© Sergio Luzzatto / Éditions Gallimard · valutazione delle loro critiche. ... pastore d’anime....

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Il testo che segue costituisce una versione leggermente modificata della «Postface» scritta da Sergio Luzzatto per la traduzione francese del suo libro: Partigia. Primo Levi, la Résistance et la mémoire (Gallimard, Paris 2016). Pubblicata da Mondadori nella primavera 2013, l’edizione originale di Partigia è stata ristampata in Oscar nel 2014. Oltreché in francese, è stata tradotta in spagnolo (Debate, Madrid 2015) e in inglese (Metropolitan Books, New York 2016). © Sergio Luzzatto / Éditions Gallimard

Transcript of © Sergio Luzzatto / Éditions Gallimard · valutazione delle loro critiche. ... pastore d’anime....

Il testo che segue costituisce una versione leggermente modificata della «Postface» scritta da

Sergio Luzzatto per la traduzione francese del suo libro: Partigia. Primo Levi, la Résistance et

la mémoire (Gallimard, Paris 2016).

Pubblicata da Mondadori nella primavera 2013, l’edizione originale di Partigia è stata

ristampata in Oscar nel 2014. Oltreché in francese, è stata tradotta in spagnolo (Debate,

Madrid 2015) e in inglese (Metropolitan Books, New York 2016).

© Sergio Luzzatto / Éditions Gallimard

Sergio Luzzatto

Ritorno su «Partigia»

1. Davanti al dolore degli altri.

Partigia è stato un libro fortunato. Ha incontrato in Italia una quantità di lettori,

un pubblico più largo di quello che un professore universitario normalmente può

attendersi. Ma di là dalla quantità, la fortuna di Partigia è venuta dalla qualità dei suoi

lettori. Non soltanto lettori per una ragione o per l’altra prevedibili, storici, giornalisti,

critici letterari, professionalmente interpellati dalla materia del volume: anche lettori

più sorprendenti, e – devo dire – più appassionanti. Magari dilettanti nel campo della

storiografia, o outsider sulla scena del dibattito culturale, o defilati parenti di

personaggi della storia. Comunque, spesso, lettori più acuti di quelli accreditati. E più

sensibili. Meglio capaci di cogliere, oltre i meriti del libro, i suoi veri difetti; e oltre i

difetti, i suoi veri limiti.

Durante i mesi seguiti all’uscita di Partigia è con questi lettori che ho tenuto a

dialogare. A dialogare mentalmente, cercando di non fare sconti a me stesso nella

valutazione delle loro critiche. E a dialogare in presa diretta. Andandoli a trovare, per

colli della valle d’Aosta o per colline dell’Astigiano e del Monferrato. Sedendomi in

salotti, cucine, tinelli. Ascoltando voci, sorseggiando caffè, guardando fotografie. Ma

anche, in certi casi (in certe case), trovandomi costretto sulla difensiva. Dovendo

rispondere a critiche che diventavano accuse. Facendo valere le mie ragioni di

professionista del passato contro le passioni dei miei dilettanteschi interlocutori,

eppure ricevendo da loro lezioni di altro genere. E finendo per avvertire con chiarezza

– una penosa chiarezza – il limite ultimo del mio lavoro di storico. Mai come nei mesi

durante i quali sono ripartito sulle tracce dei partigia del Col de Joux, ho misurato il

limite morale del mio lavoro intellettuale. Il carattere palliativo della storia nella cura

della memoria. L’inefficacia dell’archivio davanti a ricordi sanguinanti.

L’impossibilità in cui lo storico si trova di riparare al dolore degli altri.

In quei mesi dell’estate e dell’autunno 2013, ho voluto scavare ancora intorno a

quanto Primo Levi aveva evocato nel 1975 – in dodici ellittiche righe del Sistema

periodico – come il «segreto brutto»1: l’esecuzione sommaria di due giovanissimi

componenti della banda partigiana di Levi stesso, la messa a morte di Fulvio Oppezzo

e Luciano Zabaldano. Il cuore di tenebra del mio libro2. O l’«evento minimo», come

un critico laureato ha avuto l’improntitudine di qualificarlo3. Dimentico d’una

meravigliosa divagazione storico-letteraria di suo padre, l’ex capo partigiano Nuto

Revelli, intorno all’episodio misterioso e cruento dell’uccisione di un “tedesco buono”

2

per mano di combattenti della Resistenza, nel Cuneese del 1944 («mai come adesso è

la storia minuta l’unica che mi appassiona», confidava Revelli da vecchio)4. E

visibilmente ignaro, il critico laureato, di come proprio l’autore della confidenza sul

segreto brutto avesse il dono di cogliere la potenza del dettaglio5. Di come proprio

Levi fosse abile nel riconoscere e nel soppesare anche la più piccola dose di umana o

disumana materia dissolta nella massa molare del mondo. Un’arte che il giovane

chimico aveva applicato già negli inferi di Auschwitz, e di cui aveva fatto immediato

tesoro di ritorno fra i vivi. Tanto che l’intera narrazione di Se questo è un uomo

potrebbe essere letta, al limite, come niente più che un’implacata e implacabile

collezione di dettagli antropologici.

Sia esplorando gli archivi comunali di Saint-Vincent e di Brusson, sia

interrogando persone del luogo che non mi era stato possibile avvicinare prima della

pubblicazione di Partigia, poco o nulla ho scoperto che valga a correggere la mia

ricostruzione della condanna a morte dei due ragazzi. Sulla «collina» di Saint-Vincent,

gli anziani ancora in grado di condividere i loro ricordi dell’autunno 1943 non

riescono ad addebitare niente di grave all’uno o all’altro dei partigiani raccolti tra

l’albergo Ristoro di Amay e le baite di Frumy, al Col de Joux. O meglio, non riescono

ad addebitare loro niente di così grave da giustificare un’esecuzione capitale: ferma

restando la gravità di certe piccole vessazioni, nella vita quotidiana di montanari

stravolti dalla guerra e minacciati dall’indigenza. Prima di morire, la locandiera Maria

(«Tina») Varisellaz aveva l’abitudine di riferire, quale malefatta dei ribelli radunati

intorno al Ristoro, il furto di farina. In particolare, almeno una volta, di un intero sacco

di farina. E insisteva nel parlare di una mucca: una mucca macellata senza chiedere il

permesso6. Oggi, a discarico postumo di Oppezzo e Zabaldano, soprattutto valgono i

ricordi di Vanda Favre.

Maestra elementare in pensione, questa arzilla novantenne è la nipote di Tina

Varisellaz. Abita alle pendici della collina di Saint-Vincent, in un’antica casa della

frazione di Crotache. Là dove, tra l’estate e l’autunno ’43, le occorse spesso di

accogliere per conto della zia albergatrice – nei loro inquieti andirivieni tra pianura e

montagna – anche i Levi di Torino: Primo, Anna Maria e la madre Rina. In un giorno

di settembre del 2013, quando nella cucina-tinello le ho chiesto della morte dei due

ragazzi, Vanda Favre non mi ha lasciato neppure finire la domanda. Settant’anni dopo,

mi ha rovesciato addosso la sua versione del segreto brutto. «Teste matte. Così han

detto: “Qui si è alzato fuori un pasticcio per noi, per il villaggio, e tutti...” Così han

detto. Ora, io non ho visto, non posso... Insomma son cose che succedono, purtroppo.

[…] L’han fatto proprio perché non combinassero dei... dei guai. Perché... Mattoidi...

Non matti, ma così... esaltati. E allora han detto: “Qui cosa fa? Fa bruciare,

3

uccidere...”. Così han detto. Se l’han fatto l’han fatto solo per quel motivo, non per

altro motivo, sa. […] È che poi combinavano... chissà che cosa. Se venivano a saperlo,

andavano su e bruciavano, uccidevano tutto quel che trovavano, ‘sti disgraziati. E loro

son stati... li hanno soppressi. Per farli tacere, per non combinare... insomma. Cose che

purtroppo si fanno, neh? […] Cose brutte. Cose tristi. Eppure, eppure... quante volte

sopprimono delle persone perché non combinino guai maggiori. È per quello»7.

* * *

Anche sull’altro versante del Col de Joux, in val d’Ayas, gli ultimi testimoni

viventi dell’occupazione tedesca e della guerra civile nulla di grave sono in grado di

addebitare – credibilmente – a carico di Fulvio Oppezzo e di Luciano Zabaldano.

Qualunque cosa possano averne detto, dopo l’uscita del mio libro, alcuni critici che

incautamente si sono gettati sul più classico ragot de village: poche righe tratte da una

Petite Chronique di vita parrocchiale pubblicata nel 1970 dall’arciprete di Brusson,

don Adolphe Barmaverain.

L’arciprete valdostano ha evocato nella sua cronistoria il suicidio di una signora

viennese, «Mme Polkorny Elsa, 65 ans, de Vienne (Juive)», che il 17 dicembre 1943 si

sarebbe tolta la vita nella frazione di Fontaines, presso il centro di Brusson, dopo

essere stata minacciata e vessata da alcuni partigiani: «La voix courut que ces partisans

auraient été fusillés par leur chef venu à la connaissance de ces vexations...»8. Ai

critici più frettolosi di Partigia, questo appunto dell’arciprete è sembrato la prova che

la lettura storica da me suggerita del segreto brutto di Primo Levi – quella di una

sproporzione tra il delitto e la pena, tra le bravate ribellistiche di Oppezzo e Zabaldano

e la decisione di sopprimerli con il «metodo sovietico» – fosse manifestamente

smentita dai fatti. I partigiani del Col de Joux avevano ucciso i due ragazzi per un

ottimo motivo. Perché si erano resi colpevoli di molestie talmente gravi ai danni di

un’anziana profuga israelita, da spingere quest’ultima a porre fine ai suoi giorni9.

Se soltanto i miei critici si fossero dati la pena di leggere, oltre alle cinque righe

sulla morte di «Mme Polkorny Elsa», le tre pagine dedicate dalla Petite Chronique ai

venti mesi di occupazione tedesca e di guerra civile, si sarebbero accorti che la

cronistoria di don Barmaverain ridonda di formule analoghe a «la voix courut», e

altrettanto impalpabili, riguardo a questo o quell’abitante di Brusson travolto dalle

vicende della guerra mondiale: «l’on raconte», «l’on parle», «le public en conclut», «le

bruit courut», eccetera10. Sicché qualsiasi storico minimamente avvertito farà bene a

maneggiare le tre pagine dell’arciprete per niente di più né di meno di ciò che sono:

una raccolta dei rumors che i drammatici eventi del 1943-45 poterono alimentare in

4

una lacerata comunità di villaggio, e che facilmente pervennero all’orecchio di un

pastore d’anime. Il che non significa – peraltro – che l’intero contenuto della

cronistoria sia da respingere come campato in aria.

È del tutto plausibile l’esistenza di un nesso diretto fra le vicende della banda

partigiana di Casale Monferrato e la famiglia Revil, presso cui alloggiava la signora

ebrea originaria di Vienna. La padrona di casa, Cecilia Revil, gestiva infatti nella

frazione di Arcesaz l’osteria dei Tre Cavalli, che serviva da base operativa dei casalesi

e che fu militarmente investita dal rastrellamento nazifascista del 13 dicembre 1943.

Assai meno plausibile l’ipotesi di un nesso diretto fra il suicidio della signora viennese

e l’esecuzione dei due giovani partigiani. Non foss’altro, perché numerose fonti

archivistiche indicano nel 9 dicembre 1943 il giorno in cui Oppezzo e Zabaldano

vennero giustiziati dai compagni della banda. Mentre lo stesso don Barmaverain indica

nel 17 dicembre il giorno in cui «Mme Polkorny Elsa» fu trovata cadavere in casa

Revil, e la data risulta ufficialmente confermata dai registri mortuari del comune di

Brusson11. Se queste furono le date, cosa pensare dell’ipotesi che i due ragazzi siano

stati fucilati – per punizione dei soprusi da loro compiuti – otto giorni prima che la

signora ebrea si togliesse la vita?

Inquilina in casa Revil, «Mme Polkorny Elsa» si chiamava in realtà Elsa

Pokorny. E attraverso di lei, era il fatale destino novecentesco della Mitteleuropa

ebraica a penetrare fra le case in pietra di Brusson sotto l’aspetto di un’anziana signora

distinta quanto silenziosa. Nata a Vienna nel 1878, Elsa Pokorny era boema per parte

di padre, slovacca per parte di madre; d’origini galiziane era il marito, l’avvocato

Leopold Amster12, da cui aveva avuto due figlie e di cui era rimasta vedova nel 1932.

Dopo l’annessione dell’Austria al Reich hitleriano, la signora Pokorny aveva giudicato

prudente lasciare Vienna per l’Italia, fosse pure l’Italia di Mussolini e poi delle leggi

razziali13: era andata ad abitare presso la figlia primogenita, sposata con un italiano

non ebreo residente ad Arona, sulle rive del lago Maggiore. E dopo l’8 settembre

1943, la signora viennese si era ritrovata a Brusson come per il forzoso prolungamento

autunnale di una villeggiatura cominciata in estate con la figlia e le due nipotine14.

Nel frattempo, i suoi parenti impossibilitati a fuggire dall’Austria (vari fratelli e

sorelle avevano fatto in tempo a emigrare in America) erano stati puntualmente

raggiunti dagli effetti dello zelo di Adolf Eichmann, apripista della Soluzione finale

nella Vienna del 1938-39, e dei burocrati nazisti cresciuti alla scuola di Eichmann15.

Una sorella di Elsa, Helene Pokorny, vedova di un dottor Rudolf Hatschek già medico

di buona fama nell’Austria Felix di inizio secolo16, era stata arrestata nel giugno 1942

insieme con il figlio minore, Wilhelm: deportati entrambi nel campo di

concentramento di Maly Trostinec, in Bielorussia, erano stati sterminati all’arrivo con

5

gli altri mille «pezzi» del «trasporto n. 24»17. Quanto al cognato di Elsa Pokorny, il

dottor Hatschek, era morto probabilmente suicida (come centinaia e centinaia di

israeliti viennesi degli anni trenta) nell’agosto 1939, cioè al precipitare delle cose

verso la seconda guerra mondiale e la distruzione degli ebrei d’Europa18.

La figlia e le due nipotine di Elsa Pokorny erano rimaste con lei a Brusson fino

agli ultimi giorni di settembre del ’43. Per l’inizio dell’anno scolastico avevano fatto

ritorno sul lago Maggiore, ma riuscendo comunque a mantenere i contatti con la val

d’Ayas. Ancora a metà novembre, scrivendo alla figlia, la signora Pokorny non si era

mostrata più che tanto inquieta per il proprio avvenire. Aveva indugiato nel riferirle di

piccole questioni domestiche, la stufa, la legna, e aveva concluso la lettera pregando di

farle avere un paio di guanti di lana grossa19. Per qualche settimana ancora i vicini

della frazione di Fontaines avevano visto la signora straniera uscire di casa, ogni

mattina, per fare la spesa poco lontano, nel centro di Brusson20. Un garbato cenno di

saluto con la testa, niente più. La situazione dovette precipitare dopo il 1° dicembre:

cioè dopo che da Salò fu emanato l’ordine di polizia n. 5, che prescriveva l’arresto e la

deportazione di tutti gli ebrei italiani o stranieri presenti sul territorio della Repubblica

sociale.

Può darsi fra il 1° e il 9 dicembre alcuni partigiani della banda di Arcesaz

abbiano preso di mira la «tedesca» che alloggiava in casa Revil, che non sapeva una

parola di italiano, e che gli squattrinati ribelli potevano immaginare danarosa. Ma è

improbabile che tra questi si trovassero Oppezzo e Zabaldano (lo esclude un abitante

di Arcesaz con la passione per la storia, Renzo Brochet, la cui famiglia prestava allora

assistenza sia ai partigiani casalesi stanziati al castello di Graines, sia a ebrei stranieri

nascosti tra le varie frazioni di Brusson: «non l’hanno mai vista in faccia»21). Di

sicuro, il 9 dicembre i due giovani furono giustiziati dai compagni della banda presso

le baite di Frumy: secondo le carte d’archivio del 1943-44, perché il giorno prima a

Saint-Vincent avevano compiuto un colpo troppo azzardato, perché parlavano o

straparlavano di comunismo, perché minacciavano di scappare e di tradire. Seguì, il 13

dicembre, il rastrellamento nazifascista che scompaginò la banda dei casalesi, provocò

la cattura di Primo Levi, Luciana Nissim e Vanda Maestro, costrinse altri ebrei

nascosti in val d’Ayas a un periglioso fuggi fuggi nelle nevi.

Elsa Pokorny non resse all’accelerazione degli eventi. Né trovò la forza per

attendere l’aiuto dei familiari. Partito da Arona con l’intenzione di riportarla in

pianura, il marito della figlia raggiunse Brusson il giorno stesso del suicidio22. Le

comunicazioni erano difficili, la suocera morì ignorando che l’arrivo del genero fosse

questione di ore. Oggi, una vicina di Fontaines ricorda che il giorno prima di

impiccarsi – nottetempo, accanto alla finestra lungo il ballatoio – la signora straniera

6

era rientrata dalla spesa con una bottiglia di vino. «Forse per trovare il coraggio di fare

quello che ha fatto»23.

* * *

Bisogna avere capito poco di Primo Levi, e in particolare della lacerante sua

riflessione intorno alla «zona grigia», per credere che – quando pure si dimostrasse che

Fulvio Oppezzo e Luciano Zabaldano furono uccisi dai compagni del Col de Joux per

ottimi motivi, cioè per autentici crimini – allora l’intera faccenda del segreto brutto

sarebbe (per così dire) felicemente risolta. Allora il segreto brutto non sarebbe poi così

brutto, e l’«evento minimo» andrebbe consegnato unicamente allo sterile scandalismo

di un «libro irrisolto» come il mio Partigia24. Come se il vero problema di Primo Levi,

il vero dramma della sua riflessione sulla zona grigia, non fosse proprio ed esattamente

questo: quello per cui, nel microcosmo della Banda altrettanto che nel reticolato del

Campo, anche i “giusti” furono indotti a esercitare forme di prevaricazione e di

violenza che li hanno corrotti, rimpiccioliti, mortificati per sempre25. Lo stingere del

male anche sui fratelli umani non maligni, il disastro per cui i colpevoli sporcano gli

innocenti.

Colpevoli, Oppezzo e Zabaldano, di peggio che del furto di qualche sacco di

farina, della macellazione non autorizzata di una mucca, della minaccia ai compagni di

sparare, fuggire, denunciarli, nel caso volessero trattenerli dal praticare una Resistenza

pura e dura? Sia le fonti d’epoca, sia le fonti orali restano avare di elementi a loro

carico. E tuttavia io continuo a interrogarmi sulle motivazioni di una scelta – la

condanna a morte dei due ragazzi – che alcuni anni più tardi, nella poesia Epigrafe,

Levi avrebbe descritto come eseguita dai partigiani del Col de Joux a ciglio asciutto,

per «non lieve colpa» dei condannati26. E che decenni più tardi, dalla sua carrozzina di

novantenne, l’avvocato Aldo Piacenza mi avrebbe presentato come la punizione

inevitabile per due giovani che avevano «deragliato moralmente»27. Certo, la sostanza

etica del segreto brutto non va ricercata nell’enigma giudiziario. Eppure, da storico

della minuscola banda di Primo Levi, di questo enigma io non riesco a liberarmi del

tutto.

Tanto meno ci riesco, avendo trovato dopo la pubblicazione di Partigia –

nell’archivio comunale di Saint-Vincent – un fascicolo di carte risalenti all’estate-

autunno 1945, e riguardanti le procedure d’esumazione delle salme di Oppezzo e

Zabaldano dalla loro sepoltura improvvisata al Col de Joux. Sono documenti che

confermano l’impegno della sorella maggiore di Luciano, Albina, nel tentativo di

elucidare le circostanze della morte dei due ragazzi28: un suo insistente bussare alle

7

porte dei partigiani locali, in particolare del «cap. Thuegaz», ma anche alla porta del

«dott. Bachi», a Torino, e attraverso di loro alla porta dell’«ing. Grasso», ancora a

Torino, e a quella di Aldo Piacenza, fino alla scoperta della tragica verità29. Ma sono

documenti che inficiano la versione dei fatti propinata dallo stesso Piacenza ai

poliziotti di Salò, nel gennaio 1944, quando era stato interrogato sull’uccisione recente

dei due «gregari». Smentiscono il racconto sul partigiano «Berto» che con una scusa

avrebbe fatto allontanare i due giovani dalla baita di Frumy, li avrebbe fatti

incamminare nella neve per 100 o 150 metri, li avrebbe uccisi con una raffica di mitra

Beretta30.

Nella nuda eloquenza del gergo medico-legale, i verbali di esumazione di

Oppezzo e di Zabaldano configurano circostanze di messa a morte più crudeli ancora

di queste. In base a quanto riscontrato sui resti delle vittime, il verbale relativo a

Zabaldano specifica – nello spazio riservato alle «cause del decesso» – «2 colpi di

pistola ‘89», quello relativo a Oppezzo «un colpo di pistola mod. ’34 parietale destro

occipitale»31. Io non sono affatto esperto di armi, né di balistica, né di medicina legale.

Un veloce riscontro su internet mi è comunque bastato per identificare la prima delle

due pistole come una Bodeo modello 1889, rivoltella d’ordinanza in dotazione per

decenni alle forze armate italiane, la seconda come la leggendaria Beretta M34, pistola

semiautomatica adottata dal Regio Esercito quale arma corta d’ordinanza a partire dal

1936, e particolarmente diffusa tra i corpi combattenti durante la seconda guerra

mondiale. Quanto alle modalità d’impiego di tali armi nell’uccisione dei due

partigiani, almeno nel caso di Oppezzo sembra evidente essersi trattato di un colpo di

pistola alla tempia.

L’utilizzo di due armi diverse autorizza a supporre (senza alcuna certezza) che

gli esecutori materiali della sentenza siano stati due. In ogni caso, colui o coloro che

premettero il grilletto dovevano avere sufficiente esperienza militare per reggere alla

prova consistente nel freddare a bruciapelo un ragazzo di diciott’anni e uno di

diciassette (e nel freddarli, forse, mentre dormivano: come viene freddato il partigiano

Fedja di Se non ora, quando?32). Dopodiché, è chiaro, una condanna a morte eseguita

con tale brutalità spinge a chiedersi, una volta di più, di quali crimini Oppezzo e

Zabaldano potessero essersi macchiati per meritare una simile fine. E nell’assenza di

pesanti capi d’accusa provenienti dal microcosmo valdostano, dagli abitanti di Amay o

di Saint-Vincent o di Brusson, bisogna pur domandarsi se i due ragazzi non avessero

compiuto qualcosa di particolarmente lesivo ai danni della minuscola comunità

rappresentata dai “torinesi”: dai partigiani e dai profughi, per lo più israeliti, radunati

intorno al Ristoro di Amay. Estorsioni a danno dell’uno o dell’altro ebreo, percepito

ipso facto come benestante? Vessazioni a danno delle due giovani donne, Luciana

8

Nissim e Vanda Maestro? In mancanza di qualsiasi prova documentale, la fantasia di

ciascuno può scatenarsi liberamente.

Sono fantasie che ripugnano ad Albina Zabaldano: la sorella di Luciano, oggi

ultranovantenne, che dopo l’uscita di Partigia insieme con i familiari ha scritto al

quotidiano di Torino, «La Stampa», per contestare le «calunnie» all’indirizzo del

fratello ucciso. Le calunnie degli storici, ma prima ancora le calunnie degli ex

partigiani del Col de Joux, altrettanti «testimoni bugiardi» del segreto brutto. E la

sorella di Luciano si è domandata – non senza alludere al Sistema periodico di Primo

Levi, alle dodici righe sul segreto brutto – «quale loro vergogna dovevano coprire con

questa esecuzione». «Quelli che si sentivano minacciati erano tutti più anziani, con una

laurea in tasca. Sarebbe bastata una ramanzina, fatta ai due ragazzini, da gente

culturalmente preparata (Luciano aveva solo la licenza elementare) per rimetterli in

riga. Invece si è scelta l’eliminazione». «Questi individui saliti in montagna per fare i

patrioti non hanno mai disturbato i fascisti, si sono limitati a rintanarsi (magari in un

albergo) e con gli unici colpi sparati hanno tolto la vita a due poveri ragazzi. Bella

vigliaccata! Altro che “coscienza”!»33.

Giudizio terribile, che Albina Zabaldano già aveva pronunciato – più o meno

identico – in un’udienza a tu per tu alla quale mi aveva convocato pochi giorni prima,

a casa sua, nell’Astigiano. Ci ero andato con Davide, suo nipote: il mio amico gestore

del Bar Franco, nel quartiere torinese di Sassi34. E avevo ammirato la «zia Bina». Pur

rimpiangendo la durezza delle critiche che mi aveva rivolto, e pur sapendo come la sua

verità sul segreto brutto non valesse necessariamente di più che quella dell’uno o

dell’altro personaggio coinvolto nel dramma, ero rimasto colpito dalla fermezza, dalla

lucidità, dalla moralità di una donna visibilmente comune per condizione sociale, ma

visibilmente eccezionale per tempra intellettuale. Raccolti in una vetrinetta del salotto,

i libri di casa (quasi tutti libri Einaudi) avevano fatto il resto per illustrare al mio

sguardo la singolarità di un percorso esistenziale che aveva trasformato la

«diciassettenne dattilografa, volenterosa, presenza», di cui avevo rinvenuto un’offerta

d’impiego sulla «Stampa» del 10 marzo 194235, nella severa signora con i capelli

bianchi che mi accusava, adesso, di non avere capito nulla di suo fratello Luciano.

Più che tutto mi avevano colpito le sue parole su Primo Levi. Il suo racconto di

diverse occasioni in cui lo aveva cercato, incontrato, interrogato. Una prima volta

nell’autunno del 1946, all’indomani del ritorno di Levi dalla deportazione ad

Auschwitz. Poi – numerose altre volte – durante gli anni sessanta e settanta: quando

Primo Levi era ormai Primo Levi, mentre la diciassettenne dattilografa aveva trovato

ormai da tempo un impiego presso la casa editrice Einaudi, ma non aveva smesso di

arrovellarsi intorno alla tragica morte del fratello partigiano. Sulle circostanze di tali

9

incontri, e sui dialoghi allora intercorsi tra il famoso chimico-scrittore e l’anonima

impiegata, Albina Zabaldano mi ha chiesto di mantenere il riserbo. Qui, io non posso

dunque che rispettare la sua volontà. Mi accontento di dire una cosa sola. Dopo avere

ascoltato il racconto della zia Bina, sono convinto che il segreto brutto abbia gravato

sulle spalle di Primo Levi più ancora di quanto avessi immaginato quando scrivevo

Partigia.

* * *

Tra le molte cose che i critici laureati del mio libro non sono riusciti a capire, è

l’assoluta centralità della figura di Edilio Cagni: la spia nazifascista che nel dicembre

’43 infiltrò la banda partigiana dei casalesi e ne provocò la caduta36. I critici laureati si

sono affannati a denunciare – da guardiani del faro Resistenza, o del monumento

Primo Levi – le tendenze “revisionistiche” di Partigia, che a sentir loro fanno di me un

parente povero dell’indiscusso capostipite del revisionismo italiano, Giampaolo Pansa.

E non hanno capito (o non hanno voluto capire) che non poteva essere revisionistico,

né per intenzioni né per implicazioni, un libro che faceva perno intorno a Cagni. Un

libro che sottraeva la storia della Resistenza alla sua cronologia scolastica, 1943-45, e

che attraverso il romanzo criminale del collaborazionista di Salò prontamente

condannato a morte da una Corte d’assise straordinaria, ma altrettanto prontamente

riciclato in collaboratore dei servizi segreti americani, e sollecitamente graziato già nel

1950, illustrava semmai il venir meno della Repubblica “nata dalla Resistenza”

all’impegno di giustizia retributiva assunto sulle tombe dei caduti partigiani.

Dopo la pubblicazione del libro, non ho resistito alla tentazione di scoprire

qualcosa sulla seconda vita di Edilio Cagni. Sebbene avessi scritto che trovavo

storiograficamente più corretto – e anche, in fondo, letterariamente più credibile –

fermare la mia ricerca all’anno 1956, quando Cagni era entrato e uscito dal monitor di

poliziotti svizzeri per una presunta sua connection con il tesoro di Mussolini37, non ho

resistito alla tentazione di compiere alcune indagini supplementari: invincibilmente

curioso, a conti fatti, delle sorti di colui che Primo Levi aveva qualificato come la

«spia integrale», il prototipo novecentesco del cacciatore di prede umane38. Senza

condurre una ricerca vera e propria, ho fatto quanto bastava per rinvenire tracce di

Cagni durante mezzo secolo ancora dopo il 1956. E per rispondere alla domanda che

più mi interpellava riguardo alla sua seconda vita: se avesse avuto dei figli, figli per

definizione innocenti di un padre irreparabilmente colpevole.

Per un trentennio dopo l’uscita di prigione, Edilio Cagni ha abitato a Roma.

Muovendosi da un domicilio all’altro, vero o fittizio che fosse (in via San Marino, via

10

Borgo Pio, via Giorgio Scalia, via Clemente X), o scalpitando nelle patrie galere. Le

cronache capitoline ce lo restituiscono in un’istantanea del 9 aprile 1964: nel giorno in

cui un sacerdote lombardo salito da poco sul trono di Pietro, Paolo VI, visitò il carcere

di Regina Coeli. Era stato allora preparato – si legge sul «Corriere della Sera» – un

indirizzo di saluto che un detenuto doveva rivolgere al papa. «Il compito era stato

affidato a Edilio Cagni, un ingegnere che ha ancora pochi mesi da scontare. Ma

all’ultimo momento il Cagni non se l’è sentita di uscire dalle file dei compagni

schierati attorno all’altare e il suo posto è stato preso da un giovane, disinvolto, che ha

ringraziato il Papa con parole commosse. Paolo VI lo ha ringraziato con un abbraccio

e subito si è volto verso l’altare per celebrare la Messa»39.

Mezzo secolo più tardi, guardando su internet il cinegiornale della Settimana

Incom, Visita ai carcerati, mi sono trovato a scrutare i volti dei detenuti raccolti quel

giorno intorno a Paolo VI: chiedendomi quale fra questi fosse il volto di un Cagni

finalmente intimidito, vacillante davanti a Dio se non davanti alla Storia40. Vacillante

per poco, probabilmente. E comunque – diciassette anni dopo – baldanzoso abbastanza

per trasferirsi, sessantaduenne, nella più originale delle mete esotiche: l’Iran della

rivoluzione islamica e dell’ayatollah Khomeini, da dove gli occidentali tendevano

piuttosto a scappare, e che abitualmente non incoraggiava, tutt’altro, l’arrivo di

«infedeli». Dal dicembre 1981 all’aprile 1990 Cagni risulta avere abitato a Bandar

Abbas, principale porto del paese, situato lungo lo stretto di Hormuz, nel golfo

Persico. Cioè nella base logistica della Marina militare iraniana. Quando l’ho scoperto,

mi è riuscito naturale supporre che l’immigrato italiano abbia posto la sua esperienza

di agente segreto, nell’Iran khomeinista, al servizio di chissà quale causa

inconfessabile. Volendo restare su un terreno meno fantasioso, dirò che Cagni risulta

avere abitato nuovamente a Roma, tra via Domenichino e via Pietro Blaserna, per

l’ultimo decennio della sua vita. È morto nella capitale, a ottantaquattro anni, il 12

novembre 2001.

Ha avuto un figlio, Cagni. Nato nel 1954, dalla donna siciliana che l’ex

collaborazionista di Salò aveva sposato due anni prima e dalla quale divorzierà appena

possibile. Di questo figlio, potrei qui scrivere il nome. Rinuncio a farlo, sia perché

difficilmente il lettore può esserne curioso, sia perché con tale figlio io ho provato a

entrare in contatto, ma senza successo. Se si fosse reso disponibile, avrei avuto tante

cose da domandargli. Gli ho scritto una lettera al suo indirizzo di casa. Gli ho spiegato

chi ero, e perché mi premeva conoscerlo. Pur di riuscire a avvicinarlo, ho aperto un

mio profilo su Facebook: l’unica volta in vita mia che ho “chiesto l’amicizia” di

qualcuno, è stato per entrare in contatto con il figlio di Edilio Cagni. Inutilmente. Non

ha voluto rispondermi, né per lettera né su Facebook. Non ha accettato la mia

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“amicizia”. E io fatico a rimproverarglielo. Al suo posto, immagino, mi sarei

comportato come lui. Avrei tenuto lontano da me il messaggero della storia. Per l’idea

che mi sono fatto di Cagni, non invidio chi ha avuto in sorte di averlo per padre.

Mi sono mosso anche per ritrovare le tracce di Domenico De Ceglie: l’agente

fiduciario del tenente Cagni e del prefetto di Aosta che con il falso nome di Mario

Meoli si era infiltrato nella banda del Col de Joux, carpendo la fiducia dei partigiani

torinesi alla vigilia del rastrellamento del 13 dicembre 194341. In fondo, per quanto il

dopoguerra di De Ceglie fosse stato meno romanzesco del dopoguerra di Cagni – si era

inabissato alla Liberazione, sfuggendo ai processi e alle condanne per

collaborazionismo, e non era riemerso dalla latitanza che per ottenere un

provvedimento di amnistia42 – si trattava pur sempre di colui che più direttamente

aveva propiziato l’arresto di Primo Levi, e ne aveva quindi precipitato la deportazione

ad Auschwitz. Anche nel caso di De Ceglie, ero curioso di sapere qualcosa della sua

seconda vita. Della sua propria condizione di superstite, e del suo proprio segreto

brutto. Come si sopravvive e come si invecchia, nell’Italia della seconda metà del

Novecento, quando a vent’anni si è provveduto a far catturare, presso un rifugio

valdostano, l’autore prossimo venturo di Se questo è un uomo?

Dopo l’uscita di Partigia ero venuto a conoscere dettagli inediti sulle

circostanze di tale cattura. Me li aveva raccontati Marta Caldara, un’insegnante di

musica di Saint-Vincent che a propria volta li sapeva da un’insegnante: da sua nonna,

Félicie Rosset, che nell’autunno del ’43 – a ventidue anni – faceva la maestra

elementare ad Amay nella scuola pluriclasse accanto all’albergo Ristoro, e che suo

malgrado si era trovata coinvolta nel rastrellamento del 13 dicembre. Spiegandomi

come «nonna Fé» fosse ancora viva, ma non più lucida abbastanza perché io potessi

incontrarla, Marta mi aveva trasmesso un paio di ricordi di sua nonna di quelli che non

si inventano. L’uno era il ricordo del trauma provato dalla giovane maestra nel sentire

gli uomini della Milizia urlare i loro ordini in italiano («era la prima volta che sentiva

l’italiano anziché il patois!»). L’altro era il ricordo di Primo Levi che al momento di

abbandonare il Ristoro per seguire i militi di Salò si rivolgeva alle due «dottoresse»

arrestate con lui, Vanda Maestro e Luciana Nissim, e parlava loro in latino. «Omnia

mea mecum fero», disse allora il ribelle diplomato al liceo classico, volendo significare

in via riservata che nessun documento compromettente rimaneva nelle stanze della

locanda43.

Latitante per diversi anni dopo il 25 aprile 1945, dissimulato entro gli

accoglienti bassifondi della Roma neofascista44, Domenico De Ceglie è ritornato alla

luce trentenne, all’inizio degli anni cinquanta, con tutta una vita davanti a lui. Si è

sposato una prima volta, ha ripreso gli studi interrotti per la guerra, si è laureato in

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Economia e Commercio, ha lavorato in banca fino al raggiungimento della pensione.

Rimasto vedovo, negli anni novanta si è legato a una donna molto più giovane di lui,

di origini pugliesi al pari della famiglia De Ceglie. Ha finito per sposarla, e ha vissuto

accanto a lei – in provincia di Brindisi – una vecchiaia ritirata, serena, sportiva. Non ha

avuto figli. Cattolico praticante, durante il ventennio trascorso in Puglia ha tagliato

ogni ponte con Roma e con i sodali che contava nella capitale. Alla seconda moglie,

non parlava quasi mai del suo passato di combattente nazifascista. Men che meno il

sottotenente Meoli ha condiviso con lei la memoria del 13 dicembre 1943, dell’alba di

Amay e di un giovane ebreo che si esprimeva in latino prima di partire per

Auschwitz45.

De Ceglie era ancora vivo nel 2013, all’uscita di Partigia (non sarebbe morto

che l’anno successivo, nel marzo 2014). Così, mi intriga il pensiero che possa avere

letto il mio libro. Che a novantadue anni, e dopo settant’anni di eclissi, abbia dovuto

fare i conti con se stesso come personaggio storico.

2. Dalla Resistenza vissuta alla Resistenza immaginata.

Partigia è stato considerato da alcuni critici italiani un atto di lesa maestà

contro i padri fondatori della patria, o addirittura è stato assimilato alla cosiddetta

storiografia revisionistica sulla Resistenza. Intervistato dal quotidiano «la

Repubblica», un reduce-politologo ha denunciato nel libro la «sproporzione fra gli

eventi, minimi, e il rilievo dato a questi», oltreché l’«uso disumano di Primo Levi»46.

Sul settimanale l’«Espresso», un reduce-storico ha descritto Partigia come niente più

che una «cronaca minuta di eventi», mero «elenco di personaggi», e lo ha condannato

al fallimento che meritano tutti i «libri irrisolti»47. Ancora su «Repubblica», un reduce-

giornalista si è incaricato di suonare la carica a nome degli ebrei italiani, precisando

come la «discutibile revisione iconografica e sentimentale» contenuta nel volume,

lungi dal toccare il monumento Primo Levi, non faceva altro che sporcare l’autore di

Partigia48.

Per giudicare della maggiore o minore pertinenza di tali rimproveri, il lettore

francese deve sapere che tutte queste anime belle condividono una condizione:

appunto, la condizione del reduce. Condividono il fatto di essere sopravvissuti a quella

che è stata definita (impropriamente) una «guerra civile a bassa intensità»49: la lotta

politica che contrappose, durante gli anni settanta del Novecento, un’estrema sinistra

operaista, extraparlamentare, rivoluzionaria, e un’estrema destra occidentalista,

antidemocratica, eversiva. In particolare, la scena italiana vede aggirarsi implacati i

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fantasmi del movimento comunista chiamato Lotta continua. Di tali reduci spettrali, il

più immediatamente riconoscibile è Erri de Luca50. Il quale fa gruppo di famiglia con

noti giornalisti, storici, politologi, al punto che suona ormai luogo comune quello per

cui esisterebbe in Italia una lobby degli ex dirigenti di Lotta continua.

Più seriamente, esiste il problema storico delle identità locali di un movimento

politico nazionale come fu Lotta continua. Cioè il problema della varietà di situazioni

sociali e ambientali che sostennero il movimento nell’una o nell’altra sua roccaforte, e

del modo in cui il suo insediamento territoriale interagì con tradizioni di lungo periodo

della sinistra italiana e del movimento operaio51. Esiste il problema, insomma, delle

diverse anime di Lotta continua. Un problema che interessa – qui – per il caso del

Piemonte, e di Torino. Poiché fu soprattutto nel capoluogo piemontese che la storia di

Lotta continua assunse la forma di un confronto serrato, drammatico, tra due

generazioni variamente rivoluzionarie. Tra una generazione di padri che avevano

sperato di fare la rivoluzione a partire dal 1943, al tempo dell’occupazione tedesca,

della Resistenza, della guerra civile, e una generazione di figli che sognavano di fare la

rivoluzione a partire dal 1968, al tempo della «nuova Resistenza»52.

La storia torinese di Lotta continua fu quella di figli sessantottini che

rimproveravano ai padri partigiani di avere lasciato che la Resistenza venisse

impunemente «tradita» dall’Italia della Repubblica. Fu la storia di figli studenti che

trattavano i padri professori – spesso intellettuali di prima grandezza, filosofi, scrittori,

consulenti della casa editrice Einaudi – come borghesi piccoli piccoli, ometti nati

incendiari e finiti pompieri. Li trattavano come servi sciocchi del «capitale», e

sospiravano il giorno in cui, alleandosi con la classe operaia delle grandi fabbriche,

sulle barricate di una rivoluzione consiliare e poi nel paradiso di una società senza

classi avrebbero infine vendicato, da figli, la scelta dei padri di battersi per le libertà

«formali» anziché per quelle «sostanziali». A Torino, i dirigenti di Lotta continua

avevano cognomi che riecheggiavano la vicenda più alta e gloriosa dell’antifascismo

democratico italiano, ma che quasi quasi se ne vergognavano53.

Quei figli sessantottini sono divenuti padri a loro volta, e magari nonni. Nel

frattempo, non hanno perso unicamente la scommessa della loro nuova Resistenza.

Hanno perso anche – per evidenti ragioni anagrafiche – la vita dei loro padri partigiani.

Così, la rielaborazione di un lutto collettivo e politico ha dovuto sommarsi, nei loro

percorsi esistenziali, alla rielaborazione di un lutto individuale e privato. Con un

disagio tanto maggiore, quanto più le dure repliche della storia erano andate

dimostrando la differenza di rilievo militare, di spessore ideologico, di valore morale,

fra la rivoluzione incompleta dei padri e la rivoluzione immaginata dei figli.

Rivoluzione immaginata, e rivoluzione degenerata: se è vero che alla metà degli anni

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settanta, quando già Lotta continua si era sciolta quale formazione politica, una frangia

di militanti aveva imboccato la strada della lotta armata. E che proprio a Torino era

stato assassinato, per mano di terroristi rossi, un ex partigiano (il vicedirettore della

«Stampa», Carlo Casalegno) che era anche il padre di un militante di spicco di Lotta

continua54.

In Piemonte, la nostalgia dei reduci di Lotta continua per gli anni formidabili e

mancati della nuova Resistenza ha coinciso con una nostalgia dei figli per i padri: per i

reduci tutt’altro che immaginari della Resistenza vera. Una nostalgia – si è autorizzati

a ritenere – non esente da un senso di colpa. O almeno da un rimpianto, per la maniera

superficiale e ingenerosa con cui i figli sessantottini avevano liquidato la presunta

involuzione pantofolaia dei padri partigiani. Oggi alcuni di quei reduci, a margine

della loro lotta di “resistenza” contro la linea ferroviaria ad alta velocità Lione-

Torino55, dedicano le loro energie allo sforzo di preservare dal degrado, nell’una o

nell’altra vallata alpina, le baite dove i loro padri intrapresero, dopo l’8 settembre

1943, la lotta contro l’occupazione nazifascista56. Oppure, quando sono storici di

mestiere, si dedicano a ricostruire la vicenda dell’una o dell’altra banda di partigiani

piemontesi come prove provate di una «Resistenza perfetta»57.

In un simile contesto critico, una volta di più si ha ragione di interrogarsi sugli

sviluppi del rapporto che la sinistra italiana ha intrattenuto con la storia e con la

memoria della Resistenza; e si ha ragione di proporre al lettore qualcosa di diverso da

una replica puntuale a critiche che io ritengo – per parte mia – capziose e

inconsistenti58. Mi sembra più utile riprendere in mano il dossier di Partigia là dove,

per l’edizione italiana, mi era parso di doverlo chiudere: all’altezza cronologica degli

anni cinquanta, quando la storia degli apprendisti partigiani del Col de Joux, delle spie

fasciste che ne avevano provocato la caduta, e dei combattenti di Casale Monferrato

che ne avevano riscattato la sconfitta, poteva dirsi sostanzialmente esaurita. Mi sembra

utile guardare al ventennio compreso fra gli anni sessanta e gli anni ottanta: tra il venir

meno della Resistenza come esperienza vissuta e il rilancio della Resistenza come

esperienza immaginata.

Lo schivo Primo Levi ha svolto allora un ruolo attivo, entro il paesaggio

politico e culturale dell’antifascismo italiano. A partire dall’inizio degli anni sessanta,

e più che mai durante gli anni settanta, nella sua doppia qualità di reduce – reduce di

Amay e reduce di Auschwitz, reduce della Banda e reduce del Campo – l’autore di Se

questo è un uomo si è prestato a sostenere pubblicamente una serie di connessioni

ideologiche tra il suo reducismo e il resistenzialismo della sinistra. Salvo complicare le

cose (non lo spaventavano, evidentemente, i libri irrisolti) con quella mezza pagina a

futura memoria del Sistema periodico, con le dodici righe sul «segreto brutto». E salvo

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continuare ad arrovellarsi, per l’ultimo decennio che gli rimaneva da vivere, intorno al

«problema eterno del reduce»59.

* * *

Nell’agosto del 1966, Primo Levi villeggiava in valle d’Aosta. Se pure aveva

smesso di arrampicare, non aveva perduto il gusto per la montagna60. Né aveva

perduto l’amore per la val d’Ayas e per Brusson: luoghi che pure coincidevano con

l’inizio torbido e disperato della sua Resistenza, con il trauma dell’uccisione di Fulvio

Oppezzo e Luciano Zabaldano, con la partenza in catene verso la prigione di Aosta,

con il coraggio mancato del partigiano descritto nel racconto Fine del Marinese. Il 16

agosto, dalla villeggiatura di Brusson Levi scrisse una lettera che sembrava chiudere il

cerchio di tale esperienza, contenendo una rappresentazione in parole e disegni di ciò

che aveva atteso lui e le sue compagne, Luciana Nissim e Vanda Maestro, all’arrivo

del viaggio in tre tappe inaugurato dalla val d’Ayas: una descrizione eccezionalmente

precisa, corredata da un paio di schizzi, del miserevole abbigliamento degli internati di

Auschwitz61.

Il chimico che indirizzò lettera e schizzi allo scenografo Gianni Polidori era

ormai davvero – da qualche anno – un chimico-scrittore. Lavorava ancora, a tempo

pieno e in posizioni di vertice, nel campo professionale che era il suo; ma a partire dal

1963 aveva aggiunto ai galloni del dirigente industriale quelli del letterato di successo.

Ciò che non gli era riuscito con Se questo è un uomo neppure dopo la ristampa del

libro da Einaudi nel ‘58, Levi aveva ottenuto con La tregua: il riconoscimento che il

suo valore di scrittore trascendeva il valore della sua testimonianza di deportato. Nel

luglio del ’63, a Roma, La tregua era stata uno dei libri finalisti al premio Strega vinto

da Lessico famigliare di Natalia Ginzburg. Nel settembre dello stesso anno, a Venezia,

La tregua aveva trionfato nella prima edizione del premio Campiello62. E in

quell’agosto del 1966, Levi scriveva a Polidori riguardo a un adattamento teatrale di Se

questo è un uomo che il Teatro stabile di Torino avrebbe mandato in scena di lì a pochi

mesi.

Pubblicato da Einaudi nella «Collezione di teatro», a settembre del 1967

l’adattamento di Se questo è un uomo sarebbe stato premiato a Saint-Vincent come il

migliore testo drammatico della stagione teatrale precedente63. E così, dopo la recente

villeggiatura a Brusson, Levi avrebbe ritrovato – in occasione della cerimonia di

premiazione a Saint-Vincent – anche l’altro versante del Col de Joux: ulteriore

promemoria di quel che era stato, dell’intreccio valdostano tra la sua Banda e il suo

Campo. Promemoria sufficientemente doloroso da spingerlo alla freddezza verso chi

16

aveva condiviso con lui, un quarto di secolo prima, gli esordi della Resistenza e l’«alba

di neve» del 13 dicembre 1943. Come Maria Varisellaz, la proprietaria dell’albergo

Ristoro, arrestata lei stessa nel giorno del rastrellamento e lei stessa detenuta dai

fascisti nella caserma di Aosta. Scesa da Amay a Saint-Vincent, il 15 settembre del

’67, per festeggiare con Levi la consegna del premio di teatro, «Tina» non avrebbe mai

più dimenticato la delusione di quel giorno. Quando era andata incontro al suo antico

ospite del Ristoro, Levi aveva respinto il gesto, le aveva voltato le spalle64.

Con diverso stato d’animo l’autore della Tregua doveva avere vissuto, il 4

luglio di quattro anni prima, la finale romana del premio Strega: il suo primo ingresso

nell’olimpo della letteratura italiana. Entro la sontuosa cornice rinascimentale del

ninfeo di Villa Giulia, e seicento chilometri in linea d’aria lontano da Amay, si

potevano pensare di Levi – del Levi partigiano – cose diverse da quelle che rischiava

di avere in mente la locandiera di montagna Maria Varisellaz. E tanto più si potevano

pensare dietro impulso dell’ambiente politico al quale Levi apparteneva, quello di un

antifascismo piemontese di matrice azionista trasmigrato più o meno ufficialmente

verso i lidi del Partito comunista. Un ambiente per il quale i «ricordi partigiani» della

val d’Ayas andavano assolutamente evocati, «perché i numerosi lettori di Primo Levi

(e quelli ancor più numerosi che avrà in futuro)» non elaborassero di lui soltanto

l’immagine della vittima, del superstite del campo di sterminio. «Il ragazzo che i

fascisti consegnarono ai tedeschi vent’anni fa era un combattente, un ribelle al loro

“nuovo ordine” di signori della guerra; anche per questo nei suoi libri la coscienza

morale, antifascista e umana, è così vigile»65.

Primo Levi il reduce di Auschwitz, ma anche Primo Levi il reduce di Amay.

Così aveva voluto presentarlo sull’«Unità» – all’indomani della premiazione romana –

un ex partigiano e giornalista di Torino che si andava affermando quale storico

semiufficiale del comunismo italiano, Paolo Spriano: il «Pillo» della Resistenza, lo

studente che giovanissimo aveva interpretato l’arresto di Levi come il suono della

campana che lo chiamava a combattere contro il nazifascismo66. Ai lettori

dell’«Unità», Spriano aveva spiegato di avere conosciuto Levi partigiano in val

d’Ayas, e di ricordarlo fin troppo bene con Vanda Maestro e Luciana Nissim, tutti e tre

«ammanettati, nella piazza di Brusson». «I fascisti che brandivano moschetti e fiaschi

di vino ostentavano i prigionieri come un trofeo di caccia». Ma ecco, come in un

romanzo di Dumas («venti anni dopo...»), Levi al ninfeo di Villa Giulia, mentre «con

quel sorriso etrusco» mieteva allori letterari «bersagliato dai fotografi». Li meritava

eccome gli allori, e li meritava da reduce della Resistenza altrettanto che da reduce del

Lager67.

Invano si sarebbe cercata, nell’articolo di Spriano sull’«Unità», una

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sottolineatura delle origini ebraiche di Levi o dello specifico ebraico della

deportazione ad Auschwitz. La sensibilità per queste cose rimaneva limitata nell’Italia

degli anni sessanta, sebbene la riflessione sulla Soluzione finale avesse risentito – nel

tempo compreso fra l’edizione einaudiana di Se questo è un uomo e l’uscita della

Tregua – dell’impatto mondiale del processo Eichmann68: un processo per la cui

istruttoria Levi stesso aveva accettato di deporre, rimettendo ai collaboratori italiani

della procura di Gerusalemme una stringata memoria sulla sua esperienza di partigiano

e di deportato69. Evocando le storie di guerra si continuava a guardare, in Italia, ad

altro che agli ebrei.

* * *

Fra gli ingredienti della ricetta che rende Se questo è un uomo un libro unico

entro il genere della memorialistica sulla Shoah, è la rinuncia a rappresentare la

condizione della vittima di Auschwitz come vittima semita piuttosto che come vittima

umana. È l’invito ai lettori perché considerino – fin dal titolo del libro, e poi nel salmo

inaugurale – «se questo è un uomo» piuttosto che «se questo è un ebreo». D’altronde,

il lavoro di editing compiuto da Levi in fase di stesura, dalla prima versione

dattiloscritta a quella pubblicata nel 1947, era andato precisamente nel senso del levare

quanto definisse in termini ebraici la condizione dell’internato, per definirla in termini

universalistici (salvo far precedere il tutto dai versi ricalcati sulla Shemà, la preghiera

degli ebrei: più che un esergo, un comandamento).

L’altro ingrediente decisivo della ricetta di Se questo è un uomo consiste nella

rinuncia a ragionare storicamente e politicamente delle origini della Soluzione finale:

nel rinunciare – potremmo dire – a qualunque profondità di campo, per non guardare

che al Campo. Il racconto inizia direttamente con «il viaggio», con il trasporto

ferroviario verso Auschwitz70. Fino all’edizione Einaudi del 1958, mancava nel libro

anche quella che sarebbe divenuta la prima pagina standard, con la scarna evocazione

della salita in valle d’Aosta dopo l’8 settembre e della cattura per mano della Milizia.

In tutta una prima stagione dopo il ritorno dalla deportazione, non interessava a Levi

né l’eziologia complessiva del male nazifascista, né l’anamnesi storica del suo proprio

caso. Soltanto gli premevano la nudità del rapporto tra le vittime e i carnefici, e la

tragicità del rapporto tra i sommersi e i salvati71. Primo Levi interessava a Primo Levi

per la sua condizione di reduce del Campo, non per quella di reduce della Banda: in

quanto ebreo salvato dalle «selezioni», non in quanto partigiano catturato in

rastrellamento.

Ma appena la sua opera di scrittore fu premiata dal successo, Levi dovette

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accettare di accomodarsi nei panni di reduce non solo del Lager, anche della

Resistenza. Dovette farlo con un qualche sforzo, per la mediocrità della sua personale

esperienza di combattente. Corrispondeva tuttavia allo spirito dell’ambiente torinese di

cui Levi faceva parte la sottolineatura di un legame stretto fra identità israelita,

tradizione antifascista, militanza partigiana. E corrispondeva allo spirito pubblico

italiano degli anni sessanta la tendenza a iscrivere la storia e la memoria della

deportazione ebraica entro il cerchio della storia e della memoria dell’opposizione

organizzata al nazifascismo: come nei giorni d’ottobre del 1966 in cui contestualmente

si tennero a Torino la sesta conferenza internazionale della Resistenza e il congresso

nazionale degli ex deportati, con Primo Levi ospite d’onore72. Dopodiché – a partire

dalla svolta italiana del dicembre ‘69, con la strage di piazza Fontana, a Milano, per

opera di terroristi neofascisti, e il coinvolgimento di apparati deviati dello Stato nella

cosiddetta «strategia della tensione»73 – sempre più Levi accettò di interpretare

politicamente la sua condizione di reduce.

Il momento-chiave in questa assunzione del ruolo è databile al 1973, quando

Levi curò per Einaudi un’edizione scolastica di Se questo è un uomo. L’entrata del

libro nelle scuole italiane contribuì a trasformarne la percezione diffusa. Le note

redatte dall’autore a uso dei ragazzi incoraggiarono la lettura di un testo

fondamentalmente saggistico (oltreché ambiziosamente letterario) come testo

prettamente didascalico: uno strumento di cultura civile. A ciò si sarebbe aggiunta, nel

1976, la scelta di accompagnare le future ristampe dell’edizione scolastica con

un’autointervista pubblicata in appendice, nella quale Levi spiegava di avere raccolto

le domande che più spesso gli venivano rivolte dai lettori, e di avere risposto una volta

per tutte74. In pratica, nelle note come nelle risposte Levi sottopose Se questo è un

uomo a una torsione interpretativa: i «documenti» raccolti (aveva scritto nella

prefazione del 1947) in vista di «uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo

umano»75, furono posti al servizio della lotta politica presente.

Una conversazione che Levi intraprese nella tarda estate del ‘73 con uno

studente liceale torinese, Marco Pennacini, vale da riprova del volontarismo di tale

scelta. Sulla propria vicenda di partigiano consumata nell’autunno di trent’anni prima

accanto al «minuscolo campanile che si chiama Amay», Levi non disse a Pennacini

nulla di diverso da quanto aveva già detto e da quanto tornerà a dire ogni volta in cui

ebbe a esprimersi al riguardo. Disse la ridicola pistola intarsiata di madreperla,

l’improntitudine di ribelli senza armi né munizioni, i «partigiani un po’ banditi»

raccolti sopra Arcesaz, il mal fondato sentimento di sicurezza dei partigiani al Col de

Joux («non avevamo ancora fatto niente, era una banda di nome, ma non di fatto»)

pagato a caro prezzo nel giorno del rastrellamento. In compenso, Levi disse a

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Pennacini qualcosa di nuovo riguardo a Se questo è un uomo. Avesse dovuto

riscriverlo, lo avrebbe fatto «con riferimento preciso al fascismo di oggi»76.

* * *

Dal colpo di stato dei colonnelli nella Grecia del 1967 al putsch contro il

governo socialista nel Cile del 1973, attraverso la guerra del Vietnam e quanto si

poteva percepire dell’agenda americana nella guerra fredda, le coscienze antifasciste

ebbero ragione di preoccuparsi per un’evoluzione in senso reazionario della politica in

Occidente: e trovarono alimento alle loro inquietudini nella drammaticità di una

cronaca che dalla strage milanese di piazza Fontana, nel ’69, a quella bresciana di

piazza della Loggia, nel ’74, sembrava coronare un disegno di lungo periodo inteso a

riportare il fascismo al centro della vita pubblica italiana77. Conversando con Marco

Pennacini nei giorni stessi in cui, a Santiago del Cile, Salvador Allende si immolava

nel Palacio de la Moneda, Levi sostenne che se avesse dovuto riscrivere il primo suo

libro non avrebbe tolto «niente», ma avrebbe aggiunto «molto» sui legami storici tra

violenza politica, fascismo italiano e fascismo internazionale. «Quando ho scritto Se

questo è un uomo ero convinto che meritasse la pena di documentare queste cose

perché erano finite. Adesso non sono più finite, bisogna parlarne di nuovo». «Se lo

scrivessi oggi, [...] lo strumentalizzerei»78.

Che cosa Levi intendesse per strumentalizzazione di Se questo è un uomo è

quanto diventerà chiaro il 13 aprile 1980 ad Auschwitz, in Polonia: quando verrà

inaugurato il padiglione italiano allestito per cura dell’Associazione nazionale ex

deportati, un Memorial concepito dallo studio architettonico BBPR e accompagnato da

un testo, Al visitatore, scritto da Levi per l’occasione (in realtà, pronto già nel

novembre del ‘78)79. Parlando alla prima persona plurale – «lo testimoniamo noi, gli

italiani che siamo morti qui» – e pur riconoscendo come soltanto alcuni dei sommersi

di Auschwitz fossero stati deportati politici, mentre la maggior parte erano civili ebrei,

Levi vorrà conferire al testo del Memorial un’intonazione spiccatamente antifascista.

Enfatizzerà il legame cogente, necessario, tra Lager e nazifascismo: «La storia della

Deportazione e dei campi di sterminio, la storia di questo luogo non può essere

separata dalla storia delle tirannidi fasciste in Europa». Renderà omaggio ai «martiri

operai di Torino del 1923», ai carcerati, ai confinati, agli esuli del Ventennio. Saluterà

i «fratelli di tutte le fedi politiche che sono morti per resistere al fascismo restaurato

dall’invasore nazionalsocialista»80.

L’attualità internazionale e l’attualità italiana degli anni settanta resero Levi

particolarmente sensibile a ciò che l’autore di Se questo è un uomo aveva scelto di

20

sottacere nel 1947: sia le origini storiche dell’universo concentrazionario, sia le

circostanze politiche che avevano fatto degli antifascisti una componente della

popolazione internata nei campi. A volte, però, le urgenze dell’attualità spinsero Levi

sopra le righe. Fecero smarrire al chimico-scrittore la forza della sua parola piana,

tanto più persuasiva quanto meno nervosa, declamatoria, ideologica, consegnandolo a

ciò che Levi stesso rifuggiva: la retorica. Così in un suo intervento torinese del 1975,

Deportati politici, suscitato dal trentesimo anniversario della Liberazione81. E il clima

di rinnovata vigilanza antifascista finì per influenzare Levi, in quegli stessi mesi, anche

all’uscita di un libro antiretorico com’era Il sistema periodico. «Pur sprovveduti,

magari anche sventati, l’importante rimane che sulle montagne ci siamo andati»: così

Levi in un’intervista sul libro rilasciata a «Famiglia cristiana»82. Una volta di più,

senza alcuna fierezza militare rispetto al suo passato di partigiano. Ma con un’inedita

fierezza politica.

Lanciato in libreria nel maggio del ’75 e finalista in luglio al premio Viareggio,

Il sistema periodico vinse a settembre il premio Prato per la narrativa. Nell’occasione,

«l’Unità» pensò bene di insistere sulla cifra antifascista e resistenziale del libro,

nonostante la visione poco gloriosa del partigianato che emergeva dalla prospettiva

valdostana nel capitolo «Oro»83. Quanto alle dodici righe sul segreto brutto, i tempi

non erano maturi perché il pubblico o la critica raccogliessero il gesto coraggioso di

Primo Levi: la scelta di celebrare il trentennale della Liberazione sollevando il velo –

sia pure in maniera ellittica – su un episodio altrettanto dimenticato che delicato della

vicenda resistenziale, la morte di partigiani per mano partigiana.

* * *

Gravoso è riuscito a Levi indossare l’abito del reduce. Quella «specie di

dovere» di cui parlò a una giornalista della «Stampa» nel 1964, il dovere di raccontare

le «folli cose» cui aveva assistito, di interpretare il personaggio del «reduce che

parla»84, lo ha accompagnato nei decenni come una fatica, e anche come una pena85.

La fatica del ruolo fu presto risentita dopo il successo della Tregua. Il 22

febbraio 1966, in una lettera a Luciana Nissim scritta nel giorno anniversario della loro

partenza da Fossoli per Auschwitz, Levi confidava all’amica: «sono sostanzialmente

diverso dal personaggio che rappresento»86. E più ancora la fatica del ruolo dovette

pesargli rispetto al personaggio che tanto meno del reduce del Lager corrispondeva

alla realtà del suo vissuto, il personaggio del reduce della Resistenza. Da qui, un

prolungato disagio retrospettivo del partigiano di Amay. Disagio certo meno straziante

– incomparabilmente meno straziante – della pena che attanagliò il superstite di

21

Auschwitz. E tuttavia disagio riconoscibile, leggibile nelle sue opere se non nei suoi

giorni. Leggibile nell’unico romanzo di Primo Levi, Se non ora, quando?87 E leggibile

in Partigia: la poesia più impegnativa di soggetto resistenziale che Levi abbia scritto

dopo Epigrafe del 1952, pubblicata in anteprima dalla «Stampa» quasi trent’anni dopo.

La poesia figurava sulla terza pagina del quotidiano torinese, in bella vista entro

un riquadro, il 18 agosto 1981:

Dove siete, partigia di tutte le valli,

Tarzan, Riccio, Sparviero, Saetta, Ulisse?

Molti dormono in tombe decorose,

Quelli che restano hanno i capelli bianchi

E raccontano ai figli dei figli

Come, al tempo remoto delle certezze,

Hanno rotto l’assedio dei tedeschi

Là dove adesso sale la seggiovia.

Alcuni comprano e vendono terreni,

Altri rosicchiano la pensione dell’Inps

O si raggrinzano negli enti locali.

In piedi, vecchi: per noi non c’è congedo.

Ritroviamoci. Ritorniamo in montagna,

Lenti, ansanti, con le ginocchia legate,

Con molti inverni nel filo della schiena.

Il pendio del sentiero ci sarà duro,

Ci sarà duro il giaciglio, duro il pane.

Ci guarderemo senza riconoscerci,

Diffidenti l’uno dell’altro, queruli, ombrosi.

Come allora, staremo di sentinella

Perché nell’alba non ci sorprenda il nemico.

Quale nemico? Ognuno è nemico di ognuno,

Spaccato ognuno dalla sua propria frontiera,

La mano destra nemica della sinistra.

In piedi, vecchi nemici di voi stessi:

La nostra guerra non è mai finita88.

Benché carichi di anni, i reduci delle bande partigiane non potevano

permettersi, nel 1981, il «congedo» che pure Levi aveva sospirato per se stesso in una

poesia eponima del ‘7489: quarant’anni dopo l’8 settembre 1943, i partigia di tutte le

valli dovevano nuovamente ritrovarsi, salire in montagna, stringere i ranghi. Dovevano

farlo nonostante il tempo delle certezze fosse perduto, e a prezzo di non riconoscersi

più, addirittura di diffidare l’uno dell’altro. Dovevano rimettersi in piedi perché

gravida di pericoli si annunciava la notte, imperativa la vigilanza.

22

In quell’inizio degli anni ottanta, il negazionismo sulla Soluzione finale e il

revisionismo sulla Resistenza apparivano a Levi le due facce di una stessa medaglia90.

L’esperienza vissuta della perdizione e della redenzione si andava facendo

un’esperienza defunta. Sia i reduci dei Campi sia i reduci delle Bande si sarebbero

spenti più o meno presto, e le voci di quanti fossero rimasti più lungamente in vita

rischiavano di non bastare a conservare né la memoria del male né la memoria del

bene. In un prossimo futuro, il vuoto di memoria minacciava di essere colmato da

nuove narrazioni: falsificazioni scoperte della storia europea, per opera di chi arrivava

a negare l’esistenza della Soluzione finale; interpretazioni capziose della storia

italiana, per opera di chi voleva smascherare nella Resistenza un mito

dell’antifascismo91. Da qui il tono di emergenza che è proprio di Partigia. Il quale però

– dietro il solidarismo reducistico dell’apostrofe – rischia di mascherare il contenuto

più dolente della poesia.

L’alternanza di un voi e di un noi sorregge la costruzione di Partigia, ma il voi

caratteristico del Levi poeta non è rivolto qui a un collettivo indeterminato, inclusivo,

comprendente tutti gli uomini (i «fratelli umani» designati nel primo verso di un suo

componimento del 1970, Nel principio92, quegli stessi che avevano giustificato la

forma vocativa di Shemà): è rivolto a un collettivo determinato, esclusivo, ristretto ai

partigia di tutte le valli. Senonché la difficoltà maggiore consiste proprio in questa

prima persona plurale, noi. Perché Levi sa bene come la sua storia di partigia fosse

stata diversa da quella dei Tarzan o Riccio, Sparviero o Saetta che gli erano stati e gli

erano legati. A differenza di uomini come Silvio Ortona o Eugenio Gentili Tedeschi, a

differenza anche di donne come sua cugina Ada Della Torre o sua sorella Anna Maria,

Levi non aveva alle spalle un’epica resistenziale. A parte l’episodio della spedizione

notturna con Aldo Piacenza per procurarsi armi (introvabili) fra Chambave e Nus, la

resistenza di Levi si era consumata tutta fra l’albergo Ristoro di Amay e le fosse di

Frumy dove erano stati tumulati i corpi di Fulvio Oppezzo e Luciano Zabaldano.

Il vero noi – quello da cui Levi sentiva di essere irrimediabilmente escluso – era

il noi di coloro che attraverso la penna di Levi stesso avevano raccontato sul «Ponte»

di Piero Calamandrei, all’indomani della guerra, la fine del Marinese93. Era il noi dei

partigiani sfuggiti al rastrellamento che grazie al coraggio da kamikaze del Marinese

prigioniero avevano potuto catturare, il giorno dopo, il camion dei tedeschi. Fuor di

metafora, era il noi di quanti avevano potuto fondare sopra le rovine dell’autunno ‘43

la ricostruzione della primavera ’44, le lotte di un secondo inverno, il trionfo della

primavera ’45. Era il noi di coloro ai quali i tre deportati di Amay avevano rimesso la

fiaccola, quelli cui la storia aveva dato in sorte la possibilità di «purificarsi dalla

vergogna dell’ultima fuga», addirittura di «fare vendetta» contro i nazifascisti, anziché

23

l’obbligo di viaggiare in treno verso Auschwitz94. Mentre l’unico noi resistenziale che

includesse Levi era il noi dei «partigiani “in pectore”» del Col de Joux. I fascisti di

Salò erano andati a cercarli in trecento, «mentre noi non eravamo che undici, e quasi

inermi»: «in valle si parlava del nostro piccolo gruppo molto più di quanto noi

meritassimo»95.

Il resto era un io, ed era anche peggio. «Io, pessimo partigiano (non avevo fatto

il servizio militare, non sapevo neanche com’era fatta un’arma; ne avevo una, ma non

sapevo usarla: ho sparato un solo colpo, perché se no eran proiettili sprecati)»96. «La

mia esperienza cospirativa e militare era nulla: a combattere, a sparare, a uccidere non

ero preparato, nessuno mi aveva insegnato, erano cose lontanissime da tutto quanto

avevo fatto o pensato fino allora»97. «La mia esperienza partigiana è stata brevissima e

infelice e schiappina anche: perché non ho fatto in tempo»98. «Ero stato partigiano per

pochi mesi, solo di nome, perché non ero neanche armato»99. «Io ho sparato in tutto un

solo colpo di rivoltella, perché Aldo che aveva sei proiettili ha detto: sprechiamone

uno»100. Il resto era l’io che manca totalmente nella poesia Partigia, ma che spiega

perché nella poesia ritorni – e ritorni in forma pronunciata, drammatica – una

figurazione-chiave dell’opera di Levi, quella della spaccatura: «Ognuno è nemico di

ognuno / Spaccato ognuno dalla sua propria frontiera». Il resto era l’io senza congedo

di Primo Levi, la sua mano destra perennemente nemica della sinistra.

* * *

Ulisse il coraggioso. Volendo scegliere una situazione dell’Odissea per

includere il poema omerico nella sua «antologia personale» del 1981, La ricerca delle

radici, Primo Levi scelse i versi del canto IX in cui l’eroe greco completa con

un’apostrofe l’opera di astuzia che ha permesso a lui e a parte dei compagni di

sfuggire alla ferina brutalità del Ciclope. Non erano sodali di un vigliacco qualunque –

urla l’eroe a Polifemo – gli infelici divorati nella caverna. Erano sodali di Ulisse figlio

di Laerte, signore di Itaca e espugnatore di Troia, che facendo ubriacare il Ciclope,

cavandogli l’occhio, scappando dall’antro grazie al trucco dei montoni, aveva saputo

vendicare i compagni uccisi.

Fuggito dalla caverna, Ulisse «potrebbe andarsene in silenzio, ma preferisce

portare a compimento la sua rivincita: è fiero del suo nome, che finora aveva taciuto, è

orgoglioso del suo coraggio e del suo ingegno»: nella nota antologica, Levi tenne a

sottolineare questo elemento di ridondanza della vendetta di Ulisse, consumata con i

fatti ma anche con le parole101. Nella medesima nota, Levi confessò di trovare

«intollerabile» l’Iliade, orgia di guerra e di morte. Mentre l’Odissea è il poema di una

24

«speranza ragionevole»: la fine della guerra e dell’esilio, la prospettiva di un mondo

pacifico perché giusto102. Altrove – in una nota dell’edizione scolastica della Tregua –

Levi definì l’Odissea secondo una chiave di lettura meno serena, più tormentata. Al

centro del poema riconobbe «il problema eterno del reduce»103.

Non c’è bisogno di note per avere chiara la centralità della figura di Ulisse

nell’autobiografia intellettuale di Levi. Di più: nella vita di Levi. Secondo il racconto

del capitolo «Il canto di Ulisse» in Se questo è un uomo, mai come recitando i versi di

Dante ad Auschwitz, ritrovandoli nel solaio della memoria per spiegare al compagno

Pikolo la virtute e la conoscenza e l’altrui piacque, l’ebreo deportato si era avvicinato a

una comprensione piena o addirittura metafisica della Shoah104. Quanto alla Tregua,

cos’è la penultima pagina dell’ultimo capitolo, quella che spiega il titolo del libro, se

non una similitudine implicita ma trasparente fra il reduce Ulisse e il reduce Levi?

«Che cosa avremmo ritrovato a casa? Quanto di noi stessi era stato eroso, spento?

Ritornavamo più ricchi o più poveri, più forti o più vuoti? Non lo sapevamo: ma

sapevamo che sulle soglie delle nostre case, per il bene o per il male, ci attendeva una

prova, e la anticipavamo con timore»105.

Per Levi, Ulisse presentava l’interesse capitale di essere non soltanto figura

dell’erranza, ma figura del coraggio. E il coraggio è virtù preziosa, non foss’altro

perché ti dà la forza di resistere: Levi lo sapeva almeno dal tempo delle leggi razziali,

quando ventenne, alla scuola ebraica di Torino, aveva studiato il coraggio strenuo dei

patriarchi106. Naturalmente Levi sapeva anche che ci sono vari tipi di coraggio, e che

non tutti i coraggi si equivalgono. C’è il coraggio fisico, l’intellettuale, il morale,

l’affettivo. Ma di là da ogni distinzione Levi sapeva che il coraggio, nella misura in cui

ti permette o ti impedisce di essere all’altezza della situazione, finisce per essere

misura di te. Questo, Levi lo aveva imparato – se non da altri – da Joseph Conrad: che

non a caso, nella griglia di lettura della Ricerca delle radici, sta in mezzo alla linea che

definisce l’itinerario «statura dell’uomo»107. E proprio perché sapeva il coraggio essere

non solo prezioso, ma rivelatore, non solo elemento di utilità, ma strumento di misura,

Levi si pose sovente il problema del suo proprio coraggio.

In nessun luogo lo fece in modo altrettanto esplicito che in una pagina del libro

del 1986, fondamentale e testamentario, I sommersi e i salvati. È la pagina in cui Levi

descrive come un fattore di «assoluta inferiorità» la sua incapacità di «“rendere il

colpo”». Forse per mancanza di una seria educazione politica, dice, era stato da sempre

incapace di praticare una qualunque forma di difesa attiva. Oppure forse «per

mancanza di coraggio fisico»: ne possedeva una certa dose davanti ai pericoli naturali

e alla malattia, ne era sempre stato privo davanti all’umana aggressione. E «proprio

per questo – aggiunge Levi – la mia carriera partigiana è stata così breve, dolorosa,

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stupida e tragica: recitavo la parte di un altro»108. Dove ritorna il tema della

recitazione, ma dove il personaggio recitante non è il reduce del dopoguerra, è già il

partigiano del 1943.

«Non mi importa più di niente. Mi importa che voi avete avuto il coraggio di

prendere il fucile, e io questo coraggio non l’ho avuto»109: come lo Schmulek di Se

non ora, quando?, Levi non smise di confrontarsi mentalmente con gli ebrei che nella

guerra e nella persecuzione erano stati capaci di coraggio. Talvolta, trovò una forma di

giustificazione per le situazioni in cui riteneva di non essere stato all’altezza: «come ex

partigiano ed ex deportato – dichiarò nel 1982 – so bene che ci sono condizioni

politiche e psicologiche in cui resistere si può, ed altre in cui non si può»110. Altre

volte, si lasciò andare a nient’altro che una sconfinata ammirazione per gli ebrei capaci

di resistere e addirittura di rendere il colpo anche se inesperti ed inermi, e anche se

consapevoli di non avere futuro: come i «temerari» del ghetto di Varsavia che

insorgendo contro l’occupante nazista nella primavera del ‘43 avevano testimoniato al

mondo del loro «disperato eroismo». Temerari che non avevano salvato se stessi, ma

avevano salvato la dignità ebraica per generazioni a venire111.

Altre volte ancora Primo Levi trovò più vicino a sé l’esempio del coraggio

possibile di un ebreo, anche di quello all’apparenza più imbelle. Le parole con cui nel

1984 volle pubblicamente onorare la memoria dell’amico torinese Emanuele Artom

risuonano come l’omaggio reso a un percorso che avrebbe potuto essere il suo, e che

non era stato. Poiché dopo l’8 settembre 1943, Artom «non esita»: «privo di

esperienza militare, alieno alla violenza, sale in montagna ed è partigiano».

Sopportando fieramente disagi e pericoli, «si fa audace e pronto». È commissario

politico per il Partito d’azione, incappa in un rastrellamento nel marzo del ‘44,

sopporta stoicamente la prigionia, la derisione, la tortura. L’enfant prodige

dell’antichistica torinese d’anteguerra, il topo di biblioteca della via Po, muore nello

strazio il 7 aprile, incarnazione tragica quanto mirabile di un destino riscattato112.

La virtù del coraggio – e la forza di rendere il colpo – era stata anche di ebrei

animosi e fortunati abbastanza per compiere un cammino inverso rispetto a quello dei

deportati nei campi di sterminio: non dall’Italia alla Polonia ma dalla Polonia all’Italia,

come nella vicenda eccezionale di Marek Herman. Era questi un ragazzo, ebreo di

Leopoli, la cui storia Levi venne a conoscere negli anni settanta e che volle raccontare

ai lettori della «Stampa» prima di riprenderla in Lilìt e altri racconti113. Figlio di un

cappellaio, Marek aveva quattordici anni al momento dell’invasione tedesca della

Polonia e sedici nella primavera del 1944, quando sfuggendo rocambolescamente alla

Wehrmacht e alle SS era approdato in Italia al seguito di un contingente del Regio

Esercito che rientrava dal fronte orientale. Fra una cosa e l’altra, Herman era finito nel

26

Canavese. Aveva imparato l’italiano, ed era entrato nella Resistenza con i garibaldini.

Il suo battesimo delle armi aveva coinciso, il 29 giugno ’44, con la battaglia di

Cuorgné in cui era caduto Italo Rossi, il capo dei partigiani casalesi di Arcesaz114.

Dopo il Canavese le valli di Lanzo, dopo le valli di Lanzo la val di Susa: il 25 aprile

’45 Herman aveva ancora da compiere diciotto anni, ma «era un partigiano finito,

coraggioso e robusto, disciplinato per profonda natura ma svelto col mitra e con la

pistola»115. Un fantastico partigia.

Esempi di virile coraggio ebraico Levi trovò anche vicinissimo a sé: in famiglia,

in sua sorella Anna Maria. Dopo avere lasciato insieme con la madre – il 1° dicembre

1943 – l’albergo Ristoro di Amay, e dopo avere nascosto Rina Levi nella campagna di

Ivrea, Anna Maria era divenuta «una staffetta brava perché fortemente motivata». Sia

suo fratello sia il suo fidanzato, Franco Tedeschi, erano stati deportati in Polonia

(Franco non ne sarebbe ritornato): la sua militanza non scaturiva soltanto da ragioni

politiche, «era una rappresaglia e una rivalsa». Anna Maria aveva fatto la staffetta con

tale impegno da ritrovarsi in possesso, all’indomani della Liberazione, di un mitra

Beretta. Aveva oliato il mitra per bene e lo aveva nascosto dapprima sotto il letto, poi

nella libreria di casa, dietro le opere complete di Balzac. Due anni dopo, Primo aveva

scambiato il mitra contro un paio di scarponi da montagna. Gli scarponi a lui, il mitra a

un partigiano che si era rifatto vivo dal nulla: «anzi un “partigia”, uno cioè delle frange

più spregiudicate e svelte di mano dei nostri compagni combattenti»116.

Ad Auschwitz, Primo Levi era stato deportato come ebreo, non come partigiano

e meno che mai come partigia: deportato con due donne, Luciana Nissim e Vanda

Maestro, «non essendo risultato altro a loro carico»117. Nascosta da lui stesso o da

qualcun altro, la pistola intarsiata di madreperla non gli era stata trovata addosso, i

poliziotti di Salò non lo avevano catturato armi in pugno, dagli interrogatori di Aosta

nulla era emerso tale da persuadere i saloini di avere davanti un combattente. Ma fin

dentro il campo di sterminio, poté capitare a Levi di presentarsi per quello che pur

sentiva (o sperava) di essere: un partigiano, almeno quanto un italiano e un ebreo. E

ciò nonostante tale reputazione, ad Auschwitz, fosse più pericolosa che utile. «Non

serviva a niente, il fatto che io... Anzi, quando io dicevo, sono un partigiano, dicevano

sta’ zitto, non dirlo a nessuno. E dei francesi che la sapevano più lunga di me mi han

detto: se sei partigiano non dirlo. Qui è pieno di spie»118. Il che ci riporta per un’ultima

volta a Se questo è un uomo119.

Scritta da Torino il 25 novembre 1984, una lettera inedita di Levi testimonia in

maniera impressionante come il reduce della Resistenza e del Lager non abbia smesso

di compiere nel segno di Ulisse una «ricognizione dei propri confini»120, una misura

della propria statura di uomo. Né ci sarà da meravigliarsi che lo scrittore famoso si

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impegnasse nel dire cose gravi a una sua conoscenza occasionale, la lettera essendo

destinata a un ebreo triestino fabbricante di vini, Furio Finzi, con cui aveva scambiato

appena un paio di missive: Primo Levi non era uomo da soppesare le parole private

meno delle parole pubbliche. Ecco dunque il passo centrale di quella lettera: «Lei mi

chiede di Ulisse. Mi sono fugacemente sentito vicino a lui in tempi lontani, forse Lei

lo ricorda, se ne parla in un capitolo di Se questo è un uomo che oggi non avrei più il

coraggio di scrivere, o non scriverei così. Oggi non oserei più affrontare il tema,

proprio per una questione di statura»121.

Due anni e mezzo prima di morire, Levi non aveva più il coraggio di sentirsi

tanto vicino a Ulisse il coraggioso quanto aveva potuto sentirsi in un lontano giorno di

Auschwitz. Non riconosceva più una misura comune fra la statura dell’eroe greco e la

statura di se stesso.

1 P. Levi, Il sistema periodico, Einaudi, Torino 1975, p 136. 2 Vedi S. Luzzatto, Partigia. Una storia della Resistenza, Mondadori, Milano 2013, pp. 85 sgg. 3 Così il politologo Marco Revelli, in M. Novelli, Se questa è la storia, «la Repubblica», 17 aprile 2013. 4 N. Revelli, Il disperso di Marburg, Einaudi, Torino 1994, p. 56. 5 Vedi J.-C. Milner, La puissance du détail. Phrases célèbres et fragments en philosophie, Grasset, Paris 2014,

Cap. 6. 6 Così nei racconti ripetutamente condivisi da Maria («Tina») Varisellaz con l’amica Enrica Morise, che a sua

volta ha avuto la generosità di condividerli con me (Saint-Vincent, 8 luglio 2013). 7 Dalla registrazione di una mia conversazione con Vanda Favre (Saint-Vincent, 20 settembre 2013) 8 A. Barmaverain, Demi-siècle de vie paroissiale à Brusson. (Petite Chronique), Imprimerie Valdôtaine, Aoste

1970, p. 72. 9 Vedi A. Cavaglion, Nel diario di un curato la chiave del «segreto brutto», «La Stampa», 2 giugno 2013. 10 Barmaverain, Demi-siècle de vie paroissiale cit., pp. 70-74. 11 Vedi Archivio comunale di Brusson [da ora in poi: ACB], Fiches d’anagrafe, «Decessi», anni 1944-1947,

foglio n. 24, 16-31 dicembre 1943. 12 Si veda su di lui D.M. Vyleta, Crime, Jews, and the News. Vienna 1895-1914, Berghahn Books, New York

2007, pp. 123 sgg. 13 Sugli ebrei austriaci riparati in Italia dopo l’Anschluss, vedi C. Köstner e K. Voigt (a cura di), «Rinasceva una

piccola speranza». L’esilio austriaco in Italia, Forum, Udine 2010. 14 La maggior parte delle informazioni di cui sopra mi sono state cortesemente fornite dalle due nipoti di Elsa

Pokorny Amster: quelle stesse che, bambine, trascorsero con lei a Brusson l’estate del 1943. Entrambe

hanno chiesto di mantenere riservata la loro identità. 15 Vedi D. Rabinovici, Eichmann’s Jews. The Jewish Administration of Holocaust Vienna, 1938-1945, Polity

Press, London 2011. 16 Vedi S. Zwettler-Otte, Freud and the Media. The Reception of Psychoanalysis in Viennese Medical Journals,

1895-1938, Peter Lang, London 2006, passim. 17 Vedi W. Barton (ed.), Ermordet in Maly Trostinec. Die österreichischen Opfer der Shoa in Weißrussland,

New Academic Press, Wien 2013. 18 Vedi B. Wasserstein, On the Eve. The Jews of Europe before the Second World War, Simon & Schuster, New

York 2012, pp. 361-62. 19 Il contenuto di questa lettera, datata 12 novembre 1943, mi è stato gentilmente comunicato da una delle due

nipoti di Elsa Pokorny Amster. 20 Seguo qui la testimonianza di una novantenne signora di Brusson, abitante nella frazione di Fontaines, che

preferisce conservare l’anonimato (e ringrazio l’amico Remigio Vicquery, che generosamente mi ha

aiutato a raccogliere tale testimonianza). 21 Dalla registrazione di una mia conversazione con Renzo Brochet (nato nel 1933), avvenuta in Arcesaz di

Brusson il 4 novembre 2013. 22 Vedi ACB, Ufficio dello stato civile, «Registro degli atti di morte», parte I, foglio 9 (alle ore 18.00 di quel 17

dicembre 1943, il genero firma come testimone la dichiarazione di decesso della suocera). 23 Seguo ancora la testimonianza della novantenne signora di Brusson, per cui vedi qui sopra, n. 19. 24 Così lo storico Giovanni De Luna, Dove sbaglia Luzzatto, «l’Espresso», 16 maggio 2013. 25 Si veda ora A. Bravo, Raccontare per la storia (nella serie Lezioni Primo Levi), Einaudi, Torino 2014, pp.

107-111. 26 Luzzatto, Partigia cit., p. 305. 27 Ibidem, p. 93. 28 Vedi ibidem, p. 302. 29 Archivio comunale di Saint-Vincent [da ora in poi: ACSV], categoria VIII, Leva e truppa, fasc. 432/10,

«Vittime di morte violenta durante la guerra civile, 1943-1959». 30 Vedi Luzzatto, Partigia cit., p. 88. 31 ACSV, cat. VIII cit., fasc. cit.: entrambi i documenti sono intestati Provincia di Aosta, Comune di Saint-

Vincent, «Estrazione salme e riconoscimento per l’identificazione»: portano la data di Saint-Vincent, 6

ottobre 1945. 32 Vedi Luzzatto, Partigia cit., p. 316. 33 A. Zabaldano et al., Il «segreto brutto» di Primo Levi: basta calunnie su nostro fratello, «La Stampa», 6

giugno 2013. 34 Vedi Luzzatto, Partigia cit., pp. 297 sgg.

2

35 Così nella pagina delle inserzioni a pagamento, alla rubrica Domande d’impiego, «La Stampa», 10 marzo

1942. 36 Vedi Luzzatto, Partigia cit.,pp. 64 sgg. 37 Vedi ibid., p. 283. 38 Ibid., p. 65. 39 F. De Santis, Paolo VI visita i detenuti nel carcere di Regina Coeli, «Corriere della Sera», 10 aprile 1964. 40 Settimana Incom, Visita ai carcerati, 17 aprile 1964 (Archivio Luce-Cinecittà, accessibile online). 41 Vedi Luzzatto, Partigia cit.,pp. 98 sgg. 42 Vedi Archivio del Tribunale di Aosta A, Corte straordinaria d’assise, 15/1946, ordinanza della Corte suprema

di cassazione, II sezione penale, Roma, 3 luglio 1951. 43 Testimonianza all’autore di Marta Caldara (Saint-Vincent, 8 luglio 2013). Per un altro esempio di impiego del

latino da parte di Primo Levi, nella Cracovia del 1945, vedi P. Levi, La tregua, Einaudi, Torino 1963, p.

55. 44 Vedi A. Carioti, Gli orfani di Salò. Il Sessantotto nero dei giovani neofascisti nel dopoguerra, 1945-1951,

Mursia, Milano 2008. 45 Seguo qui la testimonianza della seconda moglie di Domenico De Ceglie, che preferisce conservare

l’anonimato (e ringrazio l’amico Fernando Orsini, che generosamente mi ha aiutato a raccogliere tale

testimonianza). 46 Così Marco Revelli, in Novelli, Se questa è la storia cit. 47 Vedi De Luna, Dove sbaglia Luzzatto cit. 48 G. Lerner, Il caso Primo Levi, «la Repubblica», 16 aprile 2013. 49 G. Fasanella e G. Pellegrino, La guerra civile, Bur, Milano 2005, Cap. 5. 50 Vedi E. De Luca, La parola contraria, Feltrinelli, Milano, p. 25. 51 Vedi G. De Luna, Le ragioni di un decennio. 1969-1979: militanza, violenza, sconfitta, memoria, Feltrinelli,

Milano 2009, p. 206. 52 Vedi A. Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione. 1968-1978: storia di Lotta continua, Mondadori,

Milano 1998. 53 Vedi L. Bobbio, Storia di Lotta continua, Feltrinelli, Milano 1988. 54 Vedi A. Casalegno, L’attentato, Chiarelettere, Milano 2008. 55 Vedi L. Pepino e M. Revelli, Non solo un treno… La democrazia alla prova della Val Susa, Gruppo Abele,

Torino 2012; M. Revelli, Prefazione, in F. Salmoni, Resa dei conti alla Maddalena. 2010-2011: diario di

due anni di lotta contro l’Alta Velocità in Valle di Susa, Lu.Ce, Massa 2013. 56 Vedi A. Tarpino, Spaesati. Luoghi dell’Italia in abbandono tra memoria e futuro, Einaudi, Torino 2012, pp.

17 sgg. 57 Vedi G. De Luna, La Resistenza perfetta, Feltrinelli, Milano 2015. 58 Si trovano su internet diverse rassegne-stampa delle polemiche suscitate in Italia e all’estero, nel 2013,

dall’uscita del mio libro. Tra le più complete, quelle accessibili sui siti del Centro internazionale di studi

Primo Levi di Torino e dell’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. 59 Così Primo Levi in una nota dell’edizione scolastica della Tregua: vedi M. Belpoliti, Note ai testi, in P. Levi,

Opere, Einaudi, Torino 1997, vol. 1, p. 1422. 60 Vedi P. Levi, L’alpinismo? È la libertà di sbagliare (1984: intervista di A. Papuzzi), in Id., Conversazioni e

interviste, 1963-1987, a cura di M. Belpoliti, Einaudi, Torino 1997, p. 31. 61 Inedita, la lettera è stata parzialmente riprodotta in A. Papuzzi, Levi, la precisione del dolore, «La Stampa», 23

marzo 1997. 62 Vedi Ph. Mesnard, Primo Levi. Le passage d’un témoin, Fayard, Paris 2011, pp. 267-68. 63 Si veda l’articolo non firmato, Consegnato a Primo Levi il premio teatrale St-Vincent, «La Stampa», 16

settembre 1967. 64 Testimonianza all’autore di Enrica Morise, cit. 65 P. Spriano, L’avventura di Primo Levi, «l’Unità», 14 luglio 1963. 66 Vedi Luzzatto, Partigia cit., p. 108. 67 Spriano, L’avventura di Primo Levi cit. 68 Vedi D.E. Lipstadt, The Eichmann Trial, Schocken Books, New York 2011. Sulle peculiarità della ricezione

italiana del processo Eichmann rispetto alle tendenze della ricezione internazionale, vedi R.S.C. Gordon,

Scolpitelo nei cuori. L’Olocausto nella cultura italiana (1944-2010, Torino, Bollati Boringhieri 2013, pp.

14 e 93. 69 Vedi P. Levi, Deposizione per il processo Eichmann, in Id., Così fu Auschwitz. Testimonianze 1945-1986, con

Leonardo De Benedetti, Einaudi, Torino 2015, pp. 66-68.

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70 «Il viaggio» è appunto il titolo del primo capitolo di Se questo è un uomo. Sul tòpos letterario del viaggio per il

campo di concentramento o di sterminio, vedi C. Greppi, L’ultimo treno. Racconti del viaggio verso il

lager, Donzelli, Roma 2012. 71 Com’è noto, quarant’anni prima di diventare il titolo dell’ultimo libro di Levi, «I sommersi e i salvati» era già

il titolo di un capitolo di Se questo è un uomo. 72 Si veda l’articolo non firmato, Non è ancora finito il compito dei combattenti per la libertà, «La Stampa», 23

ottobre 1966. 73 Vedi G. Boatti, Piazza Fontana. 12 dicembre 1969: il giorno dell’innocenza perduta, Einaudi, Torino 1999. 74 Vedi P. Levi, «Appendice», in Levi, Opere cit., vol. 1, pp. 172 sgg. 75 Vedi P. Levi, Se questo è un uomo, De Silva, Torino 1947, p. 7. 76 Archivio del Centro internazionale di studi Primo Levi [da ora in poi: ACPL], Fondo Interviste e dichiarazioni,

Conversazione di Primo Levi con Marco Pennacini (1973), trascrizione dattiloscritta, p. 31. 77 Vedi R. Chiarini e P. Corsini, Da Salò a Piazza della Loggia. Blocco d’ordine, neofascismo, radicalismo di

destra a Brescia (1945-1974), FrancoAngeli, Milano 1985; F. Ferraresi, Minacce alla democrazia. La

Destra radicale e la strategia della tensione in Italia nel dopoguerra, Feltrinelli, Milano 1995. 78 ACPL, Fondo Interviste e dichiarazioni, Conversazione cit., p. 32. 79 Vedi E. Ruffini e S. Scarrocchia, Il Blocco 21 di Auschwitz, in «Studi e ricerche di storia contemporanea», n.

69, 2008, pp. 9-32. 80 P. Levi, Al visitatore (1978), in Id., Opere cit., vol. 2, pp. 1335-36. 81 Vedi P. Levi, Deportati politici, in Torino contro il fascismo. Testimonianze, a cura del Comune e del

Comitato per le iniziative antifasciste della città di Torino, Torino 1975, pp. 167-72. 82 Cit. in G. Poli e G. Calcagno (a cura di), Echi di una voce perduta. Incontri, interviste e conversazioni con

Primo Levi, Mursia, Milano 1992, p. 68 (intervista a G. De Rienzo, pubblicata su «Famiglia cristiana» il

20 luglio 1975). 83 Si veda l’articolo non firmato, Il Premio Prato assegnato a Donini e Primo Levi, «l’Unità», 13 settembre

1975; vedi inoltre V. Bramanti, Franco Antonicelli e Ragionieri ricordati al «Prato», «l’Unità», 15

settembre 1975. 84 M.A. [Mirella Appiotti], Sulla collina torinese risuonano le voci del «Lager» di Auschwitz, «Stampa Sera»,

22-23 aprile 1964. 85 Vedi F. Carasso, Primo Levi. La scelta della chiarezza (1997), Einaudi, Torino 2009, pp. 174 sgg.; A.H.

Rosenfeld, Primo Levi: The Survivor as Victim, in Id., The End of the Holocaust, Indiana University

Press, Bloomington 2011, pp. 183-212. 86 Cit. in A. Chiappano, Luciana Nissim Momigliano: una vita, Firenze, Giuntina 2010, p. 235. 87 Vedi Luzzatto, Partigia cit., pp. 311-17. 88 P. Levi, Partigia, «La Stampa», 18 agosto 1981. La data apposta da Levi in calce alla poesia è quella del 23

luglio 1981: vedi P. Levi, Ad ora incerta (1984), in Id., Opere cit., vol. 2, p. 561. 89 P. Levi, Congedo (la data apposta dall’autore è il 28 dicembre 1974), ibid., p. 547. 90 Vedi S. Woolf, Primo Levi’s sense of history, in «Journal of Modern Italian Studies», III, 3, Fall 1998, pp.

273-92. 91 Vedi Levi, Conversazioni e interviste cit., passim. Su questo, si veda Carasso, Primo Levi cit., pp. 161 sgg. 92 P. Levi, Nel principio (la data apposta dall’autore è il 13 agosto 1970), in Id., Ad ora incerta cit., p. 544. 93 Vedi Luzzatto, Partigia cit., pp. 106-107. 94 P. Levi, Fine del Marinese, in «Il Ponte», agosto-settembre 1949, pp. 1170-73, qui da Id., Opere cit., vol. 1,

pp. 1111-12. 95 P. Levi, Il faraone con la svastica (1983), in Id., Opere cit., vol. 2, pp. 1192-93. 96 F. Camon, Conversazione con Primo Levi (1982-86), Guanda, Parma 2006, p. 16. 97 Levi, Il faraone con la svastica cit., p. 1192. 98 Cit. in Poli e Calcagno, Echi di una voce perduta cit., p. 242 (conversazione con Massimo Mila, trasmessa da

Raitre il 29 novembre 1983). 99 A. Bravo e F. Cereja, Intervista a Primo Levi, ex deportato (1983), Einaudi, Torino 2011, p. 25. 100 G. Arbib e G. Secchi, Italiani insieme agli altri. Ebrei nella Resistenza in Piemonte, 1943-1945, Zamorani,

Torino 2011, p. 197 (intervista a Primo Levi dell’8 giugno 1981). 101 P. Levi, La ricerca delle radici. Antologia personale (1981), in Id, Opere cit., vol. 2, p. 1381. 102 Ibid. 103 Vedi supra, nota 59. 104 Levi, Se questo è un uomo cit., pp. 123 sgg. 105 Levi, La tregua cit., pp. 250-51.

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106 Vedi Levi, Il sistema periodico cit., pp. 53-54. 107 Levi, La ricerca delle radici cit.. p. 1367. 108 P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986, pp. 109-110. 109 P. Levi, Se non ora, quando?, Einaudi, Torino 1982, p. 199. 110 P. Levi, Itinerario di uno scrittore ebreo (1982), in Id., Opere cit., vol. 2, p. 1226. 111 P. Levi, I temerari del ghetto (1983), ibid., p. 1185. 112 P. Levi, Un parco dedicato a Emanuele Artom (1984), ibid., pp. 1211-12. 113 P. Levi, La storia di Avrom, «La Stampa», 14 marzo 1976: ripreso in Id., Lilìt e altri racconti, Einaudi,

Torino 1981, poi ibid., pp. 43-47. 114 Vedi M. Herman, Dalle Alpi al Mar Rosso, a cura di R. Fubini, Giuntina, Firenze 2004, p. 59; e Luzzatto,

Partigia cit., p. 153. 115 Levi, La storia di Avrom cit., p. 46. 116 P. Levi, Il mitra sotto il letto, «La Stampa», 24 ottobre 1986 (poi in Id., Opere cit., vol. 2, pp. 917-20). 117 Vedi Luzzatto, Partigia cit., p. 112 sgg. 118 Bravo e Cereja, Intervista a Primo Levi cit., p. 71. 119 Al fotogramma sull’accelerare il passo perché passava Frenkel, la spia, e alla recitazione per Pikolo del canto

di Ulisse: vedi Luzzatto, Partigia cit., p. 65. 120 Levi, I sommersi e i salvati cit., p. 108. 121 Devo la conoscenza di questa lettera alla cortesia del destinatario, Furio Finzi (1936-2014), che la conservava

nel suo archivio privato.