fratello, maestro e salvatore.

Qui, tra queste antiche e ancora forti e coese comunità del Sud, depresse forse anche per non essere mai state realmente accese, sarebbe ora che arrivasse il tempo di un passaggio dagli incendi devastanti dei boschi – segno spesso di rabbia e furia distruttiva, di depressione e incattivita frustrazione – all’incendio politico agito e finalizzato nelle piazze: segno dell’ avvento di un tempo di speranza e di civile

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rivoluzione. Quarant’anni fa, nei primissimi Anni Settanta, con una parola d’ordine semplice ma icasticamente incontrovertibile, Lotta Continua lanciò un giornale e una campagna di lotta politica nel Sud, per invitarlo a reagire e a uscire dalle sue ancestrali soggezioni e miserie, intitolati Mò che il tempo si avvicina. Era il tempo della rivolta di Reggio e del suo rione Barre di cui ricorre quest’anno il quarantennale. Oggi, a segnalare in positivo qualcosa di simile, che ripropone se non proprio la rivolta almeno l’iniziativa dal basso e la speranza, c’è Nichi Vendola e le sue “fabbriche”. Avrà ragione Giorgio Ruffolo che in un elzeviro su La Repubblica amaramente conclude che, per quanto lo riguarda, per il Sud di questo Paese - ma se è per questo per il Paese intero, e per i destini di un capitalismo liberale e democratico - il tempo oramai è definitivamente consumato?

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Quando la comunità dice: ciao!

Le cose sono andate così. Per un concorso di circostanze – abbastanza casuali ma non del tutto, perché niente nella vita è del tutto casuale - partecipo a una assemblea della popolazione di un paese della costa lucana dove non sono praticamente mai realmente entrato, e, coinvolto e immedesimato nella discussione dei temi trattati, decido di intervenire. E dico la mia come mi viene, la dico con le parole sincere, la dico bene. A spingermi a intervenire è anche la passione, l’intensità della partecipazione di chi dal pubblico interviene.

Il pubblico applaude, approva ridendo o dissentendo fischia. Si discute di una emergenza seria: una frana ha interrotto la strada statale che lungo la costa porta da una parte alla scuola, dall’altra all’ospedale. La comunità rischia così di rimanere chiusa e strangolata, e questo arriva dopo un regresso dei servizi pubblici che nei tempi sono andati costantemente a ritroso, un percorso come fa il gambero verso il suo buco triste e odioso. Questo non è più tollerabile, non è più possibile accettare. Cedere ancora significa definitivamente affondare. Insomma, uno di quei momenti in cui la comunità nel suo insieme capisce al meglio tutto, sperimenta l’insopportabilità della sua situazione, ma anche la propria residua e intatta forza. E quindi decide come efficacemente reagire.

Mi colpisce il fatto che durante i vari interventi che nel ribollire del pubblico si succedono, l’acme delle passioni è tale che una donna, emblema e sintomo dell’incandescenza, si alza all’improvviso di scatto dalla sedia, attraversa a grandi falcate l’intera sala agitata da una vistosa ed esplosiva collera, esce di scena per poi dopo pochi istanti ricomparire in qualche misura ricomposta, per tornare a sedersi come chi desidera non perdere del dibattito neanche una battuta. E dopo un po’ punto e a capo: la collera riprende il sopravvento, la signora – nera e furiosa come una mini atomica - si rialza paonazza in volto, riattraversa come uno spettro irato la sala e si catapulta all’esterno. Per poi, ripreso il controllo, ricomparire e ricominciare tutto daccapo. Un tumulto alla Living Theatre magistralmente recitato. Un drammatico quadro in stile Géricault, titolo: la comunità prende decisioni sul suo futuro.

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Perché questa può diventare la dimensione collettiva: un unico e clamoroso corpo pulsante che fa da cassa di risonanza e moltiplicatore delle singole e individuali emozioni, collere, passioni. Una magnifica e potente centrifuga in azione.

Bene, io ho fatto il mio intervento di appoggio e solidarietà schietto e sincero, ho avuto la mia dose di applausi, e sono da quella bella e tempestosa sala uscito. Risalendo la strada verso la mia auto, all’improvviso mi si para davanti uno sconosciuto ragazzetto sgusciante in bicicletta come un elfo, mi zigzaga intorno e mi butta lì lo schiocco caldo di un inaspettato: ciao! Io ci rimango secco. Ecco, mi sono detto, questa è la comunità che, senza alcun mandato esplicito, ma per dirmi comunque che ha apprezzato l’intervento, ha scelto come interprete e messaggero il suo più vispo ragazzetto - che neppure rivedrò più. E’ in quei momenti lì che le umane cose ti appaiono nel loro vero significato e senso. Hai dato a un gruppo sociale in difficoltà il tuo schietto e gratuito contributo, ovviamente in nulla risolutivo. Ma quelli ti hanno perfettamente inteso e quindi ti ringraziano.

Io, di quel ragazzetto finto sbadato che sgusciandomi davanti a nome dell’intera comunità mi ha salutato, mi sono istantaneamente innamorato. Voi dite che sono esagerato? Ho capito che se ti rendi non fintamente o per calcolo disponibile, la gente di un luogo, la sua parte viva, ti registra e apprezza, ti è grata. Mai sperimentato tanta richiesta di solidarietà e appoggio come in questo periodo. Siamo tutti oppressi e stressati, stiamo male, ma non ci arrendiamo: vogliamo riprendere a camminare a testa alta, e possibilmente volare!

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Una serata a Sapri

Alle 19.30 della sera, a piazza del Municipio, a fianco di un corrusco e impettito busto di Carlo Pisacane, eretto ai tempi del Fascio in memoria dell’eroe risorgimentale, viene presentato un saggio di Giuseppe Salamone, psicologo, psicoterapeuta e formatore originario di Caselle in Pittari, ora funzionario addetto alla formazione permanente della Regione Friuli Venezia Giulia. Il titolo del libro è curioso: ”L’arte del cozzo”. Sulle prime ho pensato di avere letto male, e che la parola fosse un’altra. Poi ho letto il sottotitolo:”Divagazioni sul dibattito politico televisivo”, e un po’ mi sono tranquillizzato. Insomma, non si trattava di un’opera porno. Il cozzo in questione si riferisce ai litigi verbali di cui in Italia siamo campioni. Si tratta di un’opera in tre parti e sei capitoli i cui titoli (“La via italiana all’aggressione verbale”) dà al titolo principale una chiarezza finale. “Un tentativo di rendere intellegibili le confuse e violente battaglie che i nostri politici ingaggiano negli studi televisivi”, come si legge nel risvolto di copertina. Ma anche lì, siccome tali litigi vertono di fatto e in buona sostanza su una gara a dimostrare chi ce l’ha più lungo, ritorna il dubbio su quale sia il senso della parola “cozzo”.

Sia come sia, a presentarlo è la preside di una scuola locale che, con le classiche migliori intenzioni, commette nel suo intervento un doppio errore. Innanzitutto parla per quaranta minuti consecutivi, sfiancando la voglia di ascoltare del più volonteroso dei potenziali lettori. In secondo luogo dedica i quaranta minuti a ripetere, sotto infinite varianti, un solo concetto: quant’è bello e interessante questo libro. Nessuno dei circa sessanta presenti dà però il minimo segno di insofferenza: tutti immobili, rapiti e compiaciuti ad ascoltare. Poi qualcuno me ne fornirà chiave di spiegazione. Sono quasi tutti venuti appositamente da Caselle in Pittari, quindi paesani dell’autore. Insomma, una festa in famiglia. Ma probabilmente il libro conserva, a prescindere dalle amicizie di paese, un suo interesse, visto che per ben 150 pagine fitte spiega e argomenta il perché “in Italia domina un linguaggio che esercita violenza sulla realtà, la nasconde, la distorce, o le sovrappone una realtà del tutto immaginaria”. Il che mi sembra concettualmente in sintonia con quanto afferma nell’inserto culturale de Il

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Sole 24 Ore di ieri Nicola Lagioia, affermato scrittore quarantenne di Bari, che sostiene:” Solo chiamando le cose con il loro nome, solo guardando in faccia la Medusa, riuscendo ad opporvi lo specchio di una lingua che la racconti senza restarne pietrificati, sarà possibile trovarsi a un certo punto dall’altra parte del guado.” Cosa che, come mostra nel suo libro Giuseppe Salamone, non succede assolutamente nel dibattito politico televisivo.

Alle 21 decidiamo di cercare sul lungomare un ristorante dove, dopo avere provveduto alla mente, sia possibile nutrire e rifocillare anche il ventre.

Proprio di fronte uno all’altro, lungo la strada sul lungomare dalle nove in poi provvidenzialmente pedonalizzata, aprono due ristoranti opposti negli indirizzi e stili. Uno è lato mare, organizzato sopra una balconata in legno sotto bianche tende vaporose. Ai vostri piedi avete lo sciabordio dell’acqua, davanti il liquido ventre del Golfo. L’altro, aperto da poco, è di una impronta ultramoderna tale che potrebbe collocarsi benissimo anche a Manhattan. Ad accogliere i clienti, sul marciapiede antistante, quattro candidi ombrelloni con la corolla intenzionalmente e simpaticamente rivolta all’insù. A me ha ricordato l’immagine delle gonne di Marilyn Monroe maliziosamente sollevate da un forte vento. Il punto è che il menù proposto è a base di carne: ritorneremo in un’altra stagione, optiamo per il ristorante sul mare.

Scelta che si rivela ottima. La zuppa di pesce è buona, la signora americana che dirige e conduce - ha sposato un avvocato del luogo – si mostra efficiente e cortese. Trovare sul lungomare di Sapri ristoranti diretti da giovani ed efficienti donne americane: quale migliore segnale della dilagante globalizzazione? La musica in sottofondo è brasiliana, al punto che l’insieme, anche se è piuttosto azzardato paragonare il Golfo di Sapri all’Oceano Atlantico, a noi ha ricordato il lungomare di Aracaju, capitale del Sergipe, il più piccolo stato del Brasile ubicato a nord di Salvador de Bahia.

Alla fine della cena siamo attirati da cori e grida. Vengono dalla sottostante spiaggia, dove si è raccolta una squadra di giovani calciatori reduci da un torneo di calcetto. Hanno vinto, in pegno pagano la scommessa del tuffo notturno. Si spogliano rapidi e si infilano nudi nell’acqua buia del mare. Sono a vista del pubblico, sembra se ne compiacciano, perché iniziano una scherzosa e vociante sfida a inseguirsi correndo nell’acqua bassa per colpirsi sulle natiche con i costumi grondanti. Sarà anche un mio letterario vezzo, ma come non cogliere nella simpatica scena qualcosa di storicamente antico e mitologico? Achille, Patroclo e i loro compagni guerrieri che,

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reduci da una battaglia vittoriosa, lasciate le armi e gli scudi si concedono in acqua il meritato riposo…

Solo che, da queste parti, di battaglie vittoriose non ce ne sono mai state. Sbarcarono centocinquantaquattro anni fa Pisacane e i suoi trecento giovani e forti, e vennero presi a colpi di fucile, bastone e forcone. E, ahimé, non se ne salvò nessuno. Pino Aprile oggi sostiene che tutto il Risorgimento è stata una clamorosa truffa a danno della gente del Sud: massacrata, depredata, colonizzata. Certo che a massacrare allora i trecento giovani e forti furono i contadini poveri dell’epoca, fedeli ai borboni e guidati da preti reazionari come don Peluso e l’arciprete di Sanza. Ora viene ai trecento dedicata una commemorazione estiva molto condita di folclore e costumi d’epoca, molto turisticamente spettacolarizzata. Meglio di niente: però…

Io per i trecento di Pisacane avrei preferito un finale diverso. Magari un bel bagno nudi a mare come la squadra di ragazzotti tripudianti di questa sera. Ne avrebbero ricavato vantaggio la vita, la gioia e la libertà. E anche la vezzosa ed esultante giovinetta spigolatrice.

C’è comunque da dire che nel giro di qualche anno Sapri è significativamente cambiata: in qualità di immagine, ricchezza e varietà di servizi, cura e decoro dell’arredo urbano. Ci sono in sequenza sul lungomare e lungo le strade del centro storico bar, pizzerie, ristoranti, alberghi e negozi bene organizzati, bene gestiti, per tutte le tasche e i gusti.

Scuri di pelle, piuttosto bassi e tarchiati, apparentemente scontrosi e appartati, in realtà tenaci, intraprendenti ed evoluti. Gente tosta, i sapresi.

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Elogio del notturno camminare estivo

Otto chilometri di notte a piedi, sospesi tra la montagna e il mare. Il camminare così a lungo vi fa innanzitutto riscoprire il corpo, le sue parti, i muscoli, la gioia del ritmo elastico e prolungato, lo sforzo e la fatica dell’esercizio fisico, una circolazione più libera e rapida del sangue nelle arterie, un flusso maggiore di ossigeno ai polmoni e al cervello, un fluire di riflessioni, immagini, ricordi, pensieri, che lo stare seduto al chiuso addormenta e inibisce. Il farlo di notte (da mezzanotte alle due) su un tratto di strada (la statale 18 tra Sapri e Acquafredda di Maratea) praticamente priva di illuminazione pubblica, fuori quindi dall’inquinamento luminoso invasivo proprio degli agglomerati urbani, consente di sperimentare lo sguardo libero dalla schiavitù indotta da chi ti fa vedere solo ciò che lui vuole. Il cielo sopra la tua testa trapunto di scintillanti stelle, ad esempio, con lo sfarzo della Via Lattea che lo attraversa in tutta la sua lunghezza come scia di latte vaporoso. Stamattina poi, dopo un periodo di uggiosa papagna e quotidiane paturnie temporalesche, un maestrale vigoroso ha spazzato via ogni appiccicosa nebbia, restituendo all’aria una luminosità perfetta. Tutto è ora nitido nei suoi contorni e vestito a festa, contrasti, sfumature e colori sono esaltati. Il creato è come fosse illuminato non solo dall’alto e dall’esterno, ma anche da una sua misteriosa e irradiante luce interna.

Il mare del Golfo di Policastro e le montagne lucane che lo delimitano si prestano benissimo a valorizzarsi reciprocamente. Voi prendete con il vostro passo un ritmo insieme vigoroso e rilassato, e il movimento zigzagante nel suo lento salire vi regala mutamenti di prospettiva e visuale continui. Il brillare delle stelle in cielo, lo sfavillio delle luci dei centri abitati (Sapri e Villammare, Policastro e Scario) che incendia l’orlo del Golfo, si muovono e ruotano lentamente al vostro sguardo come visione di gigantesco caleidoscopio.

La notte è fresca, nel vostro andare vi accompagna soccorrevole la carezza di un venticello profumato, il transito di auto a questo orario è diradato: in due ore non più di dieci passaggi. Delle dieci vetture, due hanno vistosamente scartato nell’inquadrarmi con i loro fari. Vista la musica sparata e percussiva, trasportavano

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sicuramente giovani. Da una è partito uno strombazzare violento del clacson. Dall’altra, durante il passaggio, grida di scherno. Un anziano che inaspettatamente cammini la notte lontano dal centro abitato deve da alcuni essere considerata cosa oscena e folle. L’eroe di questi giovani deve essere Valentino Rossi, grande campione di rombanti motori.

Tutti i fattori, o quasi, sono comunque favorevoli alla scoperta di una dimensione antica e nello stesso tempo nuova e diversa: la dimensione della bellezza notturna di una scena dove trionfa la natura. Ed essendo la abituale preponderanza dell’artefatto costretta ai margini e in sordina, il corpo umano si espande e respira.

A un certo punto del percorso mi sono scoperto parlare ad alta voce da solo, abbandonarmi a esclamazioni e risate come un folle ilare e inoffensivo, in preda all’euforia che il ritmo elastico e bilanciato del passo mi liberava dentro. Stanotte ho avuto conferma di quanto il camminare a lungo con passo sostenuto, in un contesto propizio, sia beneficamente terapeutico.

Se mi passate il paragone: Nietzsche, che di chilometriche scarpinate se ne intendeva, nell’anno 1881 fece a piedi, in due giorni, il tratto da Vicenza a Recoaro (60 km!), dove sembra abbia trovato l'ispirazione per scrivere “Also sprach Zarathustra”. E perciò diceva che tutto quello che pensava e congetturava lo faceva camminando: tanto da sostenere che lui in realtà scriveva "con i piedi" o grazie ai piedi...

Qualcuno dirà: ma sei matto a camminare solo, di notte, al buio, lontano dai centri abitati, lungo un percorso che costeggia balze di montagna, dirupi e precipizi… In effetti, un qualche piccolo problema si pone, e vi mette a contatto con emozioni non sempre così gradevoli e piane. Ci sono, ad esempio e a un certo punto del percorso, un paio di piazzole sul ciglio a strapiombo sul mare conosciute in zona perché qualcuno disperato le ha scelte per superare di slancio il parapetto. E a un certo punto si incrocia sul muretto il mazzo di fiori deposto a ricordare l’incidente in moto che ha tolto la vita a un ragazzo. E a me che passo lì accanto nottetempo, viene per associazione da ricordare l’amico morto annegato in un lago di montagna, e tirato fuori dopo ore dalle acque livido e pietrificato. Qualche notte dopo, per sfida alla paura – perché il coraggio altro non è che paura della paura - , ho voluto farmi da solo a piedi il giro della strada attorno al lago. E dall’altra parte del paese, Molveno, c’erano ad attendermi inquietanti le luci pallide del cimitero.

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Finita la progressiva e lenta salita che da Sapri porta ad Acquafredda, al primo luogo abitato della Basilicata si arriva attraversando una galleria lunga centinaia di metri, E’ completamente buia, non più stelle sopra di noi, non più misteriosa immensità liquida a lato: si è all’improvviso sequestrati e chiusi nel ventre roccioso della montagna. Un guaio per chiunque soffra di claustrofobia, un tuffo al cuore che smuove emozioni e fantasie nere. Chiunque là dentro potrebbe tendere agguati da cui non ci si potrebbe difendere. In più, dall’alto della volta delle pareti, arrivano scrosci della caduta di acque partorite da cavità fonde. Una sinfonia di schiocchi e colpi che magari alla luce del giorno si definirebbero canterini, ma che al buio pesto suonano un po’ sinistri e lugubri. Ma ecco che si intravede il chiarore dell’uscita, e finalmente si approda sulla terrazza panoramica da cui si contempla l’immagine notturna della splendida Acquafredda sagomata lungo la riva dalle luci degli alberghi. In alto, all’inizio dei balzi della roccia, ecco la silhouette illuminata della statua della madonnina. Al centro, la striscia di case raggrumate lungo la statale come gregge mansueto di pecore allo stabbio. In basso, la massa vasta, fremente e liquida del mare, nostra anima.

Dopo gli otto chilometri di camminata, addormentandovi alle tre, non vi aspettate di risvegliarvi prima delle dodici. Ma vi garantisco che nel sonno vi verranno a trovare in lieta sarabanda sogni di tutti i generi, legati al vostro oggi, ieri e l’altro ieri. E sarà come continuare le emozioni della passeggiata in un’altra lisergica esperienza onirica.

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Una serata al Porto di Maratea

Una serata al Porto è istruttiva. Intanto, e innanzitutto, fa scoprire che la bella piazzetta circolare a perpendicolo sul mare non è più totalmente disponibile e di libero accesso al pubblico come negli anni scorsi, quando era spesso adibita a spazio espositivo per mostre d’arte o a luogo riservato alla presentazione di libri. Ora è stata trasformata in succursale e appendice funzionale al contiguo ristorante. Ci mangiano intorno a tavolini e sotto gli ombrelloni decine di clienti. Ma quello non era spazio di proprietà del Demanio, quindi di tutti? Certo, ma basta pagare che diventa esclusivo e funzionale a vantaggio di qualcuno. Il Comune avrebbe potuto opporsi – mi spiega paziente il proprietario del ristorante –, aveva potere e diritto di destinare, così come negli anni passati, quello spazio privilegiato a usi pubblici. Non l’ha fatto, la piazzetta è stata fittata e quindi di fatto privatizzata. E non siete curiosi di sapere dove ha sede l’Ente del Demanio Pubblico? Prima era a Pizzo Calabro, adesso a Matera. Ditemi voi cosa c’entra con il Porto di Maratea… Burocratica e illogica follia. Si direbbe un ennesimo episodio di appropriazione a uso privato di un bene pubblico, così come, ahimé, in giro accade per tratti di costa e letti di torrenti. Tutto a norma e in regola, senza ombra di dubbio. La gente deve pure campà. Berlusconismo puro.

Poi l’amico ristoratore guarda l’orizzonte preoccupato per il balenare di qualche lampo. “Speriamo che non arrivi il temporale. Per noi, una serata persa in agosto non è che la si può recuperare a settembre: è come perdere l’incasso di una settimana normale.”

Io mi siedo a un tavolino, ho fame e quindi mangio. Alla mia destra c’è un gruppo formato da tre giovani coppie tranquille: se a turno non telefonassero per annunciare ad amici e parenti: “Siamo in un ristorante al Porto di Maratea, stiamo mangiando un’ottima fragaglia. Peggio per voi che non ci siete…”, e giù grasse risate. Alla decima telefonata uno un po’ si incazza.

Al tavolo alla mia sinistra c’è un secondo gruppo un po’ particolare. Due padri, forse fratelli, con cinque figli ragazzini. Due femmine di dodici, tredici anni, tre maschietti

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sugli otto/dieci. Donne adulte, le mamme, intorno non si vedono. Saranno a fare dieta, o shopping, o insieme dieta e shopping. Il gruppo è particolare, ne seguo le dinamiche incuriosito. Dei due maschi adulti, fratelli o meno che siano, chi comanda è vistosamente uno, quello con un vezzoso cappelluccio di paglia in testa, occhialoni bianchi alla Lina Wertmuller sulla punta del naso, pizzetto alla Italo Balbo. E’ lui che parla e decide per tutti, rimbrotta le ragazzine per quello che vorrebbero o non dovrebbero mangiare, urla ai maschietti di pulirsi le labbra dopo ogni forchettata di pastasciutta. A uno in particolare, il più piccolo, ordina perentorio ogni tre secondi di alzarsi da tavola, di avvicinarsi per pulirgli con il tovagliolo direttamente la bocca. Una tortura e uno strazio. Lo so, me ne vergogno, non dovrei dirlo, ma in presenza di questa grossolana pantomima del dispotismo patriarcale in azione mi sono visto alzare di scatto il braccio e puntargli contro una fantasmatica pistola. A me le esibizioni pubbliche dei padri padroni non piacciono, hanno il potere di indurmi alla puerile fantasia del giustiziere.

Dopo cena, salutato il proprietario del ristorante, che ci tiene a precisare che paga molto più di fitto al Comune per i tavolini posti sulla strada che non il Demanio per quelli posti sulla piazzetta, me ne vado a bere una caipirinha a un bar sulla piazza centrale del Porto. E lì, dopo un po’ che mi osservo intorno, mi rendo definitivamente conto che il Porto di Maratea, la sera, è sì uno spazio tutto sommato tranquillo, gradevole e ben curato, ma anche che in buona sostanza è il risultato della somma di un centinaio di auto parcheggiate tutto intorno, un secondo centinaio di barche a mollo in acqua, un terzo centinaio di sedie disposte fitte sulla piazza: un ritrovo con offerta di bar e ristoranti dove convergono in auto e barca centinaia di persone. Null’altro.

Così mare e paesaggio sono bell’e andati. Quindi, sulla passeggiata lungo il mare, sulle panchine e negli angoli in penombra, il Porto dopo mezzanotte diventa approdo di uno sciame di giovani dai quindici ai trent’anni che pure loro in qualche posto hanno pure diritto di andare. Fumano buttando a terra le cicche, bevono birra direttamente dalle bottiglie che acquistano al vicino bazar, e l’immagine che danno non è così gradevole. Anche se si baciano continuamente sfiorandosi ritualmente zigomi contro zigomi e riprendendosi reciprocamente con video e foto manco fossero Lele Mora, Belen e Corona. Capi firmati, birra e sigarette a gogò, esaltazione della propria immagine come vetrina narcisistica, questo è quanto apparentemente i venti/trentenni propongono, si scambiano e trasmettono. Direi non molto, da indurre a un pensiero: ma un progetto serio, un bisogno forte, una passione vera, una collera e una incazzatura, una voce che assomigli a un ruggito e non a un belato tra una leccata

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e l’altra di gelato, da qualche parte i venti/trentenni di oggi ce l’avranno? Intanto i loro coetanei indigeni, pallidi, camicia bianca e aria tirata, corrono silenziosi tra i tavoli a servirli, e a me sembrano tra i giovani presenti gli unici autentici e veri.

P.S.: Arriva la notizia del mandato di arresto per associazione a delinquere a carico del capo Ufficio Tecnico del Comune di Maratea.Vuoi vedere che il mio libretto sul dilagare degli abusi edilizi negli ultimi anni ha un qualche oggettivo riscontro? O si tratterà sempre dell’opera delle famigerate “toghe rosse”, o delle regole che erano troppo strette, e che in qualche modo, per campare, andavano allargate?

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Una serata a Scario

Arrivate a Scario a sera inoltrata di uno dei primi giorni di agosto. Parcheggiate la macchina, vi avviate sul lungomare verso il ristorante che vi hanno consigliato. Sono le dieci di sera, al ristorante non c’è letteralmente nessuno. Pensate a qualche complicazione imprevista: il cameriere vi conferma che è tutto a posto. I clienti ospitati nell’arco della serata sono stati cinque, voi siete il sesto. La cosa che impressiona è che il ristorante, una piattaforma in legno sul pelo dell’acqua lungo la passeggiata verso il faro, regala una vera e propria esperienza mistica.

Siete sotto il livello della strada, a quell’ora pedonalizzata, a contatto diretto con lo sciabordio delle onde di un’acqua trasparente e limpida. Il golfo di Policastro è a portata di naso e di sguardo nella sua interezza. Dritto davanti a voi appare il profilo di Maratea. Alla vostra sinistra brillano le luci di Policastro e Capitello, di Villammare e Sapri, e, dopo Acquafredda, Cersuta e Maratea, ecco distinguersi perfettamente Tortora e Praia, Scalea e ancora più giù Diamante, nella profonda Calabria. Uno sciame di luci disposte ad arco sul mare a formare una fantasmagorica collana.

Siete fuori dal mondo vociante e trafficato, sul bordo di una marina totale. Dal porto esce brillante una scia di luci. Sono barche che partono per la pesca notturna. Scivolano ondulando che sembrano enormi lucciole, una più bianca e forte a prua, l’altra dietro più piccola e azzurra. Nel buio della notte, gli scafi delle barche invisibili, le luci vaganti appaiono sospese nel vuoto, misteriose e a sé stanti. Sembrano luminose anime migranti.

Ve ne state in contemplazione beato: e siete solo. Qualcuno dei camerieri avrà la lebbra? Il cibo servito sarà condito al cianuro? Macché, è tutto perfetto e all’altezza. I camerieri sono ragazzi di Sala Consilina, studiano architettura a Napoli, sognano di andarsene a vivere e lavorare a Berlino. Qui – bisbigliano guardandosi intorno costernati – qui per i giovani non c’è futuro. Sono svegli, hanno lo sguardo tra il dolce e il furbo e portano l’orecchino. E il cibo servito è veramente buono. E allora,

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perché questo deserto? Il proprietario, quarantacinquenne ingegnere di Scario rientrato da Firenze dopo un periodo di lavoro, mi racconta che quel ristorante a pelo dell’acqua è stato il suo sogno fin da bambino. Ora c’è riuscito, ha lasciato la professione e il mondo dell’impresa, ha combattuto contro il pregiudizio e l’ostilità di parte dei paesani, e alla fine ce l’ha fatta, ha aperto. Ma ora, in agosto, i clienti si contano sulle dita di una mano. La crisi? Sicuramente anche. Ma pure un pubblico dell’hinterland napoletano di bocca buona e grana grossa che ancora ad apprezzare non è stato educato. “Nella piazza davanti alla chiesa, dall’altra parte della passeggiata – mi spiega l’amico ex ingegnere e neo ristoratore – hanno aperto una paninoteca con tovaglie ai tavoli di carta e sedie di plastica: un obbrobrio. E’ sempre piena, così come le gelaterie. Ma la gente che in questo posto magico arriva non è capace di cogliere – anzi sembra proprio farsene intimidire – la gioia di una possibile esperienza mistica”. E io che l’ho sperimentata, posso confermarlo.

Poi faccio una passeggiata sullo splendido lungomare fin sotto la chiesa. E devo confessare di essermi imbattuto, forse perché ancora sotto l’influenza della precedente esperienza mistica, in una quantità spropositata di gente ai miei occhi mostruosamente brutta. Certe famiglie di obesi dal nonno al nipotino, certe ragazze da abbracciare piangendo per il degrado deprimente del loro corpo. Ne ho vista una incongruamente vestita stile far west che forse arrivava, capelli vaporosi inclusi, ai centocinquanta centimetri, ma solo perché poteva contare sui venti aggiuntivi dei tacchi. Deve essere che i tempi brutti rendono gli umani particolarmente depressi e brocchi. O forse sono solo i miei occhi.

Oltrepassato il campanile della chiesa, delizioso nella silhouette slanciata e dall’interno illuminata, sono arrivato alla fine della passeggiata. E lì mi sono imbattuto in una copia, appoggiata su una base di roccia, della statua del ragazzetto di Vincenzo Gemito, quello che sospeso acrobaticamente si torce a guardarsi sotto il piede dove si è conficcata una spina. E il corpo del ragazzetto che sgorga dal buio è di una tale grazia, nella sua postura ingenuamente maliziosa, da indurre al pensiero che Scario sia riassuntivamente così molto bene rappresentata: l’esperienza mistica goduta al ristorante all’altro capo della passeggiata sul pelo dell’acqua, le gigantesche lucciole bicolori a volteggiare sul mare, il campanile con la punta aguzza e illuminata da fiaba, la statua del ragazzetto di Gemito che provoca e alimenta intimamente, in condivisione estetico/estatica, anche il vostro.

Questa è stata, della serata a Scario, la meraviglia. Tutto il resto, credetemi, è paccottiglia.

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Globalizzazione e crisi

Ilicini

Sono ucraino. Vengo da Kiev. Ho venticinque anni. Sono in Italia, e lavoro qui a Maratea, da tre. Mia madre è venuta in Italia, esattamente a Mormanno, in Calabria, otto anni fa. E’ venuta a fare la badante grazie a un’amica che ci lavorava già. Lì ha conosciuto un uomo di cinquanta anni, un sindacalista che aveva lavorato per trenta anni in Belgio. Oggi è pensionato, ma quello che prende di pensione non basta a mandare avanti la famiglia. Hanno due bambini, di sei e otto anni. Mia madre tre anni fa mi ha chiamato per darle una mano, io lavoro per sei mesi qui agli Ilicini. Faccio il bagnino alla piscina, mi occupo della manutenzione del verde e del giardinaggio. Mi trattano bene, mi pagano il giusto, sono assicurato. A Kiev ho fatto la scuola tecnica fino a sedici anni, poi ho seguito un corso di informatica e uno per fisioterapista. Ora, la sera, dopo il mio lavoro agli Ilicini, vado ad aggiustare qualche computer a chi me lo chiede, oppure faccio un massaggio a chi ne ha bisogno. Cosa farei di mestiere se dipendesse da me? L’informatico. Mi piace troppo, è quello che rende di più, e prima o dopo ci riuscirò.

A Kiev, prima di venire in Italia, lavoravo come muratore con una impresa di costruzioni francese. Mi sono arrampicato per due anni come una scimmia su ponteggi alti anche cinquanta metri. Quest’anno qui, come vedi, c’è poca gente. Siamo a metà agosto ed è come essere agli inizi di luglio. Non è che in giro la gente non ci sia, è che non spende. Un po’ perché non ha denaro, un po’ perché ha paura di restarne senza. La sera, al panificio Coccidorio di Maratea, vedo io le persone che comprano una grande pizza, se la fanno tagliare in otto pezzi e se la portano a casa. Anch’io qualche volta lo faccio. Mia madre ora abita a Laino Castello, sopra Lauria: ai bambini piace se mi vedono arrivare con un bel pezzo di pizza.

Con la crisi, io mi trovo bene ad avere imparato diversi mestieri. Quando c’è crisi, e il lavoro è scarso, bisogna essere flessibili, adattarsi a fare di tutto. A settembre, finita qui la stagione estiva e il mio turno di lavoro, partirò per il Lussemburgo. La mia

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vecchia ditta di costruzioni francese mi ha chiesto di lavorare in un cantiere che hanno aperto là. Mi faranno responsabile di una squadra, di me si fidano. Io mi trovo bene a fare di tutto, dappertutto. Se sono fidanzato? No, non ho una ragazza fissa. Dove lavoro, dove mi trovo, trovo anche una ragazza. Anche in questo sono flessibile, mi adatto. Che ci vuoi fare, fratello: è la globalizzazione.

Litrico’s

La sera, dopo le dieci e mezzo, passeggio lungo il borgo di Fiumicello, sbocco a mare principe di Maratea. Al campetto di calcio ragazzotti giocano con grande entusiasmo. A moltiplicare i loro sforzi un gruppo di ragazze li incita dalla tribunetta d’onore. Nel grande spazio-giochi bambini strillano felici su macchinette e trenini. Il bar Sambacco, al contrario, è completamente vuoto. Da anni continua ad essere così, come sotto la cappa di una sortilegio maligno. Arrivo passeggiando fino all’ingresso dell’ex Collegio Scuola ed ex Colonia estiva. Negli anni Ottanta, in questa stagione ospitava per le vacanze anche trecento bambini figli di lucani emigrati nei Paesi europei. Ora è un altro ennesimo luogo cospicuo pressoché inutilizzato e vuoto di questo territorio. Soltanto la palazzina centrale, quella che ospitava gli uffici, è adibita a caserma per i cinque carabinieri. L’edificio della scuola media, subito sopra, d’estate animato di vita perché adibito ad arena cinematografica, ora ospita la locale Protezione civile.

Risalgo la strada verso il centro. Le piogge invernali sono state abbondanti, vegetazione e natura sono splendide. Le ville lungo i bordi della strada occhieggiano discrete e ben tenute. Il fiumicello che taglia in due il paese canta di acque abbondanti e argentine. Anche El Sol, vecchia e storica pizzeria, ha metà dei tavoli vuoti. Torno al corso principale, entro al negozio di abbigliamento Moda&Mare, acquisto una camicia in lino di un magnifico colore bianco. Sono l’unico cliente, temo dell’intera serata. Il proprietario mi annuncia magnanimo lo sconto del 30%.

Decido di sedermi a un tavolo - giusto di fronte al Santavenere, cinque stelle lusso - del ristorante Litrico’s: così chiamato, mi spiega il ragazzo cameriere prontamente accorso, in onore dello stilista che lì ha abitato. Il ragazzo cameriere è un diciassettenne della frazione di Santa Caterina, su in montagna, che mi confida, dopo qualche mia battuta per infondergli confidenza e fiducia, di non vedere l’ora di trasferirsi a Roma: lì sì che ci si diverte in discoteca! Mi precisa che il ristorante è aperto dal 2001, sono le undici di sera, dei trenta tavoli finora ne sono stati utilizzati

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appena un terzo. E questa ho l’impressione sia la percentuale media diffusa – escluso Cesarino a Cersuta e don Peppe ad Acquafredda – di utilizzo della recettività totale, in alberghi e ristoranti: e siamo il 12 agosto! Un disastro. L’altra sera, in compenso, Sapri era stracolma di presenze. Così mi dico di Praia. Ma lì la proposta commerciale è indirizzata a tutti i possibili target ,ad ampio raggio e a un prezzo medio basso. A Maratea l’offerta di servizi è piuttosto ristretta, e a un prezzo medio piuttosto elevato. In periodo di crisi, se non sai conquistare i ricchi, i meno ricchi e i semipoveri si guardano bene dall’avvicinarsi. Preferiscono Praia e Sapri.

Il mio amico diciassettenne cameriere di Santa Caterina si informa sulle occasioni di lavoro a Roma. Dice: ma si possono trovare in affitto monolocali a trecento euro al mese? Io non ce la faccio più a lavorare qui per poche persone fino alle sei del mattino (si sono inventati per fare cassa anche i cornetti caldi lungo l’intera notte!). E a stare in una frazione di cinquanta abitanti, dove in più si è tutti parenti. Dove da ottobre a marzo dell’anno dopo si muore. Non è per caso che mi potresti trovare un lavoro a Roma?

Uscendo dal ristorante, ho adocchiato da una finestra lo chef che si intratteneva con qualche gioco sul computer, e due cameriere che parlottavano fitte in un angolo del giardino al cellulare. Quando il lavoro manca, in qualche modo il tempo bisogna pure farlo passare.

Oggi ho avuto in regalo l’incontro con un venticinquenne ucraino di Kiev che abita a Laino Castello, tra la Basilicata e la Calabria. E con un diciassettenne di Santa Caterina avido di vita. Sono usciti in rilievo e sbalzo dal brusio anonimo e indistinto del contesto. Mi hanno parlato di sé, del loro mondo e lavoro. Io non ho fatto che ascoltarli curioso, li ho accolti e ve li ho riproposti. Forse anche oggi non è stata una giornata trascorsa del tutto invano.

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Ilicini

Il bosco di lecci che lambisce il mare;

l’isola che si leva orgogliosa;

la piscina colma e cristallina;

la curva sotto il ventre di un ragazzo

che preme smaniosa;

i piedi sospesi in aria di un altro

immerso testa sotto e gambe dritte

come una tavola di Magritte -

e Marco, riccioli neri sul mediterraneo viso,

che a tavola serve la timidezza del suo sorriso.

Accanto, diritto su un lettino,

un bimbo di tre anni,

levati lestamente i panni,

zampilla altissima pipì

esente da malanni.

La giornata trascorre calma

insieme a due donne amiche

amabilmente conversando

di cose nuove e antiche.

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Ilicini: un mare di armonia,

antiche divinità greche,

fragranze in un intreccio di magia,

lecci ombrosi, elfi ragazzini.

Generi. Femminile e maschile.

La mattina esco di casa, e giusto di fronte alla mia porta incrocio tre cospicue figure femminili che stazionano permanentemente sul terrazzo di casa loro: nonna di ottanta, figlia di sessanta, nipotina di sei. La madre della bambina lavora: altrimenti, a presidiare, le donne sarebbero perennemente in quattro. Sono tutte, su scala diversa, una corpulenta copia conforme dell’altra, e si muovono dondolando in sintonia e replica. Non c’è modo di evitarle: sono lì inamovibili a controllare. Ciao, buon giorno, dove vai? Ciao, buonasera, da dove vieni? E’ una sorta di dazio e dogana: devi raccontare, spiegare, precisare. Non puoi evitare, non puoi sottrarti, non puoi saltare pegno o turno. Stanno lì come le parche comari di tre generazioni diverse a tessere il loro filo. Tu sei la mosca caduta nella ragnatela, loro fameliche ti annusano, ti insalivano e mangiano. Dopo il rito, mentre ogni volta prosegui miracolosamente indenne e sopravvissuto, ascolti la bimbetta che, senza filtri né freni, dice esplicita quello che nonna e bisnonna sottovoce bisbigliano: dov’è sua moglie? Quando arriva? Chi sono gli amici che lo vanno a trovare? Perché non lavora? Ma che cosa scriverà quando passa ore a pigiare i tasti del computer? Di cosa campa?

Cento metri più sotto incontro una seconda signora: questa in fatto di curiosità è indagatrice ancora più agguerrita. Tua moglie dov’è, cosa fa? E tuo figlio, a che punto sta dell’università? E tua figlia in Francia, che combina? E i nipotini? E tu dove stai andando? A fare cosa? Perché? Ti invita smaniosa a casa sua a bere un caffè: guai a te se l’accetti, sei perduto! Dipendesse da lei, ne avesse il potere, pur di spolparti e delibarti ti sequestrerebbe. Il marito, oramai fuso e fuori uso, sta a dormire a bocca aperta sulla sdraio. Da tempo non è più in grado di soddisfare alcuna curiosità, di dare informazione degna. E ha così trovato anche il modo risolutivo per sottrarsi alle indagini ispettive della moglie. Qui c’è un vuoto di novità atavico: le donne, sbrigate le loro faccende, essendo la giornata estiva lunga, la riempiono con fatti, veri o presunti – meglio se presunti -, altrui. I maschi hanno rinunciato a pensare, immaginare, pretendere di conoscere e sapere. Si limitano a “fatià pe’

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ccampà”. Chi è curioso, chi parla e indaga, chi vuol conoscere e capire, non è affidabile e serio – non è, appunto, uomo.

Finita la discesa, al suo innesto con la statale che attraversa il paese, c’è la bottega di alimentari. Devo per forza entrare, è anche il posto dove vendono i giornali. La bottegaia, vecchia conoscenza, si accorge che sto arrivando - io sto in piena luce, lei sta dentro in penombra - mentre sono ancora sulla strada. E appena mi individua, subito comincia a gridare: “Marchesì, so’ ore queste? Non potevi alzarti prima?” Dentro la sua bottega ci sono persone sconosciute: il processo e l’invettiva, per quanto scherzosi, non sono così gradevoli.

Poi proseguo verso il mare, e mi trovo per forza a passare davanti all’unico bar situato lungo il percorso. Lì, alla cassa, giusto sul limitare della porta, c’è la signora proprietaria che inesorabile mi adocchia e subito, un po’ canzonatoria, grida e saluta: “ciao Gianchi! Vai a piedi perché non hai i soldi per la benzina?” Il nuovo sputtanamento pubblico della mia vita privata non è male, ma io resisto e per la mia strada paziente proseguo.

La vera mazzata arriva però in spiaggia, quando, dopo avere reso omaggio alle altre signore in bella posa sulla soglia della loro casa, o in migliore vista sopra terrazzini e balconi, approdo finalmente alla terrazza dell’albergo di cui godo i servizi. Mi siedo al consueto tavolino e subito arriva la manager proprietaria, amichevolmente orientata – o sarò io che inconsciamente mi presto? – a farmi il rapporto della giornata: dalle imprese alle prodezze, dai problemi ai risultati delle soluzioni, in una narrazione sempre nuova, diversa ed epica. Dopo di che, richiamata la nostra protagonista da qualche altra impellente incombenza, si avvicina un cameriere maschio, che affettuosamente, come un’ultima protettiva femmina rimasta sulla faccia della terra, mi offre il caffè, mi sorride come viola mammola, mi riconcilia con l’antico rassicurante linguaggio della materna dolcezza.

Il primo che mi viene a sostenere che il campo degli umani è nettamente diviso, di qui i maschi e di là le femmine, giuro che lo uccido.

Osservavo due giovani trentenni tra loro fidanzati - a questo punto è bene precisare: maschio e femmina - che nel tardo pomeriggio di ieri facevano lungo la strada jogging. Alti, slanciati e longilinei, ugualmente ricoperti di maglietta bianca e pantaloncini blu, capello corto e passo cadenzato atletico, sembravano, appaiati, due dioscuri indistinguibili. Si scambiavano ogni tanto una battuta sul lavoro professionale che svolgono insieme. Lo stesso tipo di voce trattenuto, coltivato e

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impostato, da giovani superefficienti in carriera. Da una massima differenza e divaricazione dovuta a una necessaria specializzazione, siamo forse entrati in una fase di convergenza verso una finalmente possibile e sostanzialmente univoca integrazione monosessuale? Andiamo verso l’affermarsi e il prevalere di una creatura androgina unica?

Poi, stasera, al campo di calcio della canonica, ho assistito a una festa di musica con scatenata taranta, e ho avuto un ripasso folgorante di come le ragazze e le giovani donne ballino: elastiche, plastiche, sinuose, ondeggianti e rimbalzanti che solo chi è configurato in un certo modo può. E in più così ricche di energie esplosive, nella loro danzante e beata estasi infinita, che noi maschietti a confronto siamo semplicemente nati stanchi e mosci. Le giovani donne che ballano esprimono una potenza da centrale atomica, una grazia corporale e una ricchezza di movenze e posture da lasciare ogni volta a bocca aperta. Insomma, per dire che ancora qualche differenza c’è.

Le neo mamme, dentro il più vasto e caloroso liquido amniotico estivo della larga comunità di paese, sono poi uno spettacolo a parte. Ricevono i baci e gli omaggi come regine al cospetto dei loro genuflessi sudditi. La maternità e i figli qui sono ancora non un carico economico e un fastidio, ma una benedizione, una ricchezza e una festa.

E i ragazzi maschi? Efficienti, scoppiettanti e allegri, esibendo la loro maglietta blu con sopra stampato in giallo un vistoso Staff, si sono prodigati dal mattino presto a notte fonda per organizzare al meglio tutto: e gratis. E’ stata la festa dei bambini, dei ragazzi, dei giovani e delle donne: niente parole importanti e solenni, niente discorsi problematici, ma musica, canti e balli, birra e bibite e panini alla porchetta, risate, battute, code disciplinate alle casse, abbracci e pacche sulle spalle. Lo sgangheramento politico-morale del Paese c’è, fragoroso e doloroso, ma alla base, nel tessuto sociale diffuso delle comunità, dove sono sorti comitati e associazioni che hanno a cuore democrazia e solidarietà, giustizia, autogoverno e libertà, cura e rispetto della storia e bellezza dei luoghi e della natura, ancora la polis buona funziona.

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Attraversamenti

L’attraversamento in macchina di Scalea, la notte della vigilia di ferragosto, è esperienza mortifera estrema. Si procede per oltre mezz’ora incolonnati in uno dei due sensi di marcia a una lentezza tale che si arriverebbe prima dall’altra parte a piedi.

Ai lati della strada , in sterminata transumanza, cammina stancamente incolonnata una umanità vacanziera disastrata. Famiglie con nonni e nipotini, coppie, gruppi di ragazze e ragazzi, si muovono a contatto con una esposizione continua di paccottiglia varia, o di verande di bar, pub, alberghi e pizzerie da cui partono a pieno volume ritmi e ritornelli delle canzonette sceme di stagione. Piazze e spiazzi si aprono all’improvviso come caravanserragli zeppi di giostre da cui saettano lampi di luci e suoni e rumori in cacofonia tale da far pensare a un girone infernale.

Nei punti del percorso liberi da bancarelle e giostre, seduti su muretti o sdraiati boccheggianti su panchine, gli umani in vacanza ristagnano con espressioni attonite a contemplare le colonne di macchine che procedono millimetro su millimetro, inalando i gas di scarico con l’espressione ebete di chi assume dosi industriali di anestetico. Dettaglio inquietante, la presenza di bambini di pochi mesi dormienti in passeggino. Molti non danno segni di vita: saranno ancora vivi?

Dal costone di una collina, dentro una fitta querceta, si alzano lingue di fuoco e colonne di fumo bituminoso. Qualcuno ha scelto il posto peggiore per bruciare il materiale sbagliato, sicuramente copertoni di auto. L’odore atroce di espande rapido a saturare narici e gola.

A volte succede che il flusso di avanzamento millimetrico del traffico si blocchi, e il più delle volte si scopre che si è trattato di qualcuno che, incontrato il compare che procede in macchina in senso opposto, si è fermato per abbracciare l’amico e

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aggiornarlo su importantissime personali e private notizie. Quant’è vero che tra la gente del Sud domina il sentimento..!

A metà esatta dell’interminabile attraversamento, all’altezza dell’antico Castello che si affaccia sul mare, grappoli di semafori dovrebbero disciplinare il traffico a un incrocio cui confluiscono sei strade. I semafori sono ovviamente spenti, assente qualsiasi traccia di vigili o forse dell’ordine (il lapsus non è casuale: a questo punto si tratta più di “forse” che di “forze”…). Il traffico si arrangia e sgroviglia comunque alla brava. E’ il 14 agosto notte: volete mai che qualcuno sia in pubblico servizio?

Dagli umani che procedono sui marciapiedi a ranghi compatti e semoventi, da gole e ventri spesso ridondanti e obesi arrivano scoppi gutturali e tronchi di frasi in lingua napoletana (guai a dire dialetto, ci mancherebbe). Scalea d’estate è diventata, con acme caotico in agosto, una propaggine periferica dei popolosi quartieri storici e della provincia napoletana. Ma di che ti lamenti? osserva ironico un amico: ti dici democratico e comunitario: forse che il popolo povero non ha diritto alle vacanze? Qui trovano in affitto case e spiagge libere e pizze e birra a buon mercato. Pretenderesti forse di tenerlo ad agosto rinchiuso ad Afragola o nel Rione Sanità? In effetti l’argomento non è così inconsistente o arbitrario. Non sarò mica diventato un fottutissimo aristocratico elitario?

Poi alzo gli occhi alle colline sopra Scalea e verso Praia, e vedo le spettrali colate cementizie di villette a schiera a sprezzo di ogni regola abitativa, criterio estetico, vincolo urbanistico. E mi chiedo come non si possa sperare che certe esigenze e aspettative vengano accolte e fatte proprie, in fatto di comportamenti e stili di vita, tendenzialmente dall’intero popolo delle genti ampie.

Il passaggio dalla Calabria alla Basilicata, superata Tortora, è subito evidente. Scompaiono colate di cemento, fantasmagoria di colori e chiasso, puzze, rombo di motori e abominevoli fetori. Cambiato pianeta e universo, si entra sotto un cono di quiete e ombra. E proprio vero, tanto i campani e i calabri sono clamorosamente estroversi, quanto i lucani sono riservati e sobri. L’Italia è davvero caoticamente complicata: servirebbe una capacità di sintesi più equilibrata e armonica.

Mi dicono che da tempo esista un progetto di superstrada che eviterebbe, così come già realizzato per Praia, l’attraversamento di Scalea. Si opporrebbero i proprietari dei terreni su cui la strada dovrebbe sorgere. Ma volete che si possa facilmente rinunciare all’esperienza di un collettivo rito di barbarico degrado, alla mescolanza di corpi e lamiere roventi, fumi tossici e plastiche, puzzo di fritto e luminarie spastiche, in un

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sabba da film horror violento che evidentemente emana un suo appeal erotico alla Cronenberg o Dario Argento?

Venite, venite a Ferragosto a fare l’esperienza infernale dell’attraversamento di Scalea… Io, qui, se fossi chi ha autorità e comando, organizzerei una bella Love Parade, qualcosa a metà strada tra la napoletana baldoria, il carnevale carioca e una collettiva carneficina. Insomma: l’apoteosi della concezione di vita berluschina.

Come Calvino, nel suo Le città invisibili, avrebbe definito Scalea e Maratea? Forse la prima Ribollente Stige, la seconda Luminosa nella Penombra.

I critici furiosi della Mala Unità

A proposito di idee che circolano sul Risorgimento e l’Unità d’Italia, definita senza mezzi termini Mala Unità, ovvero forma di un dominio perseguito e perpetrato dal capitalismo di un Nord colonialista espropriatore ai danni di un Sud sfruttato come mano d’opera a basso prezzo e mercato per il consumo.

Garibaldi e Cavour? Agenti dell’imperialismo annessionistico dei piemontesi.

Il brigante Carmine Crocco? Un piccolo Che Guevara della guerra di guerriglia lucana.

Martiri del Risorgimento come Costabile Carducci e Carlo Pisacane? Utili idioti funzionali al disegno della Mala Unità.

L’esercito piemontese? Una masnada di stupratori di donne e sterminatori di un milione di poveri e indifesi contadini del Sud.

Un milione di meridionali sterminati in dieci anni dalle truppe sabaude: centomila l’anno, diecimila al mese, trecento al giorno. Una carneficina che manco in Vietnam e in Iraq. Ma dove avrà preso questi dati Pino Aprile (Terroni – Piemme editore) ?

Roberto Saviano? Aberrante perché legge il mondo attraverso il filtro unico ed esclusivo delle imprese di mafia e camorra, mentre esse non sono altro che il braccio armato della borghesia capitalista. Imprese sane distinte dalle imprese della camorra? Tutte uguali, tanto sempre imprese capitalistiche sono. (Questa è di Giovanni Pagano, letta su internet nel blog del gruppo politico napoletano Insurgencia)

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Quindi: Ambrosoli, Falcone e Borsellino, e le decine di magistrati, poliziotti e giornalisti morti ammazzati perché cocciutamente onesti? Idealisti imbecilli che non hanno capito nulla.

Circolano su libri e blog schemi di lettura degli italici fatti storici che ripudiano in toto il binomio modernità-arretratezza, o legalità e illegalità, o faticosa ma necessaria unità e divisione e separatezza, e propongono invece come solo pertinente il binomio egemonia-subalternità. La realtà dei rapporti sociali sarebbe determinata esclusivamente dallo Spirito di Potenza. C’è chi comanda e chi ubbidisce. Sarebbe quindi efficacemente operante solo la materiale brutalità dei rapporti di forza: tutto il resto? Cascami, romanticherie, quisquilie. Ma non è esattamente questo lo schema tipico di mafia, ‘ndrangheta e camorra?

Ah – si vagheggia - come sarebbe stato più bello e giusto se, esistendo materialmente i presupposti di vantaggio e forza, il Sud avesse imposto la propria egemonia al Nord… Ma se tutto questo nei fatti non è successo, sarà dipeso da qualche errore commesso dai briganti nella loro guerra di guerriglia? Aderiremo all’immagine di un nobile ed economicamente evoluto Regno delle Due Sicilie saccheggiato e colonizzato dall’ imperialistico duo Lombardia/Piemonte?

E ancora: la borghesia napoletana è dimissionaria e traditrice perché non accetta il dialetto napoletano come autentica e genuina lingua espressiva. Come se per correre più velocemente bastasse dire: i!

E infine: il popolo meridionale è stato ingiustamente e sprezzantemente definito plebe, quando invece è colmo di qualità e bontà, pregi e virtù.

Ma questi teorici e critici della Mala Unità, nella gloriosa e tragica Napoli del 1799 non sarebbero stati dalla parte della plebe che tifava per il cardinale Ruffo, e non avrebbero impiccato Eleonora Pimentel, e con lei la parte migliore della nascente rivoluzionaria borghesia napoletana?

E tra Costabile Carducci e Carlo Pisacane, e i contadini guidati da preti borbonici di Sapri e Sanza che li hanno assaliti e trucidati, avrebbe scelto i primi o i secondi?

Poi, per ritagliarsi una identità più limpidamente sovversiva, i nostri entusiasti neo borboni non esitano a mandare al diavolo quel poco di buono fatto in questo Paese da una componente progressista della borghesia (i Fortunato e i Nitti, i Marzotto e i Rossi, i Matteotti e i Di Vittorio, gli Olivetti e i Mattei, i Ruffolo e i Giolitti, i Moro e i Berlinguer – e, appunto, gli Ambrosoli, i Falcone e i Borsellino).

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Pure il PCI del secolo scorso, con le sue politiche autoritarie e sviluppiste, avrebbe contribuito a disarmare, a rendere inerme e subalterno il popolo del Sud…

Una speranza di riscatto per il Mezzogiorno? Il mitico arrivo dal Mediterraneo di milioni di migranti. Come se il Mezzogiorno, svuotati i serbatoi della miseria disperata cui attingere, avesse esaurito ogni propria autonoma e residua carica di rivolta. E aspettasse stimoli e nuove idee da nigeriani ed eritrei, curdi e afgani…

Ora, nessuno è contro le buone idee da qualsiasi parte provengano, ma tocca proprio aspettare l’arrivo dei Magi Migranti e della Nuova Cometa Rossa per darsi una smossa?

Ma a raccontare il mondo e la storia patria in chiave così oltranzista, non si rischia di scimmiottare e mutuare soltanto qualche straccio e brandello della ideologia leghista? Non è infatti Bossi ad essere considerato leader dell’ultimo partito rimasto di concezione leninista?

E dove porterà tutto questo se non a un revanscismo uguale e contrario al razzismo nordista?

Insomma, questo mio vuol essere un tentativo, forse un po’ frettoloso e sbrigativo, di resoconto delle idee di Giovanni Pagano, teorico della napoletana Insurgencia. E a quelle di Pino Aprile, autore dell’interessante e sconcertante Terroni.

Ma veramente il Sud d’Italia è collocabile nella storia alla pari dell’Africa e dell’America Latina dissanguate da una Europa alle prese con uno sforzo di primaria accumulazione capitalista? Il Sud d’Italia è realmente raffigurabile come agnello sgozzato dalle cui vene aperte il sangue scorre a vantaggio di un Nord vampiro, così come Edoardo Galeano rappresenta l’America Latina? E perché, con tanti primati vantati dai Borboni in campo economico, culturale e industriale, i gruppi dirigenti meridionali sono stati scalzati e soppiantati, o si sono arresi a quelli del Nord? Cosa non ha funzionato, come, dove, chi ha sbagliato? E’ dipeso dalla superiore forza militare piemontese? Il genio militare di Garibaldi ha surclassato quello di Carmine Crocco? (Ma Crocco non è quello che prima ha militato tra i garibaldini, per poi passare ai borboni, per chiedere infine asilo al papa in Vaticano?)

O magari era possibile una Unità più equilibrata, meglio bilanciata, realmente e rispettosamente federativa? Ed è oggi possibile realizzarla ancora? Qui, nelle invettive e nei ragionamenti di Giovanni Pagano e Pino Aprile, a me pare ci sia

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essenzialmente uno sforzo per dare corpo ad alibi e rivalse, per cercare, a un troppo di rabbie e frustrazioni, un riparo di risarcimento e consolazione.

Passatemi una scherzosa osservazione finale: Terroni, il libro del pugliese Pino Aprile, è pubblicato da Piemme, casa editrice di orientamento cattolico, acquisita nel 2004 dalla Mondadori e con sede a Casale Monferrato. Se non altro per un pizzico di coerenza, per uno che spara a zero contro il capitalista Nord vampiro, non era meglio Laterza o Sellerio o Rubettino?

Piccola ballata in onore del 150mo anniversario dell’Unità d’Italia (e dell’Economist)

Venite, venite,accomodatevi e alloggiate,sdraiatevi e gozzovigliate,impossessatevi e stracostruite.Venite, venite,occupate e saturate,ingurgitate ed evacuate,sbizzarritevi e cementificate.Venite, venite,ispiratevi e create,riempitevi e partorite,intossicateci e devastate.Venite, venite,scapricciatevi e intrallazzate,massacrateci e saccheggiate,snaturateci e tradite.Ora che vi abbiamo ceduto il meglio,ora che ci avete lasciato il peggio,ora che siamo arrivati all’ultimo miglio,e che ci avete divorato anima, babà e timballo,abbandonateci pure allo sfasciume grecodefinendoci “bordello”.

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Saremo della vostra infamia denuncia ed eco,corso e ricorso, canto e controcanto:perché ci avete trasformato in zimbello e saltimbanco.Avete proclamato dell’Unità d’Italia la festa:avete lordato l’alveare, appestato l’Olimpo, provocato tempesta.Ci avete resi orfani di madre, nutrice e balia:ora tenetevi il bordello e la vostra Italia!

Terrazza sul mare all’Hotel Gabbiano

Per misurare alcuni dei micro mutamenti sociali in corso, non c’è posto migliore di un luogo di vacanza al mare frequentato d’estate da un numeroso pubblico. La terrazza di un albergo sulla spiaggia, per esempio. In essa confluiscono singoli e coppie, bambini e famiglie, solitari e comitive a formare un palcoscenico rappresentativo di tipi, caratteri, parti in scena, modalità espressive e relazionali significative. Sarà che invecchio, ma mi sembra che molti dei mutamenti in corso, il loro senso complessivo, non siano di carattere così rincuorante e migliorativo. Ad esempio, per quanto riguarda l’uso della voce nel suo ampio spettro di toni e modulazioni, si direbbe che siamo diventati tutti sordi: non si parla più, si grida. Sarà perché è aumentata la voglia di farsi sentire a tutti i costi? Sarà perché si teme di non essere ascoltati? Comunque, io trovo che su una pubblica terrazza ci sia esibito l’intero campionario di voci stentoree, squillanti e rimbombanti, che non si direbbe che ci troviamo ospiti dello spazio aperto venti metri per venti di un albergo sul mare, ma dentro uno sterminato stadio. Qui sta dilagando un urlato protagonismo che metà basterebbe. Come se, in un luogo pubblico, in vacanza, rilassati, seminudi e finalmente se stessi, tutti si sentissero autorizzati - hurrà! - a rompere gli altrui timpani. Che il modello della comunicazione sia diventato l’urlato protagonismo degli studi e salotti televisivi?

Non bastasse, ci sono i telefonini. Dio li benedica, fanno parte del necessario progresso. Ma a me pare, dal mio piccolo osservatorio, che le telefonate realmente necessarie non siano più di una su dieci. Le altre rispondono a pulsioni diverse, ad esempio la brama di mostrarsi, essere visti, esibirsi, sentirsi collegati e farlo assolutamente sapere al mondo intero. Mentre si legge la pagina di un giornale, o di un libro, o si conversa pacatamente con un amico, capita di essere continuamente disturbati e costretti a seguire il racconto minuzioso degli affari privati di persone che non si conoscono, e la cui voglia di conoscenza viene immediatamente spenta proprio

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da questa imposta valanga di pettegolezzo privato. In più, e in peggio, direi che il cellulare sia usato come un totem per superare insicurezze e imbarazzi: quando qualcuno non sa che fare, si finge concentrato a smanettare sulla minuscola tastiera, a leggere o inviare sms decisivi per chissà quali trame. Le ragazze, poi, attraversano la terrazza diritte e concentrate sul piccolo schermo portatile come se per loro lì si decidesse – ora o mai più! - l’amore di una vita. Ma si renderanno mai conto di quello che si perdono intorno – ovviamente non mi riferisco a me, ma alla bellezza del paesaggio – e di come sollevare lo sguardo servirebbe a sollevare il loro spirito? Rischierò l’accusa di essere un lombrosiano, o un maniacale fisiognomista spinto, ma osservazione e ascolto – perché costretto! – di toni e tipi di voce e mimiche che in un luogo pubblico si colgono, non sono affatto gradevoli. Anzi, spesso trasudano arroganza, strafottenza, scarsa o nessuna attenzione al fatto di essere in presenza di estranei. Ciò che colpisce di più è la diffusione trasversale di questi comportamenti: dai bambinetti che quando chiedono un gelato lo gridano ai quattro venti come se suonassero le trombe del giudizio, ai nonni che rispondono con barriti densi di cigolii disarmonici da ricavarne un allarme angosciato.

Il mare davanti è per fortuna immoto e limpido come un lago, solcato da un battello che quest’anno, dopo vent’anni di latitanza, e grazie alle pressioni del locale consorzio di albergatori, ha ripreso a svolgere la sua funzione di pulizia benefica; e la collina alle spalle è ricca di verde rigoglioso – dio! speriamo che quest’anno non ci siano incendi! -; e la montagna cade con le sue falesie a picco sul mare da mozzare il fiato. Solo noi umani sembriamo non godere di uno stato di benessere equilibrato. Gridiamo invece che pacatamente conversare, urliamo al cellulare banalità a chi è lontano, al posto di comunicare con chi ci è vicino. Facciamo ricorso a uno spasmodico roteare di mascelle, ugole e pupille come se qualcosa di ingrato e violento premesse per uscire. Si direbbe che anche le vacanze la dicano lunga sul momento non felice di questo Paese.

Poi arrivano i giovani camerieri dell’albergo a offrire i loro servigi: lo fanno con discrezione e garbo che ancora ha il sapore antico delle famiglie e delle comunità dell’entroterra lucano. Bisognerebbe che molti cui il benessere e la ricchezza hanno fatto perdere la bussola imparassero da questi gesti parchi e funzionali, da questi sguardi attenti e non invasivi, da queste voci trattenute e modulate, da queste facce essenziali e asciutte. L’impressione mia è che questi ragazzi professionalmente ineccepibili, trasferiti rapidamente dai secoli lenti della campagna alle dimensioni dell’internazionale e moderno turismo, si rendano benissimo conto di tutto, non sfugga al loro sguardo niente di quel che di arrogante e volgare a volte succede

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intorno. Ma pazientino silenti come chi ne ha viste tante, e si dicano: anche questa, se Dio vuole, passerà…

In acqua per godermi l’abituale rinfrescante calata, faccio conoscenza con un professore di biologia dell’Università di Catania. E, mosso da curiosità, gli chiedo: come mai qui a Maratea? E lui racconta che un suo amico che è stato qui diversi anni fa, essendone rimasto allora molto soddisfatto, glielo ha consigliato. Gli chiedo: e lei qui oggi, come si trova? E lui risponde tra il deliziato e il trasognato: certo che ancora oggi, rispetto a tante località marine celebrate che io ho conosciuto, Acquafredda rimane un piccolo paradiso.

Salendo a piedi la rampa che porta in alto alla casa in collina, mi sorpassa mastro Peppo a cavallo di una Vespa, natiche e panza che straripano. “C’è chi può e chi non può!” - mi lancia un po’ scherzando e un po’ irridendo. Io non incasso passivo: “…e i risultati si vedono!” -, e continuo tenace nel mio esercizio di arrampicata.

Attraversando il boschetto, non visto, sorprendo un gruppo di bambini e bambine che confabulano tra di loro in costume da bagno. Li conosco, sono vitalissimi e simpaticissimi figli di amici tra i sei e i dieci anni. C’è grande fermento ed eccitazione tra di loro, e quindi, incuriosito, osservo. Mentre passo loro vicino, in poche decine di secondi questo è quello che ho visto e ascoltato. Il più grandicello, sui nove anni, ride guardandosi elettrizzato tra le gambe. “Guardate, mi è cresciuto il pisello!” - esclama non riuscendo dall’allegria a stare nella pelle. E in fila amiche e amici aderiscono all’invito solleciti, fanno a turno osservazione scientifica e contemplano rapiti cotanta epifania.

Poco oltre, il caso vuole che sopraggiunga mentre un papà assiste il figlioletto di tre o quatto anni che, calato sulle gambe il costumino, preso da subitaneo invincibile bisogno sprizza in alto uno zampillo che a me ha ricordato malinconicamente quanto sono diventato al proposito scarsamente arzillo. Devo però dire che, malgrado l’età oramai avanzata, il manifestarsi imperioso della nuova vita mi ha messo addosso per il resto della giornata uno straordinario buonumore.

Poi, a mezzanotte e passa, dall’alto del terrazzino della casa contemplo all’orizzonte il germinare delle corolle iridescenti dei fuochi d’artificio. Fioriscono oltre Punta degli Infreschi, nei paraggi di Marina di Camerota. Sopra di me, un cielo di stelle e velluto che manco Avatar in 3 D. A piedi nudi sul muretto, un bicchiere di falanghina in mano, ondeggio con il corpo come un vecchio e un po’ storto giunco.

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Ho il sospetto - il semplice accenno di una percezione estatica - che la felicità, o qualcosa che molto le somiglia, non sia poi così lontana.

La presentazione di un libro su Napoli a Cersuta

A Cersuta, la frazione più piccola lungo la costa di Maratea, è attiva e operosa una buona collaborazione tra i nativi del luogo e alcuni dei turisti ospiti da più tempo. Questi ultimi sono medici, professori universitari, ingegneri e architetti napoletani, romani e anche non italiani. I cersutari sono la componente più semplice, ma per questo più genuina e intensa, tra gli abitanti di Maratea. Ho avuto modo di constatarlo ieri sera, alla presentazione del nuovo libro di Pasquale Persico (Perché Napoli. Vivere e morire di Napoli), nella piazzetta antistante la chiesa della parrocchia. In questa piazzetta non ero mai stato, e devo dire che l’ho trovata deliziosa e perfetta perché, immersa in una cornice di verde rigoglioso, si affaccia sul digradare degli ulivi verso il mare.

Eravamo una cinquantina di persone. Noi di Acquafredda una decina, a testimonianza che ognuna delle frazioni marateote non è un’isola. Il numero dei cersutari e quello degli ospiti delle seconde case si ripartiva metà e metà. Anche a Cersuta è recentemente sorta una associazione di cittadinanza attiva, Aestus, il cui presidente, Domenico Cipolla, di mestiere fa il poliziotto a Sapri. Chiacchierando prima della presentazione, mi ha confidato che non gli dispiacerebbe creare a Maratea una “fabbrica” di Nichi Vendola. Proposito che a me è sembrato, di questi tempi, apprezzabile.

Quest’anno Aestus ha deciso di presentare alcuni libri, quello di Pasquale Persico su Napoli è il primo. Malgrado il caldo afoso, l’attenzione e l’ascolto dei presenti sono stati intensi. A presentare sono stati due fisici docenti all’Università di Napoli e proprietari di casa a Cersuta. Queste sono le ibridazioni, il meticciato tra diversi che a me pare costituire promessa di un futuro positivo per i problemi di Cersuta, Maratea, Napoli, e del mondo intero. L’amore dei luoghi, la comunità di interni ed esterni che si attiva per curarli, proteggerne la peculiare bellezza, farli crescere, durare, prosperare, questa è la via.

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La discussione del libro di Persico sui mali di Napoli e sul loro possibile rimedio – Napoli, quintessenza ed emblema di tutte le comunità, di tutte le incasinatissime e vitali città del mondo – ha costituito in questo senso prova lampante. Molti gli interventi, e non solo di intellettuali “esterni”. Daniele, ad esempio, acquafreddaro che lavora come finanziere a Marina di Camerota, ha preso la parola per lamentare, rispetto alla straordinaria ricchezza e bellezza del Parco del Cilento - il più grande d’Italia, patrimonio dell’Unesco - come a sua percezione vi sia stato e vi sia tuttora un problema di comunicazione tra esperti e scienziati di valore mondiale lì impegnati: e abitanti – contadini, artigiani, pastori - che dentro il Parco vivono e bene o male ci campano. Quegli abitanti – denuncia accorato Daniele – non sono minimamente toccati e coinvolti da una comunicazione vera su quello che nel Parco succede o non succede, si fa o non si fa: spesso anzi ne sono del tutto all’oscuro. Se ne sentono quindi ai margini, quando in realtà dovrebbero esserne i fruitori protagonisti. Daniele racconta con un pathos così partecipe ed evidente, che quando termina di parlare non c’è un applauso, ma un silenzio che è consenso ancora più fragoroso.

Anch’io provo a dire che trovo assolutamente necessaria l’attivazione delle migliori energie delle comunità che vivono i luoghi, un farsi carico interno e partecipe dell’individuazione dei problemi e della loro soluzione. Se la popolazione questa primavera non fosse scesa in piazza e corsa in massa all’Anas di Potenza, non sarebbe stata scongiurata la chiusura della statale 18, unica via di comunicazione lungo la costa. Ma nello stesso tempo non trovo però questa attivazione locale sufficiente. Perché l’origine, la complessità della natura dei problemi che investono oggi il Sud, Cersuta e Maratea come Napoli, non consentono che la soluzione sia a portata di chi vive a Cersuta, a Maratea, a Napoli, nel Sud di questo Paese. Origine, natura e complessità dei problemi impongono oggi un loro governo nazionale, europeo, mondiale. L’impegno locale è assolutamente necessario, ma non basta. I casi di Pomigliano, Melfi, Termini Imerese, implicano decisioni che coinvolgono Paesi quali USA e Brasile, India e Cina. Ancora: il depuratore a Maratea può anche funzionare benissimo, e si può fare bene la locale raccolta differenziata dei rifiuti. Ma se poi i conciari di Arzignano, provincia di Vicenza, adottano decisioni per le quali i profitti ottenuti sfruttando il lavoro degli extracomunitari vengono illegalmente esportati nei paradisi fiscali per evadere le tasse, e le scorie e i rifiuti chimici prodotti dal ciclo produttivo vengono nottetempo inabissati nel basso Tirreno grazie ai servizi della malavita organizzata e a coperture politico-istituzionali, come volete che l’impegno delle comunità locali possa da solo venirne a capo?

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E’ alla fine intervenuto Pasquale Persico, che però non ha né chiuso né concluso il dibattito: ha semplicemente aggiunto le sue riflessioni a quelle degli altri, interloquendo con la competenza e l’acume che viene da una lunga e meditata esperienza di operatore sul campo. E poi c’è stata musica e cibi saporiti e dolci proposti dagli organizzatori della bella serata.

Risalendo la stradina che dalla piazzetta della chiesa riporta alla statale 18, sono stato colpito dalla compresenza alle narici di due forti odori contrapposti: il profumo squisito delle campanule in fioritura splendida, e il fetore imbarazzante di liquami di fogna. Ecco, il Sud io credo oscilli oggi esattamente tra questo e quello.

Generazioni. Gli adolescenti.

Sono maschio e femmina sui dodici anni. Non so neppure il loro nome. Li incontro e osservo ogni mattina sulla spiaggia e nel tratto di mare dove abitualmente mi bagno. Sono tra di loro amici inseparabili, figli di famiglie che provengono da Napoli, forse frequentano la stessa scuola, o persino la stessa classe. Forse sono cugini, forse fidanzatini, ma sul piano dello scambio e della relazione non lo danno esplicitamente a vedere. Si cercano e si tengono d’occhio, stanno sempre vicini, o a contatto di voce. Sono di pelle scurissimi, grazie anche a una splendida abbronzatura. Neri i capelli, neri gli occhi, si direbbero fatti come probabilmente lo erano milioni di anni fa i nostri adolescenti antenati.

La ragazzina è una piccola Nausica armoniosa, morbida e già sensibilmente curvilinea. E’ fornita di adipe femminile nei punti canonici, là dove serve e servirà, già gentilmente rotondeggianti. Si intravede preannunciato il suo destino biologico di futuro contenitore materno. Il ragazzino è invece longilineo ed elegantemente affusolato, un misto tra il muscolo in rilievo e lo spigolo ossuto. Si coglie già perfettamente disegnata la sua futura parte e arte nel penetrare, riempire, abbracciare, farsi contenere, proteggere.

Sono belli, armoniosi, teneri, strutturati per essere predisposti al loro naturale destino. Non danno confidenza a chi sta loro accanto o vicino, giocano insieme a emularsi in calate e tuffi, capriole e improvvise furiose bracciate. Neanche tra di loro comunicano verbalmente più di tanto: è come se la loro reciproca presenza li appagasse. A volte stanno a lungo ad osservare i giochi rumorosi di fratellini e cuginetti, a volte si stufano della compagnia e si allontanano a colpi di pagaia in canoa.

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Dovunque siano, qualsiasi cosa facciano, è come stessero al riparo di una impenetrabile aura magica, sotto una campana protettiva. Non alzano la voce, non si alterano né si irritano, non reagiscono mai indispettiti. Di preferenza sorridono. Non sono di, non appartengono a, non sono legati o correlati se non a se stessi. Non gridano né schiamazzano, non fanno nulla di sgraziato o scomposto. Saranno divinità olimpiche sotto mentite spoglie?

Ci vediamo tutte le mattine da un paio di settimane per almeno un paio d’ore. Io, senza essere indiscreto o invasivo, li osservo. Io so che anche loro hanno percepito la curiosità benevola del mio sguardo, mi pare anche di avere capito che tutto sommato lo apprezzano come omaggio loro dovuto. Ma da perfetti principini, o da beati abitanti dell’Eliso, non lo segnalano.

L’affinità che percepisco con il maschietto mi viene molto anche dal fatto che io, alla sua età, per come mi ricordo, non ero nella sostanza diverso. Magro e alto, affusolato e puntuto, elegante e snello, abbronzato e moro. Oserei dire, quanto oggi lui, anch’io allora bello. Non è male potersi rivedere nella sostanza sotto effigie uguale a distanza di tanto tempo. Come si è belli e leggeri a dodici anni! Come si è partecipi e presenti, distaccati e alteri. Come si può non essere affatto volgari, sgraziati, violenti e aggressivi. Come se tutto ciò che ci circonda non ci toccasse, come noi fossimo di tutto perno e baricentro.

La coppia di ragazzini mi inducono a ricordare come è stato dolce quel primo idillio, quel morbido e rapido bacio. Quali furiose palpitazioni! Che irrompenti e imbarazzanti erezioni! Come era dolce e fluida la vita, come appariva trasparente e pulita. Ora di quella dimensione rimane solo un alone di consapevolezza amara, qualche irruzione la notte sotto forma di sogno tardivo, di fitta al cuore acuta: e queste ore mattutine, diventate consuetudine dolce, con questa coppia in miniatura, intensa e primitiva. A me è venuta da associarla alle immagini che chiudono Mission, il film di Roland Joffé, ambientato nella foresta amazzonica. Dopo la guerra feroce e distruttiva dei portoghesi contro le tribù dei nativi guidate dai gesuiti – oh, la recitazione ruggente ed epica di Robert De Niro! –, alla fine alla carneficina sopravvivono soltanto due ragazzini, maschio e femmina adolescenti. Nudi salgono sulla piroga, silenziosi e determinati si avviano lasciandosi trasportare dalla corrente – oh, con che intensità struggente di carezza li accompagna la musica di Ennio Morricone…!.

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I piccoli fidanzatini napoletani sono bellissimi e misteriosi. Sono il campione di una umanità tenace e irriducibile, contro tutti, malgrado tutto. Sono l’essere umano aurorale che non cede e si rinnova. Oggi qui, beninteso, non ci sono le armate portoghesi e spagnole a cannoneggiarci e fare strage, ma, sapete, anche quelle dei ladrones berluscones mica scherzano…

Ora forse avrete capito meglio alle prese con quali immagini e riflessioni io trascorro le mie mattinate al mare. Non sarò Virginia Woolf, ma anch’io ho le mie onde e le mie ore.

Generazioni. I quindicenni.

I quindicenni, in assenza e in attesa di riferimenti migliori, se ne stanno il più possibile abbarbicati al loro computer. Viene da dire che, tutto sommato, va anche bene, si può anche capire. Perché, di questi incerti e tumultuosi tempi, il computer è un amico e un rifugio: senza tante storie, racconta un sacco di belle storie. E’ una tua protesi, una docile e servizievole appendice, è maneggevole, interattivo, manipolabile, inesauribile ed esaustivo, impersonale e obiettivo. Ti fa fare quello che vuoi, ti fa andare dove vuoi. Non si ribella, non si oppone, non resiste, ha mille proposte, mille programmi, giochi e finestre. E’ meglio della mamma: ti dà tutto subito, in cambio non ti chiede niente. E’ un vero asso, difficilmente ti pianta in asso. Ti fa vagare nel mondo fatato di Alice, non ti fa mai annoiare, ti rende felice. E’ una via aperta – anzi un’autostrada gratuita – all’intrattenimento e al divertimento, alla informazione e alla conoscenza. Non ti fa pagare pegno, non ti fa sentire in difficoltà, in ritardo o indegno. Ti toglie dai piedi insegnanti, maestri e docenti, genitori e preti saccenti. Ti soccorre a tutte le ore, ti fa sentire riverito come un principe o un re, un vero signore. Ti toglie tutti gli sfizi, ti soddisfa i più segreti vizi. Tu sei il dominus alla sua tastiera: un colpo ai tasti, e la mattina si confonde con la sera. Tutto quello che ti secca e scoccia, l’imbarazzante peso organico dei corpi fisici, diventa fluido e scorrevole come l’acqua, eppure fermo e solido come roccia. Tutto ciò che è rigido, bloccato e superato, viene spazzato via e ridicolizzato. Insomma, a farla breve e dirla per benino, il computer è oggi la migliore incarnazione possibile della Lampada di Aladino.

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Il sesso e i suoi piaceri, grazie alla sua finestra magica, non è più aleatorio e impegnativo, problematico o insicuro. Non hai più vincoli né impegni, parole date o scadenze fissate. E’ tutto è facile e fluido, immediato e potente – eppure disimpegnato e gradevolmente epidermico. Il centro non è più tra te e l’altro, ma tra te e te stesso. Un quindicenne si chiude la notte in camera, o a chiave dentro il bagno, a smanettare tastiera e se stesso fino a ridursi a una estenuata e spalancata appendice del cesso. Il computer sei tu: chi può darti di più? Un quindicenne al computer perde nozione, senso e bisogno della scuola tradizionale: quella diventa del tutto inaffidabile e scarsamente credibile, superata, obsoleta e trapassata. Le informazioni nel computer le trovi tutte: di immagini, video, musica e film c’è un mirabolante e inesauribile universo. E’ tutto comodo a casa tua, senza adattarti e sottometterti, senza umiliarti e piegarti: il computer ti mette il mondo a portata di sguardo, di mente e desiderio. Non devi più conquistarti con fatica nulla, hai già tutto in tuo semplice, immediato e illimitato possesso.

I quindicenni diventano così, insieme e contemporaneamente, ipertrofici e atrofizzati. Incamerano e incorporano tutto in sé stessi, sono supermen prodigiosi e insieme larve evanescenti. Sono spettri onniscienti e arcisapienti. Non affrontano, non combattono e non agiscono la loro inesperta insicurezza, non la riflettono e metabolizzano attraverso qualche necessaria sconfitta. Il succhiare continuo l’inesausta mammella computerizzata, gliela fa semplicemente ritenere inesistente e annullata.

Il computer è la finestra e la conquista che in pochi anni hanno reso anacronistici, superati e obsoleti il maestro, il docente, il prete, il medico, il padre – il padre soprattutto! – come figure per antonomasia titolari di saperi e poteri. Attenzione, però, che è rimasto attuale e vivo il valore e la funzione del senso critico. Bella la conoscenza e la competenza: ma al servizio di chi, di cosa? Di qualche potere prepotente e privilegiato, parziale e privato, o di una crescita di capacità diffusa nell’autogoverno? Chi detiene il potere teme il senso critico. E la capacità di autogoverno confligge con il comando. E’ di acquisire questa capacità che hanno bisogno le nuove generazioni.

Cosa possono fare gli adulti che stanno loro accanto? Evitare che il computer, senza per questo vietarlo o criminalizzarlo, diventi divorante droga. Evitare che sia lui a comandare ritmi e tempi, intervenire e interagire perché rimanga protesi utile, docile servizio. Un mezzo e uno sfizio, non un irrinunciabile, immedicabile, prepotente vizio.

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Generazioni. I ventenni.

Adamo ed Eva

E’ il primo pomeriggio, il sole picchia, sotto il riparo della tettoia si sta bene. I nostri unici vicini commensali sono una coppia di fidanzati ventenni. Sono i due soli presenti, oltre a noi, sotto la tettoia del ristorante. Non hanno apparentemente nulla di particolare o evidente, se non il fatto di essere una coppia di giovani dai tratti lineari e gradevoli, le forme tipiche della più classica conformazione fisica meridionale. Statura media, corporatura solida, colore e fattezze frutto di una millenaria convivenza con sole e mare, tipici di una mediterraneità saracena. Potrebbero anche essere greci o spagnoli, libici o libanesi. Non parlano, mangiano lentamente assaporando il cibo, scambiano ogni tanto qualche monosillabo. Quello che esprimono è una pienezza che si direbbe astorica e decontestualizzata, consapevole, disinvolta e appagata. Non alzano la voce, non gesticolano, non mostrano insofferenza, nervosismo o fretta. Sono sazi della loro reciproca presenza, di ciò che accade intorno non gliene importa nulla. Quando hanno terminato il pasto e pagato il conto, si alzano dal tavolo e uscendo ci sfiorano. Lui guarda diritto davanti a sé, indifferente e sovrano, lei passando mi lancia in tralice un sorrisetto compiaciuto. Ha colto il mio sguardo di omaggio, mostra di averlo apprezzato.

Li osservo mentre passando lenti e sicuri si avviano all’uscita. Non si segnalano per qualcosa in particolare, gadget o indumenti firmati, pose o atteggiamenti spavaldi.

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Potrebbero essere tranquillamente nudi. Anzi, per l’essenzialità altera che li muove, è come lo fossero. Quelli non sono nostri normali contemporanei, sono di noi umani il meglio di ciò che da sempre è stato e perdura, la forma base della nostra sostanza. Mi viene da pensare che la giovane e bella coppia potrebbe tranquillamente chiamarsi Adamo ed Eva. Poi mi viene anche da pensare, visti i tempi, che lui potrebbe essere un giovane aspirante boss di qualche campana o calabra cosca malavitosa. Ma, d’altra parte, chi offre oggi ai nostri giovani meridionali Adamo ed Eva qualche prospettiva economica sicura? Il signor Marchionne? Fatto sta che dopo che se ne sono andati tutto si è come rilassato e ricomposto, un lieve e aggiuntivo bagliore si è spento, l’eccesso di energia si è dileguato. Fa bene ogni tanto avere di questi incontri, funziona da stimolo, medicamento e tonico.

Il centauro

Appare all’improvviso, ma il suo rombo cupo si preannuncia da lontano. Inguainato di nero, inforca il suo bolide come un cavaliere dell’Apocalisse. E’ pura materializzazione di minaccia estrema, l’irrompere di una furia cieca e compulsiva. Questo ventenne monta una nuvola d’ira come se al posto dell’acciaio del motore avesse una torma di scatenati rotweiller. Io proprio non mi capacito come un simile mostro possa venire da autorità e comunità tollerato. E’ puro spreco, scempio di quiete e silenzio, offesa, oltraggio ed inquinamento. E’ una dichiarazione di violenza come di più e peggio non si potrebbe. Ogni volta che lo sento arrivare mi coglie un brivido e un sotterraneo spasmo, vorrei sottrarmi e nascondermi lontano. Ma inesorabile lui irrompe a ricordare che ogni armonia, equilibrio e misura sono precari, violabili e reversibili. Solo un ventenne incapsulato come un orrido insetto dentro casco e tuta di cuoio può mettere in scena questo concentrato urlante di violenza e odio. Dove lo attinga per me rimane insondabile mistero. Come possa essere tollerato, pure.

Un bolide che rombando attraversi le strade di un centro abitato, guidato dalla protervia di un brutto ceffo mascherato (potrebbe anche essere un clone telecomandato), cos’è se non un gesto di guerra dichiarato? Una società che consente una tale mascalzonata, è una società malata. Dite che esagero? E invece sono semplici considerazioni di buon senso sul dilagare di comportamenti incivili. Pensare che i cultori di questi sport idioti fanno da queste parti anche gli estivi mega raduni! Si riuniscono a produrre i loro frastuoni, a respirare i loro miasmi e fumi, a propugnare e propalare i loro valori bellicosi e belluini. La potenza, il frastuono e la velocità come quintessenza e stile, un incrocio tra barocco pessimo e futurismo

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becero che più ebete non si può. E mettono pure a repentaglio la propria e altrui incolumità fisica… Ai giovani viene proposto come modello Valentino Rossi… E’ come suonare il piffero per condurli ad annegare nei fossi.

La laurea

Il mio vicino di casa è un muratore di sessant’anni, soffre di un paio di ernie al disco, tiene l’anca che sta lentamente cedendo. Lavora da quando aveva tredici anni, smetterà quando non ce la farà più la mattina presto ad alzarsi e uscire di casa. Ieri mi ha fermato fuori della sua porta per raccontarmi che quest’anno a giugno sua figlia si è laureata. Scienze della comunicazione, centodieci e lode. E dicendomelo, al mio amico e vicino di casa si sono riempiti di lacrime gli occhi. Non so cosa questa ragazza di poco più di vent’anni riuscirà in futuro a combinare, ma credo possa già ritenersi fortunata di avere potuto contare su un padre come il suo, muratore da una vita, due ernie al disco e un’anca malandata, che pur di avere una figlia laureata ha faticato duro fin da ragazzino, e ancora non molla e imperterrito fatica.

Generazioni. I trentenni.

I trentenni hanno lingua e parlantina sciolte, sempre pronte la canna da fumare e la voglia di fare. Proclamano di voler conquistare il mondo, ma il fiato già arranca, la pancia è gonfia, e il coraggio di rischiare un po’ manca. I quarantenni, loro fratelli maggiori, hanno l’aria più assennata e seria, tengono famiglia, il mutuo da pagare della casa. Anche i trentenni spesso hanno già figli e compagna, accanto o sparsi per il mondo, e molti altri ancora da scoprire e amare. Ma la loro energia è per ora presa dal sogno di arricchirsi e conquistare. Ecco, diciamo che mentre i quarantenni pigiano tenaci i pedali su una strada che è ormai quella, precisa e in salita, i figli accanto da far crescere e moglie – o marito – tanto cari ma già da sopportare, i trentenni ancora smaniano alle prese con un passaggio di mezzo, un futuro che non è ancora deciso, la voglia e la sensazione di poter fare tutto, ma un presentimento che da realizzare e conquistare c’è in realtà ben poco.

I trentenni smaniano e scalpitano e si impennano e parlano a voce esageratamente alta, cozzano e si interrompono schiumanti come se lo spazio e la scena non bastassero. Si vivono il limite e l’ostacolo come intollerabile rifiuto: ohibò, ma come si permettono! Esibiscono il massimo sfoggio di muscolatura cazzuta e dentatura perfetta, narrano gesta di battaglie omeriche e di imprese inaudite: sembrano reduci dai bastioni di Orione come eroi di Blade Runner. E però, in tanto sfavillante tumulto, ti accorgi che in un angolo del loro desiderante occhio, accucciato e con lo sguardo

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spaventato, c’è un bambino annichilito. Il mondo che loro stentorei dichiarano di avere soggiogato, non era poi così meritevole e saporito. Qualcosa di oscuro e duro gli è andato per traverso, come se il loro amore di sé e del mondo fosse stato irrimediabilmente ferito.

I trentenni ricordano un po’ i reduci di guerra, gli scampati della ritirata dalla Russia che ora mostrano fieri le medaglie e i trofei, i segni dei colpi subiti. Non lo dicono, sono troppo orgogliosi: ma sotto sotto intuisci che se potessero crollerebbero abbracciandoti disperati.

I trentenni che tornano per le vacanze al paese, recitano come da copione sulla scena la parte del miles gloriosus, ma in realtà si chiedono se, in fondo, ne valeva la pena. Perché l’unica cosa di cui hanno certezza piena è che là fuori, in quel mondo sporco e grandioso, hanno per ora sicuramente perso l’innocenza, unico bene prezioso.

I trentenni sono partiti e andati via perdendosi una parte del meglio e accumulando solo nostalgia. Fuori hanno scoperto che l’abbondanza ha meno sapore della peggiore paesana carestia.

Poi, la mattina, Edoardo mi tiene sotto il sole un’ora per lamentarsi che nelle feste pubbliche Besame mucho non gliela fanno più cantare. Smania e si agita e protesta che non è giusto, che il suo curriculum è di assoluto rilievo e prestigio, e che sa cantare meglio di tanti ragazzotti che si improvvisano artisti. E se gli chiedi l’età, e lui risponde, abbassando un po’ la voce, che da un po’ di tempo ha superato gli ottanta. E allora consolato ti dici che per i trentenni, per vantare conquiste e lamentarsi della scoperta della loro inaspettata povertà e pochezza, c’è ancora in abbondanza tempo e speranza.

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Generazioni. I vecchi.

Statevi bene, io ho deciso. Ancora tre anni, e poi mi ritiro. Avete capito bene, mi tolgo di mezzo. Lo so, voi dite: ma puoi campare altri dieci anni, e venti, e più ancora… Io questa logica proprio non la concepisco. Cosa importa la durata e il numero? Perché sarebbe importante tirarla il più possibile a lungo? Il passo già qualche volta traballa, il morso non prende più così bene, l’energia a volte latita. Se la vita non è piena, a cosa serve durare ad oltranza? Dovrebbero essere i farmaci e i medici, le cliniche e le protesi a prolungare un declino e un tramortito tramonto?

Allora ho deciso. Ho capito che posso campare ancora bene, in accettabile forma e sufficiente autonomia, i prossimi tre anni. Il poter disporre di muscoli tonici o almeno non flaccidi e compromessi, la speditezza nel passo e nel viaggio, la buona masticazione e digestione del cibo, un riposante sonno, la vista sufficiente e un uso della parola corretto, la mano ferma per una scorrevole scrittura, la voglia di leggere e ascoltare una storia, di conversare in allegria, il gusto di scoprire ancora e ancora qualcosa: se tutto questo viene a mancare, mi dite voi che campo a fare?

Non sopporto l’idea dell’inciampo, non mi accetto alle prese con un insuperabile ostacolo, non voglio penosi tremori, dipendenze patetiche e catastrofiche amnesie. Voglio vedere potendo distinguere le facce, non sopporto l’idea della rinuncia alla musica e al cinema, al cellulare e al computer, voglio piangere e ridere sapendo per cosa. Risparmiatemi, vi prego, protesi e pannolone, catetere e dentiera! Voglio

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sentirmi dentro e intorno la vita viva, scavare ancora come minatore alla ricerca dell’oro in miniera.

Voglio affrontare una salita o un gradino e non fermarmi ogni tre passi senza fiato, e poter sollevare tra le braccia un bambino, e sentirmi ancora in sintonia con il mondo e la vita, non malandato e fottuto. Non so voi, ma io non reggo all’idea di farmela sotto per una irreparabile perdita idraulica. Risparmiatemi, vi prego, la canna dell’ossigeno, la pelle da mille aghi bucherellata.

Statevi bene, io ho deciso. Fra tre anni mi ritiro. Tirerò giudiziosamente i remi in barca, mi adagerò sul fondo, contemplerò sereno il cielo residuo, lascerò che essa proceda libera lungo il breve pezzo finale di percorso, . Voglio ancora godermi intero lo splendore di questi luoghi stupendi. Voglio accogliere gli amici con l’attenzione e l’energia che meritano. Non tollero l’idea di ritrovarmi come certi vicini di spiaggia maldestri nel passo, incerti nel gesto, incapaci anche di risalire un breve e lieve pendio. Non voglio offrire agli occhi del mondo le pieghe cadenti dell’addome, lo sguardo sperduto e liquido del vecchio coglione.

Voglio fare come mio padre, che in pieno inverno, col gelo che fuori annichiliva, la mattina non è stato trovato nel letto. Vecchio e malato, scalciando le coperte se n’era uscito. E’ stato trovato mezz’ora dopo riverso sul ghiaccio di una roggia sotto un pioppo, l’ultimo sguardo rivolto al cielo azzurro e terso.

Voglio andarmene ancora lucido e deciso, prima di perdermi del tutto. Lasciate che io spenda le forze residue con lo sguardo orgoglioso e fermo, diritto e pulito. Poi partirò per l’ultimo viaggio, prima che il mio corpo risulti un imbarazzante ingombro.

Statevi bene. Non so voi, ma io ho deciso.

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Generazioni. I bambini.

Toccami! Prendimi! Afferrami! Abbracciami! - reclama Onofrio, mio vitalissimo amico di nove anni. Siamo nella piscina di un albergo, immersi tra spruzzi e getti di acqua calda. Ci inseguiamo, ci acchiappiamo, ci tendiamo agguati in un tripudio di scrosci e vapori. Io non mi sottraggo, anzi, lo acciuffo al volo come vecchio pescatore esperto alle prese con i salti e i guizzi di un animoso delfino. Il gioco è stimolante e piacevole. E quel gioco, quel contatto ripetuto tra corpi, non piace solo a me, piace in evidenza specialmente a lui. Perché è lui che si propone e avvicina tra capriole e spruzzi, fino a sorprendermi baciandomi rapido e leggero sul naso e sulle labbra, è lui che mi propone di acchiapparlo, e lui che mi sfida a stringerlo. E quando sono io a sfidarlo scherzosamente a mostrare la sua capacità nel sopportare il dolore fisico, è lui che non mi molla, mi provoca e istiga e implora: ancora! Ma va a finire che ti faccio male! - e tu fammelo! lui rilancia impavido. E io lo pizzico e stringo, gli tiro i capelli, lo schiaccio ripetutamente con il mio corpo contro la parete della piscina. Ovviamente mi guardo bene dal fargli realmente male, ma lui reclama e insiste perché aumenti l’impatto esercitando la mia superiore forza adulta. A lui piace - e io mi chiedo fin dove un gioco così condotto, se lasciato a se stesso, potrebbe arrivare.

Quello che mi arriva evidente dal bambino è il bisogno di contatto fisico, il desiderio di esperienza corpo a corpo con un adulto. Io non mi sottraggo, non ne vedo motivo, anzi, mi diverte e lui lo percepisce: ma è evidentemente più lui a mostrarsi disponibile e voglioso, e questo mi induce a riflettere su quale sia, possa e debba essere il limite naturale e necessario di questo insistito sollecitare, fin dove il

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bambino è disposto ad arrivare, ed è giusto che un adulto acconsenta. Guarda che ti picchio! – ruggisco scherzoso. E lui, impunito, subito di rimando: picchiami! Guarda che ti stritolo! - proclamo roteando minacciosamente gli occhi. E lui mi fa eco ridendo e invocando: sì! benissimo: uccidimi! Io ne sono divertito, ma anche francamente un pò spiazzato. E’ come stessi perlustrando con la mano il profilo di una faglia intuita, ma mai sospettata di tale ampiezza. Il bambino mi sta dicendo: fammi quello che vuoi, ma fammi! Questa mi sembra la supplica e preghiera: fammi sperimentare intera, ti prego, la tua amorosa forza!

Possibile che la televisione, il computer, la separatezza e la distanza che l’uso di tali strumenti e passatempi inducono tra i corpi, la perdita progressiva di ludico e gioioso contatto fisico con un altro essere umano, quello adulto in particolare, portino un bambino a questo punto di famelica sollecitazione? E’ sempre stato e sempre sarà così tra adulti e bambini, fa parte del loro stato e condizione diversa e complementare - o siamo noi due in quella piscina i soli a provare desiderio di esplorare, sperimentare, assaporare queste forme corporee e sensibili di relazione?

Sarà anche l’immersione in acque calde, e tra noi la consolidata famigliarità affettuosa, ma nell’atteggiamento, nella disponibilità, nella sollecitazione mai sazia di questo bambino a proseguire nelle prese e nelle carezze, e nel far durare e aumentare le forme di contatto per sperimentare su di sé la forza dell’adulto, quasi invocandola, io percepisco anche l’indicazione di un possibile sviluppo di percorso. Sembra evidente che, in piacevole abbandono e in assenza di ostacoli o divieti percepiti, il bambino sia orientato di suo a una progressivamente crescente ef-fusione. Un adulto sensibile e consapevole, o non ancora del tutto ottusamente chiuso, e un bambino così sveglio, questo giocando in piscina si trasmettono.

Ma che un bambino proclami, sia pure ridacchiando, di voler essere perfino picchiato – si tratta chiaramente di un gioco, ma sappiamo quanto il gioco sveli e riveli – pur di sperimentare un concreto contatto fisico con un adulto, la dice lunga sulla situazione di rarefazione di rapporto tra adulti e bambini cui siamo oggi approdati. Un bambino, nei confronti degli adulti che gli stanno intorno, di natura sua chiede: aiutatemi a capire e a scoprire chi sono, dai padiglioni auricolari ai glutei, dal malleolo al midollo: tutti i desideri e le emozioni, il piacere e il dolore, i fantasmi e le paure che attraversano la mia mente e il corpo. Se non ne siete capaci, se non mi aiutate a scoprire l’estensione del dominio della conoscenza, i suoi limiti e i suoi poteri, i suoi bisogni e desideri, a che vi è servito diventare adulti?

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Come dire che se la dimensione esplicita e praticata di un amore pieno tra individui di età fortemente diversa costituisce sicuramente problema critico e delicato, anche la pedo anemia/anomia, se non la vera e propria circolante e diffusa pedo fobia, mica scherzano. Perché altrimenti i bambini sarebbero malamente (ab)usati, o, all’opposto, così spesso trattati come trasparenti e invisibili, se non del tutto ignorati?

Se io misuro l’intensità in pubblico dello sguardo esplicito e diretto di un essere umano, vedo che più un bambino è piccolo e più a lungo ti guarda curioso e fiducioso dritto negli occhi. Poi, nel tempo e con il passare degli anni, curiosità e fiducia scemano fino a scomparire del tutto. Due bambini che si incrociano per strada istintivamente si avvicinano e festosi si annusano: due anziani neppure si guardano, difficilmente si cercano, il più delle volte si evitano. Perché è un vitale e propulsivo eros ad accendere curiosità, attenzione e disponibilità, voglia di conoscere sé stessi e la realtà. E sembra proprio che da bambini il corpo sia una festa, con il passare degli anni diventi sempre più un impaccio e un peccato.

Antonio mi ha raccontato una piccola storia simpatica. Un suo nipotino di cinque anni un giorno gli chiede: zio, mi accompagni in cantina che voglio vedere come è fatta e cosa c’è dentro? Antonio sollecito accontenta il nipotino, e insieme scendono a visitare la cantina. La girano in lungo e largo, Antonio spiega, il bimbo ascolta concentrato. Alla fine, prima di risalire, nella penombra incantata della cantina il bimbo si rivolge allo zio e gli chiede: mi dai un bacio? Pensando a un gesto di ringraziamento, Antonio sollecito scocca al bimbo un bacio sulla guancia. Ma zio, incalza quello, non lì, voglio un bacio sulla bocca...! E Antonio un po’ sorpreso risponde: ma quello è il bacio dei fidanzati… E il bimbo incalza: e allora?

Insomma, se proprio vogliamo ricavare una qualche morale: in questa come in altre storie analoghe, chi è Cappuccetto Rosso, e chi è il Lupo?

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Piccoli incontri estivi

Può avere nove anni. E’ in gruppo con i suoi genitori, un’amica coetanea forse cuginetta, più un paio di sorridenti e abbronzate signore adulte, forse zie. Mi sfiorano in fila indiana nel vicoletto del centro storico che conduce a un piccolo slargo dove sto seduto a un tavolo in compagnia degli amici a mangiare un piatto di ottimi formaggi e salumi lucani. E’ una bambina bellissima, mi ricorda miniaturizzata Julie Christie, la stupenda Lara innamorata del dottor Zivago. Mi colpisce il colore azzurro cristallino dei suoi grandi occhi, l’intensità divorante e appassionata da cui sono illuminati. Mi passa accanto, per poi fermarsi insieme all’amichetta ad ammirare i quadri esposti lungo le pareti del minuscolo slargo. La metto meglio a fuoco, rimango come sospeso, poi sorpreso e incantato indugio nell’osservarla, la forchetta e il boccone ad attendere in aria, rapito da tanto evidente bellezza. Anche lei mi ha notato, colpita forse dal mio aspetto e sicuramente dal mio sguardo intensamente ammirato. Lì, tra noi, in quel poco spazio, è allora partito per qualche minuto un gioco serrato, un fuoco d’artificio di sguardi brevi e lunghi, espliciti ed intensi. E mentre io continuavo a mangiare e a scambiare battute con gli amici, la piccola affascinante Julie Christie è rimasta come impigliata, elettrizzata e quasi sgomenta dalla mia attenzione contemplante e indiscreta, confidando all’orecchio dell’amica l’interesse eccitato, continuando a girarsi e a scrutarmi evidentemente turbata. Lì, in quella piazzetta, in pochi secondi si è compiuta una piccola folgorazione miracolosa, una epifania inaspettata. In quella sosta rilassante dopo la calda giornata, tra un anziano signore in abbronzata forma e una bambina straordinariamente bella si è consumata una piccola e struggente storia. Le due amichette, all’improvviso scomparse, dopo un po’ sono ritornate a osservarmi agitate

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commentando fittamente tra loro pensieri ed emozioni, fino a quando sono riapparsi anche i genitori. Quella da me ammirata ha allora cercato rifugio slanciandosi verso il padre che l’ha accolta e portata via senza probabilmente avere afferrato nulla (o forse sì?) del minuscolo romanzo che ha visto protagonisti due interlocutori così abissalmente diversi, tra di loro così poco plausibili e del tutto incompatibili. Poco prima sconosciuti, subito dopo smarriti nel fuoco di sguardi incrociati, la vita li aveva fatti incontrare per pochi istanti. Si sono curiosamente osservati, misteriosamente riconosciuti e subito lasciati. Suona del tutto inverosimile, se non proprio impossibile, che i nostri gentili eroi possano ancora incontrarsi. Ma anche così, nella danza imprevista di meteore che si sfiorano negli spazi dei vicoli, e si percepiscono inaspettatamente vicine e simili, la vita regala un bagliore della sua ricchezza.

Ma dove siete andati a finire…

… bambini e bambine della colonia estiva di Fiumicello, che riempivate a centinaia l’ampio giardino, piccole donne e piccoli uomini in miniatura, elfi e silfidi sorridenti e gentili, minuscole divinità immerse in un’aura sacra tra rogge e cortili.

Dove siete finiti bambine e bambini coetanei di mio figlio, che riempivate le stanze di casa per le feste di compleanno, i prati, i boschi e le spiagge delle domeniche e delle vacanze estive in perenne e trafelato affanno.

Dove sono finite le vostre risate allegre, gli sguardi curiosi e colmi di attese, il rincorrervi e tenervi insieme come un mobile corpo che freme.

Dove sono finite le corse trafelate, le danze e le piroette, le gare sportive e il nuoto azzurro tra gli spruzzi delle mareggiate.

Dove le vostre lacrime e strilla, le sudate escursioni sotto il sole cocente, la corsa al pronto soccorso per l’improvvisa ferita, il broncio prolungato, le lunghe passeggiate al tramonto con l’approdo a un gelato.

Dove i bacetti a raffica, la saetta inaspettata di uno sguardo seduttivo, le scivolate sul ghiaccio, la gara tra voi nel conquistarvi un posto sulle mie spalle o in braccio.

Sono passati da allora trent’anni, ora siete sparsi nel mondo, giovani donne e uomini, signore mamme e signori padri di nuovi bambini e bambine come voi eravate allora, vispi e tristi, silenziosi e misteriosi e all’improvviso incontenibilmente esplosivi: come vi vorrei ancora!

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Mi siete tutti venuti a trovare in sogno questa notte, intensi come non fosse trascorso il tempo, come se il tempo fosse stato finora un’unica immobile attesa, e il nostro trascorrere allora insieme una splendida stagione goduta, un’eternità perfetta e in sé compiuta.

Ora mio figlio porta in casa giovani uomini e giovani donne compunti e seri, enigmatici e riflessivi: si occupano di studi all’università e ricerca di lavoro introvabile come l’oro.

Oggi mi manca la vita allo stadio di avvio bruciante e vero, dove tutti gli spazi sono aperti e liberi, il calco della cera molle, il sorriso miele sincero.

La riscoperta della solitudine pensosa

Provate, in vacanza, a rinunciare (più che potete) all’uso dell’auto. Sui benéfici effetti del camminare ho già detto. Spostarvi abitualmente a piedi comporta un rapporto con il paesaggio, le persone, voi stessi, che vi consente nelle sensazioni ed emozioni l’esperienza di un assaporamento lento e prolungato. La rapidità rombante di chi è auto munito e auto sequestrato è abolita. Altro aspetto positivo rimarchevole è la possibilità, a causa della eventuale vostra richiesta di un passaggio, di incontri con umani altrimenti ignorati e ignoti. Le reazioni che al proposito incontrate possono essere le più diverse. Un signore, cui a un semaforo ho cortesemente chiesto un passaggio, mi ha squadrato per qualche secondo e poi, impassibile e gelido, mi ha risposto: non è mia abitudine dare passaggi, a nessuno. Evidentemente non gli ero piaciuto. Ma anche questo, tutto sommato, è un esercizio di umiltà prezioso.

Ma normalmente non è difficile trovare in vacanza chi accetta e ti apre sollecito la porta. Una gentile coppia di Barletta mi ha accompagnato a Sapri ragguagliandomi sulle bellezze della Puglia, mettendole perspicacemente a confronto con quelle della Basilicata. Una signora – anche le donne sole oramai si fidano di un allampanato e questuante anziano bisognoso – mi ha accolto volentieri a bordo raccontandomi durante il passaggio luci e ombre della sua attività professionale – e io della mia. Insomma, uno dei risultati positivi del chiedere un passaggio è incontrare e scoprire persone che altrimenti sarebbero rimaste sconosciute. Il muoversi blindati dentro un’auto fa risparmiare sicuramente tempo e fatica, ma sottrae e impedisce gran parte della possibilità di contatto. La macchina è protesi potente, ma isola. A piedi, nel confronto con il fragore superbo di chi ti sfiora, si è più esposti e vulnerabili, ma

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anche più autentici e veri. Lo spostarsi abitualmente in automobile atrofizza muscoli del corpo e facoltà della mente, disabitua al contatto corporeo diretto con la gente, allo scambio alla pari, a fare i conti con la propria autenticità limitata e concreta.

A casa, in vacanza, non ho televisore. Nei bar, nei ristoranti, nei negozi in cui entro il televisore è presenza ossessiva e quasi sempre sintonizzata sui canali Mediaset. E poi dice perché Berlusconi vince. Smorfie e smorfiette, strilla garrule e canzonette. Soap opera del cazzo. Come se si avesse difficoltà ad affrontare direttamente la vita, che poi è madre generosa di tutte le vere e meravigliose soap opera del mondo. Stare senza televisore significa non dare il cervello in affitto e in appalto alle tante fasulle star. Non c’è nessuno che a casa tua pensa per te, decide su che cosa la tua attenzione si deve applicare, di cosa si deve nutrire. Non ci sono immagini petulanti e mirabolanti, voci esterne, estranee e invasive. Sei solo con i tuoi pensieri, i tuoi umori, le tue emozioni, con le immagini, i suoni e le voci che tu hai deciso di invitare e accogliere. Nel caso si volesse compagnia, e non bastasse il frinire delle cicale o lo stormire del vento tra le fronde, meglio in sottofondo una buona musica. L’altro giorno sono rimasto choccato nel sentire un ragazzino appena arrivato dalla città esclamare: mamma, io non sopporto il gallo e gli uccelli che mi svegliano la mattina… A Roma a svegliare la mattina è normalmente il rombo del traffico sotto casa. Abbiamo generato generazioni snaturate.

In vacanza, d’estate, fate in modo da restare soli per diverse ore. Non per ipocondria o misantropia, ma per riscoprire quanto è necessario e nutriente tornare a dimorare sereni nella propria casa, riscoprire chi siete o cosa siete diventati, i sogni e la stoffa di cui siete fatti, i bisogni reali di cui siete costituiti, quante delle protesi e degli strumenti che pensavate indispensabili rischiano in realtà di prendervi la mano, diventando invasivi e sostitutivi.

In vacanza provate a riflettere in compagnia di Colette Soler, analista lacaniana, che scrive: “Dopo avere puntato all’emancipazione da tutti coloro che ci hanno sovraccaricato dei loro precetti fin dalla nascita, siano essi i nostri genitori o i nostri maestri, vale la pena di disalienarci dall’altro, dagli altri che lo hanno rappresentato, vale la pena di sapere di che cosa si soffriva, di sapere anche che cosa ci risulta impossibile, e di arrivare a noi stessi, a ciò che siamo nella nostra singolarità.”

In vacanza, d’estate, esercitatevi con i mezzi e gli strumenti che più vi aiutano a essere semplici, autentici e creativi. Camminate, nuotate, leggete e scrivete, zappate l’orto e coltivate il giardino, suonate e dipingete, dormire e sognate, vedetevi un buon

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vecchio film, preparatevi un buon cibo, accarezzatevi e accarezzate. Sceglietevi una solitudine amica o la compagnia di persone con cui potete anche restare in silenzio, oppure liberamente riflettere su ciò che realmente vi sta a cuore.

In vacanza lasciate perdere i giochi mentali o elettronici fuorvianti e furbi, le interminabili chiacchiere oziose al cellulare. Recuperate un rapporto semplice e diretto, senza filtri né fronzoli, con voi stessi, le vostre incertezze e paure, i vostri desideri e bisogni. In vacanza toglietevi protesi, ragnatele e sovrastrutture, regalatevi il lusso di scoprirvi semplicemente, basicamente umani.

Spero di non turbare qualcuno dei miei cinque lettori, ma una buona vacanza somiglia anche, in qualche misura ovviamente parziale e non definitiva, a un esercizio della buona morte. Nel senso che le è propria una necessità di togliere e levare ciò che è abituale e superfluo, ciò che eccede e impedisce, ciò che distrae e distoglie. Il termine stesso, vacanza, viene da vacuum: vuoto, interruzione, intervallo, sospensione. Diciamocelo pure in senso laico e leggero: quale è la sospensione della vita per eccellenza se non la commare secca? Non mi resta che augurarvi una buona vacanza.

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La riesumazione delle salme

C’è chi fa la politica con la squadra e il righello, con il calcolo del bilancino, con la maschera, i guanti e il grembiulino, le grazie della velina e la legge porcello. E soppesa i pro e i contro, le apparenze e le convenienze, i carichi e le incombenze, le idiosincrasie e le gerarchie, i punti e i buoni sconto. E calcola il bottino e la bottega, la quasi scopata e la mezza sega, il chi ci sta e quanti: non il dove andiamo e per fare cosa, se per piantare cucurbitacee o cogliere una rosa.

La politica come capolavoro del ricamo sul nulla, quella che, senza avere alcun bebé in pancia, si accontenta dell’uso maniacale e puntiglioso di una bilancia, di una tana come rifugio e culla.

Quella che ha il culto della individuazione del chi, del quando e del come, e non ricorda più bene il cosa e il perché.

Quella che è così cieca e cretina che per arraffare l’uovo oggi ammazza la gallina.

C’è un momento critico e fatale nella vita politica e morale di ognuno e di un paese: quello in cui si smette di ritenere possibile qualsivoglia cambiamento di comune, solidale, realistico miglioramento. Ed è la comunità nel suo insieme a farne le spese.

E ci si rifugia in una condizione di staticità stantia, ci si lascia incorporare come puro decoro nella nomenclatura di un paesaggio umano pietrificato e larvale , si diventa parte arresa di un percorso di idiotizzazione universale.

La zattera cui ci si aggrappa diventa allora lo sberleffo e il cinismo, esibito come dichiarazione spavalda di adesione al nichilismo.

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Sarà perché sono immerso nel fulgore pieno di mare e monti: ma veramente dovrei esultare per il premio Maratea a Sandra Milo – mentre ci si guarda bene dal presentare e proporre libri che di Maratea parlano, eccome! - , o giulivo affidarmi a ipotesi di alleanze con Rutelli e Casini, Bossi e Tremonti?

Qui si assiste allo spettacolo di morti che ballano alla Michael Jackson come in un Thriller sgangherato e nero, senza più soffio vitale, passione solidale, impegno vero.

Noterelle in margine alla presentazione di un libro.

Il libro – “Maratea. Il sogno di una cosa” - è stato presentato in Acquafredda, frazione di 200 abitanti di Maratea, nello spazio antistante la scuola elementare attualmente chiusa e abbandonata, da una associazione culturale recentemente costituita: Scuola e Vita. L’associazione conta 35 soci iscritti, e finora si è resa meritoria per alcune iniziative: ad esempio una pubblica e partecipata riflessione su Costabile Carducci, martire risorgimentale di Capaccio ucciso con i suoi compagni il 4 agosto del 1848 proprio ad Acquafredda da abitanti del posto capitanati da un prete borbonico di Sapri. E la partecipazione di massa a pubbliche manifestazioni per evitare la chiusura della Statale 18 a causa delle ricorrenti cadute di massi.

Per preparare la presentazione del libro su temi e problemi che riguardano oggi Maratea, i soci dell’associazione si sono per giorni gratuitamente impegnati – siamo in agosto, tutti loro lavorano in questo periodo più che nel resto dell’anno – per pulire, predisporre, attrezzare, addobbare, illuminare e rendere agibili spazi da tempo abbandonati. L’impegno volontario gratuito in iniziative e progetti di crescita sociale e civile: ecco un indicatore importante per misurare lo stato di salute di una comunità. L’esatto contrario dei corsi di formazione fantasma e delle troppe infondate e indebite pensioni di invalidità che veicolano dipendenza e subalternità.

Alla presentazione, iniziata alle nove di sera, terminata dopo l’una, hanno partecipato un centinaio di persone: donne e uomini, adulti e ragazzi, persone nate e vissute nel luogo e altre amanti delle sue bellezze e che d’estate abitualmente tornano. A presentare il libro è stato Salvatore, un acquafreddaro doc, grande esperto nel ramo edilizio e politico di antico corso, cattolico credente, persona socialmente

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responsabile ed eticamente sensibile, cittadino del mondo. La sua presentazione, la generosità e l’impegno con cui l’ha preparata ed esposta, meriterebbero un racconto a parte. Mi riservo di farlo in seguito, qui lo spazio è, ahimé, tiranno.

A intervenire nel dibattito sono stati in nove, me compreso, che dell’insieme ho tenuto le fila e il percorso. Il sindaco di Maratea, Mario Di Trani, ha concluso. Se posso proporre qualche osservazione a commento, inizierei proprio dall’ultimo intervento, quello del sindaco. Per poi proseguire con altre annotazioni personali. Intanto, mi è piaciuto che il sindaco abbia rintuzzato alcune insinuazioni che anonimamente circolano contro il libro (“ è un libro contro Maratea e i marateoti!”), affermando che chi ha scritto su Maratea quattro libri – e ne ha in preparazione un quinto – a Maratea non può che volere bene. Altrimenti avrebbe scelto di impegnare diversamente tempo ed energie. E mi sembra necessario segnalare anche un’altra affermazione del sindaco, che ha tenuto a precisare che legge con interesse le mie riflessioni che appaiono sul Quotidiano: sempre, bontà sua, dense di annotazioni stimolanti.

Molte altre sono state le osservazioni di Mario Di Trani, che non si è tirato indietro rispetto alle tante e argomentate critiche mosse negli interventi della serata. Anche per questo ci vorrebbe un pezzo a parte. Scelgo di riportarne almeno un paio: la prima, là dove il sindaco ha evidenziato la difficoltà ad amministrare un territorio e una città come Maratea, frazionata in tante unità abitative lontane una dall’altra. Questo è sicuramente un dato di separatezza e lontananza: ma siamo sicuri che esso non sia stato da sempre utilizzato da politici e amministratori a vantaggio di alcuni e a svantaggio di altri? Infatti: quanti sono i sindaci, nella storia di Maratea, originari da qualcuna delle frazioni?

Una seconda osservazione del sindaco merita un appunto, quella in cui ha sostenuto che, stanti difficoltà e complessità del compito di chi amministra, la decisione possibile non può che essere quella - volta per volta, sulle varie questioni - della ricerca di un “compromesso onorevole”. Ora, sul criterio è difficile dissentire. A patto però che si precisi un punto: come può la comunità capire e condividere l’applicazione corretta di questo criterio, se non viene posta nella possibilità di coglierne in trasparenza l’intero percorso? Se comitati di iniziativa e protesta per le tante omissioni e disfunzioni, se le pro loco e le associazioni vengono troppo spesso vissute come ingombro e disturbo, come si legittima il criterio del “compromesso onorevole”: sull’ipse dixit? Sull’accettazione acritica di una insindacabile Autorità? Ma è così che si contribuisce a far crescere la comunità, o non c’è piuttosto la

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tendenza a fare il meno possibile perché la comunità cresca in informazione e conoscenza, presupposto necessario per l’esercizio di una capacità di valutazione consapevole e critica? Altrimenti detto: perché, se non esattamente per questo, il popolo dei cittadini si è negli ultimi anni disamorato, qui come altrove, di questo modo blindato e apicale di fare politica?

Sugli altri interventi mi permetto solo alcune osservazioni. Alcuni di essi sono stati fatti da tecnici (l’architetto, l’ingegnere, l’economista), altri da abitanti del luogo. I tecnici (potentini e napoletani) hanno attinto alle loro esperienze e competenze professionali per dare al dibattito un contributo di sicuro interesse.

L’ingegnere di Melfi ha sostenuto che in edilizia e nell’urbanistica meno regole ci sono e meglio è. E che se abusivi devono essere considerati oggi alcuni edifici, allora anche Villa Nitti, edificata sul ciglio della costa novanta anni fa, lo è. L’architetto di Potenza ha evidenziato come oggi i processi economici siano così veloci e radicali che la corsa delle norme e delle regole per stare loro appresso vede queste ultime sempre in ritardo e in affanno. L’economista di Napoli ha parlato delle luci delle frazioni e delle città che lui la notte in barca sul mare vede ogni anno sempre più imponenti ed estese. E della forma del bel paesaggio inventata dai pittori e poi via via trasformata e deformata dalle attività e dalle costruzioni degli uomini. L’economista di Potenza ha sollecitato la concretezza del fare, dichiarandosi disponibile per individuare in Acquafredda e Maratea progetti di opere utili immediatamente realizzabili. Infine, una professoressa docente di biologia all’Università di Napoli, ha perorato la causa della priorità assoluta nella messa in sicurezza della strada lungo la costa.

Forse il limite che può essere loro (sommessamente) attribuito è quello di avere manifestato, nel loro approccio, un condizionamento che proviene proprio, paradossalmente, dalla loro competenza professionale. E cioè l’essere tecnici vincolati a un interesse personale e privato, per carità, legittimo, che però li vede molto sensibili al mercato, alle proposte e agli interessi dell’interlocutore istituzionale pubblico. Autonomia e libertà di pensiero assolute non esistono: ma è evidente che esse si modulano in maniera diversa a seconda se chi parla è soggetto o meno a vincoli di interesse con le decisioni dell’oggetto analizzato. Certo, nessuno è completamente disinteressato: ma c’è chi lo è più, chi meno. E la ricerca di una verità condivisa, del rispetto di regole a difesa del bene pubblico, che non sia soverchiato e sottomesso a quello privato, non è poi sfida così persa in partenza.

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Poi ci sono stati gli interventi di alcuni abitanti del luogo, e lì è emersa netta e dura l’insofferenza per il punto di vista dei professionisti esterni intervenuti. I nativi hanno reclamato maggiore attenzione sincera per i problemi della loro realtà, più disponibilità e umiltà nell’agire e interagire. Meno supponenza e puzza al naso, maggiore disponibilità a rimboccarsi le maniche. Ciò che ho creduto di cogliere in questi interventi è un persistente gap in termini di diffidenza, sfiducia e perfino risentimento che ancora esiste nel rapporto tra nativi ed esterni, tra abitanti cresciuti nei luoghi e turisti innamorati della loro bellezza: tra le esigenze di chi vive un luogo e un potere esercitato altrove, in stanze riservate e segrete. Come se ci si sentisse usati e snobbati, soggetti a supponenza e sufficienza, a volte perfino a disprezzo e disistima. Insomma, persistono troppe identità frazionate e contrapposte: qui serve un percorso di confronto, avvicinamento e integrazione.

Rispetto al libro, in molti hanno detto che oscilla tra la lirica e una critica a volte troppo dura ed esagerata su difetti, inadempienze e ritardi storici della politica e degli amministratori. Confesso che a me è piaciuto chi, nel suo intervento, ha sostenuto che poesia significa letteralmente: fare. E che non sarà l’economia a salvare il mondo, ma l’amore per la bellezza. Ci tengo a segnalare che la presentazione del libro non ha avuto nulla del consueto rituale. Il libro ha funzionato da stimolo per introdurre forma e svolgimento di una pubblica assemblea. Si è parlato a turno e liberamente dei temi e dei problemi di benessere/malessere, di sviluppo/sottosviluppo delle frazioni e delle comunità di Maratea, delle loro cause storiche, delle possibili soluzioni. Questo, a mio modo di vedere, significa contribuire a fare buona politica. Emozioni e passioni incluse, tipiche di un necessario psicodramma. Un’ultima osservazione: del libro nel corso della serata sono state vendute trenta copie, il cui ricavato è andato a favore delle sguarnite casse dell’Associazione Scuola e Vita. Una copia è stata acquistata anche da chi l’anno scorso, per gli articoli usciti in anteprima sul Quotidiano della Basilicata, mi ha tagliato le gomme dell’auto. Non c’è qui lo spunto per un intrigante sviluppo da noir poliziesco?

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Ci vuole amore e stomaco, cervello e passione per trattare di questi tempi di Mezzogiorno, di etica e politica. Questo scrittore non è uomo da slogan, non cerca il consenso facile; forse ci nasconde qualcosa, qualcuna delle sue intenzioni. Forse gli basta averci mostrato la strada, la sua strada, originale e praticabile per farla finita con questa secessione parolaia e sconsiderata. Ma il libro, sia esso autobiografico o meno, non importa, è un bel libro da leggere direi in un fiato (io, in tre serate). Narra la storia di un uomo che viene a vivere nei luoghi che descrive, situati in quello sbocco a mare della Basilicata che ritaglia per sé pochi chilometri di costa, quasi il porto fosse un nodo strategico per l’economia lucana (ma non lo è). La roccia sotto e sopra il mare regala pezzi meravigliosi della natura prescelti proprio per questo migliaia di anni fa da chi volle fondare nuove colonie; ci hanno fatto case, palazzi, monumenti e forse quei luoghi divennero ancora più belli proprio perché per lungo tempo la convivenza uomo-natura è stata facile, forse agevolata dalla povertà, che mai ha abbandonato quei luoghi, anche nel pieno dello splendore e della ricchezza. Ma quando la povertà è la derivata seconda dell’opulenza, quando cioè la povertà è un gioco dialettico, l’effetto è deprimente per la mente oltre che per i rapporti interpersonali. Così, dice l’autore, è cominciato il declino di Maratea; uno a uno i bei luoghi sono spariti dietro un cancello e via via cancello su cancello la bellezza rischia di essere cancellata. Questo è l’abusivismo, che potremmo definire come un attacco alle bellezze del nostro Paese con effetti devastanti e irreversibili. Queste sono anche le pagine più belle e struggenti - sì, lo confermo, così è per me, sono pagine che fanno male e danno però il senso di appartenenza dell’autore a quei particolari luoghi d’Italia. Ho letto quel libro come l’avessi scritto io, a matita mi sono appuntato anche qualche correzione. Lui ha scritto parole dolci e parole dure sul Mezzogiorno, come avrei scritto io.Così il finale è come me lo fossi sognato. Un finale a due voci. Seduti sulle rocce, Marchesini e Pancheri guardavano lontano e si

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davano il cambio, come dovessero custodire qualcosa che sfugge, forse la bellezza dell’universo (estrapolata da quell’angolo di paradiso). Lui guardava il mare al mattino, quando io finivo di vivere l’evento della notte che si perde in un girar di terra, ed era incantato dal brillare del sole che da terra spingeva la sua luce color di nebbia e d’argento fino all’orizzonte, ed era giorno. Di nuovo eravamo lì la sera e lui guardava in tralice perché tale è l’esplosione di luce del sole che nessuna pupilla si sarebbe mai assuefatta, al più c’era da perdere la vista. Ricorda straniero che questo è un sole meridionale, solipsista, qui anche il sole ha il sangue caldo e splende di una luce che lo carica di energia – è solare – ed è come se i fotoni sparassero colpi di luce di intensità mai vista. E’ il sogno di una cosa. (Silvio Pancheri, in margine a: Maratea. Il sogno di una cosa. )

Brefaro: cosmopolitismo e campanacci

Mi chiamo Francesco, ma qui mi conoscono tutti come 0’ Frangese. A Brefaro, dove passo buona parte del mio tempo da dieci anni, si sentono solo i campanacci delle mucche che escono all’alba per il pascolo, le cicale di giorno, i grilli la sera. Qui non ci sono in tutto più di cento cristiani, le case sono poche e sparse, ognuna ha la sua stalla, il maiale e l’orto. Il mare c’è ma non c’è, sta vicino e lontano come una enorme e liquida lingua tenuta a freno dalla montagna. In un’ora a piedi, scendendo la valle, da qui si può arrivare alla spiaggia grande e sabbiosa di Castrocucco. In due ore, salendo in direzione opposta, oltrepassata la statua del Cristo, si arriva alla cima del Coccovello, da dove si vede sotto a perpendicolo Acquafredda e il maestoso tremolio argentato del Golfo di Policastro.

Questo posto qui potrebbe stare anche nell’alto Tirolo, o in Baviera. Qui ci sono le mucche e le capre, le galline e i conigli, il gallo, l’orto e il porco. Il mare è soltanto una bella e inquietante assenza. C’è, si sa che c’è, si può facilmente raggiungere, ma non si vede. E’ il nostro perenne e fantasmatico convitato d’acqua. E’ la nostra anima nascosta, l’adorata mamma che è partita. Qui vive chi si accontenta del nutrimento di una terra fertile e morbida. Qui il mondo degli affari vocianti e dei traffici importanti è assente, il ritmo è quello lento e solenne delle stagioni, dell’ora et labora di un paesano monastero benedettino.

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Sono capitato qui dieci anni fa, dopo una stagione politicamente e socialmente convulsa, ricca di impegni, progetti, incontri. Ho viaggiato in Europa e India, Brasile e Australia. Ho commerciato e commercio pietre preziose, ma prima sognavo la rivoluzione, un mondo senza sfruttamento e ingiustizie. Arrivato alla fine qui, dopo avventure e disavventure, conquiste e sconfitte, approdato in questa valle che si inerpica lenta sulla montagna, tra gente semplice e sana, ho capito che ero tornato a casa, al paese della mia infanzia che sta nell’interno fondo della Basilicata. Mi ci sono fermato per un po’, avevo bisogno di raccoglimento e pace. Poi mi sono detto: ma qui, in questa verde e silenziosa quiete, posso creare la mia dimora, un luogo dove stare bene con i miei, accogliere e ospitare i tanti amici incontrati per le strade e le città del mondo, tutti quelli che come me amano le camminate nei boschi, le nuotate in un mare ancora non del tutto inquinato, a portata di un cibo buono direttamente coltivato, colto e cucinato, le serate e le notti trascorse a conversare, suonare e cantare.

Ho iniziato da una piccola casa ospitale, poi via via ho acquisito a poco prezzo terreni abbandonati e ovili annessi, ho abbellito e ristrutturato, ho reso il tutto civile e accogliente. Con le mie risorse, con il mio lavoro, con l’aiuto di qualcuno dei paesani curiosi e disponibili e degli amici accorsi a darmi una mano, ho creato una accogliente casa aperta. Ora d’estate arrivano a decine singoli e coppie, famiglie e gruppi. Si fermano quanto desiderano, danno tutti una mano e un contributo per far fronte alle spese. Ognuno mette a disposizione e in comune quello che è, quello che ha. Ci sono serate che siamo anche in trenta: giapponesi e indiani, berlinesi e carioca, parigini e neri della Martinica. Chi suona e fa musica, chi fa ginnastica e chi danza. Chi raccoglie le verdure nell’orto, le pulisce e le cucina. Chi sistema casa. Cosa ho creato: un agriturismo, un bed and breakfast, un ostello, una comune, un rifugio? Niente di tutto ciò formalmente definito e definitivo, un po’ di tutto questo. Qui non si sfrutta, non si specula né si traffica, qui non c’è spazio per il linguaggio della sopraffazione e della violenza. Qui ci sono curiosità e competenza, attenzione ed esperienza, la voglia di incontro e amicizia a cercare e trovare la loro giusta forma. Qui siamo tutti uguali e fratelli uniti dal desiderio di creare e godere i benefici della vecchia e gloriosa comune, senza eccessi, preclusioni, ideologismi. Diciamo che si tratta di una versione aggiornata della comune: meno programmatica e ideologica, più saggia, equilibrata e ben temperata.

Come ci vede la gente del luogo? Bé, intanto è felice della novità e del movimento causato dal piccolo e costante flusso di arrivi e presenze, della possibilità di nuovi incontri e conoscenze. Poi è contenta degli acquisti crescenti di prodotti che noi

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effettuiamo presso contadini, allevatori e pastori. Infine, da quando hanno visto e capito che c’è in giro un bisogno crescente e diffuso di trascorrere un periodo a godere qui le bellezze naturali e la quiete, e che questo si traduce in una possibilità di incremento di reddito anche per loro, si sono un po’ tutti svegliati, si danno da fare, affittano stanze e propongono i loro prodotti in maniera più organizzata e costante. Qui sta prendendo piede, grazie anche a noi, una sorta di turismo leggero, ospitale, amicale. Stiamo tutti meglio: noi di sicuro, ma anche loro e in modo nuovo.

(All’arrivo alla casa/comune di Francesco ci ha accolto un simpaticissimo vecchietto con il bastone e privo di un braccio. “Volete sapere chi sono io?” ci ha chiesto. E si è risposto da solo: “io sono un guaglione di anni ottantaquattro!” E dalla bocca sdentata è partita una grande risata. E quando ce ne siamo andati dopo l’una, sulla piazza della chiesa di Brefaro abbiamo incontrato quattro ragazzetti infuriati che ci hanno fermato e implorato: “vi preghiamo, per favore, dateci un passaggio fino a Maratea: vogliamo vedere un po’ di gente!”).

Golfo di Policastro

Linea regolare di case che accoglie la passeggiata piana;alle spalle la montagna che si arrampicaricca del suo miglior verde;il golfo che si spalanca sulle luci che da Policastroincendiano ad arco Villammare e Sapri,e poi si impennano su Marateaper sfumare verso l’isola di Dino:vista dalla punta del molol’immagine notturna di Scario è scoperta del magico,ascesa al divino.A impreziosirla, corolle di oleandri esplodono nel buio come silenti fuochi d’artificio.Qui la signoria del mare è pervasiva:

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la sua presenza cristallina,il suo odore pungente,inebriano.

Poi ci si immerge tra la gente,si osservano mimiche e corpi,si colgono brandelli di discorsi:una umanità vacanziera di ex campagnolie tracotanti nuovi ricchi accompagnati da guaiti di veline e cagnoli,effonde disarmonie equamente distribuite tra cellulari e cellulite.

Dal porto esce inghirlandata di luciuna barca.Fende le acque buieaccompagnata da cori e urrà bambini.Sul ponte si festeggia un compleannotra botti di tappi e ululati canini.La barca si chiama Leucosyae procede trionfale e lentacome su un mare d’ambrosia.

A Scario la natura è bellaperché integra e vicina, l’umanità sopportabile solo se tenuta a bada.La presenza del mare regalacalma, lusso e voluttà,quella umana diffondeuna sudaticcia volgarità.

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Ma un calice di falanghinaculla come onda la conchiglia,scioglie ogni paturnia,stempera e concilia.

Al Porto di Marateal’insieme è un po’ diverso.Intanto, ricoperto da un mare di lamiere,il mare non c’è più.Poi la piazzetta è luogo di incontro,la sera fino a notte fonda,di fichi e fichette in alcolica baraonda.I ragazzi hanno tutti pantaloni penzoloni e ciuffo dritto. Le ragazze esibiscono su tacchi alti un sorriso guitto. In un angolo, su uno schermo,per noi spettatori che siamo cinque,un festival intitolato “Io Isabella”- non è precisato se Morra o Rossellini – proietta immagini durissime del genocidio in Darfur.La denuncia del documentario è così cruda da rimanere impietriti.Dietro, in piazza, i narcisi si fanno le fotoattenti a non sgualcire il ciuffo. La verità è che sullo schermo bruciano corpi vivi,ma i veri i morti sembrano loro.Il ragazzo che mi prepara la caipirinhaè napoletano del quartiere Soccavo.Racconta che corre come uno schiavodalla sera alle quattro della mattina,

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ma che qui sta sicuramente meglio che nel bassodel suo napoletano sconquasso.Sullo schermo le stragi continuanoa beneficio di pochi intimi.Nel frattempo ragazze e ragazzi fanno ciao con le manie si annusano come cani.Io seguo le evoluzioni del ragazzo ai tavoli,forse la sola presenza viva a riscattare una eccitatissima piazzadedita a badare ai suoi cavoli.

La notte, rientrando a casa, a rafforzare questa ballata un po’ misantropa e stortami accolgono ad Acquafredda due simulacri:la splendida e spettrale Villa Nitti,buona solo a impinguare gli amicicon restauri infiniti.E il cippo in ricordo di Costabile Carducci.Patriota originario di Capaccio, anche il suo cippo è stato messo fuori usoa badilate, nottetempo, qualche anno fa,dal raptus furioso di un locale quaquaracquà.Ora Costabile, nascosto tra i rovi, è creatura dagli occhi caviinventata da Munch.E questa suona purtroppo effigie veradi un atroce bellissimo Sudche arranca e dispera.

A lato del sentiero verso casa,

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dove prima c’era una forra selvaggiaora, tra statue di padre Pio, veneri discinte e incongrui palmizi, è in costruzione una megavilla con piscina.Ma un paese che spendesomme cospicue per statue in onore di un frate dai comportamenti discussi e discutibili (non solo da me,anche da parte di alcuni pontefici)e che, insieme, abbandona tra le erbaccei resti del cippo divelto a badilatedi un patriota che ha dato la vitaper abbattere il giogo di un tiranno,scusate, che paese è?

All’improvviso un riccio esce da dietro un vaso,mi annusa l’alluce con il suo umido naso,e poi dondolando buffo si allontana.Malgrado la lotta contro certa umana folliasi confermi sempre più vana,per fortuna qui la natura regna ancora sovrana.

E questa è cronacadi alcune serate di vacanzain prestigiose località turistiche del Sud:tra natura (non si sa per quanto ancora) eccelsa,volonterosi tentativi di impegno civile,cattiva politica e arretratezza dell’umano, invettive alla Talmud.

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Acquafredda

Gialle sul cancello pendonocampanule a grappolo.Nera a terra saetta la serpe nuda.Sull’albero la civettalancia il suo grido di guerra.Livida una nuvola scarica pioggiaa colmare la roggia.Tra i rovi piange disperatoun gattino abbandonato.Lontana scandisce le orela campana.

Ecco quel che ad Acquafredda di Maratea,

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tra rose, limoni ed ipomea,in questa estate c’era.Poi si è fatta sera,in cielo è salita la luna piena,bella da far piegare cuoreginocchi e schiena.

Un caleidoscopico inventario

Paese, comunità, allegra compagnia, spiaggia. Vecchi amici, famigliari e parenti, paesani e turisti del tutto nuovi e sconosciuti. Promiscuità, intimità e nudità. Guardare, ascoltare, interloquire, partecipare e condividere. Mangiare insieme, giocare, cantare e ballare, ridere e scherzare. La vacanza.

Linguaggi, stili di vita, modi di essere così uguali, così diversi. Tristezza e allegria, gioia e un po’ di tenerezza. Vulnerabilità e fragilità, grazia e giovinezza, vecchiaia e decrepitezza, campionario di diverse età. Corpi gradevoli e sgraziati, armonici e deformi. Salute piena o qualche segnale di malattia sospetta. Energia e apatia, attrazione e simpatia. Affinità e divergenze, collusioni e collisioni, ostilità e rifiuti. Commistioni, irruzioni e invasioni. Baci e abbracci, finte seduzioni e seducenti finzioni.

Natura e campagna, mare e montagna. Capra e mucca, pesce e gabbiano, serpe e corvo, scoiattolo e riccio. Colori e sapori, odori e profumi. Lo spettacolo di albe rosate, il trionfo dell’incendio color porpora nei tramonti. Lo sterminato e struggente cielo stellato, le diverse figure, posizioni della luna e sue femminee curve.

Gli sguardi prolungati e incantati dei bambini piccoli, le loro risate gratuite e improvvise, il loro irrefrenabile pianto disperato. L’arroganza e la sfida del corpo

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giovane, palestrato e tatuato. Il dramma del corpo giovane deprivato e anoressico, goffo e deforme per il troppo grasso. Il disastro penoso del corpo vecchio e finito.

Lo scoppio d’ira, l’arroganza e la sfrontatezza. La dolcezza di un sorriso inaspettato. La fulminea dichiarazione in uno sguardo di attrazione e desiderio subito revocata e irrimediabilmente perduta.

Le centinaia di vite che si sfiorano e incrociano, si attraggono e respingono, si annusano e assaporano. L’intensità di certi istanti che fanno sospettare un’eternità possibile. Le lunghe passeggiate tra alberi e frutta da paradiso terrestre e giardino fatato. Abbandono benedico di certe dormite in spiaggia, accarezzati dalla brezza marina, cullati dalla musica della risacca.

Le lunghe e fitte conversazioni notturne, le confidenze e gli abbandoni e gli sfoghi con i vecchi amici, con altri inaspettati e nuovi. Lo scambio di idee e battute, di impressioni e racconti, di esperienze, riflessioni filosofiche e politiche. La condivisione dei sapori di cibi e vini, di racconti ed emozioni, di film visti, di sogni fatti, di desideri insoddisfatti.

Le liti in famiglia, le gelosie e le rivalità, le ostilità e le fratture, i malintesi tragici, gli equivoci comici, i linguaggi diversi e mai del tutto compatibili. Gli umori e i malumori, i sapori e i dissapori, i “che ci faccio io qui” e i “ma tu che vuoi da me”.

Il prendere atto di quanto segnano e condizionano le circostanze, il loro beffardo concorso e inevitabile esito. Il rendersi conto che le cose sarebbero potute anche andare in modo completamente diverso, ma che oramai il loro corso è segnato. Capire che le frequentazioni e le amicizie tra adulti divergono e mutano con la crescita dei figli, del loro intreccio di relazioni che nascono, evolvono, cambiano, finiscono. Ritrovare dopo anni vecchi amici che si credevano perduti, e ritrovarli integri e nella sostanza intatti, e riprendere con loro i discorsi come fosse stato ieri.

Essere costretti a prendere atto che qualche vecchio amico è radicalmente cambiato, e che la bella amicizia non ha oramai più un appoggio sincero, il suo porto accogliente e sicuro. Cogliere con amarezza e angoscia i segni di un invecchiamento inaspettato, le rughe fonde e lo sguardo liquido e arreso del naufragio e dello scacco. Leggere sui corpi e sui visi, negli sguardi e in certi stenti sorrisi, quanto sono pesanti i segni della crisi.

Scoprire che anche le persone cambiano, e non sempre in meglio. E questo suona a sé stessi quasi un intollerabile tradimento. Essere costretti a prendere atto che anche le

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persone buone muoiono, e che la loro scomparsa non durerà più soltanto lo spazio di un inverno.

Dover sopportare che anche il ragazzetto che zampillava vita da tutti i pori può andarsene definitivamente alle due di notte, sbalzato dal motorino, perché privo della protezione del casco. Rendersi inaspettatamente conto che il ragazzetto moro e riccio che anni fa (dieci, venti, cento?) ti saettava accanto lanciandoti scoppiettanti ciao, si è nel tempo tragicamente trasformato in un corpo gonfio e calvo, in uno sguardo da ergastolano sconfitto e arreso. Incontrare il vecchio amico, ora quasi morente, che in un tentativo estremo è sceso dal letto e uscito di casa. E ora agita le scheletriche braccia invocando aiuto davanti la chiesa.

Sentire il corpo che riprende forza, energia e benessere come una pianta esposta ai raggi del sole. Girare per casa soli e completamente nudi nel caldo della siesta o nel tepore profumato della notte. Scoprire che gironzolare per casa nudi è condizione naturale, e al corpo piace.

Ascoltare nella notte l’abbaiare di un cane, il verso della capra e della civetta, ed essere tentati di rispondere. Spurgare attraverso gli incubi notturni le paturnie del giorno. Riscoprire lo slancio appagante e appagato del fare bene l’amore.

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Capri

La bellezza

Tutte le tonalità dell’azzurro e del blu del cielo e del mare, tutte le sfumature del verde e del marrone bruciato della campagna e della montagna, tutte le fogge, le varietà, i colori e i profumi delle piante e dei fiori, tutte le possibili forme e linee all’orizzonte e in picchiata, Capri è la summa dei luoghi più belli che io abbia mai conosciuto - le Cinque Terre, Amalfi, Ravello e Palinuro, Scario e Maratea, Taormina e Castelmola, Erice e San Vito Lo Capo – lungo le coste della nostra penisola. Mi correggo: Capri è la sintesi dei più bei luoghi del mondo, dal Brasile alla California. Mi correggo ancora – qui è giocoforza procedere per insistite approssimazioni successive -: Capri è la somma e la sintesi dei luoghi paesaggistici e naturali più belli al mondo, nel senso che a mio giudizio Capri è il paradiso terrestre definitivo. E così, con l’enfasi arrembante dei giudizi, abbiamo chiuso.

La ricchezza

Possiamo anche utilizzare, per affrontare nel giudizio vette naturalistiche e paesaggistiche tanto eccelse, un altro tipo di approccio, più culturale e sociologico. Capri è il luogo dove sono in evidenza concentrate le risorse più raffinate e cospicue, le ricchezze più perentoriamente esplicite dell’universo creato. Mai visto tanto esibito sciorinio e sfavillio di ori e gioielli sistemati a occhieggiare in una teoria infinita di

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vetrine. Mai visto tanto lussureggiare di stupende ville più o meno recenti – Helios e Lysis, Jovis e Munthe, Malaparte e Fersen - , di magnifici alberghi, di ritrovi e bar, di ristoranti e trattorie, e pizzerie e pasticcerie per ogni gola misura di palato e borsa.

Axel Munthe & Co.

Axel Munthe e il suo innamoramento appassionato per Capri – un’intera vita! – sono vicenda esemplare di quanto la bellezza dei luoghi attiri l’attenzione e l’interesse del meglio dell’universo mondo. Medico, esteta, filosofo, filantropo e scrittore, Munthe ha contribuito potentemente a “svedesizzare” l’incantevole, selvaggia e primordiale “isola dei cinghiali”. Munthe ha nel tempo legato fortemente con i luoghi, le case, la storia, gli abitanti; ha potentemente diffuso e favorito nel mondo l’immagine e il mito delle bellezze di Capri. Chi sostiene che ha giovato alla conoscenza dell’isola più un suo libro (La storia di San Michele) che qualsiasi colossale campagna di promozione turistica mirata, dice probabilmente il vero. E con lui ha giovato alla promozione della conoscenza e della fama dell’isola una interminabile lista di talenti e geni artistici che di Capri si sono innamorati restituendo il beneficio ricevuto in opere e doni: dagli imperatori Augusto e Tiberio, fino ai nostri contemporanei Albert Camus e Jean Cocteau, da Jacques Fersen a Graham Greene, da Alfred Krupp a Curzio Malaparte, da Compton Mackenzie a Thomas Mann, da Filippo Marinetti ad Alberto Moravia, da Ada Negri a Pablo Neruda, da Giuseppe Verdi a Palmiro Togliatti, per non citarne che alcuni. L’incontro e la contaminazione delle forme naturali e umane al loro meglio, da sempre concorrono a innalzare le rispettive qualità.

I giovani

Capri, le sue piazzette e stradine, le terrazze, le discoteche e le piscine, è territorio dove mai ho visto concentrata tanto bella gioventù abbronzata e, al suo interno, tante belle ragazze longilinee e sinuose: russe, ucraine, moldave, muse e attricette, escort e veline, comunque straordinariamente belle e divine. Donne fenicotteri alte due metri dallo sguardo altero e sprezzante come regine. (Una di loro, rivolgendosi all’amica in un italiano già sufficientemente attrezzato, al tavolo della Piazzetta vicino al mio sorniona ha osservato: “vedi quelli?” – e indicava un gruppo di vecchietti con vezzoso golfino di cachemire sulle spalle: “noi saremo presto le loro badanti, loro diventeranno i nostri servi…”).

Questi giovani che circolano e oziano e bivaccano per le strade, i bar e le piazzette, i ristoranti e le discoteche, sfoggiano tutti un piglio e un tono, una sonorità squillante

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di voce e risata, una facilità e scioltezza, una autorevolezza, che fanno intuire un percorso di vita a ostacoli zero: nessun problema, nessuna mortificazione o deprivazione, nessuna carenza o inadeguatezza. Beati loro… (O no?)

Il privilegio, la crisi

La fauna umana che a Capri circola prevalente è quella di un ferocemente selettivo privilegio. Si direbbe che finora questi dinoccolati e abbronzati umani abbiano avuto come occupazione quella di incontrarsi, annusarsi, salutarsi con grandi pacche sulle spalle, sorbire gradevoli bevande ghiacciate, sfidarsi in gare su barche strafiche, mangiare a strafottere, sniffare a strafare, fottere a esagerare. Insomma, questi qui, della casta dei ricchi, si direbbero ombelico e quintessenza - anzi, i beati e onnipotenti abitanti dell’Olimpo. Che altrove ci sia crisi pesante, i cui costi si scaricano duramente sul mondo del lavoro e sui giovani specialmente, qui non appare neppure lontanamente. Le barche da diporto, le gioiellerie, i negozi di alta moda, i quisisana e le grotte azzurre, qui continuano a fare il pieno.

Capri è apparsa a me, che buon ultimo l’ha scoperta, anche passeggiata e vetrina evidente dell’arroganza fatua di una fauna miliardaria. Un po’ più di consapevolezza e sobrietà, di partecipazione e condivisione, forse non guasterebbe… E poi dice: c’è la crisi. Ma a vedere sui sugli aliscafi e per le piazze e stradine dell’isola, nei bar e ristoranti - e a sentire qualcuno dell’Azienda del turismo e soggiorno dire che gli alberghi in questo fine settimana di metà giugno sono pieni, non sembrerebbe che la crisi colpisca proprio tutti…

Le strade,i taxi, gli aliscafi

Le strade di Capri non consentono a chi si incrocia nei due sensi che pochi centimetri di distanza. Gli abitanti e i taxisti ( 72 vetture uniche al mondo perché appositamente allungate e scapocchiate) le percorrono con la sicurezza sfrontata non di automobilisti, ma di provetti orologiai svizzeri, o di chirurghi alle prese con precisi e rombanti bisturi. Per chi è ospite a bordo l’esperienza è quella emozionante e ventosa di una indiavolata giostra, o di un volo spericolato tra gli alberi.

Intanto, la corsa in aliscafo dal napoletano molo Beverello a Capri, o il taxi dal porto di Capri ad Anacapri – per fortuna,quest’ultimo, luogo in cui la ricchezza esibita sembra un po’ quietarsi e rimettere giudiziosamente i piedi per terra – costano un piccolo patrimonio. A Capri si direbbe che anche le scelte di spesa per servizi necessari abbiano prezzi correlati alle facilonerie sciccose dei fuoriquota

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dell’Olimpo. Fa piacere essere informati che i residenti hanno per sé ridotto tariffe e pedaggi dei due terzi, ma che altrove ci sia crisi pesante, i cui costi si scaricano duramente sul mondo del lavoro, a Capri non appare. Viene perfino da dubitare che il gioco dei contrasti, delle rivalità e delle invidie, dei timori e delle minacce, contribuisca ulteriormente allo scialo: penalizzi i già penalizzati, rifornisca di ulteriori agi i beneficiati.

Anche il trasbordo in aliscafo non scherza: ammassati all’interno, stante il divieto di utilizzare il ponte, aria condizionata sparata a palla, un sistema di televisori onnipresenti sintonizzati a tutto volume su una soap opera cretina, impediti nel concentrarsi e riflettere, nel desiderio di osservare e contemplare, di conversare e leggere, il viaggio verso l’isola più bella del mondo è quanto di più scomodo e sgradevole. L’autore di tanta insipienza dovrebbe essere assegnato per un congruo periodo a lavori servili: pulire i cessi o, con un lavoro meno servile ma sempre muscolare, zappare l’orto.

Ristoranti

A un ristorante mimetizzato nella splendida vegetazione di un pendio tra il Quisisana, - una volta ospedale per tisici, oggi hotel di superlusso – e l’Hotel Luna, a servirci a tavola è un cameriere polacco. Sui trent’anni, sveglio e professionalmente provetto, abbiamo intrecciato con lui una conversazione, protratta a puntate intermittenti per l’intera cena, in cui ci ha raccontato i suoi dieci anni di lavoro in locali e ristoranti dell’isola. Poi, quando per fargli un gesto carino, gli abbiamo detto: bella e interessante la Polonia, lui, un po’ perplesso, ha risposto: perché? Non essendoci mai stato, io sono rimasto qualche secondo in silenzio, poi mi sono buttato: per il regista Waida, e per il papa Woityla. Lui ha commentato dicendo che la Polonia era diventata in qualche modo bella e interessante solo dopo che si era liberata del giogo dell’Unione Sovietica, e in questo aveva fatto la sua parte anche il Papa; e ha ricordato Waida proprio per il suo ultimo film, Katyn, a riprova di quante sofferenze siano state inflitte alla Polonia dal potente vicino. E poi ha aggiunto che una visita al suo Paese valeva molto più per Cracovia, città d’arte e universitaria, che non per Varsavia, città burocraticamente triste. Arrivati al dolce, avendo io chiesto un babà, il cameriere oramai amico e confidente ha osservato: ma lei è sicuro che questo sia un dolce tipico napoletano? E se invece il babà fosse originario proprio della Polonia? Alla nostra reazione clamorosamente scettica il nostro erudito interlocutore ci ha

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suggerito di verificarlo all’istante su internet, e, messo in azione il BlackBerry, siamo costretti a dargli ragione. Ecco, ora per noi il babà non è più un famoso e tipico dolce napoletano… Alla fine della cena, il consueto stornellatore un po’ petulante e querulo è venuto a intrattenerci con le canzoncine del repertorio napoletano. Abbiamo dovuto pazientare che si esibisse con i suoi languidi ricami canori: io intanto, per consolarmi con qualche riferimento letterario alto, ricordavo il passo de La morte a Venezia, e le scene che ne ha ricavato Visconti nel film, dedicate a una molesta situazione canora analoga. E forse l’associazione mi è stata indotta anche da un'altra coincidenza, quella per la quale Tadzio, il ragazzo che fa innamorare di sé il protagonista del capolavoro di Thomas Mann, è polacco.

Un secondo ristorante che abbiamo molto apprezzato è quello che fiancheggia con un suo portichetto la piazzetta antistante la chiesa principale di Anacapri. Nella piazzetta fanno il loro mercatino di giornaletti e soldatini i ragazzetti del circondario, mentre mamme e nonni chiacchierano seduti. C’è intorno un’aria calma e tranquilla, nessuno ha bisogno di sedurre nessuno, nessuno deve vendere niente a chicchessia, se non i bambini che mercanteggiano per appassionata e gratuita finta, come teatrino mimato del mondo adulto. Il ristorante che affaccia sulla piazzetta è semplice e carino. La proprietaria, signora del luogo, vi accoglie, vi saluta, vi mette a vostro agio, vi consiglia i cibi giusti e il vino adatto, e poi vi fa mangiare dei tortelloni ripieni alla ricotta annegati in un sughetto che alla fine lecchereste pure il piatto. Il pesce che segue è un’altra cosa strepitosa, saporita e gustosa. La Falanghina che lo accompagna è nettare ghiacciato, la torta al cioccolato e mandorle, dolce tipico del luogo, completa il tutto. I bambini giocano in piazza, mamme e nonnetti conversano garbati e civili, e voi alla fine vi sentite in paradiso. Credete a me, tra le due piazze, rispetto a quella più celebre in basso, meglio Anacapri.

Se Maratea è il sogno di una cosa, Capri ne è il sogno realizzato (fin troppo!)

Ma lo è in senso classista e aristocratico-selettivo piuttosto esplicito. La scena è organizzata per accogliere in modo superbo, ma al servizio prevalente dei ricchi del mondo. I nativi, i lavoratori dei Paesi slavi e americo-latini ed estremo-orientali in presenza diffusa, sono impegnati nel rendere ai ricchi ospiti la giornata confortevole. Di questo cospicuo jet set internazionale costantemente presente, è l’impronta data da figure di scienziati e artisti eminenti – Axel Munthe e la Fondazione svedese a lui intitolata, Edwin Cerio, espressione della migliore componente dei nativi e il Museo storico da lui organizzato – ad avere caratterizzato Capri anche come sede di un pensiero nobile, di un impegno professionale socialmente generoso, aperto al mondo,

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universale e colto. E con loro, l’innumerevole schiera di scrittori, poeti, pittori, botanici e naturalisti che si sono innamorati dell’isola e l’hanno eletta regina e nel tempo prediletta. Capri nei secoli ha mostrato di corrispondere all’appagamento di tutta la vasta gamma di sensibilità, propensioni e predilezioni, desideri estetici e bisogni erotici, meditazioni e pensieri filosofici, piaceri raffinati e sabba collettivi di cui sono capaci gli umani quando si esprimono al loro meglio e sfrenano. Perché Capri non è di suo escludente e selettiva, prestandosi anzi, come varietà e molteplicità di scenario, ad accogliere, ospitare e appagare l’universo creato. E’ la spinta commerciale e mercantile a renderla, specialmente in alcuni periodi, problematica, scostante e perfino in qualche modo esagerata. D’altra parte bisogna pure fare i conti con il fatto che la sua capienza fisica è materialmente limitata. Al cultore della bellezza sarà quindi utile evitarla in alta stagione estiva per godersela in primavera e autunno, quando i colori sono freschi e più sfumati, l’aria leggera, i profumi e i frutti generosi, vicoli, ville, musei e spiagge più praticabili.

Il rientro a Napoli

Allo sbarco dell’aliscafo sul molo Beverello, a risarcirci delle angherie subite nei tre quarti d’ora di trasbordo – pigiati sottocoperta, sottoposti a una sciaguratissima aria condizionata e al sonoro petulante di una telenovela – siamo stati accolti, alla testa della colonna dei taxi in attesa, da ben cinque vocianti smistatori. Troppa grazia! ho improvvidamente commentato ad alta voce, visto tra l’altro che i loro interventi contribuivano a ritardare la scorrevolezza del servizio. Uno di loro, piccato del mio commento, ha reagito con finta ironia: “Perché, il signore si sente forse offeso dalla nostra accoglienza?”. Qui, se non stai attento a come parli…

L’autista della vettura in cui alla fine siamo saliti è un giovanotto dai capelli rasati e un brillantino all’orecchio alla Maradona, che subito inizia a trattenerci commentando il maltempo, il traffico pesante, e poi passa al racconto dell’arrivo in famiglia di ben tre gemellini. Sgraniamo gli occhi: povero e beato, e poi così giovane! Chissà le gioie, ma anche le preoccupazioni… Infatti il nostro conduttore lamenta subito di non avere dormito la notte per il coro incessante di pianti, e giura che trascorrerà la prossima sui sedili del suo taxi. In più, aggiunge con smorfie esagerate e un po’ teatrali, la casa era stata invasa dalle suocere, una più petulante e possessiva dell’altra. A distanza di due mesi dalla nascita, già non ne poteva più… Insomma,

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alla fine non sapevamo se fargli le congratulazioni o le condoglianze… Io mi sono avventurato a commentare: meno male che qui a Napoli avete un cardinale che regala case a tutti i bisognosi. Il nostro autista, sveglio come un furetto, piglia la palla al balzo per augurare al cardinale e a quelli generosi come lui una bella colata del Vesuvio in testa. Insomma, avevamo incontrato un ragazzo pieno di potenza generativa e di sapida comunicazione satirica.

Arrivati alla stazione, al momento di pagare – il tassametro segnava undici euro – porgiamo al giovane taxista ricco di prole un biglietto da venti euro. Ed ecco che la tripletta dei gemellini torna di botto in circolo e a frutto: gentilissimi signori, non volete dare una mano a un giovane padre in così grande difficoltà? Ora ditemi voi: tra bagagli da riacciuffare e il treno in partenza, come rifiutare una mano a un così simpatico giovane? E così i venti euro sono lestamente scomparsi in una sua tasca. Voi direte che io pecco di sospettosa diffidenza, ma a me, durante il viaggio in treno verso Roma, niente ha potuto togliermi dalla testa che il nostro brillante giovanotto si sia inventato la storia del triplice parto proprio per farci scucire qualche euro in più. Il che, anche soltanto ad essere stato indotto a pensarlo, non è stato per nulla simpatico. Insomma, il passaggio da Napoli a Capri, tra taxi e aliscafi, si è rivelato un mezzo salasso fastidioso e anche piuttosto avventuroso. E la lezione cui siamo stati indotti è che non basta aprirsi a una cordiale confidenza per evitare qualche colpo basso: che sgorga inesorabile dalla oggettiva, differente condizione sociale e materiale di chi si incrocia e incontra. Ah, bastassero nella vita buona volontà e le migliori intenzioni…

P. S. Dimenticavo: la presentazione del mio libro, su una terrazza adiacente la famosa Piazzetta, è andata , malgrado tutto, bene. Malgrado tutto perché, pur non avendo avuto il conforto della presenza dei due relatori previsti, falcidiati dai malanni e dagli imprevisti, chi li ha sostituiti – Filippo Barattolo, direttore del Centro Caprense e della Fondazione Cerio, alla quale si deve la realizzazione dell’omonimo splendido museo su origini, storia e cultura di Capri – si è mostrato perfettamente all’altezza del compito. E la cena finale, gentilmente offerta, è stata quanto di più convivialmente piacevole nella conoscenza della realtà locale e del suo genius loci – anche culinario e gastronomico – del vecchio “Kapros”: l’isola dei cinghiali, come l’hanno battezzata gli antichi Greci. In realtà l’isola degli umani più vicini allo stato e alla condizione di dei.

Mi scordavo: Cecilia sostiene che a Capri la combinazione di colori più presente è il bianco su bianco. Le roselline bianche, ad esempio; o una pianta di oleandro dai fiori bianchi contro il bianco immacolato della parete di una casa. O i gerani dal candore

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inappuntabile. E in effetti io trovo che sia vero: non è che gli altri colori – certi rossi fuoco e blu cobalto! – a Capri manchino. Ma provateci voi a stupire l’occhio giocando il bianco su un altro bianco…

Napoli: uno, due, tre!

Uno

Ho visto nel cuore di Napoli – e lo dico consapevole di non inventare un viaggio fatto oltre i bastioni di Orione - un viluppo di tre, anche quattro corpi pigiati a cavalcioni di un motorino: spesso un’intera famiglia, padre, madre e due bimbi, pressati sul sellino a comporre un insieme di membra insaccate come monumento al salume motorizzato. Sfrecciavano rombando tra auto parcheggiate e buche come dovessero arrivare con urgenza chissà dove. Tutti rigorosamente senza casco. A un certo punto sorge perfino il dubbio che non abbiano una meta reale, perché, procedendo nel meandro serpentesco dei vicoli del Rione Sanità, riappaiono all’improvviso sfrecciando in direzione opposta come inseguiti da qualche orribile minaccia. (Ma in verità non si dovrebbe trattare di orribile minaccia alcuna, visto che le espressioni dei centauri in viluppo laocoontico appaiono di una soddisfazione beata…).

Insomma, per i vicoli del centro storico di Napoli piroettano in continuazione migliaia di motorini su cui compiono rombanti acrobazie singoli, coppie e intere famiglie. Si incontrano anche macchine di polizia e carabinieri – e, ripeto, chi dei motociclisti tiene in testa il casco fa scandalosa eccezione. Ma i garanti della legge e

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i tutori dell’ordine non fanno una piega: la legge viene tranquillamente ignorata sulla pubblica via e in massa, e chi è pagato per farla rispettare sembra affetto da totale cecità. Segnalo il fatto, scambiando civilmente chiacchiera, a un edicolante del luogo: la risposta è un allargare rassegnato di braccia accompagnato dall’esclamazione: ma oggi è così dappertutto, in Italia! Continuo a passeggiare per vicoli e rampe, punzecchiato visivamente e sonoramente dallo sciame irridente delle famigliole motorizzate, e approdo a un gigantesco SUV che impedisce ogni ulteriore proseguimento. Vedi Napoli storica antica: e poi finisce che ti fermi e non puoi procedere più.

Due

A piazza Plebiscito, e lungo Via Toledo, capita di assistere a scene di caccia, da parte della finanza e dei vigili urbani, nei confronti di extracomunitari ambulanti – senegalesi specialmente. Sembra la recita teatralizzata di una sfida tra guardie e ladri, o un infantile e divertito nascondino. All’improvviso, mentre con l’amico Nicola e con mio figlio impegnato a scattare foto scambiamo chiacchiera o contempliamo qualche portentoso scorcio, ecco i venditori ambulanti prendere inaspettatamente il volo come stormo di colombi puntati da una muta di cani. E’ l’arrivo di una pattuglia di guardie a creare lo scompiglio, ma il tutto si ricompone dopo che l’innocua muta si è allontanata. Passata la tempesta, scomparsa la minaccia, l’allegro presepe del mercatino ambulante riprende rutilante e pigro.

Arriviamo per il pranzo a una minuscola trattoria a gestione famigliare, nel cuore del Rione Sanità, priva di insegna e quindi reperibile solo a chi casualmente vi inciampi o già nel tempo l’abbia frequentata. Il vecchio padre/padrone seduto all’ingresso su una cassetta di frutta vi accoglie con un grugnito di benvenuto; la madre sfaccenda operosa tra i fornelli in cucina; il figlio vi serve a tavola. Dentro il locale niente fronzoli: tavoli di finto marmo ricoperti con un foglio di carta colorata, specchi consunti alle pareti, sedie impagliate. La scelta del menù vi viene declamata a voce del figlio: pochi piatti fondamentali tutti a base di pesce. Vi prego, mangiate, se vi capiterete, come abbiamo fatto noi oggi: spaghetti alle telline affogate nel sugo di pomodoro, olio sopraffino e peperoncino; un tortino di alici accompagnate da un contorno di friarielli saltati, il tutto aiutato a scendere da uno zolfigno vino bianco del Vesuvio. Vi sentirete i sensi della lingua e del palato scoppiettare in crescendo e salire a inebriare le anse e i meandri reconditi del cervello. Il tutto al costo, ovviamente non fiscalmente registrato, di 13 euro ciascuno.

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Tre

Alla presentazione del libro, dentro una magnifica e severa sala del Maschio Angioino, ci siamo trovati alla fine in quindici, tutti amici di lunga lena. Mi è sembrato di essere - fatto evidentemente salvo l’enorme divario – un redivivo Gesù nel tempio tra i dottori. Dopo le stimolanti introduzioni dei relatori – Annella Prisco, Pasquale Persico e Mario Salani - gli amici di una vita hanno detto a turno la loro sul libro, sulle alterne vicende dell’amore e della fedeltà alla bellezza dei luoghi, sulle trasformazioni lente e spesso non così positive che il tempo ingenera sull’oggetto delle riflessioni e su chi le propone. Io non ho sostanzialmente aperto bocca, se non per ringraziare. Hanno tutti parlato con rincuorante interesse per il libro, e parlandone hanno parlato anche di sé – così come d’altra parte è successo, scrivendolo, all’autore del libro stesso. Tutti hanno in qualche modo evidenziato il percorso di vita compiuto, e il punto a cui come collettività e Paese siamo noi tutti arrivati, rivelando il proprio bagaglio ancora vibrante e residuo - malgrado vicissitudini e ferite - di speranza e progettualità. Uno di loro, il professor Cillo, che insegna ai suoi studenti come attrezzare e valorizzare la bellezza dei paesaggi di un territorio, ci ha tutti invitati a rimanere in silenzio per 30 secondi. Incuriositi e divertiti abbiamo aderito. Abbiamo ascoltato zitti il rombo del traffico sottostante il Maschio Angioino, e il rumore dei motori delle imbarcazioni nel Porto. “Ecco, avete ascoltato l’esatto contrario di uno degli elementi impagabili, a Maratea sovrano: il silenzio. Guardatevi dal vagheggiare per quei luoghi trasformazioni tipiche del turismo congressuale. Così porterete appresso anche i cascami connessi: il frastuono del divertimentificio alla Rimini, prostituzione e spaccio di droghe. Attrezzate invece quei luoghi come buen retiro e spazio per l’arte e la riflessione, la lenta escursione a piedi, l’elevazione e la rigenerazione dello spirito, il luogo generoso dove gustare il cibo nutriente per la mente e il corpo. Mai come oggi, nel mondo, tali prerogative sono così apprezzate e ambite.”

Mimmo e Pompeo, abbracciandomi prima del rientro a Maratea, hanno però commentato: “ma noi lì, in un silenzio pressoché totale, viviamo praticamente la gran parte dell’anno..! Non ci sarà consentito un po’ più di allegro chiacchiericcio, e magari con qualche ospite che si intrattiene un po’ più a lungo, e che torna volentieri perché sa che lì trova un luogo amabile, fruibile e civilmente attrezzato, e non un rarefatto deserto?”

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Cartoline ischitane

Se decidete di andare per qualche giorno a Ischia in un periodo completamente fuori stagione, scoprirete un’isola il cui territorio (45 kmq di estensione, 60.000 abitanti distribuiti in 6 comuni, oltre 2.700 anni di storia) è ricchissimo di verde in tutte le variazioni di cui è capace l’habitat mediterraneo, di acque sorgive sia dolci che termali, di un insieme la cui mirabile impronta è frutto della convergenza di tutti i fattori che rendono godibile un luogo: mare e montagna (il monte Epomeo con i suoi 700 metri di altezza), baie, spiagge e insenature disseminate in strepitosa abbondanza, una mescolanza felice tra l’approdo, da un lato, di un mondo cosmopolita raffinato (sterminato è l’elenco degli ospiti illustri: Boccaccio vi ha ambientato la sesta novella del Decamerone, Ibsen vi ha creato il Peer Gynt, Lamartine vi ha ambientato Graziella, Benedetto Croce vi ha perso, ahimé, i genitori nel terremoto del 1883 - ma l’elenco raccoglie il meglio dei diversi settori artistici: Berkley, Stendhal, Shelley, De Musset, Taine, Verga, Maupassant, Nietzstche, Steinbeck, Auden, Morante, Pasolini, Truman Capote, Montale, Brodskij, Luchino Visconti con la sua Colombaia trasformata oggi in museo/fondazione, Edoardo De Filippo... Ma voi sapevate che a Ischia Ponte sono stati girati diversi film, da Cleopatra con la Taylor a Il talento di Mister Ripley di Minghella?) e, dall’altro, una

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propensione per l’ospitalità da parte dei nativi eccellente perché nel tempo professionalmente coltivata.

Alla Stazione Zoologica Anton Dhorn, che occupa il promontorio della riva destra del Porto, ci hanno spiegato che gran parte del mare che circonda l’isola è parco marino protetto con il nome di “Regno di Nettuno”. In gran parte del mare che circonda l’isola è presente la posidonia, che dà origine a praterie sottomarine ricche di vita animale. Essendo infatti una pianta con radici, la posidonia ospita tra le sue foglie batteri, alghe, idrozoi e briozoi che costituiscono cibo ambito per polpi, seppie, gamberi e pesci.

Andate a Ischia possibilmente fuori stagione. Vi troverete a guazzare beati in piscine termali esclusivamente a voi riservate, ad assaggiare i dolci migliori da Calise, al Porto, con i camerieri che vi circondano soccorrevoli come vecchie zie innamorate. La sera cenerete praticamente soli in qualcuno dei tanti ristoranti della riva destra del Porto, gli stessi che d’estate rigurgitano di clienti costretti all’attesa e a supplicare uno strapuntino d’angolo dove consumare il pasto. E senza ansia e pigia pigia – la pioggerellina tenue e quasi nebulizzata che fa da carezzevole accompagnamento musicale, il tepore profumato del forno delle pizze, il proprietario, lo chef e i camerieri che a turno verranno a raccontarvi di sé, del loro lavoro, dei segreti del loro mestiere - vi sentirete ospiti graditi come a casa di vecchi amici. Voi siete l’inatteso fuori programma e fuori stagione con cui si può entrare in confidenza senza tema di interferenze, ascolti indiscreti e richiami che costringono a riprendere la corsa frenetici.

Ci è capitato un po’ come chi si trova a passare in rassegna le truppe di una linea del fronte dopo la battaglia estiva e prima di essere costrette, ricomposte le energie e le scorte, a ingaggiare quella natalizia successiva. Ci siamo ritrovati per tre giorni in una atmosfera sospesa, nell’incantesimo di una scena che esprimeva la bellezza al riparo della baraonda estiva. Siamo stati accolti da silenziosi oooh! di benvenuto, espressi da chi provava l’evidente desiderio di confidare e i suoi crucci e sogni: a noi, la coppia di ospiti capitati nello spazio favorevole dell’intervallo. Non eravamo l’ennesimo turista estivo tra le migliaia da accontentare con una sveltina gastronomica; non il ricco che si concede la settimana a Natale e Capodanno reclamando un colpo di bacchetta magica per rifare contatto con il riverbero degli splendori estivi; non numeri impersonali e anonimi dell’esercito di turisti e clienti, ma esponenti della minoranza dei viandanti accolti come ospiti sacri. C’è stato il

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reciproco riconoscimento dello status di persone portatrici di somiglianza fondamentale e diversità preziosa.

In evidenza, si direbbe che Ischia, malgrado il grande flusso e l’arrembaggio estivo, non si sia ancora arresa a una logica totalitaristicamente turistica, piegata e piagata dal servizio all’altrui arroganza e cupidigia. E che un piccolo miracolo si è compiuto è testimoniato dal fatto che ci siamo resi conto di avere spontaneamente assunto e condiviso il punto di vista dei nostri interlocutori, un pezzo della loro vita. Ai ristoranti, le persone che ci hanno accolto e intrattenuto hanno manifestamente gioito nel constatare il nostro godimento per le pietanze assaggiate – e innaffiate da un nettare divino ribattezzato Biancolella -, e ci hanno mostrato gratitudine per il riconoscimento non lesinato, proponendoci ancora e altro, raccontandoci il prima e il dopo, il sopra e il sotto del loro lavoro. Tanto che alla fine il conto, mai esagerato, scivolava tra le mani con un certo imbarazzo, in qualche modo incongruo rispetto a quanto partecipato e goduto.

Tre giorni fuori stagione a Ischia sono stati una esperienza di vita famigliare un po’ surreale e favolistica, a contatto con una disponibilità fuori dell’ordinario di ogni ben di dio. Abbiamo passeggiato in parchi naturali e giardini che accolgono un po’ dovunque, tutti ricchi di una cornucopia di piante e fiori e curatissimi. In ore e ore di vagabondaggio ci è capitato di incrociare soltanto un paio di persone che trotterellavano, in tuta e pantaloncini, a caccia della migliore forma.

L’isola non è solo immersa, come da condizione e definizione, nelle acque del mare, ma è al suo interno zampillante di acque termali e dolci. Una sola immagine tra le possibili tante: i marciapiedi del porto sono praticamente a livello del mare, per cui basta la sera un variare anche minimo di marea perché l’acqua esondi invadendone buona parte, riflettendo le mille luci della miriade di festose ghirlande natalizie, suggerendo una dimensione e un’atmosfera alla water world. A contrasto del trionfo di liquidità vuoi marina, vuoi sorgiva e piovana, il fondo di strade e marciapiedi è pavimentato di quadrati lastroni lavici dalla nera robustezza inconsumabile. Ed è suggestivo e anche un po’ inquietante l’essere nottetempo costretti a poggiare il piede su un fondo così solido e rassicurante, e nello stesso tempo a mollo di un velo d’acqua che, sciabordando, mollemente avanza e si ritira. Ma l’acqua è presente e ruscella anche a causa delle piogge e per qualche perdita dalle tubature per viottoli e strade spesso trasformate in letti di torrente. Così come ve la ritrovate, calda e terapeutica, nelle piscine di ogni albergo. Insomma, Ischia è un’isola di origine vulcanica dove la roccia lavica contende e contrasta con acque dolci e termali che

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sgorgano da ogni pozzo e interstizio, cavità e fessura. Questo, insieme alla fatica intelligente dell’uomo, ha contribuito a trasformare buona parte del territorio in orto e vigneto, giardino e uliveto, producendo una compresenza unica di roccia eterna, pianura e collina gravide di messi, animali e frutti. D’altra parte, perché altrimenti già i Greci sette secoli avanti Cristo l’avrebbero scoperta, battezzandola Pithecusa, ed eletta a loro dimora – e dopo di loro i romani, i bizantini, i saraceni, i normanni, gli svevi, gli angioini, e poi gli aragonesi, gli austriaci e i borboni, i piemontesi e gli italiani tutti, e infine le folte rappresentanze di appassionati estimatori di tutti i paesi del mondo?

Passeggiando in lungo e largo per i diversi centri abitati (Ischia Porto e Ischia Ponte, con il suo incombente e un po’ tetro Castello Aragonese, Lacco Ameno, Casamicciola e Forìo, con l’impennata vertiginosa del promontorio panoramico della Madonna del Soccorso), lo sguardo viene catturato da improvvisi varchi che si aprono tra le case, dentro stretti cortili che invitano a entrare. E ogni volta vi trovate a scoprire giardini e orti e frutteti dove piante di aranci e mandarini sono incendiate da una abbondanza incredibile di frutti. Le persone che incontrate, alla minima vostra richiesta di informazioni, subito si dispongono a darvi immediata e cortese risposta. E a Ischia Ponte mai ci è capitato di ascoltare una dovizia di informazioni come quelle che nella sua appassionata esposizione ci ha fornito il curatore di un presepe tra i più affascinanti e pregevoli. Ed eravamo probabilmente gli unici visitatori della mattinata. Un altro degli aspetti che ci ha favorevolmente colpiti, in questi ahimé pochi giorni ischitani, è stata la forma diffusa e prevalente degli edifici privati e pubblici: non invasiva, non aggressiva, non sovraccarica, dappertutto ben inserita e circondata di piante e fiori in abbondanza. L’insieme urbanistico è infatti equilibrato e armonioso, rallegrato da colori che variano dal rosa al giallo, all’arancione, al verde pastello. La forma architettonica dominante contribuisce a trasmettere un senso di benessere civile, un sentimento coltivato del bello, di un buon gusto gioioso e creativo, e i nativi hanno evidentemente saputo bene interagire con la profusione di risorse naturali presenti nell’isola, e con le esigenze e le attese del flusso incessante di ospiti che la bellezza del luogo attira da ogni parte del mondo.

Negozi, ristoranti, bar, boutiques e locali di intrattenimento sono di ottimo livello, ben tenuti e diligentemente gestiti. Per eleganza, abbondanza e decoro, viene da associare la proposta commerciale e alberghiera di Ischia a quella dei migliori centri della Costa Azzurra, o delle rive di qualche lago settentrionale o svizzero, o della celebrata costa spagnola. Con l’aggiunta, ovviamente, del brio connaturato al nativo elemento umano e dell’impagabile bellezza del fulgore mediterraneo.

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Ci è capitata la fortuna di visitare l’isola in un momento di sospensione magica, quando gli operatori nativi e quelli provenienti da Napoli si rilassano tra il fuoco estivo e le feste di fine anno. Abbiamo così potuto vagabondare come tra le quinte di un palco curiosando, interrogando, scambiando battuta e sorriso con persone ben disposte. E’ stata un’esperienza interessante, divertente e anche un poco strana. E’ come avere curiosato nei camerini di attori e attrici in deshabillé, cogliendo scorci e immagini di sospensione rilassata, qualche domestico sbadiglio, una fragorosa risata. Siamo stati più ospiti che clienti, inaspettati e quindi graditi. Se volete, per fugare ogni sospetto che questa sia nota ispirata da qualche pro loco o azienda turistica interessata, possiamo segnalare un inconveniente negativo non secondario: l’eccesso di traffico automobilistico privato. Molti e frequenti sono gli autobus del servizio pubblico, numerosissimi anche i taxi perfino nella versione Ape anni cinquanta, che par di stare in qualche luogo esotico della Thailandia. Ma, nel ruolo di amministratore dell’isola, noi limiteremmo rigorosamente il flusso di automobili che imperversa insinuandosi dovunque come lingua lebbrosa. Dipendesse da noi favoriremmo gli spostamenti, specialmente nei centri abitati lungo la costa, grazie a una potenziata rete di servizio pubblico. Ma anche una soluzione ragionevole come questa, in questo Paese, che ha eletto l’automobile a totem, può essere sdegnosamente rifiutata e aborrita.

Agropoli e Castellabate.

Agropoli si presenta come città poliedrica e doppia: vecchia e nuova allo stesso tempo, urbanisticamente disposta in alto e in basso, lungo le pendici di colline che si affacciano su due golfi. A dividerli, un’alta rocca su cui sorge Agropoli vecchia. Il porto è ampio e pieno di imbarcazioni di tutte le stazze e tipi. Il centro città è pedonalizzato e ben tenuto e sale in lento pendio, tra magnifiche fioriere e bei negozi, verso la sommità di Agropoli vecchia disposta intorno al suo corrusco castello. Dalla sommità il panorama sul porto mozza il fiato: ecco i due golfi, la costiera amalfitana e, all’orizzonte, la silhouette riconoscibile e celebre di Capri.

Anche l’antico borgo raccolto intorno al castello è ben curato, con negozi di artigianato, pub, bar, pizzerie e trattorie dove ci si può rifocillare. Il caso ha voluto che quando siamo arrivati noi, nel piccolo anfiteatro dentro il castello si tenesse una cerimonia in cui il sindaco premiava quaranta ragazzi dei licei della città che si erano distinti con la lode alla maturità; e che proprio al nostro ingresso il sindaco chiedesse ai presenti un minuto di silenzio in ricordo del sindaco di Acciaroli, Angelo Vassallo, assassinato pochi giorni prima. Poi l’assessore alla cultura ha preso la parola e ha

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spiegato il perché del premio. E per dare forza alle sue parole ha citato don Milani, là dove sostiene che un ragazzo che affronta la vita senza una cultura adeguata è come un uccelletto scaraventato in cielo privo di ali. E a quel punto ci siamo sentiti in piena sintonia, a nostro agio e a casa. Poi ci siamo accomodati sotto le volte di una vecchia e misteriosa cantina dove abbiamo centellinato un bicchiere di buon falanghina. Su un balcone con vista sul mare, abbiamo ammirato il cielo all’orizzonte, reso prima rosa, poi scarlatto e infine violetto dal precipitare del tramonto.

La lunga e lenta salita verso la sommità di Agropoli vecchia e del suo castello; il panorama goduto; il premio ai migliori ragazzi liceali della città; il minuto di silenzio per l’esempio eroico del sindaco giusto; la citazione di don Milani in accompagnamento: e pensare che finora avevo registrato in testa Agropoli soltanto come uscita autostradale e stazione ferroviaria! Ho scoperto che mi ero finora privato della conoscenza di una bella e civile città marinara affacciata su un mare con vista su Capri, Ischia e la costiera amalfitana.

Castellabate è un borgo medievale a una ventina di chilometri a sud di Agropoli ,su un tratto di costa del Parco del Cilento che a differenza di quella amalfitana, o di Maratea, a strapiombo sul mare, si distingue per la sua configurazione dolcemente collinare. Il suo castello – ristrutturato a dire il vero in modo sbrigativo e non così fedele al profilo originario – merita una visita: la piazzetta centrale è quanto di più godibile e suggestivo, la vista sul mare splendida. Non a caso il borgo è stato annoverato e acquisito dall’Unesco come Patrimonio dell’Umanità.

Santa Maria è, di Castellabate, la frazione più popolosa sulla costa: tradizionalmente dedita alla pesca, ha conservato anche oggi parte del suo spirito e della cultura originaria, arricchita da trasformazioni finalizzate a rendere più adeguata l’ospitalità turistica. Ecco quindi i numerosi alberghi, i ristoranti e le pizzerie, la seconde case e i bed&breakfast, diffusi ma di presenza non così invasiva. Il corso cittadino pedonalizzato che accompagna l’estensione del paese lungo la costa è ben organizzato tra due ali di botteghe e negozi. La spiaggia è parte di scoglio e parte sabbiosa, parte attrezzata e parte libera. La popolazione è di indole semplice, schietta e genuina, le famiglie folte di ragazzi e bambini. La presenza di ospiti esterni, specialmente d’estate, è cospicua e fatta prevalentemente da napoletani. Anche gli stranieri - tedeschi e inglesi, francesi e nordici, perfino polacchi e ungheresi - sono componente significativa, e si individuano facilmente, oltreché per la lingua, anche perché amano camminare per i vicoli e il lungomare del paese a piedi nudi. Schiettezza e semplicità sono prerogative nella gente di Santa Maria: la cultura

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contadina, quella marinara, la più recente dimensione dell’ospitalità turistica e alberghiera ne sono causa ed insieme conseguenza. Certo, ci sono tracce di abusivismo, di qualche volgare e frettolosa ricchezza recente: ma ancora tutto non è inquinato e perduto, il clima sociale e il paesaggio hanno un loro equilibrato profilo.

Se passeggiate la sera lungo il corso principale noterete che le persone del luogo incontrandosi volentieri si salutano e si intrattengono a chiacchierare sulle vicende del giorno, ad accordarsi per il lavoro e i servizi del giorno dopo. I bambini sciamano e si scapicollano con biciclette e skate sull’ampia piazza del municipio, gli adolescenti si raggruppano in uno slargo attiguo impegnati, impugnando le aste con infilati i piccoli giocatori, in interminabili partite a calcetto. I loro fratelli e sorelle maggiori, mescolati ai giovani ospiti vacanzieri, stanno invece raccolti sul lungomare all’ingresso e dentro i numerosi pub e bar ad ascoltare musica e a sorbire bevande ghiacciate.

La mescolanza tra nativi e ospiti forestieri è naturale e reciprocamente apprezzata. Dai sette/ottomila abitanti residenti, d’estate Santa Maria raddoppia o addirittura triplica, e tutto scorre socialmente in modo piacevole e fluido. L’identità della comunità è in evidenza così forte e coesa, da accogliere senza problemi e interagire anche con un numero di presenze estive tanto elevato. Si direbbe che funziona un ingrediente di base: la curiosità, l’attenzione reciproca, la voglia di stare bene insieme. Io ti dò quello che sono e che so fare, tu mi paghi il giusto, e ti rendi disponibile per quello che sei. Lo scambio si regge su un patto reciprocamente gradito, e questo sembra essere il segreto.

Oltre alle spiagge e al lungomare, e a una passeggiata in collina e lungo il corso principale, è consigliabile una visita alla Villa Matarazzo, che compensa e bilancia la struttura abusiva sulla collina sopra San Marco dell’ Hotel Castelsandra, in attesa di demolizione e sotto sequestro. Villa Matarazzo ne è l’esatto contrario: ben conservata nella sua interessante struttura originaria, aperta e pubblica, ospita mostre di quadri, esposizioni di libri sui temi e problemi del Mezzogiorno, prodotti artigianali tipici, concerti e saggi musicali.

Capri, Amalfi, Maratea e Taormina sono sicuramente i luoghi che danno al Sud un internazionale e indiscusso prestigio. Ma sono cittadine come Agropoli, Castellabate, Santa Maria, nella compresenza di modernità e tradizione, nella loro operosità industriosa, nella loro semplicità genuina, a costituire importante risorsa per il relax e la vacanza.

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L’amore buio.

Il regista napoletano Antonio Capuano (Pianese Nunzio, 14 anni a maggio; Vito e gli altri; Luna rossa; La guerra di Mario ) mette questa volta in scena il rapporto agognato e impossibile tra il popolo napoletano – sarà politicamente corretto dire la plebe dei vicoli del centro storico? – e la borghesia colta, illuminata e nevrotica dei quartieri nobili. Sono come due parti di una stessa città che vivono da sempre scisse e separate in casa, si temono e si odiano, si studiano sospettose, si cercano fameliche senza mai abbandonarsi e reciprocamente saziarsi. Nelle prime scene del film quattro ragazzotti rozzi e scapestrati pescano sola la notte al rientro in casa la sedicenne Irene, figlia di famiglia borghese (una adolescente rediviva Eleonora Fonseca Pimentel?). I ragazzotti dei vicoli sono semiubriachi di testosterone e birra, gasati da musica rock e di corse folli nella notte sul motorino: che altro possono fare? Individuata la preda – la dolce, fresca, profumata, elegante sedicenne borghese – se la intruppano e inzuppano in quattro dietro la saracinesca di un magazzino. E bene fa Capuano a mostrarci della bestiale e orribile scena la sola pudica immagine di un sandalo della ragazza scalciato e miseramente abbandonato. Poi c’è lo sviluppo

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successivo del film, con i quattro ragazzotti imbecilli violentatori che finiscono rinchiusi nel carcere minorile di Nisida, tanto panoramicamente affascinante quanto funereo. Uno dei quattro, Ciro, il più tenero ed esteticamente bello, ci ripensa, si interroga, si pente, e poi decide di scrivere lettere su lettere, decine e centinaia, alla ragazza: per tentare di spiegarsi, di capire, di scusarsi, di chiarire. Il ragazzo rappresenta il meglio che ancora sa esprimere la plebe napoletana: scrive poesie, compone rap di violenta catartica protesta. La ragazza, Irene, è un fiore di serra della migliore illuminata borghesia. Capuano, il regista, si capisce che tifa e fa del suo meglio nel ruolo di complice e mezzano: vuole farli incontrare, ma non da violentatore coglione e violentata anoressica, ma da persone vere così diverse eppure reciprocamente attratte, teneramente innamorate.

Ci provano fino alle ultime immagini del film, là dove Ciro esce dal carcere accolto dai suoi e però con gli occhi cerca Irene – e la trova, la vede! Ma è soltanto immagine del suo desiderio, perché anche Irene lo sta guardando intensamente dalla soglia dell’Università americana dove i suoi l’hanno spedita perché dimentichi. E così, con questo poetico e cinematografico escamotage, Capuano riesce a far finalmente incontrare Eleonora Fonseca Pimentel, alias Irene, con il suo bel Ciro dei vicoli di Forcella - non in veste di truculento carnefice sanfedista, ma di innamorato suo. E così, popolo meridionale e borghesia, (non) vissero felici e contenti.

Il relativismo etico e i suoi (floridi e marci) frutti.

Anni fa, era il 2003, è uscito per le edizioni Egea un mio saggio intitolato “L’impresa etica e le sue sfide”. Alla sua stesura ero stato stimolato anche dalla partecipazione a un convegno – era il 2001, lavoravo alla Coop nazionale – organizzato su quel tema dalla Università Bocconi, cui aveva partecipato in pompa magna e con un entusiastico intervento Maroni, allora ministro del Lavoro. Scopo ufficiale dei lavori del convegno era la discussione e il varo di una batteria di parametri e indicatori finalizzati a misurare il rispetto da parte delle imprese, nei loro comportamenti, di standard etici. Alle imprese che li avessero rispettati, il ministro prometteva riconoscimenti, corsie preferenziali negli appalti pubblici, agevolazioni. L’idea, per quanto ambigua e piena di ombre, mi era sembrata interessante. Si voleva infilare alle aziende un termometro per misurarne temperie e temperatura etica? Ma chi misurava chi, e per quantificare cosa: la responsabilità sociale, l’anima? O si voleva soltanto fare un po’ di ammuina e vetrina per salvare faccia e coscienza? Sapete, erano i tempi dello scandalo Enron, l’attenzione dell’opinione pubblica era allarmata. Poi, negli anni successivi e fino ad oggi, le cose sono andate come sono andate – e

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non certo in meglio, anzi. Per ricordarne qualcuna di quelle viste e conosciute da vicino, nel 2005 è scoppiato nella Lega delle Cooperative il controverso caso BNL-Unipol. Ho cercato allora, dall’interno e come ho potuto, di esprimere il mio dissenso (sto leggendo un saggio interessante di Mario Frau, “La Coop non sei tu”, in cui sostanzialmente mi riconosco). Infine oggi leggo cosa si è detto nell’annuale meeting di Comunione e Liberazione a Rimini, a che spiaggia è approdata la stagione che anche nel mondo cattolico, oltreché nelle imprese private e pubbliche, era partita all’inizio del Terzo Millennio con il richiamo all’etica della responsabilità sociale: e cioè l’attuale pubblica, irridente invettiva, avallata anche da voci prestigiose come quella del cardinale di Venezia, contro il cosiddetto moralismo di chi nel modo di fare affari e politica del berlusconismo non si è riconosciuto e non si riconosce. In particolare, mi ha colpito ritrovare nelle argomentazioni addotte in quella sede –vedi le parole di una delle eminenze grigie di quel movimento, e cioè di Gian Carlo Cesana, riportate nell’articolo di Gad Lerner apparso su La Repubblica - tutte imperniate, attraverso la lettura delle ultime righe de “In nome della rosa” di Umberto Eco, sull’uso e abuso del concetto di verità. Ebbene, alle tante cose lette al proposito in questi giorni vorrei aggiungere qualche mia riflessione, perché anch’io, nel mio piccolo, mi trovo ad affrontare in questi giorni argomentazione insidiose simili. Ma non provenienti da sponde di affarismo incorniciato dalla fede religiosa, ma da parte di interlocutori incardinati in ambito politico laico di orientamento non ciellino, bensì piddino. L’asse del discorso è infatti più o meno lo stesso: in presenza della mia critica all’ideologia spregiudicatamente praticata del business is business, a prescindere da implicazioni morali, compatibilità ambientali, rispetto di regole e norme, mi si risponde: tu sei un idealista e un moralista presuntuoso. Ti credi portatore di qualche verità superiore, pretendi per questo di essere diverso e migliore, vieni a criticare e predicare con burbanza e spocchia, mentre qui – il riferimento è Maratea e la Basilicata, ma potrebbe essere benissimo l’intero Paese, e oltre – la verità vera è che bisogna comunque fare. Con gli uomini, i mezzi, le risorse e le opportunità che ci sono: prendere o lasciare. Oppure: sì, sì, tu sei bravo a raccontarla: la buona politica, la comunità consapevole e responsabile, il rispetto per l’ambiente, la trasparenza e la coerenza tra valori e principi, decisioni e comportamenti. Ma qui intanto bisogna produrre lavoro e reddito, pane e companatico. Qui non si campa di ricerca della verità, di supponenza e saccenza, di richiamo al rispetto delle regole e di moralismo virtuoso. Qui si lavora sodo, si procede cercando sempre il compromesso onorevole, e questo è l’unico modo possibile di fare politica utile e concreta. Allora tu gli rispondi elencando le occasioni perse, gli arretramenti e le sconfitte, i guasti e le derive, gli parli della necessità di mettere in discussione l’attuale dominante e

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disastroso modello economico-produttivo e di trovarne uno diverso, di rinnovare merito e metodo: loro ti rispondono appellandosi alle condizioni del contesto, alle logiche stringenti e alla necessità delle mediazioni e dei compromessi. Tu per loro sei la fastidiosa anima bella, il velleitario moralista: loro sono i titolari unici del principio di realtà. Se le cose non vanno o vanno male è sempre colpa di qualcuno o qualcosa d’ altro: la crisi globale e, specialmente, il massimalismo nefasto di chi vorrebbe provare a cambiare. Poi arrivano a pioggia gli arresti per associazione a delinquere – e abbiamo un premier il cui nord della bussola nel far politica è: non voglio finire in galera! Dice: che c’entra? Oltre a essere moralista non sarai mica anche giustizialista? E lì capisci che per chi ha inteso e intende le regole e le leggi come intollerabile impedimento, e da tempo persegue insieme ad altri privilegiati il fine del personale e privato arricchimento, costi quel che costi, tutto quello che vi si oppone è mala fede, bieco moralismo, infame giustizialismo. E ti arrendi al fatto che la cultura del berlusconismo è potuta diventare egemone anche perché parti cospicue dei vertici della Chiesa, e delle forze politiche che si richiamano al centro sinistra,vi hanno da tempo aderito. C’è una tenacia nel non volere mollare da parte di una generazione, una cordata, una casta, che fa capire come mai Renzi, sindaco di Firenze, intervistato su La Repubblica, così se ne sbotta: basta con gli eterni Bersani e Fassino, Veltroni e D’Alema. Non più di tre legislature! Avanti con i nuovi – e non nuovisti, perché innovatori e amministratori concreti – Chiamparino, Zingaretti, Vendola.

Waka Waka!

Può una fanciullina apparire volgarmente oscena e, insieme, puerilmente inconsapevole e sprovveduta? Purtroppo può. Da sempre la seduzione femminile si propone e agisce come arte e tecnica, esercitata però secondo codici non così scoperti, diretti e sessualmente espliciti. E’ sempre bastato al proposito uno sguardo, un cenno, un sorriso, un bagliore di candidi denti tra labbra socchiuse, un interesse manifestato da un sopracciglio interrogativamente sollevato. Oppure la dichiarazione commovente della disponibilità arresa nell’accendersi di un rossore improvviso, come ha mostrato magistralmente Karen Blixen nel suo Erhengard.

Oggi la potenza dei caratteri sessuali femminili ti viene sbattuta sul muso fin da piccola. E neanche più come sapiente malizia, o come dispositivo di oculata astuzia, ma proprio come sfrontatezza esplicita. E a confermare che questa è la nuova dominante tendenza sono le ragazzine e le bambine fin dai loro nove o dieci anni, che non hanno ancora appreso il vibrato delle modulazioni, le mezze tinte e le mezze misure, e rispondono con ingenuo entusiasmo alla forza del messaggio imperioso di

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andare al sodo. Non c’è più pudore o velo, non c’è più ombra di sottinteso o di sornione ammiccamento. Vuoi perché a quella età non capiscono per intero ciò che fanno e ciò che è realmente in gioco, vuoi perché l’imitazione, l’emulazione e l’esibizione sono per loro come un contagio travolgente. Per questo e per altro, oggi ci si trova in presenza di bimbette scatenate che infilano la mano proprio là sotto e proprio in fondo, e poi partono con il culo e bacino verso il tuo naso allibito con la staffilata di un plateale e seduttivo balzo serpentesco. Insomma, come si usa dire, te la sbattono proprio in faccia, la loro ancora implume e semi pubere femminilità. E’ per il sesso femminile una liberazione, una vittoria, una conquista? I maschietti da sempre sono stati autorizzati e anzi invogliati a mostrare con orgoglio muscoli e coglioni, ma oggi anche le femminucce non sono da meno. Saranno queste le nuove forme delle tanto decantate pari opportunità?

La madre di una di queste bimbette precoci mi confidava preoccupata che la figlia si abbandona a questi spalancati ancheggiamenti con un tale entusiasmo da far temere perfino qualche lombo sacrale slogatura. Anche le femministe degli anni Settanta procedevano a ranghi serrati alzando sulla testa le mani a forma di vagina. Ne rivendicavano proprietà e gestione. Le ragazzine osservate questa estate sulle spiagge del Sud e nei loro luoghi di incontro e ritrovo ti sbattevano in faccia la loro natura sessuata con risate di sfida baldanzosa. D’altra parte, in casa hanno il televisore perennemente acceso sui canali Mediaset, e le loro trasmissioni preferite sono quelle dove ragazze, ragazzone e ragazzine sculettano e ancheggiano con iterazione demenziale. Ma poi, avete visto sugli autobus e sui muri della vostra città la pubblicità di un marchio di abbigliamento per ragazzine adolescenti? Vi campeggia una 13-15 enne sdraiata a gambe aperte sul bancone della cassa di un supermercato, travolta da una valanga di zucchine e melanzane cazzute, una delle quali impugnata dalla suddetta e proposta con ammiccamento allusivo alle labbra. Il messaggio? Ragazzine, volete per voi il migliore cetriolo maschile? Allora vestitevi con i nostri abiti griffati. E poi si denuncia la pedofilia dei preti: ma in quei pubblici ed enormi manifesti non c’è sfacciata ed intera l’istigazione alla mercificazione e alla minorile prostituzione? Ho detto alla mamma che si lamentava preoccupata degli atteggiamenti di adescamento sessuale esplicito della figlia ragazzina, di cominciare con il tenere magari la televisione un po’ più spenta, specialmente durante i pasti o i compiti. Ma mi ha guardato come si guarda un mentecatto: rinunciare ai festival e ai varietà, ad Amici e al Grande Fratello? Inimmaginabile sacrilegio! Berlusconi ha stravinto lì, su mentalità e valori e comportamenti delle nuove generazioni. La pubblicità è oramai asso vincente e autorevole lasciapassare per un uso mercificato

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delle prerogative sessuali del corpo femminile. Che è mio, e me lo prostituisco io. Una vagina più autonoma, libera e indipendente di così… Ma qui siamo approdati alla caricatura capovolta del messaggio e della lotta femminista. Qui siamo alla gara a chi offre meglio e prima le proprie grazie, rivendicando anche e insieme il diritto di stabilirne il prezzo. Il maschio sovrano, o il capitalismo nella sua attuale forma mercatistica sfrenatamente liberista, condiscendente plaude. La femmina è autorizzata a gestire modalità e termini della propria schiavitù. Il lavoro promozionale e commerciale sporco lo fa lei: mica è a tal punto incapace e inetta! Ha capito benissimo la lezione: bisogna sollevare il maschio da ogni triviale preoccupazione. Qui viene proprio voglia di fare scelte di sobrietà o di astinenza, e non per ritorno di fiamma di una sessuofobia pudibonda, alla Tea Party degli ultraconservatori americani della Palin, ma proprio per non farsi travolgere dalla baraonda di una anarchia demenziale dimissionaria. Si è forse persa la nozione elementare che il sesso e eros sono il tramite necessario per la nuova vita, e il più piacevole e bello per una reale reciproca conoscenza? Si può diventare libertini prostituti saltando a pié pari la nozione e la conquista dell’essere liberi? Si può vantare autonomia e indipendenza nei comportamenti essendo dei loro veri significati e fini ignoranti e analfabeti? La televisione non sta trasformando bambini e giovani in copie conformi e ologrammi obbedienti? Avremo anche stasera a tavola la pubblicizzata ragazzina scosciata con annessa zucchina cazzuta? Augurandovi i migliori svaccati programmi televisivi, Waka Waka!

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Nemico del popolo

Chi inneggia e festeggiail ritrovamento nei fondali di anfore romaneevitando così la ricerca dell’indicibile orrido altro,si chiami ministro Prestigiacomo o Mastropaoloè nemico del popolo.E’ ora di prendere posizione.

Chi come Ulderico Pesce denuncia l’affondamento in mare di scorie nucleari,e ha in risposta tagliate le gomme,quelli sono i nemici del popolo.E’ ora di prendere posizione.

Chi straparla di regole e norme troppo rigide che vanno opportunamente interpretate e slargate,quello è nemico del popolo.Ad Angelo Vassallo, sindaco di Pollica,che ha tenuto coraggiosamente ferme regole e norme,hanno slargato il corpo con sette pallottole.Chi gli ha sparato è nemico del popolo,ma lo è anche chi interpreta o rifiuta norme e regole,e le vuole cedevoli, molli e sgangherate.E’ ora di prendere posizione.

Chi si adopera a mettere in dubbio e discreditacome velleitaria e presuntuosa la ricerca della verità,e vuole fare scomparire perché scomodi i dati di realtà,quello è il nemico del popolo.E’ ora di prendere posizione.

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Non possono essere balle e fandonie evasive,imputazioni di associazioni a delinquere e sindaci onesti nottetempo accoppati ,a tenere la scena.Occorre guardarsi da chi svicola e si nasconde, da chi straparla o tace,da chi diplomaticamente non prende posizione.Perché quello è il nemico del popolo.E’ la sua omertosa chiacchiera evasivaa far sentire protetto chi spara.

Viene perfino un terribile dubbio:se il sindaco di Pollica è stato ammazzato perché ha osato dire di no, non vorrà dire che tutti i sindaci incolumi e vivi in aree del Paese a massiccia presenza di malavita organizzatasono salvi in virtù dei loro obbedienti sì? Insomma, se è una caparbia e non barattabile onestà a renderti vittima predestinata a soccombere, forse che il sindaco che sopravvive lo deve a uno straordinario e arrendevole spirito di adattamento? Se chi non ha paura viene annichilito da sette colpi di pistola, e chi lo stende resta impunito, mi dite perché un sindaco dovrebbe servire il bene pubblico e lo Stato? Non converrà che tutti i sindaci esposti al pericolo, come formula di giuramento al conferimento dell’incaricopreventivamente gridino: evviva il nostro modello ed eroe, lo stalliere Mangano?

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Non più vostro

Carissimi, ora sfilate tutti a rendermi omaggio spendendovi in elogi e orazioni. Ma dove eravate, voi che oggi accorrete solleciti, quando mi impegnavo in prima persona a far rispettare regole e leggi, e mi opponevo direttamente e fisicamente all’abuso, allo spaccio, a ogni forma di arricchimento illecito? La verità è che, ostacolando i disegni e gli appetiti di piccoli e grandi malavitosi, rompevo le scatole a troppi. Oh, non dubitate, sapevo di espormi a seri pericoli. Ma quanti di voi, che oggi vi mostrate così solidali e addolorati, hanno nei loro luoghi e contesti assunto con determinazione la propria parte di responsabilità e rischio? Io ho guardato negli occhi chi mi ha sparato, vi assicuro che non ho visto un solo e isolato individuo. Io sono morto ogni volta che voi, per favorire qualche interesse privato e arricchire qualche individuo, avete fatto traffico e mercimonio del bene pubblico. Avete armato la mano del mio killer ogni volta che avete abbassato la guardia e girato lo sguardo, e non avete contrastato e impedito devastazioni ambientali e traffici illeciti. Avete mirato al mio petto ogni volta che non siete intervenuti a tutelare i diritti e gli interessi dei cittadini indifesi, a ostacolare prepotenze e abusi dei più forti. Avete premuto il grilletto ogni volta non avete fatto nulla per impedire che prevalesse la logica del malaffare e del privilegio. E in effetti, alla fine, soltanto io mi sono preso i sette colpi in petto.

Devo dire che a me tutto questo affollato concorso a rendermi omaggio – non a un onesto e normale sindaco, ma a un martire ed eroe, e cioè a una figura tanto eccelsa da non poter essere imitata ma solo canonizzata – molto non piace. Siete addolorati per la mia triste e ingiusta fine, o sollevati per il fatto che un intransigente legalitario, troppo rigoroso per i vostri abituali standard di sicurezza, è stato tolto di mezzo? Ora state tutti a dire che lo Stato non può arrendersi e rinculare, che i malavitosi non devono affermarsi e prevalere. Ma insieme ai sette colpi di pistola che mi hanno tolto la vita, sono anche la vostra condotta rinunciataria e la latitanza ad essere state esplose e smascherate. Come volete che in un Paese come il nostro sia tollerato un piccolo sindaco del Cilento che compie rigorosamente il proprio dovere, quando i malavitosi manifesti, i capibanda denunciati, indagati, processati e condannati siedono impuniti sui più alti scranni, ricoprono prestigiosi ruoli istituzionali?

Chi si è mostrato più abile ed esperto, più cinico e duro nella pratica del delitto, oggi è assurto ai più alti gradi del potere politico. Io mi chiamo Angelo Vassallo, sono stato eletto tre volte sindaco dal popolo di un piccolo e civile paesino del Cilento. Non mi sono mai prosternato o prostituito ai potenti, a costo di apparire fuori dai ranghi e dal coro, fanatico ed eccessivo. Così ora sento di poter dire: non voglio

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orazioni e commemorazioni, ma che la mia fine violenta si trasformi in giuramento che ognuno fa in cuor suo nel rispettare, dovunque e in qualsiasi responsabilità e ruolo, le regole del vivere civile e della buona politica. Perché la vera rivoluzione in questo Paese consiste oggi nell’affermare che l’interesse generale viene prima di quello privato e personale, il bene pubblico sopravanza tutti gli altri, la libertà vera non è quella che favorisce la cupidigia del più forte, ma coincide con il rispetto e la tutela dei diritti della maggioranza. E le risorse del territorio – l’acqua, l’aria, il suolo, il mare, i boschi e tutta intera la natura - ci sono state prestate per lasciarle ai nostri figli migliorate, non devastate e impoverite.

Non voglio oggi essere imbalsamato in nessun onorifico e retorico Pantheon, o assimilato ai nostri soldati caduti in Iraq o Afghanistan. Fiero delle mie scelte, se proprio devo stare in compagnia preferisco quella di chi, per avere semplicemente cercato di fare il proprio dovere, è stato come me perseguitato e ucciso. Anch’io, come il milanese avvocato Ambrosoli, e tanti altri come lui, sapevo cosa rischiavo – senza nessuna intenzione sciocca di “cercarmela”, come invece insinua velenoso qualche mal vivente ottuagenario senatore a vita. Io faccio parte della schiera delle vittime provocate dalle omissioni vigliacche dei molti, dei troppi che usano il loro ruolo istituzionale per scopi che lo snaturano e tradiscono. State tranquilli, io avrei preferito continuare nel mio normale lavoro nell’adempimento dei compiti del mio impegno di sindaco, nello sforzo di trasformare l’amore per la mia terra e per la mia gente in tutela, valorizzazione e cura. Ma chi avrebbe detto che anche questo normale e ovvio impegno costituisce oggi minaccia terribile per la propria vita?

Voi non sapete quanto mi costi il non potere oggi più trascorrere con gli amici in allegria una domenica, o anche una sola ora, a soddisfare la mia passione per il mare e la pesca. Pregate che la terra mi sia ora leggera, e che chi mi succede sappia meglio di me conservarne la bellezza e arricchirla.

Lasciatemi alla fine dire che chi non si pone qualche domanda come io faccio in questa lettera, vuol dire che dentro è più morto di quanto io non sia. E se così fosse, questa per il Paese sarebbe la vera tragedia.

Non più accanto a voi e non più vostro, Angelo Vassallo.

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Non aprite quella porta!

Ho partecipato alla presentazione del libro di Andrea Palladino, giornalista de il Manifesto (“Bandiera nera. Le navi dei veleni”). A seguire eravamo in cinque, tutti piuttosto anziani: la qual cosa, visti i temi trattati, drammatici e attuali, mi ha non poco meravigliato. Palladino ha fatto della questione dello smaltimento illecito dei rifiuti tossici, in Italia e nel mondo, il principale impegno della sua attività professionale, e di questo, della dedizione e competenza con cui lo svolge, bisogna dargliene atto e ringraziarlo. Devo dire che il giornalista, e di questo spero non me ne voglia, si presenta con un aspetto che della aggrovigliata complessità delle questioni affrontate sembra un po’ avere subito impronta e conseguenze: non ancora cinquantenne, i capelli già bianchi, lo sguardo febbricitante e cerchiato da occhiaie fonde. Ma vorrei vedere le stimmate che chiunque nel tempo ricaverebbe dal dedicarsi per anni a seguire a tempo pieno i percorsi criminali meandrici e le conseguenze nefaste di un business di per sé così complicato e duro. A duettare nella presentazione con Palladino, il responsabile scientifico di Legambiente Stefano Ciafani. Dai loro interventi combinati e alterni ho ricavato gli appunti che in forma sintetica propongo.

1. Fino agli anni Ottanta gli scarichi a mare dei rifiuti tossici, chimici e nucleari, era prassi consentita. L’oceano Atlantico, lontano e profondo, era la meta preferita. Ma tale prassi è diventata illegale quando, in seguito alle proteste dei paesi e delle città-porto dove le navi con i rifiuti attraccavano per il carico e lo scarico, l’Unione Europea si è data – siamo nel 1984 – una normativa che regola e disciplina tale materia. Scaricare in mare quel tipo di rifiuti è quindi diventato da allora illecito e illegale. Ma la Goletta Verde di Legambiente ancora nel 1986 aveva scoperto, grazie ai racconti dei pescatori di Chioggia, che in quel mare le bettoline che partivano dal porto di Marghera andavano a scaricare i rifiuti del Petrolchimico.

2. Nel solo nostro Paese si calcola siano 30 milioni di tonnellate i rifiuti speciali che annualmente industrie e ospedali producono e che quindi devono in qualche modo essere smaltite. Chi li produce paga 500 euro a tonnellata. Per capire l’entità dei guadagni in gioco basti pensare che la stessa tonnellata viene pagata al gestore finale dell’operazione, per esempio un signore della guerra somalo che in cambio chiede in pagamento armi, non più di 30 euro a tonnellata. Immaginate quanto l’intermediazione garantisca a massonerie affarista e criminalità organizzata margini di introito strepitosi.

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3. Tale business ha come area e include tutti i Paesi europei, e questo moltiplica ulteriormente dati e risultati, e spiega perché tante siano le parti interessate e coinvolte perché la macchina funzioni senza inceppi e intoppi: dalle industrie, specie quelle chimiche, agli ospedali, alle massonerie abituate a lavorare fuori da qualsiasi regola, norma e controllo, a pezzi degli Stati che garantiscono e proteggono, ai Servizi deviati che facilitano e raccordano, alle ecomafie che garantiscono sul territorio l’efficace risoluzione del tutto.

4. Tutta l’Italia, nessuna regione esclusa, è in questo gigantesco problema/business coinvolta: al Nord come prevalente richiesta di servizi, al Sud come disponibilità di aree – mare, coste, letti di fiume, cave – dove seppellire, affondare, nascondere. Lo smaltimento di rifiuti tossici, chimici o radioattivi, equivale come dimensione del problema e del danno a una continua, prolungata, silenziosa ed estremamente dannosa strage.

5. I porti di maggiore presenza e concentrazione di questo traffico dei rifiuti sono La Spezia e Marina di Massa. Il primo perché militarizzato e quindi già in partenza largamente sottratto a controlli e trasparenze. Il secondo perché naturale fornitore di polvere di marmo utile ad attenuare e contenere la radioattività dei rifiuti. Propria su una collina sovrastante La Spezia è stata recentemente individuata una enorme discarica, in località Pitelli, completamente riempita con rifiuti tossici nel tempo immessi. Tale scoperta paradossalmente non è dovuta alle indagini della magistratura di quel capoluogo, ma di quella di Asti, grazie al sostituto procuratore della Repubblica Luciano Tarditi, evidentemente meno condizionato dai poteri forti spezzini. A La Spezia infatti, a detta di Palladino, esistere una cupola massonica trasversale che gestisce il business dello smaltimento di rifiuti tossici e che foraggia e corrompe trasversalmente tutte le forze politiche e istituzionali, sinistra inclusa.

6. Ma anche la Lombardia da questo punto di vista non scherza:fin dai primi anni Novanta, con un governo di centro sinistra, è emersa una sostanziale copertura e complicità della politica nell’attività di smaltimento. A detta dei relatori, proprio in virtù del fatto che i rifiuti tossici industriali, chimici e nucleari devono assolutamente essere smaltiti, pena grosse difficoltà e crisi del sistema industriale nazionale, tutti i governi di destra e sinistra che si sono succeduti hanno coperto, o non hanno fatto nulla di decisivo per seriamente contrastare e impedire. Soltanto il ministro per l’ambiente Ronchi, è stato affermato, è

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riuscito a far passare un decreto che ha trasformato il traffico illecito dei rifiuti in reato non soltanto perseguibile con un’ammenda, ma un delitto che comporta arresto e pena detentiva.

7. Con il recente rilancio della politica energetica basata sul nucleare, associare i rifiuti tossici nucleari a un loro sistematico affondamento in mare è diventato un tabù. Se infatti un solo contenitore di tali rifiuti venisse con certezza individuato all’interno di una carretta del mare nottetempo affondata dalla malavita organizzata – così come racconta il collaboratore di giustizia Francesco Fonti – l’intero progetto di rilancio delle centrali nucleari verrebbe seriamente compromesso. Ecco perché, malgrado il fondato sospetto dell’affondamento di almeno 90 navi nel basso Tirreno, malgrado l’allarme e le indagini di alcuni magistrati (Bruno Giordano, procuratore capo di Paola, il giudice Cordoba a Napoli, Francesco Neri magistrato a Reggio Calabria, Tarditi ad Asti), i tentativi di ricerca in alcuni dei siti indicati, gestiti dal ministro dell’Ambiente signora Prestigiacomo, d’intesa con il Procuratore Nazionale Antimafia Pietro Grasso, non hanno portato ad alcun risultato certo. Grasso ha anzi ufficialmente dichiarato conclusa l’indagine.

8. Ma, sostiene Andrea Palladino, perché non si analizzano le acque delle zone di mare dove i collaboratori di giustizia affermano essere state affondate le carrette con i rifiuti nucleari? Quello che non dovrebbe essere difficile fare non è stato ancora mai fatto, o comunque non è stato pubblicamente rendicontato. Peggio: oggi sul sistema di tracciabilità dei rifiuti tossici è stato posto il segreto di Stato. Il che è come dire che per la trasparenza e conoscenza della questione la notte si è fatta ancora più buia.

9. D’altra parte, aggiunge il responsabile scientifico di Legambiente, analizzare privatamente la composizione di quelle acque non può produrre risultati scientificamente certi, perché manca la possibilità di un serio confronto e convalida, manca cioè una conoscenza precisa del livello di inquinamento del Tirreno, perché sullo stato e la condizione di quel mare manca una qualsivoglia letteratura seria.

10.Servizi segreti deviati di vari Paesi sono molto presenti in questo ramo e business, con personaggi come Mario Scaramella, già attivo nei depistaggi e inquinamenti di prove come nel caso Telekom-Serbia, o l’eliminazione per avvelenamento dell’ex agente segreto russo Litvinenko a Londra. O come Aldo

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Anghessa, faccendiere legato ai Servizi segreti, o Giorgio Comerio, amico e sodale di Licio Gelli, titolare di una società specializzata nel fornire alle industrie sistemi di eliminazione rapidi di scorie nucleari tramite siluri sparati e conficcati su fondali di mare argillosi.

11.Ma i rifiuti nocivi vengono da un po’ di tempo smistati illegalmente anche in Cina, dove vengono trattati e riciclati e trasformati in plastiche e materiali che ci ritroviamo poi le nostre case sotto forma di giocattoli e passatempi per i nostri bambini. Oppure finiscono a Bosaso, in Somalia, dove a seppellirli sotto la massicciata delle nuove strade ci pensano i locali signori della guerra che si prestano al servizio in cambio di armi. Armi contro rifiuti, questa la natura dello scambio scoperto da Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, e per questo in un agguato uccisi. Poi, naturalmente, la commissione di maggioranza parlamentare guidata da Carlo Taormina ha concluso i suoi lavori affermando che i due erano incappati in volgari ladroni e ammazzati perché sconfinati in qualità di turisti in zone del Paese poco sicure.

12.Insomma, le principali direttrici di smaltimento di questi pessimi e delicati rifiuti sono oggi la Calabria, l’Africa e Hong Kong. Fornitori principali del traffico sono le multinazionali chimico-farmaceutiche – quelle che hanno per missione il mantenerci in ottima salute, e che hanno stabilimenti in Italia e in tutta Europa. Stante la loro potenza, e la complicità degli Stati, di consorterie massoniche e Servizi segreti, un ruolo di informazione, smascheramento e denuncia possono svolgere i giornalisti con le loro inchieste. Ma le multinazionali della chimica, le grandi industrie, sono i principali azionisti e/o inserzionisti dei giornali. Si spiega così come un piccolo ma battagliero giornale come il Manifesto, non ricattabile dagli inserzionisti perché praticamente per quanto lo riguarda assenti, abbia finora prodotto sul tema le inchieste più importanti e approfondite. Ma ecco che arriva la scure di Tremonti a tagliare i 4 milioni di euro l’anno in contributi, e così dal primo gennaio è praticamente matematico e certo che anche il Manifesto chiuda.

13.Ora alcuni risvolti particolarmente inquietanti della questione. La nave Jolly Rosso, piaggiata sulla costa calabra di Amantea, ha nottetempo scaricato i suoi fusti e sepolti lungo il letto di un fiume dei paraggi, e dentro le cave di una collina. Grazie a foto satellitari specializzate nel rilevare le fonti di calore, è stata registrata in quei luoghi una temperatura di 7 gradi superiore a quella dei luoghi circostanti, sbalzo ritenuto tipico della presenza di rifiuti nucleari.

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Ancora: un enorme sarcofago di cemento si intravede appena sotto il letto di un fiume della zona, là dove si ritiene siano stati sepolti fanghi e rifiuti tossici nocivi. Tocca infine macabramente citare il giardino di una scuola elementare di Crotone, dove è stato scoperto essere stati sepolti i rifiuti nocivi del Petrolchimico attivo in quella città.

14.Che il traffico e lo smistamento di rifiuti tossici a livello nazionale e internazionale ci sia, sia enorme e in continua esponenziale crescita, non c’ dubbio alcuno. Così come ormai è sufficientemente fondata la certezza che decine e decine di vecchie carrette del mare, colme di tali rifiuti, siano state affondate nel basso Tirreno. Così come appare evidente che, pur esistendo efficace e disponibile tecnologia per arrivare ai relitti e accertarne il contenuto, gli interessi in gioco, le complicità, la corruttela e le illegalità – e le responsabilità politico istituzionali siano tali da spingere a fingere, glissare, omettere, insabbiare. Al punto da arrivare anche a uccidere: come è successo più che verosimilmente al comandante della marina militare Natale De Grazia, colto da morte improvvisa dopo avere cenato in un ristorante sulla Salerno Reggio Calabria in compagnia di tre persone, sbrigativamente sepolto senza una seria autopsia. E il capitano De Grazia aveva raccolto importanti documenti probatori sulle responsabilità del traffico e smaltimento dei rifiuti nocivi. Così come è successo a Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, come detto sopra.

15.Confesso di avere fatto un po’ arrabbiare, alla fine della presentazione, il responsabile scientifico di Legambiente, essendomi permesso di fare alcune riflessioni che qui riferisco. Legambiente e la sua Goletta Verde, nei suoi giri estivi sulle coste del Paese, è approdata anche a Maratea. Anche lì sono state dai suoi esperti fatte analisi sulla balneabilità delle acque, lo stato degli scarichi fognari e dei servizi per i turisti. I risultati sono stati buoni, e al Comune di Maratea sono state attribuite le sue vele di approvazione e apprezzamento. Tutto bene? Non proprio. No è stato fatto in quella occasione il minimo cenno pubblico sulla vicenda di una nave, la Yvonne A, che, a detta del pentito Fonti, nel 1992 sarebbe stata da lui affondata, piena di rifiuti nocivi, nelle acque del mare a otto chilometri dal porto di Maratea. La signora ministro Mastrogiacomo, e a lei appresso il sindaco e le pubbliche autorità, si sono tutti affrettati a dichiarare e garantire che le indagini sul sito avevano portato alla scoperta di un relitto colmo di antiche romane anfore, e null’altro. Quindi, spiagge e fogne in ordine: ma non è come entrare in una casa, sentire puzza sospetta di bruciato – non ci sarà un incendio che cova nei sotterranei ?– e

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affrettarsi in terrazza per dire che là sopra è tutto in ordine e pulito? Non c’è il rischio per Legambiente di prestarsi a operazioni quantomeno di semplificazione riduttiva, di puro e semplice maquillage di facciata? Non sarebbe meglio affrontare di petto il sospetto di pericolo peggiore, e contribuire ad accertarne definitivamente fondatezza o infondatezza, piuttosto che limitarsi a uno scambio di inchini cordiali e formali con le pubbliche autorità? O quella porta non bisogna assolutamente aprirla?

Nella divisione e specializzazione brutale, diseguale e iniqua del lavoro a livello mondiale, i popoli dei Paesi ricchi non solo mangiano e consumano il quadruplo degli altri, che mangiano molto meno o addirittura crepano, ma una volta digerito quanto hanno ingurgitato bisogna pure evacuare ed eliminare e nascondere l’evacuato da qualche parte. E allora non è semplicemente geniale restituire il mal tolto e riportarlo giusto lì dove in larga parte lo si è preso, nelle regioni e nei mari del Sud d’Italia, nei più poveri e saccheggiati Paesi dell’Africa e del mondo? Chi prende – materie prime, risorse, prodotti naturali, manufatti e forza lavoro – e le trasforma e ne fruisce, non può certo tenersi i rifiuti in casa. Anche perché sono francamente troppi! Pare giusto allora che ritornino al loro luogo d’origine, magari sepolti lungo le coste e nelle acque anche a costo di ucciderne vita e bellezza. O, in mancanza di meglio, sotto i giardini di una scuola. Come è successo anche per i rifiuti chimici della fabbrica tessile Marlane di Praia, che hanno causato tra gli operai, per sciagurata e criminale inosservanza delle regole di protezione elementari, un centinaia di morti per tumori. E ora, per tali misfatti, i dirigenti della Marzotto, che quella fabbrica hanno diretto e gestito, sono sotto processo e incriminati. Ma come, non hanno portato al Sud lavoro, benessere e ricchezza?

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Noi credevamo, il film di Mario Martone sulla tormentata storia del nostro patrio Risorgimento.

Il film, che dura due ore e 40 minuti senza intervallo, è così avvincente e ben fatto che si resta saldamente incollati alla poltrona, provando quasi rammarico alla fine che sia terminato. Noi credevamo racconta fatti storici di oltre 150 anni fa ma è come per molti aspetti parlasse dell’oggi – o del perché siamo diventati quello che siamo diventati oggi. C’è dentro l’oppressione arrogante del privilegio e la voglia di lotta e riscatto, la solidale amicizia e l’irrompere inaspettato e sconvolgente del tradimento, e tutte le sfaccettate e molteplici anime e istanze politiche dell’epopea patria e di un modello di ricerca dell’Unità del Paese che attraversarono il Risorgimento: con le congiure, le cospirazioni e le sette segrete, gli intellettuali idealisti e i bombaroli sovversivi, gli anarchici e i socialisti, i monarchici e i democratici, gli esponenti della nobiltà illuminata, i braccianti ribelli e i poveri cristi. Il tutto raccontato attraverso un fitto intreccio di fatti famigliari e amicali, di intrighi e complotti, tra slanci eroici appassionati e calcoli cinici di chi nella guerra civile e nel sovvertimento politico e sociale si getta rapace e si arricchisce.

Il tutto accompagnato da una ambientazione alternata e storicamente pertinente tra Cilento e Aspromonte, Torino, Parigi e Londra, e interpretato da una recitazione solenne, concitata e intensa da parte di tutti gli attori protagonisti e comprimari, verosimili e verissimi come se realmente stessero vivendo le vicende che passano sullo schermo. E un accompagnamento musicale perfetto di musiche di Verdi e Rossini da far lievitare il petto e anche, dalla poltrona, il culo. E poi c’è la mano salda e la testa sapiente di Mario Martone, che finalmente dà vita struggente alla tormentata e incompiuta storia del nostro patrio Risorgimento, facendola riemergere dalla cripta dove l’aveva rinchiusa imbalsamata e triste la nozionistica conoscenza scolastica. E, rendendo giustizia agli idealisti illusi, quelli che nel titolo – Noi credevamo – si confessano delusi, Martone rimette in vitale movimento, dei momenti fondativi e topici del nostro passato, ciò che ci era stato nascosto e confiscato.

Dentro il film c’è la Storia fatta di tante umanissime storie, la nascita di una Nazione e insieme il naufragio e l’aborto di una speranza e di una illusione. Tra le righe, ma neanche tanto, si intuisce che gli eroi sacrificati nel Risorgimento dalla ragion di Stato, quelli costretti nel Sud a trasformarsi in fuorilegge e briganti, potrebbero anche essere quelli rinnovati e ritrovati anni dopo nei partigiani antifascisti, o, per certi aspetti politico-psicologici, perfino nei più recenti e sovversivi combattenti brigatisti. L’Italia nel film è proposta come una costruzione incompiuta in cemento

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armato che infatti, a un certo punto del film, inopinatamente e incongruamente, ma in realtà no, viene inquadrata. L’immagine non è casuale, bensì intenzionale, è l’evidenza tragica del nostro Paese: i piloni di cemento armato si slanciano e svettano, ma costituiscono intelaiatura di una non completa e mai definita struttura.

Noi credevamo, nel senso che ci eravamo illusi, di lottare - nel Risorgimento, nella Resistenza antifascista, negli anni Sessanta e Settanta - per un Paese democraticamente compiuto e completo, e invece abbiamo ottenuto un mezzo ibrido amputato. Lunga vita a Martone e al suo potente e appassionato cinematografico contributo.

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Figli di un dio minore?

Il basso Cilento, l’estremo sud della provincia di Salerno - che già soffre ed è penalizzato perché il vorace e bulimico baricentro della Campania è Napoli, e a dominare la ribalta della scena turistica sono Capri, Ischia, Procida e il tratto della costiera amalfitana -, i Comuni che si affacciano sul Golfo di Policastro collegati tra loro dalla Statale 18 (San Giovanni a Piro e Scario, Policastro, Villammare e Sapri ), appartengono al novero dei figli di un dio minore: scarsa attenzione istituzionale e pubblica, rare e stentate opere, pochi investimenti, profilo turistico e mediatico in sottotono. Quel tratto di costa e territorio, attraversato e tenuto insieme dalla Statale 18, meriterebbe dalle amministrazioni locali, provinciali e regionali, molto di più. A soccorrere suppliscono in qualche misura , come al solito, l’operosità dei singoli imprenditori e delle associazioni di categoria, l’iniziativa dei privati, la buona volontà e la capacità di adattamento e sopportazione delle popolazioni.

Percorrendo lungo la costiera la Statale 18, ancora più a sud, ecco che si incontrano Maratea e le sue frazioni che fanno capolino sul mare: Acquafredda, Cersuta, Fiumicello, Porto, Castrocucco, vere e proprie perle di rara bellezza paesaggistica, Siti di Interesse Comunitario così definiti dall’Unione europea per la ricchezza e la peculiarità di alcune specie di fauna e flora. Ebbene, chi più di Maratea, ancora più di Sapri, Policastro e Scario, può a ragione definirsi figlia di un dio minore? Dipenderà dalla sua stessa doppia collocazione appartata e a sud: rispetto a Napoli, Salerno e Sapri, ma anche rispetto a Potenza, suo capoluogo di Provincia? Sta di fatto che la condizione di scarso rispetto e considerazione, la sua evidente marginalità, viene rimarcata e ribadita in modo particolare dallo stato di semi isolamento in cui ripetutamente, e per prolungati periodi dell’anno, versano le frazioni e le comunità collocate lungo quel tratto di costa e attraversate dalla Statale 18.

E’ vero che la conformazione orografica di quei luoghi è particolarmente vulnerabile ed esposta, è evidente pure che la manutenzione ordinaria, per le pubbliche casse costosa, è sempre meno garantita, d’accordo infine che è l’intero Sud, ma se è per questo il Paese nel suo insieme, a subire un po’ dovunque conseguenze e danni per incuria, scarsa manutenzione del territorio se non addirittura per un suo vero e proprio scempio e saccheggio. Ma io credo che se ci fosse una graduatoria e si mettessero in tabella i giorni di chiusura di quella fondamentale arteria e il conseguente pressoché totale isolamento di quelle frazioni, di quelle comunità, di quei ristoranti e luoghi pubblici e alberghi, il tratto della Statale 18 che attraversa la costa di Maratea figurerebbe in Italia sicuramente ai primi posti. La cosa grave è che

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non solo i disservizi e i problemi che si creano colpiscono bisogni ed esigenze come il commercio, le professioni, l’istruzione scolastica dei ragazzi, la fruizione dei servizi sanitari e ospedalieri: ma è l’economia di base, il flusso di presenze turistiche, cioè la stessa sopravvivenza futura di quei luoghi a essere minacciata.

Insomma, il paradosso è che uno dei tratti di costa sul Tirreno più belli d’Italia viene troppo spesso lasciato in una condizione di non raggiungibilità, di non percorribilità, di non fruibilità, perché la Statale che lo attraversa e unisce è chiusa in uno o più punti, a rotazione o contemporaneamente, per caduta massi, smottamenti e frane, incendi e loro conseguenze. Avete capito bene il paradosso? Maratea non è una palude o una plaga abbandonata, non è sito di nessun pregio paesaggistico e naturale: è risorsa e ben di dio definito e magnificato come tale dall’Europa e dal mondo intero. E invece se ne sta, con qualche relativo alto e molti bassi, sotto una specie di cono d’ombra di abbandono depresso. Viene perfino il sospetto che in chi ha dovere e potere di intervento efficace e risolutivo – iniziando ad esempio a mettere in sicurezza l’intero tratto di una costa vulnerabile quanto fulgida, e a garantirne così la percorribilità – ci sia una sorta di retro pensiero maligno: ma che cosa mai pretendete voi che vivete in questi luoghi di bellezza così superbamente splendida, non ne siete appagati, non ve ne accontentate? Volete pure muovervi e circolare, raggiungere quando vi pare scuola e ospedale, chiesa e centro commerciale, i vostri parenti che vi invitano il dì di festa? Vorreste pure, oltre alla fortuna che avete già, camparci a vostro agio, ricavarne perfino beneficio economico? Ma restatevene tranquilli e accontentatevi, che già disponete di fin troppo…

Insomma, non si fosse capito, chi abita e vive in quel tratto lungo la Statale 18 che partendo da Napoli e arrivando a Reggio congiunge anche – quando è libera e aperta – il tratto di costa del Golfo di Policastro compreso tra Scario a Tortora, è da ritenersi cittadino privilegiato, e allo stesso tempo vittima delle conseguenze ed effetti di una marginalità trascurata. Lì si è costretti a vivere la condizione avvilente di chi sta in un sud del sud. La natura dei luoghi è bellissima, ma la gente ci vive troppo spesso praticamente separata e isolata. Napoli a quel suo profondo sud proprio non ci pensa, Potenza, viene da dire, piuttosto poco. Toccherà appellarsi all’Unesco e farsi dichiarare, a mossa di tutela estrema, patrimonio dell’umanità? (Oppure, insieme, con una ben determinata e attrezzata calma, potremmo in alternativa rimboccarci le maniche e darci da fare come cittadini attivi di associazioni espressione viva di quelle comunità: così come hanno fatto sabato scorso in oltre seicento di Sapri, Acquafredda, Cersuta e Maratea, guidati dai loro sindaci e manifestando a Sapri in piazza).

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Oggi, se permettete, parlo di lotta alle zanzare e di mucche podoliche.

Zanzare

In primavera e d’estate le zanzare a Maratea, e non solo, costituiscono un problema. La sera e nel corso della notte a starsene sbracciati a godersi il fresco si rischia il martirio. Per evitarlo, ognuno ricorre a qualche rimedio: dalla macchinetta che produce un salvifico ultrasuono; all’altra che attivata consente a una pasticca di liberare un effluvio che mette le zanzare in fuga; alle creme repellenti spalmate sulla pelle per evitare l’agguato e il prurito. Anche l’Asl di Potenza e la Provincia si sono mobilitate da anni su questo fronte. Il loro intervento si è tradotto nel fatto che una apposita società, che ha vinto l’appalto indetto, interviene la sera sul tardi con un’autobotte lungo le strade dei centri abitati spruzzando un liquido destinato a eliminare il temibile insetto. Ecco una domanda che è lecito porsi: ma queste irrorazioni fanno realmente danno alle sole zanzare? Non colpiscono mortalmente anche altre più innocue o addirittura meritorie specie? La ditta che opera e provvede alla bisogna invita con appositi manifesti la popolazione a chiudere accuratamente in quelle sere porte e finestre, e a lavare accuratamente il giorno successivo le insalate dell’orto. Evidentemente il liquido irrorato contiene principi attivi tossici: è possibile conoscere quali effettivamente sono, e in che raggio svolgono la loro azione distruttiva? E se sono efficaci nella loro lotta alle zanzare, perché utilizzarli soltanto in un veloce passaggio notturno lungo le principali strade? Forse che le zanzare si riuniscono lì la sera in docile attesa? Ma se il liquido irrorato contiene principi attivi agli umani non pericolosi, perché allora è potuto succedere che tempo fa uno degli operai inavvertitamente esposto sulla pelle a un contatto con quel liquido ha avuto conseguenze tali da subire un coma prolungato? Ma a voi risulta che le punture delle zanzare abbiano mai mandato in coma qualcuno? Insomma, e ricapitolando: è possibile sapere e capire quanto il sistema adottato di lotta estiva alle zanzare è realmente efficace, e quanto invece non lo è affatto, o lo è poco, colpendo e indiscriminatamente nuocendo ad altre specie, e danneggiando pure gli umani di natura loro già sufficientemente fragili e vulnerabili? Infine, chi vuole, per rendersi conto di come altrove si siano adottati e si pratichino tipi di lotta biologicamente ecocompatibili, e quindi non nocivi ad altri insetti e tanto meno agli umani, non ha che da andare su internet e compiere una ricerca mirata.

Mucche podoliche

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L’Anabic (Associazione nazionale bovini da carne) sostiene che la razza Podolica è oggi diffusa prevalentemente sulle aree interne dell’Italia meridionale peninsulare: Basilicata, Campania, Calabria, Puglia e Molise. I dati forniti dalle APA, Associazioni Provinciali Allevatori di Potenza e Matera, riportano che in Basilicata vi sono 316 allevamenti di mucca podolica iscritti al Libro Genealogico Nazionale per un totale di 17.231 capi di bestiame. Le zone dove vi è maggiore presenza sono il potentino e precisamente Abriola, Calvello, Albano di Lucania, il Volturino, l’area di Gallipoli Cognato e il Vulture, i Monti Sirino e Raparo e il Pollino. Vale la pena di fornire al proposito qualche altra informazione. Innanzitutto ci sono interessanti contributi europei sui bovini di questa razza. Il contributo medio per capo di bestiame si aggira sui 400 euro per anno. Se questo è vero, solo in Basilicata verrebbero distribuiti ogni anno circa 7 milioni di euro (400 euro per 17.300 capi). Bisogna però considerare tutta la filiera, in termini di personale addetto della Regione, veterinari, contributi alle associazioni – senza dimenticare i danni diretti (ai sopra suoli) e indiretti causati dagli incendi provocati per migliorare i pascoli. Come non essere indotti a concludere che, di fronte a pochissime aziende agricole capaci di produrre carne e formaggio di eccellenza, c’è una vasta platea di aziende fittizie la cui unica missione è quella di garantire la sopravvivenza dei bovini per incassare il premio annuale?

Una domanda finale: ma non è che le mucche podoliche, a parte la poca carne e formaggio e i danni ai suoli con gli incendi provocati per ottenere pascoli più succulenti e teneri, si sono trasformate nel tempo in una grande pubblica e provvidenziale mammella da mungere?

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La maratoneta d’amor disperata

Seguita da due cani, la ragazza procede con il suo passo trafelato, la postura del corpo proiettata in avanti nello sforzo, sul tratto della S.S. 18 detto Canale di Mezzanotte tra Sapri e Acquafredda. L’espressione del viso è tesa e contratta, lo sguardo fissa un punto nel vuoto da lei sola percepito. A ogni affondo duro di un tallone sull’asfalto la coda dei capelli colpisce le spalle come un colpo di scudiscio.

La ragazza appare ansiosa di arrivare alla meta, o forse è semplicemente in fuga da qualcuno o da qualcosa. I poveri panni di cui è vestita indurrebbero a pensare che si tratti di una barbona, o di una superiore e indifferente milionaria ereditiera. I cani, trotterellando con aria insoddisfatta e quasi smarrita, la seguono di malavoglia. E’ come se sul loro muso fosse stampata una domanda: ma noi che cosa c’entriamo con questa incomprensibile e assurda corsa?

La ragazza, indifferente alla straordinaria bellezza che la circonda, non muta espressione né gira lo sguardo o la testa. Sembra una penitente ostinata che espia la sua colpa, o una atleta concentrata in una sfida. Si direbbe su un suo rovello ossessivamente applicata, alle prese con la decifrazione di un impenetrabile enigma. Seppure dalle auto di passaggio sfiorata, non dà segno visibile di allarme, come protetta da una sua impenetrabile corazza.

Seguita dai suoi due malinconici cani, la ragazza è apparizione improvvisa, inquietante e sconsolata. Al mondo sembrerebbe esistere lei sola, tutto ciò che la circonda essendo pura apparenza e parata. In cuor mio io l’ho definita la maratoneta mater dolorosa, colei che niente o nessuno al mondo, arrestando il suo passo, potrà salvarla.

Mimmo, un amico che verso sera a volte fa per un tratto sui tornanti sopra il cimitero la sua passeggiata, mi racconta che ha saputo che la ragazza tempo fa ha subito una terribile delusione amorosa. Da allora, inconsolabile e disperata, ha iniziato a percorrere due o più volte al giorno la sua frenetica corsa. A chi incontrandola le rivolge il saluto, risponde alzando una mano sulla fronte quasi a ripararsi da una terribile minaccia.

A me, dopo aver saputo la sua storia, in cuor mio l’ho accolta come una battagliera e indomita eroina. Testimonia quanto in una umana creatura ancora l’amore possa, e mi è sembrato un omaggio a lei dovuto questo racconto, questa piccola devota edicola.

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Intanto, a completare lo stato d’animo della ragazza, giù nel golfo il vento con le sue dita disegna sull’acqua ombre vaganti di merletti e increspature, fughe di labirinti e profili di fantasmi che evocano tempeste orribili nel fondo degli abissi.

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