· Web viewEssa è il terreno fertile da cui germoglia l’ipotesi vitale di significato da...

126
Associazione Genitori Scuole Cattoliche QUADERNO CINQUE L’EDUCAZIONE DOMANDE E RISPOSTE TRA RISCHIO E CORAGGIO Nell’attuale crisi educativa occorre ritrovare l’idea dell’uomo e del suo futuro A cura di Giancarlo Tettamanti

Transcript of  · Web viewEssa è il terreno fertile da cui germoglia l’ipotesi vitale di significato da...

Associazione Genitori Scuole CattolicheQUADERNO CINQUE

L’EDUCAZIONEDOMANDE E RISPOSTE

TRA RISCHIO E CORAGGIO

Nell’attuale crisi educativaoccorre ritrovare

l’idea dell’uomo e del suo futuro

A cura diGiancarlo Tettamanti

S o m m a r i o

Presentazione

* Enrico Dal Covolo La fragilità dei valori senza radice

* Margherite Lèna L’educazione cristiana

* Romano Guardini L’atto pedagogico e il suo ethos

* Edith Stein L’arte di educare

* Giuseppe Bertagna La pedagogia della coscienza cristiana

* Angelo Scola Insegnamento e educazione

* Giuseppe Angelini Scuola e questione educativa

* Mario Montani Educazione cristiana alla libertà

* Luigi Feré Educare al senso del lavoro

* Ennio Ronchi Educazione cristiana in un Centro di Formazione Professionale

* Carlo M. Fedeli Allargare la ragione

Appendice

* Cultura e educazione: hanno detto .......

* Impegno educativo e formativo

P R E S E N T A Z I O N E

Nella coscienza condivisa dell’attuale contesto sociale, ai suoi diversi livelli, sembra smarrita non solo la pratica felice di processi educativi, bensì l’idea stessa di educazione. Come ebbe ad evidenziare il cardinal Camillo Ruini, nel primo capitolo de La sfida educativa: “In ultima istanza sembra essere in crisi l’esperienza dell’educare alla vita e con essa l’interesse

personale all’educazione, poiché ne è stata forse smarrita la chiave interpretativa e la motivazione essenziale. Ciò che dovrebbe giustificare quell’esperienza, infatti, è l’apporto positivo che essa dà alla vita e alla crescita delle persone, attraverso i legami benefici che stabilisce e la convinzione del valore del patrimonio umano che trasmette”. Di fronte alla mancata consapevolezza in ordine all’educare come processo di crescita della persona e alla necessità di recuperarne il senso, sembra opportuno partire dalle ragioni dell’educazione e da alcune domande che determinano l’approccio al tema “Educazione” di questo quaderno.

Lo facciamo riprendendo come riferimento l’editoriale di Francesca Bonicalzi Recla del n. 207 della Rivista Internazionale di Teologia e Cultura “Communio”, con titolo “L’educazione negata”. Il testo affronta l’argomento guardando la realtà di giudizio attorno al termine educazione, evidenziando come essa sia una parola desueta e oscurata nel suo significato più originale. Essa si propone oggi nel linguaggio comune più per indicare buoni comportamenti che per richiamare qualcosa che possa evocare la paideia del mondo antico. Intesa come introduzione al sapere, segnata da momenti forti d’ingresso e con sottolineature d’appartenenza, la paideia mantiene un senso forte di formazione della persona che non riverbera nell’uso corrente del termine educazione, usato oggi in modo ambiguo e depotenziato. Nella scuola – evidenzia l’editorialista – si parla, ad esempio, più facilmente di educazione all’ambiente o alla salute, d’educazione sessuale o d’educazione civica, ma meno facilmente si pensa a un’educazione della persona. Eppure, nei processi di crescita e di formazione (fra cui, non ultima, la scuola) è sempre in gioco, per l’uomo, qualcosa che riguarda una trasformazione dei legami personali e sociali, qualcosa che dovremmo chiamare educazione”.

Chiediamoci: perché la parola educazione, pur non scomparsa dal vocabolario, è così depauperata del proprio valore sostanziale, vanificata e, comunque, banalizzata? La banalizzazione deve allarmare, perché è il primo sintomo di una riduzione della realtà, di una pericolosa incapacità di avvertire la complessità del problema. Che cosa si tace? Qual è l’ambiguità che rende inaccessibile l’educazione? Come recuperare, in questo lessico oscurato, il significato più originale della “educazione” in quanto incontro? Come riconoscere la libertà e quindi l’invenzione nuova che le persone coinvolte mettono in gioco? “Invenzione” come significato di produrre, creare, ma anche di ritrovare, e “nuova” per sottolineare che l’esito non può essere previsto in anticipo, che si tratta di un processo complesso di cui non c’è garanzia finale. Possiamo chiamare educazione qualcosa che evidenzia una permanente e dinamica responsabilità nel rapporto. Esistono contesti trasformativi, fra i quali in primis, ancorché non esclusivamente, la famiglia, in cui ci si può esentare dal processo educativo? Non si educa forse comunque anche quando si facesse “cattiva” educazione, anche quando si fosse dimentichi e inconsapevoli di quanto si sta facendo, o non facendo? In tal senso “educare” è una azione inevitabile in quanto l’essere umano è sempre ineludibilmente impegnato in un contesto di legami e in compiti di trasformazione. Se esaminiamo lo schiacciamento ideologico dell’educazione sull’istruzione, la vera portata dell’operazione comunque non si cancella. Si dice: “tu coincidi con quello che sai”. Così dicendo si evidenzia che ciò che importa nella vita è quello che uno sa .... ma in realtà lo si educa a concepire sé e i suoi rapporti in una prospettiva tecnico-funzionale e lo distolgo - e magari anche per sempre – dalla dimensione realmente in gioco, quella della persona: cioè “tu ti coincidi per quello che sei”. In ultima analisi, ci si chiede: vogliamo riconoscere che l’educazione appartiene così intimamente all’essenza dell’umano, che, strappato dall’educazione, l’uomo è meno uomo?

Da qui le pagine che seguono – di diversi autori - per una riflessione personale e comunitaria.

“Ti ho riferito queste cose per dimostrarti quanto impetuosi

sarebbero gli slanci dei noviziverso le cose più alte,

se qualcuno li esortasse,se qualcuno li informasse.

Invece si erra,un po’ per colpa dei maestri che ci insegnano a disputare

e non a vivere, un po’ per colpa dei discepoli

i quali portano ai maestri il proposito di coltivare l’intelletto o la scienza

e non l’animo, e così quel che fu la filosofia

è diventata filologia”

Seneca – Lettera a Lucilio

LA FRAGILITA’ DEI VALORI SENZA RADICEdi Enrico dal Covolo

Il secolo XX è stato segnato da una serie imponente di accelerazioni e di mutamenti, in tutti i campi:  anche in quello che più da vicino ci interessa, che riguarda il rapporto tra la Chiesa e la cultura, e più complessivamente tra il cristianesimo e la cultura. Quel lento e secolare processo, che comincia a manifestarsi nel Rinascimento - per il quale la Chiesa si sente prima isolata, e poi per lungo tempo assediata e minacciata dal mondo, e per il quale d'altra parte il mondo a poco a poco si radica su basi strutturali diverse rispetto alle precedenti, che erano intimamente ispirate alla fede cristiana - questo processo trova ai nostri giorni la sua consumazione e, almeno in parte, il suo superamento. In esso infatti si manifesta con tutta la sua forza incisiva la "secolarizzazione", quel fenomeno ben noto alle società occidentali, che reca in sé il declino della pratica religiosa, la desacralizzazione del mondo e la conformità a esso, il disimpegno della società dalla religione, la trasposizione di modelli di comportamento e di credenze dalla sfera "religiosa" alla sfera "mondana". Certo, ci si riferisce ancora, esplicitamente o implicitamente, ai valori evangelici, i quali tuttavia appaiono come staccati dalla radice che li nutre. Bisogna ammettere però che alcuni sistemi hanno addirittura rinnegato totalmente tali valori. Il 18 agosto 1991, parlando in Ungheria alle comunità protestanti, Giovanni Paolo II ha efficacemente delineato questa situazione:  "I nostri avi su questo continente", ha detto il Papa, "anche dopo la Riforma condividevano la convinzione, spesso data per scontata, che la società e la cultura europee avessero la loro origine e ispirazione nei valori religiosi:  la fede nel Dio Trino e in Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, la visione della vita sulla terra come pellegrinaggio verso la vita eterna, l'innato e inalienabile valore della persona umana dal suo concepimento fino alla morte(...)

Oggi la società tende a ignorare, e perfino a ripudiare gran parte di questo retaggio". Ma bisogna anche ammettere che lo sviluppo degli eventi ha assunto per alcuni aspetti una fisionomia diversa da quella prevista. Tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo è tramontato il positivismo scientista, che, se mai, ha lasciato il posto al neopositivismo di prevalenti interessi logico-linguistici. E ora stanno davanti ai nostri occhi lo scacco del marXIsmo e il crollo del Muro, dovuti al fallimento, in vaste zone del mondo, della concezione atea e del sistema economico e sociale comunista; d'altra parte lo smarrimento lasciato da quei regimi, che pensavano di cancellare Dio "dalla" e "nella" società, ha lasciato un vuoto, che rischia sempre più di essere colmato dall'irrompere di fattori negativi, recati dalle società opulente.

Di fronte alle immense sfide poste alla Chiesa dalle ideologie e dagli eventi della nostra epoca, occorre rilevare che molti fedeli hanno fatto proprie un'attenzione e un'apertura nuove verso il mondo, un atteggiamento che - per quanto concerne la Chiesa cattolica - è stato solennemente sancito dai documenti del concilio Vaticano II. D'altra parte - e completiamo così l'ampio quadro di riferimento sin qui evocato, per entrare più direttamente nella questione in esame - la medesima situazione culturale ha indotto i cristiani a interrogarsi più a fondo sulla loro identità e sui loro fondamenti, perché il Cristo da loro testimoniato parlasse con efficacia agli uomini di oggi.

Già nel 1946 Henri de Lubac scriveva parole che non si possono dimenticare:  "Il cristianesimo, prima di poter "essere adattato" nella sua presentazione alle generazioni moderne, occorre che nella sua essenza rimanga se stesso. Infatti, quando è se stesso, è a un passo dall'"essere adattato". La sua natura non è forse di essere vivente, e per ciò stesso sempre attuale? Il grande sforzo consiste dunque nel ritrovare il cristianesimo nella sua pienezza". E continuava, giungendo così al cuore del nostro problema:  "Ma come ritrovare il cristianesimo, se non risalendo alle sue fonti, cercando di

comprenderlo nelle sue epoche di vitalità esplosiva? Come ritrovare il significato di tante dottrine e di tante istituzioni, se non attraverso l'impegno di raggiungere quel pensiero creativo, di cui esse sono state la concretizzazione? Quante esplorazioni nelle lontane regioni della storia presuppone una ricerca di tal genere! Del resto, ci sono voluti quarant'anni per entrare nella terra promessa. Occorre a volte molta arida archeologia per far sgorgare di nuovo fontane d'acqua viva".

Non è un caso che pochi anni prima, nel 1942, proprio Henri de Lubac - insieme a Jean Daniélou e a Claude Mondésert - avesse dato inizio alla celebre collana "Sources Chrétiennes", con l'intenzione di mettere a disposizione del pubblico le opere complete dei Padri della Chiesa. In effetti, risalire alle fonti cristiane significa risalire agli antichi scrittori cristiani. In questi ultimi decenni molti "utensili", per così dire, concettuali, metodologici e bibliografici sono stati messi in opera per una lettura più fedele della tradizione consegnataci dai Padri. Resta il fatto - e accenno ad alcuni elementi di metodo per un dialogo costruttivo e fecondo tra i Padri di ieri e la cultura di oggi - che le opere degli antichi scrittori cristiani non si leggono comodamente e distrattamente come il giornale; non hanno rapporto con la quotidianità banale e ciarliera della cronaca, ma piuttosto con l'attualità perenne dei grandi problemi umani e cosmici che riguardano le cose presenti e future. Servono un armamentario di conoscenze e la padronanza di alcuni strumenti di base, per essere in grado di penetrarne e di apprezzarne il messaggio; servono ancora la costanza e la pazienza nello studio. Si tratta della necessaria attrezzatura da acquisire, dei metodi da applicare per entrare nella familiarità con l'ambiente, lo spirito e l'eredità dei Padri.

In tali ambiti le discipline antico-cristiane e classiche - a cominciare dallo studio delle lingue latina e greca - hanno larghi spazi di impegno da offrire alle persone sensibili ai valori della cultura. Amore per la fede e passione per la cultura:  potrebbe essere questa la sigla distintiva della dottrina patristica. Oggi invece si nota spesso in coloro che dicono di amare la fede un certo distacco dalla cultura, e in coloro che dicono di amare la cultura una certa diffidenza verso la fede. I nostri Padri, invece, hanno saputo coniugare la fede e la ragione, il Vangelo e la cultura, mettendo al centro della loro dottrina il Lògos, Gesù Cristo, colui che insegna all'uomo la sua vera vocazione, e il giusto atteggiamento da assumere verso Dio, l'uomo e il mondo. In particolare, sono soprattutto due i modi con i quali i Padri ci possono aiutare a riscoprire il messaggio del Vangelo nel mondo di oggi, o - se preferiamo - nell'impegno di una "nuova evangelizzazione" della cultura (mi riferisco qui alla cultura mediterranea europea):  "per continuità" e "per contrasto". I Padri sono vicini al nostro sforzo "per continuità", nel senso che la riflessione sulle radici della cultura europea trova in loro l'humus normale di riferimento, e la sua fondazione letteraria e storica. Ma i Padri aiutano il nostro sforzo anche "per contrasto", perché - come è stato osservato a ragione - l'odierno cattolicesimo rischia di essere troppo acquiescente nei confronti di una certa cultura dei valori comuni e dei diritti dell'uomo, una cultura dei valori che molto spesso non corrisponde a un'autentica gerarchia dei valori.Penso che il richiamo all'antropologia dei Padri, dove la dignità dell'uomo è saldamente radicata nella creazione divina e nell'immagine di Cristo, servirà a chiarire l'oggetto e i confini del dialogo sui valori, che rimane comunque necessario e urgente.

Su questa linea di riflessioni - e così concludo - possiamo addurre la risposta di un "filosofo mediterraneo", non precisamente cattolico, nel corso di una recente intervista. Alla domanda:  "Secondo molti, dalla crisi della modernità si esce soltanto attraverso un riferimento all'Assoluto. E secondo lei?", Massimo Cacciari ha risposto così: 

"Certamente no! O almeno, bisogna precisare che cosa s'intende per Assoluto. Nella nostra cultura il vero termine di riferimento non è l'Assoluto, ma l'Incarnazione. Questo è il messaggio evangelico:  guarda il "totalmente Altro" nel tuo prossimo, ma quello concreto, quello che muore in croce, davanti a cui devi fare proskùnesis, genuflessione, come davanti a qualcosa di sacro”.

Questa è la vera chiave dell'Europa. Invece, pensare di uscire dalla crisi restaurando una qualche trascendenza, un Assoluto nel senso di ab-solutum, un punto di riferimento sciolto dal dramma dell'Incarnazione, è folle. Bisogna ricordare infatti che il Risorto non è un individuo totalmente risanato, ma si presenta con i segni della crocifissione Sono parole che fanno pensare, anche di fronte al dibattito odierno sulla presenza del Crocifisso nelle aule pubbliche:  al di là dell'esegesi che se ne può fare, ci richiamano ancora una volta alla dottrina dei nostri Padri. Essa ci insegna a non disperdere il cristianesimo in un vago senso della trascendenza, o in una discutibile cultura dei valori comuni:  ci invita piuttosto a vedere il trascendente nel Crocifisso risorto - unico vero centro della storia e della cultura - a contemplarlo e a servirlo anche nel fratello da amare,  fino  al  dono  supremo della vita. Essa ci insegna a non disperdere il cristianesimo in un vago senso della trascendenza, o in una discutibile cultura dei valori comuni:  ci invita piuttosto a vedere il trascendente nel Crocifisso risorto - unico vero centro della storia e della cultura - a contemplarlo e a servirlo anche nel fratello da amare,  fino  al  dono  supremo della vita.

* Lezione del Rettore dell’Università Pontificia Lateranense di Roma

L’EDUCAZIONE CRISTIANAdi Margherite Léna

L’educazione è come il dono della vita: è innanzi tutto un’opera di amore. Proprio come il mettere al mondo un bambino non è un atto riducibile alla sola logica della ragione, così non si educa assumendo innanzi tutto la logica dei principi e dei programmi. L’atto educativo non è possibile se non è permeato da quella fiducia che supera sempre le sue stesse premesse per avventurarsi nell’ignoto, rischiare il presente, investire nell’avvenire. Si comunica solo ciò che si ama e non attraverso strategie preparate a tavolino. In questo senso, l’atto di educare non è solo un compito specialistico, che compete alla logica istituzionale e tecnistica delle società industriali. L’atto di educare compete anche e innanzi tutto alla logica dell’amore.

Amiamo noi ancora abbastanza l’uomo e il suo avvenire per trasmettere e rinnovare, di generazione in generazione, le sue molteplici ricchezze e bellezze?

Se il problema si pone in questi termini, possiamo chiederci se il modo migliore per affrontarlo non sia quello di esplorarne o di deplorarne la crisi. Se si riflette troppo su ciò che non va, si rischia l’usura dello sguardo e del cuore, che genera quella specie di insidioso ripiegamento sulla sola negatività critica, da cui derivano tristezza e scetticismo e che quindi squalifica l’opera educativa: un educatore triste è un povero educatore. Non ci si eleva né si possono elevare gli altri, quando si parte dalla sfiducia e dal sospetto.

A maggior ragione, una coscienza cristiana non può contentarsi della sola analisi, Né tanto meno iniziare con la critica. Effettivamente, ogni situazione di crisi è un appello al discernimento, e quest’ultimo, se vuole essere equo non terrà mai abbastanza conto della complessità dinamica delle situazioni e dei problemi. Ma indugiando nelle sole analisi, si rischia di farne un comodo alibi per sottrarsi alla lama tagliente di un giudizio che, prima di separare al di fuori di noi la luce dalle tenebre, separa in noi stessi, e a volte dolorosamente, oscure complicità da consensi autentici.

L’analisi deve dunque essere finalizzata al discernimento, senza che mai possa dispensarcene. D’altra parte, questo discernimento è discernimento cristiano solo se si sottrae alla logica seducente dell’accusa e della denuncia. La denuncia, infatti, il più delle volte, non è tanto un movimento di rifiuto di fronte al male, quanto una specie di caricatura maligna dell’etica, una perversione della coscienza, che riconosce la colpa solo se questa è proiettata al di fuori di sé nello spazio sociale e che, a forza di denunciare il male, dimentica di annunciare il bene, attraverso i propri atti, e di operare positivamente perché il bene si realizzi. Il coraggio di certi “no” è, tra i cristiani, l’ombra proiettata di un “si” più fondamentale, un rifiuto che nasce dalla vigile attenzione dell’amore, mai dal risentimento.

Basti pensare ai profeti di Israele. Il vigore delle loro denunce e delle loro ingiunzioni scaturisce dal fuoco che arde in loro: dal contatto con la Parola, contatto che provoca verifica e conversione. L’esperienza della sorgente d’acqua viva permette loro di individuare le fenditure delle cisterne che non hanno più acqua, la sensibilità verso l’Alleanza li porta a rispettare la fiamma vacillante, li rende capaci di vedere il ramo di mandorlo che sta per fiorire: essi possono restare lucidi e forti nella speranza e riescono a comunicarla.

E’ dunque innanzi tutto un messaggio di speranza e di consolazione che la Chiesa deve comunicare agli educatori stanchi e scoraggiati di fronte al loro compito. Grazie ad un sicuro istinto spirituale, la Chiesa, infatti, ha sempre intuito che l’educazione è un aspetto importante della sua missione. La sua storia visibile ed invisibile è popolata da mirabili figure di educatori: da S. Ambrogio a Don Bosco, nei monasteri e nelle università medievali, nelle lontane scuole dei villaggi africani, in spazi abbandonati dai grandi centri urbani, molti uomini e molte donne hanno consacrato le proprie forze e dato la propria vita affinché altre vite potessero crescere assumendo forma umana e cristiana.

Nessuno ha visto un Agostino o un Domenico Savio consacrare visibilmente la fecondità segreta del loro dono; molti umili educatori, per la maggior parte padri e madri di famiglia, che si perdono nell’anonimato della storia, vedranno attribuirsi, stupiti, nell’ora del Regno, il riconoscimento di grandi santi. Questa eredità visibile e questo tesoro invisibile devono essere la nostra sicurezza. Circondato da questa “nuvola immensa di testimoni”, crediamo che la Buona Novella non ha ancora finito di diffondere sulla terra la sua buona e la sua novità, crediamo che essa può ispirare anche oggi, come ieri, una parola cristiana sull’educazione e destare quegli educatori di cui il nostro tempo ha bisogno.

La chiamata creatrice

E’ necessario intendersi bene sull’espressione “educazione cristiana”, perché è sempre pericoloso mettere il Cristo come oggettivazione. Non esiste una educazione cristiana come esiste un’educazione russoniana o socialista, liberale o dogmatica. Conosciamo tutti le vicende storiche e i memorabili dibattiti legati alle nozioni di politica cristiana o di filosofia cristiana. Per molti aspetti, la nozione di educazione cristiana è appesantita dalle stesse ambiguità e comporta gli stessi rischi. Espressioni di questo genere mettono in gioco l’autonomia legittima dei doveri temporali e li fanno deviare dai loro ambiti, a causa della facilità e superficialità con cui si fanno delle sintesi che non tengono conto delle differenze.

Nello stesso tempo, è in gioco anche la “capacità antropologica” del mistero di Cristo e di ciò che si potrebbe chiamare la capacità cristologia del mistero dell’uomo. Ora, più ci si avvicina, attraverso la conoscenza delle opere e dei doveri, al santuario dello spirito umano come capacità di conoscere, di amare e di fare delle scelte, più l’impatto con la Rivelazione si fa discreto e potente. Discreto, perché la fede non può essere quantificata e non scende mai in concorrenza con le discriminazioni antropologiche proprie di altri ordini profani: la politica, la filosofia, l’educazione hanno infatti un loro campo, loro regole e loro fini specifici. Ma potente, perché fa risalire alla fonte: la fede pone la libertà dell’uomo di fronte ad un appello, esige una risposta, una accettazione, un rifiuto, nel momento stesso in cui scaturiscono e prendono forma le opere della sua intelligenza. Infatti non è senza conseguenze per l’etica, per la politica e per la filosofia che, nell’uomo, il luogo del cuore sia il luogo di Dio, come non lo è per l’educazione.

Quindi è più corretto parlare, invece che di educazione cristiana, di una vocazione cristiana dell’educazione; in tal modo si esplicita e si mette in pratica, nel campo specifico d’azione e di relazioni interpersonali, costituito dall’educazione, la vocazione cristiana dell’uomo – di ogni uomo e di tutto l’uomo.

Come il miglior artista cristiano non è necessariamente colui che dipinge quadri di soggetto religioso, o che canta nelle chiese, bensì colui che espone la sua arte, e innanzi tutto il suo sguardo, alla luce di Dio, diffusa sulle forme del mondo, così l’educazione non è cristiana perché riguarda persone battezzate o perché privilegia le occasioni di insegnamento religioso. Lo è perché innanzitutto vuole essere e si fa attenta e ricettiva nei confronti di questa vocazione totale dell’uomo, che Dio chiama con il suo nome, e perché vi risponde secondo il compito che le è proprio.

Tutta la storia della salvezza è una storia della Parola e della Parola enunciata e raccolta nel più singolare ed insostituibile centro vitale: la parola che chiama una libertà con il suo proprio nome. All’inizio della Genesi, il nome di Adamo, benché possa designare genericamente l’uomo, non costituisce però una designazione collettiva che annulla la persona nell’anonimato del gruppo. Adamo è fin da principio il nome di un interlocutore per Dio e la sua umanità gli è offerta in forma di vocazione: indissolubilmente una benedizione cui consentire e una missione da compiere. Questo primo appella risuona, almeno per analogia, in ciascuna sfera dell’esistenza umana: riguarda sia il dominio tecnico del mondo che i profondi misteri dell’affettività, il dispiegamento delle risorse del pensiero e la dilatazione degli spazi dell’amore.

Riguarda, in modo forse privilegiato, la sfera dell’educazione, perché vi è in gioco l’uomo nella sua crescita. Indubbiamente anche qui, come ovunque, questo appello è spesso sepolto dal profondo della sordità di un umanesimo secolare, che sottrae l’uomo alla chiamata creatrice. Oppure è respinto dal peccato, che altera in noi, con l’immagine di Dio, anche l’orecchio fatto per ascoltare ed intendere. Ma la chiamata permane e nessuno può definirsi educatore cristiano se non è, per primo, entrato con la propria umanità nel campo di forza di questa chiamata creatrice.

Ogni tappa della storia della salvezza riprende a modo suo questo appello, che è stato udito in modo definitivo e che ha superato per sempre l’ostacolo della nostra sordità, nel Cristo incarnato, morto e resuscitato secondo la volontà del Padre e con la potenza dello Spirito.(...).

Ecco perché non si può più considerare la cristologia come puramente accidentale o come aggettivale rispetto alla antropologia: il Cristo viene ad assumere e vivificare “tutto”

l’umano. E’ l’origine e l’originalità della nostra fede: “Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo” (1 Cor 3,11).

Nel suo libro L’essenza del cristianesimo, Romano Guardini sviluppa le implicazioni di questa affermazione paolina e mostra come essa differenzi il cristianesimo da ogni dottrina speculativa e da ogni riflessione morale: mentre il pensiero speculativo cerca il suo fondamento nelle determinazioni prime del suo oggetto, e la riflessione morale in norme generali di obbligazione, l’”essenza del cristianesimo” è una Persona che non può essere ricondotta alla esemplarità di un’idea o di un valore: “Non c’è dottrina, né sistema di valori morali, né atteggiamento religioso, né programma di vita che potrebbero essere separati dalla persona di Cristo, e di cui si potrebbe dire: questo è il cristianesimo. Il cristianesimo è Cristo stesso: è ciò che attraverso di Lui giunge all’uomo e la relazione che per mezzo suo l’uomo può avere con Dio. Un contenuto dottrinale è cristiano nella misura in cui esce dalle Sue labbra. L’esistenza è cristiana nella misura in cui il suo ritmo è da Lui determinato. Nulla è cristiano se non Lo contiene. La persone di Gesù Cristo nella sua unicità storica e nel suo splendore eterno è in se stessa la categoria che determina l’essere, l’agire e l’insegnamento del cristianesimo”.

Per contro, è evidente che, per la fede cristiana, l’umanità dell’uomo non è né un ideale astratto, né un puro concetto empirico; non è un’idea della ragione, autosufficiente ed inaccessibile, e pertanto non si dissolve negli infiniti mutamenti della storia. E’ lo spazio in cui risuona l’appello, la dimora in cui avviene l’incontro: è davvero nella profondità del suo essere, totalmente vocazione.

A questo centro del pensiero e del cuore cristiani ci riconduce, serenamente e vigorosamente, l’insegnamento di Giovanni Paolo II, fin dalla sua prima Enciclica Redemptor Hominis. Invece di partire dai valori umani, dissociati, per ipotesi o precauzione di metodo, dal suo fondamento cristologico, Giovanni Paolo II ha l’audacia tranquilla di cominciare dall’inizio, vale a dire dal disegno di Dio, realizzato nel Cristo, e di riferirvi il mistero dell’uomo: “L’uomo, così come è voluto da Dio, così come è stato da Lui eternamente scelto, chiamato, destinato alla grazia e alla gloria: questo è proprio “ogni” uomo, l’uomo “il più concreto”, “il più reale”; questo è l’uomo in tutta la pienezza del mistero in cui è divenuto partecipe in Gesù Cristo, mistero del quale diventa partecipe ciascuno dei quattro miliardi di uomini viventi sul nostro pianeta, dal momento in cui viene concepito sotto il cuore della madre”.

L’unico fondamento per una riflessione cristiana sull’educazione è il riflesso della lucedi Cristo sulla totalità dell’esistenza umana. L’educatore infatti è, per mestiere e per missione, situato proprio nel punto in cui emerge l’umano. Riceve quindi in pieno, se così si può dire, l’onda d’urto dell’Incarnazione e della Resurrezione di Gesù Cristo.

Educare, come suggerisce discretamente l’etimologia, è condurre l’uomo verso la sua manifestazione, ed un cristiano che si accinge a questo compito, sa che questo obiettivo ha trovato la sua realizzazione solo nell’umanità pienamente rivelata del Figlio.

Una educazione autentica è un ecce homo, ed è al solo ecce homo che sia stato proclamato con verità nella storia che tale educazione deve riferirsi. Un educatore secondo il Cristo è colui che sottopone a questo fine ultimo tutte le finalità secondarie, autonome nel loro ordine, che regolano il suo compito. Come Paolo raccoglie e focalizza nella carità la frammentarietà dei doni spirituali che dividevano tra di loro i Corinti, così l’educatore secondo Cristo si impegna a raccogliere tutti i molteplici ed irriducibili aspetti della funzione educativa ed a ricondurli al fine ultimo, spesso latente, ma sempre operante: permettere al Cristo di manifestarsi nella pienezza della sua statura in tutti coloro che gli sono affidati.

Quindi, se l’educazione, dal punto di vista antropologico è l’insieme dei mezzi che permettono di far pervenire un bambino alla sua umanità, inserendolo nella comunità umana, la vocazione cristiana dell’educazione, in rapporto a tale definizione, non si presenta come una smentita, né un sovrappiù, né tanto meno una azione supplementare. L’educazione, a questo appello rivolto all’uomo dal Dio vivente, affinché scopra e porti a compimento nel Cristo la propria umanità.

* Tratto, in sintesi, dal volume “Lo spirito dell’educazione”, Editrice La Scuola, Brescia

L’ATTO PEDAGOGICO E IL SUO ETHOSdi Romano Guardini

I - L’atto pedagogico compendia in sé un gran numero di fattori, e noi li dobbiamo enucleare tutti, per poter comprendere il processo complessivo. Vorrei sottolineare che la sequenza con la quale i diversi aspetti compaiono nella mia esposizione non significa affatto un giudizio sulla loro importanza. In verità sono tutti importanti. Essi agiscono l’uno dentro l’altro e devono darsi contestualmente, affinché ne scaturisca quel vivo comportamento in cui colui che è già qualche passo più avanti nella vita aiuta chi è in sviluppo.Nessun processo vivo può essere ridotto ad una formula semplice. Sempre balza agli occhi come esso si eriga a partire da diversi punti: siano questi diversi strati, o strutture antitetiche, o ritmi .... Loro debbono dunque aver comprensione per il fatto che si dica continuamente: per un verso questo è così, per l’altro così ... le cose procedono in questo modo, e per altro verso in quello ... Questo non vuole affatto dire un agganciarsi di contraddizioni: no, i diversi momenti si rapportano all’unità dell’intero (fenomeno) e proprio in questo si rapportano anche l’un l’altro. Non si tratta di antitesi contraddittorie ma dialettiche.

II - Parliamo dapprima di quei momenti che concernono l’ambito vitale del processo educativo: la cerchia familiare, l’ambiente scolastico o di lavoro, e così via.Qui ci imbattiamo in ciò che si può definire l’ “atmosfera pedagogica”. Con questa espressione intendiamo i diversi momenti (in dettaglio magari neanche tanto avvertiti coscientemente) i quali fan sì che il rapporto educativo possa risultare fecondo ed efficace.Un esempio: non è ancora tanto lontano il tempo in cui quando in un villaggio o in una città spiccava un edificio assai poco accogliente, squallido, anonimo si poteva star sicuri che fosse una scuola o un ospedale (dunque il contrario di ciò che significa atmosfera lieta). Educare significa incoraggiare la vita e farla crescere. Certamente la gioventù è capace di adattarsi e di venire a capo di molte situazioni; ma gli influssi si verificano; e se non sul piano consapevole, allora nella sfera dell’inconscio. Un edificio di quel genere paralizza; per lo meno, non vi si svolgono tutti quegli impercettibili recuperi, compensazioni, stimoli, destinati per lo più a restare inconsapevoli, che potrebbero accadere ... Oggi lo si vede bene. Gli edifici scolastici più recenti sono spesso molto belli.Ciò che vale per la realtà esteriore, vale però anche e soprattutto per quella psichico-spirituale. L’atmosfera pedagogica consiste in un intreccio e immedesimazione reciproca di differente atteggiamenti. Deve esservi presente e operante un autentico amore alla vita che si sta formando; e nel contempo una risolutezza che non si lascia prendere in giro. Un’attenzione continua, pacata che però non diventa ossessiva, ma lascia spazio aperto. Una sollecitazione che però non rende rammolliti; un senso dell’ordine che lascia libera l’iniziativa. Di questo clima vive la crescita.Subito si fa però anche chiaro quale autodisciplina, quale dominio dei propri stati d’animo, quale disinteresse e quale vigilanza ciò esige dall’educatore.

Educazione autentica è possibile solo a partire da un autentico rispetto verso la personalità in formazione. Qui si è sbagliato in misura infinitamente grande e sempre si sbaglierà.Eppure educare significa guidare il giovane entro la propria esistenza. Dunque significa infondergli fiducia in se stesso, ma anche attrezzarlo di senso civico verso di sé. E’ suo dovere inoltrarsi coraggiosamente nella propria vita; ma anche riconoscere le potenzialità negative radicate nel suo essere e assumere la responsabilità di se stesso. Egli deve inserirsi di buon grado negli ordinamenti; ma anche imparare ad affermare se stesso nella sua unicità personale.Tutto ciò non è possibile, se egli viene trattato dall’educatore alla stregua di un oggetto. La tentazione di farlo è enormemente grande. Avere a che fare con persone è difficile, perché qui io devo passare attraverso la libertà. Così devo sempre di nuovo creare un’intesa con l’altro; devo lasciargli la possibilità di pensare, giudicare, agire con la propria testa e poi magari di fare il contrario di quanto è giusto oppure io desidererei. E se sono davvero un educatore, devo perfino aiutarlo a far così perché esattamente questo significa educare, anche se richiede molto tempo e spesso è pesante, particolarmente poi quando si tratta di molti (allievi), talora anche troppi, come nelle nostre scuole affollate.

Allora si è tentati di venire a capo della complicatezza e dei rischi della via più lunga attraverso i rapporti personali, così come della multiforme varietà delle indoli dei singoli, prescindendo dalle persone e assumendo i molti come entità omogenee, da trattare secondo regole generali. Questo produce si dei risultati cioè un grado d’istruzione mediamente elevato, uno standard medio di disciplina, nonché di idoneità; ma la persona non è divenuta attiva, e ciò che in ultima istanza ne scaturisce è quella assurdità cui si dà nome “materiale umano”.Si capisce: anche qui si può realizzare sempre e solo una approssimazione, ma vi si deve tentare con sforzo. Lo spazio pedagogico deve essere definito dalla consapevolezza che in esso è in gioco l’uomo e che pertanto il successo è incerto, essenzialmente incerto. Che si tratti di giovani o di adulti, che siano pochi o tanti, che siano gente distinta o comune è questione secondaria. Quella primaria suona: di che cosa ha bisogno l’uomo, in quanto persona, per poter crescere come tale? Essa trova espressione nel modo in cui il singolo viene stimato, fatto entrare nel mondo del lavoro, sottoposto a una disciplina, punito e anzi, già nel modo in cui lo si guarda e gli si rivolge la parola. Quello che ne deriva, resta sempre da vedere.

A questo medesimo contesto appartengono le disposizioni della fiducia e dell’affidamento.A partire dal pessimismo, o addirittura dalla diffidenza, non riesce alcuna autentica educazione. Chi non è in grado di presentire le potenzialità nascoste dell’individuo che si sta formando, le doti positive inscritte in lui le possibilità che sono date con ogni libertà in quanto tale; chi non si sente in condizione di rischiare con tutto ciò, non può diventare un educatore.Con ciò, ovviamente, non si intende affatto una fiducia cieca. Nel giovane il pedagogo ha davanti a sé un essere che non solo coopera con lui, ma anche agisce in direzione diversa, anzi a lui contraria. Non è un materiale senza forma .... Parlando dell’attività educatrice, volentieri si adopera di solito l’immagine dell’artista che plasma una materia amorfa. Ma qui non c’è affatto della “materia” quanto invece una figura viva, un uomo in carne e ossa, con un suo proprio centro e un fine proprio. Insicuro, certo, eppure solo come tale intelligibile.Così egli ha iniziativa, anche se spesso confusa. Così egli si afferma anche e magari proprio contro l’iniziativa dell’educatore. Così egli resiste; ha la sua segretezza; è astuto.La relazione pedagogica è anche qui ambivalente: l’uomo che cresce si aspetta aiuto da quello più maturo. Egli avverte la propria incapacità e insicurezza. Vuole ricevere un’interpretazione del proprio essere. Vuole aiuto contro se stesso. Sull’altro versante però il medesimo giovane percepisce l’educatore fosse pure il migliore come un antagonista, poiché questo resiste alle sue arbitrarietà, ai suoi umori capricciosi, alle sue istintività, pone in discussione la sua instabile autocoscienza già semplicemente per il fatto di essere, nel rapporto pedagogico, “l’altro” di più: colui che rappresenta l’”esistente”, ancora di più: il titolare dell’autorità come potere. In tal senso, il rapporto pedagogico è per buona parte un rapporto di lotta.Dunque l’educatore deve avere forza e affermarsi; deve avere autorità e saper comandare. E poiché egli corre anche il rischio di lasciarsi abbindolare dal giovane, di lasciarsi prescrivere da lui la linea, l’educatore deve essere critico; e saper distinguere il vero dal falso, quanto promuovere da ciò che disturba, il bene dal male.A fondamento di tutto però ci deve essere la fiducia. Persino ciò che non è bene deve essere inserito in essa. Altrimenti, le cose semplicemente non vanno. E qui è la grande difficoltà che ogni educatore avverte col passare del tempo, quando viene continuamente deluso, anzi ingannato, quando si abusa della sua fiducia. Detto in termini ancor più elementari: quando deve sempre ricominciare con la stessa fatica e perciò ne nasce quella stanchezza, quello scetticismo e quella amara insensibilità di cui ogni educatore conosce la minaccia. Che immagine stupenda di maturità e di capacità di superamento umane è quella dell’educatore, dell’insegnante, del maestro che sono passati attraverso tale esperienza, che non si lasciano più abbindolare, che conoscono l’antagonista che si cela nel giovane e pur tuttavia conservano nel medesimo tempo la fondamentale fiducia nella vita! Quale immagine invece di fallimento e di negazione è quel educatore che non crede più alle possibilità del divenire e gli si fa ostile, nemico ma ormai s’è imbarcato, e deve andare avanti.Bisogna anche aggiungere: soltanto l’educatore che conserva quella fondamentale fiducia diviene egli stesso ciò che deve essere. Di nuovo riscontriamo qui la bilateralità del fenomeno. Un educatore cresce nella propria umanità e riempie la vita del suo senso più personalmente

proprio quando nient’altro vuole con le sue capacità di aiutare il giovane a vivere in prima persona la sua vita.Questa è la dialettica fondamentale, che nessuno può togliere. Tutto ciò che significa tono da caserma, tirannia scolastica, impazienza dei genitori, mania di dominio dei maestri e via dicendo tutto ciò non è che un battere in ritirata di fronte al compito più impegnativo; e l’effetto è che anche l’educatore diviene una figura deformata.

III - All’ambito pedagogico nell’accezione più ampia appartiene ancora qualcosa, cioè la “forma viva”. In primo luogo, educare non significa insegnare, bensì formare. Molti che si definiscono educatori sono in verità solo dei didattici; fanno apprendere solo delle nozioni. Ma in prima linea nel nostro caso, non importa che il ragazzo impari qualcosa, ma che divenga qualcosa. Certo, lo “diviene” a contatto con l’oggetto, cioè imparando.Ma come diviene tale? Mediante la graduale conquista di un ordine interiore: man mano che il giovane diviene forma strutturata, via via che si forma in lui un centro interiore, un punto di partenza unitario dell’agire e un punto di sintesi dell’esperienza, un criterio di discernimento del vero e del falso. Una sensibilità per quei momenti, così importanti,che si esprimono in frasi come: “Questo si fa .... questo non si fa”. Un buon numero di problemi morali della vita successiva vengono – o non vengono – superati sulla base di quei presupposti che l’atmosfera della stanza dei giochi e della scuola ha creato, oppure ha perso l’occasione di creare.Che tutto ciò si verifichi dipende però, in maniera decisiva, dall’operare o no, in questa atmosfera, di una immagine dell’uomo autentico. Una “immagine”, non una serie di tesi o prescrizioni. Le tesi sono astratte, toccano solamente l’intelletto a meno che non ci vengano incontro nel momento fecondo in cui un’esperienza fatta esige d’essere chiarita. Le immagini, al contrario, sono realtà concrete e toccano intimamente la vita e, in particolare, quella profonda sorgente interiore da cui la figura si eleva. D’altra parte, esse devono avere un qualche rapporto con ciò che è intimamente possibile e dunque può realizzarsi. Allora esse sciolgono quanto è ancora legato, liberano le sue energie e le conducono a un tempo nella giusta direzione.Una delle più gravi angustie dell’educazione odierna consiste nel fatto che nessuna immagine del genere sembra esistere, diciamo più prudentemente: ad esempio quella del gentleman, della nobildonna, dell’ufficiale, del contadino, dell’artigiano e così via. Esse contenevano l’idea della personalità, della forma umana riccamente e chiaramente sviluppatasi da se stessa. Sullo sfondo si profilava la loro relazione alla maestà di Dio e a un ordinamento del mondo che da Lui era determinato. Tutto ciò è stato messo in crisi dalla comparsa sulla scena della storia di due grandi fenomeni: la tecnica e il carattere di massa assunto dalla vita. Nell’ultimo capitolo del mio saggio dedicato al fenomeno del potere ho cercato di accennare in quale direzione questo potrebbe condurci. Forse voi avrete occasione di leggerlo e di approfondire le questioni poste, di approfondirle e perseguirle ulteriormente, in modo critico ma pure costruttivo.Qui abbiamo a che fare con un compito che porta nel futuro, ma che ci introduce a quanto è della massima importanza in tutta la nostra struttura educativa dalla famiglia alla scuola fino alle associazioni professionali.

IV - Connesso al momento dell’immagine è quello dell’esempio. L’”esempio” è anzi esso stesso immagine: la forma strutturata stessa dell’educatore. Quando questi contraddice con il suo comportamento quello che dice, tutto il suo parlare suona vano. Il suo comportamento deve illustrare e giustificare quanto affermato a parole. Con ciò non si dice che egli debba consapevolmente “dar esempio”. Al contrario; in questo modo tutto verrebbe falsato. Egli deve piuttosto essere convinto di ciò che dice e cercare egli stesso di fare quanto esige.Ciò non significa che non gli sia permesso sbagliare. Di nuovo questo non sarebbe naturale. Non gli è invece lecito dissimulare l’errore fatto; nasconderlo dietro una pretesa di autorità, o volerlo con violenza tacitare alzando la voce; e neanche giustificarlo. Piuttosto egli lo deve onestamente confessare.Colui che ha da essere educato deve prendere atto che l’educatore ha sbagliato qualcosa; che disapprova quest’atto e cerca di superarlo. Quando l’educatore, in questa maniera, si pone contro se stesso dalla parte del bene, allora ciò può esercitare un influsso positivo sull’educando: presupposto, però, che l’educatore non ne prenda spunto per una qualche messinscena pedagogica, bensì resti serio e onesto.

E qui dobbiamo ancora fare solo un accenno a un altro momento, a una particolare difficoltà del talento pedagogico. Per dirla senza fronzoli: l’impeto pedagogico, ovvero la veemenza con cui si attiva, dipendono facilmente dal fatto che l’interessato non riesce a venire a capo di se stesso.Le persone che si comportano in modo accentuatamente pedagogico spesso sono quelle che in ciò cercano di sfuggire al proprio disagio; che così tendono a ripagarsi di propri fallimenti; oppure, ed è la modalità più decente, che con ciò espiano il fatto d’aiutare il giovane a divenire migliore di quanto essi stessi si sentano. Viceversa si vede spesso che persone le quali si avvertono in chiaro possesso d’una propria identità non nutrono alcuna simpatia per l’attività educativa,. Lo cose stanno così, e lo dobbiamo accettare. Per questo è tanto più importante che l’educatore se ne renda conto, e cerchi di venire a capo del “pedagogismo” che facilmente ne discende.

Qualche tempo addietro si parlò molto di eros pedagogico. Molte erano solo chiacchiere; tuttavia qui siamo di fronte a un autentico fenomeno e problema.In ultima istanza, si può educare solo sulla base di una simpatia di fondo. Soltanto chi ama la giovane vita la comprende. Solamente questi vede le sue potenzialità, scorge le sue difficoltà e ha il potere di mettere in movimento il centro interiore, creativo.D’altero canto si capisce subito quali problemi immediatamente si pongano. Se l’educatore reagisce a un ragazzo con simpatia, ma a un altro con indifferenza e a un terzo con antipatia, allora può venirne un grave danno tra figli dei medesimi genitori, alcuni della stessa classe, apprendisti del medesimo maestro e via dicendo. La simpatia può anche travalicare i suoi limiti e produrre legami che divengono fatali per entrambe le parti.

V - Ancora una parola circa la conoscenza pedagogica. Anch’essa è strutturata dialetticamente. Essa cerca di comprendere il giovane: le sue peculiarità, le sue energie e le sue debolezze particolari, le inclinazioni dominanti, le tendenze e così via. Al tempo stesso, però, il pedagogo deve comprendere quanto ora esiste in direzione di ciò che esso deve diventare. Quanto egli ha di fronte non è affatto già del tutto realizzato, ma rinvia a qualcosa di futuro.Per tale ragione l’autentico giudizio pedagogico non suona: “Questo giovane è così” poiché questo sarebbe l’imbalsamazione, e con ciò un incentivo ad applicare una etichetta; bensì “adesso egli è così, ma i n cammino verso questa o quell’altra condizione”.Nel fatto che debba essere visto verso quale méta si diriga il movimento sta l’elemento divinatorio dell’educatore. Egli deve intuire, presentire ciò che ancora non è, e comprendere il presente in direzione d’esso; allo stesso modo, egli deve indovinare, a partire da ciò che esiste ora, quanto deve poi compiersi. Egli vede l’immagine essenziale non come rigida, ma come in movimento e vede la mèta verso cui essa è in movimento. Questo distingue l’educatore autentico da colui che invece applica soltanto delle regole o esegue programmi. In lui c’è qualcosa di artistico, con il che però è gia detto quale pericolo ciò comporti: fraintendimento, soggettivismo, avventatezza, tendenza a forzare.

Qui entra il gioco ciò che si chiama esperienza. L’esperienza pedagogica consiste nella capacità d’essere colpiti dal modo in cui un ragazzo reagisce, dal modo in cui qualcosa va storta oppure riesce in rapporto a lui e di applicare ciò per comprendere la nuova situazione. In questo modo si corregge il rischio d’una interpretazione errata e lo sguardo a ciò che ancora non è rimane in contatto con la realtà.Memoria di quanto si è visto .... Possibilità di confronti .... Conoscenza dal punto di vista degli aiuti da offrire .... Interpretazione attenta alle vicendevoli interazioni di diversi ragazzi, di diversi fatti (da sviluppare .... ).

* Tratto da ETICA, ed. Morcelliana, Brescia

L’ARTE DI EDUCAREdi Edith Stein

1 - Nella prima infanzia

Con quale diritto una donna che non è madre può avere l’ardire di parlare a delle madri dell’arte materna di educare? Forse, dite, lo studio della psicologia e della pedagogia gliene danno il diritto. Sì, certo, questi studi, quando sono condotti nella maniera appropriata, possono fornirci nozioni a cui il mero istinto materno non perviene. Ma essi saranno fecondi solo se le questioni di cui la scienza parla scaturiscono dalla vita, e se sappiamo trovare il nesso tra le osservazioni della scienza e i dati di fatto della vita. E così credo che, per conquistare la vostra fiducia, quasi più importante dell’avere studi scientifici sia il fatto che ho ricordi d’infanzia che rimontano molto indietro, e che sono molto coerenti e vividi, che nella cerchia della famiglia e dei conoscenti e nella mia professione di insegnante ho visto crescere molti bimbi, e li ho potuti seguire molto a lungo, e che molti mi hanno accordato la loro fiducia.

Se ora riunisco tutte le mie esperienze e conoscenze di questo ambito, devo dire che è mia convinzione che l’importanza che l’influsso della madre ha sul carattere e sul destino dell’essere umano è incomparabile a qualsiasi altro potere naturale. Quando ci imbattiamo in esseri umani che vanno per la loro strada liberi e determinati e schietti, di esseri umani dai quali irradia luce e calore, possiamo quasi con certezza presupporre che essi abbiano avuto un’infanzia solare, e che il sole di questa infanzia sia stato un sano amore materno.Quando viceversa ci accade di imbatterci in esseri umani introversi, diffidenti, o che mostrano altre deviazioni o storture del carattere, c’è da inferirne con una minore certezza che nella loro giovinezza qualcosa è mancato o è stato fallito, e quasi sempre allora, anche se non esclusivamente, almeno parzialmente qualcosa è venuto meno da parte della madre. Giacché se anche tali profondi guasti della giovane vita umana fossero stati recati da altre fonti, il purissimo e verissimo amore di madre nella maggior parte dei casi avrebbe trovato mezzi e modi per opporvisi.

Vi è qualcosa di misterioso nella relazione tra madre e figlio. La ragione non giungerà mai ad afferrare appieno come possa avvenire che nell’organismo materno si formi un nuovo organismo. Allo stesso modo incomprensibile, ma non meno vero, è il dato di fatto che, dopo la separazione di madre e figlio che interviene alla nascita, continui a sussistere un legame invisibile, in forza del quale la madre può percepire di cosa il figlio abbisogni, cosa gli nuoccia, cosa abbia luogo nel suo intimo, e possiede una mirabile capacità inventiva per procacciarsi il necessario e per stornare i pericoli e i danni, e una oblatività che non si ferma neppure dinnanzi alla morte. Ecco perché ella è fondamentalmente insostituibile, e perché un bambino al quale venga strappata la mamma, o la cui madre non sia autenticamente madre, non potrà mai svilupparsi allo stesso modo di uno che sia cresciuto protetto da un autentico amore materno.

Questo legame naturale è il primo e più importante fondamento di quel potere meraviglioso che chiamiamo influsso materno. Il secondo è costituito dalla malleabilità dell’anima infantile nei primi anni di vita. L’anima infantile riceve le prime impressioni assai prima di quanto creda chi è digiuno di psicologia, ed esse possono rimanere impresse nella memoria e risultare determinanti per tutta la vita. Si, ci sono medici moderni assennati e ricchi di esperienza che non sorridono dell’antica credenza popolare secondo la quale il bambino già nel ventre materno riceve influssi che lo determineranno, che lo formeranno non solo fisicamente ma lo forgeranno psicologicamente. D’altronde la malleabilità che contraddistingue l’anima infantile nei primi anni di vita non perdura, E ciò che va perduto in questi anni nei quali il bambino è ancora totalmente o prevalentemente sotto l’influsso della madre e della propria famiglia, in seguito è ben difficile riguadagnarlo.

Dal potere della madre procedono il suo dovere e la sua responsabilità. Da lei più che da qualunque altra persona dipende il destino futuro di suo figlio: come il carattere di lui si svilupperà, se sarà felice o infelice. Poiché infatti a decidere della felicità o dell’infelicità non è tanto ciò che ci colpisce dall’esterno, quanto come siamo noi dentro.

Il primo dovere che ne deriva per la madre è che ella deve essere-per il proprio figlio: se solamente le circostanze della vita lo consentono, non deve farsi rimpiazzare da nessun altro, giacché nessuno potrebbe farne appieno le veci. Se problemi di salute o di lavoro dovessero impedirle di prendersi cura personalmente del bambino, la prima cosa che dovrà fare è

premurarsi che nonostante ciò l’unione tra lei e lui permanga (essere-per il proprio figlio non necessariamente significa essere-sempre-presenti-accanto a lui) e in secondo luogo dovrà sincerarsi in merito a chi ella affida il bambino, per non esporre quest’ultimo a danni dovuti a personale senza cognizione o stolto.

L’autentico amore materno, sotto il cui influsso il bimbo prospera come pianta sotto l’influsso del tepore solare, sa bene che quella creatura non è lì per lei: non si tratta di un giocattolo fatto apposta per colmare il suo vuoto, o per placare la sua sete di tenerezza, o per soddiffare la sua vanità e la sua ambizione. Si tratta di una creatura nel modo il più possibile puro e pieno, e che dovrà occupare poi il suo posto nel grande organismo dell’umanità. A lei è assegnato il compito di farsi promotrice di questo sviluppo.

Una caratteristica essenziale della natura infantile è l’estrema ricettività per le impressioni e la persistenza di tali impressioni. E dal momento che tale ricettività rimonta all’epoca che precede la nascita, i doveri della madre nei confronti del figlio iniziano anch’essi ben prima della nascita. Come ella, per mettere al mondo bambini sani e vigorosi, deve fare in modo di essere sana nel fisico, e nutrita in modo sostanzioso e appropriato, così deve cercare di mantenere la sua anima pura e aliena da ogni turbamento, se vuole che i suoi figli siano buoni e felici. E quando il bambino ormai è al mondo, non si deve fare o dir nulla in sua presenza che lo possa danneggiare o inquietare o ferire, se lo comprendesse. Le impressioni possono venire incamerate e serbate per sempre, e condurre a seri danni prima ancora di essere state comprese nel loro senso pieno.

L’educazione deve prendere le mosse dai primissimi giorni, nella fattispecie l’educazione alla pulizia e all’ordine, e a un certo contenimento dell’istintività: se il bambino ad orari prefissati riceve i necessari pasti e diversamente non gli viene fatto prendere nulla, egli si avvezzerà a questo ritmo, l’organismo si regolerà in base a questa norma. Se si cede a quelli che sono i suoi desideri, veri o presunti, diverrà in breve un piccolo tiranno.

Con l’abitudine regolare é al tempo stesso un esercizio preparatorio all’ubbidienza e alla disciplina: entrambe virtù che debbono essere sviluppate già sino dai primi anni di vita. Tanto è necessario, da un lato, lasciare al bambino libertà, in modo che egli possa attivarsi e svilupparsi in modo appropriato alla propria natura e al proprio grado di sviluppo, quanto è necessario che egli abbia sentore di una ferma volontà che lo sovrasta, che regola la sua vita per il suo bene. La natura infantile abbisogna di una guida ferma e fondamentalmente la richiede, anche se in alcuni casi la volontà dell’educatore si scontra con i desideri del bambino, e anche se la volontà di potenza, l’istinto di imporsi, è insito in ogni essere umano sin dal principio, e cerca di liberarsi dal dominio di qualsiasi volontà esterna alla propria.

Quando il piccolo egoista nota che i suoi tentativi hanno successo, quando i suoi desideri, dopo un rifiuto iniziale, vengono appagati dopo che ha tormentato un po’, dopo che ha messo qualche broncio, dopo che ha fatto qualche strillo, quando egli nota che le minacce non vanno mai ad effetto, che ci si rimangia gli ordini, in breve tempo diviene il padrone della casa: a tormento della famiglia, e soprattutto a suo proprio nocumento. Egli infatti non é ancora in grado di giudicare cos’è bene per lui, e colla sua ostinazione nella maggior parte dei casi ottiene cose che non gli sono affatto giovevoli. Inoltre spreca le sue energie in decisioni e scelte concernenti faccende che è ovvio che vadano regolate da delle norme; per esempio, quando e cosa mangiare, cosa indossare, ecc.., invece che adoperarle nell’ambito che in quegli anni deve essere il principale campo in cui esercitare la propria spontaneità: il gioco.

La natura infantile vuole sempre spontaneità, ma a seconda delle età vi sono differenti impulsi e differenti energie che vogliono esercitarsi liberamente e svilupparsi in tutta spontaneità. E’ compito di una saggia arte di educare tenere conto di questa legge evolutiva, e accordare di volta in volta la libertà e la guida che risultano appropriate allo stato del momento. Dannosa tanto quanto una libertà inopportuna e una inopportuna tutela. Chi richiede obbedienza per cose che il bambino può decidere da solo e fare autonomamente forse in modo migliore e più giusto di quanto farebbe l’adulto, suscita resistenza e dissimulazione o fiacca per sempre la sua volontà. Quando invece gli ordini sono impartiti con senno, cioè non più di quanto sia necessario e solo nella misura in cui ciò sia richiesto dal bene rettamente inteso del bambino, quest’ultimo si sottometterà con facilità e buona voglia; e quando si lasci indurre a una trasgressione, generalmente lo si riuscirà a ridurre alla ragione e al pentimento senza grosse

difficoltà. Chi non ha imparato l’obbedienza nei primi anni della propria vita, nel prosieguo della vita l’imparerà solo con ardue lotte, o niente affatto.

Quando il bambino è già giunto al punto di poter maneggiare praticamente gli oggetti, quando sa costruire, allora è anche in grado di tenere in ordine le sue cose, ed è giunto il momento di imparare a farlo. (...) Quando il bambino comprende ormai la lingua e può formulare che un discorso abbia senso, è tempo che acquisisca un’altra virtù fondamentale per la vita intera: l’amore per la verità. A dire il vero bisogna affermare in linea di principio che i bambini che non temono l’ambiente circostante si abbandoneranno assai raramente da sé soli alla menzogna cosciente, e assai raramente si devieranno tanto da mentire. Le bugie infantili sono prevalentemente bugie di fantasia, che si debbono all’incapacità di distinguere verità e fantasia. E’ tuttavia necessario far loro imparare questa differenza: è necessario che il bambino vi sia condotto con amore.(...).

All’intero processo dell’arte di educare deve essere sotteso l’amore, che deve essere percepibile dietro ad ogni norma e che non deve permettere l’insorgenza di paura alcuna. E il mezzo educativo più efficace non è la parola, l’esortazione, ma il vivo esempio, senza il quale le parole restano senza effetto.

Una madre che ami il proprio figlio veramente, altruisticamente e senza mollezze, e che sappia mostrargli con l’esempio della propria vita a che cosa lo vuole educare, riuscirà anche a portare a termine l’ultimo, estremo dei compiti educativi, che va affrontato dall’inizio dell’età scolastica: l’impostazione del corretto comportamento del figlio nei confronti degli altri esseri umani e nei confronti di Dio.(...).

Una madre che abbia portato a termine ciò che è stato fin qui designato come suo compito: abituare il proprio bambino ad una vita regolata, alla pulizia, alla disciplina, all’obbedienza lieta, all’amore per la verità, che abbia saputo instillare nel suo cuore l’amore e la fiducia in Dio e negli esseri umani, una madre simile ha posto le fondamenta sicure su cui la scuola e la vita potranno proseguire la costruzione. In mancanza di queste fondamenta, però, qualsiasi attività educativa che verrà portata avanti in seguito sarà una fatica ardua e, in molti casi, vana.

2 -- Il periodo scolastico

Quando una madre porta suo figlio per la prima volta a scuola, deve esserle chiaro che sta cominciando per entrambi un nuovo capitolo dell’esistenza. Al bambino si schiude un mondo completamente nuovo. Entra a far parte di un gruppo di coetanei. In luogo della madre subentra per un certo numero di ore al giorno un altro adulto, che vuole dirigerlo e plasmarlo, e al quale si deve sottomettere. Ogni giorno, ogni ora una quantità di nuove impressioni e di nuovi incentivi si affollano nella giovane anima e richiedono di essere elaborate.

La madre non è più, ora, la sola ad avere in mano il proprio figlio. Se sino a quel momento si era premurata di proteggerlo e sforzata di porre buone basi per tutto quello che sarebbe stato il lavoro pedagogico e lo sviluppo seguenti, ora si presupporrebbe che preparasse con tutta l’attenzione possibile il passo dalla casa alla scuola. Debbo dire che mi sono spesso meravigliata di come molti genitori invece non si curino di questo punto, e si comportino avventatamente per quanto lo riguarda. In primo luogo il passo deve essere reso al bambino il più possibile agevole, la scuola gli deve essere dipinta come qualcosa di bello, qualcosa di cui rallegrarsi. Ma quanto spesso invece accade ancora di sentire che la scuola o l’insegnante vengono usati per minacciare i bambini, suscitando in tal modo nei piccoli timori e diffidenze che poi si riescono a superare solo a prezzo di molta fatica. E quanto stupefacentemente privi di preoccupazione sono alcuni per quanto riguarda la scelta della scuola! Quanto spesso l’iscrizione ha luogo senza che ci sia preventivamente premurati di venire a sapere in che spirito e secondo quali metodi si proceda pedagogicamente e vengano impartite le lezioni, e ci si sia sincerati di che persone siano quelle a cui si affidano i propri figli! E sono degli animi infantili, così deboli, così duttili, così facili da ferire, quelli che vengono in tal modo lasciati in balìa di un intervento estraneo: forse per il loro bene, e con loro soddisfazione, forse a svariati anni di tormento, esposti a danni che si porteranno dietro per tutta la vita.

Nella nostra epoca assistiamo alla nascita, preparata da accese battaglie riformatrici di una nuova scuola, una scuola nata e plasmata in molteplici forme per effetto di un autentico

amore per i bambini, di una seria volontà pedagogica e di un alto idealismo. Ma è il corpo insegnanti di ogni ordine e grado – dalle elementari (e dalla scuola dell’infanzia) sino all’università – sono i teorici e gli esperti e le autorità amministrative in campo pedagogico ad avere preparato la riforma, ad avervi posto mano e ad averla portata a compimento. La partecipazione dei genitori è stata infinitamente modesta. Lo Stato si è appropriato della scuola: l’ha organizzata, ha assunto una gran parte dei costi di gestione, l’ha resa obbligatoria.

Ogni cittadino, e questo oggidì significa anche ogni donna, ha la possibilità di prendere parte attivamente alla ristrutturazione dell’ambito pedagogico, con un serio impegno nei confronti delle questioni pedagogiche, ed esprimendo liberamente la propria opinione in merito. Non è dunque tempo che le madri si sveglino e che si preoccupino di come le scuole son strutturate e di cosa ne sarà del loro futuro? (...) Una madre amorevole e assennata si informerà con scrupolo di quale sia l’ambiente in cui suo figlio si andrà a trovare, prima di compiere la propria scelta in merito alla scuola. (...) La madre che si augura per il suo piccolo uno sviluppo non atrofico, lineare, e che non vuole perderlo di vista, lascerà prima che il bambino si esprima in pace, e eviterà di dare giudizi affrettati e di respingere qualcosa solo perché gli suona nuovo e estraneo. Cercherà di farsi una idea delle nuove metodologie e di rintracciare le motivazioni delle nuove istituzioni. E se questo non dovesse riuscire da sola, farà bene a farsene rendere edotta a scuola.

Le scuole oggigiorno prendono molto a cuore il contatto coi genitori: ci sono riunione dei genitori e ore di udienza con i docenti in cui è possibile farsi una idea della vita scolastica. E se, dopo accurato esame, si dovesse pervenire alla persuasione che determinate personalità o determinate istituzioni non giovano allo sviluppo del bambino, si dovrà pensare a un cambiamento, e questa volta essere assai avveduti nella scelta.

Ancora più essenziale è la presa di contatto cogli insegnanti allorché sorgano difficoltà nella vita di relazione a scuola o nell’educazione domestica: quando le prestazioni non sono soddisfacenti, o quando pare che subentrino dei problemi caratteriali. Quanti peccati vengono commessi dalla vanità delle madri: che il proprio bambino manchi delle disposizioni naturali per soddisfare alle esigenze poste a tutta la classe è qualcosa che viene escluso a priori. O gli insegnanti sono incapaci o sono ingiusti, o il bambino è pigro! Genitori che sono persuasi di amare il loro bambino, e di far tutto per il suo bene, lo costringono a lavorare al di sopra delle sue forze, e lo privano di tutta la gioia dell’infanzia, solo perché vogliono raggiungere lo scopo che si sono posti arbitrariamente e senza tenere conto di quelle che sono le condizioni del bambino. Quanto meglio sarebbe che essi si consigliassero con gli insegnanti e sapessero giovarsi delle loro esperienze e delle loro osservazioni, per riconoscere quale sia la direzione vera, l’inclinazione vera delle disposizioni del loro piccolo, e potere poi organizzare in tal senso il cammino educativo! E allo stesso modo, in caso di difficoltà del carattere che si mostrino in casa o in famiglia, uno scambio di idee in buona fede potrebbe rendere possibile la conoscenza dei fatti in questione e un rimedio tempestivo delle cause che a quei fatti stanno sottese.

Quella madre che detenga la fiducia del proprio figlio e intenda mantenerla, che voglia tenerlo lontano dagli influssi dannosi, non sarà indifferente nei confronti delle amicizie del figlio. Senza farsi notare farà in modo di conoscere amici e amiche e di farsene una opinione. E laddove abbia a paventare un influsso nefasto, saprà come sciogliere il legame a tempo debito e senza asprezze. I rapporti invece innocui e proficui li saprà favorire, e spetta a lei saperli tenere d’occhio senza esercitare un controllo troppo pesante.

La grande rivoluzione che ha luogo nel corpo e nell’anima dei giovani esseri umani e che chiamiamo pubertà è la pietra di paragone dell’arte materna di educare. Il bambino si fa uomo adulto assumendo l’impronta specifica di uomo o di donna e la determinata fisionomia della sua individualità. E mentre hanno luogo in lui questi grandi cambiamenti, egli prende a conoscere il proprio intimo. Impara a vedersi, mentre prima era prevalentemente dedito al mondo esteriore. Questo aprirsi a se stesso non è affatto un riconoscimento razionale dei suoi tratti specifici e della sua natura individuale. Cosa egli sia, e cosa avvenga in lui, lo scopre come un nuovo mondo pieno di misteri e di enigmi. Per questo diviene di interesse a se stesso, si occupa di se stesso e pone tutto il resto in rapporto di sé. I giovani, che sono già tanto un enigma a se stessi, che riescono tanto facilmente a comprendere se stessi, sono comunque inclini a pensare che nessuno sia in grado di capirli. Se ora li si continua a trattare da bambini, se si manifesta stupore che non siano più come erano sempre stati, esprimendo magari addirittura

rimprovero o biasimo, fa seguito alla manifestazione di quella sicurezza in sé in via di destarsi, spesso eccessiva, la doccia fredda del rifiuto ironico: è chiaro allora che si sentano incompresi e si chiudano in se stessi. Eppure in nessun altro momento della loro vita è più grande il loro desiderio di amore e di comprensione, e in nessun altro momento abbisognano di più di una guida saggia.

La madre che bada a non constatare con sguardi o parole stupefatti il mutamento, che accorda tacitamente certe libertà, quelle appropriate all’età, che non pretende confidenza, ma sa accennare, a tempo debito, che presagisce ciò che avviene nell’intimo del figlio: quella madre vedrà che l’anima di lui le si aprirà. Avrà allora la possibilità di penetrare con lo sguardo tutti i suoi conflitti e lotte, pressato dai quali sennò quasi soccombe, o si rifugia da estranei. E se è accorta ed esperta, ed è capace di interpretare cosa avviene in lui, se è in grado di rendergli comprensibile che sta vivendo un grande sviluppo fisiologico, e se è in grado di rivelargli lo scopo di tale sviluppo, la sua vocazione di grande e santo, allora una discussione simile porterà a una liberazione, a un sollievo, e la madre diverrà l’amica, la confidente per tutta la vita.

Ancor più difficile del rapporto colle figlie femmine è, in questi anni, il rapporto tra madre e figlio maschio. Non solo si farà molta fatica a fargli accettare che la madre sarebbe in grado di comprenderlo, ma in effetti sarà raro di fatto che a una donna riesca di penetrare a fondo nei conflitti che vive un’anima di adolescente. E’ fortunata quando in questi anni le sta a fianco un uomo che possa e voglia guidare il proprio figlio. In tal caso la cosa migliore che potrà fare è farsi da parte in silenzio e cercare soltanto, il più possibile senza farsi notare, quanto più può di propiziare e proteggere il rapporto di fiducia tra padre e figlio.

Gli anni di passaggio sono spesso anche epoca di crisi religiosa. E questa richiede di essere trattata con una discrezione tutta particolare. Il giovane che inizia ad avvertire se stesso come persona, vorrebbe molto convincere se stesso e gli altri della sua indipendenza, e di conseguenza sfocia spesso in atteggiamenti opposti a quelli dell’ambiente da cui proviene: qualsiasi intenzione manifesta di influenzarlo provoca in lui ostinazione e resistenza. Discorsi ammonitori pervengono per lo più al risultato opposto a quello che volevano conseguire e soprattutto in ambito religioso sono destinati a fare più male che bene. La madre che di fronte ad un simile caso è presa dall’inquietitudine, deve sforzarsi di tacere e di pazientare sinché il periodo non sia passato. Se nell’infanzia, in quella età tanto ricettiva, ha gettato un buon seme, se nel periodo critico, nonostante una estraniazione esteriore, l’amore e il rispetto filiali restano saldi, se sa testimoniare una vera vita di credente, senza cedimenti, se intercede presso Dio per il figlio che con parole non riesce a portare sulla retta via, allora può sperare che tutte le tempeste non gli nuoceranno, e che alla fine per vie insospettate egli sarà condotto in porto.

Retrocedere, diminuire sempre di più, non mirare all’affermazione di se stesse ma al traguardo: che il figlio giunga dove Dio lo vuole: ecco il cammino e il compito di una madre.(...) Quanto più prontamente ella saprà rimetterlo nelle mani di Colui che gliel’ha dato, tanto più sicuramente potrà sperare che egli le sarà restituito in dono, in un senso nuovo, alto, santo.

* Sintesi, da VITA COME TOTALITA’, Città Nuova, Roma

LA PEDAGOGIA DELLA COSCIENZA CRISTIANAdi Giuseppe Bertagna

Ogni uomo è figlio della propria storia. Ed è soprattutto l’età della formazione, quella adolescenziale e giovanile, a lasciare tracce indelebili in ciascuno di noi. Tracce che poi la complessità delle vicende umane si incaricano di raffinare, modificare, adattare, sviluppare, ma raramente di cancellare. Nemmeno i Papi fanno eccezione a questo schema. Lo si comprende bene leggendo questo volute – La pedagogia della coscienza cristiana – curato da Angelo Maffeis, del Seminario di Brescia e della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale di Milano. A partire dal titolo che mette al centro la “coscienza cristiana”: la “cella interiore” di ogni uomo, di cui Montini parla nell’omelia alla messa della Notte Santa promossa nel 1955 dalla GIAC milanese.Qual è, infatti, il cuore del messaggio che Montini apprende nella sua formazione iniziale (in famiglia, prima di tutto; poi dai padri dell’Oratorio della Pace e dalla Chiesa bresciana), che poi si staglia netto e tagliente nel decennio (1923-1933) di permanenza alla FUCI romana (assistente ecclesiastico prima del solo circolo romano, dal 1923 al 1925, e dopo della FUCI nazionale) e che, infine, attraverserà come un filo rosso l’intera sua azione pastorale di Arcivescovo e di Papa? Lo si può identificare nel seguente.Non bisogna porre al centro della formazione cristiana delle nuove generazioni le questioni storico-politiche in cui anche la Chiesa è immersa. Anche se sono importanti, come quelle da cui il mondo cattolico italiano proveniva (la questione romana, anzitutto; il Concordato, in secondo luogo).Nemmeno bisogna lasciarsi affascinare dalla potenza organizzativa e istituzionale. La tentazione degli apparati, delle falange che marciano compatte. Come poteva apparire naturale a chi intendeva rispondere colpo su colpo agli sforzi di disciplinamento giovanile dispiegati dal fascismo oppure a chi intendeva contrastare la militanza anticristiana socialcomunista, certo, ma non solo, visto che coinvolgeva anche la cultura liberale, azionista e in genere individualista, tipica dello sviluppo capitalistico secolarizzante del secondo dopoguerra.Tantomeno si deve indulgere ad una cultura nozionistica, sostanziata di “idee puramente speculative” che non “dicano niente all’animo del giovane”, come scrive nel famosissimo Spiritus Veritatis del 1931. Al contrario, si deve riconoscere il cuore della formazione cristiana in “un nucleo di idee” che siano diventate “passioni” per il giovane. Idee che nascano misurandosi in maniera rigorosa e senza domande preventive sul terreno della scienza, delle arti, della storia, dell’educazione, della stampa. Idee che siano state abbracciate in una condizione e per un fine di libertà interiore ed esteriore, mai di costrizione.Perfino l’esercizio dei doveri deve essere “liberamente compiuto” dal cristiano. Solo così, del resto, le idee producono come conseguenza spontanea amicizia e societas. Stati, questi ultimi, che presuppongono un’adesione volontaria e responsabile che dura nel tempo, che supera le difficoltà individuali in nome del bene comune e che, confrontandosi con i problemi storici per affrontarli e risolverli nei limiti del possibile, si tradure poi in testimonianze di vita che creano di per sé, per contagio, altre occasioni di amicizia e societas. La stessa Chiesa, più che estranea, deve essere l’exemplum di questa dinamica.Una religione che non “abbia un carattere personale”, che non “sgorghi dal cuore”, che non “impegni l’emotività del ragazzo”,che non “faccia da perno ai suoi nascenti pensieri”,che non “lo impressioni come un affare molto importante”, è, infatti, un involucro senz’anima. In questo senso, la vita cristiana “non è una vernice, non è un nome, non è un episodio transeunte, ma è vita interiore, una potenza di persuasione del come si deve vivere in questo nostro secolo, e del come si deve dare testimonianza di sé a Cristo, del come si deve servire la società, del come si deve amare i fratelli, di che cosa si deve sapere e che cosa si deve credere”.Attorno a questa strategia assiale della coscienza, il volume mostra come ruotino a volta a volta tutti i temi formativi emergenti nell’arco dell’esperienza pastorale montiniana: il rapporto tra scuola statale e scuola cattolica, con annesso problema della libertà di insegnamento; il rapporto tra cultura moderna e fede, tra ragione e religione; l’azione educativa degli oratori e delle associazioni cattoliche; il ’68 e le sue sfide alla formazione giovanile; l’educazione alla fede nella società contemporanea; il ruolo magistrale, oltre che specificamente magisteriale, della Chiesa.A proposito del primo tema, Montini, in questo figlio di suo padre e del cattolicesimo bresciano che aveva conosciuto il pensiero e l’azione di Giuseppe Tonini , difende la dottrina sociale della

Chiesa: il diritto ad educare spetta originariamente alla famiglia e alla Chiesa. “In linea di diritto”, quindi, scrive fin dal 1919 su “La fionda”, “riconosciamo allo Stato solo il diritto di provvedere all’insegnamento dove manchi l’iniziativa privata”. Come gli aveva insegnato la tradizione bresciana, tuttavia, non si possono chiudere gli occhi sulla realtà storica e non riconoscere il ruolo decisivo dello Stato moderno, e di quello italiano in particolare, nell’edificazione di un sistema di istruzione e di formazione al servizio di tutti i cittadini. Da questo punto di vista, è perciò sbagliato qualsiasi atteggiamento polemicamente rivendicativo nei confronti della scuola statale. Anch’essa deve godere della cura culturale, spirituale e civile dei cattolici. Per questo, “in linea di fatto”, al posto di vagheggiare la restaurazione della “linea di diritto”, ci si deve impegnare i n tre convergenti e concrete direzioni.La prima è la qualificazione della paideia trasmessa nelle scuole statali. Deve essere aperta anche alla possibilità del senso cristiano della vita. In particolare, si deve ribadire il valore, in essa, della “cultura” tout court contro la sua riduzione a “cultura statale”, di un certo tipo durante il totalitarismo fascista e “neutra, cioè agnostica nello spirito, dispotica nella realtà” con la Repubblica (1961, bozza autografa per la Dichiarazione dell’episcopato lombardo sulla questione scolastica).La seconda è la rivendicazione del ruolo educativo da riconoscere all’insegnamento della religione cattolica.La terza è il non domandare “altro che un po’ di libertà per educare come vogliamo quella gioventù che viene al cristianesimo attratta dalla bellezza della sua fede e delle sue tradizioni”, come scriveva nel 1919 sempre su “La fionda” e come continuerà a pensare fino al papato. Il tema, insomma, della parità.Perché “le ragioni ideali che giustificano l’esistenza della nostra scuola sono oggi valide come lo erano ieri, anche se ieri maggiori argomenti confluivano a renderle più urgenti e più gravi” (alla Fidae, 1957).Un accenno merita anche il tema del rapporto tra ragione (scientifica e filosofica) e fede cristiana. Come osserva nella proluzione al congresso FUCI di Torino del 1959, “si direbbe anzi che una profonda simpatia avvicini questi due aspetti della vita, la religione e il pensiero, la preghiera e lo studio, il culto di Dio e l’ammirazione del mondo, la teologia e la scienza, la razionalità della fede e la razionalità dello scibile umano”. Ambedue gli aspetti, infatti, esprimono il desiderio umano di comprendere e di giustificare. Ambedue aprono ad una fiduciosa e mai terminata ricerca della verità e in questo si sostengono a tal punto a vicenda che una ragione senza fede nella verità crollerebbe ben presto su se stessa e una fede nella verità densa una ragione che la comprenda si atrofizza e di dissolve.

(G.B.Montini-Paolo VI, La pedagogia della coscienza cristiana. Discorsi e scritti sull’educazione (1955-1978), a cura di Angelo Maffeis, Istituto Paolo VI- Edizioni Studium, Brescia-Roma, 2009 - Recensione tratta dal Notiziario 58 dell’Istituto Paolo VI)

* Recensione trarra dal Notiziario dell’Istituto Paolo VI

INSEGNAMENTO ED EDUCAZIONEdi Angelo Scola

1. Paideia e società post-moderna

Un’efficace osservazione di Jacques Maritain può aiutarci a precisare il titolo, assai ampio, di questa prolusione. Nel suo ancor attuale volume “Per una filosofia dell’educazione” il celebre pensatore francese afferma: «La cosa più importante nell’educazione non è un “affare” di educazione, e ancora meno di insegnamento…». Infatti: «L’esperienza, che è un frutto incomunicabile della sofferenza e della memoria, e attraverso la quale si compie la formazione dell’uomo, non può essere insegnata in nessuna scuola e in nessun corso».

Viene introdotta ex-abrupto come categoria portante del processo educativo la complessa nozione di esperienza. Cominciamo allora col dire che la scelta del termine paideia intende far riferimento a questo appassionante paradosso educativo nella sua articolata unità. Insegnamento ed educazione hanno bisogno di coinvolgimento reciproco di vita, di esperienza in senso pieno e tuttavia questa esperienza non può essere insegnata in nessuna scuola e in nessun corso. L’osservazione riceve luce, tenendo conto della natura di questa università, che quest’anno festeggia il 60° di fondazione e il 37° dell’elevazione ad Università, da un importante rilievo di Benedetto XVI: «Specialmente quando si tratta di educare alla fede, è centrale la figura del testimone e il ruolo della testimonianza. Il testimone di Cristo non trasmette semplicemente informazioni, ma è coinvolto personalmente con la verità che propone e attraverso la coerenza della propria vita diventa attendibile punto di riferimento. Egli non rimanda però a se stesso, ma a Qualcuno che è infinitamente più grande di lui, di cui si è fidato ed ha sperimentato l’affidabile bontà. L’autentico educatore cristiano è dunque un testimone che trova il proprio modello in Gesù Cristo, il testimone del Padre che non diceva nulla da se stesso, ma parlava così come il Padre gli aveva insegnato. Questo rapporto con Cristo e con il Padre è per ciascuno di noi, cari fratelli e sorelle, la condizione fondamentale per essere efficaci educatori alla fede».

In questa sede – si sarà compreso – noi non intendiamo riferirci alla paideia in senso stretto come modello educativo in vigore nel mondo greco-romano, se non perché questo modello, rinascendo in continue trasformazioni col sorgere di nuove culture (non escluse quelle religiose e quelle cristianamente riferite), sottende, almeno descrittivamente, tutti i fattori (paideia fisica, paideia psichica, orientamento all’ethos e all’ethos dei popoli) necessari ad identificare l’azione educativa propria non soltanto della scuola e dell’università stessa ma, più in generale, di tutta la società e riguarda tutto l’arco dell’umana esistenza

Se con Gevaert possiamo definire valore: «tutto ciò che permette di dare un significato all’esistenza umana, tutto ciò che permette di essere veramente uomo… (i valori non esistono senza l’uomo che con essi è in grado di conferire un significato alla propria esistenza)», vediamo come il postmoderno, nel rigettare la plausibilità di un significato globale dell’esistenza, finisca per mettere in discussione non solo la nozione di valore ma la stessa idea di soggetto come entità autocosciente e personale. Perciò non sarebbe più possibile parlare di una vera e propria impresa educativa (paideia), ma ci si dovrebbe limitare a parlare di istruzione.

Al di là del dibattito sulla natura post-secolare della nostra epoca conta rilevare che la domanda di “senso” e di “significato” (rispettivamente nomen intentionis e nomen rei,

secondo la terminologia scolastica) – e quindi la domanda ultimamente religiosa – si ripropone a livello personale e sociale in forme inedite e chiede di essere interpretata.

Tenendo ben conto del quadro tracciato resto convinto che la nozione di paideia, intesa nel senso largo suggerito da Maritain, sia anche oggi in grado di fornire il terreno di base per garantire quella “cura delle generazioni” che è il proprium di ogni esperienza educativa. Ed è la nozione di esperienza a consentire questa possibilità. Al di là della sua criticità, la ricerca di senso e di significato trova un punto di sicuro approdo in quella che genialmente Karol Wojtyla, in Persona e atto, definiva come esperienza elementare, cioè comune ad ogni membro della famiglia umana: «Eppure esiste qualcosa che può essere chiamato esperienza dell’uomo, in quanto basato sull’intera continuità dei dati empirici. Oggetto dell’esperienza è non soltanto il momentaneo fenomeno sensibile, ma anche l’uomo stesso, che emerge da tutte le esperienze ed è anche presente in ciascuna di esse»… «L’atto costituisce il particolare momento in cui la persona si rivela. Esso ci permette nel modo più adeguato di analizzare l’essenza della persona e di comprenderla nel modo più compiuto. Sperimentiamo il fatto che l’uomo è persona, e ne siamo convinti poiché egli compie atti».

La forza di quell’avversativa – «Eppure esiste qualcosa che può essere chiamato esperienza dell’uomo» – trapassa di colpo la complessità in cui versa oggi la nostra società, soprattutto in ciò che ha a che fare con la paideia.

Si potrà così riformulare il concetto di valore, tenendo conto della critica mossagli dal pensiero post-moderno ma evitando di cadere nella tentazione di dire che, al fondo, non esistono valori giacché ogni loro significato sarebbe in fondo frutto di una negoziazione o di un rapporto di forza. L’equivoco circa la loro natura può essere risolto chiarendo che i valori non sono oggetti, né concetti astratti cui attenersi a priori, ma fanno parte del rapporto costitutivo tra il soggetto e le persone, le cose e le circostanze, identificandone una “consistenza” qualitativa. Un’educazione ai valori è quindi impossibile se si elude il rapporto tra la persona e la comunità – e quello di entrambe con il mistero, il «reale inafferrabile», come diceva Buber – all’interno del quale il valore può essere effettivamente comunicato dando un significato e una direzione all’esistenza.

Come acutamente si afferma nel volume curato dal Comitato per il progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana, dal titolo “La sfida educativa”, «Ciò che dà vita e vigore a quanto vale (valore) è, dunque, ciò cui esso mira, cioè l’esperienza che se ne può fare)…».

2. Paideia: libertà e realtà

Dall’inizio della sua esistenza e poi per tutta la vita, l’uomo si trova “gettato” in una trama di rapporti decisivi (a partire da quelli con i genitori, coi fratelli, coi nonni e oggi sempre più spesso coi bisnonni). Il suo impatto con la realtà avviene all’interno di queste relazioni buone attraverso le quali è la stessa struttura intelligibile del reale a suggerire il metodo più adeguato per ogni avventura educativa. Se è il reale a offrirsi al soggetto, compito dell’educatore sarà quello di introdurre l’educando ad una esperienza integrale della realtà che lo guidi a decifrarne il significato. Nel suo regalarsi alla mia libertà, la realtà mostra dunque di possedere già un logos, è intelligibile, come già affermava il realismo classico. Ciò domanda che l’io eviti di elaborare, in modo astratto (ab-[s]tractus/separato), una conoscenza da cui debbano poi scaturire delle applicazioni

pratiche. La realtà, offrendosi per farsi conoscere, domanda invece un atto di decisione del soggetto. E così mette in luce la natura di persona del soggetto stesso. Infatti è proprio l’atto «il particolare momento in cui la persona si rivela». Ci troviamo al cuore di quella che Giovanni Paolo II e von Balthasar definiscono un’“antropologia adeguata”. Un’antropologia consapevole del fatto che quando l’uomo inizia a riflettere su di sé e sul reale può farlo solo dall’interno del suo “esserci”: «Noi possiamo interrogarci sull’essenza dell’uomo soltanto nel vivo atto della sua esistenza. Non esiste antropologia al di fuori di quella drammatica».

Questo stesso fatto ha un’ulteriore conseguenza. Uno dei tratti propri dell’ “esserci” del soggetto nel mondo è la sua obiettiva impossibilità di fare completa astrazione dalla tradizione nella quale egli si trova inserito, e che gli si manifesta, innanzitutto, nella forma del suo essere parte di una catena di generazioni. Lungi dal costituire un ostacolo ad una effettiva educazione e ad un pieno sviluppo della ragione – come il pensiero illuministico ci ha per troppo tempo spinto a pensare –, la tradizione offre all’educando un imprescindibile termine di paragone da spendere nel suo confronto con il reale. Essa è il terreno fertile da cui germoglia l’ipotesi vitale di significato da verificare nel corso della vita e senza la quale una vera e propria conoscenza non è tecnicamente possibile. In quanto luogo di pratica e di esperienza, secondo la felice definizione di Blondel, la tradizione favorisce, come diceva Giovanni Paolo II, la scoperta della “genealogia” della persona che non è mai riducibile alla sua pura “biologia”. Garantisce quell’esperienza compiuta di paternità-figliolanza senza la quale non si dà la persona con la sua capacità di esperienza e di cultura.

Avendo così indirettamente individuato l’insostituibile apporto della libertà umana, sempre storicamente situata, alla paideia, possiamo legittimamente accennare al fattore “critico” insito in ogni proposta educativa. Mi riferisco alla categoria di rischio.

Il rischio non è irrazionalità, ma affiora nella sempre possibile scissione tra il giudizio della ragione e l’atto di volontà. Nell’incontro del suo io tutto intero con tutta la realtà l’educando fa l’esperienza del rischio perché, pur percependo l’intrinseca positività della realtà stessa, può rimanere bloccato nell’adesione ad essa fino ad abbandonarsi alla tentazione dello scetticismo. In questa prospettiva il rischio non è risparmiato neanche all’educatore che, nel comunicare all’educando l’ipotesi interpretativa che egli ritiene più appropriata per spiegare il reale, è chiamato ad auto-esporsi e quindi a rischiarsi. Per questa ragione l’educazione ha una natura eminentemente dialogica. Domanda sempre uno scambio tra l’io (l’educatore che propone e si propone) e il tu (l’educando che viene introdotto alla realtà totale). E questo scambio avviene, costitutivamente, all’interno della trama di relazioni in cui educatore ed educando sono sempre inseriti. Questo dialogo si realizza solo a condizione che, nel continuo e serrato paragone con il reale, venga messa in gioco la libertà di entrambi. Esso mostra inoltre la natura “drammatica” del compito dell’educatore, il quale, spesso tentato di risparmiare all’educando il negativo, può, anche senza volerlo, giungere fino ad impedirgli di essere irriducibilmente altro e quindi integralmente libero.

Il rischio (educativo) del possesso può essere battuto in breccia solo da quella che, insieme alla libertà, rappresenta un’altra dimensione costitutiva di ogni impresa educativa: l’amore. L’amore offerto all’educando, e che a sua volta muove l’educando ad un appassionato confronto con il mondo che lo circonda, ha due volti. Quello dell’educatore, che offre e comunica tutto se stesso nel testimoniare la verità come quell’ipotesi vitale di interpretazione della realtà che egli ha fatto propria; quello della

realtà stessa, che, attestandosi come dono, è ultimamente segno del Mistero che si rivela a tutti gli uomini. E la dinamica con cui la realtà si racconta non si esaurisce mai perché, alla fine, esprime l’amore con cui l’amato (l’uomo) e l’amante (il Mistero) incessantemente si interrogano.

Quando l’ipotesi unitaria e vitale di interpretazione della realtà è l’evento di Gesù Cristo che si comunica nella traditio eucaristica della Chiesa, allora essa appare inscindibilmente connessa con la virtù cristiana della carità. San Giovanni Bosco ha ben descritto quale sia il caposaldo dell’educazione: «Se perciò sarete veri padri dei vostri allievi, bisogna che voi ne abbiate anche il cuore… Ricordatevi che l’educazione è cosa del cuore, e che Dio solo ne è il padrone, e noi non potremo riuscire a cosa alcuna, se Dio non ce ne insegna l’arte, e non ce ne mette in mano la chiave». Queste parole sono nutrite ultimamente dalle relazioni intratrinitarie tra Padre e Figlio e Spirito che, per le missioni del Figlio e dello Spirito, assumono il volto della singolare esperienza del rapporto di Gesù col Padre (cfr Vangelo di Giovanni) e con lo Spirito. Esse dicono dell’impossibilità di essere padri ed educatori se prima non ci si riconosce figli. Non dico: se non si riconosce di “essere stati figli”, bensì proprio di “essere figli”, qui ed ora, di quel Padre che è fonte di ogni paternità e che in Cristo «ci ha scelti prima della creazione del mondo […], predestinandoci a essere suoi figli adottivi».

3. Paideia e università

Indicati i tratti di una paideia come introduzione di tutta la persona alla realtà totale, possiamo ora domandarci in che misura l’università sia in grado di rispondere a questo compito. A partire dall’epoca moderna l’università in ambito euroatlantico pratica di fatto l’esclusione dei saperi connessi con tutte le questioni ultime, soprattutto se lette nella prospettiva della rivelazione cristiana, perché sono ritenute estranee ad una rigorosa conoscenza scientifica. «L’umanità preferirà rinunciare ad ogni domanda filosofica piuttosto che accettare una filosofia che trova la sua ultima risposta nella rivelazione di Cristo».

Questa pesante emarginazione non si perita più, come un tempo, di mettere in discussione la legittimità delle questioni e delle domande circa le cose ultime (Comte). Piuttosto nega la possibilità che la teologia, e anche la filosofia intesa in senso pieno, possano rispondervi adeguatamente. Oggi sarebbe deputata a farlo, al loro posto, la tecnoscienza, la quale viene da più parti considerata l’unica depositaria della verità, sempre falsificabile (Popper), circa l’uomo e i fattori fondamentali della sua esistenza: l’amore, la nascita, la morte. È evidente come entrino qui in gioco radicali cambiamenti che hanno una stretta connessione con la questione educativa.

In questo quadro di rapida e affannosa transizione, come può la formazione universitaria essere pedagogicamente appropriata e quindi non venir meno alla vocazione stessa della uni-versitas, cioè di luogo in cui i saperi vengono ricondotti ad un unico principio sintetico di spiegazione della realtà? In passato questo ruolo di sintesi era toccato alla teologia, il cui metodo e i cui risultati facevano da orizzonte per tutte le altre scienze. Nell’epoca moderna, declinato il ruolo della teologia, ridotta al rango di una disciplina fra le altre e in molte parti espulsa dall’università, non decade tuttavia l’istanza di unificazione del reale.

Ma oggi il principio che assicuri l’universitas come comunità di ricerca non è più ricavato dall’accordo su un nucleo centrale di questioni ultime (sempre allo stesso

tempo filosofiche e religiose), ma poggia sul consenso prodottosi intorno alle procedure di ricerca. La scientificità che accomuna le discipline universitarie non attiene più direttamente all’oggetto della conoscenza, cioè alla verità, ma solo alla metodologia di formulazione del discorso scientifico stesso. Inevitabile conseguenza di questo approccio è che l’università cessa di essere luogo di ricerca e verifica di un’ipotesi veritativa ultima, e perciò di reale paideia, per ridursi unicamente a luogo di trasmissione di competenze che, pur non rinunciando a dire “qualcosa” di sempre provvisorio circa la verità (pensiamo al bios, o alla “formazione dell’universo”) possiede solo un’utilità strumentale. Ci troviamo qui di fronte ad un concetto di ragione estremamente limitato, che non tiene conto delle articolate modalità in cui si esercita il logos umano. Possiamo infatti individuare, sulla scorta di quanto già sosteneva Aristotele, almeno cinque forme, differenziate e irriducibili, di razionalità: teorica-scientifica (scienza), teorica-speculativa (filosofia/teologia), pratica tecnica (tecnologia), pratica-morale (etica) e teorico-pratica espressiva (poetica). Tutte queste dimensioni dovrebbero essere armonicamente ed unitariamente coltivate dall’università.

Certo, nell’attuale panorama educativo non si può non tenere nella dovuta considerazione il fatto che il sistema universitario è per sua natura basato su una complessa articolazione di specifici programmi curriculari e di discipline differenziate. Può pertanto apparire irrealistico perseguire in tempi ragionevoli l’individuazione di nuove basi per l’unità dell’oggetto del sapere, tanto più che va mantenuto il legittimo, e anzi necessario, rispetto per lo statuto particolare delle singole discipline secondo il principio popperiano di demarcazione. Tuttavia quella del superamento della frammentarietà dell’oggetto del sapere è un’istanza oggi più sentita che sta conducendo cultori di molte materie a non limitarsi alla pura interdisciplinarietà.

A maggior ragione però, di fronte a una tale situazione, una adeguata educazione universitaria non potrà rinunciare da subito alla cura dell’unità del soggetto del sapere.

Ma su cosa fondare oggi l’unità del soggetto? Saggezza chiede che, senza confondere il nuovo con l’inedito, anche nel tempo presente si riconosca che essa si realizza a partire dall’assunzione di un’ipotesi esplicativa vitale del reale, che consenta di percepirlo nella sua totalità e di goderne. Non si tratta di un puro esercizio intellettualistico, ma di un’esigenza che si impone ad ogni ricercatore e ad ogni docente e studente che sia lealmente impegnato con la sua materia di ricerca, di insegnamento e di studio. Ogni disciplina, infatti, contiene al fondo una domanda di senso e di significato e perciò prima o poi suscita le irrinunciabili questioni che da sempre agitano il cuore dell’uomo: Chi sono io? Da dove vengo? Quale destino mi aspetta? Chi alla fine mi assicura amandomi definitivamente (oltre la morte stessa)?

Le possibilità che uno sguardo unitario sul reale è in grado di dischiudere ad un intelletto commosso sono ben descritte dalle parole assai attuali del Cardinal Newman: «Non c’è vero allargamento dello spirito se non quando vi è la possibilità di considerare una molteplicità di oggetti da un solo punto di vista e come un tutto; di accordare a ciascuno il suo vero posto in un sistema universale, di comprendere il valore rispettivo di ciascuno e di stabilire i suoi rapporti di differenza nei confronti degli altri… L’intelletto che possiede questa illuminazione autentica non considera mai una porzione dell’immenso oggetto del sapere, senza tener presente che essa ne è solo una piccola parte e senza fare i raccordi e stabilire le relazioni che sono necessarie. Esso fa in modo che ogni dato certo conduca a tutti gli altri. Cerca di comunicare ad ogni parte un riflesso del tutto, a tal punto che questo tutto diviene nel pensiero come una forma che si

insinua e si inserisce all’interno delle parti che lo costituiscono e dona a ciascuna il suo significato ben definito».

Tale punto di vista unitario è offerto secondo il cristianesimo dall’evento di Gesù Cristo, Verbo incarnato e immagine del Dio invisibile, e dalla Sua “pretesa” di svelare, con la sua passione, morte e risurrezione, l’enigma che l’uomo rappresenta per se stesso senza per questo pre-decidere il dramma costitutivo di ogni singolo. Questa “ipotesi” non soffoca il libero esercizio della ragione, anzi ne esalta le facoltà critiche urgendole ad un confronto a 360° con la realtà. La proposta cristiana, infatti, presa nella sua oggettiva integralità, non è un salto nel buio. L’uomo può, al contrario, verificarne tutto lo spessore veritativo nel paragone con le dimensioni della sua esperienza elementare (lavoro, affetti, riposo), e con le irriducibili polarità che attraversano l’unità del proprio io (unità duale propria di ogni essere creato, contingente): anima-corpo, uomo-donna, individuo-comunità. I medievali parlavano a questo proposito di cum-venientia, nel senso etimologico di cum-venire: corrispondere all’essenza più profonda, alle esigenze costitutive dell’io. Non ci riferiamo qui pertanto ad una convenienza utilitaristica. Affermiamo invece quel livello ultimo della verità che muove la persona a scoprire la positività intrinseca del reale, il suo valore.

E nel conoscere, integralmente inteso, l’uomo si ri-conosce. Questa prospettiva che afferma l’attualità della paideia per un lavoro universitario, se rettamente assunta perché efficacemente inculturata, è del tutto compatibile con i più avanzati saperi delle scienze quando siano rigorosamente praticati. Diceva Don Bosco nel suo scritto sul sistema preventivo: «Questo sistema si appoggia tutto sulla ragione, religione ed amorevolezza». Questo sguardo viene esaltato dalla caratteristica ideale dell’università come communitas docentium et studentium. Certo, il principio unitario di interpretazione del reale deve vivere nella persona ed esprimersi nella comunicazione tra docente e discente. Ma esso raggiunge la massima fecondità se espresso nella incessante e reciproca testimonianza che deve circolare fra tutto il corpo docente e tutti gli studenti. Quando la comunicazione appassionata dei primi trova nei secondi non solo degli uditori attenti, ma dei soggetti a loro volta impegnati in una inesausta ricerca della verità, l’università cessa di essere luogo di passaggio finalizzato all’ottenimento di un diploma e realizza la sua vocazione più autentica.

4. Per una università cristianamente orientata

Quanto abbiamo detto assume un valore particolare in un’istituzione che, come la vostra, insieme alla teologia, alla filosofia, al diritto canonico è impegnata ad offrire agli studenti una conoscenza approfondita in ambiti di studio (la pedagogia, la comunicazione) i cui metodi e i cui contenuti si fanno sempre più tecnicamente sofisticati. La pedagogia è esposta al rischio della rimozione dell’esperienza umana elementare; la comunicazione viene spesso concepita come “creatrice” di verità, finendo per diventare strumento di interessi particolari in competizione tra loro.

Compito dell’università, della vostra università, è quello di consentire agli studenti di giungere fino alla realizzazione della loro umanità. Ciò impone di perseguire la paideia attraverso la ricerca, l’insegnamento e lo studio rigoroso delle discipline qui coltivate. E questo mediante il ricorso ad uno sguardo critico che non sia sterile obiezione, ma autentica capacità di discernimento di ciò che è vero, uno, buono e bello. «Vagliate ogni cosa, trattenete ciò che è buono» (1Ts 5,21).

In una parola l’università è tale se sospinge la mente, il cuore e l’azione dei soggetti che la abitano nell’affascinante avventura (ad-ventura) di scoprire il ragionevole dono della verità.

(Relazione tenuta il 13 luglio 2010 alla Pontificia Università Salesiana di Roma)

SCUOLA E QUESTIONE EDUCATIVAdi Giuseppe Angelini

La questione della scuola e delle sue riforme non può essere istruita che sullo sfondo di un’altra e più comprensiva questione, quella dell’educazione e delle consistenti difficoltà che essa propone nella società contemporanea. Nessuno dubita di questo in via di principio. Di fatto però questo nesso viene oggi trascurato. Non è inoltre per nulla ovvio oggi in cosa consista il compito educativo (né è riprova il fatto che nei discorsi pubblici il termine “educazione” è spesso sostituito con quello di “formazione”). Che tale compito sussista appare chiaro alla coscienza dei singoli e in primis dei genitori che lo avvertono spesso con urgenza e gravità addirittura assillante. Ma permangono dubbi e incertezze sul come tale compito debba essere assolto.

1 – Le difficoltà dei processi educativi: un abbozzo descrittivo

I processi di crescita dei minori conoscono macroscopiche difficoltà nelle società occidentali. Queste difficoltà costituiscono la spiegazione più plausibile della crisi di identità che minaccia sistematicamente il soggetto individuale nella nostra società complessa. Di solito però non si attribuisce tale crisi a un difetto nel rapporto educativo.

Le difficoltà maggiori si manifestano nella fase adolescenziale. Questa fase nella nostra società tende ad allungarsi fino a divenire quasi interminabile. Manca negli adolescenti il desiderio di diventare grandi. Prevale in essi una immagine negativa e quasi caricaturale dell’adulto (questa tendenza si connette al fatto che oggi gli adolescenti si aggregano prevalentemente tra loro, tra coetanei). Espressione di queste difficoltà sono l’accentuata spinta alla trasgressione e alla violenza in particolare nei confronti delle regole della vita scolastica e sociale.

I comportamenti trasgressivi hanno, per loro natura, grande visibilità pubblica ma sussistono, spesso ignorati, altri comportamenti trasgressivi meno appariscenti ma più gravi: la “disaffezione allo studio”, l’assenza di interessi (in senso etimologico di non vedere il nesso tra ciò che si deve studiare e la propria vita) magari accompagnata da studio diligente e servile. A volte gli insegnanti meno maturi reagiscono a questa assenza di interesse con l’ammiccamento, la complicità nel giudizio, la sciatteria.

Se nella scuola il disagio è più appariscente, nella famiglia lo è di meno ma è più radicale e grave.

Gli insegnanti rilevano il difetto dell’educazione familiare, qualche volta anche lo denunciano; trovano in esso spiegazione per molte delle difficoltà, che propone il rapporto scolastico. I genitori spesso sentono e temono il giudizio degli insegnanti, e assegnano – sia pure in forma tacita e solo ottativa – proprio alla scuola il compito di rimediare ai limiti insuperabili della educazione domestica.

Le attese nei confronti della scuola hanno inizio già dalla scuola materna, o addirittura dall’asilo nido. Attese tanto grandiose nei confronti della scuola si convertono poi facilmente in giudizi severi sugli effetti deludenti, o addirittura devastanti, che la scuola stessa produrrebbe sui figli.

Nelle età successive, a cominciare dall’attuale media inferiore, l’accusa dei genitori nei confronti della scuola si riferisce proprio al fatto che in essa il preadolescente entra in una fase di contagio mimico rispetto a coetanei e di sfida emancipativi nei confronti dell’adulto. L’istituzione scolastica protesta di non essere in grado di governare tali processi e tale protesta ha una fondamentale ragione di pertinenza. Il rimedio potrebbe venire forse soltanto da un confronto meno polemico tra scuola e famiglia.

L’attenzione alla chiusura dell’adolescente nella sfera dei pari e la mancanza di riferimenti adulti dovrebbero essere oggetto di intervento non secondario di ogni progetto di riforma della scuola.

Altro elemento di interferenza nel rapporto tra scuola e famiglia è dato dal rilievo che nelle famiglie assume spesso il rendimento scolastico. Nei padri più spesso il rendimento scolastico dei figli assume un ruolo di criterio decisivo in base al quale si produce il loro apprezzamento nei loro confronti o viceversa di loro disprezzo.

Lo scarso rendimento è invece valutato dai genitori subito e solo in termini morali. In realtà nello scarso rendimento dei figli si nasconde spesso una protesta: il privilegio accordato dai voti scolastici appare ad essi come un tradimento dei genitori, un tradimento dell’affetto e di

quell’indistinto credito che, appunto attraverso l’affetto, essi avevano percepito come promessa sicura. Ad essa potrebbe essere data risposta soltanto attraverso una elaborazione del rapporto affettivo, che correggesse il carattere solo estrinseco del “ricatto” scolastico, avvertito come arbitrario.

2 – La rimozione del tema educativa; la denuncia francese

Si può parlare di pura e semplice rimozione del tema della difficoltà dei processi educativi a livello dei pedagogisti più accreditati e delle scienze dell’educazione così come oggi sono coltivate. Illuminante è il caso del progetto di riforma perseguito in Francia tra l’ ’88 e il ’92 dall’allora ministro Allégre, un progetto per molti aspetti simile a (alcune) riforme tentate in Italia (in particolare la riforma Berlinguer – Ndr). La critica rivolta a tale progetto fu quella di rinunciare a trasmettere ai minori il mondo dei valori degli adulti; infatti l’obiettivo di tale riforma era sintetizzabile nella formula “Il minore costruisce il suo sapere” e la scuola è “luogo di vita”, luogo dove si effettua l’invenzione del sapere a prescindere dalla tradizione culturale. Se in termini usati nel dibattito francese appaiono eccepibili e incerti (ad esempio che cosa si possa intendere per trasmettere), rimane il fatto che questi rilievi mettono in luce un debito che la generazione adulta ha verso i minori.

Tale debito si può esprimere come quello di rendere ragione della cultura di fatto all’alleanza sociale.

Il chiarimento del debito della generazione adulta esigerebbe di ripensare il complesso tema dei rapporti tra la coscienza personale e le forme della relazione sociale, nelle quali trovano oggettivamente i significati fondamentali della vita; esigerebbe di pensare l’idea di cultura intesa in accezione antropologica.

Responsabile di tale risistemazione della scuola in senso “democratico” (è il termine usato allora in Francia) è il “pedagogismo” il quale prospetta il compito educativo in termini tali da semplicemente annullare il riferimento alla tradizione culturale . Più precisamente, annulla ogni riconoscimento di valore, o di autorità, che la tradizione in ipotesi dovrebbe assumere in ordine all’obiettivo di condurre il minore alla determinazione libera di sé. La tradizione è trattata quasi fosse semplice repertorio di materiali, al quale il minore dovrà certo attingere, in un’ottica assiologia tuttavia che nulla deve a quel repertorio; di esso egli potrà soltanto servirsi per creare un progetto di vita.

In tal quadro deve essere intesa l’emergenza della nuova nozione di “competenza”. Essa si riferisce all’attitudine a servirsi dei saperi costituiti. La nuova scuola dovrebbe promuovere appunto competenze, prima e più che i “saperi”. In ogni caso esorbiterebbe dai suoi compiti l’obiettivo di promuovere una “sapienza”, o – comunque ci si voglia esprimere – un sapere a proposito della verità della vita. Appare dunque impossibile formulare anche solo l’ipotesi che la tradizione culturale debba essere il luogo al quale il minore deve rivolgersi, per trovare tale sapienza, per avere testimonianza dunque della verità della quale, in ipotesi, egli da sempre in qualche modo vivrebbe.

3 – I critici delle riforme in Italia

La diagnosi ha qualche ragione di pertinenza anche per i casi italiani. Essa è stata di fatto espressa da alcune voci della cultura italiana, anche di diverso orientamento, accomunate però dalla denuncia del carattere inconsistente, addirittura futile e risibile, del pensiero posto alla base delle riforme, interpretate come semplice accondiscendenza ai luoghi comuni. Anche a seguito dei grandi eventi di livello mondiale (in primis la caduta del muri di Berlino e la fine delle ideologie ma anche i processi di mondializzazione dell’economia) è prevalsa una esigenza di “modernizzazione” della scuola che si traduce nell’imperativo categorico di produrre un cittadino versatile, assai più che formare un uomo libero. Versatile, e cioè capace di rivestire i sempre nuovi ruoli, che il sistema sociale di fatto gli assegna.

L’idea formalistica di educazione trova alimento e insieme sanzione – a nostro giudizio - nella koiné sottesa al dibattito civile quotidiano.

Alla radice sta un assunto elementare: l’educazione consiste nello sviluppo dell’IO del minore. La metafora usata e abusata, a cui si fa ricorso, è quella della famosa maieutica

socratica: il compito di educare non consisterebbe nel proporre al minore un modello di vita buona preconfezionato, ma soltanto nel propiziare quel processo di esplicazione ed espressione dell’identità originaria, in cui consiste l’educazione. L’identità in questione, pure latente e virtuale, sarebbe fin dalla nascita iscritta nell’essere del soggetto.

In base a tale modello, l’educatore assume profilo assai meno ambizioso di quello evocato dalla vecchia figura del “maestro”; la sua figura è quella di un semplice “animatore”. Egli propizia un processo di crescita che, quanto ai criteri di valore, appare decisamente autoreferenziale. L’obiettivo è la realizzazione di sé, o magari addirittura l’autoformazione. All’educatore non è chiesto d’essere interprete di una autorità, con la quale in ipotesi il minore dovrebbe confrontarsi. Tale abbandono di ogni riferimento alla figura dell’autorità strettamente si connette ad un altro abbandono, quello che si riferisce alla categoria della verità. Questo secondo abbandono è l’aspetto più radicale e qualificante del formalismo pedagogico.

4 – Insegnamento ed educazione

La relazione tra insegnamento e educazione ha bisogno di essere ripensata nella situazione civile presente, caratterizzata dal tendenziale distacco tra cultura sottesa allo scambio sociale (le scienze o saperi riflessi) e cultura sottesa invece alla vita personale del singolo (cultura in senso antropologico).

L’educazione certo non può prescindere dall’insegnamento dei saperi istituiti; essi sono indispensabili alla vita sociale del singolo. Per realizzare il suo profilo educativo però, l’insegnamento non può limitarsi all’obiettivo di curare l’apprendimento di quei saperi, deve invece curarsi anche della loro iscrizione nell’orizzonte sintetico della coscienza. Deve, in altri termini, occuparsi del significato della scienza; il significato della scienza è notoriamente questione che eccede le competenze della scienza stessa e attiene al problema del significato dell’esistenza.

Ad un insegnamento sinteticamente qualificato come nozionistico invece oggi si cerca di rimediare prospettando il poco realistico ideale di una scuola che propizi la costruzione di un proprio sapere da parte del minore.

Di una pedagogia intesa quale capitolo della filosofia morale non c’è praticamente più traccia nelle nuove “scienze dell’educazione”. L’abbandono della riflessione di grado filosofico sul tema dell’educazione fa mancare le risorse concettuali per istruire la stessa analisi concreta della situazione di crisi, che l’educazione indubbiamente conosce nel nostro tempo. Un tempo l’educazione si proponeva senza neppure la necessità di essere pensata in forma riflessa e di essere deliberatamente perseguita come un obiettivo.

Occorre inoltre tenere presente che il grandioso sviluppo dei “saperi” secondari o “scientifici” comporta non soltanto un costante incremento materiale dei contenuti ma anche una sempre rinnovata discussione in ordine ai paradigmi di ogni ricerca scientifica. La stessa distituzione tra elementi e metodo quindi appare problematica. In ogni caso, sia gli elementi che i metodi mutano. In tal senso sembra debba essere radicalmente ripensata la stessa identità di ogni singola disciplina.

Di fatto si prende le distanze, se non proprio dalle discipline, certo dal privilegio ad esse accordato nell’assetto convenzionale della scuola. A tale riguardo meriterebbe una precisa ricognizione critica la formula che propone il passaggio da una scuola delle “conoscenze” a quella delle “competenze”. La facilità con la quale essa si è affermata è discutibile. La formula pare anche sancire una comprensione “utilitaristica” delle conoscenze. Esse non conterebbero per se stesse, ma in rapporto all’uso che il soggetto ne può fare; l’attitudine dunque al loro uso, e rispettivamente a reperire di volta in volta quelle necessarie – questa attitudine definisce pressappoco l’idea di “competenza” – dovrebbe essere in tal senso la cura maggiore della scuola. La riduzione del sapere a semplice mezzo del “fare”.

5 – Che fare?

Mi pare valga anche per rapporto al caso italiano quello che diceva D. Kambouchner per rapporto al caso francese: una tale riforma non sarebbe potuta apparire plausibile, se la cultura

più qualificata si fosse occupata della questione educativa più seriamente di come fino ad oggi fatto.

Riflessione e confronto stentano fino ad oggi a prodursi nella scuola. Quello che può e deve essere fatto anzitutto a livello istituzionale è togliere tutte quelle ingessature burocratiche, le quali impediscono alla scuola di sviluppare un confronto argomentato al suo interno, e poi anche nel confronto con la società tutta. Diffidare degli esperti. Soltanto dal confronto tra protagonisti è possibile emerga un progetto plausibile. E tra i protagonisti rilievo essenziale hanno gli insegnanti. La loro voce non può essere ovviamente affidata alla mediazione sindacale.

Una elaborazione pensosa sulla questione scolastica è stata fino ad oggi scarsa nell’ambito della Chiesa. L’inconveniente non è di poco conto. Impedisce di mettere a frutto una competenza virtuale, che pare per molti aspetti privilegiata. La Chiesa infatti è rimasta, accanto alla famiglia, l’unica agenzia sociale che mantenga un rapporto significativo con le nuove generazioni. Essa dispone oltretutto di scuole proprie che potrebbero essere prezioso laboratorio di sperimentazioni e proposte.

E’ però necessario, perché la Chiesa possa dire qualcosa di valido su questi problemi, elaborare una riflessione di base sul tema dell’educazione, e della sua crisi nella società complessa, la quale offra le categorie elementari che sono indispensabili per realizzare un confronto univoco, e quindi anche una comprensione critica e responsabile delle indicazioni offerte dalla pratica scolastica.

* Relazione tratta da “Scritti sull’educazione”, Centro Culturale Rotondi, Gorla Minore (Va)

EDUCAZIONE CRISTIANA ALLA LIBERTA’di Mario Montani

Il tema è come una camera di risonanza dei problemi più vivi e impegnativi che incontra un educatore in genere, e un educatore insegnante in particolare. Ci limiteremo pertanto ad alcune riflessioni, senza la minima pretesa di prospettarne il quadro completo (non ne avremmo neppure il tempo).

I – Premesse chiarificatrici per un discorso cristianosull’educazione alla libertà

Chi si aspetta l’attenzione solo al “rigagnolo” utile per innaffiare il proprio piccolo orto rimarrà deluso. Mi preoccuperò invece di verificare prima i “ghiacciai” che alimentano i rigagnoli. Già, perché questi attingono da quelli! Sarebbe puerile la sorpresa di fronte alla siccità se mai ci si preoccupa di controllare e potenziare le sorgenti.

La missione della Chiesa

La Lumen Gentium (... il vertice e il cuore del Concilio Vaticano II) fa prendere coscienza, a noi cristiani, che “la Chiesa è in Cristo come un sacramento o segno e strumento dell’intima unione con Dio dell’unità di tutto il genere umano” (par. I).Ciò vuol dire che la Chiesa:- è la presenza di Dio tra gli uomini;- “è il popolo di Dio che Cristo utilizza come strumento per realizzare la salvezza del mondo” (De Smedt) La chiesa non è solo “Comunità di salvati”, ma anche “strumento di salvezza”.

La nostra missione educatrice cristiana partecipa a questa missione della Chiesa: anche noi contribuiamo a realizzare il disegno salvifico di Dio e l’avvento del suo Regno, proponendo agli uomini il messaggio e la grazia di Cristo, e perfezionando l’ordine temporale con lo spirito del Vangelo.Quella cui dobbiamo dedicarci in spirito evangelico è una promozione umana integrale. Rifiutiamo perciò quanto favorisce l’ingiustizia e la miseria e collaboriamo con quanti costruiscono una società più degna dell’uomo, convinti che questo amore liberatore di Cristo e della Chiesa costituisce un segno che prepara, stimola e sostiene la fede.Per inserirsi quindi in una rivoluzione liberante, il cristiano non deve mendicare altrove l’idea né le forze. Il primo aspetto della sua anima rivoluzionaria attinge il proprio ardore dalla continua violenza del Regno di Dio: “Non si chiede ai cristiani che di essere se stessi. Ma è vero che proprio in questo sta la rivoluzione” (Mounier).

In quanto educatori di giovani dobbiamo collaborare con essi per sviluppare ogni loro risorsa fino alla piena maturità umana e cristiana – personale e comunitaria – aiutandoli ad aprirsi alla verità e a conquistare la loro libertà.Convinti poi che noi incontriamo i giovani al punto in cui si trova la loro libertà e la loro fede, dobbiamo aiutarli, attraverso il dialogo, l’illuminazione e lo stimolo, a liberarsi di ogni servitù, rispettando il delicato processo della fede.

Il cristiano e “la logica dell’amore”

Se noi cristiani, per dare un senso alla nostra vita e alla nostra azione, rimaniamo negli schemi di una pura logica della ragione e non ci apriamo alle esigenze della logica dell’amore, riduciamo la nostra fede e la nostra identità ad un’assurdità ripugnante.Non per nulla la rivelazione del Nuovo Testamento ha le sue portanti essenziali tutte ritmate sull’amore: - “Chi non ama non conosce Dio, perché Dio è amore” (I Gv. 4,8);- “Pieno compimento della legge è l’amore” (Rom. 13,10);- “Se non avessi la carità, non sono nulla” (I Cor. 13,7).

Cosicché se non stacchiamo dall’amore le virtù che noi ci ostiniamo a ritenere “cristiane”, le facciamo diventare dei congegni manovrati per l’acquisto o il consolidamento dei propri interessi. Se ci mettiamo al di fuori della centralità e della logica dell’amore, il primo valore da conservare ad ogni costo diventa l’ordine, divenuto sinonimo di tranquillità: tutto va bene se non vi è turbamento.

Siamo agli antipodi della morale cristiana! Veramente si deve affermare che “il Copernico della morale, non è Kant, ma lui, il borghese!” (Mounier).Appena si dirige la critica sul “borghese” (e tanto più se lo si condanna!) tutti si sentono irritati. Ciò avviene perché ciascuno di noi, in proporzione più o meno abbondante, è un borghese il quale solo a sentore questo nome va su tutte le furie come un indemoniato.Eppure con la parola “borghese” non si vuole definire una classe ma uno spirito, e questo spirito risale fino alle alte gerarchie del regime e discende come una cappa pesante sulle masse popolari.Per sapere se si è colpiti da questo spirito, non occorre calcolare le proprie rendite, ma basta fare un esame di coscienza che ce lo delinea: “Un tipo d’uomo nuovo – che sempre resiste. Lui fortunato! – privo di ogni follia, di ogni mistero, del senso dell’essere e del senso dell’amore, della sofferenza e della gioia, devoto alla felicità e alla sicurezza, rivestito, nelle più alte sfere, di una vernice di cortesia, di buonumore, di virtù di razza; negli strati più bassi murato fra la lettura sonnolenta del giornale quotidiano, le rivendicazioni professionali, la noia delle domeniche e dei giorni di festa e – come unica difesa – l’ossessione dell’ultimo pettegolezzo e dell’ultimo scandalo. Aggiungiamo le sopracciglie lanciate dall’ultima “star”, i piccoli divertimenti tipo YO-YO, le parole incrociate e amenità del genere: ecco completato il quadro della persona borghese cosiddetta “spirituale” (Mounier).

Dicevamo – allora - che “il Copernico della morale non è Kant, ma lui, il borghese. Tutte le virtù che generalmente fanno capo alla carità, per il borghese volteggiano attorno alla virtù d’ordine. La loro misura non è più l’amore che ha proiettato attorno a sé dei mondi, ma un codice di tranquillità sociale e psicologica” (Mounier). Si tende unicamente alla felicità, divenuta sinonimo di benessere e di godimento. Di più: divenuta sinonimo di equilibrio e di modello di vita cristiana.E ci troviamo davanti a quei cristiani bollati dalla terribile definizione di Péguy: “Credono di amare Dio perché non amano nessuno!”.

Il risultato di questo infausto divorzio tra le esigenze dell’amore cristiano e la egoistica sterilità di questo tipo di cristianesimo innanzitutto è il legame tra l’ateismo e la liberazione cui aspirano gli uomini del nostro tempo.Come ha riconosciuto il Vaticano II (Gaudium et Spes, 19-21), i cristiani hanno spesso velato l’autentico volto di Dio situando Dio in un lontano mondo religioso, presentando la dipendenza da Lui come una dipendenza passiva, priva di densità storica, trasformando Dio in custode e conservatore di un ordine sociale che, legato a ideologie nate da una società superata e ingiusta, finisce per essere un disordine stabilito.Le conseguenze di questo atteggiamento sono pesanti e durature. Noi continuiamo a portarne il peso. Oltre alle difficoltà che avvertiamo nel rispondere ai nostri contemporanei quando chiedono conto alla Chiesa del ruolo avuto nella storia delle liberazioni, ritroviamo, sempre risorgente, la tentazione di scegliere Cristo rigettando la Chiesa.E di fronte al problema “liberazioni umane e missione della Chiesa” noi cristiani di oggi corriamo un duplice rischio:- o una Chiesa estranea alle realtà umane collettive, e come assente dal mondo contemporaneo, pur avendo la missione di evangelizzarlo (trascendenza ... alienante);- oppure una Chiesa impegnata in tutti i movimenti del mondo ma che si dissolve in essi, perdendo qualsiasi carattere specifico (immanenza ... nullificante il mistero pasquale di Cristo!).

3 – Mondo cristiano e cristianesimo

Non dobbiamo dimenticare che il mondo cristiano, sociologicamente considerato in un dato momento della storia, non è il cristianesimo, e che può persino molto infedelmente esprimere il cristianesimo: “Che il cristianesimo possegga le sole parole di Via, è una cosa. Che il mondo cristiano ne sia oggi il solo o il principale portatore, che le vie di Dio siano necessariamente le vie dei giudizi pratici maggioritari dei cristiani, è un altro problema” (Mounier)La storia ci insegna che gli uomini possono adoperare come comodo cuscino per i propri sonni, sia il dubbio del vecchio scettico, sia la verità stessa del Vangelo.

Quando consideriamo quale sia stato e quale sia l’atteggiamento dei cristiani di fronte al mondo moderno, non si può negare che la Chiesa, dalla riforma ai nostri giorni, si sia trincerata in una posizione di difesa, piuttosto che passare ad una iniziativa di attacco, di modo che oggi essa si trova di fronte ad autentici valori senza che abbia contribuito a svilupparli. (Cfr.: La Rivoluzione Francese – nata .... “scomunicata” – e la ripresa dei valori da essa veicolati – Fraternité, Egalité, Liberté – nel discorso di Paolo VI all’ONU (1965), quando presentò i cristiani quali “ ... esperti in una umanità”).

“Appropriandosi troppo le grandezze che non appartengono a nessuno, dimenticando troppo nelle corti e vicino ai potenti la sua condizione di dissidente, spesso il cristiano ha serbato l’insopportabile pretesa di voler essere sempre privilegiato nelle questioni ordinarie”(Mounier). In fatto di costruzione dell’uomo e della società il cristiano – e chi si presenta come cristiano – sarà sottoposto a una misura comune, sarà valutato per il suo reale comportamento: non per la sua fede e i suoi titoli storici (offuscati, tra l’altro, da cattivi ricordi ...).Bisogna perciò disfarsi da quella ben poco cristiana psicologia di ricco proprietario che reclama il diritto di proprietà anticipata su qualunque nuova conquista, anche se non ha per nulla contribuito alla sua realizzazione.E dobbiamo ancora tener presente che continuare a negare per 50 anni l’evoluzione della specie, e poi diventare più evoluzionisti della scuola stessa – e gli esempi di questo genere sono più numerosi di quel che si pensi – non serve né la causa del cristianesimo né quella della libertà.“Oggi si prospettano numerosissimi problemi politici e sociali a cui bisogna badare che non capitino identici analoghi” (Mounier).

Questo rapido accenno sui rapporti tra mondo cristiano e cristianesimo vorrebbe essere uno stimolo a farci capire che “gli uomini raramente imparano ciò che credono di sapere” (Barbara Wart).Voglio dire: vorrebbe essere uno stimolo per farci capire che se noi cristiani non confrontiamo e non verifichiamo continuamente la nostra vita e il nostro comportamento con il messaggio evangelico, con l’autorevole insegnamento del Magistero della Chiesa (alludo primariamente ai documenti del Concilio Vaticano II, 1962/65) rischiamo di contrabbandare come cristianesimo mentalità e comportamenti che di cristiano hanno ben poco: forse ne sono rimasti una deplorevole caricatura, giustamente ripudiata – sovente in modo sgarbato e offensivo – da chi ci inchioda sulle responsabilità dei nostri tradimenti o dei nostri accomodamenti utilitaristici.Nel caso specifico, poi, del nostro discorso sulla educazione cristiana alla libertà, ci troveremmo precluso qualsiasi progetto di lavoro e, prima ancora, ci troveremmo preclusa qualsiasi possibilità di intenderci sugli stessi termini del problema, se non avessimo accostato, meditato, assimilato almeno i due documenti basilari del Vaticano II: la “Lumen gentium” e la “Gaudium et Spes”.Io penso che un cristiano che partecipi ad una assemblea cristiana per accordarsi su impegni cristiani e non conosca almeno i due documenti soprannominati dovrebbe sentirsi bruciare, se non proprio la sedia su cui si trova, almeno la coscienza di persona che rifiuta di essere un burattino o un demagogo o un cantautore da strapazzo ...

II – Punti fermi per una educazione cristianaalla libertà (nelle nostre scuole cattoliche)

“Punti fermi” non vuol dire: punti facili. Tutt’altro. L’esigenza di questi punti fermi si impone; l’attuazione va inventata dalla comunità educativa (tutti insieme: docenti, genitori, allievi). “Noi non siamo nati in uno di quei periodi in cui l’uomo si inserisce in una tradizione salda e sicura. Noi ci facciamo da soli in un mondo in piena demagogia” (Mounier).

1 - La prima educazione cristiana alla libertà è la difesa della libertà per tutti

Il diritto della persona e della comunità alla libertà sociale e civile, è una esigenza, oggi, talmente matura, che condiziona e verifica qualsiasi progetto educativo, qualsiasi progetto di convivenza umana, qualsiasi progetto di crescita nella fede religiosa: “Nell’età contemporanea gli esseri umani diventano sempre più consapevoli della propria dignità di persona e cresce il numero di coloro che esigono di agire di loro iniziativa, esercitando la propria responsabile libertà, mossi dalla coscienza del dovere e non pressati da misure coercitive .... Questa esigenza di libertà nella convivenza umana riguarda soprattutto i valori dello spirito, e in primo luogo il libero esercizio della religione nella società” (D.H., I).Il diritto alla libertà psicologica nella ricerca della verità e il diritto alla immunità dalla coercizione esterna “perdura anche in coloro che non soddisfano all’obbligo di cercare la verità e di aderire ad essa, e l’esercizio di tale diritto, qualora sia rispettato l’ordine pubblico informato a giustizia, non può essere impedito” (D.H., 2).

Forse è solo da un paio di secoli che ci stiamo accorgendo che il principio basilare sul quale veniva strutturata la convivenza sociale (e – diciamolo apertamente – sul quale ancora oggi una buona parte del globo continua a strutturare la propria convivenza sociale ..., anche se a parole afferma il contrario) non regge: “solo la verità ha diritto alla libertà”.Proprio in base a questo principio si sono accesi (e si accendono tuttora!) i roghi, da una parte e dall’altra, per difendere la “verità” ... imposta da chi detiene il potere politico o culturale.Noi oggi (e noi cristiani soprattutto dopo la “Pacem in terris” e dopo il Concilio Vaticano II) siamo coscienti che né la verità né l’errore sono soggetti di diritto: ma solo la persona umana!Ogni volta perciò che si impediscono o si negano i diritti fondamentali della persona umana – di tutte le persone umane “che rispettano l’ordine pubblico informato a giustizia” (D.H.,2) – si vanifica qualsiasi discorso educativo, culturale, sociale, religioso.Guai se tutta la nostra sete di educazione alla libertà si concentrasse e si esaurisse nell’invocare e difendere la libertà solo per noi cattolici e solo per le nostre scuole! Non saremmo credibili; diventeremmo, anzi, contraddittori.Se ci impediscono le processioni e noi ci lamentiamo perché ci impediscono un atto religioso e non perché ci tolgono la libertà cui ogni cittadino ha diritto, dimostreremmo con i fatti che non crediamo nella libertà, che non siamo idonei ad educare alla libertà. Solo dimostreremmo che siamo “mendicanti di privilegi”.

In particolare (per quel che ci riguarda in questo discorso): noi difendiamo un pluralismo scolastico, perché senza una libertà della scuola non ci potrà mai essere una autentica democrazia. Il primo valore che ci sta a cuore e che invochiamo per tutti è l’autentica democrazia: che noi stimiamo, difendiamo, facciamo crescere anche attraverso quel indispensabile strumento che è la scuola libera, cristiana e non cristiana.E’ nostra ferma convinzione che la “scuola libera” è un termometro delle civili libertà!

Noi, poi – oggi – siamo coscienti che anche nella scuola la Chiesa Cattolica, per compiere la sua missione di salvezza, non accampa nessun privilegio e nessun diritto: solo chiede e lotta (qui è giocoforza impiegare il verbo “lottare”: c’è nella storia il sangue di parecchi “martiri” che lo impone!) perché tutte le persone si trovino nelle condizioni di liberamente ascoltare, valutare, accettare o rifiutare il messaggio salvifico del Mistero Pasquale.Non vogliamo quindi, che anche nel settore scolastico si ripeta quanto è avvenuto in prospettive socio-politiche di più ampie dimensioni: il fatto, cioè, che dove i cattolici sono in maggioranza e sono al potere, rifiutano e coartano la libertà degli altri; dove invece sono in minoranza piagnucolano per averla ...

Ecco perché sono convinto che il primo “punto fermo”, la prima educazione cristiana alla libertà, sia la difesa della libertà per tutti.I cristiani sarebbero infedeli alla loro missione di evangelizzazione se non fossero effettivamente mobilitati a lavorare con tutti i fratelli, credenti o no, alla liberazione dell’uomo, di ogni uomo e di tutti gli uomini.Ecco perché sono convinto che la difesa della libertà – ovunque essa venisse violata, anche nelle persone non cristiane – è, per chi la difende, un atto di coerenza profondamente evangelica, ed è

contemporaneamente una proposta altrettanto profondamente evangelica, fatta a colui di cui si difende la libertà.Ecco perché non dovremmo nemmeno iniziare un discorso sulla “educazione cristiana alla libertà” se, anche solo mentalmente, sottintendessimo: “libertà solo per noi cattolici”.

Forse non è trascurabile aggiungere – pur trattandosi di una situazione contingente, quantunque realistica e decisiva – che oggi, in Italia, così come siamo politicamente messi (e a parte possibili imminenti sorprese ...) un qualsiasi discorso e una qualsiasi azione promossa a difesa della libertà delle sole scuole cattoliche e non a difesa della attuazione di un diritto del cittadino e delle comunità, recepito anche dalla nostra costituzione, sarebbero destinati all’insuccesso e darebbero l’appiglio (se non il fondamento) all’accusa di immaturità democratica.

2 – Chiarezza di proposta cristiana nelle comunità educative delle nostre scuole

Solo nella libertà è possibile un discorso educativo, ma appunto perché è possibile, bisogna farlo; altrimenti non avremo mai delle persone liberate!E in campo pedagogico, chi non fa nulla sbaglia sempre; chi invece agisce può darsi che sbagli. Se però uno agisce con prudenza cristiana si avvicina alla certezza di svolgere un’efficace azione educativa.

Basta che compaia la parola prudenza e, questa volta, tutti ci sentiamo a posto! Siamo tutti disposti ad ammettere che altri abbiano più buon senso di noi. Non per nulla Cartesio ironicamente ci ricorda come il buon senso sia la dote meglio distribuita dal Padre Eterno: nessuno se ne lamenta e nessuno gliene chiede almeno un supplemento ... Distinguiamo pertanto tra prudenza e ... quieto vivere:- prudenza: capacità e virtù che giudica rettamente su ciò che si deve fare, per diventare scelta illuminata e coraggiosa dei mezzi atti a raggiungere uno scopo superandone le difficoltà;- quieto vivere: rifiuto di ogni rischio e fastidio per ... vivere in pace!Sottolineature:* nel linguaggio comune il termine prudenza ha un significato assai meschino e ristretto; significa infatti una riguardosa cautela dell’agire sia individualmente che socialmente, una circospezione nemica dei rischi e delle difficoltà;* chi non fa niente, non è prudente, ma è un fannullone ...!* Papa Giovanni XXIII ci ammonisce che “la vita deve essere equilibrio del moto”: occorre e l’uno (altrimenti: squilibrati) e l’altro (altrimenti: morte).

C’è anche da chiarire il contenuto di un’altra parola che entra nel nostro discorso. La parola: libertà. Qui è Pirandello a ricordarci come ogni parola sia come un “sacco vuoto”: ciascuno lo riempie di un proprio contenuto, e così non ci intendiamo più!Non confondiamo la libertà con l’istintività (uguale: spontaneità):- istintività: l’attitudine innata ed ereditaria a compiere spontaneamente certe attività che sono ordinate ad un fine, senza che ci sia la coscienza di questa coordinazione e di questo fine;- libertà: possibilità di autodeterminare il proprio agire verso un fine formalmente conosciuto come “un valore”.Sottolineature:* se fossimo condannati all’istintività saremmo animali istintivi e irresponsabili (cioè, burattini in mano altrui);* la libertà non consiste nel diritto di poter fare ciò che si vuole, ma nella possibilità di fare ciò che si deve fare razionalmente;* liberi si nasce; liberati (capaci di adoperare la propria libertà) si diventa, con impegno e sforzo personale.

Chiarito cose intendiamo per prudente educazione alla libertà e ricordato come il giovane maturi aderendo liberamente a dei valori (e non limitandosi ad accettare delle imposizioni) dobbiamo

affermare categoricamente che le comunità educative delle nostre scuole devono sapere e devono potere presentare degli autentici valori cristiani.Qui non è possibile barare. Qui non si può giocare a rimpiattino.Siamo di fronte ad un aut-aut: o le nostre scuole si prefiggono questo impegno oppure non hanno motivo di esistere. La massiccia richiesta - che soprattutto ... oggi! ... si registra – di una scuola “statale” (nei contenuti e nei metodi) nelle scuole ... “non statali” dei nostri istituti, ci colloca dalla parte delle vittime e degli strumentalizzati, non dei beneficiari o dei favoriti!A quanti chiedono il servizio della nostra scuola dobbiamo apertamente e chiaramente dichiarare che la promozione cristiana è la dimensione fondamentale della nostra attività e della nostra missione, perché come educatori cristiani siamo tutti e in ogni occasione educatori della fede.Questo servizio, più urgente in un mondo pluralistico, richiede da noi zelo ardente ed inventivo, e dalle nostre comunità capacità di annuncio e forza di testimonianza.Dobbiamo essere in grado di aiutare i giovani a maturare la propria responsabilità cristiana con una vita quotidiana progressivamente ispirata e unificata al Vangelo, sapendo che educare alla fede è anzitutto condurre alla persona di Gesù Cristo, il Signore risorto, affinché in Lui e nel suo Vangelo, i giovani scoprano il senso supremo della loro esistenza e crescano “uomini nuovi”.Dobbiamo essere in grado anche di animare e promuovere gruppi e movimenti di formazione e di azione sociale e apostolica, in cui i giovani imparino a dare il loro apporto insostituibile alla crescita della Chiesa e alla trasformazione cristiana del mondo.

Ecco perché – per limitarmi all’impegno di trasformare i nostri istituti in comunità sociale e civile e che collaborino con quanti costruiscono una società più degna dell’uomo – io diffiderò sempre di quelle scuole che si dicono cattoliche e che poi non proclamano esplicitamente – notate: proclamare non vuol ancora dire riuscire a realizzare ... – che la finalità delle nostre comunità educative è quella formulata dal Sinodo dei Vescovi nel documento “La giustizia nel mondo”:- la scuola eviti di favorire “un gretto individualismo”;- si liberi dal condizionamento “dell’ordine stabilito, per non formare l’uomo unicamente come l’ordine stesso lo vuole”;- susciti “la facoltà critica che porti a riflettere intorno alla società, nella quale viviamo, ai suoi valori, preparando ad abbandonare quegli stessi valori quando cessano di essere utili a tutti”;- aiuti “a non rimanere oggetto di manipolazione né ad opera dei mezzi di comunicazione sociale, né ad opera delle forze politiche”-

A questo punto può nascere un equivoco.Qualcuno potrebbe pensare che “chiarezza di proposta cristiana” sia sinonimo o richieda una abbondanza di .... “prediche”.E’ evidente che la proposta cristiana rimarrebbe una “predica” se la finalità educativa cristiana non ci coinvolgesse – proprio come impegno cristiano, come “condicio sine qua non” della nostra proposta cristiana fatta nella scuola – il miglioramento e la perfezione della professione: serietà scientifica, aggiornamento metodologico, apertura socio-politica, inventiva negli aggiornamenti dei programmi, sperimentazioni ponderate e scientificamente progettate .....L’equivoco può sorgere e rimanere perché la salvezza cristiana talvolta è presentata e vissuta come salvezza “idealistica” o “spiritualistica”, e non innanzitutto come una trasfigurazione e un perfezionamento, per mezzo della grazia, di tutto l’umano.E qui non possiamo che rimandare ai grandi capitoli della “Gaudium et spes” sui doveri che i cristiani – se vogliono sentirsi tali – devono assumere nei confronti dei problemi più urgenti del mondo contemporaneo:- la promozione del progresso della cultura;- la vita economico-sociale;- la vita della comunità politica;- la promozione della pace e la comunità dei popoli.Riporto solo una delle più meste constatazioni affermate nella “Gaudium et spes”: “Il distacco che si constata in molti tra la fede che professano e la loro vita quotidiana, va annoverato tra i più gravi errori del nostro tempo” (par. 45).

Ancora una osservazione: so bene che il condizionamento economico – sciaguratamente attualmente presente e assai consistente – offusca in partenza la limpidezza delle finalità delle nostre scuole, sospinte inesorabilmente verso un determinato ceto sociale ........ e non faccio un discorso “classista”, perché sono solito ripetere ai genitori e agli allievi frequentanti il nostro istituto: “Non mi rincresce affatto che voi, potendo pagare la retta, siate qui; mi rincresce invece per quelli che qui non sono perché la retta non la possono pagare ...Offuscante condizionamento economico – dicevo – ma ugualmente intatta convinzione che solo una chiara ed esplicita proposta educativa cristiana giustifica le nostre scuole ... “cristiane”! Se siamo convinti di questo “punto fermo”, affronteremo seriamente anche il problema economico per trovare una soluzione ... “cristiana”.

3 – La famiglia, fattore essenziale di educazione alla libertànelle comunità educative delle nostre scuole

Dovendo accennare al ruolo – di primaria importanza – che devono svolgere i genitori nella nostra scuola, il discorso mi è facilitato e abbreviato da quell’ottima relazione fatta su questo tema da P. Gaetano Bisol SJ dal titolo “Ruolo dei genitori nella scuola cattolica” nel Convegno Agesc “Per una scuola libera”, 1976. ( in “Educazione libertà e pluralismo”, ed. Agesc). Rileggetela, meditatela, attuatela.Solo tre parole per focalizzare quelle riflessioni al nostro tema specifico: “lealtà, coerenza, partecipazione”.

Lealta – Se l’educazione alla libertà si attua nella stima e nella presentazione di valori che possano venire assimilati dalla coscienza del giovane con una libera convivenza e adesione, bisogna che i genitori – in tutta lealtà – condividano e apprezzino la proposta educativa della scuola cristiana.Qui, la coscienza e la lealtà dei genitori, è determinante.La scuola, nella quasi totalità dei casi, non può disporre di un “metro” per misurare l’impegno e la coerenza di una autentica vita cristiana della famiglia. Parlo di “autentica vita cristiana”: non di quel cristianesimo burocratico, ufficiale, rituale, formale, di quell’abito festivo – cioè – che chiunque può indossare per gli opportunismi di famiglia e di società ...Se quando io faccio le iscrizioni lascio trasparire che sono particolarmente sensibile ai meno abbienti, tutti arrivano in Direzione con i fondelli sui pantaloni. Se mi mostro più sensibile al fattore “cristiano”, tutti vengono in Direzione con un pacchetto di raccomandazioni e di attestati di parroci, prelati, zie suore ....Lo ripeto: senza la lealtà dei genitori, non si cava (normalmente) un ragno dal buco!

Coerenza - Senza coerenza, ogni verità perde di autorevolezza. E nell’educazione conta l’autorevolezza, non l’autorità. Si insegna non ciò che si predica, ma ciò che si è: quello che siamo, può gridare talmente forte da non lasciare udire ciò che diciamo (“Cuius via despicitur, restatut eius predicatio contemnatur”, S. Gregorio Magno).Come può un ragazzo credere all’attenzione e alla stima dei valori proposti dalla scuola cristiana, scelta proprio per quei valori dai genitori, quando i discorsi “feriali” di costoro – quelli cioè fatti a tavola mentre si mangia (non parlo dei discorsi “festivi”, fatti nel colloquio per l’accettazione e negli interventi nelle assemblee) – vertono quasi esclusivamente sull’avanzamento della carriera o sull’aumento dello stipendio, sul come passare le ferie ai mari o ai monti, sulla chitarra o sull’apparecchio stereofonico, sugli sci o sulle moto, sul divertimento e la moda o sulle roulottes, sul “tu, non ti impicciare degli altri” o sul “tu, va per la tua strada”, sulla graduatoria dei voti scolastici o su un primato non raggiunto? ...C’è spazio, in mezzo a questa giungla di interessi e di preoccupazioni, per una visione e per una valutazione cristiana della vita quotidiana, quella appunto dei “giorno feriali” che, unica, lascia trasparire la coerenza e che dona l’autorevolezza educativa? ...C’è spazio per convincersi che nell’accedere ad una scuola cristiana non è prevalso, nei genitori, la fuga da una scuola (statale) in disagio, ma la scelta convinta di uno specifico ambiente educativo? ...

Partecipazione – Ora che si sta finalmente prendendo coscienza come il problema educativo della scuola non è solo affare dello Stato e degli insegnanti, ma è in primo luogo competenza e responsabilità della famiglia, i genitori devono ritenere la partecipazione alla gestione sociale della scuola come un preciso diritto-dovere.Anche a questo riguardo va ripetuto quanto scritto da Papa Giovanni XXIII: “Chi rivendica i diritti senza assumere i doveri, rischia di costruire con una mano e di demolire con l’altra” (Pacem in terris).Cosicché nell’accedere ad una scuola cattolica, non si deve cercare una scuola “a tempo pieno”, cui corrisponda una famiglia “a tempo vuoto”, cioè una famiglia che si disinteressa dell’educazione dei figli, demandandola totalmente e ciecamente alla scuola stessa, sia pure con il pretesto della “piena fiducia” verso gli educatori scelti. (Il discorso della “supplenza” da svolgere per chi la famiglia non ce l’ha – fisicamente e moralmente – appartiene a un altro capitolo, diverso da quello in cui ci troviamo).Anche nelle nostre scuole la presenza e l’attivismo dei genitori si impone, per varie esigenze:- per individuare e focalizzare i problemi più vivi (quelli di oggi) e più importanti (per i giovani di oggi);- per arricchire e sintonizzare la ricerca delle risposte (bisogna pur ... tirare in porta e non limitarsi a giocherellare accademicamente a metà campo!) e del metodo delle risposte (chi è più adatto a rispondere?);- per impostare concretamente una comune mentalità cristiana, evitando una vita a “compartimenti stagni” che si ignorano reciprocamente o si contraddicono (famiglia, scuola, lavoro, divertimento, ...);- per poter poi essere presenti nella società, là dove si decidono le politiche educative;- per dare “forza d’urto” ad innovazioni didattiche e contenutistiche, a giuste rivendicazioni politico-governative per la tutela e l’attualizzazione del diritto alla “libertà della scuola” ...Indubbiamente le prospettive, in questo lavoro di partecipazione, sono largamente cosparse di non piccole difficoltà. Sono cose che ... costano! E costano soprattutto tempo, altruismo (uguale: carità) e volontà di verifica delle nostre convinzioni.

4 – La crescita nella libertà e nella fededel giovane nelle nostre scuole

Perché il fin qui detto è finalizzato alla crescita nella libertà e nella fede dei giovani che frequentano le nostre scuole. E’ il problema più delicato. Anche qui, qualche spunto.

In apertura ricordavamo che noi, educatori cristiani,”incontriamo i giovani al punto in cui si trova la loro libertà e la loro fede”.Il fine del nostro lavoro educativo è quello di liberare progressivamente la libertà del giovane e di impegnarla su strade autentiche per l’apertura agli altri e a Dio. Il mezzo è quello di fare in modo che il giovane stesso sia l’agente progressivamente responsabile di questa liberazione orientata.Noi professiamo dunque il rifiuto di tutto ciò che si oppone alla assunzione di questo impegno personale, il rifiuto dei mezzi coercitivi esterno o psicologici, quali la forza, la minaccia, la manipolazione dello spirito o del sentimento; e ci appelliamo a tutte le forze e le risorse spirituali più “profonde” e più “vive”, cioè più personali: la ragione, l’affetto, la fede, nella certezza che il giovane è aperto alla verità, all’incontro con gli altri, all’incontro con Dio.

Un tale principio esige in permanenza due comportamenti che sembrano contrari, ma che in realtà sono complementari: il non-intervento paziente e l’intervento attivo.Tali comportamenti si basano sul fatto che il giovane è un essere storico, in crescita dinamica: le sue risorse spirituali sono reali, ma secondo gradi estremamente vari: non dobbiamo forzare il passo, e tuttavia dobbiamo stimolarlo di continuo.Il primo atteggiamento quindi è fatto di stima e di attesa discreta, precisamente per allontanare le costrizioni e le precipitazioni. Il secondo atteggiamento è fatto di vigilanza e di interventi incessanti ma opportuni.

Il metodo cristiano dell’educazione alla libertà evita così i due eccessi dell’intervento intempestivo, che priva il giovane della propria libertà, e del non-intervento che lascia divagare questa libertà o la lascia tranquillamente rimanere sottosviluppata. Aiutato come conviene, il giovane può liberarsi da ogni servitù, quella della debolezza, della meccanicità, del male che sente in sé e che incontra nella perversione e nella ingiustizia del mondo.L’educazione, in particolare l’educazione cristiana, è nel suo metodo e nei suoi fini, un’opera di liberazione.

Tutte queste convinzioni mi portano ad intavolare con l’allievo educativamente assente od ostile all’impegno di crescita umana e cristiana, questo concreto discorso:* Noi non vogliamo fare dei martiri, ma nemmeno vogliamo essere presi in giro;* Non vogliamo fare dei martiri: se ti accorgi che, rimanendo nel nostro ambiente, tu devi andare contro coscienza, ti scongiuro di lasciare il nostro ambiente; saresti avviato alla ipocrisia, che è la fine di ogni crescita umana; in te non deve prevalere lo scolaro sull’uomo; scegliti un ambiente conforme alla tua coscienza; ci separiamo da amici; e per attuare la tua nuova scelta io sarò il tuo feroce alleato contro i tuoi genitori qualora volessero costringerti a rimanere ....* Non vogliamo essere presi in giro: se rimani, devi lealmente accettare di metterti in discussione; anche qui da noi hai il diritto di essere in crisi, senza che noi ti limitiamo il tempo di questa crisi, solo ti chiedo di non metterti addosso l’impermeabile per rifiutare in modo preconcetto qualunque stimolo e qualunque verifica, pago di trovarti comodo nel badare agli studi. La tua crisi è una cosa molto seria, né parlerai perciò con chi ritieni ti possa aiutare, ma non ne farai il punto di partenza o il pretesto per andare – personalmente o in gruppo – contro l’esplicita proposta educativa della nostra scuola, da te e dai tuoi genitori liberamente e coscientemente scelta. Se la tua crisi fosse provocata da colpevoli o comunque gravi disattese o deficienze della nostra comunità, abbi la bontà di indicarmele e vediamo assieme quel che si può fare ....Un simile discorso deve essere fatto, anteponendo a qualunque altra preoccupazione di prestigio, di numero o – peggio ancora – di economia.

Solo conservando la nostra identità “cristiana” acquisteremo il giusto prestigio e potremo sperare di trovare energie e metodi che ci consentano di non lasciarci soffocare dai pesanti condizionamenti che offuscano la limpidezza della missione educativa cristiana delle nostre scuole.

* Relazione al convegno Agesc dal titolo ”Per una scuola libera”

EDUCARE AL SENSO DEL LAVOROdi Luigi Feré

Il lavoro è per l’uomo: questo è il principio fondamentale della visione personalistica del lavoro umano. L’uomo non va visto, come nella cultura illuministica prevalentemente come individuo, ma nella sua dimensione sociale: “Non è bene che l’uomo sia solo”. Fin dalla creazione l’uomo è visto come essere sociale, nel suo rapporto con la donna e nell’esperienza della famiglia e della società. La persona esiste solo nel rapporto con la comunità. La definizione “Il lavoro è per l’uomo” acquista allora un nuovo significato in rapporto alla famiglia e alla nazione.

E’ del tutto evidente che la famiglia non potrebbe sussistere senza il sostentamento, che le viene principalmente grazie al lavoro dell’uomo. In questa visione rimane ancora lontano dalla regolamentazione del lavoro e dalle norme dell’economia la prospettiva del salario familiare, legato a questa visione duplice del lavoro della persona: personalistica e comunitaria.

Un secondo aspetto del rapporto lavoro-famiglia è quello educativo: la famiglia, con il richiamo alla laboriosità, è la prima scuola del lavoro. Infatti, la famiglia è, al tempo stesso, una comunità resa possibile dal lavoro e la prima interna scuola di lavoro per l’uomo. Ognuno diventa “persona” anche mediante il lavoro, e l’educazione integrale della persona, che tende alla formazione personale e culturale dell’uomo, è il fine ultimo di ogni itinerario educativo. Anche la famiglia non può essere concepita come un’isola, ma appartiene alla grande trama di rapporti tra persone e tra gruppi sociali, che costituiscono la società.

L’aspetto soggettivo del lavoro mostra significati profondi, che riguardano la concezione della persona, delle sue relazioni comunitarie e sociali, fino alla dimensione religiosa. Ne consegue un modo originale di guardare all’esperienza del lavoro: esso implica una diversa posizione culturale, un significato della realtà e della vita reso “esperienza” in una verifica continua. Se il lavoro è per l’uomo, nella visione cristiana della vita, il soggetto del lavoro è chiamato ad approfondire il senso profondo di questa esperienza attraverso una riflessione culturale continua.

La cultura cristiana del lavoro chiede, inoltre, di essere comunicata alle nuove generazioni attraverso il paziente e delicato impegno degli educatori. La cultura viene trasmessa mediante l’educazione da parte della famiglia, da parte della scuola, nei luoghi del tempo libero, e attraverso i “media”. Il soggetto del lavoro, l’uomo, sarà capace di vivere la sua opera “per” l’uomo, senza diventare schiavo del suo lavoro, solo se verrà educato al senso profondo della vita in tutti i suoi aspetti.

E’ questo il compito in primo luogo della famiglia, la prima scuola di vita e anche la prima scuola di lavoro. Nella famiglia, infatti, i genitori sono chiamati a trasmettere la cultura, che costituisce la grande eredità della tradizione cristiana, non tanto in un discorso astratto, ma nella proposta concreta di un’esperienza valoriale. In particolare la famiglia può educare al senso della gratuità e della solidarietà. Sono questi, in effetti, i valori che sono alla base della virtù della laboriosità e della responsabilità verso se stessi e verso l’altro, chiunque esso sia.

A volte la mancanza del senso al dovere, l’incapacità a mantenere e a portare a termine i compiti assegnati, la povertà d’interesse e di motivazione personale, l’assenza di capacità creativa, l’astrazione del rapporto con la realtà, hanno radici lontane, forse riconducibili al tempo dell’infanzia o della prima adolescenza e sono difficilmente recuperabili nelle età successive.

Con la famiglia, la scuola ha certamente un ruolo decisivo nella formazione del soggetto del lavoro. Essa “educa” attraverso la trasmissione della cultura nell’insegnamento delle diverse discipline nei vari gradi e livelli del percorso scolastico. La scuola contribuisce all’educazione al “senso del lavoro” sia attraverso il continuo paragone con l’ipotesi di un significato globale della realtà e della vita con i suoi diversi aspetti, sia proponendo un’esperienza diretta di lavoro nella fatica quotidiana dello studio e dell’apprendimento.

Il senso del compito da svolgere in modo personale, le consegne da rispettare nei tempi e secondo le indicazioni offerte, la capacità di rapportarsi con gli educatori – diversi per posizione culturale, metodo d’insegnamento, temperamento e carattere – sono certamente elementi che caratterizzeranno anche dopo la scuola l’esperienza lavorativa. Nella classe e nella scuola si lavora non da soli ma in equipe: questo aspetto diventa sempre più importante nel mondo del lavoro attuale. Purtroppo, spesso, si deve notare proprio la mancanza di questa capacità relazionale, perché essa non è stata acquisita nell’età giovanile.

Questi indicati sono solo alcuni accenni essenziali che competono all’educazione familiare e scolastica per la formazione di un soggetto, così che sia in grado di entrare nel mondo del lavoro in modo responsabile, solidale e creativo. Bastano però per comprendere come il nesso tra famiglia, scuola e impresa non sia da considerarsi esterno o solo tangente per qualche aspetto. Si dice, ormai frequentemente, che la principale risorsa dell’impresa è il “capitale umano”. Non sempre però si tiene presente che il “capitale umano” non arriva automaticamente nel mondo del lavoro, ma, per essere qualitativamente significativo, esso ha bisogno della lunga e paziente gestazione di tanti educatori, che intervengono a diverso titolo sul soggetto nel suo corso formativo.

Si dovrebbe, quindi, instaurare tra scuola e impresa un rapporto profondo e di reciproca collaborazione su diversi fronti. Ne elenchiamo qualcuno:

* è sicuramente valida per gli studenti qualche esperienza di “stage” nel mondo del lavoro, che necessita di accoglienza, accompagnamento, verifica e validazione ai fini del processo educativo in atto;* è significativa, senza dubbio, la testimonianza, nell’iter scolastico, di alcune figure o funzioni del mondo delle imprese per introdurre i giovani alla problematica e ai valori umani dell’esperienza lavorativa;* va considerata, inoltre, la necessità di realizzare qualche progetto innovativo nell’esperienza scolastica attraverso l’offerta di mezzi e strumenti di cui la scuola difficilmente potrebbe disporre;l’impresa, infine, potrebbe farsi carico per la sua intrinseca finalità sociale di offrire qualche risorsa per l’innovazione della strumentazione scolastica, soprattutto per alcuni indirizzi della scuola superiore, più direttamente legati al mondo del lavoro.

Sono solo alcuni esempi di una possibile collaborazione, che, in altri paesi, ha già uno sviluppo notevole, mentre da noi stenta ancora a decollare. Il lavoro sarà “per l’uomo” se sapremo educare uomini capaci di lavorare per realizzare se stessi e il bene comune, nella collaborazione con l’atto creativo e la scelta di redenzione dell’uomo donata da Cristo.

* Intervento all’Istituto “G.B. Montini” di Milano

EDUCAZIONE CRISTIANA IN UN CENTRO DI FORMAZIONE PROFESSIONALE

di Ennio Ronchi

Abilitare giovani adolescenti a un esercizio maturo della loro professione significa certamente aiutarli a crescere in tutte le dimensioni della loro persona, attrezzarli di una buona capacità tecnico-professionale, ma anche restituire ad essi la capacità di collocarli in una realtà complessa come quella del mondo del lavoro in modo tale che siano sempre più protagonisti

liberi e responsabili. Allora non è secondario che si aiutino a riscoprire il senso del lavoro, visto non solo come occasione di produrre beni, ma soprattutto di produrre vita per sé e per gli altri.In questa linea si pongono molte sollecitazioni educative emerse da ricerche e studi. Insieme con l’istanza di elaborare un progetto attento all’esperienza del lavoro, sottolineano esigenze ancora più concrete. Innanzitutto occorre educare il giovane lavoratore a ricuperare la sua dimensione di con-creatore e signore del creato, collaboratore con Dio nel portare a compimento il progetto originale sull’intera realtà. Poi impegnare i giovani ad assumersi gradualmente le loro responsabilità nel mondo del lavoro e a farsi carico concretamente delle condizioni umane dell’ambiente in cui operano e vivono. Infine invitarli a vivere alcuni momenti comunitari per approfondire le risposte alla realtà sociale circostante.

Se il lavoro deve essere vissuto come “scuola di umanità”, allora i valori da tener presenti come orizzonte dell’attività educativa e come mete di un progetto che ponga al suo centro la dignità dell’uomo e le sue più profonde aspirazioni, sono:

a) la gratuità per non indurre tutto ad uno scambio utilitaristico ed al massimo profitto;b) la solidarietà perché le risposte ai bisogni dell’uomo non si riconducano unicamente

all’ambito produttivo ed economico;c) la creatività per essere capaci di progettare il proprio futuro e realizzarlo in modo non

deterministico sotto la progressiva e invadente spinta tecnologica.

L’insegnamento cattolico, proprio per la sua corretta articolazione tra fede e vita che lo percorre, offre suggerimenti e materiale per un itinerario di maturazione cristiana che ben si colloca nel contesto del quadro generale sopra tracciato.Le linee che qui vengono indicate vogliono essere più sul versante metodologico che contenutistico, pur non mancando suggerimenti in proposito, lasciando agli operatori di adattarle alle singole situazioni concrete.Si tratta di una proposta parziale: dal punto di vista dell’educazione della fede non ne percorre tutto il cammino, ma ne privilegia una parte; dal punto di vista dell’adolescente tiene presenti solo quelle attese che più immediatamente si incontrano con la specifica proposta educativa del CFP – scuola professionale – lasciando, ma non perché meno importanti, gli altri bisogni e le altre attese che l’adolescenza porta con sé.Ciò che interessa sottolineare è che questa proposta vuole entrare armonicamente in stretta collaborazione e integrazione con tutte le altre dimensioni, umane e tecnico-professionali della proposta formativa, nella convinzione che tra progetto di vita cristiana e tutto ciò che nasce e si esprime nella realtà lavorativa a cui l’adolescente viene preparato non vi è frattura, ma continuità e compenetrazione. Ciò non ci impedisce di tener presente che il destinatario è un adolescente (14/17 anni) e che quindi il suo modo di rapportarsi alla vita, alla società, al mondo del lavoro è segnato anche dai suoi anni.

Gli adolescenti che accedono a questo tipo di educazione-formazione, spesso, sono religiosamente lontani, o se hanno fatto esperienza di Chiesa e di sacramenti, in molti permangono perplessità e resistenze ad una adesione globale come risposta ultima e definitiva ai problemi dell’uomo. Molti adolescenti, inoltre, provengono da famiglie nucleari di un’area urbana a forte industrializzazione, nelle quali è sentita l’esigenza di offrire ai figli un lavoro sicuro, magari nell’alveo già tracciato dalle loro scelte occupazionali, con il rischio di non educare ad una scelta autonoma e responsabile.Sono tutti, tuttavia, adolescenti che sentono, con livelli diversi di coinvolgimento, il bisogno di intervenire nell’ambiente per rinnovarlo: udire e vedere il mondo degli uomini, dei fatti, delle cose, suscita in loro reazioni emotive, scelte, decisioni; così la vita cresce o è mortificata attraverso questa ragnatela sottile ma resistente, di legami che intrecciano ogni giorno con gli altri. Ma la necessità li spinge, comunque, a trasformare il mondo, perché diventi sempre più la casa accogliente dell’umanità, per far crescere la vita.

Spesso però si scontrano con la realtà contraddittoria e con difficoltà, dentro e fuori di loro, che li spinge a chiudersi in se stessi. Forse è pure la tensione che vivono verso il futuro, ma troppe cose cospirano insieme per tarpare le ali al sogno di una vita piena e realizzata. Bastano

le prime delusioni, l’insicurezza nelle proprie capacità, per far precipitare nel pessimismo o in un penoso vivere alla giornata.Possiedono inoltre una sempre maggiore capacità di vedere da soli ciò che è giusto e ciò che non lo é. Si sentono maggiormente provocati a fare le loro scelte, con le relative rinunce che queste comportano. Ma con quali criteri e con quanta stabilità? I grandi centri di potere, diffusori di idee, di propagande, di mode e di consumi, cercano di influenzare e di orientare le loro informazioni e i loro giudizi, i loro gusti e i loro bisogni, i loro comportamenti e i comportamenti di vita di tutti i giorni.

L’obiettivo globale – alla luce di quanto evidenziato – resta quello di abilitare l’adolescente a uno stile di vita, che facendo esplicitamente riferimento all’esperienza cristiana, sia aperto alla dimensione religiosa e alla responsabilità verso gli altri, assumendo graduali impegni di servizio nel territorio e nell’ambiente.Da qui l’articolarsi di un possibile, seppur necessario, progetto educativo cristiano che qualifica la cattolicità del “centro”, o meglio, della “scuola” di formazione professionale.

*** L’adolescente, di per sé, è già sulla strada, nelle piazze, negli ambienti di vita: come starci in modo nuovo, con la consapevolezza che sulle strade del mondo si è per interagire, per annunciare, comunicare, sussurrare e gridare a tutti la gioia e la speranza di una vita nuova? L’adolescente – indipendentemente dal suo essere religioso o meno – è comunque coinvolto nel sentire e nell’operare socialmente, ed è, anche se inconsapevolmente, chiamato ad una corresponsabilità. All’adolescente – così come a tutti gli uomini - viene chiesta una presenza e una partecipazione alla edificazione della comunità cristiana e civile. E la dimensione cristiana del credere e dell’agire, rende l’adolescente capace di produrre vita dove c’è morte, suscitare speranza dove c’è delusione, costruire pace dove c’è odio, condivisione dove c’è sfruttamento. Per portare frutto occorre prestare attenzione ai doni ricevuti, alle situazioni che interpellano e chiedono solidarietà, alle proposte e alle testimonianze di servizio e di promozione umana che sono già presenti. Vivere tutto ciò, tuttavia, richiede un orientamento e una collocazione in un preciso stato di vita.

*** L’adolescente deve essere aiutato a valutare e fare proprio un cammino di crescita: che comporta una grande passione per la vita, una vita da spendere nella logica dell’amore, un vivo senso della corresponsabilità sociale, una libertà ed una disposizione al servizio, un impegno sostenuto dalla speranza; che lo sollecita ad individuare, cioè prendere contatto direttamente, intervenire nei confronti di persone discriminate a causa della salute, di anziani, di ragazzi lasciati a se stessi, di handicappati, di iniziative varie in grado di migliorare la convivenza sociale; che induce a intervenire nei confronti di situazioni di povertà e di sfruttamento e di discriminazioni nel mondo del lavoro, di attenzione al lavoro minorile e alle situazioni ambientali di natura culturale ed esistenziale; che richiama a prendere coscienza e documentare le vecchie e nuove schiavitù, personali e collettive, con attenzione alle situazioni del territorio, dei propri ambienti di vita del mondo produttivo, dell’articolarsi della politica. ……

Nell’attuazione di questo percorso, non sembra superfluo richiamare che occorre in ogni momento aver sempre chiara la meta educativa, l’obiettivo generale, principio ispiratore e coordinatore di tutte le attività (riflessione, esperienza, celebrazione, …). Da qui l’articolarsi delle singole tappe dell’itinerario formativo.*** All’adolescente vanno prospettati obiettivi specifici: scoprire e valorizzare i doni che ognuno ha ricevuto; impegnarsi a sviluppare con lo studio, con una ricerca creativa, gli strumenti che permetteranno la collaborazione nella costruzione di un mondo più giusto; dare il giusto valore alle cose, senza sperperare, danneggiare, distruggere; orientare il proprio vivere quotidiano verso uno stile di austerità; individuare le situazioni in cui spendersi per il trionfo della giustizia.

Con gli adolescenti occorre passare dalle domande-attese più immediate alle domande di senso. Occorre perciò togliere gli adolescenti dalla loro presunta sicurezza, destabilizzare la loro tranquillità. Questo diventa possibile allargando con loro le situazioni servendosi di mezzi

diversi: lavori di ricerca, documentazioni, diapositive, incontri, inchieste, testimonianze di credenti e non, … Le situazioni da allargare sono le considerazioni circa: la vita umana ci immerge profondamente nel mondo delle cose; tutti ci troviamo a costruire il nostro progetto di vita sotto il peso condizionante di modelli, strutture, …, però a ciascuno sono riservati spazi di decisione; il lavoro rischia così di essere sempre meno luogo della creatività umana e strumento di realizzazione di sé; costruire un progetto di vita in cui le cose servano alla crescita della persona e permettano una vita soddisfacente per tutti.

In quest’ottica, la proposta cristiana: va rivisitata sotto questa angolatura la persona di Cristo “uomo giusto” con l’approfondimento dei brani evangelici, delineando tratti significativi della sua persona. Va accostato e approfondito l’insegnamento della Chiesa sulla questione sociale attraverso la lettura e lo studio dei documenti del Magistero, e avvalorando ciò con la testimonianza di uomini credenti.

*** Da qui gli atteggiamenti da educare: prendere coscienza della propria dignità di uomini di fronte alle cose del mondo; lasciarsi coinvolgere totalmente dall’ansia di realizzare il bene comune; imparare a vivere la povertà come impegno per realizzare la giustizia, e ciò partendo dalla coscienza che i beni della terra sono destinati a tutti gli uomini e che tutti debbono ugualmente goderne; maturare una capacità di condivisione vera con chi soffre e con chi è emarginato; sentirsi responsabili nella Chiesa chiamata a divenire sempre più missionaria nel mondo.

*** Da qui anche esperienze da proporre: organizzare confronti aperti sulla presenza o meno della giustizia; partecipare a un consiglio comunale o a una riunione di quartiere, dove all’ordine del giorno è posto un problema economico e sociale; studiare la storia, la geografia politica, per vedere come gli uomini hanno cercato di realizzare la giustizia, e per vedere che cosa si può fare oggi; mettere in comune le proprie conoscenze ed esperienze di lavoro per individuare situazioni di ingiustizia, modi di affrontarle, esempi di solidarietà, …; promuovere dibattiti con altre forze presenti sul territorio con a tema la giustizia, dopo aver fatto una inchiesta sulla situazione di povertà e di disagio esistenti, …; collaborare ad animare situazioni di emarginazione presenti sul territorio.

Inutile dire che si tratta di “progetto educativo” il cui cammino va articolato e valorizzato secondo le reali necessità e le concrete situazioni. Così come è estremamente utile fare insieme agli adolescenti e alle loro famiglie – durante il percorso educativo-formativo e alla fine dello stesso – una verifica per chiedersi quali obiettivi si sono realizzati, che cosa di positivo è stato messo in atto permettendo il loto raggiungimento, quali ostacoli ne hanno frenato e/o impedito la piena realizzazione.Le valutazioni e le verifiche intermedie offrono la possibilità di introdurre quelle variabili che permettono di proseguire il cammino con maggiore efficacia ed aderenza alle situazioni, nella convinzione che non tutto ciò che si è scritto o che si è programmato è sulla giusta misura dei diversi gruppi di adolescenti con cui si opera e che per di più vivono una stagione di continui cambiamenti.

* Intervento tratto da Presenza Educativa

ALLARGARE LA RAGIONEPer un nuovo dialogo tra ragione, fede e cultura

nell’educazione e nella scuola cattolicadi Carlo M. Fedeli

“Educare […] non è mai stato facile, e oggi sembra diventare sempre più difficile. Lo sanno bene i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti e tutti coloro che hanno dirette responsabilità educative. Si parla perciò di una grande ‘emergenza educativa’, confermata dagli insuccessi a cui troppo spesso vanno incontro i nostri sforzi per formare persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un senso alla propria vita.

Viene spontaneo, allora, incolpare le nuove generazioni, come se i bambini che nascono oggi fossero diversi da quelli che nascevano nel passato. Si parla inoltre di una ‘frattura fra le generazioni’, che certamente esiste e pesa, ma che è l’effetto, piuttosto che la causa, della mancata trasmissione di certezze e di valori.

Dobbiamo dunque dare la colpa agli adulti di oggi, che non sarebbero più capaci di educare ? È forte certamente, sia tra i genitori che tra gli insegnanti e in genere tra gli educatori, la tentazione di rinunciare, e ancor prima il rischio di non comprendere nemmeno quale sia il loro ruolo, o meglio la missione ad essi affidata. In realtà, sono in questione non soltanto le responsabilità personali degli adulti o dei giovani, che pur esistono e non devono essere nascoste, ma anche un’atmosfera diffusa, una mentalità e una forma di cultura che portano a dubitare del valore della persona umana, del significato stesso della verità e del bene, in ultima analisi della bontà della vita. Diventa difficile, allora, trasmettere da una generazione all’altra qualcosa di valido e certo”1.

Avrete senz’altro riconosciuto questa citazione. Il passo iniziale della Lettera alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione non solo conduce subito al cuore della questione – al punto dove confluiscono e si condensano, spesso con forte tensione, i processi descritti nell’introduzione da don Malizia – ma spalanca anche una finestra sulla sensibilità e sull’intelligenza delle cose che muovono Benedetto XVI, ogni volta che affronta il tema dell’educazione alla ricerca di una “speranza affidabile” anche per le sue sfide.

In che termini il Papa riassume i contorni della “emergenza educativa”, venuta a galla in questi ultimi anni ? In che direzione guarda, cercandone le ragioni ?

Anzitutto egli nota la difficoltà intrinseca dell’educare, oggi sempre più avvertita, e spesso amplificata dai ricorrenti insuccessi degli educatori. Poi si domanda se il motivo di tale difficoltà può essere ravvisato in una qualche caratteristica distintiva dell’una o dell’altra generazione (la diversità dei bambini, l‘incapacità degli adulti), che giustifichi l’attribuzione della colpa del fallimento agli uni o agli altri. Infine – dopo aver formulato un’osservazione molto acuta sul venir meno, nella generazione adulta, della consapevolezza di sé e del proprio compito – osserva che alle responsabilità personali si assomma, come concausa altrettanto, se non più rilevante, una mentalità diffusa e pervasiva, perplessa e dubbiosa, in ultima analisi, della bontà della vita: “alla radice della crisi dell’educazione c’è [...] una crisi di fiducia nella vita”.

Che movenza di sensibilità e di pensiero emerge da questo modo di accostarsi all’emergenza educativa (attenzione: un’emergenza già diventata, al momento in cui Benedetto scrive la Lettera, in qualche modo un “luogo comune” nelle cronache dei giornali, nei talk show televisivi, nelle analisi degli studiosi) ? Potremmo dire: un’attenzione ai dati, alla realtà, che cerca di cogliere ed esaminare i problemi senza accontentarsi di risposte “parziali” (dalle più facili e immediate, come la rassegnazione un po’ fatalista o la ricerca dei colpevoli, alle più elaborate, come la diagnosi della “frattura tra le generazioni”), ma puntando a una visione il più possibile “totale” e “comprensiva” di quegli stessi problemi.

1 Benedetto XVI, Lettera alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione, Dal Vaticano, 21.I.2008.

Potremmo quasi fermarci qui, perché abbiamo già visto all’opera, in una prima declinazione – in actu exercito: nell’atteggiamento e nella disposizione mentale con cui il Papa affronta la questione - la sollecitazione ad “allargare la ragione”. Ma non sarà male proseguire, per attingere una comprensione più analitica e approfondita. Lo faremo appoggiandoci, per brevità, solo ad alcuni interventi particolarmente significativi di Benedetto – senza la pretesa di esaurire l’argomento, ma piuttosto come invito, per tutti, a rileggere il suo magistero e a paragonarsi con esso.

1. “Il coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza”

L’invito a “un allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa”2

costituisce l’intenzione e la tesi di fondo della lezione che il Papa, non senza emozione, tiene il 12 settembre 2006 nell’Aula Magna dell’Università di Ratisbona. In apertura, rievocando gli inizi della carriera accademica, egli parla della ricorrenza in ogni semestre del dies academicus, e della possibilità, in esso, di fare “esperienza viva” della universitas – cioè “del fatto che noi, nonostante tutte le specializzazioni, che a volte ci rendono incapaci di comunicare tra di noi, formiamo un tutto e lavoriamo nel tutto dell’unica ragione con le sue varie dimensioni, stando così insieme anche nella comune responsabilità per il retto uso della ragione”. Nella parte centrale e finale della lezione Benedetto tratteggia poi il contesto culturale e religioso, in relazione al quale acquista significato la sua argomentazione.

Il contesto culturale è quello in cui ha preso forma la concezione moderna della ragione. Tale concezione nasce dalla sintesi tra il platonismo che fa da sottofondo alla filosofia cartesiana e l’empirismo che si afferma coi primi successi della scienza e della tecnica. Il platonismo porta con sé la presupposizione della “struttura matematica della materia”, cioè della sua “razionalità intrinseca”, che rende possibile conoscere le sue leggi e padroneggiarle operativamente. L’istanza empiristica si manifesta invece nella “utilizzazione funzionale della natura” per gli scopi che l’uomo di volta in volta si prefigge: essa trova nel momento dell’esperimento il suo unico e risolutivo banco di prova.

Dalla combinazione di questi fattori discendono due “orientamenti fondamentali” di pensiero, che incidono profondamente sul rapporto tra ragione e fede, fino ad allora conservato in apertura e tensione reciproca dalla filosofia e dalla teologia - e quindi anche sulla cultura come sistema complessivo di mentalità.

Il primo è la concezione della “scientificità” nei termini stretti ed esclusivi di “sinergia” fra “matematica” ed “empiria”: sinergia che diventa il canone di verità cui ogni forma di sapere (anche quello che riguarda più da vicino “le cose umane”, come “la storia, la psicologia, la sociologia e la filosofia”) deve conformarsi. Essa comporta, come corollario, la metodica esclusione del problema di Dio dal campo del sapere, in quanto problema “ascientifico o prescientifico” – cioè, in quanto problema irrimediabilmente destinato a non poter trovare soluzione sul piano conoscitivo.

Il secondo orientamento culturale è la conseguente “riduzione” di principio “del raggio [conoscitivo] di scienza e ragione”, da cui discende una riduzione, antropologica ed etico-politica, altrettanto critica. Dopo aver escluso tanto la religione, quanto qualsiasi ethos o tradizione di civiltà dal campo del sapere “scientificamente” giustificabile; e dopo aver conseguentemente confinato nell’ambito della pura soggettività gli interrogativi “propriamente umani” circa l’origine e il senso dell’esistenza, all’individuo moderno non resta altra possibilità che fondare la concezione di sé, della convivenza sociale e della religiosità sulla sola coscienza

2 Benedetto XVI, Fede, ragione e università. Ricordi e riflessioni, Aula Magna dell’Università di Regensburg, 12.IX.2006.

soggettiva. Così facendo, tuttavia, egli si espone al verificarsi di quelle “patologie minacciose della religione e della ragione”, che “necessariamente devono scoppiare, quando la ragione viene ridotta a tal punto che le questioni della religione e dell’ethos non la riguardano più”3.

In parallelo a questa “autolimitazione moderna della ragione” corre un secondo processo altrettanto problematico, concernente la sfera religiosa - più precisamente, cristiana. Si tratta dell’istanza di “deellenizzazione del cristianesimo”, che “dall’inizio dell’età moderna domina in modo crescente la ricerca teologica” e si ripropone in tre successive ondate. La prima intende rinunciare alla filosofia e alla metafisica (cioè, alla ragione “teoretica”), per ancorare la fede solo ed esclusivamente alla “ragion pratica” (cioè alla libertà, come puro potere di opzione). La seconda invita a rileggere e a reinterpretare la figura di Gesù come artefice e portatore “di un messaggio morale umanitario” - con l’obiettivo di liberare il cristianesimo da ogni elemento filosofico o teologico e di riportarlo “in armonia con la ragione moderna”. La terza, infine, considera la sintesi di ragione e fede compiuta nella Chiesa antica nulla più che “una prima inculturazione”, che dovrebbe non vincolare le culture diverse da quella europea e occidentale, ma anzi lasciar loro “il diritto di tornare indietro fino al punto che precedeva quella inculturazione”, per scoprire “il semplice messaggio del Nuovo Testamento” e inculturarlo poi di nuovo nei rispettivi ambienti.

Non possiamo, qui, seguire più in dettaglio l’analisi di Benedetto XVI. Dobbiamo ritornare all’assunto di fondo della lezione, secondo cui ragione e fede possono “ritrovarsi unite in un modo nuovo”, solo se si supera “la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento” (cioè se si supera la concezione positivista della ragione), e se si dischiude nuovamente alla ragione stessa “tutta la sua ampiezza”. Cominciando dalla sua recettività per il patrimonio di “grandi esperienze e convinzioni” (d’importanza non solo individuale, ma anche pubblica) di cui sono portatrici le varie tradizioni morali e religiose dell’umanità; facendo poi leva sui “presupposti stessi” della ragione moderna, che porta in sé (in virtù della sua ascendenza platonica e della “corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura”) “un interrogativo che la trascende”; e infine ricordando che la traiettoria di sviluppo del conoscere è veramente compiuta solo quando la ragione arriva ad articolarsi secondo tutte le sue dimensioni in quel “cosmo” di saperi, interiormente differenziato, ma al tempo stesso “coeso”, che è la cultura nel senso autentico della parola.

2. Una direttrice di fondo e un esempio di riscoperta dell’ampiezza della ragione

Prima di avvicinarmi al versante più immediatamente pedagogico della nostra riflessione, permettetemi di accennare a una direttrice di fondo del lavoro di riscoperta dell’ampiezza della ragione e di darne un esempio particolarmente luminoso.

La direttrice di fondo emerge come filo conduttore dall’Allocuzione che il Papa avrebbe dovuto pronunciare nella visita all’Università “La Sapienza” di Roma - poi annullata. Tale filo conduttore consiste nella verifica della ragionevolezza dell’invito rivolto a un Pontefice, di per sé pastore di una comunità diocesana e della Chiesa universale, a parlare in una università statale, contrassegnata – come ogni istituzione

3 Ivi: “Se la scienza nel suo insieme è soltanto questo, allora è l’uomo stesso che con ciò subisce una riduzione. Poiché allora gli interrogativi propriamente umani, cioè quelli del ‘da dove’ e del ‘verso dove’, gli interrogativi della religione e dell’ethos, non possono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta dalla ‘scienza’ intesa in questo modo e devono essere spostati nell’ambito del soggettivo. Il soggetto decide, in base alle sue esperienze, che cosa gli appare religiosamente sostenibile, e la ‘coscienza’ soggettiva diventa in definitiva l’unica istanza etica. In questo modo, però, l’ethos e la religione perdono la loro forza di creare una comunità e scadono nell’ambito della discrezionalità personale. È questa una condizione pericolosa per l’umanità: lo constatiamo nelle patologie minacciose della religione e della ragione – patologie che necessariamente devono scoppiare, quando la ragione viene ridotta a tal punto che le questioni della religione e dell’ethos non la riguardano più. Ciò che rimane dei tentativi di costruire un’etica partendo dalle regole dell’evoluzione o dalla psicologia e dalla sociologia, è semplicemente insufficiente”.

laica – dalla legittima autonomia delle realtà secolari. “Che cosa può e deve dire il Papa nell’incontro con l’università della sua città?”4, si domanda Benedetto XVI in apertura, con una mossa di pensiero che invita l’ascoltatore a diventare subito anch’egli “collaboratore” nella ricerca della risposta – e dunque, collaboratore della verità stessa, intesa come l’emergere chiaro e convincente di ragioni adeguate. Nel dialogo con le obiezioni di principio e di fatto al suo intervento, così come nei riferimenti a Socrate, ad Agostino e ad alcune tesi dei massimi esponenti della filosofia politica contemporanea, Rawls ed Habermas, Benedetto formula un’osservazione di valore capitale, quando nota che “la verità non è mai soltanto teorica”: essa “significa più che sapere”, poiché la conoscenza della verità è attraversata da un moto che, al tempo stesso, “ha come scopo la conoscenza del bene”. Egli sviluppa poi la correlazione fra teoria e prassi, evocata dal legame tra verità e bene, passando in rassegna l’impianto delle facoltà dell’università medievale, e mostrando quale fosse, per gli uomini di quell’epoca, lo spessore ontologico e antropologico del problema medico, di quello giuridico e di quello della conoscenza. Poi pone la domanda circa il presente, e individua il pericolo maggiore oggi incombente sul mondo occidentale nel rischio che “l’uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda di fronte alla questione della verità”. Ciò comporterebbe, per la ragione, un “inaridirsi”, un “frantumarsi”, un diventare “non […] più grande, ma più piccola”. Di qui la risposta all’interrogativo di partenza, che – se ci pensiamo bene – vale rispetto a ciò che un Papa ha da fare o da dire non soltanto in una università, ma più in generale nel mondo e nella società contemporanea: “Sicuramente [il Papa] non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà. Al di là del suo ministero di Pastore nella Chiesa e in base alla natura intrinseca di questo ministero pastorale è suo compito mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana, e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro”.

L’esempio proviene dalla Caritas in Veritate, e riguarda anzitutto, ma non solo, il fenomeno del conoscere. All’inizio del terzo capitolo Benedetto invita il lettore a riscoprire “la stupefacente esperienza del dono”, notando la presenza nella vita dell’uomo, in molteplici forme, del fenomeno della “gratuità”, spesso però non riconosciuto “a causa di una visione solo produttivistica e utilitaristica dell’esistenza”. Poi egli correla a tale fenomeno prima la speranza, poi la carità, quindi la verità, osservando come in tutti e tre i casi vi è una “precedenza” e una “eccedenza” della realtà, e dell’iniziativa di Dio, nei nostri confronti. E nota che, come “la verità di noi stessi, della nostra coscienza personale, ci è prima di tutto ‘data’”, così anche “in ogni processo conoscitivo […] la verità non è prodotta da noi, ma sempre trovata o, meglio, ricevuta”5. Più avanti, nell’ultimo capitolo, che verte sul rapporto tra lo sviluppo dei popoli e la tecnica (credo non ci sia bisogno di sottolineare quale influsso eserciti oggi la tecnica sulla razionalità e sulla cultura contemporanee), Benedetto torna sul fenomeno del conoscere, con una riflessione che merita d’essere citata, oltre che per la sua bellezza, anche per la gravità del pericolo da cui intende metterci in guardia: “L’assolutismo della tecnica tende a produrre un’incapacità di percepire ciò che non si spiega con la semplice materia. Eppure tutti gli uomini sperimentano i tanti aspetti immateriali e spirituali della loro vita. Conoscere non è un atto solo materiale, perché il conosciuto nasconde sempre qualcosa che va al di là del dato empirico. Ogni nostra

4 Benedetto XVI, Testo preparato per l’Allocuzione nel corso della visita all’Università degli Studi “La Sapienza” di Roma, prevista per il 17.I.2008 e poi annullata in data 15.I.2008.5 Benedetto XVI, Caritas in Veritate, n° 34.

conoscenza, anche la più semplice, è sempre un piccolo prodigio, perché non si spiega mai completamente con gli strumenti materiali che adoperiamo. In ogni verità c’è più di quanto noi stessi ci saremmo aspettati, nell’amore che riceviamo c’è sempre qualcosa che ci sorprende. Non dovremmo mai cessare di stupirci davanti a questi prodigi. In ogni conoscenza e in ogni atto d’amore l’anima dell’uomo sperimenta un ‘di più’ che assomiglia molto a un dono ricevuto, ad un’altezza a cui ci sentiamo elevati”6.

Mantenere desta la sensibilità dell’uomo per la verità; educarlo ad accostarsi e a percepire metodicamente il reale come un dato, meglio ancora come un dono che reca in sé l’impronta di una razionalità e di una intelligibilità trascendenti – la “calligrafia della Creazione”, dirà il Papa in un altro discorso; aver cura che, fin dal primo istante, il nostro rapporto con la realtà sia aperto a un “di più” rispetto a quanto è già stato registrato negli schemi teorici, pratici e operativi della nostra mente; risvegliare la consapevolezza che nel nucleo della ragione si trovano, intimamente intrecciate fra di loro, e pronte a sprigionarsi a ogni incontro con le cose, la tensione alla verità e al bene: potremmo declinare così, in prima approssimazione, sul piano pedagogico, l’invito di Benedetto ad “allargare la ragione”.

3. “Per molti, Dio è diventato veramente … “

Ratisbona, Roma – adesso Parigi. Nell’incontro con il mondo della cultura al Collegio dei Bernardini - che aveva per tema le origini della teologia occidentale e le radici della cultura europea, e che ora riprenderemo brevemente per il rapporto tra ragione, fede e cultura - Benedetto si domanda anzitutto quale significato poteva avere la fondazione di comunità monastiche in un’epoca di grandi sconvolgimenti culturali, prodotti dalle migrazioni di interi popoli e dalla formazione di nuovi ordini statali. Notando che in quel drammatico frangente i monasteri svolsero una duplice funzione, di custodia dei tesori della vecchia cultura e di elaborazione di una nuova sintesi, egli sottolinea che ciò fu reso possibile da una disposizione di vita e di pensiero, a prima vista diversa e lontana dall’intenzione di creare una nuova cultura o di conservare quella del passato: una disposizione, dice il Papa, “molto più elementare”7.

Nella confusione di tempi in cui niente sembrava resistere, quegli uomini erano alla ricerca di Dio: “dietro le cose provvisorie cercavano il definitivo”. La strada per la quale si svolse la loro ricerca fu quella lungo cui Dio stesso “aveva piantato delle segnalazioni di percorso”, e che anzi Dio aveva “spianato” per loro: in primo luogo la sua Parola, “aperta davanti agli uomini […] nei libri delle Sacre Scritture”, e poi Cristo stesso, nel quale “Egli [Dio] entra come Persona nel lavoro faticoso della storia”. Per poter comprendere i testi biblici, e dunque cercare Dio tramite essi, fu necessario ai monaci coltivare l’amore per la parola e per le lettere; fu necessario “imparare a penetrare nel segreto della lingua, a comprenderla nella sua struttura e nel suo modo di esprimersi”; fu necessario apprendere anche il canto e la musica, per introdursi attraverso la loro bellezza all’ordine più profondo delle cose. Insomma: fu necessario elaborare un sapere e una cultura nuovi, a partire dall’eredità ricevuta dal passato e dalla domanda su ciò che, nella vita, è essenziale e definitivo, oppure secondario e provvisorio.

Ecco il primo dinamismo costitutivo del rapporto tra ragione, fede e cultura. Quali sono i suoi fattori essenziali ? Anzitutto il moto ascendente della ragione, attraverso e oltre la cultura, verso la fede, sulla base dei criteri appena ricordati. Poi: il moto discendente e dialettico tramite cui la fede, interagendo costruttivamente con la

6 Benedetto XVI, Caritas in Veritate, n° 77.7 Benedetto XVI, Incontro con il mondo della cultura al Collège des Bernardins, Parigi, 12.IX.2008.

ragione, edifica, vagliando la tradizione del passato, una cultura nuova, che offra una comprensione più ampia e approfondita del reale.

Ma il discorso ai Bernardini pone in rilievo anche un secondo dinamismo, altrettanto importante. Se, da un lato, la cultura, a partire dal linguaggio, appartiene all’essenza della ricerca di Dio, perché è la via che, attraverso l’esplorazione del reale, conduce a interrogarsi sul suo fondamento, dall’altro la comunicazione che Dio fa di sé all’uomo apre una dimensione che presuppone, interpella e trascende ragione e cultura da un punto di vista che sta sopra la storia e sopra la suddivisione stessa della cultura nei vari ambiti di sapere (ciò viene sviluppato nella parte dell’intervento relativa all’interpretazione della Scrittura e al ruolo del lavoro nella vita dei monaci, su cui non mi soffermo). Questo significa che, nell’insieme, la dialettica fra cercare e trovare Dio, per il monaco (e quindi, più in generale, per l’uomo) risulta per così dire inscritta, e avviene esistenzialmente, dentro l’alveo di un “primo movimento” che Dio stesso fa in direzione dell’uomo: un movimento intrinsecamente “universale” (cioè rivolto a tutti gli uomini) e “ragionevolmente giustificabile” (cioè comprensibile nei termini e nelle forme essenziali della ragione umana – per quanto molteplici possano poi essere le sue declinazioni storiche, culturali e operative, oppure i vari saperi che essa è in grado di elaborare)8.

Non è possibile, qui, sviluppare oltre questo punto. Mi preme però, prima di continuare la riflessione, notare che, da un lato, questo “movimento” di Dio, che ha in Gesù la sua piena attuazione e manifestazione – l’Incarnazione è un “fatto”, un evento carico di intrinseca “intelligibilità”, ripete costantemente Benedetto9 – fa della persona di Cristo il “centro del cosmo e della storia” e la sorgente di una conoscenza della realtà ogni volta “nuova”, attenta e aperta all’inesauribile ricchezza di determinazioni delle cose. Questa conoscenza sempre “fresca” e “sorgiva” è l’unica radice viva e l’unico metodo adeguato per costruire una cultura cristiana capace di rispondere alle necessità e alle sfide di ogni epoca o ambiente – che sono continuamente in divenire. Dall’altro lato, in quello stesso movimento di Dio verso l’uomo sta anche la chiave per una rinnovata comprensione della valenza educativa e pedagogica della Rivelazione, così come suggerisce ad esempio la Deus est Caritas – penso alla descrizione della natura e della vita di Dio come Logos e insieme Agape, e alla fondamentale precisazione secondo cui “all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”10.

Ritorniamo al nostro tema, per chiederci sotto quali aspetti il dialogo tra ragione, fede e cultura appare oggi “nuovo” rispetto al passato, e quali ostacoli esso incontra più frequentemente nella mentalità e nella società contemporanea.

Comincio a rispondere – sempre sinteticamente – dagli ostacoli. Alla fine del discorso a Parigi, il Papa usa un’espressione concisa per descrivere il principale impedimento odierno al dialogo tra ragione, fede e cultura: quella “cultura meramente positivista”, che si fonda su una ragione tutta tesa a delimitare il proprio campo di conoscenza alla sola dimensione materiale ed empirica del reale, e a elaborare un sapere esclusivamente settoriale e funzionale (ho già accennato al superpotere della tecnica). Il massimo ostacolo di natura antropologica ed etico-politica lo si vede bene invece ripensando alle polemiche scoppiate intorno alla visita alla Sapienza: è quel laicismo

8 In questo “movimento”, osserva Benedetto, sta perciò anche la radice e la giustificazione del dinamismo missionario della Rivelazione cristiana: “i cristiani della Chiesa nascente non hanno considerato il loro annuncio missionario come una propaganda […] ma come una necessità intrinseca che derivava dalla natura della loro fede: il Dio nel quale credevano era il Dio di tutti […] e che, nel loro intimo, tutti gli uomini attendono” (ivi).9 “La novità dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto: Egli [Dio] si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Logos – presenza della Ragione eterna nella nostra carne” (ivi).10 Benedetto XVI, Deus est Caritas, n° 1.

che, in diverse forme e modalità, obietta in linea di principio o di fatto al “diritto di cittadinanza” del cristianesimo nel mondo d’oggi.

Positivismo e laicismo ostacolano il dialogo tra ragione, fede e cultura, contrastando rispettivamente il moto “ascendente” della ragione verso la fede e quello “discendente” della Rivelazione verso l’uomo. Essi possono variamente combinarsi tra loro, generando una certa gamma di posizioni intellettuali ed esistenziali, che non posso qui analizzare estesamente. Ma poi c’è ancora qualcosa che può impedire il loro dialogo. Si tratta, da un lato, della dimenticanza dell’asimmetria, della differenza di piani fra ragione, cultura e fede; dall’altro, dello spegnersi di quella tensione interna che deve permanere viva affinché la loro dialettica risulti, sotto il profilo conoscitivo, feconda e costruttiva. Anche qui non possiamo dilungarci, ma vorrei rinviare – per citare solo gli estremi, negativo e positivo – per un verso al fenomeno del fondamentalismo (che azzera la distinzione, pretendendo di dedurre meccanicamente una cultura dai principi o dai contenuti di una fede religiosa), per l’altro alla descrizione del genio cristiano di Gaudì come edificatore di “una coscienza umana ancorata nel mondo, aperta a Dio, illuminata e santificata da Cristo”11, in occasione della recente consacrazione della Sagrada Familia a Barcellona.

Infine, il principale accento di “novità” del dialogo tra ragione, fede e cultura e della mentalità che fa loro oggi da contesto.

Lo descrivo collegando tre acute osservazioni del Papa. La prima dice che questo dialogo non può “avvenire nei termini e nei modi in cui si è svolto in passato”. Se infatti non vuole ridursi a “sterile esercizio intellettuale”, deve partire “dall’attuale situazione concreta dell’uomo”, e su di essa “sviluppare una riflessione che ne raccolga la verità ontologico-metafisica”. In tale prospettiva, “la proposta di allargare gli orizzonti della razionalità” non va semplicemente annoverata tra le nuove linee di pensiero teologico o filosofico, ma deve essere intesa come la richiesta di “una nuova apertura verso la realtà a cui la persona umana nella sua uni-totalità è chiamata, superando antichi pregiudizi e riduzionismi”12.

La seconda osservazione è risonata ancora a Parigi, in conclusione del discorso ai Bernardini: “La nostra situazione di oggi, sotto molti aspetti, è diversa da quella che Paolo incontrò ad Atene […]. Le nostre città non sono più piene di are ed immagini di molteplici divinità. Per molti, Dio è diventato veramente il grande Sconosciuto”. La terza viene dalla meditazione di fronte alla Sindone – una meditazione che Benedetto ha compiuto (qui sta forse il suo più forte motivo d’intensità) consapevole del passare degli anni della propria vita e portando nel cuore, come successore di Pietro, “tutta la Chiesa, anzi tutta l’umanità”13. Dopo aver ricordato la definizione patristica del Sabato Santo come “giorno del nascondimento di Dio”, egli osserva che “il nascondimento di Dio fa parte della spiritualità dell’uomo contemporaneo, in maniera esistenziale, quasi inconscia, come un vuoto nel cuore che è andato allargandosi sempre più”.

Aggiungiamo a ciò il travaglio in atto nella cultura contemporanea, a prima vista tutta protesa a realizzare in forme sempre più raffinate il sogno moderno del dominio scientifico sulla realtà (come si vede ad esempio nell’ingegneria genetica), ma non ancora pienamente cosciente della insostenibilità esistenziale di questo progetto: ecco, prese tutte e quattro insieme, le coordinate che mi sembra facciano oggi da sfondo al dialogo tra ragione, fede e cultura affidato come compito specifico e non rinviabile alla nostra generazione. Vorrei insistere: queste coordinate conferiscono a tale dialogo uno specifico accento di “novità”, perché esso è oggi destinato e chiamato a realizzarsi (cioè ad accendersi, a svolgersi, a darsi criteri, metodi, finalità) in una condizione generale di

11 Benedetto XVI, Omelia alla Messa con dedicazione della chiesa della Sagrada Familia, Barcellona, 7.XI.2010.12 Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al VI Simposio Europeo dei Docenti universitari, 7.VI.2008.13 Benedetto XVI, Meditazione davanti alla Sindone, Duomo di Torino, 2.V.2010.

vita e di pensiero fatta di ignoranza di Dio, di crescente vuoto interiore e di illusione tecnocratica – combinati fra loro in proporzioni spesso insospettate, ma comunque sempre drammatiche, qualsiasi sia lo specifico contesto culturale interessato, e più o meno esposto all’influsso del cristianesimo14.

4. “C’è sempre un orizzonte più grande …”

E siamo al passaggio conclusivo. Soprattutto qui dovrò essere sintetico – non solo per non abusare della vostra pazienza, non solo per non “rubare il lavoro” ai gruppi, ma anche per non mancare l’obiettivo, poiché Benedetto XVI è intervenuto molte volte sul tema dell’educazione e della scuola cattolica, specie negli ultimi tre anni, e non c’è tempo per ripercorrere in dettaglio tutti i discorsi.

Torniamo alla Lettera alla Diocesi e alla città di Roma, per porre subito in rilievo la caratteristica più generale e distintiva dell’educazione – che vale per ogni età e ordine di scuola, e per la sfera sia cognitiva che morale. Come fenomeno che concerne nel modo più ampio e comprensivo il legame tra le generazioni – e che quindi abbraccia non solo la famiglia, ma anche la scuola, la società e la Chiesa, come specifiche e distinte istituzioni - essa è, nella sua sostanza, un avvenimento di libertà, né programmabile, né calcolabile: “A differenza di quanto avviene in campo tecnico o economico, dove i progressi di oggi possono sommarsi a quelli del passato, nell'ambito della formazione e della crescita morale delle persone non esiste una simile possibilità di accumulazione, perché la libertà dell'uomo è sempre nuova e quindi ciascuna persona e ciascuna generazione deve prendere di nuovo, e in proprio, le sue decisioni. Anche i più grandi valori del passato non possono semplicemente essere ereditati, vanno fatti nostri e rinnovati attraverso una, spesso sofferta, scelta personale”.

Il secondo tratto sintetico (che, combinato col primo, invita a un radicale “allargamento” della ragion pedagogica corrente, la quale il più delle volte non sembra voler andare al di là del funzionalismo) è il disegno complessivo del “campo d’esperienza” in cui l’educazione, come dinamismo vivo di crescita della persona, è chiamata a svilupparsi. A Verona, nell’ottobre del 2006, Benedetto ha indicato così le sue quattro dimensioni costitutive: “Occorre preoccuparsi della formazione della sua intelligenza [della persona], senza trascurare [la formazione] quelle della sua libertà e capacità di amare. E per questo è necessario il ricorso anche all'aiuto della Grazia”15. Intelligenza, libertà, capacità di amare, Grazia: ognuna di queste parole evoca un “mondo d’esperienza”, distinto eppure correlato agli altri. Sono tenuti presenti ed esplorati in maniera adeguata nella prassi scolastica ed educativa abituale? Se sì, in quali combinazioni e con quale equilibrio? Se no, perché?

Il terzo tratto d’insieme è la disposizione, l’habitus di fondo, in cui si condensano l’accento distintivo dell’educazione cristiana e la maggiore responsabilità educativa di noi adulti credenti. Nel Messaggio per la XXV Giornata Mondiale della Gioventù, celebrata la scorsa Domenica delle Palme, ritornando sulle orme di Giovanni Paolo II all’episodio evangelico del giovane ricco, Benedetto descrive questo tratto nei termini della sollecitudine personale di Gesù che, andando per strada, “interrompe il suo cammino per rispondere alla domanda del suo interlocutore”, manifestando non solo “una piena disponibilità” nei suoi confronti, ma anche un’attenzione specifica per la sua domanda di “vita eterna”. In questa sollecitudine personale vediamo all’opera l’attenzione di Cristo verso l’essere umano in crescita (qui, esemplarmente, il giovane; ma lo stesso si può dire del bambino, del ragazzo, dell’adolescente) e verso la sua ricerca di una vita vera; il Suo desiderio di “incontrare personalmente” e di “aprire un

14 Ciò rende oggi ancora più acuto e drammatico il fenomeno del senso religioso, come il Papa ha notato sempre a Parigi: “l’attuale assenza di Dio è tacitamente assillata dalla domanda che riguarda Lui”.15 Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti al IV Convegno Nazionale della Chiesa Italiana, Verona 19.X.2006.

dialogo” con ciascuno; il Suo amore personale per noi, pieno e totale “anche quando gli voltiamo le spalle”16. Ma questa sollecitudine per la persona e per il suo destino non è fatta per rimanere solo di Gesù – anche se solo in Lui si compie in forma perfetta. Dal momento che, come sottolinea la Deus est Caritas, il “principio creativo di tutte le cose — il Logos, la ragione primordiale — è al contempo un amante con tutta la passione di un vero amore”17, noi cristiani “non riceviamo soltanto in modo statico il Logos incarnato, ma veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione”18. Questa sollecitudine personale per chi è nelle prime età della vita diventa così possibilità, grazia, esperienza e responsabilità anche nostre: anche attraverso di noi (e questo può farci comprendere più in profondità il dolore di Benedetto per lo scandalo della pedofilia, e il suo insistente richiamo alla conversione) possono trasparire e comunicarsi esistenzialmente, nel modo più semplice e tangibile, lo sguardo e l’amore di Cristo per l’uomo19.

Dal versante di chi educa a quello di chi cresce – quarto tratto. La sollecitudine cristiana per la persona e il suo destino non è sterile. Essa però produce effetti non alla maniera di uno stimolo esterno (che metta in moto uno sviluppo autonomo e autoreferenziale) o di un condizionamento operante (che fissi dei binari prestabiliti all’agire), ma piuttosto nel modo proprio dell’essere umano – vale a dire, attraverso l’accendersi e il dispiegarsi della consapevolezza di sé nell’incontro con gli avvenimenti, le cose e le persone. Umanamente, questo “rendersi conto” si attua in una vasta gamma di risposte alla realtà, che vanno dall’insensibilità e dalla resistenza allo stupore carico di commozione, fino agli interrogativi più acuti o sofferti. Ma esso presenta anche una forma diciamo così sintetica e riassuntiva, che affiora nella domanda “Sono soddisfatto della mia vita ? C’è qualcosa che manca ?”20. In essa non troviamo solo una chiave particolarmente felice di accesso al vissuto e ai problemi d’identità delle giovani generazioni di oggi, concepiti ed esplicitati, nella quasi totalità dei casi, in termini e secondo codici comunicativi perlopiù psicologistici, soggettivi, di “pensiero breve”. In essa affiora anche l’esigenza di felicità e d’infinito del cuore umano, che ha per unica risposta veramente adeguata la comunione con Dio e la santità – come Benedetto ha argomentato e proposto agli studenti durante la visita nel Regno Unito, affrontando egli per primo con stupenda sensibilità educativa il “contraccolpo” di pensiero e di sentimento, che una proposta di questo genere suscita in un animo giovanile normalmente esposto a una mentalità dominante che fa di tutto per convincerlo ad accontentarsi di obiettivi limitati e di “seconde scelte”21.

Il quinto tratto d’insieme è la “linea di combattimento spirituale del nostro tempo”, direbbe un mistico. Nel discorso all’Assemblea Generale della C.E.I. che ha confermato la scelta dell’educazione come asse della pastorale per il prossimo decennio, il Papa l’ha descritta indicando le due “radici profonde”, a suo giudizio, dell’emergenza educativa. La prima consiste “in un falso concetto dell’autonomia dell’uomo”, che induce a credere che il nostro io sia “completo in se stesso”, e a non concepire altro processo formativo se non l’autosviluppo dell’individuo, pressoché già tutto quanto predefinito e programmato in sé. La seconda radice ha la forma della combinazione tra 16 Benedetto XVI, Messaggio per la XXV Giornata Mondiale della Gioventù, 28.III.2010, nn° 1 e 2.17 Benedetto XVI, Deus est Caritas, n° 10.18 Benedetto XVI, Deus est Caritas, n° 13.19 “Anche nella successiva storia della Chiesa il Signore non è rimasto assente: sempre di nuovo ci viene incontro — attraverso uomini nei quali Egli traspare; attraverso la sua Parola, nei Sacramenti, specialmente nell'Eucaristia. Nella liturgia della Chiesa, nella sua preghiera, nella comunità viva dei credenti, noi sperimentiamo l'amore di Dio, percepiamo la sua presenza e impariamo in questo modo anche a riconoscerla nel nostro quotidiano. Egli per primo ci ha amati e continua ad amarci per primo; per questo anche noi possiamo rispondere con l'amore. Dio non ci ordina un sentimento che non possiamo suscitare in noi stessi. Egli ci ama, ci fa vedere e sperimentare il suo amore e, da questo « prima » di Dio, può come risposta spuntare l'amore anche in noi” (Benedetto XVI, Deus est Caritas, n° 17).20 Benedetto XVI, Messaggio per la XXV Giornata Mondiale della Gioventù, cit., n° 3.21 Benedetto XVI, Celebrazione dell’educazione cattolica. Indirizzo del Santo Padre agli alunni, Twickenham, 17.IX.2010.

scetticismo e relativismo. Essa significa l’ “esclusione” dal campo della nostra conoscenza “delle due fonti“ che sarebbero veramente in grado di orientare “il cammino umano”, cioè la natura e la Rivelazione; esclusione che ha per conseguenza anche la riduzione all’insignificanza della storia, nella quale le diverse tradizioni culturali e religiose dell’umanità, certo non senza limiti o errori, ma pur tuttavia in modo sostanzialmente valido, hanno cercato di decifrare rispettivamente il libro della creazione e il mistero della Rivelazione22.

Per il sesto e ultimo tratto sintetico della concezione dell’educazione di Benedetto vorrei ricorrere all’espressione che egli stesso ha usato, nell’incontro con il mondo della scuola cattolica nel Regno Unito, rivolgendosi questa volta ai docenti. In uno dei contesti culturali dove più viva è stata la tendenza “a considerare la religione come un fatto puramente privato e soggettivo”, e che oggi è tra i più secolarizzati, egli ha richiamato la “dimensione trascendente dello studio e dell’insegnamento” come fattore necessario perché l’educazione non resti imbrigliata in un orizzonte di pensiero e di azione puramente utilitaristico, ma riesca invece nel suo “nobile compito” di formare la persona umana a vivere la vita in pienezza23.

5. Qualche spunto di lavoro

Ora qualche spunto di lavoro – per la giornata di oggi, ma anche oltre.Primo spunto: in apertura dei laboratori, con franchezza e semplicità, proviamo a

recensire brevemente i punti sui quali ciascuno di noi avverte un certo contraccolpo rispetto alla concezione di Benedetto XVI. Potranno essere interrogativi, sorprese, conferme – magari anche dubbi o provocazioni. Ne parleremo al ritorno in riunione plenaria.

Secondo spunto: come avrete notato, dell’insegnamento vero e proprio ho parlato solo alla fine, e delineando un orizzonte, più che contenuti o metodologie. Questo perché è compito specifico di ogni laboratorio “entrare nel merito”, con specifica attenzione alle sue forme, ai suoi destinatari, alle sue finalità - ogni volta diverse. Ringrazio fin d’ora i coordinatori per le tracce che hanno preparato e per la loro collaborazione.

Terzo spunto: durante la relazione, ho formulato qualche interrogativo e qualche orientamento pedagogico. Ad esempio, ho prospettato una prima, essenziale declinazione educativa dell’invito ad “allargare la ragione”, e i quattro fondamentali “campi d’esperienza” della formazione della persona. Questi interrogativi e orientamenti possono valere come ipotesi di lavoro - anche operative - per provare a verificare subito “che cosa possiamo fare” nelle nostre scuole, per educare nella direzione e con la sensibilità testimoniataci dal Papa. Ma essi possono anche valere come linee-guida di un’autoformazione che ciascuno potrà liberamente intraprendere, in prima persona, da qui in avanti. Se posso suggerire tre testi di appoggio, direi: il Discorso di apertura del Convegno della Diocesi di Roma, dell’11 giugno 2007; il Messaggio per la XXVI Giornata Mondiale della Gioventù, che si terrà a Madrid l’estate prossima, e la Lettera apostolica “Ubicumque et semper”, con la quale è stato istituito il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione.

22 Benedetto XVI, Discorso all’Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana, Roma 27.V.2010. L’osservazione sulla riduzione all’insignificanza della storia aiuta, fra l’altro, a capire perché oggi “la grande tradizione del passato”, sia religiosa che culturale, rischia il più delle volte “di rimanere lettera morta” (ivi).23 Benedetto XVI, Celebrazione dell’educazione cattolica. Indirizzo del Santo Padre agli insegnanti e religiosi, Twickenham, 17.IX.2010: “Come sapete, il compito dell’insegnante non è solo quello di impartire informazioni o di provvedere ad una preparazione tecnica per portare benefici economici alla società; l’educazione non è e non deve essere mai considerata come puramente utilitaristica. Riguarda piuttosto formare la persona umana, preparare lui o lei a vivere la vita in pienezza – in poche parole riguarda educare alla saggezza. E la vera saggezza è inseparabile dalla conoscenza del Creatore perché ‘nelle sue mani siamo noi e le nostre parole, ogni sorta di conoscenza e ogni capacità operativa’ (Sap 7, 16)”.

Prima di concludere con le parole di Benedetto XVI che mi sono sembrate più riassuntive del suo cuore e della sua sensibilità educativa, vorrei dire che il primo a fare esperienza dell’allargamento della ragione da lui proposto è stato l’autore di questa relazione. Studiando l’argomento, recensendo e selezionando i testi più significativi del magistero del Papa, accostandosi al suo modo di vedere e pensare le cose e alla sua testimonianza viva, io stesso ho sperimentato ogni volta l’apertura di uno sguardo e di una sensibilità che mi conducevano, pian piano, oltre il perimetro della conoscenza del problema educativo cui ero fin lì pervenuto. Questa “grazia dell’immedesimazione” vorrei augurare a tutti, ancora con le parole di Benedetto:

“Ci muove una comune sollecitudine per il bene delle nuove generazioni, per la crescita e il futuro dei figli che il Signore ha donato a questa città. Ci muove anche una preoccupazione, la percezione cioè di quella che abbiamo chiamato ‘una grande emergenza educativa’ […]. Siamo qui oggi, però, anche e soprattutto perché ci sentiamo sostenuti da una grande speranza e da una forte fiducia: dalla certezza, cioè, che quel ‘sì’ chiaro e definitivo, che Dio in Gesù Cristo ha detto alla famiglia umana […] vale anche per i nostri ragazzi e giovani, vale per i bambini che oggi si affacciano alla vita. Perciò anche nel nostro tempo educare al bene è possibile, è una passione che dobbiamo portare nel cuore, è un’impresa comune alla quale ciascuno è chiamato a recare il proprio contributo”24.

* Relazione tratta da Cultura Oggi

24 Benedetto XVI, Udienza per la presentazione e consegna alla diocesi di Roma della “Lettera sul compito urgente dell’educazione”, Piazza S. Pietro, 23.II.2008.

“Ci muove la speranza di suscitare una nuova presa di coscienza,

di suscitare un dibattito pubblico che abbia come punto di vista la libertà

tale da incontrare l’interesse di un popolo più ampio.

L’educazione è un tema troppo importante

per essere lasciatonelle mani di poche persone;

è il tema per eccellenza,dove si gioca davvero il destino

dell’intera comunità nazionale”

Camillo Ruini(dall’introduzione alla “Sfida educativa”

A p p e n d i c e

CULTURA E EDUCAZIONE: hanno detto…..

La vera cultura è umanizzazione, mentre la non cultura e le false culture sono disumanizzanti. L’umanizzazione, ossia lo sviluppo dell’uomo, si compie in tutti i campi della realtà in cui l’uomo è situato e si situa: nella sua spiritualità e corporeità, nel cosmo, nella società umana e divina. Si tratta di uno sviluppo armonioso, in cui tutti i settori cui appartiene l’essere uomo si coinvolgono l’uno con l’altro: la cultura non concerne né il solo spirito né il solo corpo, né la sola individualità, né la sola socialità, né la sola cosmicità: la riduzione ad unum dà sempre luogo a delle pseudo culture disumanizzanti, in cui l’uomo è angelicato o è materializzato, è dissociato o è spersonalizzato. La cultura deve coltivare l’uomo e ogni uomo nell’estensione di un umanesimo integrale e plenario, nel quale tutto l’uomo e tutti gli uomini vengono promossi nella pienezza di ogni dimensione umana. Tutte le varie forme della promozione culturale si radicano nella cultura animi secondo l’espressione di Cicerone, la cultura del pensare e dell’amare, per cui l’uomo si eleva alla sua suprema dignità, che è quella del pensiero, e si estrinseca nella più sublime donazione, che è quella dell’amore. L’autentica cultura animi è cultura della libertà, che sgorga dalla profondità dello spirito, della lucidità del pensiero e del generoso disinteresse dell’amore. Fuori della libertà non può esserci cultura. (Giovanni Paolo II)

La categoria di esperienza - assunta nella sua integralità, una volta sgombrato il campo da ogni riduzione psicologico-soggettivistica del termine - è il cardine della proposta educativa. L’esperienza integrale può garantire il processo educativo perché garantisce lo sviluppo di tutte le dimensioni di un individuo fino alla loro realizzazione attiva di quelle dimensioni con tutta la realtà. Una simile impostazione, ad un tempo teoretica e pratica, mette subito in campo la natura interpersonale del processo educativo. Educatore ed educando sono considerati come liberi soggetti coinvolti in un rapporto modulato dall’imporsi del reale. La realtà, con il suo insopprimibile invito ad affermarne il significato, chiama la libertà al rischio (ecco il tratto distintivo di ogni educazione!) del coinvolgimento. Per questo si può parlare del dialogo educativo in termini di avventura, un’impresa rischiosa ed affascinante. Sono così gettate le fondamenta su cui costruire i pilastri portanti di un adeguato metodo educativo. Quest’impostazione “precede” l’analisi del contesto socio-culturale anche se, avendo di mira l’uomo nella sua identità di persona libera sempre situata non può mai prescindere dalla sua collocazione storica concreta. (Angelo Scola)

L’attività educativa è qualcosa di grandioso: forse è l’atto più grande che una persona possa compiere. Ma perché possa verificarsi devono darsi alcune condizioni. Non le elenco tutte. Mi limito a quelle che nella situazione attuale mi sembrano le più importanti. La prima: l’autorevolezza dell’educatore. Il rapporto educativo non è fra pari. Mi spiego. Proviamo ad immaginare una situazione del genere. La persona arrivata chiede: “Che cosa è, che cosa significa, questo è bene o male…?”: e l’educatore risponde: “Non lo so; non te lo dico, perché così quando sarai grande deciderai come ti sembra; non ti rispondo perché non c’è nessuna risposta alla tua domanda: ciascuno faccia come gli pare e piace”. Domandiamoci: questo è un rapporto educativo? Non è abbandonare la persona al suo destino, alla tirannia dei suoi istinti, al deserto senza vie di uscite dalla sua solitudine? L’autorità dell’educatore consiste nel fatto che l’educatore fa una proposta di vita chiara, unitaria; nella certezza che questa è una proposta vera e buona; avendola egli verificata nella sua vita. Se viene meno uno di questi elementi - chiarezza della proposta, certezza della sua verità e bontà, verifica nella vita - l’autorità dell’educatore è minata alla radice (…). La seconda: la comunione di vita. Non è possibile nessuna educazione se non si crea una qualche comunione di vita fra chi educa e chi è educato. È una conseguenza pratica di quanto ho appena detto sull’autorità dell’educatore. L’educatore si rivolge sempre alla libertà di chi è educato. Egli quindi deve fare la sua proposta di vita in modo che la libertà dell’altro ne sia attratta, ne sia persuasa intimamente. Nessuna coazione in fondo è ammissibile nel rapporto educativo. (Carlo Caffarra)

Determinante per un insegnante, per un educatore in genere, è la capacità di amare - nella verità e nell’onestà - il proprio alunno, la persona con cui si è in contatto. Un insegnante, un docente non amano, se per prima cosa non sono attenti al soggetto da istruire, amandolo nella concretezza del suo essere: con le sue reali potenzialità, con le sue caratteristiche, con le

sue naturali inclinazioni, con gli atavismi che gli sono propri e di cui è vittima, con le insicurezze che l’attanagliano, col suo vissuto che certamente ne ha segnato l’esistenza. Amare nella concretezza quando si sale in cattedra, quando si tiene una lezione, quando si insegna un’arte o un mestiere, vuol dire per prima cosa far sentire che si è convinti e contenti di quel che si fa e di quel che si dice e si insegna; vuol dire poi avvincere con il proprio modo d’essere, affascinando e di conseguenza attraendo e rendendo piacevole ciò che si propone; vuol dire infine “prendere per mano” e accompagnare nel cammino irto di difficoltà dell’apprendimento, dell’esercizio, dell’acquisizione di un metodo operativo; vuol dire giustificare con lealtà, onestà e serenità ogni valutazione di ciò che il soggetto ha realizzato, evitando indebite gratificazioni o critiche acrimoniose, e soprattutto non contrabbandando un giudizio sulla persona quello che non è (e non può essere altro) che la segnalazione di un esito, da cui trarre indicazioni per eventuali potenziamenti, o correzioni, o mutamenti di direzione, o scelte alternative d’orientamento. Chi insegna qualcosa od istruisce in qualcosa una persona deve amare la persona stessa più di quello che le si vuole insegnare: la passione per ciò che si insegna diventa tanto più vera quanto più la si finalizza all’apprendimento da parte del soggetto discente. (Carlo Calori)

La cultura deve poter offrire agli uomini il significato di tutto. L’uomo veramente colto è chi è giunto a possedere il nesso che lega una cosa all’altra e tutte le cose fra di loro. Cultura, perciò, non può essere possesso di nozioni, perché neppure le nozioni derivate dallo studio di migliaia di uomini potrebbero dare una sola parola risolutiva all’interrogativo circa il rapporto che lega l’uomo a tutte le cose, cioè circa il significato della sua esistenza. Per questo l’origine di tutto, che è il senso ultimo di tutte le cose, si è rivelata agli uomini: “Il Verbo si è fatto carne”. Per chi, nel dare un senso all’universo,, prescinde da Gesù Cristo, che ne è la spiegazione ultima, esiste solo l’assurdo. Il richiamo cristiano si propone, perciò, come soddisfazione all’esigenza di totale comprensione della realtà per cui tutta l’umana coscienza vibra. Nel cristianesimo, proprio per l’identità tra la spiegazione ultima e la persona reale, la cultura non può mai soggiacere alla tentazione di dissociare la ragione dal resto dell’umano. Solo il cristianesimo mantiene salda la decisiva equivalenza dei termini “uomo” e “colto”. (…) La vera dimensione culturale cristiana si attua nel confronto tra la verità della sua persona e la nostra vita in tutte le sue implicazioni. Il termine cultura è sempre stato strettamente legato al termine civiltà. Civiltà infatti è la pienezza di traduzione di una cultura nella totalità della vita umana. L’insorgere di una cultura cristiana apre la prospettiva, e in qualche modo già la realizza, di una nuova civiltà. (…) Proprio perché è decisiva nel proporre una visione delle cose, l’educazione vera ha supremo interesse che il giovane si educhi ad un paragone continuo non solo con le posizioni altrui, ma anche e soprattutto fra tutto ciò che gli capita e quell’idea offertagli. L’urgenza di questa sperimentazione personale implica una sollecitazione instancabile alla personale “responsabilità” del giovane; perché se l’idea è proposta e una collaborazione offerta dall’educatore, è solo un consapevole impegno del singolo che ne realizzerà il valore e ne sorprenderà la esistenziale validità. (Luigi Giussani)

Autostima e autoaccettazione sono tenute dalla scuola in minimo conto. L’autostima dello studente è scambiata spesso per presunzione, e l’autoaccettazione come un esplicito riconoscimento da parte dello studente di non valere un granché. Se poi è lo stesso studente a esser convinto di valere poco, il professore si sente assolutamente assolto nel suo ribadire, con voti e giudizi negativi, quel nulla che lo studente avverte già per suo conto dentro di sé (…). Chi tra gli insegnanti accerta, oltre alle competenze culturali dei propri allievi, il grado di autostima che ciascuno di loro nutre per se stesso? Chi tra gli insegnanti è consapevole che gran parte dell’apprendimento dipende non tanto dalla buona volontà, quanto dall’autostima che innesca la buona volontà? (…) Chi ascolta uno studente con interesse riconoscendogli un minimo di personalità, su cui egli possa continuare a edificare invece che a demolire? (…) I giovani cercano divertimenti perché non sanno gioire. Ma la gioia è innanzitutto gioia di sé, quindi identità riconosciuta, realtà accettata, frustrazione superata, rimozione ridotta al minimo. Che fa la scuola per tutto questo? La scuola svolge programmi ministeriali, perché ritiene che il suo compito non sia propriamente quello di educare, ma unicamente quello di istruire, essendo l’educazione, nella falsa coscienza dei professori, un derivato necessario dell’istruzione. Ma le

cose non stanno propriamente così. È se mai l’istruzione un evento possibile a educazione avvenuta. E l’educazione non è fatta solo di buone maniere, ma è una lenta acquisizione, attraverso riconoscimenti, della gioia di sé. (Umberto Galimberti)

Credo che sia in crisi l’idea stessa di educare, intesa nel senso di «dirigere» una persona più giovane a trovare la sua strada. Quel che vedo intorno a me è una massa di giovani non educati, nel senso di «non diretti»; da nessuno, e in nessuna direzione. L’immagine che ho davanti non è un viaggio, ma un pascolo: mi sembra di vedere giovani che pascolano in un prato, e non giovani con la valigia che prendono treni, navi e aerei o che montano a cavallo «diretti» da qualche parte. Un pascolo: qualcuno bruca, qualcuno dorme, qualcuno passeggia in tondo. Non so se sia davvero una incapacità di educare la nostra, o non, piuttosto, una precisa volontà di non educare. Forse propenderei per questa seconda ipotesi: non ci piace dirigere nessuno da nessuna parte. Più o meno velatamente pensiamo che educare-dirigere sia un male. […].Pensiamo a Ulisse, l’uomo che vaga per il mondo; ci mette vent’anni a tornare a casa, ma ha sempre in mente Itaca, lì vuole tornare; ha un’idea di destino, cioè di ritorno. […] C’è un elemento bellissimo nella parola destino: l’idea di viaggio. Destino viene dal verbo destinare: mandare a un indirizzo preciso, indirizzare, far arrivare a una meta. Il giovane ha un destino nel senso che deve ritornare al luogo che è il suo: deve diventare se stesso, ri-conoscersi. Trovare la strada, rivedere la sua isola, riprendere il suo regno. Allora educare può avere un senso! Allora educare, dirigere e destinare sono tre verbi che vogliono dire la stessa cosa! Meraviglia: tu adulto educhi il giovane perché vuoi dirigerlo a trovare la strada, la sua natura, sé, il suo ruolo, ciò per cui è destinato! Educare-dirigere-destinare. La vita diventa, per il giovane, immediatamente dotata di senso: ha una meta. La vita è un viaggio, è un ritorno, e lui è di nuovo l’homo viator. (Paola Mastrocola)

E’ la tradizione del pensiero ebraico-cristiano che ha offerto come patrimonio incomparabilmente prezioso alle culture umane il concetto di persona, raggiunto e precisato compiutamente nel contesto della teologia cristiana del Verbo divenuto carne e della fede nella Trinità divina. E’ a questo patrimonio della tradizione di fede, che attinge il moderno personalismo cristiano: esso assume ed organizza in una visione d’insieme, attenta al dialogo con il pensiero moderno, il duplice dato relativo all’idea di persona maturato sotto i termini di sussistenza e di relazione. La persona viene a situarsi come soggetto assolutamente singolare, sorgente di dinamismo personale, che finalizza a se stesso il rapporto con l’esteriorità ed insieme si auto- destina all’altro, stabilendo con l’esteriorità d’altri un rapporto di reciprocità solidale. E’ nell’unità di queste relazioni, nella loro reciproca interazione, che la persona appare come il soggetto libero e consapevole della propria storia. “La persona non è un oggetto: essa, anzi, è proprio ciò che in ogni uomo non può essere trattato come un oggetto … Essa è l’unica realtà che ci sia data di conoscere e, in pari tempo, di costruire dall’interno … La persona è un’attività vissuta come autocreazione, comunicazione e adesione, che si coglie e si conosce nel suo atto, come movimento di personalizzazione” (E. Mounier). L’idea tomistica di sussistenza dell’essere personale è il baluardo teoretico contro ogni possibile manipolazione della persona. Sul piano del rapporto educativo ciò esige il rispetto assoluto della dignità personale di ognuno dei ragazzi o dei giovani affidati alla scuola. E questo rispetto prescinde dalle qualità o dalle abilità e capacità del soggetto: è invece un’esigenza assoluta, che deve ispirare ogni benché minimo comportamento di chi abbia responsabilità educativa. (Bruno Forte)

Quando dei genitori decidono di mettere al mondo un figlio non gli domandano il permesso, ma gli “impongono” la vita. Consciamente o inconsciamente i figli, nella loro esistenza, domanderanno il perché di questa scelta. L’educazione è l’impresa, che dura tutta la vita, di rispondere a questa domanda dei giovani, cioè il mostrare che la vita è una realtà vera, bella e buona, che merita di essere vissuta. L’educazione è quindi una grande responsabilità: un “responsum dare”, un dare una risposta, un rendere ragione. Questo “parto” educativo dei figli è molto più impegnativo del generare fisico. La parola educare (ex duco) significa “condurre fuori” e richiama proprio il generare. Sono implicate domande di fondo: verso dove? Con quali mezzi? Su quali sentieri? Con chi? La prima grande sfida, decisiva per l’educazione, riguarda la verità. Davanti a questo rischio, oggi in Europa sono nuovamente e chiaramente udibili le

domande esistenziali di fondo: esiste un senso al vivere ed alla storia? C’è un bene o qualcuno a cui posso affidare la mia vita in grado di rispondere al mio desiderio di vita, di felicità, di festa, di affetto e di eternità? Il dolore e la morte sono l’ultima parola per l’uomo e come tali sono lo scacco ad ogni mio desiderio? Ha un senso il dolore? L’uomo era principalmente un animale malaticcio – scrive Nietzsche in “La gaia scienza” – ma non la sofferenza in se stessa era il suo problema, bensì il fatto che il grido della domanda “a che scopo soffrire?” restasse senza risposta. (Aldo Giordano)

Le ore della mattina non sono quelle del pomeriggio; le ore del risveglio, le ore digestive, quelle che precedono gli intervalli, quelle che li seguono, sono tutte diverse. E l’ora che segue la lezione di matematica non si presenta come quella che segue la lezione di ginnastica… Tali differenze non incidono granché sull’attenzione degli studenti che vanno bene. Costoro godono di una facoltà benedetta: cambiare pelle a proprio piacimento, al momento giusto, al posto giusto, passare dall’adolescente agitato all’allievo attento, dall’innamorato respinto al cervellone matematico, dal giocatore al secchione, dall’altro al qui, dal passato al presente, dalla matematica alla letteratura… È la velocità di incarnazione a distinguere coloro che vanno bene da coloro che hanno qualche difficoltà. Questi, come viene rimproverato loro dai professori, sono spesso altrove. La loro sedia è un trampolino che li scaglia fuori dall’aula nell’istante stesso in cui vi si posano. A meno che non vi si addormentino. Se voglio sperare nella loro piena presenza, devo aiutarli a calarsi nella mia lezione. Come riuscirci? È qualcosa che si impara, soprattutto sul campo, col tempo. Una sola certezza, la presenza dei miei allievi dipende strettamente dalla mia: dal mio essere presente all’intera classe e a ogni individuo in particolare, dalla mia presenza alla mia materia, dalla mia presenza fisica, intellettuale e mentale, per i cinquantacinque minuti in cui durerà la mai lezione. (Daniel Pennac)

In modo completo e forse più semplice si può dire che l’educazione è l’introduzione di un soggetto umano nella realtà. Non si tratta semplicemente di condurre l’alunno ad accettare la fraternità in cui è inserito: questa finalità è data dal fatto stesso che l’educando vive dentro una compagnia intellettuale e in continua evoluzione, dove ciascuno è condotto e sollecitato a identificare e a scegliere il proprio destino. La scuola è porta che apre sul mondo non soltanto perché aiuta a capire le cose che sono scritte nei libri di testo, ma anche e soprattutto perché abilita all’incontro con persone che, magari, non si conoscono e derivano da contesti culturali diversissimi da quelli in cui la scuola opera. (…) Essa – la scuola – è soglia che si spalanca sull’umanità. (…) L’educazione segna l’assunzione cosciente, critica e simpatica della realtà in cui si vive. In un contesto in cui gli alunni sono un po’ sempre alla ricerca di un “altro mondo” in cui vivere per esprimere un’esistenza riuscita, non sembra cosa da poco conto il riconciliarsi con le persone che vivono gomito a gomito, con i paesaggi che uno si trova attorno con i lavori che si vede aperti alla sua fatica e al suo entusiasmo. Si dica pure che l’educazione è l’arrivare ad accettare se stessi senza detestarsi – un ideale! – e a raggiungere la letizia di chi si trova al proprio posto rimanendo nel posto in cui è, senza sognare continuamente e insanamente di trovarsi chissà dove per poter iniziare un’impresa che gli è, invece, a portata di mano. (Alessandro Maggiolini)

Perché accada l’evento dell’educazione e si instauri un clima autenticamente educativo è senza dubbio necessario avere relazioni con una e/o più persone buone e disponibili, che vogliono educarci e che si prendono cura di noi. E’ nondimeno necessario apprendere i concetti e le abilità che, secondo una declaratoria socialmente condivisa, ci permettono di integrarci nel mondo, senza sentirlo estraneo. (…) Tutto questo, però, se è necessario, non è sufficiente perché accada l’evento educativo e, a maggior ragione, della “buona educazione”. Essa infatti si realizza (“avviene”: per questo non è mai soltanto un fatto) solo nel momento in cui tutte le condizioni prima richiamate diventano, momento dopo momento, “bene per noi”.(…) Non basta ad educarci l’impradonirsi anche dei migliori contenuti culturali possibili se questi sono un valore in sé, fine a se stessi, oppure soltanto oggettivi, necessari, nel senso di imposti al soggetto dall’ambiente culturale, sociale, economico che lo circonda e che lo preme. (…) Se qualsiasi valore oggettivo non diventa soggettivo, “per noi”, è come se non producesse educazione. Che

cosa ne possiamo fare dell’abilità di “trasformare le pietre in oro”, ricordava Platone, se non sapessimo a che fine usare poi l’oro per essere sempre più noi? A che cosa potrà mai servirci la padronanza delle tecniche per renderci immortali “senza che si sappia a che cosa si serva l’immortalità”? A che cosa può servire, allora, oggi, educarsi secondo le mille e oggettive richieste del tempo e del mercato, se ciò non ha un senso profondo per noi e non sentiamo che, in ogni caso, si tratta di un’esperienza che ci fa crescere in razionalità, libertà e responsabilità? (Giuseppe Bertagna)

Non esiste pedagogia senza antropologia. Ossia, come possiamo educare la persona se non sappiamo chi è la persona? Il discorso è riassunto in questa domanda, che richiede da parte nostra l’attenzione affinché la pedagogia esprima un’antropologia di base e non soltanto delle suggestioni che magari rispondono alle istanze del momento. Queste ultime, infatti, non sono legate alla radice e all’identità della persona umana, ma ne disegnano un’immagine incompleta: solo i tratti di una qualche dimensione, forse quella più in auge in una fase storica e culturale. La questione antropologica sta alla base non soltanto del progetto educativo, ma del contesto globale che stiamo vivendo sul piano storico. E’ la questione che porta a chiederci: chi è la persona umana? Chi è l’uomo? Quali le sue dimensioni di vita? E’ l’uomo una dimensione, secondo una antica espressione? Ha una propria dimensione corporea, spirituale, affettiva? O ha più dimensioni? E se si, è egli un accostamento di frammenti? Ed ogni suo frammento ha proprie leggi e dinamiche proprie, autonome ed incomunicabili, tanto da farne un agglomerato e non una unità? E ogni singola dimensione – affettiva, corporea, intellettuale, spirituale – si muove ed agisce per sé o è riassunta ed espressa da una unitarietà? E se vi è unitarietà, quale ne è il punto di sintesi che dà senso e verità da un punto di vista teoretico e comportamentale? Serva una antropologia ragionata, per noi anche illuminata dalla fede, anche se il Vangelo suppone la ragione, ma non la sostituisce. Ecco perché la dimensione evangelica, di fede, illumina la realtà umana, la eleva, la completa, ma non impedisce assolutamente alla ragione di entrare nella verità della persona, nei suoi dati essenziali. (Angelo Bagnasco)

Guardando al problema della scuola e, quindi, dell’istruzione, della formazione e del diritto allo studio, in una società dominata dall’imperativo del cambiamento, deve rimanere intatta e dominante, come criterio di programmazione e di azione, la centralità della persona. E’ convinzione consolidata, infatti, che la scuola è chiamata non solo ad istruire ma anche ad educare. Infatti, educa influendo sulla formazione delle idee, degli atteggiamenti e dei comportamenti e, in sintesi, sulla personalità degli alunni. Questo si attua sia attraverso il curricolo esplicito ( le materie di insegnamento e la didattica disciplinare), ma attraverso quello implicito (le relazioni, gli spazi, i tempi, le attività informali, la didattica generale). Alla scuola, non solo da parte della nostra Costituzione ma anche da parte degli organismi internazionali come l’Unesco, l’Unicef, il Consiglio d’Europa, giunge una forte domanda di educazione alla democrazia, ai diritti umani, alla legalità, alla pace, Allo sviluppo, alla salute, alla tolleranza, alla libertà, alla dignità, all’uguaglianza, alla solidarietà e alla identità interculturale. Si tratta di valori che dilatano i contenuti dell’educazione civica e si traducono nell’educazione ai valori etici, sociali, civili e politici. La scuola deve tradursi in una proposta di vita che faciliti nei giovani sia l’accettazione del Sé – in rapporto ai processi evolutivi che ne caratterizzano la crescita personale – sia la conoscenza e l’accettazione degli altri, uguali e diversi, e della realtà socio-culturale di cui sono parte. Diceva il Cardinale Carlo Maria Martini in un celebre messaggio che occorre educare con un progetto: il progetto educativo non è solo un appannaggio delle scuole cattoliche, ma di ogni scuola pubblica, E nell’etica delle professioni formative un posto fondamentale è occupato proprio dalla professione di educatore e di insegnante. (Tarcisio Bertone)

Perché l’esperienza della fede e dell’amore cristiano sia accolta e vissuta e si trasmetta da una generazione all’altra, una questione fondamentale e decisiva è quella dell’educazione della persona. Occorre preoccuparsi della formazione della sua intelligenza, senza trascurare quelle della sua libertà e capacità di amare. E per questo è necessario il ricorso anche all’aiuto della Grazia. Solo in questo modo si potrà contrastare efficacemente quel rischio per le sorti della famiglia umana che è costituito dallo squilibrio tra la crescita tanto rapida del nostro potere

tecnico e la crescita ben più faticosa delle nostre risorse morali. Un’educazione vera ha bisogno di risvegliare il coraggio delle decisioni definitive, che oggi vengono considerate un vincolo che mortifica la nostra libertà, ma in realtà sono indispensabili per crescere e raggiungere qualcosa di grande nella vita, in particolare per far maturare l’amore in tutta la sua bellezza: quindi per dare consistenza e significato alla stessa libertà. Da questa sollecitazione per la persona umana e la sua formazione vengono i nostri “no” a forme deboli e deviate di amore e alla contraffazione della libertà, come anche alla riduzione della ragione soltanto a ciò che è calcolabile e manipolabile. In verità, questi “no” sono piuttosto dei “si” all’amore autentico, alla realtà dell’uomo come è stato creato da Dio. (Benedetto XVI)

L’educazione è frutto di un cammino proposto da colui che educa e che colui che viene educato, in libertà, farà proprio o rifiuterà. L’educazione non può essere neutra. O è positiva o è negativa; o arricchisce o impoverisce; o fa crescere la persona o la deprime, persino può corromperla. Educare esige uno sforzo di armonizzazione tra contenuti, abitudini e valutazioni: una trama che cresce e si condiziona al tempo stesso, dando forma alla vita di ciascuno. Per raggiungere tale armonia non bastano le informazioni o le spiegazioni: ciò che è meramente descrittivo o esplicativo non dice nulla e finisce per svanire. E’ necessario offrire, mostrare una sintesi vitale di essi, e questo può farlo solo il testimone. E’ questa dimensione a consacrare l’educatore e a renderlo compagno di strada nella ricerca della verità. Il testimone con il suo esempio ci sfida, ci rianima, ci accompagna, ci lascia camminare, sbagliare e anche ripetere l’errore, affinché ciascuno di noi cresca. Ciò che si chiede a un educatore è il camminare insieme all’educando. In questo lungo viaggio si crea la vicinanza, la prossimità. (Francesco)

IMPEGNO EDUCATIVO-FORMATIVO

Un uomo, un movimento, una associazione, si possono dire impegnati seriamente con le loro esperienze umane solo quando sentono una forte comunità con gli uomini, comunità senza

confini e senza selezioni, comunità con chiunque e con tutti, perché vivono l’impegno con ciò che di più profondo c’è in ognuno,

e quindi con ciò che vi è di comune con tutti.

Il futuro del mondo è profondamente legato alla sua umanizzazione. Da qui alcune consegne che coinvolgono i cristiani, non soltanto a livello strutturale, istituzionale, ma anche, se non soprattutto, a livello individuale, e che sfociano in una esigenza profonda di impegno educativo e formativo inteso come capacità di promuovere la formazione integrale della persona secondo verità, che è la condizione perché l’uomo riscopra l’unità di valori.Particolarmente a livello giovanile, alcuni itinerari e obiettivi formativi/educativi debbono essere articolati partendo da una analisi della situazione giovanile e dalla verifica del preminente bisogno di educazione e di senso, per giungere ad ipotizzare risposte colle quali intraprendere un cammino concreto e coerente.Va infatti evidenziato come la situazione giovanile appare caratterizzata da un diffuso senso di sradicamento, di mancanza, cioè, di un solido appoggio ai valori di base.Il giovane manifesta questo disagio con una lontananza che diventa anche rifiuto della cultura cristiana, della proposta cristiana (in tal senso incide profondamente la crisi in atto un po’ di tutte le istituzioni educative: famiglia, scuola, oratorio, circolo giovanile, ecc….).Il giovane tende a considerarsi altro rispetto a chi lo educa, a considerare la propria cultura, il proprio modo di vedere le cose, come l’unico vero, l’unico possibile per lui, e il dialogo con gli educatori, portatori di una cultura diversa, tende a divenire conflittuale, fondato più su una rivendicazione di spazio che su una effettiva volontà di verifica e di partecipazione.La sterilità di questa impostazione porta spesso il giovane al rifiuto di ogni tipo di rapporto.La logica conseguenza di questa visione passiva della propria educazione è l’ormai noto riflusso nel privato, la chiusura nei propri interessi, nel gruppo dei “pari” come scudo contro gli altri.Da qui la paralisi della capacità critica, un po’ frutto dell’autoisolamento dei giovani, un po’ creata dal diffondersi delle ideologie (ancor oggi presenti) e di certe culture speculative, ma anche un po’ favorita da educatori che tendono a considerare i giovani come una componente separata dalla comunità, dalla società, alimentando così il loro senso di alterità.Il rischio dell’emarginazione giovanile è infatti duplice: da parte degli educatori il rischio del velleitarismo giovanile, di un largo ai giovani che li consideri soltanto come una entità a sé stante e non invece come persone in crescita all’interno di un rapporto educativo; e da parte dei giovani medesimi il rischio del rinnovarsi di certi miti quali la fantasia del potere,la gestione in proprio di una sfera di potere all’interno della comunità.Il fallimento, in questi ultimi anni, delle utopie non ancorate alla realtà ha causato la caduta di ogni entusiasmo e di ogni disponibilità all’impegno.La caduta delle illusioni di autosufficienza non è stata compensata da un rafforzarsi dei valori tradizionali, e ha suscitato il vuoto, a cui fa specchio una forma di ateismo, più pratica che ragionata, che non entra nella sfera della loro vita privata.Una situazione, tuttavia, che non può essere generalizzata: esiste infatti una considerevole fascia di giovani che non si sente affatto emarginata, ma che anzi cerca di costruire il proprio futuro attraverso una partecipazione sensibile.

Riscoprire i luoghi educativi

Nella nostra società il compito dell’educazione è stato demandato e nello stesso tempo rivendicato da istituzioni specifiche. Vediamo infatti che nel tempo si sono definiti due

luoghi precisi in cui la responsabilità educativa si realizza (o dovrebbe realizzarsi) pienamente: la famiglia e la scuola.Se per sua natura la famiglia si pone con maggiore naturalezza come luogo primario di educazione – cioè luogo veritiero di esperienza di umanità in cui l’educazione si attua come una storia di crescita comune nella quale l’adulto (i genitori) nel suo rapporto di accoglienza e compagnia con i figli, propone delle indicazioni e dei valori da verificare insieme – chiediamoci se la scuola abbia senso come ambito di una responsabilità educativa.La risposta è positiva: la scuola infatti è un dato storico irreversibile, non solo perché esiste, ma perché nella scuola si realizzano (o comunque dovrebbero realizzarsi) aspirazioni storiche fondamentali ed esigenze essenziali del fatto educativo. E’ infatti attraverso la scuola che trovano concreta realizzazione aspirazioni di libertà e di uguaglianza: con i cattolici in prima linea da questo punto di vista, avendo gli stessi sempre portato avanti una immagine di scuola come servizio sociale in cui tutti possono trovare il loro posto.D’altra parte hanno trovato nella scuola uno strumento essenziale anche alcune esigenze strutturali del fatto educativo: ci riferiamo agli aspetti di acculturazione e di mediazione culturale, di contatto cioè e di interazione tra le culture, rispetto ai quali la scuola svolge ruoli non surrogabili.E non si può immaginare in astratto una responsabilità educativa che non risponda alle esigenze di una promozione culturale, di una corretta trasmissione del sapere, di un contatto vivo con tutte le proposte culturali oggi esistenti nella società.La scuola, dunque, è un luogo dove si elaborano informazioni, dove si produce e si veicola cultura, dove si deve conoscere per poter essere, dove l’istruzione è solo un aspetto della educazione.Su questo sfondo ha senso parlare di “progetto educativo”, perché diventa chiaro che non si parla di una scelta di contenuti o di tecniche e neanche di obiettivi astrattamente intesi, ma di un lavoro permanente – e quindi permanentemente verificato – per creare le condizioni alle quali una presenza di adulti si fa proposta di “ragioni di vita”, che provoca la libertà a determinarsi personalmente e responsabilmente sull’arco di tutta la propria esperienza e – nella scuola – ad investire di queste stesse ragioni un lavoro culturale non asettico, neutrale o del tutto autonomo da queste “ragioni di vita”. Per gli adulti ciò implica la loro educabilità: è essenziale che il rapporto tra adulti educatori sia rapporto improntato da un profondo desiderio di confronto, di verifica, di lavoro comune.

Una responsabilità educativa sempre pensata

Dalle osservazioni fatte troviamo, dunque, la necessità che la responsabilità educativa sia sempre pensata anche nella scuola. E ci interessa sottolineare quell’ “anche” per due motivi: * innanzi tutto per riaffermare che una responsabilità educativa deve essere vissuta prima e dopo il momento scolastico: la scuola infatti è solo un momento di un iter educativo finalizzato alla crescita della persona che, in quanto tale, oltrepassa i limiti angusti dell’istituzione;* in secondo luogo occorre guardarsi dalla semplificazione di pensare alla scuola in termini esclusivi di responsabilità educativa: occorre cioè essere consapevoli che i termini dell’educare sono oggi diversi rispetto al passato e vanno declinati storicamente nella concreta specificità culturale propria della scuola.Queste osservazioni si prestano ad alcune proposizioni pratiche:

** tale convinzione non delega nessun compito educativo alla scuola e non scarica su di essa improprie responsabilità;** ripropone in primo piano la responsabilità educativa della famiglia, impegnata ad offrire ai figli una scala di valori ed una vita in cui tali valori possano essere coerentemente sperimentati;** rimette in discussione tutti gli ambiti di socialità al di fuori della scuola, chiedendo che anche il tempo libero sia occasione per una crescita di umanità e non per un appiattimento della persona;** rivaluta la professionalità dell’insegnante (quella professionalità che assomma competenza a vocazione in un’unica dimensione che fa dell’insegnante un educatore vero e non un solo erogatore di nozioni) che educa attraverso l’insegnamento della propria disciplina, cioè nel modo con cui la trasmette attraverso i giudizi che opera.Inoltre quanto evidenziato sollecita sotto vari aspetti ad un giudizio sull’immagine di scuola che ciascuno di noi ha, e richiede risposta ad alcune domande:*** qual è oggi il soggetto attivo nella scuola statale o non statale paritaria che sia?*** abbiamo ipotizzato una comunità educante: ma dov’è? esiste veramente?*** qual è la natura dei rapporti tra adulti che dovrebbero essere educatori nella scuola?*** qual è lo spazio che la persona ha per crescere responsabilmente nella scuola?*** di quali attenzioni e di quali proposte la persona viene fatta oggetto? *** qual è il rapporto e il legame tra i contenuti del lavoro scolastico e le “ragioni di vita”?Domande alle quali ciascuno di noi, indipendentemente dalla funzione e dal ruolo specifico, deve rispondere, rimettendo in movimento un processo che sembra essere venuto meno.

La crisi delle istituzioni

Alcune realtà, quanto più entrano in crisi, tanto più diventano oggetto di discussione nella nostra società. E una di queste realtà è quella della educazione e della formazione scolastica su cui vengono ogni anno versati fiumi di inchiostro e tenute un numero sempre più importante di incontri, conferenze, convegni, tavole rotonde. Il tutto, però, con la chiara sensazione che non si voglia, in ultima analisi, giungere a delle efficaci correzioni, ma semplicemente e superficialmente solo a delle dimostrazioni accademiche che lasciano inalterato il problema.Al di là, però, di questa constatazione, il problema dell’educazione diventa sempre più impellente e arduo nella nostra società. Un problema che coincide con il problema della vita e con la risposta che si dà all’interrogativo sul senso della stessa vita. Un problema che pertanto coinvolge anche l’istituzione scuola e la responsabilità educativa di quanti a diverso titolo dovrebbero essere abilitati ad intervenire per meglio educare.E parlare di scuola significa innanzi tutto individuare la sua specifica funzione: si può concepire la scuola come strumento per il conseguimento di determinati obiettivi (incremento e razionalizzazione della produzione, creazione di un consenso politico ed ideologico, fornitura di abilità tecnico organizzative, ecc…) o come espressione di una realtà viva di persone che in una unità sempre ricercata vivono, come esperienza, un complesso di valori loro affidati dalla storia, dalla tradizione, capaci di dilatare l’orizzonte della vita e di approfondirne il gusto.Nel primo caso è evidente la strumentalità della scuola, che in ultima analisi tende ad assoggettare la persona a fini a lei estranei; nel secondo caso invece la scuola diventa un momento che contribuisce a dare risposte alle domande ed ai bisogni della persona, e ciò per una sua crescita globale.

Da qui l’urgenza di dare una risposta precisa ad un interrogativo che emerge continuamente: nella scuola per istruire o per educare?

Il senso dell’educare

Nell’affrontare l’interrogativo, sembra giusto porre l’accento della nostra scelta sull’educazione: nella scuola la funzione è quella di educare, non di istruire, e ciò senza trascurare o svuotale di motivazioni la fatica che l’impegno scolastico richiede. E partire dall’educazione, nel fare un discorso sulla scuola, significa partire dalla persona, nella sua totalità, integralmente presa; così come significa mettere in discussione e valutare attentamente il ruolo degli adulti, insegnanti o genitori che siano.L’adulto educa, cioè diventa educatore, quando propone il tipo di uomo che lui stesso è, e quindi comunica il suo mondo di valori in ogni occasione e a partire dalla condizione in cui si trova a contatto con gli altri, in particolare con chi porta con sé una domanda, un desiderio di valori e di ragioni di vita con i quali informare e uniformare la propria esperienza.Ecco che allora l’educazione è incontro e dialogo. E’ proposta che incontra una domanda e si fa, a sua volta, provocazione a dare una nuova risposta che scaturisce dalla responsabilità (volontà e capacità di rispondere) con la quale ci si mette a confronto in questo dialogo, che può anche non essere fatto di parole, e spesso non lo è, poiché trova la sua comunicabilità nella testimonianza.Indicativo a questo proposito un esempio che viene da lontano: Socrate – il grande filosofo dell’antichità – visse gran parte della sua vita rispondendo alle domande che gli venivano rivolte dai giovani, e formulando lui stesso delle nuove domande alla gente per le strade: chi è l’uomo? qual è il suo destino? come si può vivere felici? come si può vivere insieme? come si può governare rettamente?L’esempio di Socrate è affascinante in quanto testimonia la figura di un adulto profondamente appassionato alla comunicazione di sé, della propria sapienza e della propria esperienza di vita verso i più piccoli, i più giovani, i più fragili, verso coloro che si affacciano alla vita ricchi di domande e affamati di risposte.In questo desiderio profondo di comunicazione di sé, della propria esperienza di vita, dal più grande al più piccolo, sta il fondamento di una autentica responsabilità educativa. Ma non basta. Socrate svolgeva il suo splendido e drammatico lavoro teso non ad una egoistica affermazione di sé stesso, ma ad un amore appassionato alla persona che gli stava di fronte: perché ciascuno fosse aiutato a riconoscere ciò che era, a comprendere e rettamente esercitare tutte le proprie potenzialità, cioè tutti i talenti della ragione, del cuore e della volontà (… e quale esempio per molti educatori di oggi!).

Far crescere la libertà della persona

L’amore alla persona dell’altro, alla sua crescita, alla sua verità, alla sua libertà, al suo destino, è l’unico fine di uno sforzo educativo che voglia essere veramente umano e non si limiti ad esercitare un indottrinamento, come se l’educando, l’alunno, fosse un recipiente nel quale gettare di tutto.Infatti, educare significa far crescere la libertà dell’altro dentro una proposta di cammino concreto, e cioè l’opposto dell’autoritarismo ideologico o intimistico, oggi profondamente presente nella nostra società, di chi vuole possedere l’altro, farne una parte di sé e conseguentemente annientarlo.Solo una persona realmente educata, cioè cosciente di sé e introdotta nella realtà totale, può essere davvero libera e critica. Ed è tanto vero ciò che oggi, in un momento in cui la

delega di una responsabilità educativa ha raggiunto livelli preoccupanti, ci accorgiamo drammaticamente che la persona non educata da nessuno è resa schiava da chiunque.Infatti, senza una presenza maestra ed amica, carica di ipotesi di valori, l’uomo, soprattutto se in formazione, diventa preda di qualsiasi potere: innanzi tutto dei propri limiti che nessuno lo aiuta ad affrontare e in secondo luogo di qualunque persona o gruppo che usi di lui come un oggetto da indottrinare o arruolare nella proprie fila.Tutta la storia della scuola italiana – anche quella attuale – è drammaticamente ricca di tali esempi.

Riprendere la riflessione

Come genitori sembra utile interrogarsi e riprendere insieme un cammino di partecipazione individuale ed associativa circa i problemi della libertà di educazione e perciò i problemi della scuola come momento di educazione.Le ragioni che sollecitano – e sollecitarono anni fa – il fatto di una presenza nell’ambito ecclesiale e civile, scaturiscono – e scaturirono – da una sempre rinnovata consapevolezza circa i diritti dei genitori in ordine alla libertà di educazione, nonché al ruolo importante che gli stessi potevano assumere nella scuola e per la scuola.Gli obiettivi da perseguire furono – e sono tuttora – individuati – e ancora individuabili – nella necessità di una reale libertà di scelta e dell’educazione e della scuola – statale o paritaria che sia – di cui avvalersi per il conseguimento del fatto educativo, e perciò di una promozione della legittimità di una scuola idealmente orientata – tra cui appunto la scuola cattolica – come scuola “libera” e come scuola a servizio pubblico ove tutti possano accedere in virtù del solo fatto che lo desiderano e quindi senza condizionamento alcuno, nonché nell’urgenza – ancora reale – di una collaborazione-corresponsabilizzazione da realizzarsi attraverso una presenza attiva nella scuola, presenza capace di essere testimonianza e stimolo per la realizzazione di una vera formazione e di una reale istruzione in attuazione di un valido ed articolato progetto condiviso.Quindi la necessità di approfondire e di affrontare i problemi inerenti la libertà di educazione e la stessa scuola italiana, il tutto nell’ottica di una affermazione concreta dei presupposti fondamentali dati dalla libertà, dalla sussidiarietà, dalla qualità e dall’efficienza.Obiettivi di non facile realizzazione, ma che tuttavia, al di là delle insofferenze, delle incomprensioni, delle difficoltà reali e strumentali, andavano e vanno tuttora perseguiti perché frutto di una presa di coscienza attorno alla responsabilità educativa e perché frutto di una istanza, non dettata da meri interessi personali, ma coinvolgente tutto un modo di sentire e di essere.

L’esigenza di una continua verifica

Dei problemi suddetti non si può dare nulla per scontato: la riflessione va continuamente attivata, così come continuamente rimotivata la verifica, tesa a meglio concretizzare gli obiettivi e le motivazioni. Quegli obiettivi e quelle motivazioni che hanno la persona come soggetto positivo di diritti e di doveri, e quindi la persona come centro insostituibile ed inalienabile del proprio impegno. E ciò con delle libertà e delle responsabilità che vanno promosse e rispettate e alle quali ogni struttura deve essere finalizzata perché la persona stessa veda autenticamente salvaguardato il suo diritto-dovere di essere, di esprimersi e di scegliere.La persona è e deve continuare ad essere il centro primario, il riferimento continuo di ogni attenzione che deve trovare nell’educazione un momento intenso e qualificante

l’impegno sia personale che comunitario. E ciò perché è l’educazione che permetterà alla persona di essere veramente se stessa nel – e nonostante – il contesto sociale in cui è chiamata a vivere, e cioè di esistere e di esercitare consapevolmente e responsabilmente il proprio diritto alla libertà.Un aspetto – questo dell’educazione della persona – che interessa l’uomo intero, tutta la sua concezione e tutto il suo atteggiamento di vita: infatti l’educazione non ha per scopo di forgiare al conformismo di un ambiente sociale o di una dottrina di Stato; l’educazione ha la missione di promuovere delle persone capaci di vivere e di impegnarsi proprio in quanto persone.Da ciò nascono precise responsabilità, di fronte alle quali occorre porsi come educatori ed in ordine alle quali – senza la pretesa di esaurire il tutto, lontani dalla pur minima presunzione di scoprire cose nuove, e con la certezza che in fatto di educazione non vi sono ricette prefabbricate – sembra giusto mettere in rilievo alcune considerazioni da riflettere e da verificare insieme.

La responsabilità della famiglia

La persona, al suo apparire sul palcoscenico della vita, ha diritto – almeno sin quando non è in grado di esprimersi e di scegliere da sola – di essere rappresentata e quindi di essere aiutata a crescere primariamente dai genitori e dalla famiglia, questo comporta per i genitori e per la famiglia una responsabilità precisa che deve essere assunta totalmente, senza tentennamenti e senza rinunce.Una responsabilità che ha radici in un ordinamento di ”diritto naturale” e di norme giuridiche da esso dipendente che rendono possibile e che garantiscono la vita morale della comunità degli uomini: è infatti nella famiglia che l’uomo trova – o dovrebbe trovare – il reale strumento della sua promozione e della sua liberazione. La famiglia è e resta lo spazio indispensabile per la personalizzazione dell’individuo, la comunità nella quale ogni persona è – o dovrebbe essere – accettata e rispettata nella sua autonomia, nella sua originalità, al di là della sua utilità sociale e della sua produttività in termini economici. Tuttavia, le testimonianze spesso terribili che la vita di ogni giorno ci dà della crisi esistenziale che i giovani – non per colpa loro – vivono in conseguenza di un preoccupante vuoto di valori, impongono ai genitori e alle famiglie di rivedere il loro modo di essere, di riqualificare il loro modo di porsi di fronte a sé stessi e di fronte agli altri. In parole più semplici la realtà che ci circonda evidenzia la necessità di una riacquisizione e di una rivalutazione da parte delle famiglie di una propria coscienza educativa, di una coscienza educativa cristiana.Non è certamente facile riscoprire e vivere valori autentici da trasmettere, tuttavia la famiglia non deve rinunciare a porsi come obiettivo quello di vivere al suo interno i valori significativi suoi propri (come la gratuità, l’amicizia, il perdono) e con ciò scoprire e riscoprire i motivi che fondano le condizioni per una educazione attenta, profonda, incidente. Deve ricostituirsi, creativamente una struttura familiare comunitaria: si tratta cioè di riscoprire da parte dei genitori la coscienza del matrimonio come sacramento che si esprime vivendo la famiglia non come un insieme di individui isolati l’uno dall’altro, ma come nucleo di comunione vissuta, come un luogo in cui ognuno accetti un suo prossimo sempre e comunque, in cui ciascuna persona si carichi del bisogno altrui, in cui le porte si spalanchino per dare ospitalità ai bisogni e alle preoccupazioni che lo circondano.Ciò comporta una disponibilità a rimettersi continuamente in discussione come “educatori”. A non dare mai nulla per scontato, o per totalmente acquisito.

Mettersi in discussione come educatori

Oggi nessuno può ritenersi arrivato: c’è sempre da rivedere, da aggiornare, da chiarire, da correggere, da integrare. Per quanto si possa essere affermati, per educare autenticamente occorre ritrovare l’umiltà e la capacità di verificare continuamente se stessi e arricchire giorno per giorno il proprio bagaglio intellettuale e spirituale, accettando con senso critico certamente, ma anche con grande disponibilità ciò che la vita continuamente propone.Con vera coscienza educativa, è necessario continuare a formarsi e riformarsi per essere dei formatori.Se si vuole veramente educare, occorre chiaramente proporre uno stile di vita, un’ipotesi di vita: e la famiglia ricupera in pieno la sua validità educativa quando diviene luogo di esperienza di umanità rinnovata, primo ambito di una socialità piena e realizzata, in cui l’educazione si attua come una storia di crescita comune, dove l’adulto, nel suo rapporto con il ragazzo, propone delle indicazioni e dei valori da verificare insieme.E solo una famiglia che si è così riappropriata del suo compito educativo si pone anche come reale interlocutrice con e negli ambiti in cui si attua ed in cui si decide una politica educativa: consapevole della sua forza e della sua debolezza – della sua forza perché sa di essere l’unica istituzione che può ancora pretendere di educare e resta l’unico modello che può ancora essere proposto ai giovani e che può rappresentare un centro di testimonianza e di presenza cristiana; della propria debolezza perché cosciente che non tutto si esaurisce al suo interno e che quello che fa sul piano educativo è essenziale ma non sufficiente – non si limita ad un ruolo, ma si sente portatrice di valori precisi e sperimentati.Esercita così quella partecipazione”, quella “corresponsabilità”, attenta e attiva in modo consapevole e responsabile, e cioè in termini veri di proposta, di gestione, di verifica e di controllo dell’educazione, in virtù di quel compito educativo che le spetta di diritto.Ma se ciò è vero, come promuovere una azione di ricupero della responsabilità educativa da parte dei genitori e delle famiglie? Come riscoprire quei valori che si vogliono acquisiti dai propri figli? Come riacquistare quella dimensione spirituale e religiosa tanto annacquata anche in molte famiglie cristiane e, che sola può dare sapore all’azione educativa? Come sollecitare un’attenzione ed una presa di coscienza?

La responsabilità della scuola

Accanto alla responsabilità della famiglia e dei genitori, va evidenziata una grave responsabilità della scuola in quanto istituzione, e conseguentemente di coloro che la personalizzano.Nonostante tutte le teorie sulla sua funzione, essa non è allo stato attuale ambito di formazione integrale: è struttura sempre meno attenta alla persona e ai suoi destini ultimi; è sempre più strumento di manipolazione del consenso finalizzato a scopi sempre più spesso diversi dalla promozione dell’uomo.Innegabilmente si tratta di una istituzione in crisi, alla quale la famiglia – che per molteplici ragioni non è più in grado di assolvere compiutamente il suo diritto-dovere di educare – chiede aiuto nell’attuazione del suo compito educativo, aiuto che la scuola, purtroppo, non sa dare. Per le medesimi molteplici ragioni che hanno travolto in una preoccupante crisi di identità un po’ tutte le istituzioni educative, la scuola denuncia infatti una sempre più preoccupante incapacità di essere “momento” di educazione.Problemi profondi la travagliano; e incomprensioni, egoismi, incompetenze, manipolazioni, ritardi, presunzioni, non fanno altro che affondarla sempre più nel

baratro della incapacità formativa ed educativa; quel baratro dal quale non si riesce a far riemergere quei valori che stanno alla base di ogni crescita e di ogni formazione e che soli possono ridare ai giovani delle motivazioni valide all’impegno richiesto.Una scuola-istituzione che non riesce ad uscire dall’impasse perché anche gli accorgimenti recentemente introdotti hanno denunciato, e denunciano, dei vizi di forma incomprensibili, consistenti in una articolazione che ripropone il discorso di delega (la scelta dei rappresentanti …..). Accorgimenti che non hanno favorito, e ancora non favoriscono, la soluzione, ma che anzi accentuano i problemi prima esistenti; accorgimenti che hanno reso insignificante il presunto passaggio della gestione della scuola alla comunità, poiché di fatto la scuola resta quella che era prima, con in più prevaricazioni e tensioni nuove.Anche l’inserimento dei genitori nella “cosiddetta” gestione della scuola (“cosiddetta” perché sempre più spesso i genitori e le famiglie vengono tenuti a debita distanza ….) ha più il sapore di un ripiego per una scuola divenuta struttura insostenibile ed ingovernabile, che non frutto di una maturazione culturale riconoscente il fatto educativo come fatto comunitario.

Scuola: istituzione sussidiaria

I genitori e le famiglie chiedono alla scuola un aiuto vero all’assolvimento del loro diritto-dovere di educare, e – in quanto genitori e famiglie cristiani – chiedono alla scuola di essere concretamente dalla parte dell’uomo non prestandosi a quelle operazioni riduttive che ledono la dignità umana in quanto sollecitano consensi nei confronti di visioni parziali e settarie della persona. Una richiesta troppo spesso disattesa!Le ragioni di una educazione veramente liberante, di tipo critico, creativo e partecipativo, quale ha diritto di chiedere alla scuola ogni persona, non possono che risiedere nella scelta di una prospettiva integrale dell’uomo, considerato come fine dell’educazione.Così il rapporto educativo trova la sua legittimazione nel presupposto che la persona ha diritto a sostegni adeguati per acquisire la capacità, la possibilità e la libertà di scegliere tra le molteplici proposte e sollecitazioni che continuamente la interpellano.E ciò si verifica: solo se la scuola configura un itinerario di lavoro e di impegno secondo un progetto formativo che si legittima in una visione integrale della persona e per la particolarità della sua riflessione sul significato della presenza umana nella storia; solo se la scuola è ambito capace di aiutare i giovani a porsi delle domande e in grado di proporre comunitariamente delle risposte da verificare insieme ai giovani stessi perché possano farle loro.Una scuola, perciò, che non si sostituisce ai genitori e alla famiglia, ma li sappia coinvolgere affinché il processo educativo sia realmente integrativo e integrale.Una scuola, quindi, come autentica realtà di base, come autentica realtà popolare, espressione vera di una realtà di persone che in una unità di intenti sempre ricercata vivono un complesso di valori attorno ai quali costituire concretamente il motivo fondamentale di ogni educazione e pertanto della stessa scuola in quanto “momento” di educazione.

Fatto di cultura

Si tratta certamente di un fatto di cultura. E se uno degli aspetti del fare cultura è rappresentato dal modo di porsi e dal modo di essere – modi evidentemente diversi secondo le diverse concezioni dell’uomo e della vita – allora la ricerca di questa

dimensione, la ricerca di questa omogeneità di base, la ricerca di questa convergenza attorno a valori autentici con significati certi e non equivoci, mette veramente le persone nella condizione di individuare mezzi, tempi e fini, e di conseguire insieme il fatto educativo attraverso una elaborazione attenta a quel concetto culturale specifico che comprende una visione coerente dell’uomo e della storia. Solo così potrà essere concretamente rispettato – e non mortificato – il pluralismo culturale e sociale; solo così la scuola in quanto istituzione agisce concretamente in una dimensione di promozione integrale della persona, la quale deve essere aiutata autenticamente a realizzarsi secondo una dimensione liberamente scelta.Ma se ciò risponde ad una autentica esigenza culturale ed educativa, e sottintende necessariamente scelte diverse circa il problema scuola come istituzione, come far capire ciò?Come creare opinione attorno a questo problema in una società disattenta? Come far intendere che concepire la scuola in modo diverso da quanto concepito sinora va a beneficio di tutti, della libertà di educazione di qualsiasi persona, anche di coloro che sono su una sponda opposta a quella cristiana? Come smuovere coloro che legiferano sulla scuola e come far loro capire che occorrono normative che abbiano come riferimento e fondamento la persona e non i partiti, come dimostrano anche le recenti “autoreferenze” parlamentari? Come combattere la non-volontà di operare in favore di una scuola “a misura d’uomo”? E quale il contributo specifico in promozione della scuola e di una sua rinnovata identità?

La scuola cattolica

Non è possibile tacere – anche se sarebbe colpevole generalizzare - che vi sono responsabilità anche da parte della “scuola cattolica”.La scuola cattolica ha certamente una funzione particolare e caratteristica che è al tempo stesso sia affermazione di libertà, sia evidenziazione di un diritto: libertà e diritto di proporre e di scegliere come educare e come educarsi secondo una dimensione culturale precisa e congeniale. Dimensione nella quale perseguire una crescita integrale autenticamente tesa a realizzare persone consapevoli e cristianamente convinte che sappiano coerentemente esprimersi negli ambiti di impegno esistenziale che ne consegue nella vita.Una funzione certamente importante – una istituzione di base, la scuola cattolica, che potenzialmente ha molto da dire e molto da dare in promozione del bene comune e perciò a beneficio dell’intera comunità civile – funzione in ordine alla quale deve essere riaffermato il pieno diritto al rispetto, suffragato non soltanto da un preciso dettato costituzionale (ancor oggi in termini programmatici sostanzialmente irrealizzati), ma anche e soprattutto dalla formulazione di una precisa domanda educativa da parte delle persone e delle famiglie alla quale deve corrispondere una altrettanto precisa risposta educativa.

I genitori e le famiglie che la scelgono, sanno, o comunque dovrebbero sapere, che la sua funzione dettata da un preciso pensiero pedagogico dietro il quale sta – o dovrebbe stare – una autentica concezione filosofica che ispira e decide principi, fini e processi dell’educazione. Una concezione specifica dell’uomo e della vita da cui scaturisce – o dovrebbe scaturire – una ben definita intenzionalità educativa e precise posizioni da cui esprimere giudizi, formulare ipotesi, suggerire approfondimenti, stilare programmi, attribuire significato ai fatti e alla realtà.Riconoscono e credono perciò nella scuola cattolica come istituzione che si specifica tale in quanto ciò che la definisce è il suo riferirsi alla vera concezione cristiana della

realtà, a quella concezione che ha Gesù Cristo – e non gli idoli del mondo – come centro unico ed insostituibile. Riconoscono e credono nella sua funzione educativa che trova origine nella intenzione pedagogica di attuare rapporti qualificati dalla fede, e attraverso la fede stessa, e di promuovere l’assunzione della realtà ed il giudizio su di essa.E tutto ciò in un contesto di pieno sviluppo della persona, che deve essere portata a riconoscere la sua vocazione e di conseguenza ad esprimerla con il suo apporto consapevole, critico e creativo alla realtà sociale in cui vive, come incremento e promozione della propria e dell’altrui identità: il tutto in un processo di attuazione concreta della sintesi tra cultura e fede, tra fede e vita.

Dinamismo disturbato da condizionamenti

Ma se questa è la scuola che si vuole e nella quale si crede, va pure evidenziato che il dinamismo con il quale vive e si sviluppa la scuola cattolica è disturbato – fortemente disturbato – da una serie di condizionamenti – alcuni esterni, ma anche interni alla scuola stessa – che pongono in ombra la sua funzione educativa e – in certo modo – ne vanificano l’originalità.E’ chiaro che la scuola cattolica suggella il suo diritto di esistere e la sua funzione educativa nella misura in cui si pone nella condizione di superare tutte le remore (condizionamenti: specificamente di carattere interno) evidenziate nei molteplici documenti ecclesiali, riacquistando una immagine corretta e riqualificante le sue intenzioni di essere strumento capace di rispondere all’esigenza di una educazione chiaramente ispirata.E se ciò è sostanziale, come sollecitare precise risposte alle legittime domande circa i principi informatori della scuola? Come spiegare la necessità di un esame e di una verifica dei momenti operativi di carattere educativo, formativo, gestionale e didattico cui come genitori e famiglie è doveroso partecipare responsabilmente? Come “proporre” all’interno della scuola senza irritare ma comunque con fermezza? Come poter operare nella scuola affinché sia veramente sé stessa e non invece una immagine riflessa della scuola statale? Come collaborare perché questa scuola, di fatto e non soltanto nelle intenzioni, proponga un progetto educativo unitario, giustamente articolato per classi e per settori e indirizzi, chiaramente alternativo a quello di altre esperienze scolastiche diversamente ispirate, e autenticamente ancorato ai principi cristiani? Come sollecitare una gestione dell’educazione in termini veramente comunitari e di corresponsabilità da parte di tutte le componenti, e quindi senza l’esclusione dei genitori e con il coinvolgimenti degli studenti? Come essere presenti associativamente nelle scuole cattoliche in modo che la presenza sia propositiva di un modo di essere che scalfisca il “perbenismo” ancor oggi esistente nelle nostre scuole, qual “perbenismo” che in ultima analisi mira a snaturare la scuola cattolica della sua prerogativa e della sua originalità vocazionale? E infine, come superare le insofferenze e le incomprensioni nei confronti dell’associazionismo (dell’Agesc per i genitori, nonché dei docenti e degli studenti) ancor oggi presente in molte scuole cattoliche ed in molti di coloro che la personalizzano, insofferenze ed incomprensioni che, di fatto, negano funzioni associative legittime all’interno dell’area educativa?

La comunità cristiana

Vi sono anche precise responsabilità imputabili alla comunità cristiana, essa stessa “comunità educante” che si esplica con una proposta chiara frutto di una esperienza viva.

Il diritto della persona e delle comunità alla libertà sociale e civile, è una esigenza forte che condiziona e verifica qualsiasi progetto educativo, qualsiasi progetto di convivenza umana, qualsiasi progetto di crescita nella fede religiosa.E’ un diritto, questo, del quale siamo tutti perfettamente coscienti, e che riconosciamo come prerogativa esclusiva della persona umana proprio in quanto persona. Ogni volta, perciò, che si negano e che si impediscono i diritti fondamentali della persona umana – di tutte le persone umane che rispettano l’ordine pubblico informato a giustizia – si vanifica qualsiasi discorso educativo, culturale, sociale e religioso. Perciò, proprio come comunità cristiana, vi sono delle precise responsabilità che non possono essere assolte da singole persone, da gruppi isolati, da questa o da quella organizzazione singolarmente, ma da tutta la comunità: la libertà deve essere promossa perché solo nella libertà è possibile un discorso educativo; e conseguentemente proprio perché solo nella libertà è possibile educare, vanno messe in atto tutte quelle azioni che possono creare le condizioni affinché questo discorso educativo venga fatto.E’ necessario che la comunità cristiana non solo enunci principi, occorre anche che operi concretamente individuando linee di intervento – intensificando iniziative pastorali di carattere educativo, familiare e scolastico da attivarsi nelle parrocchie e nelle associazioni/movimenti, ma anche iniziative di carattere socio-politico – che siano qualificanti e tese a dare credibilità ad un impegno troppo spesso sostenuto a parole e disatteso nei fatti.

Esistenza di condizioni sfavorevoli

Certo, le condizioni oggi sono abbastanza sfavorevoli anche perché come cattolici ci troviamo in una situazione di minoranza, tuttavia sembra indispensabile ricuperare – anche attraverso la consapevolezza di essere minoranza - condizioni ottimali con un impegno più attento e certamente più deciso in ordine all’educazione, e quindi all’educazione scolastica e alla sua libertà, riaffermando concretamente – non solo a parole, ma anche con i fatti – quel pluralismo culturale e scolastico mediante iniziative forti e coerenti tese comunque a risparmiare alla comunità italiana i pericolo di una scuola “neutrale” e la minaccia di una scuola “totalitaria”, priva cioè di quella libertà che solo una struttura pluralistica della scuola può garantire.Un compito urgente da assolvere senza complessi di inferiorità e senza inseguire i miraggi altrui, ma con la consapevolezza di esercitare un dovere-diritto che solo in un clima monopolistico-dittatoriale di natura ideologico-culturale supinamente accettato può essere sentito da chi lo esercita come poco corretto.E se oggi la comunità cristiana ha un compito improcrastinabile da assolvere nei confronti dell’educazione e della scuola, questo compito è di operare concretamente a beneficio e a servizio della persona e del suo diritto di essere responsabile dei suoi destini, e perciò del suo diritto di essere aiutata ad esercitare liberamente le scelte conseguenti.E se ciò è urgente e necessario, come nessuno penso abbia il coraggio di negare, come allora sollecitare, coinvolgere, responsabilizzare la comunità cristiana, spesso assente, insensibile ed insofferente nei riguardi di questo problema?

Una libertà da conquistare

La libertà di educazione resta una libertà da conquistare. E questa considerazione trova conferma e conforto in alcune righe di Ignazio Silone: “La libertà – egli scrisse in “Uscita di sicurezza”- non è una cosa che si possa ricevere in regalo. Si può vivere anche in paesi di dittatura ed essere liberi, a una condizione: basta lottare contro la

dittatura. L’uomo che pensa con la propria testa e conserva il suo cuore incorrotto, è libero. Per contro, si può vivere nel paese più democratico della terra, ma se si è interiormente pigri, ottusi, servili, non si è liberi; malgrado l’assenza di ogni coercizione violenta, si è schiavi. Non bisogna implorare la propria libertà dagli altri. La libertà bisogna prendersela, ognuno la porzione che può”.Un insegnamento profondo, chiaro, inequivocabile, che si congiunge, profeticamente, con quello del “pontefice pastore” Papa Giovanni Paolo I: “Mi auguro che certe parole penetrino nell’animo delle persone e diventino prima convinzione, poi decisione, e finalmente azione. Non basta, infatti, la libertà di educare; occorre educare alla libertà”.Con questo spirito, e con la volontà di corrispondere a tali aspettative, importante un esame di coscienza sulle proprie e sulle altrui responsabilità come premessa per tracciare insieme un cammino, indicare delle proposizioni, sottolineare delle scelte che richiedono una rinnovata consapevolezza ed una disponibilità più intensa all’impegno, alla partecipazione, al dialogo, al confronto, alla responsabilità operativa anche a livello associativo e comunitario. Vivendo la propria identità con apertura missionaria, interessati a tutto e in confronto e in dialogo con tutti.E’ solo a queste condizioni – mediante una soggettività ricostituita in ognuno di noi in nome di una appartenenza ecclesiale che è vita e non ideologia – che si può attivare una operatività comunitaria coerente, efficiente ed efficace.

Educare (e educarsi) è un compito e una responsabilitàche gli adulti hanno nei riguardi dei ragazzi e di se stessi.

Coinvolge l’impegno della famiglia, della scuola, dell’università,delle aggregazioni cattoliche e della comunità cristiana.

Da qui gli interventi a più voci in questo quaderno,non certo esaustivi della intera e complessa problematica, utili tuttavia per una riflessione personale e associativa.

Novembre 2014