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1 Danilo Agliardi 1915/18: LA GUERRA ATTRAVERSO I DIARI DI PIERLUIGI ALBINI Il personaggio Premessa Le lettere dei soldati I diari di Albini Che “tipo” era? Combattente ed inviato di guerra Patriota e romantico La morte che voleva Il suo messaggio Il memoriale e i diari Il memoriale Volontario in Montenegro Volontario in Francia Volontario in Italia La cattura La prigionia Prigioniero a Salisburgo La prigionia a Cellelager La prigionia degli ufficiali e quella dei soldati La vita a Cellelager Incontri culturali e musicali La seconda fuga fallita Il ritorno Finisce la guerra, ma non la prigionia 1

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Danilo Agliardi

1915/18: LA GUERRA ATTRAVERSO I DIARI DI

PIERLUIGI ALBINIIl personaggio

Premessa Le lettere dei soldati I diari di Albini Che “tipo” era? Combattente ed inviato di guerra Patriota e romantico La morte che voleva Il suo messaggio

Il memoriale e i diari Il memoriale Volontario in Montenegro Volontario in Francia Volontario in Italia La cattura

La prigionia Prigioniero a Salisburgo La prigionia a Cellelager La prigionia degli ufficiali e quella dei soldati La vita a Cellelager Incontri culturali e musicali La seconda fuga fallita

Il ritorno Finisce la guerra, ma non la prigionia … e il nostro Albini?

Il personaggio

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Premessa

In occasione del centenario della prima guerra mondiale abbiamo assistito ad un proliferare di lavori tendenti a far conoscere il contenuto delle lettere dei nostri soldati e, nei casi più fortunati, dei diari di guerra o di prigionia. Sono punti di vista privilegiati, che ci mostrano la realtà della guerra “vista dal di dentro” e non più attraverso i canali “ufficiali” che, per quasi un secolo, ci hanno dato una descrizione a senso unico.

Non pretendiamo di ribaltare il mondo: saremmo contenti se solo si mettesse, nei libri di storia, qualche testimonianza tratta dai diari o lettere di questi poveracci per i quali sembra non esserci posto né sui libri e, men che meno, nei pomposi discorsi di circostanza durante le cerimonie ufficiali.

Vediamo, allora, di avvicinarci all’altra storia, quella vissuta e sofferta dai protagonisti in prima linea.

Le lettere dei soldati

Ciò che traspare dalle lettere inviate dal fronte dai soldati è…la gran voglia di portare a casa la pelle. Sotto quella divisa c’erano uomini che non vedevano l’ora di tornare ai lavori dei campi per dare una mano alla famiglia. Molti nemmeno sapevano per chi e perché combattevano: il concetto di patria, per lo meno quella intesa nei discorsi ufficiali, era troppo lontano, se non evanescente. Per loro, spesso analfabeti, più che con la nazione, la patria coincideva coi confini del piccolo paese, delle loro contrade.

Il Verga già è stato maestro nel descrivere questa situazione nel suo capolavoro, i Malavoglia, e in molte delle sue novelle. Ricordiamo l’episodio della morte di Luca, nella battaglia navale di Lissa.

Per trovare ulteriori esempi di questo aspetto, rinviamo all’ottimo lavoro di Maurizio Abastanotti nel suo libro A chi dimanda di me.1 Si tratta di una raccolta di lettere scritte da soldati della Valsabbia e della zona di Gavardo, dalle quali traspare, oltre alle fatiche e alle paure, tutta la preoccupazione per le sorti della famiglia, del raccolto, dei prezzi di mercato dei prodotti…

Vediamone alcune, giusto per farcene un’idea.Leali Costantino, Puegnago: “…fatemi sapere come la campagna si dispone

specialmente per via delle viti e del grano turco se si diporta buone perché credo che questo autunno sia molto caro a quelli che lavranno da comprare. Mi farete il favore di parlarmi dei bossoli; qui questi contadini dicono che siano assai cari. Credo che li avrete messi via al bosco belli come gli altri anni…” 2

Lorandi Battista, di Lavenone, dà consigli alla sorella su come coltivare i campi: ”… di coltivare più bene che sia possibile i campi, non perdere tempo. Metti giù tutto fagioli e patate e semina tutto più presto che sia possibile… se potessi venire io solamente quindici giorni di questo mese vedresti che non baderia di lavorare neanche di notte…” 3

Insomma, detto tra noi: della guerra ne avrebbero fatto volentieri a meno e, a parte, forse, l’iniziale curiosità per cui pensavano di andare alla guerra come fosse un gioco, dopo aver visto che gioco invece non era, non vedevano l’ora di tornarsene a casa per riprendere il lavoro.1 Maurizio Abastanotti, A chi dimanda di me, liberedizioni, 2008.2 Idem, p. 91.3 idem, p. 97.

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I diari di Albini

Tutt’altro spirito nelle lettere e nei diari del ciliverghese Pierluigi Albini, volontario di guerra, aspirante ufficiale, figlio di un possidente, ma, ciononostante, poco interessato al lavoro dei campi.

Qui abbiamo un tipico esempio di volontario, figlio della cultura del primo ‘900.Pierluigi nasce a Ciliverghe nel 1880, in terza contrada, da famiglia benestante: gli

Albini detti Coela.Suo padre, il cav. Antonio, è stato sindaco del Comune di Ciliverghe dal 1909 al

1920. Forse anche prima del 1909, ma non abbiamo materiale d’archivio antecedente.4

Dimostra una buona cultura, sia pure asservita ai suoi ideali.Ammiratore di Dante (siamo nei primi del ‘900, ovvero in piena riscoperta del

poeta fatta soprattutto in chiave patriottica), pone ai suoi due figli i nomi di Dante e Beatrice. Vede nel poeta una guida e spesso, nei suoi diari, attinge versi dalla Commedia.

Anche se buona parte della sua vita è stata spesa lontana da casa, ama il suo paese. Era grande ammiratore di Garibaldi e solo per ragioni anagrafiche non è stato uno dei suoi volontari. Ama la Francia, che sente come una seconda patria (memore di San Martino e Solferino), odia l’Austria e, di riflesso, la Germania e c’è da pensare che non fosse molto contento della Triplice alleanza. Per fortuna, quando scoppia la prima guerra mondiale, l’Italia se ne sta neutrale il primo anno e poi opta per la Triplice Intesa.

Il suo spirito avventuriero lo porta, tra il 1912 e il 1919 a combattere, come volontario, dapprima in Montenegro, poi in Francia, quindi in Italia, dove sarà fatto prigioniero e confinato a Salisburgo, quindi nell’Hannover.

Che “tipo” era?

La risposta l’ha data una signora che, allora giovincella, l’ha conosciuto direttamente: “l’ira en tipo en po’ original”.

Nella risposta dialettale c’è dentro tutto.Era sicuramente un ciliverghese cui stavano stretti i confini del paese. La famiglia

apparteneva alla piccola borghesia terriera, probabilmente era uno dei pochi, a Ciliverghe, a leggere i giornali. Frequentando la scuola, ha custodito, quasi fossero reliquie, gli insegnamenti ricevuti durante l’ora di storia: la patria, la libertà, gli esempi tratti dai libri del tempo che avevano come fine, oltre all’insegnare a leggere scrivere e far di conto, quello di ”fare” gli Italiani, come diceva D’Azeglio.

Albini vive in un periodo di transizione, dove sempre più labile diventa il confine tra patria e nazionalismo, eroe romantico e superuomo, cavaliere senza macchia e senza paura e volontario di guerra pronto a lanciarsi laddove il Dovere chiamava.

Già, “il Dovere”. Una parola che può essere vestita con concetti assai diversi, per non dire

contraddittori. E lui, Albini, pesca un po’ dappertutto, in modo non sempre

4 Benché Comune da quasi due secoli (1755-1929) il materiale d’archivio esistente è ben poca cosa. Abbiamo periodi addirittura in cui non esistono documenti di alcun genere. Si racconta che buona parte del materiale sia stato, per protesta, bruciato dai Ciliverghesi, quando, nel 1929, il Comune fu soppresso e inglobato in quello di Mazzano.

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ordinato: c’è molto, in lui, di De Amicis, anche se non lo cita mai, preferendo rifarsi a Dante, Petrarca o Leopardi.

Ma c’è molto, anche, del don Chisciotte, che non vuole arrendersi nemmeno di fronte all’evidenza.

Partiamo, però, da due punti fermi: l’avversione all’Austria ed un patriottismo intriso di romanticismo.

Il primo punto era un sentimento assai diffuso tra la borghesia italiana e quella classe colta cui l’Albini apparteneva. L’avversione accrebbe ancor di più quando, nel 1882, l’Italia del Depretis e di Umberto I sottoscrisse con Austria e Germania la triplice alleanza.

Nell’agosto del 1914, quando per la seconda volta accorre volontario in Montenegro, che si era schierato con la Serbia contro l’Austria, scrive da Cettigne:

“…questa volta, se la guerra si farà, sarà uno sfacelo per l’Austria. Credo che nessun italiano si senta di aiutarla. La nostra alleanza è stata approvata dai governi passati e presenti, ma il popolo italiano non ne volle mai sapere.”

Per quanto riguarda il secondo punto, tutto si può dire sull’Albini, tranne che non fosse coerente con i suoi ideali di giustizia universale e quindi pronto a lanciarsi in difesa di chi era più debole. Vediamo, per sommi capi, le fasi principali della sua avventurosa vita.

Nel 1912 Montenegro, Serbia, Bulgaria e Grecia vogliono liberarsi della Turchia, approfittando del fatto che la stessa è impegnata, sul fronte mediterraneo, contro l’Italia nella guerra libica.

Alla notizia del conflitto, nasce in lui una spasmodica voglia di accorrere in Montenegro. Per due motivi. Il primo, perché il nemico del Montenegro era lo stesso nemico dell’Italia, ovvero la Turchia. Secondo, perché da questo piccolo paese proveniva la regina d’Italia, Elena, e sentiva per lo meno doveroso aiutare quel popolo. Parte in ottobre e vi rimane poco più di due mesi, fino a quando, in dicembre, i contendenti firmano un armistizio.

1914, scoppia la guerra mondiale. Prima accorre in Montenegro quando questo dichiara guerra all’Austria. Siamo alla fine di luglio. Poco dopo, però, lascia il Montenegro per accorrere in Francia, invasa dai Tedeschi. A fine agosto si trova già ad Avignone. È inviato al fronte, dalle parti di Verdun, e viene ferito.

1915, l’Italia entra in guerra. Per quanto ami la Francia, la patria… è sempre la patria e nell’autunno dello spesso anno è già al fronte. Viene catturato nel 1917 a seguito della disfatta di Caporetto.

Rinchiuso nella fortezza di Salisburgo, nell’aprile del 1918 tenta la fuga, ma è ripreso. Viene trasferito a Celle, nel nord della Germania. Anche da qui tenta la fuga, ma anche stavolta senza fortuna.

Rientra in Italia, a guerra conclusa, tra il dicembre del 1918 e il gennaio del 1919, ma la rielaborazione dei suoi appunti finisce il 4 novembre del 1918: nulla dice del suo rientro e dell’eventuale processo cui spesso erano soggetti i prigionieri al loro rientro.

Nel 1921 si sposa con Vincenza Calò e trova impiego presso una delle tante aziende marmifere dei dintorni. Simpatizza inizialmente per il “nuovo partito”, ma, nel 1941 lo troviamo …al confino. Giusto per mostrare la sua onestà e coerenza.

Combattente ed inviato di guerra

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Nei suoi diari ciò che colpisce è l’eleganza del linguaggio, l’attenzione con la quale descrive i luoghi dove combatte, ma non solo: di questi luoghi vuole conoscere la storia, parlare con la gente, descrivere gli usi e i costumi…

Del Montenegro, dei suoi luoghi, della sua gente ci dà una descrizione attenta, precisa. Ci descrive Cettigne, l’allora capitale, non trascurando alcun aspetto: dai vialoni, ai crocchi di persone per strada che fumano l’immancabile pipa.

Della Francia ci fa un puntuale resoconto del palazzo dei papi e dei paesini del nord vicini alla prima linea, non trascurando la descrizione della coltivazione della vite nella regione dello Champagne.

Di Salisburgo ci descrive la storia della città e della fortezza e, per fare ciò, non esita ad acquistare in una bottega all’interno della fortezza dei libri, in francese, che narrano la storia della città.

Dimostra una buona cultura classica (Dante e Petrarca soni i suoi autori preferiti e più citati), una non poca capacità di analisi della situazione storica del tempo ed è in possesso di nozioni di storia della musica, operistica compresa.

Insomma, i suoi diari hanno tutti i requisiti per essere considerati articoli scritti da un inviato di guerra.

Patriota e romantico Quando parla delle donne tutto è asservito all’ideale patrio. Nel diario di prigionia

racconta di alcune sue amicizie femminili secondo quello spirito romantico tipicamente ottocentesco.

“Come nel Montenegro ed in Francia, così in Italia ebbi il piacere di conoscere una donna, una brava e gentile signorina.

Di Rugizza, la sfortunata giovane montenegrina, non so cosa avvenne, gli austriaci già da tempo occupano la Czernagora!

Di Gisella Lefevre invece sono informato, ci teniamo in corrispondenza ed anche poco fa mi scrisse: “Je ne vous oublié pas, vous avez en moi un’amie, souvernez vous”.

Di questa mia nuova amica debbo dire un mondo di bene. Mentre tutta un’intensa opera di demoralizzazione infestava l’interno d’Italia ed anche la fronte con scritti che sembravano innocui, con discorsi che parevano avessero nessuna efficacia sull’animo di chi li udiva e persino nelle canzoni popolari che sembravano incitare ogni cittadino all’adempimento del proprio dovere, mentre in realtà contribuivano all’opposto, questa giovane adempì tutta un’ammirabile opera di incitamento e di conforto verso il soldato alla fronte, aiutandolo con scritti e con parole a sostenere le dure prove della guerra.

Oh, ve ne fossero molte in Italia di tali donne, ve ne fossero molte di queste benemerite persone così preziose alla Nazione!

A lei mi sono legato da riconoscente affetto e simpatia, per gli incoraggiamenti datimi prima di essere preso prigioniero e per le esortazioni e gli atti di carità che ancora ininterrottamente mi prodiga e che consolano alquanto l’animo afflitto”.

La morte che voleva

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Quando e come muore? Uno spirito tanto avventuriero non poteva certo morire, banalmente, nel suo letto!

Era il 25 Aprile del 1945 quando, in città, a Porta Venezia, si imbatte in una camionetta di tedeschi, ormai in ritirata. Probabilmente provocati dal nostro, rispondono con una raffica di mitra ferendolo gravemente. Portato in ospedale, morirà dopo pochi giorni.

Se non è stata una morte cercata, è certamente quella che avrebbe voluto.

Il suo messaggio

Lasciamolo alla sua penna.

“Sono partito non per spirito militare ma per tutto ciò che suona in antipatia, per rendere soccorso alle vittime, per appoggiare il buon diritto contro la forza bruta, da qualunque parte si riveli e questo sempre e ovunque. La collera e il dispetto contro tutto ciò che è prepotenza li concepii nelle aule scolastiche, osservando i monumenti che ornano la mia città, leggendo la nostra storia. È giunta l’ora di sbarazzare le nazioni e il mondo da coloro che lo inquietano e l’affaticano. Verranno deposte le armi, ma non l’idea né il pentimento e si veglierà acciò simili sciagure non si ripetano a danno dell’umanità”.

Idealista o no, giù il cappello!Anzi, per dirlo alla francese, la lingua della sua seconda patria, chapeau!

Albini in una foto inviata alla famiglia

Il memoriale e i Diari6

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Il memoriale

Presso l’Ateneo di Brescia sono depositati i suoi quattro diari e il memoriale.Partiamo dal fondo, da quest’ultimo. Il 4 Aprile 1941 scrive un memoriale indirizzato alle autorità politiche e militari di

Frigento e Gesualdo, due comuni in provincia di Avellino, dove l’Albini era stato confinato.

Cosa era successo?L’anno prima, nel 40, Mussolini dichiara guerra alla Francia (10 giugno) e Albini,

molto probabilmente, deve aver criticato la scelta.Albini era grande amico della Francia, vantava amicizie altolocate nel mondo

d’oltralpe e qualcuno che gli voleva bene avrà sentito e riferito alle autorità i suoi commenti.

Da qui, la misura del confino, per lui inaspettata, visto i suoi trascorsi meritevoli di ben altro.

Vedovo da pochi anni, non sa a chi affidare i due figli, Dante (nato nel 1922) e Beatrice (nata nel 1924): saranno cresciuti da amici di famiglia, i Massardi.

In un memoriale indirizzato alle autorità fasciste di Frigento e Gesualdo prima e al podestà di Nusco poi, ripercorre le tappe principali della vita ricordando le sue imprese.

E qui, davvero incontriamo un personaggio sui generis, sempre pronto ad accorrere ogniqualvolta ce ne fosse bisogno, buttandocisi a capofitto. Una specie di don Chisciotte.

Vigile del fuoco all’occorrenza, pronto soccorritore, volontario che si affianca alle forze dell’ordine per dar la caccia ai banditi, manifestante in occasione dell’annullamento della medaglia d’oro a Petri nella maratona di Londra, giustiziere nei confronti di alcuni commilitoni che, in trincea, si rifiutavano di andare al macello, giocatore di calcio nel Brescia…

…Fui tre volte volontario di guerra: nel Montenegro 1912; in Francia 1914-15, in Italia 1915-18.

… Quattro decorazioni al Valor militare, estere e nazionali, e una al valor civile ornano il mio petto. Quattro ferite: due in Francia e due in Italia. Sono invalido di guerra, subii la dura prigionia in Austria. Tutto ciò che asserisco è a base di documenti che posso produrre. Libri, diari di reduci, il complesso della storia della guerra mi citano. Ho scritto tre diari e quello di prigionia. I frammenti di questi vennero anche letti e commentati nelle aule scolastiche.

…Di conseguenza vengo a far parte di parecchie associazioni patriottiche:

Volontari, U.N.U.C.I., Nastro azzurro, Nastro tricolore al valor civile, Mutilati, Combattenti, Guardie di onore al Pantheon.

La mia città si onora del nome di due vie di patrioti bresciani: don Pietro Boifava e Nicostrato Castellini, garibaldino. Furono questi cugini di mia madre, ed io mi sono sentito orgoglioso di seguirne le orme.

…Da giovine, agile e robusto, fui uno dei primi giocatori di calcio. Dopo il mancato

premio da parte dell’Inghilterra a Dorando Petri per le Olimpiadi, io pure

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appartenni alla schiera dei settecento atleti che protestarono e condussi la Maratona.5

Durante la mia esistenza accorsi certamente a più di due dozzine d’incendi, e contribuii per lo spegnimento, tanto che venni definito per l’individuo che, ove si trovava, transitava la incolumità pubblica. In date diverse tolsi dal rogo, ove sarebbero perite combuste, due giovani esistenze.

Un dì trassi dai rottami di un camion capovolto, un disgraziato che ivi giaceva ferito. Un’altra volta fermai un cavallo in fuga. Coadiuvai sui monti bergamaschi nelle ricerche di un latitante sette volte omicida. Mi adoperai per comporre il gruppo bresciano fra i decorati al valor civile. Col figlio sono stato al capezzale del letto di feriti che avevano adempiuto ad atti di civico coraggio.

In Albania composi le croci, in Francia terminai di coprire le membra insepolte dei primi caduti della Marna, in Italia, sulle nevi del Monte Spil, trassi nella trincea gli alpini del 6° caduti in azione precedente. Così, per spirito di coerenza, nel mio paese nativo mi sentii in dovere di raccogliere i fondi per elevare a Ciliverghe un ricordo ai caduti.

Fui il primo italiano che, armato, coi montenegrini entrò in territorio austriaco, a Budwa, 12 agosto1914 (Adriatico) osservare la data!

Giunto in Italia nel 1915, ferito già una seconda volta, occultando la menomazione, mi arruolai volontario (ero di III categ. 1880) come lo dimostra lo stato di servizio mio, risultando così che continuai la guerra dal 1915 al 18 in Italia e non in Francia, contrariamente a quanto asserisce l’informatore, contrastando seriamente la verità e che così dà motivi ad interpretazione errata ed antipatica in riguardo alla mia condotta che fu di coerenza e distinzione sempre ammirata dai concittadini.

… Oltre avere tutelato il buon nome italiano all’estero, nell’interno tutelai la dignità dell’esercito. Infatti, sulla notte del 31 ottobre 1916 grida ostili ed insulti venivano rivolti al comandante del reggimento e bombe sui pezzi di artiglieria nell’oscurità. Colluttazione personale tra me ed un de’ colpevoli. Si intendeva ostacolare l’azione bellica che stava per iniziarsi. Il mio pronto intervento (ignorato sino in questo istante, poiché sono sempre un solitario), placò il fatto grave ed i colpevoli vennero all’alba passati alle armi. Verità che non avrei dovuto dire mai come Ufficiale, ma ora devo farlo di fronte allo sfacelo della mia famiglia.

Il giorno dopo in piena azione, il Signor Colonnello comandante, mi corse incontro e mi baciò .

5 Dorando Petri (1885-1942) è diventato celebre per la sua partecipazione alla maratona di Londra nel 1908. Solo al comando, cadde a pochi metri dal traguardo, un commissario lo aiutò ad alzarsi, ma questo gesto gli valse la squalifica. L’episodio fece il giro del mondo e destò scalpore. La regina lo premiò con una coppa speciale, mentre il giornale inglese, il Daily Mail, lanciò una sottoscrizione tra i suoi lettori raccogliendo 300 sterline. Tornato in Italia, la somma gli servì per l’apertura di una panetteria. Diventato famoso, veniva invitato in diverse città americane con un contratto per una serie di gare-esibizione accumulando una discreta fortuna. In tre anni di gare guadagnò oltre duecentomila lire, cui si aggiunse una diaria settimanale di 1250 lire che gli versava il suo agente. Bravo nella maratona, non fu però altrettanto bravo negli affari, a causa di investimenti sbagliati. A buon ragione, ancora oggi possiamo dire che diventò celebre…per non aver vinto.

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…Non appena congedato, raccolsi nel paese nativo i reduci della guerra, ne curai gli interessi , diedi forma con cerimonie significative, ad una delle prime sezioni dei combattenti e ne fui eletto presidente.

Nelle annate fosche, 1919-20, appartenni quale impiegato alla marmifera di Virle-Treponti.

Data la mia qualità combattentistica, ma soprattutto perché accudivo agli interessi dei reduci, ero malvisto dalle maestranze rosse che avevano perduto dei voti politici, ed io fui costretto a dimettermi dall’impiego.

In quegli anni era un fatto pericoloso far parte di cortei patriottici, ma io non vi mancai mai. E quando a Roma venne elevato il monumento al bersagliere Toti, e gettata una bomba lungo il corteo, protesta solitaria, scrissi subito di potere far parte del partito allora in gestazione.

Erano gli anni in cui si schiudevano le porte ai Misiano, ai disertori!6

Per onorare in occasione del centenario, 1921, la memoria del nostro maggiore Poeta, imposi ai figli, il nome di Dante e Beatrice: nomi patri.

….Protestai parecchio verso l’Autorità per l’incuria in cui si trovò il ricordo elevato

a Treponti a Giuseppe Garibaldi. Lo spiazzo è ancora insoluto ed alla colonna garibaldina non si riservò il posto più degno.

Vedovo, scelsi non a caso, quale ricovero alla figliola, il Tempio della Memoria, che custodisce i nomi dei Caduti della terra bresciana, ed è meta della passione dell’amore dei reduci.

A suo tempo consegnai metallo alla Direzione di Artiglieria, oro alla Patria, cimeli di guerra all’Ateneo e la mia defunta Moglie offrì l’anello nuziale.

Quale Ufficiale comandato fui di scorta armata al labaro del 7° bersaglieri a Treviso, il 18 giugno 1938.

Poi a Roma alla grande rivista delle Bandiere dei Reggimenti venni designato a comandare il battaglione delle bandiere di tutte le Sezioni dei Combattenti della Leonessa.

…La sua richiesta venne accolta e poté, dopo pochi mesi, rientrare dal confino.

6 Francesco Misiano (1884-1936), è meno noto rispetto a Petri, ma se diciamo che è stato il produttore e distributore della Corazzata Potemkin (o Potionski), allora tutti ci ricordiamo di questo film, non tanto per il suo valore, quanto per la battuta di Fantozzi in uno di suoi lavori più fortunati. Socialista, contrario all’entrata in guerra da parte dell’Italia, riparò in Svizzera per sfuggire all’arruolamento. Nel 1919 viene eletto in Parlamento, ma è costretto a dimettersi per salvare la pelle. Una trentina di deputati fascisti lo aggredirono e lo buttarono fuori da Montecitorio, dove lo attendevano degli squadristi romani. Lo imbrattarono di vernice e lo fecero sfilare in via del Corso a Roma con un cartello appeso, fra due ali di folla che lo presero a sputi. Pensando di riparare in un luogo sicuro, andò in Russia, dove gli fu affidato dal partito comunista l’incarico di fondare una casa di produzione cinematografica. Con l’avvento di Stalin, cadde in disgrazia ed evitò la Siberia solo perché morto poco prima dell’arresto. Fu presto dimenticato, sia in Unione sovietica, sia in Italia.

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1912 e 1914: volontario in Montenegro

Il 9 ottobre 1912 Albini apprende che il Montenegro ha dichiarato guerra alla Turchia.

Il giorno dopo è già in partenza, ma era da un po’ che covava il progetto. Sentiamo dalle sue parole.

Già da tempo intravvedevo la probabilità di un conflitto turco balcanico.La guerra italo-turca, da un anno principiata, e con tanto valore sostenuta e vinta

dal soldato italiano, incoraggiava i popoli balcanici a cogliere l’occasione propizia, mentre la Turchia era impegnata in Africa contro l’Italia, per scuotere il secolare giogo obbrobrioso.

Intanto maturava il mio progetto e lo assecondava. Esso mi pareva bello, quantunque la sua attuazione presentasse gravi ostacoli, primo tra gli altri l’amore dei Genitori, i quali negli ultimi giorni pareva avessero riconosciuto in me qualcosa di insolito, di strano. Infatti ero pensieroso, irrequieto, quasi triste.

Il mercoledì 9 ottobre (1912) apprendo che il Montenegro aveva dichiarato guerra alla Turchia.

Ebbi un sorriso di compiacenza, il sogno vagheggiato stava per avverarsi e tosto mi accinsi ad effettuarlo. Mi piacque molto il gesto del montanaro popolo montenegrino.

Bagaglio, treni, coincidenze, confine, passaporto, tutto ciò io aveva per la testa.Nella mente una folla di idee alle quali doveva immantinente dare attuazione.La sera stessa ero a Venezia ed il giorno dopo, sul treno Venezia-Trieste,

principia il mio diario, nel quale ho descritto giornalmente le varie vicende ed episodi della breve guerra svoltisi attorno a me.

Perché così legato al Montenegro? Per il semplice motivo che la regina d’Italia era Elena del Montenegro.

In cento volontari siamo venuti qui appositamente (Antivari, oggi Bar) per prendere i fucili Mauser tolti ai Turchi; così mi sono sgranchito, poiché in verità ci si stanca a stare sempre fermi. Ciascuno di noi deve portarne tre per dispensarli agli altri volontari rimasti sul posto. Mi meraviglio che ci siano pochi Italiani; anche solo per deferenza alla nostra Augusta Regina ne dovrebbero accorrere di più. Però col prolungarsi della guerra, se il governo italiano per ragioni politiche non porrà ostacoli, ne verranno altri.

Attraverso le bocche del Cattaro, arriva a Cettigne, allora la capitale.Vediamo la descrizione che ne fa.

È presto visitata Cettigne: attorniata da una catena di alti monti, rocciosi, ha le casette basse costruite ad un solo piano e dipinte con vivaci colori. Le finestre sono più di un metro alte dal suolo, le vie spaziose ed ordinate a settori, alcuni dei quali sono ornati da diritti filari di alberi che a loro volta spandono una quieta ombra sui marciapiedi.

Il palazzo del governo racchiude in sé tutti i ministeri, ma nulla ha di attraente. Belline invece le palazzine delle legazioni straniere, tutte attorniate da giardini: elegante quella d’Italia. Entrammo nel palazzo e salimmo agli appartamenti superiori. Qua non si fa anticamera, si picchia e si entra. Con una facilità straordinaria ho potuto parlare col Prefetto di Polizia, indi ho dovuto presentarmi al segretario degli Affari Esteri; questi mi mandò alla legazione italiana, da quella

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fui inviato al sottosegretario alla guerra e finalmente mi si consegnò un lasciapassare per Antivari, ove mi porterò domani e là mi armeranno come fanno cogli altri volontari, fra i quali so che vi sono parecchi italiani.

Qui nessuno resta, solamente si fermano il tempo necessario per le pratiche di presentazione. Nel momento attuale disimpegnano le funzioni dello Stato senatori, deputati, dottori, tutti vecchi venerandi.

Ovunque si è accolti con la massima cordialità. In ogni casa, appesa al muro, vi è l’effige dei sovrani del Montenegro, d’Italia e di Russia, più sotto il proclama del re Nicola, stampato dall’unica tipografia del regno.

Tutti parlano della nostra regina Elena, come fosse persona di loro famiglia, figlia o sorella.

Qui in Montenegro prende parte ad alcune azioni di guerra in una brigata composta soprattutto da volontari italiani.

La sua curiosità lo spinge ad osservare e descrivere le abitudini di quel popolo, la natura dei luoghi, la voglia ( e l’incoscienza) di vivere nuove avventure.

Più che un diario di guerra, sembra il resoconto di un inviato.Ecco uno scampolo di prosa, in cui risalta un’ottima capacità di osservazione e

descrizione.…veniva dal mare lontano un’aria nuova e fresca, profumata; c’era una luce

meravigliosa, un cielo limpido e profondo come non l’avevo mai visto, forse neppure in Lombardia.

Faccio una passeggiata al fiume poco discosto, nelle acque del quale mi rinfresco il viso. Si chiama Boiana ed ha un letto poco più largo dell’Adige a Verona…

…nel terreno mediocre è stato seminato il granoturco, un po’ di frumento è stato raccolto nel terreno buono; nei luoghi secchi sono coltivate le patate, le quali riescono molto zuccherine, epperciò sostanziose. Si vede qualche vite americana e pochissimi gelsi, delle zucche selvatiche che godono di arrampicarsi sugli arbusti, peri in grande quantità e lungo il fiume, ed in giro alla casa, delle piante da frutto: pesche, noci, fichi, una quantità straordinaria di melograni, ed infine delle piante da tabacco. Di questo vi è la coltivazione; ne erano colmi tutti i soffitti delle logge, come si suol fare in Valle Camonica per far dissecare il granoturco. Alle falde del monte crescono e si propagano le ginestre comuni, i biancospini, i pruni, i citisi nani, le vitalbe e tutta una pleiade di piccoli arbusti, tra i quali non raramente scorgonsi delle grosse tartarughe

…..Rimane in Montenegro poco meno di tre mesi.Alla fine del 1912 si arriva ad un armistizio tra le due parti e il nostro Albini,

l’otto dicembre, salpa per l’Italia.Nell’estate del 1914, però, vi ritorna. L’Austria dichiara guerra alla Serbia, dando

così inizio alla I guerra mondiale, il Montenegro si affianca ai Serbi e il nostro Albini, alla fine di luglio, è in Montenegro, a Cettigne.

Non vi rimane molto. Dopo nemmeno un mese il suo spirito avventuriero lo porta ad accorrere in Francia, appena invasa dai tedeschi.

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1914-15: volontario in Francia

Il 28 Agosto del ‘14 si trova ad Avignone, dove riceve, insieme ad altri volontari italiani, il necessario addestramento prima di essere inviato al fronte.

Come ogni angolo di Francia, la città è zeppa di soldati di ogni arma e di ogni età. È un mirabile spettacolo di compattezza, di stoicismo e salda fiducia. Tutti sono compresi dell’era tragica, tutti sanno che si deve attendere e soffrire senza strepito, senza millanteria.

Questa guerra opererà un miracolo. Da tanto sangue e da tanta rovina la nazione francese e le altre nazioni con essa trascinate nel conflitto, usciranno rafforzate moralmente. I cittadini saranno più pronti alle battaglie future, che non si faranno più con le armi, ma col cervello e col cuore.

Dopo questa mostruosa bufera di sangue, i popoli avranno ben acquistato il diritto alla pace e alla liberazione dall’insopportabile peso degli armamenti.

Agosto 31 (1914) - Quanta pioggia durante la marcia! Se fossimo stati ritorti a guisa di un lenzuolo estratto dal bucatone sarebbe colato un secchio d’acqua.

Eppure cantavamo, cioè cantavano gli altri, non so bene che cosa, ma me ne son fatto dare una copia.

La baionette arme de FranceVa chercher le coeur des herosMais les Prussiens, de preferenceSe la font entrer dans les dos

Si fanno le esercitazioni militari sulle sponde del Rodano. Io e molti altri, già equipaggiati, siamo costretti, prima di partire pel teatro della guerra, ad attendere che almeno un battaglione sia composto e ben istruito nella conoscenza degli ordini e nel maneggio delle armi.

Domandiamo quando andremo sulla linea del fuoco, ma ci viene risposto che abbiamo tempo e che la guerra non finirà tanto presto.

Ad ottobre, terminato il periodo delle esercitazioni, viene in inviato al fronte, sulla Marna. È una guerra di trincea, dura e pericolosa, e il nostro prende parte anche a sortite notturne.

…dal mio buco di osservazione scorgo a destra due macchine agricole ed una quindicina di morti che trovandosi tra noi e il nemico non possono essere sepolti.

All’una di questa notte fummo di soprassalto svegliati. Si diceva di dover avanzare e così tutta la notte abbiamo vegliato.

Continuamente guizzano sopra il capo i proiettili tedeschi. Fischiano come colpi decisi di uno scudiscio.

Mi si riferisce che alle 14 con altri debbo andare ad abbassare il livello della trincea a destra. Sto meglio oggi, non sento quasi più il dolore generale delle ossa.

Ferito ad una gamba, viene portato nelle retrovie per le prime cure e per la convalescenza.

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Avenay 17 dicembre - L’altro giorno abbiamo vuotato parecchie bottiglie di Champagne, gentilmente offertoci. Eravamo in ventitré, compresi gli infermieri seduti a rustiche tavole.

Intorno, letti da campo, negli angoli stampelle e bastoni: sui davanzali delle finestre, pagnotte, giornali, riviste regalateci. Alle pareti carte geografiche, il regolamento scolastico, il ritratto del Presidente della Repubblica che ci guarda bere un vino così prelibato in semplici ciotole di latta. Brindiamo alla salute della Francia, degli alleati, dell’Italia, dell’offerente nonché alla nostra.

Anche oggi rulla il tamburo. Tutti i giorni così. Chiedo e mi viene risposto essere il messo comunale che, per ordine del sindaco, avvisa il popolo di qualche nuovo decreto.

Nel 1915, però, l’Italia entra in guerra e il nostro non poteva perdere questa occasione. Chiede ed ottiene di essere congedato dall’esercito francese e si mette a disposizione dell’esercito italiano.

altra immagine di Albini

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1915- 17: volontario in Italia

Rientrato in Italia, si ferma qualche tempo a casa per smaltire i postumi della ferita patita in Francia. Dopodiché chiede di essere arruolato come volontario nel corpo dei bersaglieri e di essere addestrato per diventare ufficiale.

Villanuova (di san Daniele del Friuli) Settembre (1915) - Venni congedato dall’esercito di Francia , fu accolta la mia domanda e ritornai in Italia dopo quasi un anno a Ciliverghe. Per alcune settimane stetti in famiglia, indi mi arruolai nel 7° reggimento bersaglieri a Brescia.

Ma mi si fece camminare e correre troppo, la parte ferita si gonfiava e dovetti chiedere una nuova licenza di convalescenza che mi venne subito concessa. Però constatai che andando in bicicletta la parte malata non mi faceva male ed è perciò che più tardi, sapendo esservi stato richiesta di bersaglieri ciclisti che avrebbero dovuto passare al fronte, mi presentai di nuovo per essere aggregato a tale reparto.

Dopo qualche giorno mi trovai qui a Villanuova di San Daniele del Friuli, ove è accampato il 7° battaglione di bersaglieri ciclisti.

Appena giuntovi, i superiori vennero a conoscenza delle mie avventure, dimostrandosi lieti di ciò. Il comandante del battaglione, dopo soli otto giorni, mi promosse caporale; promozione questa che mi giunse grata quanto un elogio.

Anch’io però mi adoperai onde non farmi conoscere pigro, sebbene in verità tutte queste esercitazioni mi affatichino non poco.

Ora le mie note non apparterranno più al presente diario, ne scriverò probabilmente delle altre sopra un terzo, quello d’Italia.

Nel dicembre 1915 il nostro ottiene di partire per il fronte, sull’Isonzo, nella zona di Gradisca. Sempre in prima linea, sempre in imprese a rischio, ci dà una descrizione fin troppo realistica degli orrori della guerra.

Il 1916 è uno dei più duri per chi è al fronte. Il brano che segue ci descrive la tragica situazione dopo un attacco nemico con il gas.

…la quiete dopo la tempesta. Sono già passati i prigionieri, si trasportano i feriti, si seppelliscono i poveri morti.

Barbari, codardi! Per vendicarsi delle perdite subite ieri sera e per poter riconquistare il terreno perduto, approfittando dell’atmosfera quieta, stamattina presto, spinsero dense nubi di gas asfissiante e lacrimogeni sulle nostre linee. Sarebbe stato impossibile resistere, il momento era fatale per tutti se non avevamo le maschere e gli occhiali e chi per sfortuna fu sprovvisto, morì soffocato. Intanto noi ci contorcevamo sul terreno, brancolando con le mani in aria, altri scappavano sbottonandosi per poter avere fiato. Mancava il respiro e si tossiva, si tossiva forte, sembrava volesse uscire per la gola il cuore, il fegato, i polmoni. Degli occhi, uno sì l’altro non lacrimava perché si era rotto un vetro sugli occhiali. Ogni più piccola cosa di ottone diventò di colore verdastro. Così i bottoni del tascapane, della cinghia del fucile, del fodero della baionetta, le munizioni tutte, tutto diventò verderame. Le vesti, il viso, le mani ogni angolo puzzava di zolfo. Il pane non si poté mangiare, lo stomaco fu irritato, avvelenato….

Gli orrori della guerra cominciavano a farsi sentire. Per molti, invasati inizialmente dalla propaganda martellante, non doveva essere altro che un’avventura, una goliardata, e quando si ricredettero…era ormai troppo tardi.

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Anzi, più passava il tempo, più le situazioni peggioravano, più gente cercava di “tirarsi indietro” e più inflessibili le punizioni. A quei poveri cristi non rimanevano che due scelte: o andare avanti ed essere bersaglio del nemico, o fermarsi e farsi sparare alle spalle dai carabinieri, ai quali spettava questo compito.

E se non erano i carabinieri erano gli stessi ufficiali a provvedervi.Ne fa nota lo stesso Albini. Siamo a novembre e la battaglia è più che mai cruenta.

Alcuni soldati tentano di boicottare l’attacco al nemico, ritenuto troppo rischioso. Il nostro, aspirante ufficiale, descrive l’episodio come se fosse un incidente di percorso.

Dopo lo spiacevole atto adempiuto da alcuni sconsigliati, per colpa dei quali parecchi bersaglieri del battaglione dovettero per punizione e a sorte, essere fucilati, la notte si salì presto verso le trincee di riserva…

Probabilmente è lo stesso episodio ricordato nel memoriale, dove l’Albini si assume il merito di aver smascherato alcuni dei sovvertitori.

In quei giorni, viene nuovamente ferito. Trasportato nelle retrovie è poi ricoverato in un ospedale di Bologna dove viene operato. Per la convalescenza sarà spedito all’ospedale di Brescia.

Nel frattempo arriviamo nel 1917. Ripresosi dalla ferita, rientra nei ranghi, chiede ed ottiene di essere ammesso al corso per ufficiali e inviato a Casalecchio sul Reno per istruire le reclute del ’99.

La vita sedentaria, però, non faceva per lui, che è sempre più impaziente di partire per il fronte. E verrà accontentato.

1917: la cattura

Siamo nel 1917, il 25 novembre, alle Melette, località che si trova nell’Altopiano dei Sette comuni, dintorni di Asiago. Sono i giorni della disfatta di Caporetto.

Già l’anno precedente, a seguito della strafexpedition, l’esercito italiano dovette affrontare cruente battaglie per difendere questa zona. Ora a distanza di un anno, la stessa situazione.

Il 25 già eravamo nelle trincee di prima linea su una delle Melette di Gallio (Altipiano dei Sette Comuni) nei pressi di Asiago e qui venne a trovarmi il fratello Giovanni, allora promosso capitano 158° fanteria, al quale reggimento proprio il 6° aveva dato il cambio.

…Il 4 dicembre, alle sei circa del mattino si ode la prima cannonata, poi la

seconda, poi la terza i tiri si susseguono con frastuono assordante.La silenziosa placida notte fa posto all’inferno rosseggiante e furente. L’ombra

notturna e il fuoco degli shrapnells7 esplodenti tracciano bizzarri profili sulle nude pietre. Le detonazioni violente delle granate si fondono allo schianto sinistro dei massi in un frastuono orrendo, indescrivibile.

Alcune producono gas asfissiante e ben due volte ordino sia applicata la maschera al viso. I bersaglieri non se ne sono accorti.

Granate e shrapnells scoppiano sulla roccia viva……

7 Razzi, bombe a mano15

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Le artiglierie aprono brecce sanguinose. Due bersaglieri, Bonomini e Pacini, vengono mortalmente colpiti a cinque passi.

Pacini si trascina qualche poco e cade supino vicino a me. Ha tre piccoli strappi alla spalla sinistra, sotto l’ascella. La testa è tutta nera e bruciacchiata, l’occhio destro sprizza vitreo dall’orbita. Una pallottola si vede sotto la tempia destra sporgere cerulea come un pruno selvatico, il mento pure forato e sanguinante. Osservo gli occhi vitrei e stravolti divenuti colore del piombo, non vi è rimedio alcuno pel meschino che geme continuamente.

I bersaglieri si offrono per trasportarlo ma li dissuado. Si lamenta con voce fioca e chiede qualcosa nel contempo, ma non posso comprendere ciò che desidera. Mi approssimo ancora più per accogliere quel lamento, infine odo e questa volta ben distintamente: “un bacio!” Lo appoggio nel miglior modo possibile col dorso contro la roccia in maniera che sieda, ma il capo declina sulla spalla…. Poi nuovamente ripete “Sì, un bacio”.

“Un bacio?” dico io. Non risponde, ed io non oso profanare un istante così solenne, non voglio turbare l’ultimo suo pensiero rivolto certo alla famiglia lontana. Infine credo di interpretare questo suo vivo desiderio. Questi fu un buon bersagliere, dissi tra me, e rimase sul posto adempiendo al suo dovere. Mi curvo sulla sua spalla e sul capo insanguinato, lo osservo nel viso e lo bacio. Risollevatomi estremamente commosso, dico a lui ”è stato il tuo superiore che ti ha baciato!”

Non risponde nulla! I bersaglieri si erano voltati e silenziosi osservavano la scena pietosa. Dissi loro “state sempre all’erta e sparate!”.

L’altro, il bersagliere Bonomini, già era immobile, morto.Oh, quale morte!….Il giorno dopo, il 5, siamo stati nuovamente attaccati.…Alle 11 principia un altro attacco sempre dalla parte della vetta.L’artiglieria in quel momento taceva.Successe il panico e tutti precipitarono da ogni parte verso la valle. Tutto andava

perduto.Tento trattenere quanti posso, minaccio di sparare su di loro “Gli austriaci

scendono dalla Meletta!” mi sento gridare da ogni parte, un tenente fra loro compreso.

“Che vengano, li attendiamo qui noi!” grido loro “a chi osa passare brucio le cervella”

Ero folle per la collera e pel dispetto.Nessuno più intendeva la mia voce, gridavan tutti…sono sempre arrivato

comunque attraversando ostacoli e pericoli, sempre di mia volontà; avendo dovuto ubbidire, la fortuna non mi aiutò: dovetti umiliarmi e scendere…

Il nemico che trovavasi costernato per altre battaglie perdute, ha preso ora, dopo questi nostri disastri, il coraggio e l’ascendente della vittoria.

In generale l’istinto naturale porta a giudicare il nemico più forte di numero di quello che è realmente, invece, noi ci trovavamo più numerosi in questo fatto d’armi.

Bastava solo agire per disimpegnarsi.Lo stato d’animo alterato per tanta sciagura, il vociare ed una sassata prodotta

dallo scoppio di una granata, che mi ammaccò l’elmetto, produssero un forte dolore di capo. Senza più alcuna speranza di poter adunare i bersaglieri sbandati ovunque, stetti coi mitraglieri del 158° reggimento che tennero indietro per alcun

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tempo il nemico, il quale già trovavasi a mezza costa, precisamente più basso di dove mi trovavo io due ore prima.

Infine, sempre inseguito dalle cannonate nemiche, che battevano fortemente in valle e sulla strada di Foza, mi portai nella casa dove era prima il comando di reggimento con la speranza di trovare qualcuno che mi informasse di come stavano le cose. Erano scappati tutti, abbandonando tutto.

Il nostro cerca rifugio in una casa diroccata, ma viene circondato da un gruppo di austriaci ed è costretto ad arrendersi. Attraverso Larici, Monte Rover e Caldonazzo, viene trasferito nel castello di Trento. Da qui a Salisburgo.

Prigionieri italiani dopo Caporetto, in attesa di essere internati

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La prigionia

Prigioniero a Salisburgo e tentata fuga

Pierluigi Albini venne tradotto inizialmente a Salisburgo, nella fortezza che ancora oggi domina la città. Buona parte dello scritto riguardante la sua permanenza nella fortezza è dedicata alla storia della città.

Arriva nella fortezza alla vigilia di Natale. La prigionia, tutto sommato, non è così tragica: il problema più grosso è rappresentato dalla fame.

Per il resto, i prigionieri possono circolare liberamente nella cittadella e, per chi può, fare anche acquisti nei negozi.

Poi, in primavera, per l’esattezza il 4 aprile del 1918 tenta la fuga con alcuni compagni. Il gruppo viene ripreso subito, tranne l’Albini ed un suo compagno di Modena, che verranno ripresi dopo qualche giorno.

Dopo una notte percorsa in parte sotto la pioggia, giungemmo a Berchtesgaden di Baviera; il compagno era stremato dalla fatica, io avvilito.

Per ripararci dall’acqua che bagnava gli zaini e di conseguenza il pane, ci introducemmo in una casaccia che all’apparenza era abbandonata. Infatti non vi stava alcuna persona di dentro e si trovava in disordine, ma io diffidava e dissi che piuttosto d’entrare avrei preferito riposare di fuori. Lui insistette e così dovetti rimanere io pure, poiché l’allontanarsi equivaleva al non rivederci più. Però volli entrare in una vecchia cassa che avevo vista vuota, una di quelle casse lunghe e quadre che si usano per contenere biancheria ed altro; là dentro mi allungai ma dovetti rimanervi con le gambe piegate, essendo troppo corta. Venni coperto dall’amico con alcuni stracci raccolti negli angoli, poi calato il coperchio, sopra quello lui pure si stese e così rimasi chiuso come un morto dentro quella specie di sarcofago. Già si era fatto giorno; di fuori pioveva sempre, vicino alla spalla destra un tarlo rosicchiava lentamente il legno antico, però stanchi come si era ci addormentammo subito ugualmente.

La casa, posta vicino ad una cava di pietre, serviva da ripostiglio per arnesi da minatore ed attrezzi agricoli e noi ci trovavamo in una stanza che in tempi normali serviva di certo da cucina agli operai. Se fosse stato bel tempo, nessuno sarebbe venuto là dentro (in questo caso manco noi saremmo entrati) avendo altri lavori a cui accudire di fuori, ma il contadino che generalmente è previdente certe faccende le tiene sempre riservate per quando piove e non può uscire nei campi. Per questo motivo venimmo scoperti da uno di questi contadini. Venne scoperto il compagno, non io che svegliatomi stava dentro ascoltando e vedendo da una fessura quella scena invero interessante e che avrebbe fatto ridere chiunque non si fosse trovato nella…cassa.

Vennero altre persone, giunse più tardi anche un gendarme, l’amico fu condotto nel villaggio ed io rimasi sempre chiuso ed immobile come una mummia.

Ma più tardi, non sapendo più che fare là dentro, indispettito, avvilito e non volendo più da solo proseguire il viaggio perché privo di certi oggetti necessari, mi feci scorgere di fuori. Avvisato, salì un altro gendarme che impugnando l’arma, minacciò di volermi sparare se osavo tentare nuovamente di fuggire.

Così terminò quell’avventura disgraziata.

Un prigioniero che tenta l’evasione rischia la fucilazione. Al nostro andò bene, ma venne trasferito in Germania, esattamente a Celle, nel nord della nazione.

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Prigioniero a Celle

Cellelager era uno dei campi, forse il principale di quelli situati in Germania, destinato agli ufficiali prigionieri (non solo italiani: vi erano rinchiusi anche francesi, inglesi e russi). Era situato a nord-est di Hannover, nella regione della Bassa Sassonia, a due ore di ferrovia da Amburgo e Brema, nel mezzo di una pianura che più fonti descrivono come squallida, desolata e senza luce.

Gadda, ad esempio, parla di “clima umidissimo e insalubre, febbri malariche e reumatiche, di palude-steppa marina…Tempo freddissimo, oggi sembra fine gennaio di Milano e siamo in aprile. Umidità e freddo nelle ossa”.8

A partire dal dicembre 1917 vi vennero tradotti circa 1400 ufficiali italiani, provenienti per lo più da Rastatt, poi seguiti il mese successivo da 1300 aspiranti ufficiali da Crossen ed infine, a marzo, da 250 ulteriori ufficiali da Rastatt Complessivamente ospitò 3501 italiani, di cui 2921 ufficiali e 580 uomini di truppa.

La prigionia degli ufficiali e quella dei soldati

Erano due condizioni del tutto diverse. I primi, gli ufficiali, godevano di privilegi impensabili per il soldato semplice. Come loro, anche medici e preti. Vivevano in baracche in muratura, con veri letti, l’acqua calda e riscaldamento, per di più ricevono anche una paga. Non sono obbligati al lavoro, ricevono più facilmente i pacchi e addirittura i colonnelli avevano il loro attendente.

Tutt’altra situazione per i soldati semplici.Gli uomini sono racchiusi in baracche fatiscenti, al freddo, cibo scarso, e,

soprattutto costretti a lavori pesanti con turni massacranti.La mortalità dei soldati nei campi di prigionia raggiunge il 12 %, contro il 3 %

degli ufficiali.Altro tema scottante è quello dei dispersi. Lo stato maggiore italiano avrebbe

riconosciuto 49.000 morti nei campi di prigionia, ma i conti non tornano: ci sono da aggiungere i dispersi che sarebbero addirittura 37.000. Le morti durante la prigionia solo in minima parte dipendono dalle ferite di guerra: per lo più sono dovute a malattie, soprattutto tubercolosi ed edema da fame.

Questa situazione dipende non solo dalla “barbarie” del nemico austriaco o tedesco, come la propaganda ci voleva far credere, ma anche dalla scelta deliberata dello Stato italiano di non inviare gli aiuti necessari per il sostentamento.

Per la verità, le convenzioni internazionali prevedono che i prigionieri sono a carico dello Stato in cui si trovano, ma era pur vero che gli Imperi centrali, a causa del blocco, a malapena riuscivano a sfamare i propri cittadini e soldati.

Francia e Inghilterra furono le prime ad inviare pacchi ai loro soldati prigionieri.L’Italia, in particolar modo Cadorna, è inflessibile, riconoscendo nei prigionieri

non più i suoi soldati, ma i traditori.

La vita a Cellelager

I primi prigionieri italiani giunsero a Celle nel dicembre 1917. Il campo era diviso in quattro blocchi, formati da baracche mentre al centro

c’erano le cucine, i bagni e l’infermeria.

8 Gadda, Giornale di guerra e di prigionia19

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Una delle prime azioni cui dovevano sottostare i prigionieri era la perquisizione e la conversione di eventuali soldi in marchi “da campo”, da spendere nelle kantinen, che vendevano (quando c’erano) surrogati di liquori, saponette, matite e quaderni.

Il vero problema, però, era costituito dalla carenza di cibo. I soldati coniarono un nuovo termine per indicare il cibo principale: sbobba.

Si tratta di una specie di brodaglia, più acqua che brodo, arricchita con verdure: questo era il piatto tipico. Pacchi mandati dalle famiglie…nulla, almeno fino al marzo del 1918. Il ministro Sonnino impose la proibizione alle famiglie, alla CRI e a qualsiasi privato di inviare pacchi ai “vinti di Caporetto”.

Università e musica

Unica nota positiva è stata la facoltà, da parte dei tedeschi, di permettere incontri culturali tra i prigionieri: era un modo per non perdere la propria identità ed evadere idealmente da quel luogo. Grazie ai diari dei vari ufficiali, siamo in grado di conoscere il programma delle lezioni. Gli argomenti spaziavano un po’ dappertutto: dalla letteratura, all’apicoltura, alla storia, all’arte, alla medicina…

Assai diffusa, anche, la pratica della musica. Tra i prigionieri c’erano parecchi musicisti dilettanti e qualche professionista. Gli

strumenti li avevano recuperati mediante collette tra loro e furono organizzati parecchi concerti. Non mancavano poi baritoni e tenori: insomma, non eravamo alla Scala, però era tanta manna per passare il tempo. Addirittura qualche soldato tedesco chiede di far parte dell’orchestra.

Quella della musica non era solo una pratica presente a Celle, un po’ in tutti i campi di prigionia la musica era ammessa dalle autorità militari: da Mauthausen a Rastatt, da Katzenau a Mitterndorf…

Il secondo tentativo di fuga

Il 31 luglio Albini cerca di evadere dal campo di Cellelager. Questa volta prepara la fuga nei minimi dettagli. I prigionieri, quando uscivano dal campo, dovevano consegnare il tesserino, che

avrebbero poi ripreso al rientro. Il nostro aveva già programmato di evadere e, nei giorni precedenti, aveva nascosto nel bosco che circondava il campo uno zaino contenente un po’ di pane e dell’acqua.

Il 31 luglio, approfittando di un momento di confusione, esce senza consegnare il tesserino, cosicché il nostro risultava comunque presente alla sera.

La fuga dura fino al giorno 8 di agosto, quando, ormai esausto, decide di consegnarsi alle autorità della cittadina vicina. Viene di nuovo arrestato subendo un mese di carcere ad Hannover per venire poi trasferito a Wildeman.

Celle, grande festa per l’arrivo dei pacchi.

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Il ritorno

Finisce la guerra…ma non la prigionia

Nel novembre del ‘18 finisce la guerra e dal 20 dello stesso mese i prigionieri sono liberi di tornare. Sì, ma come?

Gli Austriaci li liberano subito (sarebbe il caso di dire che li abbandonano a se stessi) e i soldati sono allo sbando.

Assistiamo a colonne di soldati che, a piedi, raggiungono i confini della “patria” e a migliaia sono ammassati in centri di raccolta al confine, soprattutto nella zona di Trieste o di Vipiteno.

Proprio la restituzione immediata dei prigionieri italiani in Austria fu una delle cause per cui i detenuti di Celle (e di altri campi germanici) dovettero aspettare lunghi periodi di tempo, in certi casi fino al gennaio 1919, per poter rientrare in patria. I servizi di vigilanza austriaci infatti si affievolirono o cessarono subito dopo l’armistizio, complice lo sfacelo dell’Impero, e così torme immense di soldati si riversarono spontaneamente verso le frontiere, spesso a piedi o con mezzi di fortuna. Per evitare nuovamente tali ingorghi, e gestire nel frattempo i prigionieri già rientrati, fu l’Italia stessa che fece in modo di ritardare il rientro dei detenuti in Germania, accordandosi col governo tedesco affinché il loro ritorno avvenisse per scaglioni, dilazionato nel tempo.

Ma come venne vissuta, a Celle, la notizia delle fine della guerra?Inizialmente ci fu un’euforia generale, com’è facile comprendere. Poi, però di

fronte al passare del tempo gli animi cominciarono a perdere le speranze. A complicare le cose ci si mise anche la rivolta dei marinai tedeschi che, occupate le navi e i luoghi principali con bandiere rosse, resero ancor più difficile la situazione. Soltanto verso Natale iniziarono le prime partenze e gli ultimi lasciarono Celle a metà gennaio del 1919. Paradossalmente, la situazione era peggiore rispetto a quando erano prigionieri: qualcosa, prima, arrivava, ora...solo sbobba.

Per fortuna c’erano i pacchi per i soldati stranieri già rientrati. Fu grazie a quelli che molti sopravvissero.

Il primo blocco di prigionieri partì il 21 dicembre: erano 750 e furono scelti per sorteggio.

Il viaggio di ritorno seguì un itinerario tortuoso, sconfinando in Francia poi in Svizzera.

Il Governo italiano li abbandonò a se stessi.Nessuno li voleva...Diaz propose di inviarli in campi di concentramento in Libia, ma poi questa

ipotesi tramontò e si scelse di utilizzare i luoghi in cui erano stati tenuti prigionieri gli austriaci. Viene fatto obbligo a tutti coloro che rientravano di presentarsi anziché a casa, nei centri di raccolta più vicini per essere nuovamente… internati.

La maggior parte di questi centri si trovava in Emilia e in Toscana, soprattutto a Livorno.

Perché questo astio?I prigionieri erano considerati traditori veri e propri.D’Annunzio li definisce “imboscati d’oltralpe”. Chi tiene il diario di prigionia non manca di sottolineare, nel viaggio di ritorno,

l’accoglienza festante degli abitanti della Svizzera, in netto contrasto con quanto troveranno in Italia.

Ecco cosa scrive uno dei prigionieri.

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Page 22: … · Web viewErano gli anni in cui si schiudevano le porte ai Misiano, ai disertori! Francesco Misiano (1884-1936), è meno noto rispetto a Petri, ma se diciamo che è stato il

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Arriviamo a Basilea con le finestre tutte imbandierate…una compagnia schierata ci rende gli onori…nel salone della stazione tavole imbandite con signorine della CR che servono in tavola con cortesia…Alle porte dell’Italia, finalmente! Domodossola….un plotone di fanteria ci impedisce di scendere, mangiamo in piedi sul treno e si sente un “vigliacchi”.9

Un ulteriore affronto questi soldati dovettero subire con gli interrogatori. In sostanza dovettero ammettere che erano dei felloni, che erano stati fatti prigionieri per colpa loro e per mancanza di coraggio e, soprattutto, non dovevano emergere sentimenti critici verso le autorità, in primis quelle militari. Guai, poi, se emergevano sentimenti di vago sapore socialista…

La vicenda degli interrogatori dei prigionieri si concluse definitivamente il 2 settembre 1919, quando un’amnistia promossa dal nuovo governo Nitti (succeduto ad Orlando) scagionò buona parte degli accusati di diserzione, circa 40.000 dei 60.000 che erano detenuti e l’estinzione di 110.000 processi sui 160.000 in corso. Tale provvedimento venne attuato anche per stemperare il malcontento che gli ex detenuti nei campi stranieri avevano sviluppato verso le istituzioni. Venne inoltre completata la smobilitazione dell’esercito. Insieme all’amnistia cominciò un processo pubblico nei confronti della conduzione della guerra (e sull'opportunità della partecipazione ad essa): le colpe del Comando Supremo cominciarono così a venire a galla, mettendo però di conseguenza in ombra le, ormai secondarie, responsabilità di esso verso il caso dei prigionieri. Il riordino dell’assetto dell’esercito nel dopoguerra, una volta scaricate le colpe di Caporetto su Cadorna, venne comunque affidato a quegli stessi uomini che lo condussero in guerra, come Diaz, e perfino Badoglio, uscito immeritatamente indenne dalla Commissione, addirittura nominato Capo di stato maggiore dell’esercito.

Discutere a fondo e realisticamente la guerra, avrebbe voluto dire rischiare di arrivare ad una condanna della classe dirigente italiana.

…e il nostro Albini?

Dopo il tentativo di fuga nel mese di agosto, viene ripreso e punito con un mese di reclusione a Scheuen. Da qui, a Novembre, viene trasferito a Wildeman, nello stato di Oberharz.

Anche qui giunge la notizia della fine della guerra. Invano, però, cercheremmo parole di gioia per l’imminente (più o meno) ritorno in patria. Niente riferimenti alla famiglia, niente tensioni per tornare presto a casa, come viene annotato nei diari di molti suoi compagni di prigionia a Celle.

Ecco cosa annota sul suo diario.

“L’impero germanico non è più, il militarismo disfatto. È stata proclamata la repubblica.. siamo i vincitori.

L’Austria è in sfacelo, le truppe austro-tedesche, concluso l’armistizio, si debbono ritirare da tutti i fronti, il mondo stupefatto assiste ad avvenimenti straordinari che la storia non ha registrato mai. Sono contento oltre ogni dire, non mi sacrificai inutilmente ed osservo con compiacenza che i soldati d’Italia passano vincitori attraverso i luoghi dove ho combattuto parecchi anni orsono, in Albania e in Francia e penso che non più direbbe il Poeta:

“o patria mia vedo le mura e gli archi9 Dal diario di Angelo Rognoni in Anni-Perrucchetti, op. cit., p. 194

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e le colonne, ma la gloria non vedo”

e non più dimostrerebbe il rammarico perché

“in istranie contradepugnano i tuoi figlioli, Italia mia”.10

Segue disegno che riporta una penna con boccettini di inchiostro, con parola fine sullo sfondo e la data del calendario 1918, 4 Novembre.

Nessun riferimento all’attesa e all’ansia per il rientro, nessun accenno all’accoglienza in Italia, men che meno agli interrogatori cui sarà stato sottoposto al pari dei suoi commilitoni, con relative umiliazioni per essere stato prigioniero o, come diceva D’Annunzio, imboscato d’oltralpe.

D’altra parte, per uno spirito avventuriero e idealista come il nostro, i verbali degli interrogatori o le accuse di viltà per essersi arreso, avrebbero troppo stonato con i suoi ideali e non potevano, quindi, trovare spazio nei suoi diari.

Bibliografia

Rolando Anni e Carlo Perrucchetti, Voci e silenzi di prigionia Cellelager 1917/18, Cangemi editore, 2015

Maurizio Abastanotti, A chi dimanda di me, Liberedizioni, 2008Paolo Dentella, La Grande Guerra attraverso il diario di Fiorino Gheza,

Università degli Studi di Milano, a. a. 2015-2016

I diari di Pierluigi Albini sono depositati presso l’Ateneo di Brescia, in un apposito fondo. La loro trascrizione può essere letta cliccando sul sito…

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10 G. Leopardi, All’Italia23