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Verbum Analecta Neolatina XII/1, pp. 221–251 DOI: 10.1556/Verb.12.2010.1.14 Appunti su due recenti volumi dedicati a Angelo Colocci* Angelo Colocci nacque a Jesi nel 1474 in una famiglia di antica tradizione cittadi- na; studiò probabilmente a Roma e poi seguì lo zio Francesco che, compromes- so in una sommossa contro il governo pontificio, riparò a Napoli; ritornò a Jesi nel 1491 dove, nel 1492, “ottenne la capi- taneria di Belvedere” . Nel 1497 acquistò la carica di abbreviatore de parco maiori, esercitata per mezzo di un sostituto, fino a che, nel ’98, si trasferì a Roma, come oratore di Jesi presso il pontefice. Patri- zio romano dal 1505, restò in carica co- me abbreviatore fino al 1510, “ma già dal 1503 aveva comperato [la carica] di pro- curatore della sacra Penitenzeria”; solle- citatore delle lettere apostoliche dal 1510 al 1515, dall’11 fino al 21 fu segretario apo- stolico. “Deposte le altre cariche, diven- ne maestro del registro delle bolle e nota- io della camera apostolica; tenne l’appal- to dei dazi fino al 1527” . Rifugiatosi a Jesi tra il luglio e il dicembre del 1527— l’an- no del sacco— ritornò, l’anno seguente a Roma. Nonostante varie difficoltà, nel 1537 diventò vescovo di Nocera, dignità alla quale rinunciò a favore di un paren- te due anni dopo, essendo stato creato, nel 1538, tesoriere generale. Si spense a Roma il 1 maggio del 1549. 1 Colocci quando giunse a Roma di- venne erede e continuatore dell’opera di Pomponio Leto, mantenendo viva l’Ac- cademia presso la sua casa; raccolse una estesissima collezione di statue, iscrizio- ni e oggetti antichi e, forte anche della sua posizione sociale, intrecciò una se- rie di rapporti con i più affermati let- terati del momento, dal Vida a Beroal- do il giovane, da Valeriano a Blosio Pal- ladio, da Tommaso Inghirami a Bembo e Castiglione. In più raccolse una im- ponente biblioteca che, per diverse vie, giunse in gran parte alla Biblioteca Va- ticana, nella quale si assommavano te- sti, manoscritti e a stampa greci, latini, volgari (in vari volgari romanzi: porto- ghese, castigliano, occitanico, francese, italiano), testi umanistici e, ovviamente, appunti, note, spogli lessicali dello stes- so Colocci. 2 Insomma, Colocci divenne una sorta di catalizzatore di esperienze culturali tra le più varie, almeno per un quarantennio e, dunque, si pone per noi come un uomo di grande interesse non tanto per quello che pubblicò, in verità pochissimo, quanto piuttosto per quello che raccolse e contribuì a tramandare ai posteri. Nel 1969, quarant’anni or sono, nel- la prestigiosa collana “Studi e Testi” del- la Biblioteca Apostolica Vaticana, la stes- sa che ospita i due volumi colocciani ap- pena pubblicati (Angelo Colocci e gli studi romanzi, a c. di C. Bologna e M. Bernar- di; M. Bernardi, Lo zibaldone colocciano Vat. Lat. 4831) usciva, curata da Vittorio Fanelli, appassionato e competente stu- dioso del Colocci, la Vita di Mons. Ange- lo Colocci di Federico Ubaldini, condotta sul ms. Barberiniano lat. 4882 che veico- la il testo originale italiano della vita. 3 La Vita è accompagnata da un commento, davvero impressionante, che guida non solo a meglio intendere la vita di Ange- lo Colocci, ma anche a riconoscere una infinità di letterati e intellettuali, gran- di e piccoli, che, dalla fine del Quattro- cento alla metà del Cinquecento, ebbe- ro contatti con lui. Sempre nel 1969 si tenne a Jesi un convegno assai importan- te (i relativi Atti uscirono nel 1972), non solo per gli interventi di grandi studiosi © PPKE/BTK, Piliscsaba, 2010

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Verbum Analecta Neolatina XII/1, pp. 221–251DOI: 10.1556/Verb.12.2010.1.14

Appunti su due recenti volumidedicati a Angelo Colocci*

Angelo Colocci nacque a Jesi nel 1474 inuna famiglia di antica tradizione cittadi-na; studiò probabilmente a Roma e poiseguì lo zio Francesco che, compromes-so in una sommossa contro il governopontificio, riparò a Napoli; ritornò a Jesinel 1491 dove, nel 1492, “ottenne la capi-taneria di Belvedere”. Nel 1497 acquistòla carica di abbreviatore de parco maiori,esercitata per mezzo di un sostituto, finoa che, nel ’98, si trasferì a Roma, comeoratore di Jesi presso il pontefice. Patri-zio romano dal 1505, restò in carica co-me abbreviatore fino al 1510, “ma già dal1503 aveva comperato [la carica] di pro-curatore della sacra Penitenzeria”; solle-citatore delle lettere apostoliche dal 1510al 1515, dall’11 fino al 21 fu segretario apo-stolico. “Deposte le altre cariche, diven-nemaestro del registro delle bolle e nota-io della camera apostolica; tenne l’appal-to dei dazi fino al 1527”. Rifugiatosi a Jesitra il luglio e il dicembre del 1527—l’an-no del sacco—ritornò, l’anno seguentea Roma. Nonostante varie difficoltà, nel1537 diventò vescovo di Nocera, dignitàalla quale rinunciò a favore di un paren-te due anni dopo, essendo stato creato,nel 1538, tesoriere generale. Si spense aRoma il 1° maggio del 1549.1Colocci quando giunse a Roma di-

venne erede e continuatore dell’opera diPomponio Leto, mantenendo viva l’Ac-cademia presso la sua casa; raccolse unaestesissima collezione di statue, iscrizio-ni e oggetti antichi e, forte anche dellasua posizione sociale, intrecciò una se-rie di rapporti con i più affermati let-terati del momento, dal Vida a Beroal-do il giovane, da Valeriano a Blosio Pal-

ladio, da Tommaso Inghirami a Bemboe Castiglione. In più raccolse una im-ponente biblioteca che, per diverse vie,giunse in gran parte alla Biblioteca Va-ticana, nella quale si assommavano te-sti, manoscritti e a stampa greci, latini,volgari (in vari volgari romanzi: porto-ghese, castigliano, occitanico, francese,italiano), testi umanistici e, ovviamente,appunti, note, spogli lessicali dello stes-so Colocci.2 Insomma, Colocci divenneuna sorta di catalizzatore di esperienzeculturali tra le più varie, almeno per unquarantennio e, dunque, si pone per noicome un uomo di grande interesse nontanto per quello che pubblicò, in veritàpochissimo, quanto piuttosto per quelloche raccolse e contribuì a tramandare aiposteri.Nel 1969, quarant’anni or sono, nel-

la prestigiosa collana “Studi e Testi” del-la Biblioteca Apostolica Vaticana, la stes-sa che ospita i due volumi colocciani ap-pena pubblicati (Angelo Colocci e gli studiromanzi, a c. di C. Bologna e M. Bernar-di; M. Bernardi, Lo zibaldone coloccianoVat. Lat. 4831) usciva, curata da VittorioFanelli, appassionato e competente stu-dioso del Colocci, la Vita di Mons. Ange-lo Colocci di Federico Ubaldini, condottasul ms. Barberiniano lat. 4882 che veico-la il testo originale italiano della vita.3 LaVita è accompagnata da un commento,davvero impressionante, che guida nonsolo a meglio intendere la vita di Ange-lo Colocci, ma anche a riconoscere unainfinità di letterati e intellettuali, gran-di e piccoli, che, dalla fine del Quattro-cento alla metà del Cinquecento, ebbe-ro contatti con lui. Sempre nel 1969 sitenne a Jesi un convegno assai importan-te (i relativi Atti uscirono nel 1972), nonsolo per gli interventi di grandi studiosi

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colocciani (gliAtti accolgono addiritturatre studi di Samy Lattès), ma anche peruna sorta di programma, steso proprioin occasione dell’incontro, dove vengo-no enunciati gli argomenti che avrebbe-ro potuto essere trattati nel corso dellamanifestazione.4 Eccoli:5

1) La questione della lingua con annes-si aspetti storici e lessicografici

2) L’interesse antiquario con particola-re riguardo all’archeologia e all’epi-grafia

3) Questioni metriche4) Filologia romanza nelle sezioni re-lative alle lingue italiana,francese,spagnola, portoghese, provenzale,catalana

5) L’attività di poeta in lingua latina eitaliana

6) Problemi relativi alla ricostruzionedella biblioteca

7) Indagini su aspetti oscuri della bio-grafia di Colocci

8) La fortuna di Colocci attraverso isecoli.

Questo programma di lavoro va ben al dilà, come si capisce subito, delle esigenzedi un Convegno e indica davvero i puntifondamentali per sviluppare una indagi-ne completa su Angelo Colocci. I volumidei quali si parla cominciano a prenderein esame, con diverso grado di intensitàe nel rispetto delle competenze di colo-ro che hanno contribuito all’impresa, al-cuni dei punti suggeriti proprio da taleprogramma di lavoro.Nel 1979 usciva infine, sempre nel-

la serie “Studi e testi” della BibliotecaApostolica Vaticana, la ricchissima rac-colta di studi del Fanelli, Ricerche su An-gelo Colocci. . . , con l’importante introdu-

zione di mons. J. Ruysshaert.6 Da allora,fino all’uscita di questi due volumi e aeccezione di pochi altri contributi di mi-nor estensione, seppur sempre assai acu-ti, espressamente dedicati a Colocci, qua-li quelli prodotti da Augusto Campana,Rino Avesani, Rossella Bianchi, CorradoBologna, non è apparso nulla, a stampa,di paragonabile ai lavori usciti tra il 1969e il 1979;7 di per sé, dunque, la pubbli-cazione di questi due libri è un fatto si-gnificativo nella storia degli studi coloc-ciani, e non solo colocciani. Si tratta didue volumi diversi, seppur complemen-tari; il primo raccoglie una serie di studidi specialisti, italiani e stranieri, su Ange-lo Colocci e gli studi romanzi; il secondo èl’edizione commentata di uno dei pozzidelle meraviglie (e, insieme, di uno deipozzi dei misteri) della biblioteca coloc-ciana, uno dei suoi zibaldoni, segnata-mente lo zibaldone conservato nel ms.Città del Vaticano, Biblioteca ApostolicaVaticana, Vaticano lat. 4831.Il primo volume, Angelo Colocci e

gli studi romanzi, raccoglie ventuno con-tributi, organizzati in tre sezioni: 1) Labiblioteca colocciana (e altri modelli cin-quecenteschi) (pp. 1–121); 2) I manoscrit-ti, le postille—è la sezione più estesa ela più propriamente “romanza”—(pp.123–447); 3) La poesia e i poeti (pp. 449–513). Data la varietà degli interventi è dif-ficile rendere conto del volume in ognisuo aspetto; mi limiterò quindi a qual-che sondaggio, iniziando dalla sezionecentrale del libro— I manoscritti e le po-stille—e, entro essa, dal contributo diMercedes Brea (De los ‘Lemosini’ a los ‘si-culi’, Dante y Petrarca, pp. 245–66), stu-diosa che, tra l’altro, è stata promotrice odiretta ispiratrice di molte indagini i cuifrutti compaiono in questo volume (C. F.

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Blanco Valdés e A. Ma Dominguez Blan-co, Il codice Vat., lat. 4823: il laboratoriocolocciano; G. Pérez Barcala,Angelo Coloc-ci y la rima románica: aspectos structurales(análisis de algunas apostillas coloccianas);E. Fidalgo Francisco, Apuntes para unaVida de Alfonso X en un códice de Colocci(Vat. Lat. 4817); E. Coral Diaz, Las notascoloccianas en el cancionero profano de Al-fonso X; F. Fernandez Campo, Apostillaspetrarquescas de Colocci: nuevas posibilida-des de lectura).8 La Brea, che si muove, co-me il suo gruppo di lavoro, con compe-tenza e sicurezza nel mondo coloccianoe che ha accumulato una profonda cono-scenza delle raccolte miscellanee e deglizibaldoni del dotto prelato di Jesi, dovesi alternano note, abbozzi, indici di pa-role e di versi, e, insieme, dei suoi mss.organici, inizia le sue pagine con una ri-flessione dimetodo, delmetodo usato daColocci nel suo studio. La Brea fa rife-rimento puntuale ai canzonieri studiatidal Colocci, ma alcune indicazioni cre-do possano avere un valore più generale.Dice la studiosa (pp. 245–46):“Primero [Colocci] leía los cancio-

neros (italianos, occitanos, gallegos) quele interesaban y, cuando disponía ya decopias que había encargado, podía con-frontarlas con el original para completary/o corregir posibles defectos de transcri-pción; a la vez, o en una segunda lectu-ra, subrayaba o marcaba de algún modoen el texto algunas palabras que le inte-resaban y, normalmente, las copiaba enlos márgenes del folio [. . .]. A continua-ción (almenos para algunos casos, existe,constancia de este procedimiento), po-día utilizar folios adicionales para ir ano-tando en ellos, debajo del número cor-respondiente al folio del manuscrito, laspalabras que previamente había destaca-

do del texto. La fase siguiente podía serrealizada por él mismo o encomendadaa un copista de su confianza: se tratabade reproducir esa lista de palabras, pe-ro esta vez ordenándolas alfabéticamen-te (solo por la primera letra) y poniéndo-les al lado el número del folio en el quese encontraban.”Pare a me, per quel poco di esperien-

za che ho di questi problemi, che la Breaabbia illustrato con chiarezza il metododi lavoro del Colocci. Ci si potrà chie-dere se questo metodo sia applicato dalColocci a altri settori che suscitarono ilsuo interesse, come per esempio la let-teratura mediolatina, quella umanistica,le indagini antiquarie e così via, ma perl’ambito specifico assunto nell’ indagine,mi sembra che la studiosa sia stata davve-ro efficace. E questi assunti teorici—cheperaltro teorici non sono, ma piuttostorisultati nati dal lavoro sul campo—so-no ben esemplificati nel suo contributo.La Brea prende in esame il ms. Paris, Bi-bliothèque Nationale de France, fr. 12474(= canzoniere provenzale M), in partico-lare prende in esame le postille coloccia-ne che hanno che fare con gli studi delprelato sulla lirica italiana, per provare acapire quali aspetti abbiano suscitato ilsuo interesse e fino a che punto sia sta-to rigoroso nell’informazione. L’analisi èresa più semplice dall’esistenza dei pre-ziosi indici di Petrarca e dei Siciliani (In-dex verborum seu vocum. . . ) contenuti nelms. Città del Vaticano, Biblioteca Apo-stolica Vaticana, Vaticano Lat. 3217, indi-ci costruiti rispettivamente sul ms. Cittàdel Vaticano, Biblioteca Apostolica Va-ticana, Vaticano Lat. 4787 che contienei Rerum vulgarium fragmenta (anche senon è da escludere da parte di Colocci,anzi, il ricorso all’Aldina del 1514), e sul

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ms. Città del Vaticano, Biblioteca Apo-stolica Vaticana, Vaticano Lat.4823 (cioèa Va), copia del celebre canzoniere italia-no Città del Vaticano, Biblioteca Aposto-lica Vaticana, Vaticano Lat. 3793 (= V).La Brea identifica, in M , trentotto anno-tazioni colocciane che divide in tre cate-gorie. La prima, la più ricca di attestazio-ni, sottolinea coincidenze tra forme occi-taniche e forme poetiche italiane, in par-ticolare forme usate da Dante e Petrarca;la studiosa si sofferma su una in partico-lare, contenuta al f. 14v di M, che reci-ta: sicul. e aire due syllabe siculi et petrar-ca. A Colocci doveva interessare partico-larmente la natura bisillabica di aire, dalmomento che nel Vat. Lat. 4817, f. 274r, viè un frammento di indice topografico diM e lì si ripete la stessa indicazione: Airedue syllab. siculi et petrarca. 14, con riman-do appunto al f. 14. La consultazione poidel Vat. Lat. 3217 permette di conferma-re l’interesse di Colocci per questa for-ma. Si può aggiungere, con Menichetti,Metrica italiana, Padova, Antenore, 1993,pp. 258–59, che nei Rerum vulgarium frag-menta di Petrarca aere è sempre bisilla-bo, trattato cioè come il suo allotropoâre. La seconda categoria si appunta sul-la constatazione di differenze tra la for-ma occitanica e quella, diciamo così, ita-liana. Tra i vari esempi citati dalla stu-diosa ne ricordo uno solo; a f. 10r di Msi legge la postilla appellar(e) no(n) italo.È una nota abbastanza curiosa—sottoli-nea la Brea—perché non è chiaro a cosaColocci si riferisca con italo/itali; l’indi-ce dei Siculi registra infatti più di ventioccorrenze di appellare (variamente co-niugato). La studiosa si chiede se Coloc-ci non volesse forse indicare che la paro-la non era di uso comune in italiano oche era prestito occitanico o, ancora, che

avesse usi e significati differenti da quel-li che le sono propri in Giraut de Bor-nelh, da dove la parola è tratta. Ma, di-ce la Brea, converrà confrontare questaannotazione con quella del f. 123r, p(er)nome apello da [. . .] petrar. 160/Mentionarp(er) nome, nella quale parrebbe attrarrela sua attenzione l’espressione completaappelar per nome che è quella che sem-bra voler spiegare con la seconda partedella sua nota piuttosto che la sempliceforma verbale che appare inventariata af. 29 dell’indice di Petrarca nel Vat. Lat.3217. La terza categoria è quella delle os-servazioni di carattere linguistico gene-rale. Anche qui ricordo un solo esempio,sufficiente però a far capire il modo pre-ciso in cui lavora la Brea; a f. 204v si legge‘de’ no(n) da ut communes, non ‘di’ ut flo-rentini; circa la preposizione de Colocciosserva tanto la forma occitanica, eredi-tata dal latini, quanto il distinto uso chedi questa costruzione fanno i fiorentini ei communes, distinguendo tra da e di. Laconsultazione infatti degli indici conte-nuti nel già ricordato Vat. Lat. 3217 com-prova la ripetizione, nell’elenco, delle di-verse forme preposizionali e delle loropossibili contrazioni con gli articoli. Allaconclusione della sua indagine la Brea sichiede—e è una domanda che deve esse-re estesa a tutte le annotazioni coloccia-ne, in qualsiasi lingua e su qualsiasi te-sto—quale sia lo scopo, l’idea che muo-ve Colocci a vergare queste note e, anco-ra una volta, si mette sul piano concre-to dell’esemplificazione; ricorda che a f.149v si legge Dante cita questa (con riferi-mento di Dante a Nulls hom non pot com-plir adrechamen di Aimeric de Belenoi) ea f. 143 (tralascio qualche esempio), Dan-te de vulgari eloquio citat hanc bis, con ri-mando a Si ·m fos amors de ioi donar tan

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larja di Arnaut Daniel, postilla quest’ul-tima assai significativa perché attesta unaconoscenza diretta del De vulgari, ma an-che perché, assieme all’altra postilla (e aun’altra ancora che non cito), lascia in-tendere il percorso mentale di Colocci,la sua ipotesi di lavoro: i Siciliani, co-me Dante e Petrarca, conoscevano di pri-ma mano i testi dei trovatori occitanicie a loro si rivolgevano, in certo modo,come a modelli poetici, anche nelle op-zioni linguistiche. Ancora la Brea pen-sa che lo studio comparativo di Coloc-ci potesse avere un doppio obiettivo: dauna parte aiutare a capire la storia dellalirica medievale (dagli occitanici ai sici-liani e poi a Dante e a Petrarca), dall’al-tra giovare a conoscere i meccanismi chepermetterebbero di elaborare una “nor-ma linguistica” per la lingua poetica ita-liana, possibilmente per poter interveni-re con argomenti fondati sulla discussa“questione della lingua”, allora al centrodell’interesse. Colocci, infatti, difendeval’esistenza di una lingua comune. . . co-me “quella che Petrarca di tanta linguaha fatto per imitazione” (Vat. Lat. 4817,f. 1r) e cercava, per ogni dove argomentisolidi con i quali difendere la posizioneche il medesimo Colocci illustra in unadelle sue annotazioni disperse (Vat. Lat.4817, f. 39r–v), ricordata dalla studiosa ap. 262 del suo lavoro:“Tanti monstri di parole che sono in

dante e non poche in petrarcha di tut-to la cagion è stata la imitatione che po-che parole vi sono che non siano o degli antiqui siculi o de lemosini o di ui-cini allemosini, chiamo siculi tutti quel-li che scripsero altra el faro et di quachiamo lemosin tutti francesi prouenzaet catalogna.”La “Questione della lingua” invita a

prendere in considerazione il contributodi Nadia Cannata, anch’esso posto nellaseconda sezione del libro, su Le Annota-zioni sul vulgare ydioma di Angelo Colocci(Ms. Vat. Lat. 4831), pp. 169–97, cioè sulmateriale conservato nel fascicolo V delcodice vaticano. Sintetizzo moltissimo ilcontributo della studiosa, che, tra l’altro,sta attendendo all’edizione di uno zibal-done colocciano presso l’Accademia del-la Crusca, e che descrive, in modo un po’diverso da come fa Marco Bernardi (sem-pre in questo volume—pp. 123–67—epiù a fondo nell’altro—pp. 13–110), il ms.Vaticano e si impegna a identificare lefonti adibite dal Colocci; tocca ancheproblemi di cronologia, relativi all’arrivonella biblioteca di Colocci del celeber-rimo canzoniere italiano Vat. Lat. 3793(= V) e del Libro di Ragona—cioè unacopia della Raccolta Aragonese—propo-nendo il 1508 come terminus post quemper la presenza di questi volumi nella bi-blioteca del prelato. La studiosa osservache le annotazioni—chiamarlo trattato,mi pare difficile accettare; mi sembranopittosto appunti non molto organici, co-me accade di norma in Colocci—sinte-tizzano “una storia di varie esperienzepoetiche in diverse lingue: non la solalirica amorosa e nemmeno solo la poe-sia di tradizione toscana, ma le espres-sioni di autori, epoche, ispirazioni e lin-gue fra le più varie, tenute insieme, si di-rebbe, dai personali interessi e affetti diColocci, ma soprattutto dall’uso di vol-gari romanzi” (p. 175). Riflettendo poisu un passo del ms., già più volte edi-to (dove, tra l’altro, dovrebbe comparireuna forma adricchò, ignota all’OVI, for-se con il valore di ‘arricchire’), la studio-sa sottolinea come “nell’ambito di un ra-gionamento in difesa dell’uso del volga-

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re Colocci arrivi a discutere della manca-ta coincidenza fra lingua ‘materna’ e lin-gua di cultura, notando che non si trattadi un fenomeno esclusivamente moder-no né legato a un bilinguismo struttura-le. . . bensì una realtà che i moderni han-no in comune con gli antichi e che deri-va dallamutabilità insita negli usi lingui-stici attraverso i secoli e non dal fatto cheuna sola sia l’unica lingua accettabile co-me ‘alta’ ” (p. 181). Su un altro punto toc-cato da Nadia Cannata mi soffermo; laCannata mette in luce come le così det-te Annotazioni siano prova “di un inte-resse molto precoce da parte del Coloc-ci non solo per la tradizione letteraria involgare italiano, ma anche per altri vol-gari romanzi, fra i quali [. . .] il provenza-le” (p. 191); sottolinea pure—sulla scortadi alcune osservazioni di Riccardo Dru-si—come a Roma, durante il pontificatodi papa Borgia, la presenza spagnola fos-se rilevante non solo dal punto di vistaculturale, ma anche linguistico; e, anco-ra menzionando Drusi, rimanda a Bem-bo, Prose I 13, da dove si ricava come lospagnolo fosse in Roma una lingua uti-lizzata alla corte papale come il francese,il lombardo, il toscano e il veneziano (p.191). Alla luce di questi rilievi, la Canna-ta sostiene che tale situazione potrebbeessere stata di stimolo per Colocci a inte-ressarsi “di questioni relative al concettodi lingua comune”, al quale era interes-sato già da un’epoca molto alta: “suo èinfatti il primo documento noto in cui èteorizzata la cosiddetta lingua cortigiana,vale a dire l ’Apologia di Serafino Aquila-no” (p. 192), messa a stampa nel 1503. Sipotrebbero così spiegare le sue traduzio-ni, in epoca altrettanto alta, dal castiglia-no e dal catalano, gli spogli linguisticie infine “l’acquisto e studio di testimo-

ni diretti di quelle lingue e letterature”(p. 192). Ancora la Cannata mette in lu-ce come Colocci nell’ Apologia ponessea confronto gli usi linguistici di Serafinocon quelli di Cavalcanti e Cino e di alcu-ni poeti siciliani e, dunque, come, par-tendo da argomenti linguistici, arrivassea occuparsi di lirica romanza e italiana.Su un altro argomento trattato nel-

la seconda parte del libro vorrei sostare,cioè sul modo in cui si potrebbero usa-re i materiali colocciani in una prospet-tiva ecdotica, argomento ben illustratodai contributi di Margherita Spampina-to Beretta, Il “caso” Cielo, pp. 211–24, diSimonetta Bianchini, Colocci legge “Rosafresca aulentissima”, pp. 225–43, e di Fa-brizio Costantini, Il ‘Libro Reale’, Coloccie il Canzoniere Laurenziano, pp. 267–306,i primi due dedicati a Cielo d’Alcamo,il terzo ai rapporti tra il Libro Reale eil canzoniere laurenziano Rediano 9. LaSpampinato Beretta, per quanto riguar-da il “caso” Cielo, nel Vat. lat. 4817 e nelcosì detto ‘notamento’, presenta, dopouna puntuale indagine che esamina e di-scute la bibliografia pregressa, due que-siti fondamentali: il primo—che rispec-chia la posizione da lei sostenuta—chie-de se le lezioni che compaiono nella tra-scrizione colocciana siano errori che na-scono da sviste memoriali o siano le-zioni derivate da un antigrafo; il secon-do—caro a Corrado Bologna—doman-da se, ammesso che le lezioni siano deri-vate da un antigrafo, siano esse genuineo siano invece banalizzazioni (p. 219).Margherita Spampinato Beretta non

ritiene che le lectiones offerte dal f. 171vdel Vat. Lat. 4817 mostrino “caratteristi-che testuali di consistenza pari o mag-giore di quelle offerte da V [=Vat. Lat.3793]”, anzi, le paiono derivare da “una

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banalizzazione dovuta a citazione me-moriale” (p.219). E si chiede, al proposi-to, perché Colocci, che cita a memoriail testo immediatamente precedente, ilcontrasto (Virgo Beata aitami ch’io no(n)perisca a torto), dovrebbe invece trascri-vere da un antigrafo la strofe del Contra-sto che subito segue. Corrado Bologna,di contro, come ricorda la Beretta Spam-pinato, esclude che si possa intravede-re nei vv. l’ipotesi dell’improvvisazionemnemonica, semmai è dato riscontrare“la normale meccanica delle lectiones sin-gulares. E le lezioni offerte dal Colocciandrebbero annoverate tra quelle alla ba-se del testo, anche quando non ne resti-tuissero la lezione genuina” (p. 219). Bo-logna si pone però varie domande: “Co-locci avrà trovato il contrasto Rosa fresca,tratto magari da un ms. affine di V, conlezioni diverse, più prossime al testo no-to a Dante, cioè meno toscanizzate. . . ene avrà magari derivato la copia che ave-va sott’occhio al momento in cui stesegli appunti oggi nel ms. Vat. Lat. 4817?”O Rosa fresca sarà stata anche nel ms. dicui si è salvato solo l’attuale frammentomagliabechiano [Firenze, Biblioteca na-zionale Centrale, Magliabechiano II. III.49], oppure Colocci avrà letto il testo at-tribuito a Cielo su un terzo codice affi-ne, come il lacerto magliabechiano, a Ve “circolante a Roma nel primo ’500? Eparte di esso. . . sarà stato copiato nel Li-bro di Latino Giovenale?” (pp. 219–20).La studiosa, tenendo conto delle diver-se ipotesi formulate, conclude la primaparte della sua indagine affermando che,a suo parere, le proposte—la sua e quel-la di Bologna—sono entrambe ammis-sibili e indicano la volontà di cooperarealla ricostruzione del testo tradito, anchese con soluzioni divergenti. A mio avvi-

so, le ipotesi avanzate indicano pure lareale difficoltà che si riscontra nell’usa-re materiale di questo genere in funzio-ne ecdotica; di fronte a appunti, postille,schede non basta il distingue frequenter,ma è necessario il distingue frequentissi-me. Uomini come Colocci—e, su altropiano, come Bembo—avevano alle spal-le una institutio umanistica che li portavaa scelte filologiche molto creative, sep-pur mai gratuite, governate da un rigo-re in gran parte diverso da quello che ca-ratterizza l’odierna prassi ecdotica: e pro-prio Bembo lo dimostra con i suoi inter-venti sui RVF. Ma, per tornare alle pagi-ne della Spampinato Beretta, la studiosaspiega che è diverso il caso delle postilleche riguardano Cielo nel Vat. lat. 4823,dove l’attenzione del Colocci si appun-ta sul testo e non solo sulla sua strutturametrica, dal momento che il ms. è sta-to realizzato per poter studiare e anno-tare la lirica italiana antica a partire dalVat. Lat. 3793. La Spampinato Beretta ri-corda come a sostenere l’ipotesi di Bolo-gna, cioè quella dell’esistenza di un altrocodice recante il Contrasto, concorra lastudio di Simonetta Bianchini, che tut-tavia si muove su altri percorsi e con al-tri materiali. La Bianchini nota però cheColocci, nel Vat. Lat. 4823, non intervie-ne, nella trascrizione delle postille, percorreggere possibili ipermetrie del ver-so, anzi, a volte introduce elementi tur-bativi, inspiegabili per un metricista at-tento come lui, a meno che non si vo-glia ipotizzare una trascrizione meccani-ca di varianti da un altro ms. La Bianchi-ni nota anche che Colocci non correg-ge gli errori fatti dal copista di Vat. Lat.4823; le varianti (se devono essere con-diderate tali e non innovazioni del Co-locci) registrate nelle postille colocciane,

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presentano, in Vat. lat. 4823, tratti mol-to meno toscani rispetto al Vat. Lat. 3793e in alcuni casi (per es.: inbentura con-tro jnuentura 160, con betacismo meri-dionale, e la persone 108) le varianti po-trebbero far capo a una tradizione pre-cedente lo stesso Vat.Lat. 3793 o alme-no più vicina all’originale (ammesso siaesistita una tradizione siciliana o alme-no più sicilianizzante di Rosa fresca, co-me non manca di notare la Bianchini, p.221). La Beretta Spampinato ricorda chele postille alla prima strofa del Contrastoin Vat. Lat. 4823, se integrate nel testo,non forniscono comunque una redazio-ne di Rosa fresca “uguale o simile” a quel-la del così detto “notamento colocciano”(p. 221). Si dovrebbe dunque ipotizza-re che Colocci facesse riferimento a duemss. differenti: uno che recava le lezioniregistrate nelle postille di Va (=Vat. Lat.4823) e uno che poteva essere testimo-ne della sola prima strofe, trascritta nel“notamento”. Dal momento però che il“notamento” è da condiderarsi—sostie-ne, mi pare con fondamento, la studio-sa—quasi sicuramente una citazione amemoria con la fenomenologia varian-tistica che tale prassi comporta, mentrele postille di Va “nascerebbero da unacollazione sia pur meccanica” con un al-tro codice, “sarebbero queste ultime, inlinea teorica, a possedere maggiori titoliper essere introdotte nella tradizione” (p.222). Ma la Beretta Spampinato sottoli-nea, molto lucidamente, che “le variantidecontestualizzate vanno adoperate conprudenza estrema, non è lecito conside-rare il manoscritto come una sorta di ca-va di pietra dalla quale il filologo stac-ca un frammento e lo inserisce in modofortuito nel proprio lavoro, senza saperenulla del rimanente” (p 222). E conclu-

de: “Non si può dire che l’acquisizionedi questi frammenti giovi ai fini della re-stitutio textus (a norma lachmanniana),essi tuttavia costituiscono un indubbioguadagno per quel che attiene alla sto-ria della tradizione del componimentodi cui contribuiscono a illuminare la for-tuna” (p. 223); le parole della Spampina-to Beretta contengono delle osservazionidi metodomolto interessanti. A a partiredall’età di Petrarca—dall’età di una, di-ciamo così, filologia consapevole, fino alpieno Cinquecento—la tecnica del po-stillare, dell’ annotare, del citare lezionidi codici, magari poi perduti, dell’ emen-dare ope ingenii (e, più raramente, ope co-dicum) è stata perseguita da uomini in-signi per dottrina, ma ogni caso sta asé, ogni lettore-annotatore va conosciu-to nella sua “psicologia filologica”, ognilezione va vagliata, discussa, soprattuttova verificata la sua coerenza con un si-stema. Non necessariamente una lezionebrillante è una lezione vera.Entro questa prospettiva di metodo,

ma con proposte diverse, legate al diver-so oggetto di studio, si muove anche illavoro di Costantini sui rapporti tra ilLibro Reale e il ms. Firenze, BibliotecaMedicae Laurenziana, Laurenziano Re-diano 9. Dopo un’analisi assai puntua-le, l’autore ribadisce la natura di descrip-tus del Libro Reale in rapporto al Lau-renziano; tuttavia sebbene derivato dalLaurenziano per ciò che concerne l’ordi-ne progressivo delle singole sezioni, il Li-bro Reale cambia radicalmente la strut-tura generale del Laurenziano, soprat-tutto per quanto attiene al progetto di“canzoniere d’autore”, fondato sulla pro-duzione guittoniana, escludendo le let-tere e le canzoni di frate Guittone, perriservare il primo posto alla produzio-

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ne cortese di Guittone cui seguono lecanzoni d’altro autore e, infine, nella se-zione ultima, tracce di Guittone “mora-le”. Venuta meno l’impalcatura tematica“del Laurenziano a vantaggio della nuo-va silloge” rappresentata dal Libro Reale,anche l’originaria struttura metrica vie-ne modificata, “in linea con il rinnova-to gusto lirico-metrico post-stilnovisticoe soprattutto, post-dantesco (nell’otticadel De vulgari eloquentia)” (p. 305). Infi-ne, sebbene il Libro Reale sia un descrip-tus del Laurenziano, tuttavia si allonta-na dal Laurenziano, oltre che per l’im-pianto complessivo, “per alcune delle le-zioni che si ricavano dalla tavola e del-le postille colocciane” (p. 305), le qualipossono giovare vuoi in presenza di va-rianti redazionali in Guittone (ammessoche si vogliano difendere in quanto ta-li), vuoi in casi di sua terzietà, dandosiopposizione tra il Vat. Lat. 3793 e L. Giu-stamente Costantini conclude che restacomunque arduo stabilire le vicende chedal Laurenziano hanno portato al LibroReale, se e quali intermediari vi siano sta-ti e quale sia stata l’origine geografica delcodice scomparso.Fin qui dunque, e sommariamente,

ho cercato di insistere su alcuni dei con-tributi che, illustrando il metodo di la-voro del Colocci, uomo peraltro domi-nato da un “innato senso del disordine”,come ha ricordato Anna Ferrari,9 hannocercato di comprendere l’uso che del ma-teriale colocciano si può fare in funzionedella critica del testo e, forse più, in fun-zione della storia della tradizione. Vie-ne però da chiedersi come Colocci agis-se da filologo; una risposta arriva dallepagine di Antonio Rossi (Il Serafino diAngelo Colocci pp. 473–86: e vengo co-sì alla terza del libro ) che presenta Co-

locci come editore delle Opere dello ele-gante poeta Seraphino Aquilano. . . con laloro apologia et Vita desso poeta, pubbli-cate a Roma, da Giovanni Besiken, nel1503. L’edizione, in verità, si segnala an-che perché in essa compare l’unico scrit-to colocciano uscito a stampa, appuntol’ Apologia di Angelo Colotio nell’opere diSeraphino. Rossi, con un intervento pre-ciso e essenziale, mi pare chiarisca benecome Colocci, pur agendo con laboriosi-tà, non si dimostri certamente dotato diparticolare acutezza filologica, anzi rien-tri negli standard consueti del periodo.Di contro, esaminando gli interventi diColocci nell’ Apologia, Rossi riconosce inlui un esempio straordinario di criticamilitante, attenta e sensibile “a una lin-gua fondata sull’autorità degli scrittoritoscani (in primo luogo Petrarca e Dan-te, ma anche Cino da Pistoia e Cavalcan-ti), aperta al contributo della tradizio-ne meridionale (la Sicilia è ‘madre del-le rime’) e all’apporto proveniente all’au-tore [nel caso, Serafino Aquilano] dallapropria lingua madre” (pp. 485–86). CheColocci si segnali più come critico checome filologo-editore non deve meravi-gliare; appartiene infatti a quella gene-razione che—come ha magistralmentechiarito Dionisotti—aveva visto la filo-logia rinchiudersi nelle aule scolastiche eperdere il suo carattere militante; di con-tro, aveva visto nascere un desiderio discrittura autonoma, un desiderio di fa-re letteratura, in latino prima e oltre chein volgare, e in quello spazio cercare ildibattito.Oltre al contributo di Rossi, nella

terza parte del volume sono raccolti al-tri tre studi dei quali dico brevemente.Carlo Pulsoni riflette su Il “De vulgari elo-quentia” di Dante tra Colocci e Bembo (pp.

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449–71); aiutato da prove documentarie,sostiene che Colocci, come Bembo, uti-lizza ilDe vulgari per la sua attività filolo-gica anche se, diversamente dal venezia-no, non riesce a inglobare il testo dante-sco in un’opera organica. Osserva ancheche va ripensata, alla luce di varie testi-monianze, la cronologia relativa alla dif-fusione del trattato dantesco; infatti di-ce che, se nessun dubbio riguarda la sco-perta del trattato nel secondo decenniodel ’500 a opera del Trissino, qualche in-certezza si ha però sul periodo nel qualeil De vulgari arrivò nella mani di Bem-bo e Colocci. Avvalendosi dell’autogra-fo delle Prose del Bembo (Vat. lat. 3210)e facendolo reagire con il noto Vat. Re-ginense Lat. 1370, Pulsoni giunge a af-fermare che, se l’autografo delle Prose èdatabile al 1520/22, Bembo già all’epo-ca aveva letto e meditato quanto scrittoda Dante. Allo stesso modo, le postilledi Colocci al Vat. Lat. 3793 (e, aggiun-ge Pulsoni, a M, divenuto proprietà delprelato dopo il 1515), pur nella loro in-determinatezza, tradiscono—come ave-va osservato Debenedetti—la rapida let-tura integrale del trattato (lettura direi,più che copia), durante la prima perma-nenza romana del Trissino. Pulsoni pro-segue poi, a mio avviso avvicinandosi alvero, sostenendo che “in ragione delle af-finità di posizione sulla questione lingui-stica fra Trissino e Colocci” (p. 464), nonsi potrebbe escludere che i due abbia-no discusso dei rispettivi punti di vistaproprio davanti al trattato dantesco, cheparadossalmente confermava, se letto inun’ottica di parte, il loro pensiero; lostudioso, avvalendosi dei mss. coloccianiVat. Lat. 3217 e 4817 che lasciano traspa-rire un dibattito linguistico tra Coloccie Trissino, si prova a delineare un sugge-

stivo ritratto di un Colocci che “sembre-rebbe svolgere un ruolo di ghost-writer,o più semplicemente di suggeritore delTrissino, ancora tutto da studiare e sulquale converrà riflettere anche alla lucedi un passo della Vita dell’Ubaldini, do-ve si fa riferimento al fatto che Valeria-no introduce il Colocci nel Dialogo dellelingue ‘a raccontare il discorso seguito inuna cena del cardinal Giulio de’ Medicisopra il nome della nostra lingua: incli-nava il Colocci, secondo si mostra nellasuddetta narrazione, all’opinione di Gio.Giorgio Trissino, anzi come si raccogliedall’ Ercolano del Varchi, il Colocci aiu-tò con alcune ragioni l’opinione di es-so Trissino per chiamarla lingua italia-na: il che con ingenuità lombarda con-fessa l’istesso Trissino nel suo Castella-no’ ” (p. 468). Pulsoni conclude il suo la-voro ricordando come Bembo e Coloc-ci non si siano limitati, nei loro studi,a indagini filologico-testuali, ma abbia-no contribuito anche a arricchire l’ambi-to terminologico, per esempio, nel cam-po metrico, dal momento che proprio aloro—ma forse più a Bembo—spetta ilmerito di aver reso corrente il terminesestina, per indicare la forma metrica in-ventata da Arnaut Daniel e apprezzata eimitata , come è noto, anche in lingua disì, a cominciare dal Dante petroso.Gli altri due scritti che contribui-

scono a formare la terza parte del li-bro, contributi in sé importanti anchese non propriamente centrati sugli stu-di romanzi, così come sono intesi nel-la tradizione di studi italiana, sono fo-calizzati su un’altra area di interesse co-locciano, quella umanistica, indispensa-bile peraltro per capire anche Coloccistudioso di cultura e poesia romanza.Nel primo, Carlo Vecce illustra i rappor-

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ti tra Colocci e Sannazaro, sottolinean-do come le loro relazioni si inseriscanoappieno entro quelle di Colocci con al-tri letterati napoletani, rapporti intensifin dalla giovinezza di Angelo. Coloc-ci, nel tempo, mantenne contatti soprat-tutto con Pietro Summonte che atten-deva alle opere del Pontano; al Coloccitoccò la dedica (probabilmente aggiun-ta dal Summonte)—ricorda Vecce—diuno dei libri del De rebus coelestibus, Na-poli, Mayr, 1512, testo posseduto nell’au-tografo, speditogli dal Summonte, ms.Vat. Lat. 2839, e nella edizione a stam-pa; e postille colocciane con riferimentoal De rebus compaiono in un De situ ele-mentorum nel Vat. Lat. 3353. Il Pontano èricordato nell’elenco di umanisti del Vat.Lat. 3450, ff. 56rv; Colocci aveva studiatoil suo De sermone, compilandone un in-dice nel Vat. Lat. 4705, funzionale al suolavoro di raccolta di facezie, come risul-ta dal Vat. Lat. 3450. In più Angelo pos-sedeva vari testi pontaniani: l’Actius, nelVat. Lat. 2843, vari carmi, nel Vat. Regi-nense Lat. 1527, poesie nel Vat. Lat. 7192e nel Vat. Ottoboniano 2860; né manca-no rinvii a Pontano nelle sue celebri li-ste di libri. L’inventario colocciano, ste-so dopo la sua morte, nel 1558, annoveramolti titoli pontaniani che corrispondo-no a opere contenute nei Vaticani Latinidal 2837 al 2843. Ma il Colocci raccolseanche testi di altri umanisti partenopei,da Gabriele Attilio a Francesco Mantese,da Girolamo Carbone a Pietro Tamira,al Vopisco; di Eliseo Calenzio curò pu-re l’edizione degli opuscola presso Besi-ken a Roma. E’ nota inoltre la sua ami-cizia con Benedetto Gareth (more uma-nistico: Cariteo); dopo la sua morte, tra-mite il nipote del Cariteo e il Summon-te, sarebbero giunti nelle mani di Coloc-

ci alcuni libri importantissimi per le tra-dizioni romanze che erano appunto ap-partenuti al Gareth. E’ molto probabi-le che, dietro questa fitta rete di scam-bi e al fianco del Summonte—osservaVecce—ci fosse Sannazaro, i cui interessigeografici e cartografici presentano mar-cate coincidenze con quelli del Coloc-ci; inoltre Vecce sottolinea come emer-gano interessanti affinità tra alcune cita-zioni colocciane nei suoi appunti di me-trica mediolatina (Vat. Lat. 4817) e le ri-flessioni e gli esercizi di traduzione rit-mica di Sannazaro. Ma soprattutto Co-locci raccoglieva e conservava testi poeti-ci di Sannazaro latino. come quelli deiVaticani Latini 3358, 3353, 2836, 2847 edel Vat. Ottoboniano 2860. In particola-re merita ricordare che nel Vat. Lat. 2874compare la prima redazione del De par-tu Virginis, le Piscatoriae I, II, III e IV el’epigramma In Nolam. Ancora un pun-to; Colocci ebbe modo di avvicinarsi, ol-tre che a Sannazaro, a altri rappresentan-ti dell’ultima grande stagione di scoper-te di codici classici, come fra Giocondo eGiano Lascaris; ebbemodo anche di ave-re contatti stretti con Pietro Aleandro,che con lui, con Battista Casali, Vincen-zo Pampinella e Antonio Marostica, ave-va accompagnato il patriarca GiovanniGrimani in una passeggiata archeologi-ca tra le rovine di Roma. Pietro Alean-dro, nel 1502, aveva inviato a Venezia, aGerolamo Avanzi, che la pubblicò pressoil Taccuino, una ampia parte dell’ancorainedito libro X dell’Epistolario di Plinio ilgiovane, scoperto in un ms. del VI seco-lo nell’abbazia di S. Vittore a Parigi, “lostesso codice che, qualche anno dopo,Giocondo riuscì a portare il Italia e a af-fidare a Aldo Manuzio per l’edizione del1508” (p. 495). Non si sa a quale edizione

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Colocci facesse riferimento quando nelVat. Lat. 4817 rimandava proprio a Pli-nio, Ep. X 96, 7, ma è sufficiente qualchecitazione da un testo da poco scoperto apalesare la sua curiosità intellettuale e astimolare la nostra verso una conoscenzapiù approfondita del Colocci umanista,raccoglitore, nelle sue raccolte poetichedi testi rari, lettore attentissimo di testiclassici da poco editi, partecipe della dif-fusione della nuova produzione non so-lo volgare, ma anche, forse soprattutto,latina.Ulrich Schlegelmilch, invece, in

Carmina de ruinis: Pomponio Leto, Ange-lo Colocci e la poesia antiquaria di Romatra 400 e 500 (pp. 497–513), dopo avertracciato, per cenni essenziali, il percor-so di interessi antiquari—quasi una ere-dità—che da Pomponio Leto giunge aColocci, prende in esame uno scrittoretransalpino che ha prodotto Carmina deruinis, Ursino Velio, originario della Sle-sia, che nella seconda edizione delle suepoesie, in particolare nella Terza Elegia,riunisce e fonde due motivi, quello dellariflessione sulla sua carriera di poeta e ladescrizione di Roma e delle sue rovine.Velio descrive le rovine di Roma “conuna miscela di precisione visuale e diallusioni intertestuali, riferendosi comepare ai trattati antiquari del Leto da unlato, e alle collezioni oppure ai luoghifavoriti del Colocci dall’altro” (pp. 499).Tra le allusioni intertestuali, lo studiososuggerisce, con cautela, la possibilità diuna ripresa da Sannazaro, Ad ruinas Cu-marum; ma con più sicurezza—a quantopare, a ragione—riconosce l’evocazionedi luoghi che rimandano a ambienti co-locciani (per esempio la casa di Colocci,già del Leto) o ancora a reperti archeo-logici che s’avvalgono delle ricerche del

Leto, testimoniate dal De antiquitatibusurbis Romae, che , stampato nel 1510 e poinel 1515, potrebbe aver avuto come pro-motore il Colocci. Ma il Velio fa anchealtro; non solo è mosso da un intento de-scrittivo, ma anche morale. Lo Schlegel-milch pensa che una risposta stia nellasituazione sociale del Velio, cliente di unprincipe mecenate; l’umanista descrivel’Aurea Roma, ma la paragona alla Slesia,la sua patria, che non è da meno. Co-me aveva già fatta Battista Mantovanonella sua Quaerimonia de morte Alexan-dri Cortesii, le rovine di Roma sono per ilVelio, nella ricordata elegia, un mezzo diconsolazione e, a un tempo, una quaeri-monia poetae. Schlegelmilch ricorda poialtri poeti antiquari come Egidio Gallo,che non compare tra i membri dell’Ac-cademia colocciana, ma che fu membrodi quella del Goritz; Gallo compose l’o-pera De viridario Augustini Chigii dove,nei due ultimi libri, troviamo cataloghidi località romane fondati sull’opera to-pografica di Pomponio. O anche comeAndrea Fulvio, guida di Raffaello fra lerovine di Roma, autore degli Antiqua-ria urbis, lavoro in due libri di esametri,elaborato in un periodo abbastanza lun-go, ma scritti e pubblicati nel ’13, dove sitrova una sorta “di inventario di edificinon solo antichi—scomparsi o super-stiti—ma anche moderni, per attingereuna laus urbis e anche una laus papae,cioè del pontefice appena salito al solio,Leone X” (p. 504). E’ solo durante il pa-pato di Leone X che a Roma—sottolinealo studioso—si trova una vera e propriapoesia antiquaria. Certamente curiositàantiquarie erano state vive anche in epo-ca più remota e il caso di Petrarca è esem-plare; e queste curiosità facevano tutt’u-no con un’idea di rinascita: fasti passati

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che possono far presagire e sperare infasti futuri. Ma nel ’500, parallelamen-te all’entusiasmo antiquario, comincia ainsinuarsi anche il senso dello squallo-re: le orride rovine di Roma, collocatein un paesaggio minaccioso (è un’im-magine tratta da un testo dell’umanistasiciliano Giano Vitale, testo edito solonel 1553) anche se poi la città—così con-tinua il componimento di Giano Vita-le—risorge grazie all’azione di illumina-ti pontefici. Ma, dice lo Schlegelmilch,è la prima parte di questo testo a esserefondamentale, perché influenzò “il piùgrande commentatore poetico della Ro-ma cinquecentesca: De Bellay” (p. 510).Due sono i punti sui quali si deve sosta-re, parlando di lui, in questa prospettiva:1) “Du Bellay tende verso una immagi-ne di Roma che si stacca molto di piùdalla realtà concreta: la sua non è asso-lutamente poesia antiquaria, ma poesiamorale” (p. 510); 2) uno degli scopi prin-cipali “delle poesie romane di Du Bellayera di mettere in contrasto il vecchio ca-put mundi con uno nuovo, che per luinon poteva essere che la Parigi di EnricoII” (p. 510): antichi versus moderni, dun-que. Solo nel 1585 usciva un’opera delpoeta latino di Orleans, Germain Aude-bert (che però aveva fatto il suo viaggioin Italia nel 1538), un’opera che è davveroun poema antiquario in esametri, la Ro-ma. Lo scritto, che si rifà agli AntiquariaUrbis del Fulvio, ebbe successo, “ma ri-mase una tarda eco di un’epoca lontana,in cui, intorno a personaggi come Pom-ponio Leto e Angelo Colocci, esistevauna simbiosi tra studiosi moderni e poe-ti delle antichità” (p. 513). Nelle paginedi Schlegelmilch, Colocci non comparemai in primo piano, ma, in filigrana, lasua immagine è sempre presente, motivo

sufficiente—credo—per proseguire leindagini sia sulle sue raccolte antiquarie,sia sulla poesia antiquaria.Vorrei concludere l’illustrazione del

primo dei due volumi con una sosta sulprimo capitolo; come in certe liturgiel’officiante di più alta dignità chiude lafila, così mi pare che qui, all’argomen-to più significativo, perché regge, comechiave di volta ogni indagine coloccia-na, cioè la biblioteca di Colocci, spettila sede più rilevata. Questa parte si ar-ticola in quattro contributi e alcuni traessi ci collocano entro quel percorso dilavoro che era stato stilato per il conve-gno di Jesi. Nel primo, Corrado Bolo-gna (La Biblioteca di Angelo Colocci, pp.1–20), con tocchi rapidi e efficaci, sotto-linea la complessità e, nello stesso tem-po, la preziosità, della raccolta libraria diColocci e ne illustra le caratteristiche divero strumento di lavoro per questo let-terato, divorato da un’ansia mai placatadi raccogliere libri, mosso dal desiderio,mai soddisfatto, di trascrivere, annotaremss. e stampati, libri che diventano tut-tavia ciascuno e tutti insieme gli attrez-zi della sua bottega artigiana, dove infi-nite opere vengono immaginate, pensa-te, quasi nessuna conclusa. Queste prero-gative della biblioteca di Colocci—am-messo e concesso anche che per ogni uo-mo di cultura la biblioteca sia sempre illuogo di lavoro—emergono con forza serapportate, come avviene nei contribu-ti di Massimo Danzi e Matteo Motole-se, con due altre biblioteche cinquecen-tesche, quelle appunto di Bembo (qui in-dagata soprattutto per la sua parte “ro-mana”: La parte ispano-portoghese della Bi-blioteca di Bembo—con una “postilla” co-locciana, pp. 85–106) e di Lodovico Ca-stelvetro (Per lo scaffale di Castelvetro: un

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nuovo documento e una vecchia lista, pp.107–21). La prima, più facile, per moltimotivi, da ricostruire nelle sua linee fon-damentali (il fondo di Eton College, del-la Vaticana e dell’Ambrosiana sono de-terminanti); la seconda assai più com-plessa da ricomporre (e, al presente, as-sai esigua), l’una e l’altra, però, bibliote-che raccolte da uomini assai diversi daColocci. Colocci, parlando di sé, dellesue ormai declinate speranze, intorno al1544–45, diceva (traggo la citazione dal ri-cordato contributo di Antonio Rossi, p.486):“Io pensava che li studi miei, la glo-

ria mia che nasceria dagli studi e lecte-re fusse l’ultimo riposo mio, e io moriròche non se vederà alcuna cosa de me.”In sostanza, Colocci, se si pensa a te-

sti pubblicati, fu buon profeta. Bembo eCastelvetro, diversi fra loro, intellettual-mente e socialmente, furono però anchediversi da Colocci: molto scrisse e pub-blicò Bembo, molto scrisse e pubblicòCastelvetro. Se invece volessimo evoca-re un uomo e una biblioteca che posso-no essere messe vicine a Colocci e allasua collezione di libri, credo che, seb-bene li separi quasi una generazione emezza, si debba pensare a Pinelli e allasua biblioteca. Colocci e Pinelli scrisse-ro moltissime note, appunti, schede, manon pubblicarono quasi nulla; Colocci ePinelli raccolsero quasi tutto quello cheebbero la possibilità di raccogliere; Co-locci e Pinelli, sono, per i posteri, le lo-ro biblioteche, biblioteche costruite conimpegno strenuo e difese, loro vivi, con-tro ogni avversità e, proprio perciò, do-cumenti fondamentali delle età rivolte.Se la biblioteca di Pinelli si può—me-glio: si deve—indagare affidandosi al be-nemerito catalogo del Rivolta (e a vari

studi successivi), la biblioteca di Coloc-ci dispone ora del diligente contributodi Bernardi (Per la ricostruzione della bi-blioteca colocciana: lo stato dei lavori, pp.21–83) che, vagliando la bibliografia no-ta, ha messo in fila più di trecento libri.E’ un primo, importante passo; ma neltempo, si dovrà giungere a un catalogocompiuto di questa raccolta, pubblican-do gli inventari, le liste di libri (come ri-corda Bologna, pp. 11–14), descrivendo,iuxta sua propria principia, mss e stampa-ti, creando rimandi incrociati tra volu-mi sopravissuti, inventari, liste. L’autoreideale di un’opera del genere sarebbe sta-to—è facile dirlo—Augusto Campana;ma Campana non c’è più e, dunque, toc-ca a nuove generazioni di studiosi impe-gnarsi in questo campo di indagine (pro-babilmente uno studioso solo non baste-rà per dominare terreni tanto vari e vastiquali sono quelli percorsi dalla curiosi-tà di Colocci), ciascuno secondo le pro-prie competenze, in concorde unità diintenti.

* * *Vengo ora al secondo volume, cioè

all’edizione, curata da Marco Bernardi,dello zibaldone conservato nel Vat. Lat.4831.10 Gli zibaldoni colocciani—davve-ro parecchi; per ecitarne solo alcuni,menziono i Vat. Lat. 3217, 3388, 3450,3903, 3905, 3906, 4817, 4818—sono libriaffascinanti, ma, data la natura magma-tica dei materiali che contengono, so-no assai difficili, come mi pare si sia vi-sto anche da alcuni contributi del primovolume, da descrivere, analizzare, com-prendere e valorizzare. Comunque sia, ilVat. Lat. 4831 ha una forma singolare; èuna sorta di vacchetta, di 104 ff., nume-rati al recto dalla mano di Colocci, più12 altri ff. “tagliati (o strappati) parallela-

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mente al lato più lungo” del ms. e unoaggiunto alla fine.11 Bernardi spiega chequesta forma è unica, a quanto gli risul-ta, tra i mss. colocciani e pensa, pur nonrappresentando la cosa una condizionedi per sé sufficiente, che questa particola-rità possa essere un segno “della ricondu-cibilità ad un progetto compilativo uni-tario del materiale raccolto nel Vat. Lat.4831” (p. 8). Non ho un’idea precisa al ri-guardo—lo confesso—e non sono riu-scito a farmela, pur avendo riflettuto unpo’ sul libro; d’altra parte, non posso nonconcordare con l’editore sul fatto che,se la numerazione dei ff. è proprio dimano del Colocci, allora si dovrà alme-no scartare l’ipotesi “che l’attuale codi-ce sia risultato dall’aggregazione postu-ma di materiali irrelati” (p. 8). Bernardianalizza con molta attenzione la struttu-ra del ms., riconoscendo la presenza dicinque fascicoli di diversa consistenza. Ilprimo fascicolo contiene due differentitesti, l’uno, abbastanza breve, in terzinedantesche, non ricordato negli incipita-ri più diffusi; l’altro, molto più esteso, èrappresentato da un’egloga dialogata inendecasillabi sdruccioli, sulla quale tor-nerò più avanti. Il secondo tramanda ap-punti e annotazioni dal De amore di An-drea Cappellano e tali appunti e annota-zioni, oltre che interessanti in sé, lo sonoanche perché testimoniano l’attenzionecon la quale Colocci lesse il testo, proba-bilmente in due momenti, e perché illu-strano il suo metodo di lettura e anno-tazione che Bernardi definisce, con effi-cacia, “a serpentina”;12 ma lo sono anchecome testimonianza “diretta del trattatoin un’epoca non sospetta”.13 Il terzo fasci-colo è invece costituito da una tavola dimano di un copista del Colocci, ma rivi-sta dal Colocci medesimo, “che raccoglie

gli incipit di 661 testi poetici in volgare”(pp. 64–5), disposti per alfabeto secondola lettera incipitaria; sono testi del Tebal-deo del quale il Colocci molto si interes-sò, giungendo a progettare, dopo la mor-te del poeta, un’edizione delle sue poe-sia, chiedendo anche la collaborazionedel Bembo; Bernardi nota però che, al-l’interno di ciascuna sezione, “gli incipitsi susseguono in base a un criterio topo-grafico, secondo cioè la posizione che icomponimenti da essi individuati presu-mibilmente avevano nel volume di cui lenostre pagine costituiscono una sorta diindice: i numeri di pagina, che accom-pagnano ciascun incipit, infatti, sono perlo più disposti in ordine crescente, sal-vo dimenticanze che [. . .] costrinsero ilcompilatore a integrare gli incipit saltati,riportandoli al fondo di ciascuna sezio-ne dell’elenco” (p. 65). Bernardi si impe-gna a ricostruire la struttura del ms. delquale il fascicolo III fornisce la tavola, esi impegna pure a comprendere come ilColocci abbia fatto lavorare il copista ecome egli medesimo abbia lavorato. Ri-flettendo poi su un progetto di edizionedel Tebaldeo pensato dal Colocci e testi-moniato da materiali epistolari—si pos-sono vedere due lettere stampate in ap-pendice a questo volume, pp. 443–45—,Bernardi propone di ricondurre proprioa questo progetto “la composizione delvolume di cui il fascicolo costituirebbel’indice alfabetico”, un volume da inten-dere come un “deposito di materiale ine-dito” (p. 77), completo il più possibile eaddirittura ridondante, dato che vi sono43 incipit ripetuti due volte e più.Il quarto fascicolo è complesso co-

me struttura e, perciò, è minutamenteanalizzato da Bernardi. Il fascicolo racco-glie quelle che già Fanelli definiva “rac-

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colta di schede per la biografia dei poe-ti” (p. 77), un insieme appunto di sche-de (che però, in qualche caso, come, aesempio, per Cino, lasciano trasparire l’i-dea di una integrazione con testi, comeper la costruzione di una di quelle Sel-ve che giravano nella Roma del ’500) daiprovenzali fino all’Accademia coloccia-na. Bernardi dice: “Le ‘biografie’ si pre-sentano come una successione di schede,aperte dai nomi dei personaggi scritti amo’ di titoli, seguite da notizie biografi-che, osservazioni di lingua e stile, aned-doti e facezie, che rivelano una plurali-tà di fonti e di letture. Non sono tut-tavia pochi i nomi ai quali non seguo-no annotazioni di sorta” (p. 78). I ma-teriali di questo fascicolo sono dispostiin due parti diseguali: più estesa la pri-ma (da f. 31r al f. 76v), più ridotta laseconda (solo 18ff). La prima parte ve-de assegnata a ogni personaggio un in-tero foglio (cosa che non avviene perla seconda) e, nell’elencare i poeti, Co-locci pare seguire un ordine geografico-cronologico, anche se il modello sul qua-le poggia l’elenco colocciano è quello pe-trarchesco di Triunphus Cupidinis IV 28–69, dove le successioni dei nomi sonogovernate dalle esigenze del verso e delmetro. Questa prima parte è, a sua vol-ta, divisa in due sezioni; la prima—efin da qui si palesano le differenze conla successione petrarchesca—inizia conFolchetto da Marsiglia (grande assenteè Arnaut Daniel), prosegue fino a Gau-celm Faidit (chiamato Anselmo da Co-locci, come anche in vari mss. dei Trium-phi) e è chiusa da quelli che vengono det-ti Nostri, cioè Tommaso Caloira, Socra-te (Ludovico von Kempen), Francesco daBarberino (poeta aggiunto all’elenco deiTriumphi) e Lelio (Lello di Stefano Toset-

ti). La seconda sezione della prima par-te (sezione che dovrebbe contenere l’e-lenco dei Nostri) inizia invece con Dantee, con alcuni spostamenti, giunte (Cec-co d’Ascoli, Boccaccio, Antonio da Ferra-ra e lo stesso Petrarca) e omissioni (i Si-ciliani) rispetto all’elenco petrarchesco,giunge fino a Re Roberto. Bernardi illu-stra attentamente ogni presenza e ricercale fonti delle notizie citate, riconoscen-do in Petrarca, non solo volgare, ma so-prattutto latino, uno dei punti di forzadella compilazione colocciana; ma rico-nosce anche altri testi adoperati da Co-locci, vuoi per la costruzione biograficavera e propria, vuoi per le inframezzatefacezie, riportate ora all’uno, ora all’al-tro autore; cito, per le fonti ‘storiche’, allarinfusa, Boccaccio, Bernardo Ilicino, Gi-rolamo Squarzafico, il Foresti del Supple-mentum Chronicarum, Landino, il Cac-cialupi; per le novellette che si inframet-tono al testo Pietro Alfani, Petrarca, Fi-lelfo, Poliziano, Fabio Vigili ( quest’ulti-mo come testimone orale). La secondasezione è anche strutturalmente diversadalla prima; cito, perché più chiaramen-te non si potrebbe dire, le parole di Ber-nardi:“Quest’ultima [sezione è] caratte-rizzata spesso da singole facciate in cui siaffastellano più nomi. . . ” (p.79). Questacircostanza sarà forse conseguenza dellafondamentale difficoltà nel reperimen-to di informazioni relative ai personag-gi citati in essa ( per es.: Matteo Palmie-ri, Mariano da Genazzano, Malatesta daRimini, Leon Battista Alberti, Tomasuc-cio da Foligno, Cornazzano ecc.). La se-conda sezione, infatti, sembra edificarsisu basi documentarie assai più fragili emeno autorevoli di quelle della prima:“aneddoti faceti, racconti di conoscenti,memorie familiari, conoscenze persona-

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li” (p. 80) sembrano le fonti delle notizieraccolte (salvo per le menzioni del Lan-dino, che però non vanno oltre il f. 78),quando pur si faccia menzione di unafonte.Il quinto fascicolo è legato al prece-

dente, forse è stato addirittura compo-sto prima, e, a prescindere dai testi sal-vati sulle strette unghie dei 12 ff. tagliatiall’inizio, testi non facili da recuperare,elenca anch’esso nomi di poeti, pur confogli lasciati in bianco e senza intestazio-ne. Si tratta di poeti o intellettuali cro-nologicamente meno distanti da Coloc-ci (anche se si deve ricordare l’elenco dif. 102 r che inizia con Celio—cioè conCielo d’Alcamo—e termina con OnestoBolognese), la cui registrazione risulta,a mio avviso, assai interessante per per-cepire come venissero considerati autoriche la nostra sensibilità ritiene magari dipoco conto e che non sono stati assun-ti entro la linea maestra della tradizioneletteraria. Proprio per questo il fascicoloV dovrebbe essere tenuto presente, per-ché una qualche domanda deve pur far-la nascere il fatto di trovare insieme (e lacronologia qui non sembra contare) Fra-te Enea, Gravina fallito, Bembo, Casti-glione, Cesare Gonzaga, Ciriaco d’Anco-na e Giovanni Agapito. Qualche doman-da su Colocci, certamente, ma, insieme,sull’età sua e sul suo ambiente.Credo che Bernardi abbia ragione

a sostenere, come fa, che Petrarca hauna “funzione agglutinante” entro que-sto ms., funzione che si esprime con di-verse modalità e diversa intensità nei sin-goli fascicolo (nel quarto fascicolo, peresempio, Petrarca agisce come fonte do-cumentaria e come elemento propria-mente strutturante). Il lettore potrà tro-vare illustrata da Bernardi questa “fun-

zione Petrarca” già alle pp. 154–55 delprimo volume e su di essa potrà pensa-re per consentire o dissentire in tutto oin parte; ma, quand’anche non si voles-sero condividere in toto le proposte diBernardi, mi pare che emerga bene co-me Petrarca abbia avuto, negli interessidi Colocci, un ruolo centrale e emergaalla luce di un suo appunto che com-pare nel secondo fascicolo, quello dedi-cato al De amore del Cappellano; Ber-nardi infatti ricorda che l’ “unico puntoin cui il Colocci sembra distaccarsi daltesto del volgarizzamento con qualcosadi suo, che abbia però una funzione di-versa dal semplice sintetizzare, è quan-do appunta, accanto a un precetto d’a-more, ‘et nota p(er) Petrarca’ ”.14 Il volu-me è accompagnato da varie tabelle (pp.387–437); la prima che raccoglie, in si-nossi, le serie rimiche dell’egloga sdruc-ciola colocciana del primo fascicolo delcodice (ff. 2–5); le serie rimiche di treegloghe di Serafino Aquilano; le liste diparole sdrucciole rimanti che si possonoleggere ai ff. 117–24 dello zibaldone Vat.Lat. 4818; la seconda offre un prospetto,sempre in sinossi, delle “regole d’amore”di Andrea Cappellano del secondo fasci-colo, secondo tre redazioni, comparati-vamente considerate; la terza costituiscela rielaborazione della tavola alfabeticaconservata nel fascicolo terzo del ms (e aquesta si connettono pure le tabelle III 1e 2); la quarta presenta una sintesi sche-matica delle biografie presenti nei fasci-coli quarto e quinto, delle fonti storico-letterarie alle quali le biografie attingo-no e degli altri paralleli testuali, in par-ticolare gli aneddoti faceti ai quali si al-lude in esse biografie. Concludono il li-bro una raccolta di lettere di e a Coloc-ci e alcuni documenti che lo riguardano

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(per esempio il suo testamento in puntodi morte).Di fronte a un volume così comples-

so, gli argomenti di discussione posso-no essere moltissimi. Per esempio si puòconcordare o meno con le scelte edito-riali di Bernardi, peraltro minutamenteillustrate alle pp. 124–36. Bernardi pro-pone una sorta di edizione diplomatico-interpretativa che permette al lettore diricostruire, a livello mentale, con l’aiutodi numerose riproduzioni fotografiche econ alcuni funzionali accorgimenti tipo-grafici, la disposizione dei testi sul fo-glio, le correzioni, le giunte; indica in-fatti con la barra la fine della linea discrittura, segue l’“a capo” del ms., scio-glie le abbreviazioni tra parentesi tonde,dispone accenti e apostrofi.15 Di contronon normalizza maiuscole e minuscolee non introduce segni di interpunzioneche non siano nel ms. E’ vero che si trat-ta di una edizione generosamente appre-stata in funzione di servizio; è anche ve-ro che i testi editi sono “testi al limite”,testi cioè in certo senso privati, appuntisenza uno statuto definito, ma la letturadell’edizione diventa molto impegnativae non sempre liquida. Più complessa an-cora mi pare la situazione che si presentaal fascicolo primo, dove ci si imbatte intesti poetici (o testi in versi) veri e propri,eventualmente testi d’abbozzo (si licet,ovviamente, come quelli petrarcheschi),ma non certo appunti; in questi casi illettore, almeno a mio parere, ha ancorapiù bisogno d’aiuto per capire e l’edito-re, sempre a mio parere, dovrebbe assu-mersi, in toto, l’onere dell’interpretazio-ne, introducendomaiuscole e minuscolesecondo i criteri correnti e tutti quei se-gni diacritici e interpuntori che sono in-dispensabili per comprendere (oltre na-

turalmente a emendare il testo, se e dovenecessario).Per restare al primo fascicolo, i te-

sti in versi trasmessi dal ms. vengono quiediti per la prima volta; ogni edizione è,direi per definizione, perfettibile; a mag-gior ragione una princeps che deve fare iconti con una scrittura assai ostica, co-me è quella di Colocci. Bernardi ha for-nito, molto correttamente, delle fotogra-fie di alcune tra le parti edite e, alla lucedi un confronto celere, mi pare che qual-che miglioramento all’edizione si possaapportare. Sosto tuttavia su un solo pun-to, che mi pare rilevante per il meto-do. A pag. 158 (= f. 2v del ms.) l’editoretrascrive:

et se pur vien talor qualche inter(.)edioai boni ai giusti a chi ben far attendononon manca di lassù Iusto remedio.

Il problema dovrebbe stare, per Bernar-di, nella parola inter(.)edio, che è infattiaccompagnata da una nota che recita co-sì: “Parola che sembrerebbe di dover leg-gere interpedio, se solo l’espressione aves-se senso. Si potrà forse trattare di un ba-nale lapsus calami per la parola interme-dio (che comunque non chiarisce di mol-to il significato del verso)”. Ora, la letturainterpedio è, per quel che mi pare, sicu-ra e sicuro è anche il senso; interpedio èstato certamente costruito, per avere ri-ma con remedio, con una mossa, direi co-sì, polifilesca, sul verbo interpedio, in-terpedire, usato, per esempio, da Ma-crobio (7 Saturn. 12 extr.) con il valoredi impedio, come insegna il Lexicon to-tius latinitatis . . . , s.v. Una piccola inda-gine etimologica, che può anche sempli-cemente prendere il via dalla consulta-zione del REW 4494, permette in primo

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luogo di imparare che interpedire va-le appunto “verhindern”; permette poidi apprendere che deve essere ipotizza-ta una forma *interpediare, donde losp. ‘tropezar’; a questo punto è inevita-bile la consultazione di J. Corominas &J.A. Pascual, Diccionario crítico etimologi-co castellano e hispaníco, V, RI-X, Madrid,Gredos, 1983 (Bibl. Rómanica Hispáni-ca. V. Diccionarios, 7), pp. 664-5, dovesi legge:“tropezar, antes entropeçar, pe-ro la forma primitiva es entrepecar, pro-cedente del lat. volg. *interpediare, va-riante de interpedire que con el sentidode impedire, ‘impedir’, ‘enredar’ ‘entor-pecer’, ‘trabar’, se encuentra en auctorespostclásicos”. Alla luce di queste attesta-zioni, mi pare che, insomma, il senso delverso colocciano sia chiaro: “e se qualchevolta si manifesta qualche ostacolo. . . ”.Quando ci si muove sui terreni cro-

nologicamente alti della Filologia del-la letteratura italiana, per intenderci dalvecchio Dante e dal giovane Petrarca giùfino al pieno Cinquecento, è indispensa-bile fare i conti con i volgari di sì e conquelli d’oc e d’oil, ma anche con il lati-no che con quei volgari assai spesso si in-treccia in un interscambio sorprenden-te; e non solo con il latino dei giuristi edei filosofi, ma con quello degli umani-sti che non è esclusivamente di impron-ta ciceroniana, ma che anzi è, almeno dauna certa altezza cronologica, dal Poli-ziano grosso modo, aperto all’età argen-tea, aperto, in età colocciana, a testi rari,desueti, difficili.Qualcosa si può dire anche sulla bi-

bliografia che mi pare però sia stata sag-giamente pensata in modo da non appe-santire la già abbondante (a volte anchetroppo abbondante) fascia di commen-to. Certamente ogni bibliografia è passi-

bile di integrazioni (per es. qualcosa sipotrebbe aggiungere, dopo gli interventidi Beatrice Barbiellini Amidei, alle vocirelative al De amore), ma più interessan-te diventa la situazione quando la biblio-grafia che non esibisce immediatamenteil nome del personaggio che si sta stu-diando può giovare a ampliare l’indagi-ne su di lui. A p. 377 (f. 104r), con riferi-mento a Egidio (citato nel quinto fascico-lo), Bernardi propone, in nota, che possatrattarsi di Egidio da Viterbo o di EgidioGallo; di EgidioGallo si dice poi che feceparte della corte poetica di Leone X convari altri uomini di cultura, tra i quali unLelio che, lo ricavo dall’indice dei nomi,dovrebbe essere Antonio Lelio. Mi sentoin ottima compagnia—con il Marche-se Ferrajoli e con Carlo Dionisotti, peresempio—nel ritenere che Antonio Le-lio non sia Lelio Massimi; in ogni modoAntonio Lelio, in uno stampato segna-lato da Michelini Tocci e citato da Ber-nardi nel suo contributo sulla Bibliote-ca di Colocci,16 lascia la seguente nota:“Felici Trophimo, Episcopo Teatino Sa-no, Donum Dedit Antonius Laelius Po-dager”; e subito sotto: “A. Colotii impen-sa”. Ora, nelle biblioteche romane, cre-do, con qualche fondamento, che ci sia-no altri volumi di Antonio Lelio, e, vistala storia di questo, bisognerebbe verifi-care se, seguendo Lelio, non si arrivi aColocci.Ancora un punto; Bernardi non ha

risparmiato energie per identificare ipersonaggi citati nel quarto e quinto fa-scicolo, molti, non tutti, abbastanza ri-conoscibili: ma qualche fantasma rima-ne. Tuttavia credo di poter contribuirealla materializzazione di almeno uno diquesti ectoplasmi; a p. 369 (f. 100v ) com-pare il nome di Ottavio da Fano e l’edi-

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tore, in nota, aggiunge: “Personaggio ame ignoto”. La cosa non stupisce perchéil pulviscolo di minori e minimi che af-folla gli ultimi decenni del ’400 e la pri-mametà del ’500 è fittissimo; ma è anchevero che, quando ci si muove nell’arcodella tradizione italiana fra ’300 e ’500,negli anni che la Filologia della letteratu-ra italiana ritiene essere il proprio perio-do fondante, seppur non esclusivo, i con-ti con umanisti mono e plurilingui biso-gna farli. Ottavio da Fano è il ben notoOttavio Cleofilo, che pubblicò a Romaper i tipi di Silber e a Fano per quelli diSoncino e che raccontò, in una epistolalatina indirizzata a Ferrara agli amici Bat-tista Guarini, Antonio Cittadini, NicolòLeoniceno, l’Avogario, Ludovico Carbo-ne, Luca Ripa, Aristofilo Manfredi, Bel-tramo Costabili e Ludovico Pittorio, traaltre cose, di una gara poetica, e di poesiavolgare, da lui sostenuta e vinta a Roma,contro un cliente del card. Battista Zeno.L’argomento dell’epistola (oltre al restodella produzione di Ottavio, come un Li-bellus de coetu poetarum) poteva interessa-re Colocci e proprio l’argomento dell’e-pistola suscitò l’interesse di Carlo Dioni-sotti che dedicò alcune pagine a Ottavioda Fano.17

Ma, a parte queste osservazioni dipoco conto, la domanda che mi sono po-sto, studiando il libro, è stata: cosa fa-re ora di un così abbondante—e peròmagmatico—materiale? Come usarlo evalorizzarlo? Come dare un senso all’an-sia mai intermessa di Colocci di racco-gliere notizie? E ancora: qualcuno ha fat-to tesoro (a prescindere dagli studi mo-derni) di questi appunti, di queste no-te, delle quali spesso è difficile intende-re, non che la grafia, la ratio? Propon-go due piccoli esempi, davvero piccoli,

che traggono spunto dal quarto fascico-lo, esempi che, se non altro, hanno dal-la loro il colore della curiosità. Bernar-di ricorda che spesso è citato nel ms. reRoberto d’Angiò, in modo diciamo or-ganico a f. 76v del ms., ma se ne fa men-zione già da f. 68v e a f. 73v il sovrano èdetto anche “Roberto re figlio di re carloi(n)clyto” e poi “re de hierusalem et de si-cilia”; Roberto è menzionato a f. 76r co-me autore di un’opera il cui incipit suonaAmor che movi el ciel per tua virtute; Ber-nardi giustamente riconosce il verso co-me iniziale del Trattato delle volgari sen-tenze sulle virtù morali di Graziolo Bam-baglioli. Ora, Federico Ubaldini, autore,come già si è detto, della Vita di AngeloColocci, è anche il mirabile editore de-gli abbozzi petrarcheschi, pubblicati nel1642, a Roma, presso Grignani; al termi-ne della sezione petrarchesca il volumepresenta però un altro testo che portaquesto titolo: Roberto, Re di GerusalemmeSopra le virtù morali. / Dell’Amore/ Amorche movi il ciel per tua virtute. La coin-cidenza, se è soltanto una coincidenza,mi pare almeno curiosa; e curioso mi pa-re anche il fatto che l’Ubaldini si sia de-dicato, con un impegno anche propria-mente linguistico, a Francesco da Barbe-rino, a quel Francesco da Barberino checompare nel fascicolo quarto del ms. co-me un’aggiunta colocciana, rispetto all’e-lenco petrarchesco.18 Mi chiedo se nuovisondaggi alla Vaticana o nella Bibliote-ca di Urbania non possano permettere diconoscere qualcosa di più sui motivi chehanno spinto l’Ubaldini, forse memoredel Colocci, a quelle edizioni e a queglistudi.I libri valgono per le idee che san-

no trasmettere, per i dati oggettivi nuoviche sanno presentare al lettore; ma i li-

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bri valgono anche per le domande chefanno nascere, per le curiosità scientifi-che che accendono, per i dubbi che in-sinuano. Mi pare che, nel loro insieme,e a prescindere da osservazioni di detta-glio sempre possibili, questi due volumisoddisfino i requisiti che rendono, a mioparere, utile un libro.

Giuseppe FrassoUniv. Cattolica del Sacro Cuore Milano

* Angelo Colocci e gli studi romanzi, a c.di C. Bologna e M. Bernardi, Città delVaticano, Biblioteca Apostolica Vatica-na, 2008 (Studi e Testi, 449); M. Bernar-di, Lo zibaldone colocciano Vat. Lat. 4831,Città del Vaticano, Biblioteca ApostolicaVaticana, 2008 (Studi e Testi 454).1 Le notizie qui raccolte dipendono dal-la “voce”, non firmata, Colocci, Angeloin Dizionario biografico d. italiani, v. 27,Roma, Istituto d. Enciclopedia italiana,1982, 105–111, donde anche le citazioni.2 Colocci, Angelo in Dizionario biograficod. italiani, pp. 105–111.3 F. Ubaldini, Vita di Mons. Angelo Co-locci, Edizione del testo originale italia-no (Barb. Lat. 4882) a c. di V. Fanelli,Città del Vaticano, Biblioteca ApostolicaVaticana, 1969.4 Atti del Convegno di studi su AngeloColocci, Jesi, 13–14 settembre 1969, Pa-lazzo della Signoria, Amministrazionecomunale di Jesi, 1972.5 Atti del Convegno di studi su AngeloColocci, p. 9.6 V. Fanelli, Ricerche su Angelo Colocci esulla Roma cinquecentesca, Introduzione enote addizionali di José Ruysschaert, In-dici di Gianni Balestrieri, Città del Va-

ticano, Biblioteca Apostolica Vaticana,1979.7 E’ sufficiente percorrere la bibliografiaraccolta nei due volumi in questione perottenere le indicazioni necessarie.8 Aggiungo che la sezione contiene an-che il contributo di un illustre maestrocome G. Tavani, Le postille di collazio-ne nel canzoniere portoghese della Vaticana(Vat. Lat. 4817), pp. 307–314.9 A. Ferrari, Le chansonnier et son double,in Lyrique romane médiévale: la tradictiondes chansonniers, Actes du Colloque deLiège, 1989, par M. Tyssens, Liège 1991,p. 318.10Bernardi interviene sul manoscrittoanche nel primo volume: Intorno allo zi-baldone colocciano Vat. Lat. 4831, pp.123–167. A questo contributo farò varie volteriferimento.11 Bernardi, op.cit. : 123.12 Ibid. : 132.13 Idem.14 Ibid. : 155.15 Per esempio a p. 270: “e ’l fructo”; f.52v (riproduzione a p. 478) “el fructo”, inscriptio continua.16Bernardi, Per la ricostruzione, op.cit. : 64.17C. Dionisotti, Gli umanisti e il volgarefra Quattro e Cinquecento, a c. di V. Fe-ra, con saggi di V. Fera e G. Romano,Milano, 5 Continets Editions, 2003, pp.25–34.18 Si veda Ubaldini, Vita di Mons. AngeloColocci, pp. 93–94 e la n. 168.

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Marco Mezzadri: I ferri del mestie-re (Auto)formazione per l’insegnan-te di lingua. ed. Guerra, Perugia, 2003,382 pp.

Marco Mezzadri è docente di italiano L2e LS si è laureato in lingue e letteratu-re straniere all’Università di Parma. Inol-tre ad essere specialista in lingua tede-sca ed inglese, aveva interesse per l’am-bito dell’italianistica che l’ha portato adoccuparsi dell’insegnamento dell’italia-no a stranieri. Anche la ricerca del suodottorato, che ha ottenuto all’Universi-tà Ca’ Foscari di Venezia, ha riguarda-to la qualità nell’insegnamento delle lin-gue straniere. Attualmente è ricercatorein didattica delle lingue moderne pres-so l’Università di Parma dove insegna di-dattica dell’italiano e tiene conferenze sutemi di glottodidattica generale e legatiall’insegnamento dell’italiano L2 e LS.Il volume di I ferri del mestiere si ri-

volge agli insegnanti di L2 -poiché anchel’autore è docente di italiano L2- primadi tutto a quelli di italiano a studenti inItalia o all’estero però si tratta di un libroadatto all’uso degli insegnanti di qualsia-si L2. Il volume è diviso in 14 capitolii quali offrono informazioni dettagliatesull’insegnamento delle lingue stranie-re. Può essere utile agli insegnanti senzapratica nel senso che il volume inoltre acontenere strumenti pratici, offre ancheparti teoriche per poter affrontarsi contutti i lati dell’insegnamento delle lin-gue straniere. Gli insegnanti già espertipossono usare questo volume per rinfre-scare le loro cognizioni o dopo molti an-ni di lavoro, acquistare un altro modo divista nell’insegnamento. Così, per esem-pio nel capitolo intitolato Glottodidatti-ca e tecnologie, possono conoscere anche

loro i vantaggi e gli svantaggi che offro-no le nuove tecnologie nell’insegnamen-to della lingua. Con l’arrivo dell’inter-net, il ruolo dell’insegnante è cambiato,i libri ed i giornali pian piano sarannosostituiti o almeno completati dalle ver-sioni elettroniche per internet o dai cd-rom, dvd-rom ecc. Le nuove tecnologieportano il cambiamento anche nel rap-porto tra lo studente e l’insegnante concui finisce il ruolo dell’insegnante comemodello unico di lingua e cultura. I di-versi forum e le chat sono adatti ad atti-rare l’interesse degli studenti, permetto-no di leggere materiali autentiche ed in-contrare studenti madrelingua. Può esse-re stimolante che, per esempio uno stu-dente ungherese il quale studia l’italia-no, con l’aiuto dell’internet può chattarecon uno studente di italiano in qualsiasiPaese del mondo. Quello che da una par-te è stimolante per gli studenti, dall’al-tra parte obbliga a sforzi creativi gli in-segnanti. Tutto questo non ci deve scor-raggiare, l’autore dedica quaranta pagi-ne a far conoscere l’uso dei diversi stru-menti, i materiali, le possibilità di usareinternet nella classe, dà aiuto alla ricer-ca, di trovare informazioni ma per da-re un quadro completo parla anche de-gli svantaggi, come per esempio i proble-mi tecnici, adattamento ai ruoli nuovidegli studenti e quelli degli insegnanti.Un altro capitolo molto dettagliato conle sue sessantacinque pagine, è quello in-titolato Le abilità linguistiche. Le quattroabilità primarie come dice l’autore sono:ascoltare, parlare, leggere e scrivere. Ri-produrre in classe le situazioni di ascoltodella vita reale, quasi è impossibile per-ché l’ascolto di una cassetta o cd audioneanche con testi autentici può sostitui-re il discorso orale. È importante dunque

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cercare di trovare le possibilità di una co-municazione naturale, autentica. L’auto-re elenca le diverse tecniche e spiega an-che il metodo di scegliere, gestire e va-lutare l’ascolto. Ai nostri giorni con l’ar-rivo dei nuovi metodi che quasi feticiz-zano l’importanza della comunicazionenell’insegnamento delle lingue stranie-re, Mezzadri non si dimentica neanchedel valore ed utilità di leggere, leggerebene comprendendo il testo. Fa conosce-re al lettore diverse tecniche di lettura,valutazione delle attività e dei testi di let-tura. Altre due parti di questo capitoloche vengono intitolate dall’autore Le abi-lità produttive (parlare, scrivere) sono piùbrevi, rispetto a quelle precedenti Le abi-lità ricettive e produttive (ascoltare, legge-re). Secondo Mezzadri l’abilità di produ-zione orale deve acquistare una posizio-ne centrale nel percorso di studio. Grazieallo sviluppo tecnico di oggi è sempliceed economico realizzare la sua proposta,ascoltando o guardando trasmissioni inlingua straniera alla radio o alla televi-sione. Mezzadri sapendo che non è facilefar parlare gli studenti, consiglia diversetecniche di produzione orale. È impor-tante, come dice lui, la ricerca di situa-zioni di comunicazione reale e che le at-tività usate nella classe siano motivanti edinamiche. In quanto a scrivere, l’autorenon vuole sminuire il ruolo della scrit-tura nell’apprendimento linguistico mapoiché la lingua è un fatto orale, comedice lui, lo scrivere in classe può risultareun’attività innaturale.Ogni capitolo da una parte è auto-

nomo cioè il lettore già esperto nell’in-segnamento, ha possibilità di consultaresolo i campi di cui si interessa. Dall’al-tra parte ogni capitolo del volume si col-lega a tutti quelli precedenti o seguen-

ti, essendo adatti a consultazione detta-gliata nel caso di coloro che sono senzaesperienza glottodidattica nell’insegna-mento delle lingue straniere. Seguendole diverse istruzioni dell’autore, il letto-re riceve un quadro completo su (Au-to)formazione per l’insegnante di lingue co-me il titolo del libro glielo promette. Latrattazione dei temi, in ogni capitolo se-gue lo stesso metodo, l’autore per intro-durre il tema, solleva una domanda opropone di leggere opinioni espresse dadiversi insegnanti di lingue e di indica-re se il lettore le condivide o no. L’autoreper mantenere vivo l’interesse, trattandogli argomenti teorici, inserisce nel testocompiti riferiti alla pratica dell’insegna-mento che servono per rendere consa-pevole lo scopo finale del volume e percoinvolgere il lettore nel processo dellostudio perché come dice Mezzadri nel-la parte introduttiva, “si impara facen-do” cioè come gli studenti studiano, an-che gli insegnanti devono imparare suidiversi campi della propria professione.Mezzadri conclude tutti i capitoli con trebrevi—ma secondo me utili—parti, lequali sono: Per autovalutarsi; contiene al-cune domande sia riguardo il tema trat-tato nel capitolo sia riguardo l’opinionedel lettore. Per saperne di più; bibliogra-fia riferita al tema trattato nel capitolo,per poter approfondire gli elementi giu-dicati necessari dal lettore. L’ultima par-te: Appunti su questo percorso; in cui conle indicazioni proposte dall’autore (In-formazioni utili, meno utili; Parti da rileg-gere; Osservazioni su questo percorso in re-lazione ad altri testi; Ricadute e rapporticon l’insegnamento; Altro), il lettore ha lapossibilità di riflettere e di ripensare gliargomenti letti. Dopo ogni indicazionesi trova posto libero per fare degli ap-

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punti sul tema. Tutte queste parti servo-no per comprendere il contenuto in mo-do più profondo con le quali, nello stes-so tempo l’autore assicura la possibilitàdell’autocontrollo.A chi interessi oltre al libro anche

l’opininone dell’autore ed i motivi percui il volume è nato, può consultare il si-to http://www.ameritalia.id.usb.ve/Ame-rialia.002.mezzadri.htmleggendoci un’-intervista che secondo le intenzioni del-l’autore non è tradizionale, come dicelui “Devo dire che mi stuzzica l’idea chequesta intervista sia l’esatto contrario diun’intervista. E cioè le domande sonole risposte, o quasi, e le risposte. . . nonsaprei”.

Mária Veronika GecseUniversità Cattolica Péter Pázmány

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Giovanna Bellati : Théophile Gautierjournaliste à La Presse : point de vuesur une esthétique théâtrale. L’Harmat-tan, Paris & Torino, 2008, 264 pp.

Depuis plusieurs années désormais, onassiste à un renouveau d’intérêt de la cri-tique pour l’œuvre de Théophile Gau-tier : outre certains travaux consacrés àses romans et nouvelles, comme à sesrapports avec ses contemporains, on s’in-téresse aux activités journalistiques del’écrivain. L’ouvrage de Giovanna Bellatis’inscrit dans la lignée de ces études vi-sant à mettre en valeur l’œuvre journa-listique de Gautier, qui couvre 50 ansdu XIXe siècle. Eu égard à l’ampleur dece corpus, G. Bellati s’est consciemmentlimitée aux contributions de Gautier à

La Presse, et plus précisément encore, àsa critique théâtrale. Un choix que jus-tifie quotidien la longue collaborationde l’écrivain à ce quotidien—près de lamoitié de sa vie professionnelle. Cet as-pect de l’œuvre de Gautier a été souventnégligé par la critique ou jugé margi-nal. Pourtant, une étude approfondie desfeuilletons dramaturgiques de Gautier serévèle, en effet, très intéressante. D’unepart, elle permet de mieux connaître unaspect majeur de la vie intellectuelle enFrance à une époque précise, à travers lemonde du théâtre. D’autre part, elle meten lumière les idées de Gautier sur l’art.Il ne faut pas oublier qu’après la ba-

taille d’Hernani, Gautier se référa sou-vent au théâtre pour exprimer sa pen-sée sur l’art et se consacra donc à l’écri-ture de critiques de théâtre. En étudiantles feuilletons de Gautier parus dans LaPresse, G. Bellati regroupe les comptesrendus de sorte à retrouver au fil desdiscours, l’orientation et l’évolution dela pensée de Gautier sur les acteurs, leslieux et les poétiques du théâtre. Elleanalyse également le feuilleton gautié-rien de point de vue de l’écriture et destypologies textuelles, avant de passer enrevue quelques modèles saillants identi-fiés dans ces textes.Le livre compte une partie introduc-

tive sur la fondation de La Presse et sur laparticipation de Gautier à la vie du quo-tidien, évoquant ses rapports avec Émilede Girardin et son point de vue person-nel à l’égard de son travail de feuilleto-niste. Suivent un certain nombre de cha-pitres qui s’efforcent de synthétiser lesopinions, les critiques, les prises de posi-tions de Gautier sur les différents aspectsdu théâtre de son temps—acteurs, salles,

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auteurs, pièces, genres—autant de sujetsqui forment les contenus essentiels deses feuilletons.Bellati a donné la priorité aux ac-

teurs, aux interprètes de l’œuvre drama-tique, plutôt qu’aux auteurs, c’est-à-direau texte. Ce choix respecte le point devue de Gautier en tant que critique. Gau-tier évoqua souvent dans La Presse Ma-rie Dorval, Fréderick Lemaître et Rachel.Les deux premiers incarnent, aux yeuxde Gautier, les prototypes, féminin etmasculin, de l’acteur moderne : à traversles descriptions et les commentaires qu’ilfait de leur jeu, de leurs rôles, de leurs in-terprétations, se dessine une image assezcomplète de l’acteur romantique. En re-vanche, l’attention que Gautier porte àRachel s’incrit dans une vision et des ob-jectifs différents : Rachel est pour lui leprototype du classicisme, incarnant à laperfection le sens et la conception du tra-gique ancien et ramenant la tragédie à sapureté primordiale.Bellati accorde également tout un

chapitre aux auteurs les plus cités parGautier : Musset, Balzac, George Sand,Dumas, qui représentent le mieux à sonsens un «théâtre d’auteur», accomplis-sant donc le rêve de Gautier de voiréclore une production dramatique réel-lement littéraire ; pour Gautier, cettenouvelle écriture dramatique paraissaitle seul moyen de rehausser le niveaudu théâtre contemporain. Ses feuille-tons sur Musset révèlent l’attention mi-nutieuse et le sens critique de Gau-tier sur ce parcours théâtral : reconnais-sant le génie d’un auteur resté à l’écartde la réalisation théâtrale, Gautier necesse d’en appeler à l’attention des di-recteurs de théâtre, certain du succès

que Musset peut obtenir auprès du pu-blic. Plus tard, témoin du déclin litté-raire de Musset, Gautier prend finale-ment le parti de se taire et de respec-ter, dans ce silence, la déchéance del’artiste, comme un acte ultime de re-connaissance, une dernière marque d’es-time envers son confrère. Si le théâtrede Musset représente un cas particulier,les pièces de Balzac et de George Sandmontrent bien les difficultés de créer unenouvelle forme esthétique. Certes, Bal-zac, après quelques essais malheureux,avait su trouver le ton et les procédésqu’il fallait dans ses dernières pièces.Mais George Sand, auteur plus proli-fique, trouva rarement une écriture dra-maturgique efficace, malgré la sensibi-lité de critique et l’intelligence théo-rique dont elle fit preuve à plus d’uneoccasion. C’est en Dumas que Gautiervoit un sentiment du théâtre inné : toutest théâtral chez cet auteur, explique-t-il. Dumas donne naturellement une al-lure dramatique à tout ce qu’il écrit.Même dans ses romans, l’action et le dia-logue, ces deux ressorts dramatiques parexcellence, ont toujours une place im-portante, et dans ses pièces l’action sedéroule à un rythme souvent échevelé,les personnages étant de purs hommesd’action. Or, les spectacles de Dumas al-liaient valeur littéraire et qualité visuellede l’œuvre théâtrale, une qualité très ap-préciée de Gautier.Gautier était en effet si sensible aux

aspects visuels de la représentation théâ-trale qu’on pût lui reprocher cette at-tention, en apparence excessive, aux dé-cors, costumes, voire aux physiques desinterprètes. Gautier n’était d’ailleurs pasdisposé à réduire l’importance de ces

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observations dans ses comptes rendus,et on peut dire aujourd’hui que cettepart de «critique plastique» est l’un desaspects les plus caractéristiques de sesfeuilletons, voir l’aspect qui fonde la« littérarité» de sa critique et crée unrapport évident entre le feuilletoniste etl’écrivain.L’ethos critique de Gautier a souvent

été synthétisé par cette célèbre formule :«Le temps des spectacles purement ocu-laires est arrivé»—comme pour sanc-tionner définitivement sa prise de posi-tion en faveur du spectacle pur, libérédu texte. Son admiration pour le ballet,le pantomime, voire la féerie, va dans lemême sens. Il serait toutefois hasardeuxde déduire sur la base de ces affirmationsla préférence de Gautier pour les spec-tacles «purement oculaires», au détri-ment du théâtre du théâtre de texte. Lesjugements et les considérations de Gau-tier réaffirment au contraire la primautédu texte sur les autres composantes de lareprésentation théâtrale : non seulementson désir constant de voir les poètes etles romanciers écrire pour la scène, maisaussi, par exemple, son admiration in-ébranlable pour les pièces de Hugo, éga-lement motivée par la beauté des textesde ces œuvres, ainsi que son rêve d’unthéâtre idéal, dont le clou serait la dé-clamation de poèmes lyriques par ungrand acteur. Son évaluation positive dupantomime, de la féerie ou du mimo-drame semble plutôt dériver de la décep-tion que lui inspirent les textes drama-tiques alors en vogue, qui trahissent l’ab-sence d’un théâtre moderne qualifiablede « littéraire».La critique a voulu voir au cœur

de l’esthétique théâtrale de Gautier saconception d’un théâtre de fantaisie,

non seulement parce qu’elle fut expo-sée dans un texte unitaire et cohérent,mais aussi, parce qu’elle aurait été insé-rée dans une œuvre célèbre comme Ma-demoiselle de Maupin. C’est un point devue duquel Bellati prend ses distances,en montrant que le théâtre de fantaisiene résume pas l’ensemble de la penséebien plus complexe de Gautier. Si Gau-tier avait un penchant indéniable pourun théâtre du merveilleux ou pour lacomédie romanesque, il n’était pas nonplus opposé au réalisme théâtral. Lesgrands drames historiques purent sus-citer son admiration, et cautionner àses yeux la représentation de situationscontemporaines sur la scène, ainsi que leprouve sa critique favorable de La Dameaux camélias, dont il appréciait l’analysefine et naturelle du réel. En revanche,Gautier refusait clairement une concep-tion déjà partiellement naturaliste duthéâtre, qu’il voyait dans la tendancemoderne à peindre la réalité dans sesinnombrables aspects et détails. La pra-tique de la convention théâtrale signi-fiait pour lui, entre autres, la nécessitéde la sélection, du grossissement et de lamise en relief de certains traits de l’ob-jet représenté et, parallèlement, l’efface-ment ou l’atténuation d’autres éléments,ce qui amène, idéalement, le dramaturgeà une représentation du type plutôt quedu particulier. C’est à partir de cette don-née que Gautier affirme souvent sa préfé-rence pour le théâtre classique, surtoutpour la comédie de Molière, et pourd’autres genres, qui se fondent sur unemise en scène du réel qui passe par lastylisation et la généralisation plutôt quepar l’individualisation.D’un autre côté, Gautier adhère sans

conteste à la doctrine du génie créa-

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teur, qui implique la conviction quel’œuvre d’art digne de ce nom por-tera toujours l’empreinte d’une person-nalité unique et supérieure. Cette re-connaissance de la marque du géniedans l’œuvre d’art n’a pourtant pas for-cément son pendant dans la notion deliberté absolue de l’art, d’affranchisse-ment total des règles. Ainsi, Gautier necachait pas son enthousiasme pour cer-tains genres de spectacles, comme leballet et l’opéra, qui procurait surtoutle plaisir d’admirer des artistes maîtri-sant à la perfection les contraintes tech-niques de leurs arts. À l’opposé, on a puconstater quel mépris il éprouvait pourdes lois qu’il jugeait ridicules et insen-sées, comme celles de la dite «sciencedes planches», dans laquelle excellaientScribe et d’autres auteurs à succès qu’ilrailla souvent cruellement. Mais Gau-tier exécrait tout autant les contraintesissues des anciennes règles de la tragé-die, autre exemple de normes qu’il esti-mait dépassées. En somme, Gautier re-fuse les contraintes qui limitent la li-berté de l’écrivain dans la constructionde la pièce, dans le développement del’action et des caractères, tout en soute-nant les bienfaits des contraintes du styleet de l’application des spécificités tech-niques propres à chaque forme de spec-tacle théâtral—ces contraintes étant àses yeux fonctionnelles de la création dela beauté dans l’œuvre d’art.Giovanna Bellati propose enfin une

brève analyse des différents modèles tex-tuels et discursifs présentés par les ar-ticles de Gautier dans La Presse. Lesfeuilletons reprennent trois typlogiestextuelles et trois modalités fondamen-tales : narratives, descriptive et argumen-tative. Ces différentes modalités d’écri-

ture sont très souvent mélangées dans unmême texte. Il est rare que l’une d’ellessoit utilisée comme modalité uniquedans la rédaction d’un article, excep-tion faite de la typologie narrative, quiconstitue l’exemple le plus fréquent detextualité pour ainsi dire «pure» dansles articles qui se bornent à résumer l’in-trigue d’une pièce. Elle s’accompagned’ailleurs souvent d’opinions et de juge-ments qui introduisent dans le compterendu un discours plus proprement cri-tique. La description et la prise de posi-tion critique sont d’ailleurs souvent mê-lées ou juxtaposées dans grand nombrede feuilletons. Les comptes rendus lesplus variés, ceux qui exploitent à lafois toutes les typologies textuelles etles techniques de composition, traitentdes opéras, qui permettent à Gautier deporter l’accent sur les divers aspects del’œuvre mise en spectacle. Ces exemplesde «critique totale» sont peut-être unemanière de reconnaître l’opéra commela forme la plus riche et la plus complètede représentation théâtrale, de lui attri-buer une sorte de statut de «spectacle».Malgré la riche palette de ses formes, lescomptes rendus de Gautier créent uneunité dans son esthétique théâtrale. Ilsréaffirment, in fine, le principe au fon-dement de l’ensemble de sa poétique etde sa conception de l’art : la recherchede la Beauté. Aussi évoque-t-il, mêmedans son travail de critique, les principesauxquels il croit le plus : la primauté dustyle, la gratuité de l’acte créateur de l’ar-tiste, le refus de toute contrainte utili-taire et commerciale, l’éternité de l’Art.En somme, l’étude de Giovanni Bellatia atteint son but et, en même tempsque l’esthétique dramatique, et plus gé-néralement artistique de Gautier, elle a

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donné une image aussi complète quepossible de la vie théâtrale d’une époqueoù le théâtre tenait une place prépondé-rante dans la vie sociale et artistique.

Mihály BendaMTA ITI Illyés Gyula Archívum

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Anna Sorés : Typologie et linguistiquecontrastive. Théories et applicationsdans la comparaison des langues. Coll.Études contrastives, vol. 9. Peter Lang,Bern, 2008, 212 pp.

Cet ouvrage se divise en quatre cha-pitres : le chapitre I est consacré à desprécisions terminologiques, il s’agit no-tamment de rendre explicites des termescomme typologie des langues, étudestranslinguistiques, linguistique contras-tive, méthode contrastive ; le chapitre IIétudie les problèmes contrastifs relatifsaux classes de mots (telles que la préposi-tion ou les articles) ; le chapitre III donneun aperçu des catégories grammaticales,(telles que le genre, le nombre, l’accord,le cas, le temps et l’aspect) ; le chapitreIV est consacré aux problèmes de l’ordredes mots : il sera ici étudié, en principe,l’ordre des constituants dans la phrase etl’ordre des termes à l’intérieur du syn-tagme, plus particulièrement la place del’adjectif.La typologie des langues étudie les

langues du monde et, en tant que telle,appartient à la linguistique générale. Lalinguistique contrastive confronte deuxou plusieurs langues, et en tant quetelle, appartient à la discipline de la lin-guistique appliquée dont l’objectif est la

comparaison des systèmes linguistiquesde deux ou plusieurs langues afin de fa-ciliter leur enseignement ou la traduc-tion. Le point commun de ces deux ap-proches réside dans la notion de com-paraison, leur différence et due plutôtà leurs visées scientifiques. L’auteur opteplutôt pour uneméthode contrastive quis’inscrit dans le cadre des études typo-logiques (ou plutôt translinguistiques,terme que l’auteur propose pour éviterl’identification des termes typologie etclassification) et dont l’essentiel est deconfronter des données de différenteslangues (dans le cas présent il s’agit dufrançais, de l’allemand et du hongrois)tout en offrant des données exploitablespour la linguistique générale.Le deuxième chapitre est consacré à

l’étude des adpositions (qui comprendla classe des prépositions ou postposi-tions). Dans un premier temps, l’ana-lyse est portée sur leur place, puis surleur forme et en dernier lieu sur leurfonction. L’auteur précise tout au dé-but que cette classe ne constitue pasune catégorie universelle (par exempleles langues australiennes ne connaissentpas la classe des adpositions), alors quele français utilise des prépositions sanscas, le hongrois a des postpositions quigouvernent des cas et l’allemand a desprépositions qui gouvernent des cas.Certaines langues connaissent unique-ment des prépositions ou postpositions,d’autres connaissent plus d’une solu-tion (par exemple le finnois). En fran-çais (qui utilise des prépositions), onconnaît aussi une postposition (durant)et le hongrois est capable de distinguerla temporalité et la spatialité en chan-geant la place de l’adposition keresztül.

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Par exemple : keresztül az erdon 〈à tra-vers la forêt〉 s’oppose à egy órán keresztül〈pendant une heure〉.En ce qui concerne la forme des

adpositions, il devient clair que toutesles adpositions ne sont pas des motsinvariables (comme la préposition enfrançais). Dans certaines langues, ellespeuvent être fléchies selon différentescatégories. Par exemple, en français, laforme contractée de l’article défini ’au’représente le cas où la préposition estfléchie pour la définitude. En hongrois,les adpositions peuvent être fléchiespour la personne elottem 〈devant moi〉,mais dans ce cas, elles sont considéréescomme des pronoms personnels. Leurparticularitémorphologique dans toutesles langues est qu’elles constituent enprincipe une classe fermée, c’est-à-dire,elles ne se construisent pas par des pro-cédés de dérivation, mais surtout dans lecadre des processus de grammaticalisa-tion (style, question etc. en français)Pour ce qui est de leur fonction,

la question est de savoir si les ad-positions sont des têtes de catégories.Pour répondre à cette question, l’au-teur applique un test de substitution quimontre que dans les langues étudiées, ils’agit plutôt de tête sémantique, vu quela tête devrait donner des propriétés àl’ensemble de la construction. Dans lescas cités par l’auteur, la substitution n’estpossible qu’avec un adverbe ou un pro-nom. Par exemple : Le chien a été retrouvéparmi les bagages → *Le chien a été re-trouvé parmi → Le chien a été retrouvéparmi eux. Par contre, nous trouvons descas où la substitution fonctionne, maisdans ces cas, le même élément est à lafois préposition et adverbe. Par exemple :Paul a voté contre le projet. Paul a voté

contre. Il ressort de tout cela que les ad-positions ne forment pas une classe demots autonome.Pour présenter le troisième chapitre,

nous avons choisi, arbitrairement, deuxproblèmes qui nous paraissaient les plusinstructifs, notamment, le problème dunombre et du temps/aspect.Contrairement à la notion du genre,

le nombre est une catégorie quasi-universelle, en fait, il y a très peu delangues dans lesquelles la marque dupluriel soit absente (par exemple le chi-nois). Ces marques peuvent être très va-riées : elles peuvent être des suffixes (hon-grois, -k, français, -s), mots du nombre(tagalog, mga), flexion interne (italien, ipour masc.), réduplication d’un lexème(indonésien, anak-anak 〈enfants〉) etc. Lepoint commun de toutes ces marques estque le pluriel est marqué par rapport ausingulier. La notion du pluriel dans leslangues indo-européennes correspondà deux valeurs du nombre (singulier etpluriel), mais dans un grand nombre delangues, on trouve par exemple le duelqui désigne deux entités (inuktitut, iglu,igluk, iglut 〈une maison, deux maisons,plusieurs maisons〉).Bien qu’étonnant, l’expression du

temps est loin d’être universelle, il yplus de langues qui connaissent l’aspectque le temps. Les approches translin-guistiques considèrent le temps et l’as-pect comme non-dissociables et parlentde système temps-aspect (ou aspecto-temporels). Comrie a étudié les tiroirsdes langues indo-européennes, du hon-grois et du finnois, à l’aide d’opposi-tions binaires : passé vs. non passé, per-fectif vs. perfectif. Il a trouvé que toutesles langues étudiées connaissaient la ré-partition non passé vs. passé et la plu-

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part connaissent les tiroirs présent/ao-riste/imparfait (à l’exclusion du russe etdu hongrois dans lesquels une seuleforme représente toutes les valeurs dupassé). Pour comparer les différentes oc-currences dans ces tiroirs, l’auteur pré-sente une analyse contrastive portant surdes extraits de textes littéraires (Le Clé-zio, Móricz, Kosztolányi, Marquez). Decette analyse, il ressort clairement quec’est l’aspect perfectif/imperfectif des ti-roirs du passé qui apparaît dans lestextes hongrois, à l’aide de la présence(perfectivité) ou l’absence (imperfecti-vité) de préverbes, renforcés ou non parun adverbe. Comme dans les exemples :Nemsokára feltunt az, akit várt 〈Bientôtla personne qu’il attendait parut〉. Parcontre, l’antériorité, qui ne peut pasêtre exprimée en hongrois, se traduitde préférence par des compléments. Parexemple : Damaso tudta, hogy a feleségeegész éjjel szüntelenül várta 〈Damaso com-prit que sa femme l’avait attendu toute lanuit〉. Tous ces exemplesmontrent à quelpoint temps et aspect sont indissociablesdans la comparaison des langues.Le dernier chapitre propose deux

types d’analyse, l’une portant sur l’ordredes constituants dans la phrase, l’autresur l’ordre dans le syntagme.L’ordre des constituants dans la

phrase présente plusieurs variations pos-sibles telles que SVO, SOV, VSO, OVS,OSV dont les trois premières sont lesplus fréquentes et les deux dernières trèsrares. On peut voir que la plupart deslangues présentent un ordre où le su-jet précède l’objet. Il existe deux sortesde description : on peut décrire l’ordredes mots en termes du sujet/prédicatou en termes de topique/commentaire.D’après Li et Thomson, certaines langues

se prêtent à une analyse en termes du su-jet/prédicat (langues indo-européennes,finno-ougriennes), d’autres en termes to-pique/commentaire (le chinois). Dansle domaine du hongrois, les avis se par-tagent. Katalin É. Kiss opte plutôt pourune description en topique/commen-taire. L’auteur propose les exemples sui-vants : Mit csinál János ? 〈Que fait Jean ?〉(János) kávét iszik. 〈Jean boit du café.〉(János) issza a kávéját. 〈Jean boit soncafé.〉 A partir de ces exemples, on peutconstater que nous avons des réponsesaussi bien en SVO que SOV (ou plu-tôt VO et OV, le GN sujet étant sou-vent omis). Ce qui veut dire que dans cecas-là, le sujet n’est pas explicité (le pro-nom sujet n’est pas exprimé en hongroisdans la langue courante). Cela aboutit àune phrase sans topique. Qu’est-ce qu’onpeut en conclure ? L’auteur arrive à laconclusion selon laquelle, bien que lesdeux approches soient possibles, c’estla description sujet/prédicat qui sembleplus opératoire.L’autre problème soulevé dans ce

dernier chapitre concerne l’ordre dans lesyntagme. Nous avons choisi, en guised’illustration, le problème de la placede l’adjectif épithète. L’adjectif épithètea deux places possibles : il peut être an-téposé par rapport au nom (AN) (al-lemand, hongrois), postposé au nom(NA) (albanais, souahéli) ou présenterles deux positions (les langues romanes,qui, fondamentalement appartenant autype NA, permettent aussi AN). Ce quiest intéressant, c’est que la plupart deslangues romanes permettent non seule-ment deux positions, mais elles les ex-ploitent du point de vue sémantique, enfait, il n’existe aucune autre famille delangues qui connaisse le type exploita-

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tion sémantique : c’est un trait romanqui ne s’observe ailleurs.L’ouvrage d’Anna Sorés a le grand

mérite de rendre accessibles les étudestranslinguistiques aux chercheurs, ensei-gnants, étudiants qui s’intéressent à ladiversité des langues et plus particuliè-rement à la comparaison des traits syn-taxiques, morphologiques, universels ounon, des langues du monde.

Edit BorsUniv. Catholique Pázmány Péter, Piliscsaba

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