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1 « LINGUA BIFORCUTA » Sinopsi di un saggio sulla bivalenza della lingua italiana di Maria Silvia Codecasa Il libro è diretto a lettori di cultura medio-alta intellettualmente curiosi ed ha essenzialmente un valore di provocazione. Un esame globale dell’ «Avviamento alla etimologia italiana del Devoto invita a meditare sull’impatto della cultura di una qualsiasi razza di colonizzatori e sulla resistenza che possono opporre i colonizzati e soprattutto le donne. Il testo consiste di 4 parti : I. LINGUE SACRE E LINGUE UTILITARIE Il doppio strato linguistico dell’ italiano, evidente nella distanza tra lingua parlata e lingua letteraria e di uso sociale, può essere un elemento di base di quella doppiezza di cui gli stranieri spesso ci accusano : si tratterebbe di una vera e propria schizofrenia. I pastori indo-europei che invasero la penisola tra il 2000 e il 1000 a.C., antenati dei latini, hanno sovrapposto la loro lingua alla parlata degli agricoltori e marinai mediterranei (etruschi, illiri,liguri), che però noi abbiamo in parte ereditato attraverso gli artigiani indigeni divenuti schiavi e soprattutto attraverso le donne, preda ambita dei conquistatori e madri e nutrici della loro prole. In ogni parte del mondo la Parola nasce con un valore magico, però, al servizio di società aggressive, come quelle dei Romani, le lingue «si banalizzano», ossia perdono la sacralità originaria per svilupparsi in modo meccanico ad uso del substrato servile. E’ difficile, notava il Meillet un secolo fa, riconoscere la radice *MENTE in una parola come «reminiscenza», ossia sentirne la energia rituale in mezzo ai prefissi e ai suffissi che vi si avvitano come gli accessori di un trapano. Viceversa la MENTA, pianta sconosciuta ai conquistatori, è arrivata a noi, intatta con il suo profumo, da un substrato comune agli italiani e ai greci. II. LINGUE ARIANE E NON ARIANE Descrizione sommaria delle caratteristiche di tali lingue. Rapporti tra struttura del linguaggio e modo di produzione di quanto è necessario alla sopravvivenza. Quelli che vivevano a ridosso delle grandi mandrie delle steppe avevano verso la Natura un atteggiamento diverso da quello dei coltivatori diretti e dei pescatori del Mediterraneo. III. DIZIONARIO DALLA A ALLA Z DELLE PAROLE DI SOSPETTA ORIGINE NON LATINA Secondo molti linguisti, in Italia soltanto i termini pre-latini relativi a fauna e flora locale sarebbero entrati nella lingua italiana. Bisogna però tener conto anche di un buon numero di termini relativi all’ agricoltura mediterranea, agli

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« LINGUA BIFORCUTA »

Sinopsi di un saggio sulla bivalenza della lingua italiana di Maria Silvia Codecasa Il libro è diretto a lettori di cultura medio-alta intellettualmente curiosi ed ha essenzialmente un valore di provocazione. Un esame globale dell’ «Avviamento alla etimologia italiana del Devoto invita a meditare sull’impatto della cultura di una qualsiasi razza di colonizzatori e sulla resistenza che possono opporre i colonizzati e soprattutto le donne. Il testo consiste di 4 parti : I. LINGUE SACRE E LINGUE UTILITARIE Il doppio strato linguistico dell’ italiano, evidente nella distanza tra lingua parlata e lingua letteraria e di uso sociale, può essere un elemento di base di quella doppiezza di cui gli stranieri spesso ci accusano : si tratterebbe di una vera e propria schizofrenia. I pastori indo-europei che invasero la penisola tra il 2000 e il 1000 a.C., antenati dei latini, hanno sovrapposto la loro lingua alla parlata degli agricoltori e marinai mediterranei (etruschi, illiri,liguri), che però noi abbiamo in parte ereditato attraverso gli artigiani indigeni divenuti schiavi e soprattutto attraverso le donne, preda ambita dei conquistatori e madri e nutrici della loro prole.

In ogni parte del mondo la Parola nasce con un valore magico, però, al servizio di società aggressive, come quelle dei Romani, le lingue «si banalizzano», ossia perdono la sacralità originaria per svilupparsi in modo meccanico ad uso del substrato servile. E’ difficile, notava il Meillet un secolo fa, riconoscere la radice *MENTE in una parola come «reminiscenza», ossia sentirne la energia rituale in mezzo ai prefissi e ai suffissi che vi si avvitano come gli accessori di un trapano. Viceversa la MENTA, pianta sconosciuta ai conquistatori, è arrivata a noi, intatta con il suo profumo, da un substrato comune agli italiani e ai greci.

II. LINGUE ARIANE E NON ARIANE Descrizione sommaria delle caratteristiche di tali lingue. Rapporti tra

struttura del linguaggio e modo di produzione di quanto è necessario alla sopravvivenza. Quelli che vivevano a ridosso delle grandi mandrie delle steppe avevano verso la Natura un atteggiamento diverso da quello dei coltivatori diretti e dei pescatori del Mediterraneo.

III. DIZIONARIO DALLA A ALLA Z DELLE PAROLE DI SOSPETTA ORIGINE NON LATINA Secondo molti linguisti, in Italia soltanto i termini pre-latini relativi a fauna e flora locale sarebbero entrati nella lingua italiana. Bisogna però tener conto anche di un buon numero di termini relativi all’ agricoltura mediterranea, agli

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attrezzi e alla cucina degli indigeni, e inoltre del linguaggio dell’infanzia (mutuato dalle madri non latine) e del gergo amoroso (il BACIO) e sessuale (COGLIONI piuttosto che «testicoli»), che non trovano eco nella corrispondente terminologia germanica e slava. E secondo il Devoto suonano estranei al latino forse la CASA e la CAPANNA ma certamente la FAMIGLIA (etrusca come il GOVERNO, che era « il timone»), la MOGLIE, l’ OZIO, la TRAMA e l’ INTRIGO e poi anche l’ ARNIA e l’ OLIO e il VINO e le LASAGNE e lo ZABAIONE… Alcune parole del gergo dei marinai (ISOLA) e dei fabbri (CAMERA) potrebbero addirittura provenire da una «lingua franca» preistorica parlata fino in India. IV. LINGUA, NAZIONE E POLITICA

La attuale «lingua franca», di uso quotidiano dalle Alpi alla Sicilia è impoverita e sciatta (è l’ italiano della TV), ma la nostra lingua letteraria è in potenza ancora in grado di sfruttare creativamente la sua doppia eredità. E invece dobbiamo rassegnarci a farfugliare termini inglesi (il « rapido » diventa un « intercity ») oppure ci ritroviamo nel ruolo di Renzo davanti al «latinorum », quando ci viene imposto un criptico «obliterare» al posto di «vidimare» il biglietto. Smettiamo di illuderci : con queste scelte linguistiche non ci mostriamo semplicemente alla moda, come quando abusiamo dell’ avverbio « un attimino » o dell’ aggettivo «intrigante», ma ci inchiniamo a nuovi colonizzatori. La nostra scelta in verità è politica, e ci espone a una nuova espropriazione. Quando al posto del termine PIETRA MILIARE (di dubbia derivazione indo-europea) si impone l’ uso di «distanziatore chilometrico», l’ espropriazione è letterelmente tangibile: viene così sanzionata la scomparsa nel nulla di migliaia di quelle lastre di granito installate a misurare tutte le strade nazionali e provinciali, eredità della viabilità organizzata da quei colonizzatori Romani, che ci hanno lasciato una piccola parte del loro sangue e metà della nostra lingua. Il libro si conclude con una analisi del significato dell’ aggettivo « italiano ».

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Premessa

L’Autore di questa ricerca non é specialista nel campo linguistico in senso stretto. Tuttavia, nei vari decenni di attività come professore di lingua inglese, come autore di teatro e come antropologo, le parole sono state oggetto di studio quotidiano e strumento di lavoro. Lo studio comparato di culture più o meno contigue comporta necessariamente , oltre al confronto delle culture, anche quello del lessico, e un approfondito studio del lessico non può prescindere dalle etimologie.

Il processo che ha portato a questo studio ha avuto origine da una ricerca pluriennale sul riaffiorare del substrato religioso pre-ariano in India, nonché delle forme vernacolari pre-sanscrite relative alla religione. In India, dietro l’impenetrabilità apparente dell’induismo ortodosso,si intravvede non solo la sopravvissuta integrità di forme di pensiero pre-ariane, ma la loro sorprendente e fervida produttività.

Si é voluto quindi esplorare il lessico della lingua formatasi in Italia consecutivamente alla sopraffazione culturale, oltre che politica, conseguenza della latinizzazione della penisola. I tempi della acculturazione sono all’incirca gli stessi di quelli ipotizzati per la penisola indiana: le prime infiltrazioni risalgono al 2500 a.C., il lento recupero del substrato comincia a rivelarsi 3000 anni dopo, e finalmente ai nostri giorni la modernizzazione in atto ha dato il via a un’opera di levigazione che si annuncia definitiva, e pertanto sta provocando le impennate finali delle culture locali consapevoli della loro identità.

Le rivolte locali, che siano sanguinose come quelle dei Sikh o dei Tamil in India, o democratiche, come la lotta impostata dalle Leghe nell’Italia del Nord, hanno in comune una visceralità che le rende differenti dalle ideologie nazionaliste dell’inizio del secolo, sebbene ne abbiano segretamente la stessa profonda motivazione: e cioè il sentimento di una diversità finora incancellata, che si vorrebbe incancellabile, nel momento in cui l’ideologia del villaggio globale trova entusiastici consensi nel capitale internazionale, e minaccia un livellamento radicale.

Oltre alla sconcertante sopravvivenza di culti e tradizioni pre-ariane in aree dell’India soggette a 4000 anni di sanscritizzazione, va infatti considerato l’improvviso e contemporaneo risorgere, presso molti popoli dell’Eurasia, della consapevolezza di appartenere a gruppi etnici separati (per religione, madrelingua e cultura) dalle maggioranze egemoni che avevano presieduto alla formazione dei cosiddetti stati nazionali.

Senza dubbio il problema dei ceceni o quello degli armeni nel Karabak o degli albanesi nel Kossovo si manifesta in forme ben più acute di quello degli occitani in Francia o dei lombardi, veneti, sardi e siciliani in Italia. E tuttavia é singolare che il “villaggio globale” superficialmente unificato dai consumi (Coca-cola, blue-jeans e elettronica) sia attraversato da tali correnti, e che tumultuose rivendicazioni etniche alla caduta del regime sovietico abbiano portato alla frammentazione di un impero che era rimasto unificato per 300 anni.

E’ singolare la contemporaneità della crisi del concetto ottocentesco di nazione, che in quel secolo era stato propugnato, in Italia come altrove, da minoranze elitarie. Ed

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anche più singolare é il fatto che le odierne rivendicazioni di autonomia siano fatte in nome di identità etniche che si aveva motivo di credere definitivamente assimilate.

E’ evidente che la propaganda livellatrice di Tito non ha raggiunto il suo scopo in Jugoslavia, pur avendo a sua disposizione l’apparato di un partito totalitario. La coscienza di una diversità sembra essere insopprimibile, e c’è da domandarsi, specialmente quando piuttosto che di razza si tratta di religione, se per caso la discriminazione non parta dal centro. Senza la boria di Parigi sarebbe difficile alimentare lo scontento dei bretoni. Le servitù militari giustificano le richieste di autonomia dei sardi, separati dalla penisola dal mare, dalla lingua e dalla cultura. In quanto al fenomeno recente delle leghe in Italia, indubbiamente gli sprechi romani, e le prevaricazioni di partiti politici corrotti fino alle midolla han contribuito al loro successo ben più delle differenze etnico-linguistiche.

E tuttavia, l’insofferenza non avrebbe trovato sbocco nelle Leghe se non vi fosse effettivamente in Italia un problema reale di substrati estranei alla cultura di superficie. Negli ultimi 2000 anni la nostra penisola é stata dapprima docilmente acculturata da Roma, e poi invasa da svariate orde di barbari, e assoggettata a un molteplice “barbaro dominio”. Le più gravi perturbazioni etniche, comunque, hanno avuto luogo nell’Italia settentrionale con i Longobardi e in quella meridionale con Arabi e Normanni. Oggi il risentimento contro il potere centrale non é limitato alla Lombardia e alla Sardegna, ma é assai più generalizzato, anche se la situazione è di stallo, soprattutto in quanto per il momento nessuno muore di fame. La garanzia dell’unità e della pace in Italia sta nel nostro relativo benessere.

Un dato di fatto comunque é certo: Roma non é tutti noi. A dire il vero, non lo é stata mai, se non nei pochi secoli tra la fine della guerra sociale (89 a.C.) e la morte di Diocleziano. E la guerra sociale era stata una strana guerra di indipendenza, condotta dagli italici contro Roma, perché Roma non li voleva Romani ed eguali, ma stranieri e sudditi.

Quale orgoglio tribale, duemila anni fa, induceva Roma a respingere gli italici ? E quale segreta inimicizia, oggi, ci spinge a diffidare delle promesse della capitale ? Quale malessere, pur senza ottundere la consapevolezza della nostra italianità, ci induce nello stesso tempo a non identificarci mai con i nostri governi, anche se da noi eletti liberamente?

L’8 settembre del l943 fece parte di questo disagio e coinvolse assai più del conflitto tra fascisti e antifascisti, tedeschi e alleati. L’8 settembre é una sindrome nazionale, é una malattia endemica. C’è qualcosa di schizofrenico in Italia. è come se un ricordo di tradimento indugiasse nell’inconscio collettivo. Rancorosamente, dopo decenni di dominazione dell’italiano pastorizzato della televisione, rispuntano, velleitari, i dialetti locali.

Questo studio, inteso a raccogliere organicamente quante, tra le parole che diciamo, non derivano dal latino, é anche un’anamnesi del paziente Italia. è una serie di sedute psicanalitiche, dalla A alla Zeta, dirette a individuare le fratture della nostra coscienza, poiché il linguaggio é il filtro e il codice attraverso cui formuliamo il nostro pensiero.

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Nel nostro passato linguistico ci sono varii substrati, che han dato origine ai diversi dialetti, ma soprattutto ve ne é uno, antichissimo, che é sempre stato volutamente ignorato e rifiutato, così come si può rifiutare il ricordo di uno stupro subito nell’infanzia.

Ciò che affiora di quel primo substrato é quanto resta della cultura e della lingua dei popoli che abitavano la penisola precedentemente alle invasioni dei Latini (e degli altri popoli collettivamente indicati con il nome di Italici) che parlavano lingue dette indoeuropee. Tale substrato é sempre stato minimizzato dai linguisti: l’apporto, al latino prima e al volgare poi, di termini derivati dagli idiomi degli indigeni, sarebbe trascurabile. (1) L’eredità non latina riguarderebbe solo quelle aree laterali del lessico che si riferiscono alle forme del territorio e agli animali e alle piante sconosciute agli invasori, antenati dei Romani, il cui linguaggio si era formato in altri climi, non mediterranei e lontani dal mare.

Si tratta di un processo normale in qualsiasi paese che venga occupato e dominato da stranieri. In Inghileterra i normanni di lingua francese hanno dovuto assimilare una larga fascia di termini sassoni, e viceversa secoli più tardi gli inglesi, che avevano esteso il loro dominio sui cinque continenti, sono stati costretti a introdurre nella loro lingua, tali e quali, i nomi del mango e del banyan, del coyote e del condor e a ricopiare sulle loro carte geografiche toponimi esotici, come il Kilimangiaro e il Popocatepetl.

Comunque il contatto tra gli inglesi e i Navajo o i Tamil é stato limitato e non si può paragonare all’impatto dei mediterranei su latini e italici, invasori venuti per restare. Inoltre, nelle Americhe e altrove, la situazione era rovesciata, perché la cultura dei colonizzati era tecnologicamente tanto arretrata da non poter influenzare la cultura degli invasori. Nel caso dei latini e degli italici, invece, la cultura tecnologicamente superiore apparteneva ai colonizzati e si faceva forte dell’adattamento millenario a un ambiente vario e complesso, tanto diverso dall’ambiente da cui provenivano i pastori ariani (o indoeuropei) che questi non potevano inserirsi senza la mediazione dei vinti.

La cultura degli indoeuropei, che calarono in numero consistente sul Mediterraneo più o meno nel II millennio a.C., aveva ricevuto un’impronta incancellabile nell’ambiente delle steppe prima di venire in contatto con gli agricoltori danubiani. La cultura mediterranea era basata sul orticultura e cerealicultura e aveva avuto lunghi e pacifici contatti con le civiltà del Medio Oriente ed anche con quelle del subcontinente indiano. Pertanto, oltre alle aree semantiche della fauna della flora, anche le aree riguardanti la tecnologia della vite e dell’olio, della tessitura e della ceramica, della navigazione e dell’organizzazione di stanziamenti fissi fornirono termini indispensabili ai latini e agli italici: termini che sono rimasti nella lingua comune.

Una giusta cautela ha spinto gli specialisti a restringere al minimo il numero dei vocaboli italiani che sarebbero derivati dalle lingue indigene, cioé a quei “relitti del substrato” per i quali una etimologia indoeuropea si deve escludere per motivi fonetici oppure perché, a prescindere dal latino (attraverso a cui tutto il lessico precedente ci é pervenuto), non si riscontrano nelle altre lingue indoeuropee connessioni attendibili. Viceversa, in questa ricerca intesa a valutare la schizofrenia linguistica degli italiani, si é seguito deliberatamenmte il criterio opposto: cioé, si sono accolti nelle liste non solo i

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vocaboli di sicura derivazione non indoeuropea, ma anche quelli per cui esistono ragionevoli dubbi, in quanto la loro origine é affatto sconosciuta.

Di questi termini il Devoto (2) nell’avvertenza alla prima edizione dice che “costituiscono un tesoro di parole affidate alla ricerca del futuro”. Il Devoto é stato la fonte più importante per l’individuazione di questo “lessico sospetto”, oltre ai dizionari di Ernout-Meillet e a quello del Buck (3) che é a sua volta basato sulle opere di Meillet, Walde, ecc. Infine, sono state aggiunte al quadro quelle parole che, nelle aree semantiche sopra indicate, hanno connessioni attendibili fuori del latino solo in greco, e che quindi hanno buona probabilità di appartenere a lingue mediterranee. Ed é valsa come incoraggiamento un’osservazione del Meillet, il quale scriveva: “Si ignora a quali lingue l’indoeuropeo si sia sostituito nei vari paesi in cui si é diffuso, e quali lingue lo abbiano influenzato… ma é un errore grave credere che ogni parola sanscrita, greca o germanica, che non sia stata presa in prestito da una lingua nota, sia indoeuropea. Nessuno afferma questo: tuttavia, cercare, come si fa spesso, una spiegazione indoeuropea a tutte le parole di ogni lingua della famiglia, é ragionare come se si ammettesse questo principio” (4).

L’autore chiede indulgenza quindi per la sua dichiarata parzialità in favore di un origine pre-indoeuropea nei casi dubbi, dato che per molti decenni si é calcata la mano sull’importanza della nostra eredità latina e solo su questa. Anche da un punto di vista letterario, una reazione a questa prevaricazione sembra legittima, poiché oggi tutti i gerghi burocratici, tutti i comunicati ufficiali, nonchè le diatribe dei politici, sono basati su un lessico decisamente derivato dal latino.La prevaricazione della lingua del palazzo si è accentuata con la recente svolta verso il libero mercato. Un esempio che lascia allibiti è la recentissima sostituzione delle «pietre miliari» con i « distanziatori chilometrici ». L’operazione, senza dubbio centralizzata, che renderà incomprensibile una vecchia metafora («questo decreto è stato una pietra miliare… »), appoggia l’ operazione commerciale che ha fatto sparire i lindi e secolari manufatti in granito, debitamente numerati, sostituendoli con costosi e poco duraturi paletti in plastica.

La lingua dell’ Italia reale, la lingua di uso quotidiano, contiene una grossa percentuale di voci non ariane. Si intuisce, a volte, che certi termini devono esser stati adottati dai figli degli oligarchi di Roma dopo aver prestato orecchio alle conversazioni tra la nutrice e la lavandaia: in tal modo il piccolo Rudyard Kipling imparò l’indostano. Altri termini delle lingua non ufficiale derivati dalla tecnologia povera (mai citati nelle opere del periodo classico e a volte nemmeno da Plauto) dopo aver vissuto una lunga esistenza sommersa tra braccianti e stallieri, riaffiorarono misteriosamente nel latino medievale per diventare di uso comune ed esclusivo nelle lingue romanze (vedi, per esempio, « cavallo »).

I regionalisti hanno parcellizzato il problema del substrato, che infatti non era unico nemmeno nella preistoria (vedi cap. VI), e in effetti i porta-innesto che hanno fatto affluire termini non ariani nel latino provengono da lingue di gruppi etnici diversi. Ma ancora prima di queste lingue regionali e tribali, pare sia esistita una lingua franca antichissima, che per convenzione viene chiamata “il nostratico”, diffusa praticamente in tutta l’Eurasia.

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Riconoscere gli apporti non indo-europei, render giustizia alle vittime del grande stupro culturale di cui gli indoeuropei si sono resi colpevoli (non solo in Europa, ma anche in India) tremila anni prima della loro colonizzazione del resto del pianeta, non significa negare l’esistenza di una cultura sopra-regionale grazie a cui gli italiani all’estero si riconoscono fratelli. In gran parte dobbiamo quella cultura al centralismo di Roma nell’antichità, ma certo i fattori geografici e l’ influenza della Chiesa hanno contribuito a isolarla e a concentrarla, e neanche i federalisti e gli anticlericali più fanatici possono negarne l’esistenza.

Una cultura italiana esiste ed é tangibile, sebbene la cucina settentrionale sia basata sul burro e quella meridionale sull’olio, sebbene piemontesi e pugliesi si comportino diversamente al momento di fare una coda, sebbene la malavita computerizzata rispetti un codice diverso da quello brutale dei sequestri di persona. Ed é anche innegabile che una lingua franca veniva usata dai letterati già al tempo di padre Dante, nonostante l’imbarazzo di fronte alle consonanti doppie, antitetico per veneti e sardi. La nostra lingua odierna infatti è nata come lingua scritta, a livello elitario, scavalcando le antiche divisioni tribali e quelle amministrative (variabili anche nei decenni) : ma essa venne poi conservata dal cosciente e concorde sforzo di quanti, nei molti secoli bui della nostra storia, si aggrapparono al ricordo del tempo in cui l’Italia era stata “regina per la prima volta”: un ricordo che gli acquedotti e le strade e i monumenti lasciati dai Romani in tutta la penisola avevano reso indistruttibile.

Un fattore essenziale di unificazione sono state le sofferenze attraverso cui tutti i fratelli d’Italia sono cresciuti in tempi storici: ma non è da sottovalutare l’ impatto di quelle prime violenze, vagamente proiettate in miti del tipo di quello del ratto delle sabine. Ogni stupro é per sempre, dato che la creatura che ne é il frutto porta, e trasmetterà fino all’esaurirsi della stirpe, la dote cromosomica del padre oltre a quella della madre. In Italia, come in Grecia e in India, la duplice impronta genetica, che si rivela nella lingua, si manifesta anche nel temperamento.

In queste tre regioni del pianeta il carattere nazionale presenta singolari affinità. Siamo, i Italia e in Grecia e in India, più vitali, psicologicamente e fisicamente. Siamo i più dotati di estro, di fantasia, di cinismo. Siamo artisti e artigiani. Siamo imprevedibili. Tra noi possono nascere San .Francesco come Onassis, Budda come Alcibiade, Benvenuto Cellini come Gandhi. Ulisse é un nostro eroe, e all’altro capo di una lunga fila di venturieri astuti, c’è Alberto Sordi. Nicolò Machiavelli fece scandalo nell’Inghilterra puritana, che lo identificò con il diavolo. Noi possiamo pensare che Giulio Andreotti é diabolico e trovarlo simpatico. Gli artisti di tutto il mondo ci invidiano quella nostra capacità congenita di raggiungere l’eccellenza attraverso la “sprezzatura”: cioé , il genio di raggiungere i sommi vertici dell’arte al di là della tecnica, quasi al modo che l’arciere Zen centra il bersaglio. E’ lo stesso gran temperamento che ci rende ad un tempo temibili e disprezzabili sui campi di football e spesso, ahimé, solo ambigui in campo di politica internazionale.

A un malato non si può rimproverare la malattia, nè a un adulto i traumi dell’infanzia.Noi italiani (come i greci e gli indiani) siamo schizofrenici perché tali ci ha reso il tragico concepimento della nostra cultura.

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Ma é ora di entrare in analisi e aver chiaro in mente (e perdonato) quell’evento del passato.

Nota E’ sembrato importante redigere questo consuntivo

della nostra eredità linguistica non ariana nel modo più piano possibile, ad uso di chiunque abbia frequentato una scuola secondaria.La presentazione grafica é stata semplificata all’estremo.

I termini di origine non ariana sono in grassetto, gli altri vengono presentati tra virgolette.

Radici e temi, sia mediterranei che indoeuropei, sono in lettere maiuscole. L’asterisco indica una radice presunta, ma non effettivamente riscontrata.

PARTE I

Lingue sacre e lingue utilitarie

Capitolo I In principio era il Nome

Quando l’umanità ha cominciato a parlare? Pare che l’articolazione dei suoni sia stata possibile solo quando la laringe della

specie umana si è abbassata, permettendo che si formassero due cavità al posto di quella, unica, di altri primati: un evento che si potrebbe far risalire a circa 2 milioni di anni fa.

Forme di pensiero esistono anche senza la parola e gli animali ce lo dimostrano. Il gatto non parla, ma è in grado di studiare la tattica per catturare un topo, e di dare istruzioni ai suoi piccoli. I cani imparano a girare le maniglie delle porte, imitando un’azione umana osservata e ricordata. Negli animali il ricordo si associa facilmente a odori e a suoni, come quando il pasto che sta per arrivare si lega al tintinnio di un campanello. D’altra parte un pappagallo che sia disposto a ripetere una parola udita è materialmente in grado di farlo. Ed è persino possibile che quel pappagallo possa collegare un gruppo consonantico come KRK alla minaccia di un ramo che sta per spezzarsi, soprattutto se nei dintorni si trovano rami in cattive condizioni.

E’ invece improbabile che il pappagallo imiti il rumore KRK per comunicare a noi che il ramo sta per spezzarsi. Ed è inimmaginabile che il pappagallo usi questi suoni per riferirsi a un complesso di aspetti che solo metaforicamente richiamano le circostanze in cui il ramo si è rotto (sovraccarico di peso, erosione del legno) con relative conseguenze (rottura, caduta, sfacelo): un complesso di aspetti in rapporto solo indiretto con il ramo

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difettoso, e privi del contrassegno sonoro corrispondente. Nel linguaggio dell’uomo invece si può usare lo stesso gruppo di suoni per riferirsi a un CRACK finanziario, che ha luogo in assenza di foreste e con scricchiolii premonitori di natura diversa.

La scelta di proiettare attraverso un codice sonoro i dati di esperienze che possono svolgersi anche in totale assenza di suoni, cioè di sensazioni visive, tattili, olfattive, e i ricordi di esperienze non acustiche, sembra capacità esclusiva della specie umana. L’invenzione del linguaggio è stata la grande rivoluzione che ha dato avvio al nostro distacco da tutte le altre specie animali. E’ vero che anche i delfini sembrano in qualche misura capaci di proiettare una riflessione senza relazioni sonore in fonolemmi di un linguaggio loro, tuttavia è difficile mettere in rapporto il “discorso” di un delfino (supponendo che si possa definirlo con questo termine) con un discorso umano. L’essenza delle lingue degli uomini consiste nel fatto che i fonolemmi (ossia le unità sonore) si possono usare in modo flessibile in contesti differenti.(1). I pappagalli, invece, che sono in grado di articolare suoni come gli esseri umani, non sanno usare le parole apprese come elementi ricomponibili di un discorso.

Anche il riconoscimento di un determinato suono come segnale di cibo o di pericolo o di comando è facoltà comune a molti animali: si tratta però di semplici segnali. Il passaggio dall’uso del suono come segnale al suo uso come contrassegno sembra appannaggio esclusivo della specie umana.

In pratica nel linguaggio si opera l’introduzione di un terzo elemento tra l’osservatore e la realtà: e questo elemento che sostituisce l’oggetto appartiene al campo dei suoni ed è la parola. Supponiamo che il rumore del ramo che si spezza venga imitato dall’uomo usando il gruppo consonantico KRK in assenza dell’avvenimento localizzato: KRK diventa allora un ordine (“Spezza quel ramo”) o un avvertimento (“attento“). E’ questa assenza che cambia tutto, che trasforma KRK da segnale a segno, a simbolo. Il processo mentale e materiale che precede l’emissione della parola include la memorizzazione del rumore, seguita dalla sua rappresentazione approssimata a posteriori. E’ un processo elementare di mimesi, ironicamente evocato nei commenti delle azioni dei “fumetti” (BUM, SPLASH,eccetera) o quando gli adulti parlano ai bambini molto piccoli. CIUF-CIUF è il treno. GNAM-GNAM, ora si mangia.

I gruppi di suoni derivati dall’imitazione di un rumore si dicono onomatopeici e sono spesso comuni a molte lingue. Essi costituiscono delle unità o radici, da cui però si sono sviluppate parole vere e proprie e a volte intere famiglie di parole. Nel secolo in cui viviamo, queste invenzioni primordiali con tutte le loro potenzialità possono sembrare ingenue e neanche confrontabili con la nostra creatività attuale, che ci permette di inventare ogni giorno nuove macchine e di imitare la riproduzione degli esseri viventi. Tuttavia non è legittimo fare questo confronto.

La proiezione nella sfera dei suoni di quanto viene percepito da sensi diversi dell’udito non è un’operazione razionale, è un’operazione magica. Quando ci facciamo comprendere, indicando con un nome una cosa che non è a portata di mano, è come se con una specie di levitazione mentale trasportassimo l’oggetto dalla sua sede naturale al luogo di evocazione. Nominare infatti è ”evocare”, cioè ”chiamar fuori” il “doppio” dell’animale o della cosa. Oggi usiamo applicare il termine “linguaggio” a sistemi di

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informazione o di registrazione, oppure alla matematica: ma è un uso improprio del termine, perché tali linguaggi non si propongono di evocare immagini. E’ inesatto anche parlare di “linguaggio delle api” a proposito della danza con cui l’ape descrive alle compagne l’itinerario da percorrere verso il bottino, riducendo le dimensioni del suo viaggio, come si fa tracciando una mappa topografica. Nel caso dell’ ape dovremmo piuttosto parlare di “scrittura”.

E nemmeno si può dire che il cane parla, quando porta il cappello al padrone per invitarlo ad uscire: per comunicare la sua intenzione: il cane è costretto a portare l’oggetto stesso. Con il computer la cosa è più complessa, perché viene coinvolto il passaggio dalla lingua orale a quella scritta, che non è oggetto di questo studio. Ma quando un selvaggio nudo dice “miele”, l’oggetto del suo desiderio diventa immagine e sapore per chi lo ascolta.

Nominare dunque significa far apparire dal nulla: atto creativo, in cui i poeti del passato si vantavano di eccellere. Non per nulla la parola “poeta” deriva da un verbo greco che vuol dire “fare”, ossia “poeta” ha il significato originario di “creatore”. Per fare un semplice esempio, quando Dante dice: ”Come di neve in alpe senza vento” noi ci sentiamo immersi nel mistero di un silenzio bianco.

E questa è magia. Quando Dio disse “sia fatta la luce” la luce fu e la Bibbia, che fin dal primcipio

aveva proclamato che il Verbo era Dio, in un passo del GENESI (II,19) ci racconta che Iddio manifestò la sua predilezione ad Adamo invitandolo a dare nomi a tutte le creature. Ciò valeva a confermare ad Adamo la sua superiorità sul resto del creato, ma era anche un primo passo verso la prevaricazione dell’uomo sulla Natura, verso una forma di possesso assai diverso dall’ atto magico primordiale, in cui il potere è solo spirituale. Rispetto allo sciamano che evoca una mandria di renne, Adamo ci appare come un Linneo ante litteram (2) o come il predecessore di quegli zoologi moderni che si aggirano per il pianeta infilando anellini alle zampe degli uccelli per studiarne le migrazioni. Ogni creatura il suo anellino, o meglio la sua etichetta.

La meccanicità di tale comportamento non viene nobilitata se diamo all’etichetta l’appellativo di “significante” e assegniamo all’oggetto della nostra attenzione la qualifica di “significato”, che sarebbe più opportuno chiamare « la cosa designata”: se vogliamo tradurre in un italiano non ambiguo la terminologia francese di De Saussure. Con tale tipo di definizione resta comunque immutato, anche se implicito, il presupposto che in Natura esistano forme ben definite, in attesa di designazione e legittimazione da parte dell’umanità.

Senza dubbio alcune forme sono nettamente distinte e sicuramente designabili, come quella del pinguino con la sua giacchetta nera che si staglia sul biancore del ghiacciaio, o quella del leone che ci balza addosso. In molti casi però c’è da domandarsi se dietro ciò che noi designiamo esista o no una realtà sensibile. E’ il caso, per esempio, dei colori.

E’ noto che, anche dal punto di vista scientifico, i colori ‘ non esistono in natura in quanto tali. Però anche la gamma dei colori che ci è familiare in italiano non trova corrispondenze identiche in tutte le lingue. Ci sono tribù che classificano il giallo come

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una gradazione del rosso, per cui il colore del papavero è definito “giallo-papavero”. Per altre comunità umane non esiste una separazione netta tra verde e azzurro: li vedono come un’unica tinta con una serie di sfumature, per cui il colore del cielo puòvenir designato “verde-cielo”, e quello dell’erba “azzurro-erba”, allo stesso modo che in italiano si dice “verde-reseda” o “blu carta da zucchero”.

Altri oggetti della nostra percezione vengono sentiti come unitari in italiano, per esempio “la neve”, mentre per i popoli dell’Artide ci sono tanti tipi di neve, ciascuno con una differente denominazione. Quanto più vicino alla Natura il popolo, tanto più minuziosa la sua attenzione agli aspetti del paesaggio. Agli italiani d’oggi pare che ”pietra”, “roccia” e “sasso” siano sufficienti a coprire tutte le emergenze nei nostri rapporti con lo scheletro del pianeta. Però i nostri predecessori sulla penisola, nel 1000 a.C., avevano a disposizione una ventina di termini, la maggior parte dei quali si trova nella LISTA DEI TEMI MEDITERRANEI, indicati dal Devoto nel suo prezioso AVVIAMENTO ALL’ETIMOLOGIA. (3) La “pietra” generica non esiste in natura. Quel termine è entrato in italiano dal greco degli Ioni, che l’ avevano trovato « in sito », forse in un’isola dove il suo significato primario poteva essere “scoglio”. Il “sasso”, prima di diventare un termine generico (con vari casi specializzati, come il Sasso di Matera, o il Gran Sasso), era un frammento di selce usato per segare (sac-sum, da una radice SEK = tagliare, onomatopeica : ssk...ssk...) per tutti i millenni in cui non avevamo ancora imparato a far uso dei metalli.

Per arrivare quindi a un unico “significante” da un vasto assortimento di oggetti designabili, e in ultima analisi per designare qualcosa che in natura non esiste, le varie tribù hanno selezionato delle sillabe, che millenni più tardi possono sembrare arbitrarie, ad indicare segmenti di materia (nel caso che con “sasso” o “pietra” vogliamo indicare un ciottolo). Però in seguito il linguaggio ha tracciato contorni anche più arbitrari attorno ad insiemi non omogenei, accorpando cose in Natura assolutamente separate, come « la pietra filosofale » e « il mal della pietra », superando in potere di impietramento, la Medusa della mitologia greca.

E’ la nostra mente, dunque, che decide dove situare una linea di confine a qualcosa che abbiamo deciso di selezionare nel continuum della materia, per darle un nome: come vedremo più avanti.. Sta a noi stabilire a che punto finisce il verde, prima di virare al giallo nella siccità estiva: punto su cui non tutte le tribù si troveranno d’accordo. Il nome darà alla cosa una identità che si fisserà nel nostro ricordo: noi ci affiliamo la cosa, ne diventiamo responsabili, ed eccola in nostro potere.

Nel processo di assemblaggio, mediante il quale sopprimiamo pietre scheggiate o macigni tondeggianti per livellarle a ”sasso”, l’identità dell’ oggetto singolo non ci interessa più. Riconosciamo però che, a causa della loro durezza, i sassi ci possono essere utili: sicchè il nome si smagnetizza e diventa etichetta. Anzi, non è più un nome: è un significante.

La scelta di un contorno piuttosto che di un altro, sulla distanza, porta a conseguenze macroscopiche anche nel campo sociale e nello sviluppo complessivo della conoscenza.

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Per tutti gli europei, oggi, una mano ha 5 dita, e già le aveva nel simbolo romano per 5, scritto V, in cui si immagina che uno dei tratti ascendenti sia il pollice, e l’altro simboleggi le 4 dita. Comunque il pollice è disegnato, o “scritto” come un tratto separato, e ha anche un nome distinto dagli altri digiti, o ossia in italiano “dita”. L’omologazione delle 5 dita ha portato al dieci, ossia X (le due mani) e alla numerazione in base dieci: esaurite tutte le dita delle mani si passa all’unità superiore, la decina e poi il centinaio.

Altri popoli però non vedevano il motivo di fermarsi, nel conteggio, alle dita delle mani. Perchè non includere anche quelle dei piedi? Essi arrivarono così alla numerazione a base 20, usata dai Maya, ma anche nell’Europa occidentale, dove ne è rimasta traccia in francese (80 = 4 per 20). Per i Maya il nome “uomo” corrisponde a « una volta 20 » = ”hun winak”, sicchè 2 uomini sono” ca winak” = 2 per 20.

Secondo altre comunità umane, però, si potevano considerare omologhe soltanto le 4 dita della mano che hanno tre falangi, mentre il pollice, che ne ha due soltanto, è un’altra cosa. E ciò ha portato alla numerazione a base 12, che pure ha lasciato tracce in Europa: lo scellino inglese si divideva in l2 pence e ci volevano 20 scellini per passare alla sterlina. Moltiplicando il 12 per 5, già nel 2000 a.C., i babilonesi arrivarono alla numerazione sessagesimale, importantissima perchè permise lo sviluppo della geometria e dell’astronomia (e tuttora la usiamo per i calcoli relativi al tempo).

Dalla mano a 4 dita si potevano ricavare anche altri interessanti sistemi numerici, per lo più a base l6. Il piede romano era diviso in 4 palmi, e ogni palmo era diviso in 16 digiti (o dita): parola, da cui oggi gli specialisti di informatica han ricavato il termine DIGIT per indicare un numero compreso tra 0 e 9. Anche la libbra inglese venne divisa in l6 once, dopo aver avuto in un primo tempo il valore di 12 once. E la rupia indiana era divisa in 16 anna.

Le conseguenze della limitazione di un “significante” a un segmento di realtà piuttosto che a un altro può avere conseguenze inattese, a causa delle diverse interrelazioni obbligate che ne derivano. Per esempio, se « le dita vere » sono 4, il quarto dito viene a coincidere con il concetto di “ultimo, finale” e quindi di “morte”. Pertanto la sillaba SA, che per strana coincidenza significa 4 sia nella lingua (dravidica) dei Tamil che in quella (uralo-altaica) dei Coreani, in entrambe le lingue viene evitata nel discorso corrente, nonché nella numerazione delle camere d’albergo, perchè porta male. E nell’isola di Pohnpei, in Micronesia, 4 mazzetti di foglie significano addirittura che il malcapitato “è morto”. Si cita per curiosità la probabile attribuzione del valore 4 alla sillaba SA sui dadi etruschi.

Che ci sia qualcosa di fatale e pericoloso nel fatto di essere l’ultimo, è noto alla gazzella ferita che rimane in coda al branco inseguito, e infatti in molte lingue la radice di “ultimo” significa “ciò che è al di là”, oppure, “chi è in ritardo” (in inglese “last” è il superlativo di “late”, che vuol dire « tardi » ma anche “defunto”). Pare che tutti i numeri, di volta in volta, abbiano avuto il significato di “l’ultimo che si può contare”. Anche in latino il “nove”, che è l’ultimo prima del dieci, corrisponde al ”nuovo” (nel senso di più recente o ultimo): e questi tre significati si ritrovano anche nel sanscrito “nava”, che vuol dire « nove, il nuovo, e l’ultimo ».

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Il fatto stesso di trovare ispirazione nel corpo umano per nominare e numerare, è legato allo stadio magico della lingua. Anche le parole derivate da radici onomatopeiche, ovviamente simili in lingue non affini, appartengono allo strato più arcaico, e quindi magico.

Abbiamo già incontrato una radice del genere in “sacsum”, lo strumento adatto a ”segare”. Vagamente onomatopeica si può considerare la radice PUR/FUR, imitante lo scoppiettio del fuoco. Dal fuoco (vedi in italiano la “pira”, e la polvere ”pirica”, dal greco “pyr”), per associazione di idee si son fatti derivare i termini per “rosso”, “brillante” e “grano maturo”(ovvero, le bionde messi, come si diceva in italiano). Sicchè non è sorprendente trovare i parallelismi che seguono; FUOCO BRILLANTE ROSSO ORZO GRECO pyr pyrros pyros COREANO puul palk, pulk pori MONGOLO pulagan (secondo Poppe) buraj

Onomatopeici potrebbero essere i derivati di SU (K)= succhiare. SU / HU / HY è il liquido dolce tra le labbra (l’acqua fresca o il latte della madre), e “shui” è l’acqua in cinese, e “yu” in cinese è la pioggia, e “yei” in greco vuol dire piovere. SU in sanscrito è la radice di “suggere”, ma anche di “spremere”, che è la stessa azione, solo più energica. La pioggia infatti è spremuta dallle nuvole, mentre l’umidità spremuta dal corpo è il” sudore”. Ma il corpo spreme altri umori, più fertili, sicchè il riproduttore per eccellenza è il “suino” e in sanscrito “sunu” è il figlio (tedesco “Sohn”).

Forse, nello stadio organizzativo più antico della tribù, nella quale il capo riconosciuto della famiglia era la nonna cui si appoggiavano le figlie e le nipoti con la rispettiva prole, il sostantivo sanscrito SWESOR, la sorella (in tedesco SCHWESTER), potrebbe avere il significato remoto di “lei che continua la famiglia” (non per nulla la figlia, in greco ZUGATER e in inglese DAUGHTER sembrano in relazione con DUH = latte). Anche i ”suoceri” dalla parte materna sembrano far parte di questa famiglia di parole in quel tipo di famiglia umana (che gli antropologi chiamano matrilineare e che sta tornando di moda), mentre padri, generi e cognati sono stranamente assenti (4.)

Allo stadio magico della lingua appartiene l’intuizione della consonanza di funzioni opposte. Una volta identificati, nel grande affresco dell’Essere, dei segmenti che si potevano affidare alla memoria ed evocare mediante nomi, il passo successivo fu quello di notare l’ambiguità, anzi, la polarità di tali segmenti. Può darsi che tale scoperta sia stata il risultato di quella che oggi chiameremmo osservazione scientifica. Per esempio, come è noto, una barretta magnetica può essere frammentata indefinititamente, ma ciascuno dei segmenti ricavati presenterà sempre, alle due estremità, elettricità di segno opposto. O forse la partecipazione dei nostri antenati ai processi naturali era così intima e profonda che essi non avevano nemmeno bisogno di un riscontro sperimentale: nel momento stesso in cui tracciavano, dandogli un nome, i contorni di un insieme, essi erano consapevoli della sua intrinseca bipolarità: di sole e ombra, di yin e yang. Di

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conseguenza, nel designare azioni umane, il gesto veniva circoscritto in modo da trovarsi in parallelo, su scala ridotta, con il campo magnetico universale e da poter presentare una doppia polarità positiva e negativa.

Una simile ipotesi è utile per spiegare il caso della radice DA, che in tutte le lingue indo-europee designa l’atto di « dare ». Però in ittito (che è una lingua dello stesso ceppo, parlata in età pre-classica tra il Caspio e l’Eufrate), DA significa ”prendere”. Da cui si può presumere l’esistenza di uno stadio originario con valore bivalente. E non a caso troviamo in inglese il verbo “take”, che vuol dire “prendere” e troviamo in latino una forma analoga, “ducere”, condurre per mano. Forme bivalenti (seppure derivate da altre radici) si possono ipotizzare nelle lingue germaniche, dato che “geben” = « dare » è foneticamente affine a “haben” = possedere.

In fondo, dare e prendere sono due movimenti di segno opposto che dipendono dal tipo di contatto fra le dita (in greco “daktiloi”). Si potrebbe ipotizzare un processo per cui il linguaggio, nel suo stadio antico, non utilitario, tendeva a fissare l’icona del gesto (l’oggetto in evidenza sulle dita distese, insomma: « TOH « ) piuttosto che a fare un’analisi temporale dell’azione (uno offre l’oggetto, e successivamente l’altro lo prende), per cui oggi noi sentiamo la necessità di usare due verbi diversi. Analogamente una stessa radice *KEL dà in italiano “gelido” e “caldo”. E in tedesco “kalt” vuol dire freddo. La bipolarità così designata potrebbe valere per “eccesso di temperatura”, in un senso o nell’altro.

I nostri antenati insomma, erano all’alba di un’intuizione che poi, per motivi storico-economici e più tardi per logica interna, nelle lingue europee non avrebbe trovato sviluppo: e cioè, che per ogni azione o creatura o cosa esiste una doppia potenzialità. In Cina invece la bipolarità è stata teorizzata come carattere essenziale: in tutto l’universo i due aspetti dell’energia sarebbero presenti. I filosofi avrebbero, in età abbastanza recente, teorizzato le osservazioni degli agricoltori cinesi del neolitico, i quali avevano notato che certe piante si giovavano dello stare a ombrìa (YIN: umido, poco sole, nascosto, femminile) ed altre dallo stare a solana (YANG, asciutto, caldo, esposto, maschile).

Si danno casi in cui lingue estremamente diverse per struttura e lontane nello spazio usano termini foneticamente simili per designare lo stesso oggetto o concetto, e ogni ricostruzione di una eventuale relazione appare arbitraria, qualora sia da escludere l’onomatopeia. Si consideri per esempio l’enorme sviluppo e la incredibile diffusione,della radice eurasiatica KAP (“la coppa”). Vedi TABELLA I e II. C’è da domandarsi se non sia il caso di presupporre la diffusione del manufatto stesso (plasmato per la prima volta casualmente nell’argilla, fatta poi indurire al fuoco) o se il manufatto non sia stato distribuito con il nome di fabbrica, come la Coca Cola. Comunque la COPPA è una forma solida che riassume due aspetti opposti: all’interno è concava, all’esterno è convessa, e gli aspetti diventano speculari quando alla coppa si appone il coperchio. In molte lingue la radice KAP è valida per ambedue gli aspetti. Il contenitore di per sè non deve aver richiesto particolari sforzi creativi: qualunque capsula di frutto o cavità nella roccia o corno di mammifero poteva fornire il modello, al polinesiano come al pastore di

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renne. Perché dunque per la designazione di un contenitore così diffuso dovrebbe esser stato scelto lo stesso gruppo di suoni?

Le categorie del concavo e del convesso sono categorie elementari. Il fatto di afferrarle e vincolarle a un nome, a un mantra evocativo, è una intuizione sciamanica. E l’intuizione può aver viaggiato per il mondo assieme all’oggetto e con la magica sillaba KAP che lo designava, così come viaggiarono la coppa di Jamshid e il Sacro Graal.

Comunque, con lo sviluppo degli scambi commerciali su vasta scala e con la nascita dei concetti di proprietà individuale e di ricchezza le lingue utilitarie presero il sopravvento su quelle dettate dalla visione sciamanica. L’ ambiguità non veniva apprezzata nei libri mastri del passato.

Per le parole della civiltà mercnatile il gruppo sonoro di per sé può anche esser stato il nome del vasaio o del luogo di provenienza. Sappiamo che il rame, che si trovava in grande abbondanza nell’isola di Cipro, ha preso in Grecia il nome di KYPRION ed è forse un suo lontano derivato KURI, il nome coreano del rame. In quanto allo stagno di Cornovaglia (cioè, delle isole Cassiteridi) la sua fama almeno era arrivata in India, dato che in sanscrito « lo stagno » si chiama KASTIRA (5). « Il Valpolicella » è un vino che prende il suo nome dal luogo di produzione.

La bipolarità, la pregnanza delle parole continuarono ad aver valore per i poeti (ma nel III millennio nemmeno più per quelli). Era cominciata la Storia, e i controllori della comunicazione (di cui abbiamo ereditato gli archivi) non gradivano che fossero tramandati i pensieri di quei filosofi presocratici che rappresentavano le maggioranze silenziose della protostoria. Il potere delle parole e sulle parole, il potere dello sciamano e del poeta, doveva essere considerato superstizione.

Naturalmente lo sviluppo delle lingue utilitarie venne favorito dall’ambiente e da certi metodi di procacciarsi il cibo. Inizialmente l’ambiente era determinante in modo assoluto, ma con il tempo, allo scopo di adattarsi ad esso, vennero adottati alcuni attrezzi. Da questi si sarebbe sviluppata una tecnologia che poteva essere utilizzata in azioni di guerra contro altre tribù. Al contrario, termini che erano stati sacri in tutta la preistoria uscirono dall’uso quotidiano e furono dimenticati, in particolare dagli allevatori, come vedremo più avanti.

Questa prima selezione ebbe infinite conseguenze e soprattutto condusse ad ulteriori selezioni e a una differente visione del mondo.Le scelte linguistiche, come tutte le scelte che riguardano la comunicazione, sono scelte di vita. TABELLA I

CAPERE = prendere CAPPIO

CAPO COPERTA CAPERE = contenere

COPPA, CAPACE (atto a contenere CAVERNA, CAVITA’

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CAPIRE

Derivati di *KAP nelle lingue indoeuropee diverse dall’italiano SANSCRITO- kupa = cavità, kubja = gobba; kapala = testa SVEDESE - kop = tazza INGLESE - cup = tazza; cap = berretto GOTICO - haban = afferrare GRECO - kubiton = gomito; kephale’ = testa RUSSO - kopenick = cappuccio, sacco

Derivati di *KAP nelle lingue URALO - altaiche MONGOLO - qapturga = borsa, qabqag = coperchio TUVINICO = Xap = sacco TURCO - qap = contenitore, guscio d’uovo; kopru = ponte TUNGUSO - kaptuk = borsa EVENKI - kupurv = coprirsi; kope = gonfiarsi COREANO - kabang = borsa, kap = scatola; kup-da = esser curvo; kkop-ch’u =

gobbo; kuburi-da = chinarsi; kop kyol = doppio CINESE - k’ap = scodella

Derivati di KAP nelle lingue Maleo-polinesiane MALESE - kabok = coppa; kepala = testa POLINESIANO - kopu = pancia; kapi = esser coperto; kopa = ripiegato; kapo = afferrare; kapu = tazza; kupemga = rete;

Capitolo II Il Grande Fiume

Il più antico documento della fragilità degli esseri umani si trova in una serie di

orme pietrificate su un altopiano africano: si tratta delle impronte dei piedi di un uomo e di una donna in fuga davanti a un’eruzione, che ogni tanto si voltavano a controllare di quanto si fosse avvicinato il pericolo.

Eruzioni, terremoti, alluvioni, grossi predatori, siccità, malattie, incendi delle foreste… per centinaia di migliaia di anni gli uomini hanno vissuto in piccoli branchi il cui destino era di sopravvivere assieme o di essere sopraffatti assieme, proprio come tante altre specie animali, dentro il flusso di una Natura smisurata e imprevedibile. Nei flutti di questa corrente senza rive, l’unica gerarchia riconoscibile era quella, cruenta, che coincideva con la scala alimentare.

Il topo, il gatto, il lupo, l’orso, il toro, l’uomo, la tigre, si potevano individuare quasi appostati sui gradini di una scala di mangiatori in cui l’ individuo aveva scarso peso.

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L’evidenza, tanto elementare da precedere anche il pensiero articolato, è che il pesce piccolo mangia il verme, ma viene poi mangiato dal pesce grosso: una consapevolezza ancora interamente inarticolata.

Più tarda invece è stata la percezione che le esistenze non si svolgono in serie lineari. Già all’uomo del paleolitico la materia vivente appariva come trascinata e trasformata ad intervalli ritmici, in cerchi concentrici o in spirali. E forse questa percezione, anche prima di poter essere formulata razionalmente in un pensiero articolato era stata rappresentata in quei segni di cerchi concentrici e spirali, così frequenti nei graffiti del neolitico, in tante regioni del pianeta.

Per arrivare a questa espressione grafica non era necessario che la coscienza individuale fosse pienamente sviluppata. L’uomo apparteneva alla specie, come il topo. Il quale topo, in quanto elemento della scala alimentare e vittima predestinata del gatto, mal si distingue dall’idea di « topitudine »: lo si conosce attraverso una memoria di morsi e furti ripetuti nel tempo e nel buio, piuttosto che attraverso il ricordo preciso di un compagno al riparo della stessa caverna. Nè al Topo poteva esser riconosciuto quanto l’Uomo ancora negava a se stesso: la consapevolezza di un Io scisso da quel Noi che ci assicurava la sopravvivenza. Infatti, in alcune lingue è rimasta traccia di un pronome ”Io” derivato da un pronome ”noi” e il greco « egò » sembra richiamare eka = uno (uno dei tanti). Ma in molte lingue orientali, e notoriamente nel cinese che conserva alcune strutture antichissime, quella antica intuizione del singolo come parte di una specie si riflette in campo grammaticale. TOPO in cinese è un collettivo, come in italiano è collettivo il termine “bestiame”. In cinese è impossibile dire “due topi”: bisogna dire “due pezzi di topo”. E naturalmente anche ”due pezzi di uomo” e così via.

Cioè in cinese, pressochè alla totalità dei sostantivi, si applica la regola che in italiano vale per i sostantivi indicanti una materia, quando ne prendiamo in considerazione solo una parte. Diciamo ”un bicchier d’acqua” o “un pezzo di legno” perchè l’acqua è un continuo e il legno (che oggi tende a essere molto discontinuo) lo era pure. Per gli inglesi “pesce“ e pecora”, appartengono tuttora a dei continui, come acqua e legno : ossia, sono “nomi di massa” (mass-nouns) da contrapporrre a quelli, di esseri animati o di cose, che sono più ovviamente numerabili (count-nouns)

Forse le favole di Esopo o quelle medievali della volpe (« MaÎtre Renard ») sono il riflesso ultimo di una antichissima visione dell’esistenza che anche i nostri antenati condividevano. Forse quel singolare collettivo (o nome di massa) riaffiora in italiano in frasi come “i presenti si tolsero il cappello”, che è una stranezza grammaticale, in quanto ci aspetteremmo a rigor di logica (e in inglese così si deve dire) che tutte quelle persone si tolgano altrettanti cappelli.

Di quella antica filosofia erano rimasta ancora un’eco ai tempi di Newton, nella concezione della “grande catena dell’Essere” (1), estrema derivazione del pragmatismo del neolitico. Però in Europa, nelle lingue parlate, i sostantivi non numerabili erano già diventati eccezionali ancor prima che sparisse quella concezione del mondo che forse li aveva suggeriti : e forse la loro scomparsa dall’uso linguistico ha a sua volta accelerato l’emarginazione della filosofia che li sottendeva.

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Nelle lingue in cui i nomi di massa si sono conservati l’uso dei “classificatori” è indispensabile nella contabilità,mentre questo accorgimento grammaticale è tanto alieno alla lingua italiana, che, sebbene sia normale dire “un bicchiere“ d’acqua, si ordina “un caffè”, e non « una tazza di caffè ». Nelle lingue in cui un uomo è rimasto “un pezzo di umanità”, la struttura linguistica è trainante verso una concezione filosofica di tipo taoista o panteista, mentre per chi parla lingue come l’ italiano il cammino che conduce alla Via (al Tao e all’ Uno) è tutto in salita. E per i cinesi la consapevolezza di essere immersi nel Tao costituiva la superiorità dell’Uomo rispetto agli altri esseri viventi, in quanto solo l’Uomo, attraverso il linguaggio, poteva consacrare quella Legge universale dandole un nome.

L’inflessibile catena alimentare diventava quindi, per l’uomo capace di linguaggio, “la giustizia, l’ordine, il ritmo, il rito”. E il termine sanscrito RTA, che sanziona questo concetto, ha la stessa radice delle parole italiane “rito, ritmo e ruota”. Dentro alla Grande Ruota ogni essere è componente essenziale: nessuno è per sempre ed esclusivamente Vittima, in quanto ad ogni creatura spetta, a un tempo dato, il ruolo del Sacrificatore e ciascuno partecipa (al di là della sua esistenza individuale) dell’eternità del Fiume, al di fuori del quale nulla è immaginabile.

I ruoli distinti per le Vittime e per i Carnefici e poi l’antagonismo tra il Bene e il Male e anche i Valori Universali e il Nichilismo ad essi contrapposto, diventano oggetto di speculazione soltanto quando l’uomo ritiene di poter imporre al cosmo gli schemi tipici dell’artigianato urbano e si domanda chi comandi tra i genitori dell’Universo, se un dio di sesso maschile o una dea, e quale sia il nome più appropriato da dare all’Orologiaio che ha messo insieme il tutto (Urano, Jehovah o Allah ?).

Una volta ammessa la necessità di uno “chef” che sorvegli da fuori la fila dei mangiatori, allora tutti gli esseri coinvolti diventano ciechi strumenti di un “gioco del ristorante” di cui all’uomo sfuggirà sempre il senso e la motivazione (eravamo colpevoli, quando è scoppiato il colera? fu una malvagità di Dio, il terremoto del Molise?).

Nella preistoria la durata media della vita non superava i 25 anni: un’età in cui ancora non si tirano somme, un tempo troppo breve per poter rilevare cicli temporali più lunghi di quello lunare. Tuttavia, dopo molti millenni di memorie tramandate attraverso il linguaggio da una generazione all’altra, le comunità umane avevano cominciato a prevedere e misurare i ritorni nel fluire degli eventi, le primavere e le eclissi. Anche al tempo delle grandi glaciazioni la vita dei singoli era breve e la partecipazione al Rito-Ritmo era collettiva e totale: nessuno si domandava quale fosse “il significato dell’esistenza”. Colui che si sente parte dell’Essere necessariamente sa che l’Essere non significa, ma semplicemente è. Molto più tardi questa filosofia avrebbe trovato una formulazione altissima nel BHAGAVAD GITA, ma da milioni di anni i semplici sapevano che si mangiava fino al momento di essere mangiati.

La tigre stessa, assieme agli altri viventi, mansuetamente fluiva. “Mansueto” significa “abituato alla mano del padrone”, e il padrone era il Fiume della Vita. Lo sguardo del coniglio immobilizzato dal terrore davanti alla bocca del serpente è l’icona che, meglio di ogni discorso, ci illumina sulla qualità dei rapporti dell’uomo con i grandi

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carnivori in quei tempi remoti. La preda, mansueta nell’attimo dello sgozzamento, veniva mansuetamente dilaniata a morsi.

Anche oggi è possibile trovarsi immobilizzati dell’antico timor panico, in acquiescenza alla Legge della Vita; individualmente (come nella violenza sessuale) oppure davanti alla prepotenza organizzata della mafia o dello stato o collettivamente durante le epidemie o le catastrofi nucleari. O più semplicemente durante un lungo perido di disoccupazione. Però noi, oggi, abbiamo perduto il ricordo della sacralità dell’Orrore e dell’Impotenza. (« Ci deve pur essere un sindacato, o i carabinieri… »)

Il Grande Fiume è senza sponde e senza isole. E’ l’antico Fiume Oceano che accerchia le terre, senza una foce. Vivere immersi in esso è come venir tessuti in un arazzo, possedendo due sole dimensioni. A nulla, meglio che a questa primordiale sensazione di impotenza, si applica il termine tedesco di Weltanschauung, cioè a dire, di “visione del mondo”. Il mondo infatti, a chi non vi può agire, si presenta essenzialmente come “veduto”, come appariva ai prigionieri in ceppi nella caverna di Platone.

Però noi esseri umani avevamo il linguaggio. Attraverso il linguaggio il genere umano è riuscito a ricavare, per se stesso

soltanto, una terza dimensione, che ci ha permesso di vivere come se fossimo usciti per sempre dal corso del Fiume e dalla Caverna. Tuttavia quello stesso linguaggio ci ha allontanato progressivamente e irrimediabilmente dalla Natura, mentre l’animale, come dice il poeta Rilke, è rimasto

....caldo e vigile, e dove noi vediamo la Natura, lui vede il Tutto e nel Tutto se stesso, e salvo, per l’Eternità. (2)

La separazione dell umanità dalle altre specie viventi, qualunque sia stata la struttura linguistica a disposizione, è divenuta con il tempo una voragine insuperabile. Infatti, con lo sviluppo successivo delle tribù in stati, gli idiomi sacri, aderenti al tangibile, già sostituiti da lingue utilitarie, si sono trasformati in gerghi aderenti a ideologie.

Quando il potere di Roma cominciò a prender forma, l’unica lingua sacra di cui qualche traccia fosse rimasta in Italia era la lingua etrusca. Di essa sappiamo troppo poco. Sappiamo con certezza, comunque, che la concezione del mondo degli etruschi era totalmente estranea a quella dei Romani che ormai avevano la supremazia sulla penisola. Gli etruschi stessi erano stati praticamente sterminati, la loro lingua era scomparsa: ma l’arte etrusca si era salvata nelle tombe. D.H.Lawrence, che era, al pari di Rilke, non un filologo ma un poeta, aveva colto queste tracce con mirabile intuizione osservando gli affreschi delle tombe di Tarquinia. La visione del mondo degli etruschi, scriveva Lawrence, era diretta a identificare

“...tutte le forze fisiche e creative volte alla costruzione o alla distruzione dell’anima: intendendo per anima, per personalità, qualcosa che gradualmente sboccia dal caos, al modo di un fiore, solo per scomparire nuovamente nel caos, o nel mondo sotterraneo. Noi, al contrario, diciamo: “In principio era il Verbo!”...e neghiamo la vera esistenza dell’universo

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fisico. Noi esistiamo solo nella Parola, che è come un metallo battuto a foglia sottile che copre, che indora, che nasconde ogni cosa.”

Tuttavia ancora al tempo degli Etruschi, continua Lawrence, “tutti gli esseri umani emergevano dalla corrente del sangue, e la

relazione del sangue, per quanto complessa e contraddittoria potesse essere, non veniva mai nè interrotta nè dimenticata.” (3)

« Vedere », per gli etruschi (come per i cretesi, e gli altri mediterranei pre-ariani, e per i cinesi pre-confuciani) significava identificare degli impulsi nel fluire dell’Essere. Ovviamente i confini che le parole tracciano attorno a questi « quanti di energia » non possono essere che convenzioni indispensabili affinchè quello strumento specializzato che è la mente possa memorizzarle.

Ma per quanto labili questi confini siano, identificare forme parziali dentro al continuum significa, di fatto, crearle, fare opera di magia. Il mago stava, davanti al paesaggio fluido e fluente, come davanti a un muro cosparso di macchie di umidità e con lo sguardo poteva a suo piacimento fissare dei contorni che un solo batter di ciglia bastava a cancellare, magari per sempre. (Oppure, il mago poteva penetrare in quel paesaggio dipinto dalla sua immaginazione, ed avere delle avventure, e anche restarvi imprigionato per sempre, come si racconta sia avvenuto a certi sciamani siberiani o messicani.)

A D.H.Lawrence non sfuggì il fatto che la consapevolezza della continuità dell’Essere era il nucleo della “vecchia Religione” ormai perduta. Questa era stata, infatti,

“un profondo tentativo dell’uomo di armonizzarsi con la Natura...e di arrivare a fiorire all’interno del grande fiorire della vita...”

Quella antica religiosità era condannata a sparire e avrebbe poi dato luogo, attraverso la grecità neoclassica e l’arte romana,

“...a un desiderio di resistere alla Natura, di sconfiggerla spiritualmente, e di incatenarla per sempre”.

Fino a che, dopo il Rinascimento, tutto cadde sotto il controllo dell’uomo e venne “...addomesticato, e strumentalizzato alle mediocri esigenze della specie umana.”

E’ passato un secolo da queste note di D.H.Lawrence, e gli scienziati al servizio delle « mediocri esigenze » stanno distruggendo il pianeta e poeti e filosofi non possono che esserne cosapevoli.

I poeti hanno intuizioni, ma i filosofi possiedono strumenti per valutare la distanza tra il punto di vista dei moderni e la visione degli antichi e li usano, per poco che riescano a sottrarsi alle acque stagnanti dei circoli accademici. Per esempio, Scollon S. e Scollon R. hanno notato (4) che la predominanza di sostantivi numerabili che si riscontra in inglese e nelle altre lingue europee fa calare chiunque parli queste lingue in un universo di elementi “cosificati” talmente inerti e sterili da render successivamente necessario l’intervento delle idee platoniche.

Infatti, se lo sguardo può posarsi soltanto su cavalli venduti e comprati o legati ai carri o ai cannoni o uccisi assieme al re o trasformati in bistecche per anemici, deve ben

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esistere da qualche parte una cavallitudine che galoppa per praterie sempre verdi e si abbevera alle sorgenti. Se invece il cavallo è una figura che un continuum di energia assume e poi magari abbandona, senza però che l’energia vada perduta (dato che una forza d’inerzia la spingerà a riempire altri contorni), allora la cavallitudine è una forma che esiste in mezzo a noi e non nel mondo delle idee. Il mondo delle forme eterne, l’Iperuranio delle idee, dunque, non è un santuario creato dalla divinità, ma è semplicemente la proiezione di un’energia della nostra mente sul tutto che scorre.

Platone non avrebbe potuto nascere in Cina. Senza dubbio, il fatto che in cinese “cavallo” sia un sostantivo non numerabile non ha mai impedito ai cinesi di comprare e vendere cavalli, di sacrificarli e di mangiarli: e ciò ancor più serenamente in quanto per gli orientali esiste la possibilità che ogni creatura esca da un’esistenza per poi ritornare alla vita assumendo nuovi, differenti contorni, altrettanto labili dei primi, s’intende.

Analizzando questa filosofia così intimamento connessa con la lingua si comprende perchè i cinesi, come ha scritto qualche europeo, “non hanno religione”. I cinesi, infatti, sono immanentisti e non ipotizzano un dio al di fuori della creazione, sebbene le forze che affiorano a volte in modo particolarmente intenso ricevano dal loro stesso popolo analfabeta il nome di “divinità” o “genii del luogo”, mentre i pensatori cinesi parleranno di ”meridiani” e i taoisti parleranno di “draghi”. Per la maggior parte degli orientali, niente si distrugge, ma tutto perpetuamente muta e assume nuove forme (possiamo anche dire che rinasce o che si reincarna), sempre con delimitazioni precarie.

La labilità delle forme che coincide con una concezione immanentistica è il presupposto di teologie anche filosoficamente complesse come il Buddismo e l’Induismo e la più recente dottrina di Sai Baba. Una tale convinzione di fondo non impedisce ai singoli buddisti di commettere rapine, e a molti cinesi di amare il denaro più della bellezza, di perseguitare la religione dei Tibetani e di darsi al più basso dei consumismi: resta comunque il fatto che una civiltà dei consumi non avrebbe potuto nascere in Cina.

D’altra parte, anche in Occidente alcuni saggi, o perchè venuti a contatto con le filosofie orientali, come forse è stato il caso di Pitagora,o perchè dotati di grande indipendenza di pensiero, come Giordano Bruno e Spinoza, sono giunti alle medesime conclusioni della necessaria immanenza di Dio.

Quei filosofi riuscirono a leggere attraverso il vetro affumicato del lessico, che ancora, persino nell’Europa post-Rinascimentale, attraverso l’eredità latina, conservava tracce degli idiomi magici e pregnanti che hanno preceduto la latinità. Può non essere una caso che la divinità (infinita per definizione) sia non soltanto priva di confini, ma anche, come sottolinea Spinoza, “senza fini”, ossia non orientata a vivere secondo quei fini, ovvero scopi specifici, che ogni individuo o società umana si pone.

Per gli orientali, per esempio, la specie umana non possiede alcuna superiorità innata sulle altre. In Europa, invece, rimane un caso isolato quello di San.Francesco, che riuscì fino alla morte a conservare la fede nell’unità dell’Essere. Ed è interessante leggere il CANTICO DELLE CREATURE cercando di mettersi nei panni di coloro cui il santo apparve sospetto di eresia e di simpatie per la ”vecchia religione”. Comunque il santo cristiano aveva sempre come punto di riferimento la volontà personale di quel Padre che

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dimora lontano, su nei cieli, mentre l’uomo della protostoria pensava alla morte (come pensano tuttora gli orientali) come a un ritorno all’eterno Fluire, al Tao, alla Grande Madre.

San Francesco fa un passo più in là del cristianesimo ortodosso quando usa l’espressione “nostra sora morte corporale”. Per Francesco la morte è una forza, che lo affratella anche all’acqua e al fuoco, anzichè avviarlo a un giudizio divino in conseguenza del quale l’acqua e il fuoco potrebbero diventare agenti di eterno tormento.

Le lingue sacre che ispiravano la vecchia religione non erano un punto di partenza adatto per uno sviluppo tecnologico basato sulla analisi scientifica delle cose. Per tale sviluppo occorreva un mezzo di comunicazione privo di polarità e di profondità mistiche, una lingua che concentrasse l’attenzione del parlante verso un centro immaginario del visibile piuttosto che verso i suoi sfocati contorni, cioè verso il centro di gravità dei componenti della materia. Si tiene conto allora del nucleo compatto delle cose, piuttosto che della loro periferia avvolta di piume o irta di spigoli.

Là dove si dà per scontato che i contorni sono essenziali per la determinazione dell’oggetto singolo, allora è concepibile una classificazione del tipo di quel “passo di una enciclopedia cinese” che Foucault cita da Borges: “Gli animali si dividono in: a) appartenenti all’imperatore b) imbalsamati c) maialini di latte d) addomesticati e) sirene f) favolosi g) cani in libertà h) inclusi nella presente classificazione i) disegnati con un pennello finissimo....”. Foucault si domanda dove questi articoli così assortiti potrebbero incontrarsi “se non nel non-luogo del linguaggio” e ne riporta l’impressione di un disordine devastante.

Anche Aristotele, (il primo dei grandi classificatori della conoscenza) avrebbe avuto la medesima reazione. Infatti nella Grecia classica era già stata obliterata quella prima visione dell’universo come sostanza illimitatamente estesa, intuita da Anassimandro e da Talete, che era ancora legata alla visione del mondo accettata nella preistoria. Secondo Foucault la “grande frattura” ebbe luogo all’inizio del XIX secolo, perché solo in quel momento, egli scrive, « il linguaggio come tappa indispensabile tra la rappresentazione e gli esseri avrebbe perso il proprio posto privilegiato per diventare uno stadio della storia umana », in quanto “i segni vennero liberati da tutto il brulichio del mondo”(5).

Viceversa, l’ assunto di questo studio è che la grande frattura ebbe luogo con la sparizione dei filosofi pre-socratici, ma era diventata inevitabile dopo la sopraffazione delle antiche comunità mediterranee. Con l’obliterazione delle lingue sacre legate a una concezione immanentistica della divinità, le parole cominciarono a somigliare alle cifre di un codice. I Nomi vennero usati per chiamare e per contare, non per evocare. Il processo fu lentissimo, e durò tremila anni. Tuttavia, bisogna dare atto a Foucault che, a partire dal XVIII secolo, le lingue europee cominciarono ad acquistare la precisione (e spesso l’oscurità) delle “istruzioni per l’uso”.

Negli ultimi decenni le lingue europee hanno perduto persino quel potere soffocante della Parola “che copre, che indora , che nasconde ogni cosa” : quella che Foucault chiama “la quadrettatura iniziale delle cose”, ossia il trasferimento su nastro sonoro di ogni punto del cosmo visibile, analogamente a quanto avviene in una proiezione

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geografica, in cui la rete dei meridiani e dei paralleli che avvolge idealmente il globo terrestre viene sviluppata su una superficie piana. Quella fitta rete, era stata, per così dire, sospesa al di sopra del pianeta, al modo in cui è sospesa una nuvola, cui ascendono vapori impregnati degli aromi della terra. Sebbene quella nuvola fosse ancora ricca di profumi organici, già nel XIX secolo provocava un principio di effetto serra.

Oggigiorno, la nuova rete di convenzioni verbali è appesa più in su delle nuvole, ed è inodore, come i più pericolosi gas venefici. Di qui la necessità fisiologica dell’individuo medio, di aggrapparsi al turpiloquio per rimanere nell’organico. Intanto i nuovi gerghi, che figliano mostruosamente ogni pochi mesi, come gli alieni seminati sulla terra nei film di fantascienza, si allontanano dalla lingua tradizionale a velocità da guerre stellari.

I nuovi apprendisti stregoni pretendono di averne ancora il controllo. Speriamo.

Capitolo III Parola di Poeta

Per il sacerdote cristiano o per il rabbino impegnato in un esorcismo, come per il

mago tibetano, il potere è nel mantra. ossia nella Parola detta. La parola, cioè quel terzo elemento inserito tra l’osservatore e l’oggetto designato,

non è arbitraria ma necessaria: il Poeta l’ha individuata come tale. Nella necessità del rapporto risiede il potere del cantore di carmi, che è anche il signore degli incantesimi (in latino CARMEN ha questo secondo significato, che si è conservato nel francese CHARMES): il poeta, attraverso la parola, ha potere sulla cosa nominata.

Di qui il ruolo essenziale del Poeta nelle società antiche: colui che conosce tutti i nomi conosce tutti i segreti. Di qui anche il ruolo insostituibile del Maestro, del poeta anziano, del “guru”, su cui tuttora si insiste in molte culture (ed anche nelle cosiddette nuove religioni). Il Maestro era l’esperto capace di tramandare la conoscenza di generazione in generazione. Senza un Maestro non si può perpetuare il ricordo di quella particolare cadenza, di quegli accenti da osservare scrupolosamente, che rendono efficace la preghiera. La fede e la sincerità non bastano al devoto se la cadenza non è esatta, quando è necessario ripetere una formula. Ma le formule (ovvero, la maestria nel comporre versi) non bastano al poeta-mago se manca nel suo cuore la fede nella inevitabilità del rapporto tra la Parola e la Cosa.

I linguisti discutono se, nello sviluppo del linguaggio, si sia sentita la necessità di individuare prima di tutto i simboli sonori per le azioni e i gesti (ossia i verbi), oppure se dare nomi alle cose sia stato più importante. Certo alcuni segnali del tipo “taci: ascolta!” oppure “cuccia là!” devono essere stati indispensabili sia per il cacciatore in cerca di preda che per chi cercava di sfuggire all’attacco di un predatore.

Un poeta non avrebbe esitazioni: il sostantivo è più importante del verbo. Lo comproverebbe la straordinaria fortuna di alcuni fonemi, come ad esempio NOM/NAM, per designare il “nome”. A Ur, città dei Sumeri, NAM aveva il senso di “autorità” nel 24OO a.C.. LU-GAL era “l’uomo grande”, cioè il re, e NAM-LUGAL era l’autorità del re, il suo potere, la regalità. In sanscrito la radice NAM ha due valori, a seconda che la

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vocale è breve (e allora significa “inchinarsi, assoggettarsi, omaggio, venerazione”) oppure è lunga: e in questo caso il senso coincide con quello che ha in quasi tutte le lingue europee, oscillando tra “nome proprio” e “fama”. Anche in latino la vocale di NOMEN è lunga. In greco NOMOS è la legge. Questa radice in greco governava una famiglia apparentemente eterogenea di sostantivi (tutti passati in italiano), tra cui possiamo menzionare i NOMADI, la NEMESI e la FISIONOMIA. NOMOS sta anche alla base di un sostantivo importantissimo, che è il NUMERO.

In tedesco troviamo di nuovo la A lunga in NAME, il nome, che anche qui ha come significato non secondario quello di “reputazione”. Evidentemente l’autorità di questa radice antichissima era immensa, perchè persino i finnici, che parlano una lingua uralo-altaica, ossia affine al turco, hanno adottato il sostantivo NIMIN, scartando forse un termine della lingua nazionale affine al turco ISIM o al coreano IRUN... Ma ancche in Giappone « nome » è NAMAE.

Per spiegare la straordinaria ubiquità di questa sillaba si può immaginare che abbia accompagnato la diffusione della religione buddista o il cammino dei mercanti su antichissime vie commerciali che attraversavano la Mesopotamia. E si possono ricordare casi analoghi, come quello della fama di Alessandro Magno che è arrivata in Malesia, o quella di Cesare, dal cui nome è stato ricavato il titolo di « Zar ».

Il NOME di una persona (lo apprendiamo dai rapporti di tanti viaggiatori ed etnologi), presso molti popoli primitivi, ma anche in culture evolute, è concepito come il doppio della persona stessa. Bisogna tenerlo segreto, per non dare ad estranei un potere su di noi. Forse per questo anche oggi, nelle famiglie indiane conservatrici, i genitori chiamano per nome i loro figli, ma i figli non possono chiamar per nome nemmeno i fratelli maggiori.. E la stessa mancanza di reciprocità si riscontra, in India, tra marito e moglie: la moglie non deve rivolgersi al marito usando il suo nome. Forse quell’antichissima sillaba mesopotamica, NAM, indicante l’autorità, è servita a designare l’autorità del membro più importante della famiglia e poi è passato al senso di nome proprio. Nè sarebbe stato incongruo adottare un termine straniero per riferirsi ai nomi propri, essendo straniera l’usanza, sconveniente e incauta,di usarli per rivolgersi a una persona. A tutt’oggi i poeti sono consapevoli del potere evocativo del Nome. Un esempio diretto lo dà Borges:

Se, come afferma il greco nel Cratilo il nome è l’archetipo della cosa, la rosa è nelle lettere di ROSA, nella parola NILO è tutto il Nilo.

Fatto di consonanti e di vocali, tremendo un Nome ci sarà, l’essenza di Dio: custode dell’Onnipotenza in lettere ed in sillabe fedeli.

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Comunque in Europa ormai i poeti, anche se forniti di coscienza sindacale, preferiscono rinunciare a queste missioni pericolose nell’universo parallelo dei suoni. Sono venuti a mancare i presupposti filosofici e religiosi in base ai quali un pubblico sarebbe disposto ad ascoltare un poeta che si proclamasse veggente, osssia in grado di vedere ciò che agli altri membri della comunità non è visibile. (Oggi si preferisce credere alla analoga pretesa degli economisti.)

I nostri contemporanei non disprezzano il potere magico e lo cercano, ma ritengono che solo la droga possa donarglielo. Anche gli sciamani, da sempre, han fatto ricorso agli allucinogeni, alla canapa indiana, all’oppio: ma essi sapevano che in tal caso il potere sarebbe stato solo prestato loro, poiché la sua vera sede era la droga. : sapevano che al risveglio le superfici delle cose sarebbero state anche più opache di prima. Blake lo sapeva, e lo scrisse: per penetrare all’interno di quelle che al profano appariva una superficie sigillata, il veggente non aveva bisogno degli occhi:

We are led to believe in a lie when we see WITH, not THROUGH the eye (Noi siamo indotti a credere a menzogne, guardando con, non attraverso gli occhi)

Ossia, la verità non si coglie migliorando la vista con lenti a contatto o asportando

cataratte: anzi (e il caso più noto è quello di Omero), il bardo spesso era cieco, come può esserlo tuttora un cantore di Dio errante per le steppe dell’Anatolia, e come cieco deve essere, in Corea, l’unico sciamano che non sia di sesso femminile, che viene chiamato “pansu”, e che vede l’avvenire.

Borges è l’unico veggente moderno a cui gli dei han tolto la vista, consacrandolo con autorità ben maggiore di quella del comitato che assegna il Nobel. La responsabilità per questo stato di cose non è da ascrivere ai poeti, ma all’estrema torbidezza delle acque del Grande Fiume nel tratto che oggi la sua corrente attraversa, nonchè all’estrema banalizzazione del linguaggio che pedagoghi, politici e pubblicitari ci abituano ad ascoltare. E non basterà una generazione, a far sì che la gente impari nuovamente a riconoscere il sacro e ad amarlo, perchè le radici della nostra disaffezione affondano nel buio di molti secoli. Noi abbiamo perduto del tutto il contatto con la vecchia religione.

Notava già William B.Yeats ( in A GENERAL INTRODUCTION TO MY WORK), che, prima che iniziassero le “grandi controversie” religiose,

“il cordone ombelicale che univa la Cristianità al mondo antico non era ancora stata tagliato. Cristo era ancora il fratellastro di Dioniso. Uno che avesse appena ricevuto la tonsura dai Druidi poteva apprendere dal suo vicino di casa cristiano a farsi il segno della croce senza sentirne l’incongruenza, e nemmeno i suoi figli l’avrebbero sentita.”

Yeats negava sprezzantemente la teoria secondo cui il jazz e le canzoni dei

musicals sono l’arte popolare dei tempi nostri, poichè “noi poeti irlandesi respingiamo

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qualsiasi arte popolare che non abbia i suoi antecedenti sull’Olimpo”. E poco più in là si dichiarava quasi certo di sapere la ragione per cui

“un certo vecchio prete un pò pazzo aveva detto che, durante tutti gli anni in cui aveva vissuto, nessuno era andato all’inferno o in paradiso, intendendo dire con questo ....che i morti restavano là dove avevano passato la vita, o nei dintorni, e non cercavano alcuna plaga non concreta per ricevervi premio o punizione, ma si ritiravano, per così dire, nelle forme segrete del loro territorio.”

E inoltre, aggiungeva Yeats:

”io sono nato in questa fede, ci ho vissuto dentro, e in essa morirò: il mio Cristo ...è quell’unità dell’Essere che Dante paragonava a un corpo umano di perfette proporzioni, è l’Immaginazione di Blake, è ciò che le Upanishad chiamano “il Sè”; e tale unità è …..immanente, e differisce da uomo a uomo e da un’ epoca all’altra, assumendo sopra di sè dolore e bruttura, “l’occhio del tritone e l’alluce del rospo”.

Se fosse vissuto al tempo di Giordano Bruno, Yeats sarebbe stato certamente

mandato al rogo, perchè l’ortodossia non può accettare che uno professi Cristo (« in questa fede morirò ») e nello stesso tempo dichiari che la Santissima Trinità non gli interessa per niente. La coerenza di una tal posizione dipende dal fatto che per Bruno, e Blake, e Yeats i nostri occhi e i nostri sensi incontrano sempre una superficie cangiante, uno specchio che riflette solo quanto è in noi, quanto abbiamo ricevuto in dote dalla nostra cultura. A queste immagini riflesse diamo il nome di Buddha o quello di Cristo, o di energia cosmica, a seconda di quello che siamo stati educati a rispettare.

Yeats viene citato deliberatamante perché la lingua italiana non è la sola lingua biforcuta del mondo, anche se costituisce un caso limite, perché le contraddizioni intrinseche sono messe in evidenza dal conservatorismo delle sue forme esterne. La lingua italiana è l’ indice di una schizofrenia culturale di estensione planetaria: tutte le lingue oggi parlate sono composite e negano, pressoché in ogni sillaba, l’immanenza del divino e di conseguenza il valore oggettivo della Parola.

E’ anche una questione di coraggio. Guai al poeta, che vivesse solo per portare a fondo la sua missione, rinunciando al palco di una cattedra universitaria, alle corsie preferenziali di rapporti con l’establishment o anche con l’intelligentsia di una opposizione elitaria, arroccata nei suoi club. Sarebbe come ostentare impudicamente il fatto di essere un portatore di handicap. L’unica generosità di cui i gestori professionali della cultura potrebbero dar prova sarebbe di classificare un tale spericolato tra i “poeti maledetti” e magari spalancargli le porte del manicomio.

In manicomio morì, appunto, l’ultimo veggente italiano, Dino Campana, che in oriente sarebbe stato benvenuto in qualsiasi monastero. Campana non accarezzava il sogno ambizioso dei teosofi contemporanei di diventare il sacerdote di una nuova sacralità che sostituisse quella perduta. Campana non possedeva la carica di sdegno

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sarcastico di Arthur Rimbaud per il mondo che si era liberato della sacralità antica. Campana tentava con infinita umiltà di fissare lo spasimo delle sue vertiginose visioni e in tale ricerca annientava se stesso. Impossibile, d’altra parte, paragonarlo ai mistici che cantano di incontri con il divino al di fuori del tempo e dello spazio. Campana lottava per portare quel divino giù in mezzo a noi. Era un cavaliere della Parola, o meglio un suo scudiero, smarritosi in una selva di talismani, una Broceliande visibile a lui soltanto.

Le parole gli parlavano. Campana sentiva il sale marino cantare dentro al carruggio ”che sale, in alto sale” (GENOVA), e di molte identità lui si sentiva, più che il profeta, l’araldo: colui che porge umilmente il massaggio al destinatario, cioè a noi. Ma il messaggio non è altro che la parola stessa, dissotterrata e lavata degli umori del sepolcro.

La vita di Campana è stata una lotta per darci un’immagine che sia suono: Per esempio

I pioppi al margine degli occhi bruni della sera...

oppure una sua visione, distesa e tenera dell’infanzia, come di

“una cosa specchiata, con le ridenti spighe gialle e con i campanili...come stare sempre sulla riva di un giorno.”

Tra questi moderni sciamani, trovatori della Febbre, il più lucido è stato Arthur

Rimbaud, che già l20 anni fa riconosceva nei fumi di carbone sulle città inquinate

la nostra ombra di bosco, la nostra notte d’estate...(VILLES)

e aveva intuito l’atroce realtà coperta dal mantello dignitoso della democrazia:

“La bandiera muove verso il paesaggio immondo, e il nostro gergo soffoca i tamburi. Nelle città alimenteremo la prostituzione più cinica. Massacreremo le rivolte del buon senso. Ai paesi del pepe, putrefatti! al servizio dei più mostruosi sfruttamenti industriali e militari...avanti, marsch!” (DEMOCRATIE)

La traduzione non rende giustizia all’originale. Del resto, tutta la Poesia è

intraducibile, perchè non ha senso portare dei significati al di fuori della scala musicale che è loro propria, in quanto significato e suono in qualsiasi rituale magico coincidono. “I paesi del pepe” sono certamente quelli delle spezie che l’occidente ha conquistato e saccheggiato, però il francese “poivrè”, ossia “pepato” ci dà anche l’idea che questi paesi sono stati avvelenati dalla loro stessa ricchezza, dalle loro monoculture: e infatti in

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francese si percepisce, dietro al “poivre” la sillaba affine “pauvres”: quei paesi sono impoveriti dal pepe.

Rimbaud era un maestro di queste sintesi . L’esempio più celebre è quello di

O sâisons , o chateaux quelle ame est sans defauts?

O stagioni, o castelli, quale anima è senza difetti?

Non solo la rima del secondo verso è irrecuperabile: ma, come già notava

Etiemble, nel primo verso si è operata una sintesi spazio-temporale, partendo da una piatta enumerazione di “case e castelli” (“maisons et chateaux”). Lucidamente, attraverso l’inferno di angosce personali e metropolitane, Rimbaud si sentiva pressato a trovare ”il luogo e la formula” (VAGABONDS), e si domandava : “Che ne è stato del Bramino che mi spiegava i proverbi?”

Gli sciamani del nostro tempo, infatti, pagano duramente lo scotto di essere autodidatti. Si possono scrivere poesie e occasionalmente si può attingere alla Poesia, ma non si diventa maghi senza apprendistato. Inutile anche la terapia di gruppo praticata in oscuri cenacoli: può esser valida per arrivare al testo pubblicato, ma l’ispirazione non sostenuta dalla scuola arriva ai visionari moderni solo attraverso la folgorazione acrilica della droga.

Il potere di “fissare delle vertigini”, che un tempo l’ invidia degli dèi puniva con la cecità, oggi può spingere un critico letterario invidioso a sarcasmi omicidi. Così uno degli ultimi sciamani, il poeta americano Hart Crane, morto suicida a 34 anni, veniva liquidato da un critico suo contemporaneo (Yvor Winters) come uno di quei

“quietisti e panteisti che, potendo, si dedicherebbero a esplorare il ramo dell’esperienza che condividono con gli anemoni di mare piuttosto che quello che condividono con gli esseri umani”.

Più che dalle sue umane debolezze, Hart Crane era stato ucciso dalla disperata esigenza di dare al lettore, attraverso il poema, “una nuova, singola parola”, ossia di svelare sconosciuti, necessari nessi tra la Cosa reale e il suo simbolo sonoro, e di offrirgli quindi

“l’evidenza concreta dell’esperienza...che in questo senso è tanto la percezione quanto la cosa percepita”. (1)

L’operazione miracolosa ,”the silken skilled transmemberment of song”: cioè “il

serico sagace transmembrarsi del canto” gli riuscì molte volte, ma non abbastanza da saziare il suo desiderio (2)

Molti di questi moderni cercatori di Verità attraverso la Parola hanno un elemento che li accomuna e rende simili tutti i loro destini. Forse, in questo Occidente inquinato,

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zuppo di razionalismo omogeneizzato, è impossibile raggiungere la fede impeccabile dello stregone australiano che punta un cristallo verso il cuore del suo nemico e lo fa morire. Forse in fondo all’animo i poeti non credono di poter “riuscire”.

Però forse, invece, siamo alla vigilia di un grande mutamento. Forse, toccato il fondo della volgarità e della disarminia, rinascerà una lingua sacra. E quando l’umanità tornerà a credere, come era convinzione di ognuno 4000 anni fa, che di quanto possiamo percepire niente è estraneo a nessuno, che ogni singola particella dell’universo rispecchia il tutto, e che dietro il nome c’è la ROSA, allora nessun poeta sarà più assassinato.

Capitolo IV Linguaggio e modo di produzione

Il valore positivo supremo della vita è la vita stessa. Pertanto ciò che permette a una comunità di sopravvivere (la migrazione dei

caribù, oppure i monti a protezione della vallata dove sta il frutteto) è necessariamente oggetto di rispetto. E quando il rispetto, piuttosto che derivare dal timore, coincide con la devozione, è una forma elementare di religione.

Il cibo, che alimenta la vita, è altrettanto degno di rispetto del sole che ci scalda e della sorgente a cui beviamo. In pratica, quindi, in tutte le culture delle origini, riuscire a nutrirsi era aleatorio, il sacro permeava la vita della comunità. A parte la magia della Parola, all’ambiente non si poteva negare una influenza positiva o negativa sulla vita dell’individuo come della tribù. Alcune ricorrenze erano state giustamente riconosciute come aventi una precisa influenza (si pensi al detto “rosso di sera buon tempo si spera” che è universalmente diffuso), altre erano casuali, sicchè il patrimonio culturale della comunità conteneva sia conoscenze autentiche che superstizioni. Comunque, in tutte le comunità c’ era la certezza che alcune sostanze, o oggetti, o persone possedessero un qualcosa di ineffabile, un potere chiamato “mana”.

In senso stretto il MANA è un concetto diffuso presso le tribù della Nuova Guinea e nel resto della Melanesia, e si riferisce a una forza che, scrive Max Mueller,

“è distinta dalla forza fisica e può agire in qualsiasi direzione, a nostro vantaggio o svantaggio. Possedere o in qualche modo controllare e dirigere il MANA è quanto di meglio si possa desiderare. Il MANA non

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risiede stabilmente in un oggetto, ma può essere trasportato dentro a qualunque oggetto. Appartiene agli spiriti, ma generarlo è prerogativa di esseri viventi, sebbene poi si possa disporre di questa forza usando come mezzi l’acqua o una pietra o un osso. La religione dei Melanesiani consiste in pratica nell’acquisto e nella gestione del MANA”.

Questo è il senso in cui la parola MANA è intesa più o meno in tutto il Pacifico. Potremmo però chiamare MANA un concetto universale che si manifesta sotto forme svariate persino nella moderna civiltà urbana. Una rozza idea del MANA traspare banalmente a livello di superstizione, (sotto forma di fede nei cornetti rossi, timore dei gatti neri, e nella buona fortuna assicurata dall’indossare sempre lo stesso vestito agli esami) ma all’altro estremo va a sfiorare il concetto cristiano di GRAZIA. Anche i Calvinisti, come i Melanesiani, sono convinti che il successo nelle imprese prova che un uomo ha la grazia, cioè ha un « carisma », come oggi è di moda dire, ed è quindi adatto a essere un capo. L’unica differenza è che in Melanesia la perdita del ”mana” da parte del capo può avere conseguenze fisiche molto più serie che nelle democrazie: abbastanza spesso, alla impotenza del capo segue la sua condanna a morte.

Non è però estraneo alla nostra cultura, (vedi la recente diffusione della geo-biologia) il concetto, in parte religioso e in parte scientifico, ben noto alla geomanzia cinese, secondo cui il mondo è avvolto in una specie di reticolo con nodi nei quali si addensa energia. Se accettiamo questa idea, non possiamo respingere la convinzione che esistano individui particolarmente dotati, che riescono a identificare questa energia e a piegarla almeno in parte ai loro voleri.

In India, la identica parola MANA (la prima vocale è lunga, come in Melanesia) significa “opinione, proposito, onore, rispetto, capriccio e cattiveria per lo più femminile (sic)” secondo il dizionario sanscrito di Monier-Williams. Questa forza può agire a nostro vantaggio o svantaggio, come le fate del folklore europeo. Invece MANAS, con la prima vocale breve è in relazione a “mente, pensiero, consapevolezza”. E quindi MANU, la creatura pensante, è l’Adamo degli indù, e MANUSHYA è il nome comune di un essere umano di sesso maschile. MANTU è il consigliere, e il MANTRA, o formula magica, è, letteralmente, uno ”strumento del pensiero”.

Le cose si complicano nel Mediterraneo. E’ interessante che la MANTICA (antica parola greca) sia l’arte divinatoria, esercitata inizialmente da una profetessa Manto, figlia di Tiresia e fondatrice di Mantova (per gli antichi l’etimologia coincideva concretamente con la genetica). Un prestito della parola MANTU dall’India non è affatto problematico, a parte il fatto che sanscrito e latino appartengono alla stessa famiglia di linguaggi, per cui è facile che il sanscrito MANAS, la mente, sia imparentato con il latino MENS, e che il primo uomo MANU abbia a che fare con MANN, che nelle lingue germaniche, imparentate con il sanscrito, indica il maschio umano( per i Romani, invece, VIR).

C’ è da dubitare però che stiamo uscendo dal campo dei prestiti seriali legittimi quando cerchiamo l’ origine di una forma come il verbo italiano EMANARE, che letteralmente significa “trasudare un fluido”, oppure delle divinità ancestrali latine dette MANI (gli dei che proteggono la famiglia). E’ sconcertante che alla nostra estremità

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dell’Eurasia, in assenza di forme intermediarie, riappaia una forza magica analoga a quella che il MANA ha in Melanesia. Ci si interroga anche sulle origini della parola MANO, che ci viene dalla IV declinazione latina, e non è affine a nessuno degli altri termini indo-europei (al germanico HAND o al greco XEIR, allo slavo RUKA o al sanscrito HASTA).

Il Devoto accenna alle connotazioni magiche della MANO. Non per nulla una persona è la sua mente, ma è anche la sua mano. Abbiamo visto che per i Maya un individuo corrisponde alle sue 20 dita. Ma c’ è anche da ricordare, nel gergo marinaro inglese, la frase “tutte le mani sul ponte !”, ossia, « tutti i marinai sul ponte ».

. Questa lunga parentesi sul MANA non è una divagazione. Si attribuisce sacralità a un luogo in base a una esperienza del territorio che riconosce in esso una rete di energie e ciò presuppone una vita collettiva stanziale. Una tale esperienza è estranea alle tribù nomadi, agli allevatori di grandi mandrie che cinquemila anni fa cominciarono a scendere dalle steppe alle pianure del nord.Europa.

Sentimento del sacro, pensiero articolato, musica e forme artistiche dipendono in modo più o meno diretto dall’adattamento a un ambiente e pertanto a un determinato modo di produzione del cibo. Possiamo anche supporre che in una lontanissima preistoria tutte le varie stirpi umane abbiano condiviso lo stesso territorio e la stessa teologia. Però più tardi, forse in seguito alla fine delle glaciazioni, le tribù si sono trovate a vivere in territori climatiucamente molto diversi.

Il cibo è un fattore pesantemente condizionante, sicché il modo in cui i diversi gruppi hanno ricavato il loro sostentamento ha determinato lo sviluppo divergente delle loro lingue e delle loro concezioni religiose.

I RACCOGLITORI

Una tribù che viva di economia di raccolta (bacche, insetti, miele, piccoli roditori) necessita un habitat molto vasto. I suoi membri saranno motivati a segnalare con nomi inequivocabili il posto delle fragole e quello dei funghi, assieme ai relativi punti di riferimento, come alberi contorti e rocce erose. Questi dati, trasmessi di generazione in generazione, potevano col tempo costituire una mappa parlata, o meglio, “cantata”, come quelle degli aborigeni australiani.

Molti toponimi, in Australia, risalgono a quel mitico “tempo del sognare” in cui ogni tappa dei loro vagabondaggi venne cantata ed ebbe un nome: “qui si è fermato il canguro”, “là il serpente morse la fanciulla”. Così il Nome consacrava, zolla per zolla, l’intero territorio. Non in tutto il pianeta, però, le tribù avevano aree tanto vaste a loro disposizione da poter continuare a sentirsi immersi nel Grande Fiume dell’Essere assieme ai canguri e ai serpenti.(1)

In Eurasia i raccoglitori dovettero lottare contro grossi carnivori e ben presto anche contro tribù nemiche, poiché l’ antropizzazione era più densa, però anche l’occidente fu cantato. Nel Mediterraneo sono poche le acque termali che non siano “Eraclee”, perchè vi si sarebbe bagnato Ercole (Eracle per i greci e Melkart per i Fenici). Ercole è il più famoso e il più ambiguo dei nostri eroi, con diversi livelli di personalità a seconda dell’epoca e delle tradizioni etniche dei suoi rapsodi : un pò fabbro cretese, un pò semidio

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fenicio, e più tardi eroe nazionale ellenico, ma anche turista benvenuto e venerato in tutta la penisola italiana. L’India invece è costellata di sorgenti dette “bagni di Sita”, perchè là si sarebbe rinfrescata quel modello della femminilità indù, sposa fedele di Rama, (che a sua volta era un principe esemplare e una divinità incarnata).

Una volta che una favola abbia umanizzato un luogo, anche quando si sia smarrito il significato del nome antico, da quell’angolo di mondo continua a levarsi un fantasma con sesso e vita autonoma, le cui avventure possono moltiplicarsi all’infinito. Oppure, come è avvenuto in tutta Europa con l’avvento del cristianesimo, dopo che la “religione superiore” ha soppresso un fantasma del neolitico, sul luogo stesso ne rinasce un altro che gli somiglia. E’ la storia di tanti santi cristiani, alcuni dei quali recentemente soppressi. Per esempio alla foce del Sele, poco lontano dalle rovine di un santuario di Era argiva, cui era sacro il melograno, che secondo la leggenda sarebbe stato fondato da Giasone, si venera oggi, in una chiesa cristiana, la Madonna del melograno. Se fossimo melanesiani potremmo dire che il luogo è provvisto di un MANA che si manifesta nel melograno, ma noi se mai ci sentiamo la presenza di un “genio del luogo”, e in tal modo concediamo una personalità transumana a alberi e acque.

Gli antropologi definiscono “animismo” il complesso di queste convinzioni.

I CACCIATORI

Con il tempo alle tribù, divenute più numerose, riusciva sempre più difficile nutrirsi del cibo attinto direttamente dalla Natura: esse dovettero quindi dotarsi di armi progressivamente più efficienti (pugnali e cerbottane, archi e frecce), per cacciare animali grossi e non inermi. La caccia presupponeva collettività plurifamiliari, con una certa distinzione di ruoli a seconda del sesso e dell’età, ma il vincolo con il territorio era meno importante della dipendenza dalla specie animale cacciata.

L’animale che garantiva la sopravvivenza era ovviamente sacro: poteva essere l’orso o lo stambecco, e spesso diventava il protettore del clan. Nasceva così quella forma di devozione che è nota come totemismo, e che non è oggetto di questo studio. Potremo però notare che molte grandi famiglie romane portavano nomi di animali (gli Asini, i Vitelli, gli Ovidi).

Quegli antichi cacciatori si spostavano assieme all’animale cacciato: e non sentivano alcun bisogno di dare nome ai fiumi e alle montagne che si lasciavano dietro. Forse dobbiamo a loro la grande diffusione di ricorrenti toponimi relativi ai fiumi, come NERA/NARA (dalla Grecia, dove abbondano le Nereidi, all’Italia, col fiume Nera, e attraverso i Balcani (la Neretva) ai molti fiumi lituani, alla Nara a sud di Mosca), o come AUSA/OUSE (toponimo diffuso dalla Puglia alla Scozia, che in Maremma ha lasciato il fiume OSA): in conclusione, tutti i fiumi attraversati si chiamavano “fiume”, dato lo scarso legame dei cacciatori con il territorio. E tutte le montagne valicate si chiamavano “monte”, e forse per questo troviamo la radice ALP dall’Albania alla Scozia, ma anche da Creta al Quarnaro..

Meno antichi, ma connessi allo stesso stadio culturale, erano i nomi delle armi : nomi sacri e magici. Alla storia recente appartengono la spada di Orlando(Durlindana) ed

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Escalibur (la spada di Artù). Lungo itinerari antichissimi resta un nome della scure, partito dalla Mesopotamia (sumerico BALAG), per approdare in India come PARACU, e in Grecia come PELEKYS, ma dalla Grecia passato in Boemia e poi forse in Lituania, a designare il coltello. A uno stadio arcaico della caccia nel Mediterraneo apparterrebbe il DISCO, che come sostantivo è comune solo al greco e al latino : Apollo uccise Hyacinthus con un disco che ritornò al lanciatore come un boomerang. Il disco è anche l’ arma del dio Vishnu, sebbene il nome di CHAKRA sia certamente ariano. Anche *PAN, il termine originario per l’arco di bambù e per la freccia (nonché per l’arco musicale), ha viaggiato con i cacciatori dal Golfo del Bengala all’ Inghilterra, come vedremo.

La caccia era un’arte complessa, in cui avevano importanza pratica, e quindi rituale, il passo cauto per avvicinare la preda, e le modalità di lancio del sasso e del bastone. Per trasmettere queste conoscenze ai giovani era necessario codificare (e consacrare) ogni gesto attraverso un’espressione verbale. E’ possibile che un diverso passato preistorico sia la causa della ricchezza dei termini che descrivono gesti e movimenti nella lingua inglese, e della correlativa povertà della lingua italiana (la nostra penisola, con i suoi rilievi accidentati, non si prestava ad essere sfruttata da grosse tribù di cacciatori). Ricchissima di termini del genere è invece la lingua dei Navajo, cacciatori nordamericani divenuti famosi perchè utilizzati come marconisti dagli americani nella guerra del Pacifico, allo scopo di assicurare segretezza assoluta alle comunicazioni. Pare che in Navajo il termine generico “andare” sia intraducibile, perchè la loro lingua evoca solo spostamenti reali, per i quali è indispensabile specificare se il soggetto viaggia a piedi o a cavallo, solo o in compagnia, con un fardello o no: e per ognuno di questi casi si usa una parola diversa. Quando la sopravvivenza è legata alle prede, all’arma, al gesto, dell’individuo come delle tribù, il senso del sacro non può morire.

PASTORI DEL MEDITERRANEO La penisola italiana, come quella greca, era adatta all’allevamento di pecore e

capre, di cui i pastori guidavano le transumanze, eternate anche in bassorilievi antichi (del I secolo a.C., a Sulmona e a Chieti). La transumanza è una migrazione ciclica: a settembre è tempo di migrare, e i pastori lascian gli stazzi appenninici per andare al mare, dove il clima è mite e la neve non ricopre i pascoli.

E’ stato suggerito che dal gergo di questi pastori sia entrata in italiano la radice che dà molte forme del verbo “andare”. Qualche filologo la fa derivare da “ambire”, che indica un movimento circolare e che ha a che fare con l’”ambiente”, e con l’andare attorno (“ambulare”). Si tratta comunque di un contributo importante. Infatti con un termine come ”andare”, che sta agli antipodi degli idiomi sacri tipo Navajo, il linguaggio si è trovato a una svolta. “Andare” indica un allontanarsi astratto in direzione imprecisata, e alla parola non corrisponde nessuna immagine. “Andare” non è un atto magico (come invece è ”guadare”, cioè passare dall’altra parte del fiume con l’acqua alle caviglie): è un concetto schematico.

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Anche i cinesi si sono trovati in imbarazzo a dare una rappresentazione grafica di “andare”. L’ideogramma per “qu”, che di primo acchito sembra si possa leggere “bozzolo sotto terra”, rappresenterebbe invece, secondo Wieger, un vaso vuoto con il suo coperchio, cioè, un’azione negativa: svuotare, oppure “andar via”: + = qù -

Diciamo “schema” la comunicazione scritta di una direttiva: per esempio, per la direttiva “andare a Nord”, si può tracciare una freccia diretta verso la parte superiore del foglio, senza ricorrere a nessuna parola.

La freccia fa venire a mente il linguaggio danzato (ovvero, si è detto, la scrittura) delle api, ma “andare” è tutt’altro che un regresso alla biologia. Per esprimere il concetto di “andare”, siamo passati dalla percezione del movimento alla convenzione sonora, ma poi dalla parola a un significato che in nessun modo rimanda alla percezione originaria: è un significato vuoto di immagini, è una convenzione pura. Il sacro ha cominciato ad allontanarsi dalla nostra vita. Con questo raddoppio di convenzioni, si opera infatti un aumento di distanza tra la parola e l’oggetto che è incommensurabile. Si entra in un’altra dimensione, totalmente scissa dalla biologia: potremmo chiamarla magia nera, perchè è contro natura.

“Andare” è una parola attrezzo, un prodotto dell’artigianato umano, altrettanto indispensabile allo sviluppo della tecnica quanto lo sono i numeri. Comunque, a parte il caso estremo dei Navajo, pressochè tutti i popoli del mondo hanno fatto compiere alla loro lingua questo primo salto di qualità, anche se talvolta il processo non ha avuto ulteriori sviluppi. Nelle lingue europee, invece, con il tempo numerosi schemi svincolati dall’oggetto si sono trovati a fluttuare in un universo tutto loro, in cui si sono riprodotti prodigiosamente, come gli alieni dei telefilm. Gli schemi sono tra noi, ci controllano.

In compenso, i pastori di greggi transumanti, ci hanno lasciato un oggetto sacro, il lituo, cioè quel bastone con un’estremità incurvata a spirale, che serviva a trattenere per le corna i maschi ribelli. E proprio il lituo è diventato per metafora un simbolo del sacro per la classe dei sacerdoti, pastori di popoli. E oggi lo vediamo nelle mani del papa, cui è arrivato passando attraverso le mani degli auguri etruschi .

GLI ALLEVATORI DELLA STEPPA La tecnica dell’allevamento si sviluppò in millenni di contatto tra le tribù erranti

nella steppa e le grandi mandrie di bovini, ovini, e cavalli che là pascolavano da tempo immemorabile. Deve esser stato, all’inizio, una sorta di parassitismo. Le mandrie avevano perennemente bisogno di erba fresca, e si spostavano, non ciclicamente come le greggi (dalle montagne al piano), ma in una specie di moto browniano nel paesaggio piatto, tallonate da carnivori e sciacalli (pronti ad attaccare i capi più deboli, rimasti isolati) e da uomini.

Questi ultimi potevano rivaleggiare con i grossi predatori perchè avevano inventato armi da getto per colpire da lontano e perchè erano addestrati ad agire in gruppo e non solo occasionalmente, come i cacciatori. L’esercizio quotidiano presupponeva una

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disciplina quotidiana, il che predispose gli allevatori, fin dal principio dei tempi, alla solidarietà etnica e all’ ordinamento militare.

Inoltre i contatti tra le tribù della prateria erano più facili che non tra comunità umane disperse su terreni accidentati. Si rinsaldò così una grossa unità linguistica, e qualunque siano state le differenze razziali, la lingua franca che gli antichi allevatori parlavano, più tardi scissa nei vari idiomi detti lingue indoeuropee, dovette tendere ad essere conservatrice. In particolare la loro unità culturale era in contrasto con il frazionamento degli idiomi dei pastori mediterranei e anatolici.

Un tipo analogo di cultura si sviluppò presso gli allevatori concentrati nelle zone aride del sud: le lingue semitiche sono egualmente conservatrici e tra i pastori arabi si manifesta una analoga tendenza all’ imperialismo. Ci sono elementi che fanno postulare antichissimi contatti tra indoeuropei e semiti, ma indubbiamente il fatto di condividere lo stesso tipo di vita, di nutrirsi fondamentalmente di carne, creava delle convergenze nell’organizzazione sociale e nella visione del mondo.

Anzitutto, i pastori della steppa non sentivano l’ esigenza di controllare le nascite, che sorge quando l’ambiente da cui si trae sussistenza è limitato. Le comunità di cerealicoltori, la cui economia aveva basi più stabili, potevano permettersi una crescita costante ma lenta, data l’ impotenza a difendersi da parassiti, siccità e alluvioni. Ai pastori della steppa, invece, l’immensità delle pianure erbose prometteva che la moltiplicazione delle mandrie non avrebbe avuto mai fine. Gli animali in misura crescente fornivano latte, carne, lana per vestirsi e farsi le tende sotto cui vivevano, cuoio, forza motrice e persino combustibile (3), e da qui deve esser nato il modello sociale che prevedeva la schiavitù e il parassitismo di classe.

L’immensità del territorio a disposizione permetteva di sperare in una riproduzione illimitata di uomini e di animali. Non a caso sia presso gli ariani che presso i semiti riscontriamo la stessa ripugnanza per lo spargimento del seme: a parte la condanna esplicita dell’onanismo che si legge nella Bibbia, nell’induismo ortodosso, che ha ereditato la cultura dei conquistatori ariani dell’India, troviamo addirittura l’orrore per le ovulazioni perdute (considerate alla stregua di aborti), che ha condotto per secoli ai matrimoni forzati delle dodicenni.

Fino a che le tribù erano state poche e deboli, al margine di una natura imprevedibile e ostile, epidemie e siccità la natura aveva provveduto a una specie di controllo demografico. Il bestiame che pascola e si riproduce liberamente, infatti, è soggetto alle stesse pulsazioni demografiche delle cavallette: molta umidità e molta erba = molte cavallette = poca erba = poche cavallette = molta erba. E’ possibile che, a causa del disgelo e del tepore successivo all’ultima glaciazione (forse nell’ 8000 a.C.), venne assicurata per decenni una tale abbondanza di vegetazione, che bovini, ovini e pastori al seguito si moltiplicarono prodigiosamente, e a un certo punto i pascoli risultarono insufficienti. Secondo il ritmo sapiente della natura, l’equilibrio sarebbe stato rapidamente ristabilito con la morte di massa per fame: ma i pastori, invigoriti dal lungo periodo di abbondanza, rifiutarono di sottomettersi al ciclo. Essi trovarono la soluzione negli spostamenti forzati su aree sempre più vaste, a prescindere dal fatto che fossero già abitate o no: una soluzione semplice, dato che l’amore per il territorio non era congenito

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alla loro cultura. Ed era, come si è detto, un territorio privo di connotazioni ben marcate, totalmente privo di MANA, di sacralità e di diritti al rispetto.

Così gli allevatori “andarono”: in direzione ovest, quella del sole che tramonta. Li guidava un dio, il sole. L’ideologia pastorale è trasparente nella Bibbia: Yahvè in persona guida gli ebrei nomadi, non su territori vergini, ma “ad occupare le terre dei Cananei”, e dio interviene al loro fianco contro tutti quelli che non appartengono al popolo eletto e che sono spiritualmente inferiori. Oppure è Allah che lo vuole, oppure, come per gli invasori dell’India, il dio Indra l’aveva voluto. In Grecia, il dio del popolo superiore, dei biondi ariani, era Zeus. Oggigiorno si parla di mercato globale, e quindi è il mercato che lo vuole, tuttavia le nazioni « in via di sviluppo » continuano a essere popoli dediti all’ agricoltura, radicati alle loro terre per scelta antica. Erano fedeli al territorio e quindi destinati a esserne servi: servi della gleba. I conquistatori di ieri e di oggi li allevano in sito, oppure limportano come mano d’ opera in nero, come avevano allevato il bestiame, per vivere alle loro spalle.

Non è stato un processo unico, e non ha dato dovunque gli stessi risultati. Era facile da applicarsi nelle pianure ma non nelle strette valli del Mediterraneo, dove gruppi di piccoli proprietari riuscirono a conservare una certa autonomia. Tale processo si è ripetuto più volte, nello spazio e nel corso dei secoli, permettendo agli ateniesi di filosofare, ai Romani di costruire la più potente città del mondo, ai piantatori di cotone della Virginia di far studiare il pianoforte alle figlie, e alla tecnologia occidentale di diventare irraggiungibile per il terzo mondo... fino a che, e questa sembra una svolta senza ritorno, le macchine non hanno addirittura eliminato la casta dei produttori agricoli autonomi.

Con quale soluzione in vista ?… non si osa parlarne. L’ideologia pastorale ario-semita proclama il diritto dell’uomo a distruggere animali e piante, creati dal loro dio per essere usati dall’uomo; confida che l’ambiente terra sia infinito, come la steppa originaria; elabora pertanto progetti di benessere illimitatamente crescente : però, concepibili solo per una minoranza.

Ideologia, religione, economia e linguaggio sono sequenzialmente e circolarmente concatenati. L’allevatore, per tradizione mangiatore di carne, è abituato ad uccidere quotidianamente, è aggressivo e fiero di esserlo: e l’abigeato è tuttora un reato corrente nelle zone ad economia pastorale, nel Rajasthan come in Sardegna. La razzia esige uno stratega e la spartizione del bottino: il capo è il più forte di tutti i maschi, e a lui è dovuta ferrea obbedienza. Il capo è il REX dei Romani, il RIX dei Celti, il RAJAH degli Arii dell’India: il RE. REX è una radice indoeuropea antichissima. Gli invasori elleni della Frecia pre-omerica avevano perduto il nome indoeuropeo, però Agamennone era più simile ad Alessandro che ai capovillaggio che rappresentavano una comunità davanti a un dio, e che spesso venivano uccisi quando il loro “mana” si era logorato.

In una società che venera la forza e il rischio, prevale l’autorità del maschio adulto. L’impatto di tale prevalenza varia presso le diverse genti, ma la tendenza generale degli allevatori ario-semiti è verso la famiglia patriarcale, sebbene a volte nelle loro lingue si conservino tracce di uno stadio sociale in cui i due sessi avevano pari dignità. Per

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esempio, il sole , signore del cielo, era originariamente di sesso femminile, e in tedesco lo è ancora: DIE SONNE.

Già all’alba della storia, però, a Roma e in Grecia, le donne avevano perso la personalità giuridica. Per indicare il padre di famiglia, in greco, latino, lituano e sanscrito troviamo il radicale della casa (DEM) e quello del potere (POTI) associati in DEMSPOTE: il padre è un despota per antonomasia. Nella lingua greca è rimasto il concetto di fratelli come « nati dallo stesso grembo> : ADELPHOI, relitto indistruttibile della famiglia di tipo mediterraneo, matrilineare, che aveva preceduto la famiglia indo-europea patriarcale.

Otto secoli dopo la conquista, nel V secolo a.C., Erodoto non aveva più memoria dell’antica importanza delle madri: e si stupiva (II,35,4), che in Egitto le figlie, e non i figli maschi, fossero tenute ad aver cura dei genitori anziani, e che presso i Carii (antico popolo delle coste egee) le genealogie menzionassero solo le antenate. Un fattore che ha contribuito allo sviluppo del maschilismo tra i popoli pastori è stato l’addomesticamento del cavallo. George Orwell ha acutamente osservato come tutto il complesso culturale legato al cavallo sia aggressivo e antidemocratico. “Domatori di cavalli” chiamavano se stessi gli Achei, venuti a signoreggiare sui mediterranei addomesticatori di asini.

I cavalli di Achille parlavano. Il cavallo di Alessandro Magno, Bucefalo, non ne aveva neppure bisogno. I “cavalieri” costituivano il nucleo dell’esercito romano. A cavallo le Valchirie portavano nel Valhalla gli eroi morti in battaglia. Re Artù era circondato da cavalieri. In India era costume celebrare un rito di conferma della regalità in cui la regina fingeva di accoppiarsi con un cavallo ritualmente ucciso, il “cavallo del sacrificio”. Questo cavallo aveva precedentemente errato per un anno con 200 guerrieri al seguito: e tollerare il suo passaggio su un territorio, corrispondeva a riconoscere il proprio vassallaggio. Il cavallo, ci dice Erodoto, a differenza degli asini, sopportava le temperature della steppa.

Stranamente, per lunghi secoli l’animale non venne montato: lo si attaccava a un cocchio su cui stavano i guerrieri, come leggiamo nell’Iliade. Le migrazioni, lentissime, si svolgevano trainando le donne, i figli e le robe in carri tirati da buoi. Nel Medioevo invece le invasioni erano fulminee, inattesecome quelle dell’ ultimo secolo, in cui i cavalli degli Unni e dei Mongoli sono stati sostituiti dai carri armati.

In una società che adorava la luce del giorno (DIAUS, GIOVE, ZEUS) e il tuono (divinità piene di maschio vigore), alle donne restava poco spazio. Per l’allevatore era evidente che la monta precede la gravidanza, che senza il toro non c’è il vitello. Quindi il maschio fu considerato il fattore determinante nella riproduzione, e tale rimase anche quando gli ariani vennero a contatto con gli agricoltori di antica tradizione del bacino danubiano. Essendo stata privata del “mana” potentissimo legato alla sua fertilità, la donna perdette il diritto a partecipare ai riti e alla spiritualità del gruppo e in seguito persino a consumare assieme al coniuge i pasti che aveva il dovere di cucinare. Già nel primo millennio a.C. la donna europea dovette rassegnarsi al nuovo ruolo, di umile fattrice, socialmente ignorata, oppure di seduttrice, o di mammana o di strega. E anche quando, nel contatto con altre culture, la società patriarcale avrebbe potuto diventare

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meno rigida, la discriminazione sessuale si perpetuava, grazie al potere forgiante del linguaggio, come vedremo più avanti.

Di questo potere si parlerà in dettaglio nel capitolo sulle lingue indoeuropee, però è chiaro che la semplificazione del linguaggio doveve esser favorita dagli allevatori. L’adozione di verbi-schema, come ”andare”, di nomi generici, come “fiume” e “monte”, era una svolta verso la praticità. I nomadi han tutta la convenienza di viaggiare senza troppi pesi, incluso il vincolo emotivo di un paesaggio abituale. Parlare una lingua utilitaria è come viaggiare senza bagaglio.

GLI AGRICOLTORI Le prime grandi civiltà della storia si svilupparono, tra il 7000 e il 3000 a.C. presso

le comunità che avevano scelto di sopravvivere producendo soprattutto cereali, per i quali, nei climi caldi, non ci sono problemi di conservazione. Questi primi agricoltori si stanziarono per lo più nei grandi bacini fluviali: li troviamo in Mesopotamia e in Egitto, a Creta, e lungo il fiume Indo e il Gange, e lungo il Mekong e lo Yang-tze oltre che nell’America Centrale. Nella maggior parte dei casi sappiamo poco o nulla delle loro lingue, ma quel che è filtrato fino a noi, delle loro antiche religioni. presuppone il rispetto per la terra come Madre e per il divino che sta all’interno delle creature, anzichè al di sopra di loro.

Molti termini da essi usati sono rimasti sacri fino ai nostri giorni: le parole servivano a evocare con gratitudine il fango da cui nasce la spiga, l’acqua che si lascia scorrere nella risaia, l’animale che fa la guardia e depone uova. Dai rapporti dei contadini con la natura nacquero meravigliose favole, oltre ai riti di cui le “grandi religioni” si sono successivamente appropriate. Gli attrezzi che servono alla produzione del cibo erano ovviamente sacri quanto per Orlando la sua spada: e i contadini elaborarono riti e processioni. Nei villaggi nella protostoria nacque il teatro: lo spettacolo COMICO, era legato al “banchetto” e alla processione in onore di Bacco” (KOOMOS), ma in ultima analisi al villaggio (KOOME), luogo in cui è logico che una festa della vendemmia avesse luogo. D’altra parte la “tragedia”, ovvero il “canto del capro” con sacrificio finale del medesimo, presuppone la presenza di capre, e del relativo sfondo agricolo-pastorale.

La vita agreste richiede l’osservanza scrupolosa di un ritmo quotidiano (mungitura, raccolta dei vegetali, manutenzione degli attrezzi e conservazione degli avanzi, irrigazione, mungitura) e conduce naturalmente a trasformare il ritmo che è dovere austero in rito che è omaggio solenne. D’altra parte, se la divinità è in noi e fra noi, tutti i nostri atti, così ben ritmati e così necessari, anche se volti al vantaggio personale, sono sacri perchè un vantaggio esclusivamente individuale nella vita degli agricoltori non esiste. Il fosso richiede una manutenzione collettiva, e mietitura e vendemmia impegnano la comunità intera. Ogni singola azione, pertanto, coinvolge tutti e il Tutto: è una certezza calata nella coscienza di chi vive a contatto con la natura, come avveniva tra gli Etruschi e come continua ad avvenire a Creta, forse l’ultima isola greca dove non si sono abbandonati gli uliveti e le vigne per dedicarsi alla coltivazione dei turisti.

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Ovviamente piene di “mana” sono le pozze dove il bestiame si abbevera, che persino gli animali rispettano: carnivori e ruminanti alla sera vi si recano insieme a bere. Non esiste una frattura tra il mondo dei vivi e quello dei defunti (come diceva Yeats), tra l’albero con cui si costruisce la casa o la barca, e la casa e la barca stessa. In Nuova Zelanda i Maori chiedono perdono all’albero, prima di abbatterlo. In Asia Minore, prima del raccolto, le donne piangevano la triste sorte di Lino, ucciso in gioventù…e quindi recidevano gli steli del lino.

E’ interessante capire in che modo il Cristianesimo, la cui teologia è agli antipodi di questo panteismo, si sia poi arroccato nelle campagne. Agli inizi, in effetti, la cultura contadina lo respinse, tanto che per definizione gli abitanti del “pagus” (= distretto di campagna, secondo Varrone, DE LINGUA LATINA, VI, 24) furono i “pagani” per antonomasia. Ed è chiaro che, se un dio ci ha creato e dal cielo ci guarda e ci giudica, allora il sacro abbandona il quotidiano ed è rinviato al tempio e posto nelle mani del sacerdote. Se quel che conta è l’al di là, allora il pasto, il sesso, il lavoro, sono degradati a funzioni, tese alla semplice sopravvivenza. Se si accetta questo punto di vista, la vita su questa terra diventa una servitù, pressochè degradante per il contadino, quotidianamente a contatto con sterco e putridume, con il parto della vacca e la pulizia del pollaio. La vita vera, dice il Cristianesimo, comincia dopo la morte.

Gli abitanti del “pagus”, (che già avevano dovuto sopportare l’arroganza e i latrocinii degli aristocratici proprietari terrieri, e la concorrenza del lavoro degli schiavi) al Cristianesimo dissero “no”, per motivi ideologici. Fu necessario venire a dei compromessi per convertirli.

Al tempo della conquista ariana (e romana poi), la soluzione era stata trovata con la moltiplicazione degli dei. (Forse il politeismo è dovunque un’apparenza: dietro la moltitudine degli dei c’è una sopraffazione religiosa.) Così Giove e Zeus avevano dovuto tollerare al loro fianco la dea delle messi e persino quella della cloaca (Venere Cloacina). Persino Allah ha dovuto tollerare il culto dei santi (che erano poi gli antichi genii del luogo), e la vittoria di Yaveh contro i Baal (i genii del luogo dei Cananei) non fu mai definitiva. Di conseguenza S.Pietro venne affiancato da santi sospetti, come Santa Lucia e San Giorgio. Ma nemmeno il socialismo reale è riuscito a estirpare la dea Ishtar, nel suo avatar di Madonna di Cestakova.

Come è noto agli studiosi di folklore, la Chiesa cattolica trovò la soluzione, molto tardi, con l’inquadramento delle grandi feste agricole del neolitico nella liturgia cattolica. Non fu più necessario, per chi cercava una spiritualità in questa vita, abbandonare la campagna per darsi all’eremitaggio e alla contemplazione: il senso religioso della vita fu recuperato attraverso l’integrazione dei riti pre-ariani. San Biagio si occupò della gola, San Cristoforo dei viaggi, Santa Barbara dei fucili. Era così semplice. Mille anni di scontroso silenzio: e poi tutto finì a tarallucci e vino. E oggi che l’ ateismo è alla riscossa, e il mercato ha sostituito la Natura, i santi vengono sostituiti dalle Giornate della mamma, degli alberi, e persino degli immigrati e dei gay: del sacro non cè più traccia, ma si salvano i tarallucci e il vino.

Il processo è irreversibile, in una economia dominata dalle macchine e regolata dai computer. Tra gli agricoltori di una volta era necessario richiamarsi sempre al tangibile.

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Si misurava a piedi, a pollici, a braccia, a pertiche, a sacchi; misure ovviamente variabili a seconda della statura media della popolazione, e della grandezza dei telai. (Il metro, invece, essendo la 4Omilionesima parte dell’ equatore terrestre, è democratico e uguale per tutti, però è nato in città, a Parigi.)

Persino dietro una parola apparentemente astratta come ”misura”, c’è la luna, che misura il mese. In un paese fondamentalmente agricolo come l’Italia, un tempo si poteva dire “cinque lune”, al posto di “cinque mesi”. Oggi parlare di lunazioni ci pare più corretto, perchè lo spirito della lingua è cambiato. La luna, il cui ciclo corrisponde più o meno a quello mestruale, era naturalmente maschile: era lo sposo celeste di tutte le donne. In tedesco è rimasta maschile (DER MOND), e a Babilonia e sul Sinai era il dio Sin. Per i Romani e per i Russi era una lampada appesa in cielo, la “luna”, ma sempre era sinonimo di « mese », perché nelle lingue che rispettano il sacro anche l’astratto deve essere visibile ed evocabile.

Così avviene che in russo, per esempio, per dire “bello”(e la bellezza coincide necessariamente, con un concetto positivo come “vitalità”) si dica “rosso”. Infatti la vitalità visibile è il sangue, che è rosso. Quindi vi è un’unica parola per dire “bello” e per dire “rosso” (coincidenza che per i comunisti è stata estremamente conveniente). E dato che rosso è sinonimo di “vitale”, i generali Romani cui era tributato il trionfo dovevano dipingersi la faccia di rosso. In molte lingue, dovendo fissare nella memoria l’idea di « rosso », si è usato il nome di una sostanza notoriamente rossa, cioè del rame allo stato nativo. La remota antichità di questa scelta è evidente. Si è usato infatti il nome che gli era stato dato nella civiltà agricola del paese mesopotamico di Sumer: URUDU. La parola sacra, attraverso un supposto RHEUD /RUDHOS entrò in latino (RUFUS) e passò in tutte le lingue romanze (ROJO, ROUGE...eccetera), ma anche in inglese RED). Persino in basco, una lingua isolata che non assomiglia a nessun altra lingua europea, URREIDA vuol dire sia “rosso” che “rame”.(4)

L’immensa area di diffusione della parola sembra una prova di quanto sopra detto sulla sacralità dei linguaggi antichi: deve esserci stato un tempo in cui le parole, che in genere venivano, come accade anche oggi, esportate assieme alla tecnologia, non potevano essere alterate perchè erano magiche. Il suono portava il mana. Non erano gli agricoltori, quelli che viaggiavano. Però, che si trattasse di pescatori diventati marinai, o di mercanti che si erano dedicati alla navigazione, questi navigatori erano legati alle grandi civiltà contadine fluviali; le sole che fossero in grado di disporre di merci in quantità discreta.

Nel frattempo, poi, dalla cultura contadina era nata la città. Non la « polis » greca, nata e vissuta a spese delle campagne e dei servi della gleba ante litteram che vi lavoravano, né la civitas romana non troppo dissimile, bensì il luogo di incontro dei rappresentanti di villaggi autonomi e vicini, il luogo dello scambio di merci, di semi e di favole, che forse nell’Italia centrale si chiamava “urbs” … In Mesopotamia, tra i Sumeri, la prima città del mondo si chiamò UR. Da Ur partì Abramo, per odrine del Signore, per occupare le terre dei cananei, e là fu fondata nel 1000 avanti Cristo, « la città della pace », URU SALOM, GERU-SALEMME. .

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PARTE II Lingue ariane e pre-ariane

(Questa sezione del libro è destinata a chi voglia approfondire i motivi non sociologici ma strutturali del distacco tra le lingue del substrato che arricchiscono di tanti termini la lingua italiana e il latino. Per i linguisti il capitolo V è superfluo e magari approssimativo, e chi è solo interessato alle etimologie può giudicralo superfluo e pedante. D’ altra parte, all’ autore è sembrato assurdo basare la ricerca delle parole « non ariane » della lingua italiana senza permettere ai lettori curiosi di avere una idea di ciò che si intende per lingua ariana e non. Il capitolo VI dovrebbe esser letto da quanti pensano che l’ italianità sia basata sulla razza.)

Capitolo V Gli Indoeuropei e la loro lingua

Più di una volta, nei capitoli precedenti, sono stati menzionati gli indoeuropei. Si è detto che nella preistoria essi erano un gruppo di popoli della steppa, che parlavano lingue con caratteristiche comuni, la cui cultura era basata sull’allevamento.

Praticamente tutte le lingue parlate in Europa, con l’eccezione del basco, del finnico, dell’estone e dell’ungherese, derivano da quell’antico ceppo e sono dette anche lingue ariane, o arie, in cui poi è facile identificare dei sottogruppi, che hanno più stretti legami tra loro, come l’italiano, lo spagnolo e le altre lingue romanze, tutte derivate dal latino, oppure le lingue slave. Ma i filologi son riusciti a distinguere due filoni principali, creatisi al tempo di una prima separazione di clan che probabilmente risale al IV millennio a.C.: e forse il distacco ebbe luogo nelle steppe attorno al Volga. Questi due rami si chiamano rispettivamente gruppo KMTOM e gruppo SATEM a seconda del diverso sviluppo che ha avuto la consonante iniziale del termine usato per il numero “cento”.(1)

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Il parallelismo tra *KMTOM e *SATEM appare evidente solo ai filologi: più lampante, anche al profano, dovrebbe essere la parentela tra KEMT-OM ( cento) e DE-KEM (dieci). KEM deriva da un radicale indoeuropeo *KENT /KEND) = “afferrare”, che nelle lingue germaniche ha dato HAND (la mano), corrispondente al numero cinque. DE-KEM = due mani, due volte cinque, è dieci. Il vecchio radicale *KENT= la mano, affiora nel latino ”viginti”= 20, analizzabile come DWI-KENT-WI, = due volte due mani.

La numerazione a base dieci ben si adattava alle esigenze dei popoli allevatori della steppa, che avevano bisogno di un sistema di contabilità semplice e rapido per i loro capi di bestiame. Niente tavolette d’ argilla : dita e mani.

Comunque, ben prima dei filologi, già nel XVIII secolo qualche viaggiatore attento aveva notato la sostanziale identità dei termini di parentela in sanscrito e persiano, in latino e nelle lingue germaniche (per quanto riguarda padre, madre, fratello, suocero, sorella, e vedova) e inoltre dei nomi di molte parti del corpo (cuore, piedi, occhi, naso, orecchie). Poichè gli spostamenti dei gruppi familiari avvenivano su carri, è pure comune a tutte le lingue arie la radice *WEH (= trasportare, da cui oggi “veicolo”) e la radice *KWEKWLOS = ciclo, ruota, e naturalmente *GWOUS = bos in latino, = il bue, nonchè *PEKU = la pecora, il gregge. Una radice *EKWO = cavallo, ha dato in latino equus, in greco hippos, in indoiranico asp, in lituano asva, in irlandese ech, e in tocarico yuk, yakwe.

Anche i nomi di vari animali selvaggi (il lupo, l’orso, il volatile, l’oca, il cinghiale) sono comuni a tutte le lingue ariane, e, come i termini delle altre lingue antiche, partecipano del sacro, essendo legati al visibile: e a volte (come le Orse) li ritroviamo nel cielo, oppure vengono raffigurati a lato di divinità (per esempio l’oca e il cinghiale), e i miti che li riguardano sono stranamente affini in culture lontane tra loro come quelle della Grecia e dell’India.

Per quanto riguarda la vegetazione, invece, le corrispondenze sono assenti in tutto il gruppo degli indo-iranici, trasferitisi in climi troppo aridi per alberi come la quercia, il faggio e il pino. Tali nomi ricorrono in tutte le lingue dei popoli rimasti in Europa, il che proverebbe che questi popoli erano in contatto durante il loro soggiorno nelle regioni a clima temperato e umido dove tali alberi abbondano, cioè nell’area balcanica e danubiana. In sanscrito però si trova il nome di un albero chiamato BHURJA, con la U lunga, che indica una specie di betulla (in inglese BIRCH), la cui scorza veniva usata per scrivere.

Comuni a tutta l’Europa, ma inesistenti in India, sono tre radici importanti, relative alla cultura dei cereali. Difatti gli ariani, tra il III e il II millennio, ossia dopo la separazione dal gruppo indo-iranico, non potevano esser completamente digiuni di agricoltura: avevano attraversato, in una marcia lentissima e con lunghe soste, zone dove varie comunità coltivavano la terra ed erano stanziate in villaggi veri e propri. Del resto anche i beduini, in Tunisia, seminano a spaglio dopo le piogge, per poi ripassare sul luogo al tempo del raccolto. Inoltre tra gli Sciti stessi, nomadi ancora in epoca classica, vi erano tribù che addirittura si dedicavano alla coltivazione dei cereali su scala industriale e poi

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vendevano il grano agli Egei. Anche nelle regioni danubiane le tradizioni agricole erano millenarie.

Pertanto in tutta l’Europa ariana troviamo la radice *SEM di seminare, che si riferisce al metodo antichissimo di fare un buco per terra con il bastone piantatoio e di infilarvi i semi ad uno ad uno (semel = una volta, in latino). E la stessa radice si trova nell’italiano ASSIEME = « tutti in una volta », con una formazione dell’astratto da ciò che è concreto e familiare che è tipica dello stadio magico delle lingue. Dalla stessa radice derivano anche semplice e simile.

Assai diffuse in Europa sono le radici *ARO, per arare (derivata però da un verbo usato per “remare”), e *MELE = macinare (vedi anche, in italiano, “mola”), che sono invece assenti in India. E ciò potrebbe provare che gli indo-iranici si sono separati dagli ariani del nord prima di avere contatti con le tribù dei coltivatori: senonchè si trova in India un derivato della radice *PEL, = “la paglia”, che rimette tutto in questione.

Ambedue i gruppi di popoli ariani, comunque, prima di separarsi conoscevano almeno un metallo *AYOS, e cioè il rame (sanscrito AYES, latino AES), anche se la radice è stata poi usata per indicare il ferro (tedesco EISEN). E’ possibile, anzi, che gli ariani abbiano dato un contributo originale alla metallurgia, data la presenza di ferro meteorico in Siberia.

Senza dubbio, già prima di separarsi, tutte le grandi nazioni arie avevano acquisito una grande perizia nel lavorare il legno, in quanto costruttori di carri prima che di capanne: la radice *TEK (da cui « tecnica », « tetto » e in un secondo tempo « tessere ») si ritrova in latino come in sanscrito.. E gli Ariani tutti sapevano cucire, annodare, filare la lana e fare vesti, pestare semi in un mortaio, e fabbricare barche (NAU, da cui « nave »). In fondo alla lista del loro patrimonio tecnologico è indispensabile menzionare le armi, per le quali però c’è una grande varietà di termini.

Certo gli inni estatici dei sacri testi del RGVEDA dedicati al dio AGNI (latino IGNIS = il fuoco), cioè al divoratore, a colui che tutto distrugge, testimoniano uno scarso amore per l’ambiente ecologico. Tuttavia proprio i testi VEDA, parte dei quali potrebbe risalire alla fine del III millennio, hanno un contenuto rituale e lirico altamente spirituale che li lascia isolati nella storia delle letterature indoeuropee. Comunque già negli stadi più antichi in queste lingue indoeuropee erano presenti tendenze evolutive che hanno finito con l’allontanarle da quelle degli altri popoli.

Colpisce la continuità del processo di semplificazione, dovuto inizialmente al fatto che, con una popolazione in continuo accrescimento, l’uso delle lingue arie veniva progressivamente esteso su territori sempre più vasti. In seguito alle espansioni a ritmo accelerato nel II millennio a.C. e anche a causa della presenza, accanto ai sudditi sottomessi, dei vinti ridotti in schiavitù, il processo di semplificazione divenne una caratteristica strutturale. Era infatti necessario comunicare con gli schiavi e con i sudditi nel modo più chiaro possibile.

Qualcosa di simile, in tempi moderni, è avvenuto nella lingua inglese, che nel Pacifico ha subito a una semplificazione estrema: è il cosiddetto “pidgin”, ossia “business English” (che oltre all’inglese contiene relitti di molte lingue, incluso il cinese) che serve alle transazioni commerciali su un’area immensa (in Polinesia e in Melanesia) e che è la

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lingua ufficiale delle isole Solomons. Il Meillet cita una evoluzione parallela nel caso di un’altra grande “lingua di occupazione”, l’arabo, il quale, nel contatto con idiomi stranieri da Giava al Madagascar alla Spagna, si è schematizzato e “banalizzato”.

Nelle varie regioni di Europa le lingue arie si svilupparono indipendentemente, ma la tendenza a eliminare le desinenze era generale. Il duale, con le sue forme flessive per nomi e verbi riferentisi a una coppia di persone, sparì in Asia Minore come in latino: si conservò a lungo, invece, nella Grecia classica, e oggi ne restano tracce solo in lituano e in qualche dialetto slavo. Le forme verbali anomale, dette anche “forti” furono in gran parte omologate ai verbi regolari. La flessione fu semplificata (dagli 8 casi del nome si passò a 6 in latino, e finalmente alla forma unica delle lingue romanze). I casi però avevano una funzione, e si dovette sostituirli con altri segnali, oltre che con la posizione fissa nella frase di nomi, avverbi e verbi..

L’indoeuropeo primitivo non aveva prefissi: le lingue derivate invece moltiplicarono prodigiosamente il lessico mediante le forme prefissate: particolare fortuna ebbe il prefisso negativo (in-, un-,an-). Il primitivo accento musicale libero (o “tono”) venne sostituito dall’accento intensivo e ciò portò a semplificazioni ancor più radicali, sia morfologiche che sintattiche, e contribuì in modo decisivo alla laicizzazione della lingua.

Il Meillet fa l’esempio della parola latina MENS (“la mente”), che diventa difficilmente rintracciabile, a causa anche dello spostamento dell’accento, in una parola come “reminiscenza” Prefissi , radici, suffissi e desinenze vengono a costituire, nella maggior parte delle parole,” una massa non analizzabile”. E’ un’ulteriore perdita di collegamento con il sacro: se la radice è divenuta irriconoscibile, la parola è solo una catena arbitraria di sillabe, e non ha più niente in comune con i mantra, che la tradizione tramandava gelosamente. Le parole sono dei gettoni accettati per convenzione e facilmente sostituibili.

Secondo il Meillet, all’alba del I millennio, i vari dialetti indoeuropei erano già giunti a un tale processo di scarnificazione e “banalizzazione”, da risultare “fatti su misura per essere lingue di capi e di conquistatori” e il processo era irreversibile, poichè proprio in quanto banalizzate, cioè divenute di uso pratico e facile, quelle lingue costituivano un’arma vincente.

Una volta razionalizzata, dice il Meillet, la parola perde autonomia e diventa oggetto grammaticale. E’ appunto la seconda rivoluzione del linguaggio. Scisso dal visibile e dall’evocabile, l’oggetto grammaticale può essere usato per classificare categorie sempre più grandi e pertanto per ridurre il numero delle categorie. I faggi, le querce, i meli possono tutti rientrare nella categoria degli “alberi”, che sono già legname in potenza. L’accurata classificazione dei cugini nel latino tardo si riduce a una sola categoria, perchè i consobrini (i figli di due sorelle, che avevano legami stretti come quelli dei figli di una stessa madre) servono sbrigativamente a designarli tutti i cugini della stessa generazione.

Il processo evolutivo tende alla polarizzazione. L’intreccio variegato dei gruppi di età e di parentela della tribù viene appiattito a uno schema binario: persone atte alle armi e

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no, soggetti giuridici e no. La scelta binaria obbligata porta, prima che al linguaggio del computer, a “chi non è con noi è contro di noi”.

Il razzismo è in un certo senso una fatalità linguistica, anche se, come è stato scritto molte volte, parlare di razza ariana è tanto assurdo quanto parlare di vocabolario dolicocefalo. Il termine “ariano” si riferisce solo a un tipo di linguaggio, e quindi “ariano è chiunque parli una lingua ariana”. Tuttavia è altrettanto assurdo e prevaricatorio negare, in nome di una teoria o in nome dell’etimologia, il senso di una parola che sia ormai entrata nell’uso corrente. Un certo capo di vestiario è entrato nell’italiano corrente come “smoking”. La parola è inglese, ma in inglese non corrisponde al significato che le viene dato in italiano. I linguisti possono discettarne quanto gli pare, ma senza dubbio questo indumento (supponendo che sopravviva alla rivoluzione dei costumi) sarà sempre chiamato “smoking”.

E senza dubbio nemmeno a un linguista di estrema sinistra verrà mai in mente di riferirsi a un un collega francofono congolese di pelle nera come a “quell’ariano dello Zaire”.

Ma chi erano, quegli ariani allevatori delle steppe? Non un gruppo razzialmente omogeneo. Già nelle loro sedi originarie, per secoli, le

loro tribù avevano vissuto a contatto con etnie di lingua proto-mongolica o proto-turca, tanto è vero che non è eccezionale che in mezzo a tanti neonati tedeschi, biondi e con gli occhi azzurri, qualcuno porti sull’osso sacro una macchia blu, la cosiddetta “macchia mongolica”, che sparisce in genere dopo qualche mese e che è una caratteristica normale dei neonati mongoli. E senza dubbio, nelle loro millenarie migrazioni, gli Ariani ingrossarono le loro schiere (al modo dei Turchi arrivati in Anatolia 700 anni fa) mediante l’adozione sistematica dei bambini dei nemici sconfitti.

Comunque, i linguisti avrebbero fatto meglio a scegliere un altro sinonimo per indicare le lingue indoeuropee. Perchè resta il fatto che alcune di queste tribù davano a se stesse il nome di “Ariani”, e tale nome conservarono tenacemente per migliaia di anni e dopo essersi spostati per migliaia di chilometri, tanto è vero che il loro nome è sopravvissuto in quello della repubblica d’Irlanda (Eire) e dell’Iran (da Aryanam, il paese degli Arii). Anche gli invasori dell’India (intorno al l500 a.C.) battezzarono la nuova patria col nome di Aryavarta, e non nascosero mai il loro disprezzo per gli indigeni, neri di pelle e “senza naso”.

Resta anche il fatto che fin da principio queste tribù di lingua ariana mostrarono di avere un’arrogante consapevolezza della loro identità, che si manifesta in una parola come AIRE, che in irlandese vuol dire “signore”, o nel sanscrito ARYA, che indica “il gentiluomo nobile e generoso”. E forse l’arroganza affiora anche nel prefisso greco di eccellenza: ARI-. (Queste due sillabe sembrano possedere qualità magiche, dato che, curiosamente,vengono usate per indicare nobiltà anche in mongolo e in polinesiano.)

Del resto,gli irlandesi non si sono mai scordati che i loro antenati avevano trovato nell’isola una razza diversa dalla loro (“gli iberici”: piccoli e bruni), così come gli Elleni , specialmente gli Ioni e i Dori, si sentirono sempre diversi dagli aborigeni (Pelasgi e Lelegi e Carii e Sinti). Evidentemente bisogna tener presente un altro concetto, che è il

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concetto di nazione, ossia della cultura in cui si nasce e si cresce. Ma possiamo parlare di nazioni ariane?

Purtroppo anche il concetto di nazione è ambiguo, o meglio, è diventato tale dopo la formazione dei cosiddetti “stati nazionali”, che nazionali non sono.( Vedi Salvi, S. « Le nazioni proibite », Firenze 1973 : La Francia è ben lungi da essere uno stato nazionale)à1) A volte si è tentati di identificare la nazione con la lingua, dato che, per esempio, la nazione curda da più di duemila anni è soltanto la sua lingua. Però per altrettanto tempo la nazione degli ebrei non ha avuto nemmeno una lingua comune e soltanto la religione li ha uniti, sicchè gli ebrei hanno assimilato parzialmente culture diverse nei differenti paesi in cui hanno vissuto dispersi, dalla Spagna alla Germania, dalla Polonia allo Yemen. Tuttavia gli ebrei sembrano essere un caso a parte. Se invece consideriamo l’identità nazionale dei curdi (o dei baschi, o degli italiani), allora appare chiaramente che il nucleo del concetto di nazione è la cultura che le è intrinseca, quale ha preso forma dal contatto continuato di una comunità con un dato ambiente.

E’ l’ambiente che determina, oltre all’alimentazione e all’economia, la struttura delle abitazioni. E’ l’ambiente che influenza persino lo sviluppo demografico : si è visto che gli allevatori di bestiame, come rimedio alla sproporzione tra territorio e popolazione, fecero la scelta di invadere i territori altrui. Questa fu un’altra svolta fondamentale. Già la specie umana, attraverso l’invenzione di attrezzi e armi, aveva cominciato ad alterare l’equilibrio biologico tra predatori e predati. Con l’espediente delle migrazioni forzate di bestiame e pastori, al privilegio dell’uomo come specie si aggiunse il privilegio di alcuni gruppi umani, e precisamente di quelli non legati al territorio. E’ sempre biologia (è la legge del più astuto e del più forte, la stessa che trionfa nella catena alimentare) e tuttavia, qualora la scelta sia programmatica, è già Storia.

E’ irrazionale che si protesti contro la storiografia ufficiale, in quanto essa sarebbe eurocentrica. A parte alcune regioni dell’Oriente, dove pure avvennero grandi movimenti di popoli anche pochi secoli fa (come nel caso della Tailandia e della Birmania), la Storia in quanto tale è ario-centrata. Questa è una realtà di fatto, ed è facile riassumere le varie tappe della grande avventura ariana.

Nel III millennio a.C. i futuri balto-slavi mossero verso il nord-ovest, mentre agli altri popoli di lingua « satem » (i futuri Frigi, Armeni e Indo-iranici) si dirigevano prima a sud e poi a sud-est. Al centro un avanguardia di lingua « kentum » marciava ad ovest. Latini e Siculi devono aver preceduto gli altri italici nell’ invasione della penisola italiana. Questa prima migrazione trovò sfogo in uno spazio non densamente abitato e forse entrò facilmente in equilibrio con l’ambiente e con gli indigeni. In quella remota preistoria, non dobbiamo immaginarci un’invasione programmata cone quella descritta da Cesare nel DE BELLO GALLICO a proposito degli Elvezi. .

Senza dubbio i giovani delle tribù precedevano il grosso lungo le vie battute dai mercanti da tempo immemorabile. Alla fine del III millennio avanti Cristo esistevano già rotte commerciali importanti per scambi internazionali a lunga distanza. Oltre all’oro, alle pietre preziose, all’ambra, all’ossidiana erano oggetto di scambio l’allume, l’alabastro, il rame e lo stagno e il piombo: materiali richiesti dai signori degli splendidi palazzi

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egiziani, cretesi e mesopotamici. Niente di più normale, per i giovani ariani cupidi di cose nuove, che seguire le tracce dei mercanti.

Dalla saga di Ercole alla leggenda di Enea alle favole dei Grimm, ci arrivano informazioni sul destino di questi avventurieri. Il bel forestiero, muscoloso e spavaldo,era il benvenuto nei minuscoli principati dove vigeva un matriarcato più o meno sommerso: lui sposava la figlia del re, e ereditava il potere e le ricchezze del suocero. Senza colpo ferire, questi primi immigrati, esperti nell’uso delle armi e nell’esercizio del comando e presto raggiunti da qualche connazionale fedele, potevano iniziare un’opera di penetrazione nelle classi benestanti, senza intaccare le antiche, consolidate usanze delle maggioranze indigene.

La civiltà micenea più arcaica sembra essere il risultato di simili manovre, e il frenetico attivismo di Zeus, diretto a impollinare le innumerevoli divinità femminili locali, rispecchia forse quanto di fatto stava avvenendo nella società. Del resto le leggende degli eroi greci parlano chiaro. Teseo sposa successivamente Arianna e Fedra; ad Ercole i re offrono addirittura dozzine di figlie per volta.

La lenta penetrazione di individui e gruppi ariani continuò per secoli, causando quello che il Devoto chiama “peri-indoeuropeismo”; una larga fascia di popoli parzialmente acculturati e predisposti ad assorbire la robusta ondata migratoria, che ebbe luogo nel XIII secolo a.C.. Non vi sono prove per identificare questa invasione con il leggendario “ritorno degli Eraclidi”, o invasione dorica: però i tempi coincidono con l’azzeramento dei commerci in tutto il Mediterraneo. La sopraffazione degli indigeni era ormai evidente e non soltanto l’ Egeo ne fu coinvolto.

C’è l’evidenza di un trattato concluso in Anatolia nel XIV secolo in nome di divinità ariane come Mitra e Varuna, c’ è stato il saccheggio dell’Egitto da parte dei ”popoli del mare”, e ci sono prove archeologiche dell’annientamento della civiltà egea. Gli ariani indo-iranici avevano già distrutto la civiltà autoctona del fiume Indo circa mille anni prima. Il sovvertimento causato da spostamenti di popoli interi distrusse la ricchezza accumulata in molti secoli di relativa pace, bloccò i commerci e il rifornimento di materie prime, e pareggiò la sorte economica di conquistatori e vinti, a prescindere dalla libertà fisica, di cui parte di questi ultimi vennero violentemente privati.

All’inizio dell’era cristiana gli ariani si erano ormai impadroniti di tutta l’immensa area compresa tra l’Irlanda a ovest e il Gange e il Volga a est. Dall’VIII secolo a.C. alla caduta dell’Impero Romano vi furono molte guerre, ma senza movimenti di masse: dal IV secolo in poi, però, la steppa ricominciò a vomitare nomadi. A parte gli Unni, si trattava di altri ariani (Goti, Visigoti, Vandali, Longobardi...), misti, come i loro predecessori di l500 anni prima, a qualche tribù mongolica. L’arianizzazione questa volta fu brutale e totale: vennero rinnovate totalmente le classi dei guerrieri e dei grandi proprietari terrieri, e la signoria dei barbari venne imposta sulle poche città che non erano state abbandonate o rase al suolo. Si sviluppò la cosiddetta economia curtense: il villaggio autarchico, popolato dai discendenti degli antichissimi coltivatori non ariani (gli stessi che nella Grecia classica rivendicavano i loro antenati Pelasgi), si addossava alla rocca del signore (puro ariano), ricevendo in cambio la sua protezione dalle orde di banditi che vagavano per la campagna.

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Per molti secoli successivi alle grandi distruzioni, le epidemie e la scarsa produzione e distribuzione di cibo bastarono a controllare la crescita della popolazione, ma il problema demografico si ripresentò nel XVI secolo, e di nuovo gli Ariani d’Europa ricorsero all’espansione su terre altrui, a cominciare dalle due Americhe. Nel XVIII secolo fu invasa e popolata l’Australia, seguita dalla Nuova Zelanda. Salvo il Sud Africa, la penetrazione degli europei nel continente nero fu nel complesso esigua : però le lingue ariane (francese e inglese, e anche tedesco fino alla prima guerra mondiale) si imposero come le lingue della cultura. Nel XIX secolo, persino le isole del Pacifico che erano sfuggite alla conquista di spagnoli, olandesi e portoghesi, furono costrette ad adottare come lingue ufficiali il francese, o l’inglese, o il tedesco. Si parla francese a Tahiti e nella Nuova Caledonia, come nell’Africa occidentale; si parla portoghese in Angola e in Mozambico, e inglese in Sud Africa e in molte ex-colonie africane. Dopo 50 anni di occupazione americana, si parla inglese nelle Filippine e in Micronesia. Nel frattempo il russo veniva imposto su una area uguale a un sesto della superficie terrestre. In pratica l’ intero pianeta è stato arianizzato, con la sola esclusione del Medio oriente (arabizzato dai cugini semiti) e dell’Estremo Oriente, del Sud-est asiatico e di alcune isole del Pacifico tagliate fuori dalle rotte normali e risparmiate dalla seconda geurra mondiale. Non la studiamo a scuola, la storia di questi paesi, perché non ci sono accessibili testi scritti che ce ne parlino. Perciò fatalmente la storia scritta, che è stata scritta dagli ariani, è la storia degli ariani che hanno colonizzato il mondo, messo piede sulla luna e progettano colonie nelle galassie. La verità è brutale : il professore di francese di pelle scura, nato nel Congo, non è un ariano. Ed è inutile che la cultura ufficiale si sprechi a dimostrare il contrario: dietro le lingue ariane, magari solo economicamente, fino agli anni ’80 hanno prosperato delle etnie. Ariane, naturalmente. E dietro la loro ideologia, che trionfa in tutto il mondo, c’ è l’ ideologia del profitto crescente e illimitato, l’ ideologia degli antichi allevatori della steppa : una ideologia ariana.

Capitolo VI I pre-indoeuropei in Italia e le loro lingue

La geografia dell’Italia, come quella di tutti gli altri paesi montagnosi che si

affacciano sul Mediterraneo, è tale da favorire in ciascun micro-ambiente lo sviluppo di varietà diverse della flora e della fauna ed anche delle comunità umane e delle lingue che vi si parlano. Già gli storici greci, descrivendo la conquista dell’Italia meridionale, notavano una serie di etnie in numero sproporzionato al territorio (una situazione, d’altra parte, assai simile a quella che i Greci avevano lasciato). E ancor oggi, in Grecia come in Italia, si notano le diversità (fino a ieri gelosamente conservate) derivate dalla presenza, in età preistorica, di gruppi tribali diversi.

La polivalenza del substrato non facilita certo la identificazione delle caratteristiche delle culture indigene, entrate nel sommerso con la conquista indo-europea dei loro territori 3000 anni or sono. D’altra parte, i contatti tra le varie regioni della

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penisola, soprattutto via mare, risalgono ad epoche molto remote. Inoltre le grandi vie commerciali dell’ambra e dello stagno, del rame e dell’ossidiana, interessavano la penisola, ed è probabile che le necessità del commercio abbiano precocemente creato una specie di lingua franca, ricca di termini mutuati dagli idiomi dei confinanti, e dei prestiti inevitabili dalle grandi lingue commerciali, l’egeo e il fenicio (1).

La Puglia è da sempre una specie di molo proteso verso l’Oriente: i contatti con le genti dell’odierna Albania e delle coste occidentali della Grecia si possono considerare ininterrotti fin dalla più remota preistoria, da molto prima che gli elleni (indoeuropei) iniziassero la loro penetrazione in Grecia. Antichissime pure sono state le influenze egee e anatoliche. I reperti archeologici sono prova dei contatti con la civiltà micenea, la quale era a sua volta il risultato di una fusione tra invasori indoeuropei e quelle popolazioni egee che tarde tradizioni chiamano genericamente “Pelasgi”, “Cretesi”, « Leleg » e “Carii”.

Nell’ Italia meridionale le etnie più importanti portavano i nomi di Dauni, Japigi, Messapi e Ausoni, legati dalla storiografia greca alle vicende di Diomede e di Minosse e Dedalo. Le leggende riguardanti i viaggi dei micenei nello Ionio e nel Tirreno ci sono state tramandate dagli storici greci non tanto per amore dei miti in se stessi, quanto per un interesse politico: dimostrare l’origine greca di quegli indigeni serviva a legittimarne la conquista. Non di invasione si sarebbe trattato, ma piuttosto di una “riunione” della madrepatria con una “Krajina” (stanziamento periferico, in lingua croata), insomma di una legittima “Anschluss.” In realtà quelle riunioni non ebbero luogo senza lotte sanguinose là dove gli autoctoni erano organizzati in comunità numerose.

La Sicilia era un altro ponte, ma verso la Libia e la Tunisia,e in Sicilia i commercianti-colonizzatori furono i Fenici, apparentemente meno sgraditi agli indigeni dei Greci. Non ci è nota la composizione etnica dei Siculi, discesi via terra attraverso la Calabria, e stanziati nella Sicilia orientale, ma sappiamo che i Siculi erano di lingua indoeuropea. Invece nella Sicilia occidentale i greci trovarono un substrato diverso: e cioè i Sicani (probabilmente gli abitatori più antichi dell’isola), e gli Elimi, che una leggenda, raccolta da Virgilio, voleva fossero Troiani, e che erano comunque di origine egeo-anatolica e non parlavano lingue ariane.

In Sardegna (un’isola ambita per la sua ricchezza di minerali, soprattutto argento) viveva una popolazione con una cultura assolutamente originale, che ci ha lasciato prove di un artigianato evoluto già nel VI millennio a.C.. In quel tempo remoto la Sardegna era già stata visitata da marinai-mercanti che ambivano procurarsi l’ossidiana del monte Arci. In età storica, i fenici, viaggiatori infaticabili, avevano stabilito fondaci sui promontori (il doppio porto, che permetteva di ripararsi da quasi tutti i venti, è tipico degli insediamenti fenici in tutto il Mediterraneo). Anche i Sardi, nell’età del bronzo, avevano avuto contatti con i navigatori egei e micenei, e agli storici greci erano care le leggende relative a un gruppo di Troiani scampati alla distruzione della città, che si sarebbero stabiliti sui monti impervii dell’attuale Barbagia con il nome di Iliensi, imbarbarendosi alla stregua dei selvaggi indigeni. Là avrebbero vissuto in caverne collegate tra loro da cunicoli. E anche

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in questo caso i Greci giustificavano la loro contesa con i Fenici per il controllo dell’isola con la leggenda di una visita del nipote di Ercole, Iolao.

Per quel che riguarda la penisola, il suo aspetto etnico alla fine del II millennio è oscuro. Le testimonianze sono vaghe e tarde, ma l’archeologia comincia a dare risultati soddisfacenti che dimostrano che quegli indigeni pre-indoeuropei, sebbene non vivessero in città vere e proprie (ad esclusione degli Etruschi) mantenevano contatti con le civiltà del sud. Di quei popoli antichi ci sono noti i nomi, ma delle loro lingue conosciamo solo i toponimi, arrivati fino a noi.

La toponomastica attesta che popolazioni Liguri erano stanziate nel nord-ovest della penisola, e si estendevano su un territorio assai più grande di quello occupato dai Liguri in tempi storici: e i suffissi tipici dei loro stanziamenti sono -asco, -eno, -rno. Ad oriente dei Liguri vivevano i Reti, che in età protostorica erano ormai etruschizzati, e più ad est ancora i Liburni (ritroviamo i loro toponimi, in « -ona » da Cremona fino alla Dalmazia: Albona, Fianona, Nona). Nell’attuale regione veneta vivevano gli Euganei, o forse i Liguri Ingauni, o forse gli Eneti (per tradizione, profughi dell’Asia Minore dopo la caduta di Troia), più tardi sopraffatti da una gente celtica che, per caso, portava il nome, assai simile, di Veneti.

Nell’Italia centrale vivevano i Tirreni, di gran lunga i più numerosi e i più evoluti tra le popolazioni indigene. Essi chiamavano se stessi Rasenna, ma passarono alla storia con il nome, dato loro dai Romani, di Etruschi o Tusci. I loro toponimi hanno spesso una caratteristica terminazione in -ena, -enna, come in Capena, Bolsena, Ravenna.

Sulla costa adriatica vivevano i Piceni, che ci hanno lasciato quella che finora è l’unica testimonianza scritta dell’Italia pre-ariana che non sia etrusca: la stele di Novilara, presso Pesaro. Dalla loro lingua deriverebbero i toponimi suffissati in « -te » nelle forme antiche dei nomi di Este, Chieti, Rieti e Preneste. In seguito il territorio dei Piceni fu occupato dalla tribù indoeuropea dei Picenti, il cui nome sarebbe derivato da quello del loro animale totemico il picchio, picus. Non suona ariano il suffisso -nt del fiume Tronto, comune a toponimi egei.

Interessante è anche il caso degli Umbri. Gli Umbri storici, di cui abbiamo molte iscrizioni, sono sicuramente indo-europei, anzi, di immigrazione abbastanza recente. Ma questi Umbri avrebbero occupato un’area precedentemente occupata da una etnia di Umru/Umbri, che avrebbero preceduto gli Etruschi e fondato Cortona e Perugia. Alla toponomastica pre-indoeuropea appartengono anche i nomi dei fiumi Ambra e Ombrone. Inoltre Umrana e Umria sono nomi gentilizi Etruschi.

A questo punto viene il dubbio ragionevole che non si tratti affatto di una serie di coincidenze ma di una politica deliberata: che cioè gli ariani invasori abbiano assunto i nomi dei loro predecessori per essere più facilmente accettati. Una intelligente adattabilità, in perfetta sincronia con la flessibilità del loro linguaggio, è una ben nota caratteristica degli ariani. ”Parigi val bene una messa”, come disse un ariano che infatti divenne re di Francia.

A sud dei Tirreni stavano gli Ausoni o Aurunci, ”il popolo delle fontane”, da un tema mediterraneo AUSA, che però, si è detto, si riscontra in Europa in un’area vastissima (vedi i nomi nell’Italia meridionale dei torrenti Ausente e Osento, e della città

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di Ugento, in Toscana del torrente Osa, dell’Ausa a Rimini e a sud di Cervignano, della Oise in Francia e delle Ouse in Gran Bretagna). Alla stessa radice erano legati i nomi dei monti Aurunci (a nord di Gaeta) e dei monti Ausoni (a nord di Terracina). Secondo alcune fonti gli Ausoni sarebbero stati i più antichi abitanti della penisola e i Greci, in cerca della solita legittimazione al loro imperialismo, li dissero discendenti di Ausone, figlio di Ulisse e della maga Circe. Anche il nome etnico degli Ausoni pare sia sopravvissuto alla etnia e pare copra stanziamenti di popoli affini ai Volsci e agli Opici, che erano indo-europei.

La medesima doppia stratificazione si evidenzia confrontando le tradizioni riguardanti Japigi e Messapi, che da un lato sono connessi con la colonizzazione ellenica (ossia indo-europea) dell’VIII secolo a.C., dall’altro echeggiano toponimi pre-indoeuropei. Il Messapo, per esempio, a Creta era un fiume, oltre ad essere un monte in Beozia, come in Bottiea e in Peonia. Si sarà notata la frequenza con cui ricorre il nome di Creta. Riguardo a Creta abbiamo una ricca documentazione scritta, da quando, nel 1952, Ventris riuscì a decifrare un tipo di scrittura usata nei palazzi micenei, detta Lineare B. La lingua riportata da questa scrittura è una forma di greco pre-omerico, dunque una lingua ariana. Invece gli alfabeti cretesi più antichi (il lineare A e i geroglifici) trascrivevano la lingua non ariana dei colonizzati, che erano stati liberi, ricchissimi e potenti, e che hanno lasciato un’impronta nel Mediterraneo orientale e centrale.

Creta giace come una zattera tra il basso Ionio e l’Egeo, a ovest di Cipro e della Siria, e a nord-est dell’Egitto, ed era quindi direttamente collegata via mare con questi paesi di antichissima civiltà, ma era anche serialmente collegata , attraverso le vie commerciali terrestri, con la Mesopotamia, la Persia e l’India. I marinai egei, certamente non indo-europei, che avevano visitato Lipari già nel III millennio a.C. per sfruttarne l’ossidiana, avevano esplorato anche il Mediterraneo occidentale , e in particolare le regioni più ricche di metalli, come la Toscana, la Sardegna e l’Iberia, secoli prima che gli ariani si affacciassero sul Mediterraneo e che gli Elleni installassero le loro prime colonie nel Tirreno.

Grazie alla mitologia e alla toponomastica cretese, conosciamo un buon numero di nomi pre-ellenici che ricorrono in Sicilia e nell’Italia meridionale, oltre che nelle isole egee, a Cipro e nella penisola balcanica. A Creta i nomi in « -nthos » echeggiano quelli anatolici in -ndos, che in Italia e in Dalmazia si riconoscono sotto la forma -ntum (Laurentum, cioè Lavinio, è la spiaggia dove sbarcò Enea). Altre terminazioni cretesi sono -ssos, -mnos/a, -amos (Pergamo, Bergamo), -ana/ena, -ara. Radicali ricorrenti in tutta l’area sopra menzionata sono ARN (la polla della sorgente, il fiume, l’alveo), LAVR (la pietra tagliata), PARG- l’altura, ALP (il monte), TAUR- (la gola tra i monti), MALA (la montagna conica), HERMA ( il picco, la pietra ritta), SAMO = la scogliera, VRASKO = la faglia, e KINTHOS il massiccio montano. Perciò, quando troviamo in Sardegna il monte Cinto, che ha un omonimo a Delo, comprendiamo il perché del mito dei troiani rifugiati in Sardegna (Diodoro Siculo, IV, 57). Ma rende più perplessi il fatto che si trovano in italiano derivati (toponimi e no) della radice KAL/GAL (la roccia, il sasso),

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diffuso dall’Irlanda al Tamil Nadu, mentre la radice MALA ci porta nel Malabar, in Malesia e nel Madagascar.

E’ improbabile che ci sia stata una cultura comune dall’Irlanda alla punta dell’India: quindi dovremmo accettare l’ipotesi che il cabotaggio costiero, di promontorio in promontorio, già in tempi remoti abbia allacciato una serie di contatti tra le varie contrade ricche di metalli anche lontanissime tra loro, ma collegabili via mare.

La storia dell’importazione delle piante è un capitolo della storia del mondo che non è stato ancora compiutamente studiato. I semi furono scambiati, le tecniche per la loro coltivazione viaggiarono spesso con i semi, e le piante vennero diffuse da un continente all’altro, come “side line” commerciale dei cercatori di metalli. (Dai minerali si poteva ricavare un profitto immediato e più consistente) . Da Creta si sparsero nel Mediterraneo il terebinto, e il giacinto, con i rispettivi nomi, e da Cipro venne il cipresso. E marinai cretesi battezzarono il GARGANO, raddoppiando una sillaba inziale di cui ignoriamo il significato, come l’avevano raddoppiata a Creta per Gergeri e Gourgouthi. E forse il suffisso ligure « -sko » , riecheggia i toponimi cretesi in -skos.

E’ probabile che anche le antiche sedi dei Tirreni fossero inserite serialmente in una grande rete di vie commerciali preistoriche e che, a parte le leggende (probabilmente tardive) dello sbarco alla foce del fiume Ombrone di emigranti dalla Lidia, gente della Troade e di Smirne abbia effettivamente visitato il Mediterraneo occidentale per esplorarne e sfruttarne i giacimenti minerari. Così si spiegherebbero il nome del fiume ARNO e il nome di Porto ARGO dato a Portoferraio (secondo il mito) da Giasone, più quello di « terra di Glauco » dato alla parte occidentale dell’ isola d’ Elba. Non è affatto necessario immaginare migrazioni.

E’ anche interessante la leggenda di un figlio di Nestore che avrebbe fondato PISA, dato che non lontano dalla città di Pilo, capitale del regno di Nestore, c’era una città chiamata Pisa. Senza contare che Pilo era il centro di smistamento dell’ambra del Baltico, che arrivava dall’Adriatico e che in Toscana, a sud-est di Pisa, si trovano due fiumi col nome di NESTORE, oltre a una serie di fiumicciattoli chiamati AMBRA, e all’ OMBRONE.

Purtroppo, a parte le testimonianze scritte dell’origine egea di molte parole, è scarsissima la documentazione sull’apporto, al latino prima e all’italiano poi, delle lingue pre-ariane parlate nella penisola (con l’eccezione della lingua etrusca). Le poche iscrizioni superstiti sono rimaste pressochè indecifrate, come l’unica stele dei Piceni finora ritrovata. Sono comunque state ricostruite alcune delle caratteristiche comuni delle lingue non ariane parlate nell’Italia pre-romana.

Della organizzazione sociale tra gli autoctoni della penisola italica abbiamo notizie indirette. Sappiamo, dato il grave scandalo che le matrone etrusche davano ai Romani (che le giudicavano alla stregua di meretrici perchè osavano banchettare al fianco dei loro mariti), che tra i Tirreni le donne godevano, se non di eguaglianza, di una libertà inimmaginabile per le matrone romane e per le donne delle città greche. Erano libere di assistere ai pubblici spettacoli, come notiamo negli affreschi. Godevano anche di una certa parità sociale, dato che negli epitaffi etruschi venivano indicati sia il padre che la madre del defunto.

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La situazione può esser stata non molto diversa anche tra gli altri pre-ariani della penisola, dispersi in tante piccole nazioni, però più che un quadro complessivo si aprono al ricercatore squarci sulla organizzazione di comunità singole. All’interno della famiglia, nel IX-VIII secolo, in quella che sarebbe stata la Magna Grecia, doveva esserci uguaglianza tra i sessi: si sono trovate tombe con ricchi corredi funebri per entrambi i sessi, mentre nelle tombe più povere i falcetti da mietitura facevano parte del corredo indifferentemente di uomini e donne : il che significa che le donne partecipavano attivamente alla produzione agricola.

Del resto il quadro che abbiamo dalle leggende della Roma del periodo monarchico è molto diverso da quello della società repubblicana. Le leggende possono non contenere nessuna verità storica, ma sono illuminanti dal punto di vista antropologico. Sappiamo che presso gli etruschi (assai saggiamente, conoscendo le debolezze umane e le tentazioni a cui sono soggetti i mediterranei) vi era il costume (scrupolosamente recuperato dai liberi Comuni dell’Italia medievale) delle magistrature doppie. I magistrati così si controllavano l’un l’altro, e gli umbri di lingua indo-europea trovarono opportuno conservare l’istituzione.

Anche i Latini, come avevano fatto gli Umbri, avevano preso in considerazione l’usanza: infatti Romolo, che avrebbe dovuto dividere il potere con Remo, uccide Remo, ma poi divide il potere con Tito Tazio. I successori di Romolo reggeranno lo stato singolarmente, ma alla fine della monarchia la costituzione repubblicana prevede due consoli: è il substrato che riaffiora. La successione dei sette re è indice di una società matrilineare. Rhea Silvia era una ragazza madre, ed è il padre di lei, il nonno, che riconosce in Romolo e Remo gli eredi del suo sangue. (La madre è sempre certa: ciò spiega la sensatezza delle discendenze matrilineari.) Ed è vero che Romolo prende le Sabine con la forza: e in effetti il matrimonio per ratto è ammesso dal diritto di varie comunità ad economia pastorale, per esempio dal diritto degli ariani dell’India, ed era tanto comune tra i musulmani della steppa che nella Russia sovietica venne giudicato un delitto punibile con la pena di morte. Il matrimonio per ratto, ovviamente, non può essere tollerato dalla legge, là dove la donna possiede dignità pari all’uomo. Comunque successivamente Romolo, avendo diviso i cittadini in 30 curie, dà a ciascuna curia il nome di una donna Sabina.

Il successore di Romolo, Numa, viene guidato da uno spirito femminile, la ninfa Egeria, a istituire per i Romani una religione che ha poco di ariano. Si pensi alla cerimonia che lo consacrò re, officiata da un augure che come segno di autorità impugnava il sacro bastone degli etruschi, il lituo, lo stesso che oggi impugnano i pontefici romani. Si pensi ai Salii, i sacerdoti saltatori, custodi di certi scudi sacri, caduti dal cielo, gli « ancilia », che nella forma replicavano gli scudi, tipicamente minoici, a forma di 8. Si pensi al misterioso rito dei 27 Argei, pupazzi di vimini gettati annualmente nel Tevere, di cui l’unica cosa certa è che il loro nome è egeo. Per ciascun Argeo vi era un santuario in un rione di Roma.

Il successore di Numa, Tullo Ostilio, scelto tra la nobiltà di Alba, la città di Rhea Silvia, viene colpito dal fulmine per non aver eseguito un rito etrusco secondo le regole, e gli succede Anco Marzio, nipote di Numa, ma per parte di madre.

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A questi succede Servio Tullio, un servo che diventa re per aver sposato una principessa etrusca, la figlia di Tarquinio Prisco, esautorando con queste nozze i figli maschi di Tarquinio. Per ricuperare il potere, questi sposano le figlie di Servio, e sarà una di queste, Tullia, che inviterà il marito ad assassinare suo padre: così, ancora una volta grazie all’autorità di una moglie, Tarquinio il Superbo diventa re.

Dopo che un figlio di Tarquinio ha violentato Lucrezia, moglie di Collatino, Bruto uccide lo stupratore e instaura la repubblica, di cui Bruto e Collatino saranno i primi consoli. Tutta la storia è probabilmente un’invenzione posteriore, ma contiene un particolare interessante: Bruto, vedi caso, è figlio della sorella di Tarquinio.

Sebbene nella Roma repubblicana i due consoli si dividano il potere, secondo la ricetta etrusca, tuttavia il rispetto degli etruschi per la dignità femminile viene rifiutato alle donne romane: si instaura, anzi, una forma rigidissima di patriarcato in cui le donne (a parte le Vestali, che vivono come prigioniere), passano dalla mano del padre a quella del marito. La vita delle donne si svolge tutta entro le mura della casa, e le donne vi hanno riti propri e pregano dee madri piuttosto che Giove padre.

La stessa limitazione di movimento era già stata imposta secoli prima in Grecia, dopo l’assoggettamento del paese da parte degli Elleni (ariani), mentre nella Grecia micenea, descritta da Omero, il patrimonio si ereditava per via femminile, tanto è vero che l’eventuale successore al trono di Ulisse sarebbe stato re in quanto marito di Penelope. Tale costume doveva essere universale nel Mediterraneo, dato che Enea, sposando Didone, sarebbe divenuto re di Cartagine. Una volta giunto nel Lazio, Enea dovette uccidere un pretendente alla mano di Lavinia per sposarla e conquistare il trono..

Le leggende ci dicono anche un’altra cosa: che il passaggio al patriarcato fu un processo di lenta e reciproca acculturazione, di cui gli autoctoni forse non si resero conto se non quando fu troppo tardi. Anche negli anni della immigrazione di massa dei Latini ed altri in Italia (attorno al 1000 a.C.) e dei Greci in Magna Grecia (nel VII secolo), il massacro non era stato la regola. E’ possibile che si sia arrivati al vassallaggio attraverso compromessi, perchè gli indigeni riconoscevano la superiorità militare degli attaccanti e si arrendevano. Analogamente, quando Cadmo occupò la Beozia per fondare Tebe, “gli Aoni supplicarono ritualmente Cadmo che li lasciasse vivere nella zona e contrarre matrimonio con i suoi Fenici” (Pausania, II, 5,1). Altre volte gli invasori fecero ricorso al tradimento, magari al modo che i Sanniti, molti secoli più tardi, presero Cuma: introdottisi nella città facendo mostra di amicizia, la notte ne trucidarono tutti gli abitanti di sesso maschile (Tito Livio, IV,37) e delle donne e dei fanciulli fecero concubine e schiavi.

I Romani lusingarono l’orgoglio degli etruschi, cui avevano tolto l’indipendenza, adottando l’istituzione dei littori, che seguivano i consoli reggendo i fasci di verghe con in mezzo la scure. Ma intanto erano entrate in etrusco (che a lungo restò per i romani la lingua della cultura, fino a che non venne sostituito dal greco) importanti parole ariane, come « aisar », = gli dei, derivato da una radice indo-europea, la stessa del tedesco Ehre= l’onore. Forse aisar soddisfaceva il gusto esterofilo della classe aristocratica etrusca, già aperta alla cultura greca.

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Pare che gli invasori più antichi (Latini e Siculi) siano arrivati attraversando l’Adriatico come oggi fanno gli albanesi, avanzando poi a strappi, di valle in valle, attraverso quelle migrazioni di giovani, dette primavere sacre, che alleggerivano la pressione demografica. Poteva avvenire quindi che tra i monti più aspri gli ariani si lasciassero alle spalle piccole sacche di tribù salvate dalla loro stessa emarginazione. Qualcosa del genere ci viene citato dalle fonti antiche riguardo a Creta, dove, a duemila anni dalla conquista ariana, nel V secolo dopo Cristo, c’erano ancora gruppi di cretesi che parlavano una lingua pre-ellenica, l’eteocretese.

I Romani lasciarono la massima libertà ai culti domestici e dei villaggi, tanto più che, dato il frazionamento del territorio, questi non potevano essere una minaccia. Tanta tolleranza, d’altra parte, è stata una caratteristica comune a tutti gli ariani che si acculturarono nel Mediterraneo, scettici per natura, e non portati al misticismo. (Le opinioni di Cicerone sulla divinazione e sulla natura degli dei sono agghiaccianti, se si pensa che egli era pontefice massimo, e doveva officiare i riti di salvezza della Repubblica.) Fra gli etruschi, data la superiorità della loro cultura, la penetrazione indo-europea fu più contenuta che nel resto d’Italia. Infatti ancora nel I secolo a.C. (quasi due secoli dopo un genocidio esemplare), Seneca poteva scrivere che “gli Etruschi sono indotti a opinare non già che le cose abbiano un significato in quanto avvengono, ma piuttosto che avvengano perchè devono significare qualcosa.” Il che, in ultima analisi, prova che in Etruria era ancora diffusa la fede nella immanenza della divinità e nella possibilità di leggere la volontà divina in ogni particella del cosmo: a prescindere dall’incredibile numero di vasi corinzi (decorati con divinità antropomorfe) che gli etruschi erano ansiosi di importare.

L’aristocrazia greca (si pensi a un Alcibiade) era altrettanto pragmatica di quella romana. Nel loro disprezzo per gli abitanti delle campagne, essi lasciarono loro, di fatto, una libertà di culto (e praticamente di pensiero) anche maggiore di quella concessa dai Romani. Infatti molto di ciò che sappiamo sui pre-ariani del Mediterraneo, e sulle parole entrate in latino da lingue non ariane, trova la sua conferma nel lessico greco. Forse gli Elleni invasori erano meno numerosi dei Latini, dei Siculi, dei Sabelli e degli altri indoeuropei che conquistarono l’Italia. O forse gli elleni non sentirono la necessità di consolidare la loro identità etnica e culturale perchè, all’epoca della invasione più massiccia, il terreno era già stato preparato dai prìncipi micenei, per cui più o meno “tutte le persone che contano” già parlavano un dialetto greco. Il fatto che i cittadini ateniesi di basso rango si vantassero dei loro antenati pelasgici non preoccupava la nobiltà. In regioni interne come l’Arcadia la penetrazione degli elleni era stata limitata. Infine, grazie a uno sfruttamento degli schiavi anche più precoce di quello che, ottocento anni dopo, portò al degrado della romanità, gli Elleni non avevano bisogno di entrare in contatto con l’artigianato, la fauna e la flora delle etnie sottomesse, che quindi conservarono molti termini pre-ariani.

Non c’è spazio nè per sintetizzare nè per discutere quel che Max Weber ha scritto sulla città antica, la polis. Vale però la pena di osservare un fenomeno singolare: il concetto stesso di città era estraneo alla cultura degli ariani, che erano stati nomadi per

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millenni : ma arrivati nel Mediterraneo, avevano trovato le città, e si erano scoperti, di colpo, una vocazione urbana. Le città, erano una creazione dei non-ariani. Erano il frutto maturo di nazioni con antiche radici, foglie e fiori. Le città erano nate dall’abbondanza, per la prima volta raggiunta dall’uomo dopo la scoperta dell’agricoltura, dopo migliaia di anni in cui la carne o le bacche quotidiane non erano mai state certe. Ne erano stati il presupposto gli scambi di semi e poi di tessuti e di lingotti di metallo.

In un primo stadio la città era stata un mercato a un crocevia, dove i produttori dei villaggi circostanti si incontravano a intervalli regolari per scambiare il surplus in cambio di ciò che non riuscivano a produrre. Come ancor oggi i mercati di paese, duravano poche ore. In Asia Centrale prima della guerra in Afghanistan si poteva ancora visitare una di queste città fantasma, tra le rovine della antichissima “madre delle città”, cioè di Balkh, che un tempo era stata una delle città immortali, mai tramontate dalla memoria collettiva, come Ur dei Caldei, Cnosso, Micene, Troia..Quelle invece erano state le città palazzo, il centro che conteneva archivi e magazzini, ma soprattutto ospitava il rappresentante della comunità, il re, custode del “mana” del regno.

E finalmente apparve l’interpretazione ariana della città, la città stato, la polis, come Atene o Roma: zeppa di schiavi e di servizi. Gli schiavi erano di provenienza mista e usavano il latino o il greco per comunicare, ma avevano conservato i termini indigeni per gli attrezzi di lavori manuali che non avevano gran fascino per gli ariani. I linguisti non hanno difficoltà ad ammettere l’ origine mediterranea dei nomi che riguardano la flora e la fauna della penisola, però i termini relativi alla tecnologia agricola e artigianale sono assai più importanti e fruttuosi. Già prima del 1000 a.C., in Italia, un po’ dovunque, in piccoli nuclei urbani, vasai, cordai, tessitori, tintori e fabbri producevano un surplus da usare negli scambi commerciali di cui abbiamo trovato le tracce. Si fondevano i metalli e si lavorava la pietra. I Piceni già avevano imparato a fabbricare ambra finta !….

. Nelle campagne, come è naturale in un territorio prevalentemente montuoso, prosperava la piccola proprietà. Si innestavano gli alberi da frutta importati dal Mediterraneo orientale. Come in Grecia, gli indigeni in Italia più che il cavallo avevano trovato utile l’asino. Nelle fattorie c’ erano esperti nella fabbricazione dei formaggi. E soprattutto pescatori o contadini avevano l’orgoglio di essere completamente autonomi, in quanto erano autosufficienti riguardo al cibo. Il linguaggio domestico dei non ariani era la lingua della autonomia e della libertà.

In Europa oggi il concetto risulta assurdo. Secondo l’opinione corrente il lavoro manuale è degradante, si può lasciarlo agli immigrati. L’insistenza su una scolarizzazione sempre più prolungata ha appunto lo scopo di portare le nuove generazioni al rifiuto totale della manualità. Con la scomparsa della manualità sparisce, perché ormai diventato incomprensibile, una gran parte del lessico ereditato dalla antica cultura mediterranea, la cultura pre-indoeuropea, la cultura delle donne trasformate dagli invasori in concubine e collaboratrici domestiche.Una volta che l’ avremo totalmente dimenticata, non avremo più il suo scudo per difenderci dalla globalizzazione, il cui scopo principale, a parte il profitto ricavato internazionalizzando i mercati, è quello di privarci anche del ricordo di un passato di autonomia e libertà.

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Parte III Dizionario dalla A alla Zeta

(Di questo dizionario vengono qui presentate solo due voci, per la lettera A e la Zeta, per impedire il saccheggio di quello che è stato un lungo lavoro dell’ autore da parte di chi non sia interessato a pubblicare l’ intero testo di LINGUA BIFORCUTA). Si tratta di be 43 pagine, che possono essere oggetto di trattative dirette.)

A COME AMORE La fauna e la flora del Mediterraneo sono ben diverse da quelle delle steppe e

dell’Europa centrale, attraverso cui gli ariani giungevano in Italia. Non c’è da stupirsi quindi che il gruppo dei nomi di animali e piante senza corrispondenze negli altri idiomi indoeuropei sia particolarmente folto.

ABETE, AGLIO, ALBURNO, ALGA, ALLORO, ARISTA (= resta), ASARO, ASPARAGO, e anche il piccolo frutto della vite, che va a formare il grappolo (l’ACINO), non derivano dall’indoeuropeo comune, così come ACCIUGA, AQUILA, ARAGOSTA, ASINO, ASSILLO (cioè il tafàno), ASPIDE e AVVOLTOIO. E’ dubbio il caso dell’APE. La lista si allunga aggiungendo altri nomi comuni solo al latino e al greco: ACACIA, ACANTO, ALCIONE, ANEMONE, ANETO, ANICE, ANGURIA, ASFODELO, ...

Come c’è da aspettarsi, essendo i latini originariamente pastori, “agnello” è parola schiettamente ariana. Viceversa, tutti i termini relativi all’allevamento delle api sarebbero stati mutuati dalla civiltà degli indigeni, che non si limitavano ad alleggerire del “miele” i favi delle api selvatiche, ma erano esperti apicultori. La tecnologia mediterranea ha arricchito l’italiano di parole come l’APPIO (l’erba delle api, che fiorisce lungo tutte le strade con fiorellini minuti, profumati, e di lunga durata), e l’ARNIA, contenitore incavato come l’alveo dei fiumi. E’ questo appunto il significato del nome del fiume ARNO, (che si ritrova in vari fiumi di cui uno a Creta), nell’antico nome di Cheronea che era Arne (città della Beozia) e in altri toponimi, come Arne in Tessaglia, e la cittadina di ARNEIA, nella penisola Calcidica. Quest’ultima è un importante centro di produzione del miele: difatti, il nome corrisponde a quello comune di arnia. Il toponimo ARNAIA si trova per esempio all’isola d’Elba.

Queste coincidenze sembrano indicare che la tecnologia del miele, forse elaborata a Creta, era antica nel Mediterraneo, e che già nel II millennio a.C. era stata trasmessa dall’Egeo al Tirreno settentrionale, e ciò fa sospettare che due termini relativi alla produzione del miele, la cera e il favo, privi di connessioni attendibili nelle lingue ariane, siano parole indigene pre-ariane.

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Gli ariani contribuirono invece alla dignitosa nomenclatura ministeriale odierna: “agricoltura” è purissima voce ariana, anche se originariamente pare che “ager” fosse il pascolo. Gli addetti all’agricoltura però, sudavano su una pre-ariana AIA, ammucchiando ACERVI, ossia mucchi, di cereali.

Vagamente collegata con l’aia, ma assai più nobile, è l’AREA, che potrebbe però essere collegata con la radice ariana *AS di “bruciare” (per esempio, allo scopo di ricavare “aree fabbricabili”), e anche con l’”ARA”, altare su cui si bruciavano le vittime. Incerta è anche l’ARIA che respiriamo, termine comune solo al latino e al greco nella forma aere, e affine ad AURA “vento”.

Dal mediterraneo AUSA, la fonte, è derivato l’antico nome dell’Italia per i greci: Ausonia, nonchè i composti con la preposizione latina “ex”: esauriente, esaurire, esausto. Un altro nome etnico pre-ariano sta probabilmente celato sotto la forma latina di aborigeni, che non avrebbe niente a che fare con le “origini”.

Importante quasi come l’aria è l’ALBERO, nome generico in latino, ma derivato da quello di un albero tipico della flora mediterranea, il corbézzolo, tuttora chiamato in Toscana ALBATRO o erpitro; e collegato ad albero è l’ARBUSTO, con l’arboscello e tutti gli inalberamenti.

Le Alpi, barriera purtroppo insufficiente a trattenere invasori organizzati, sono formate da un tema ALBA/ALPA che abbiano trovato in regioni montagnose come l’Albania o nel nome antico della Scozia (Alba) o nei nomi di molte città (Alba Longa, Albany ...), e vale per “monte”. Accertare il motivo di tanta diffusione è ARDUO (aggettivo mediterraneo), tanto più che a differenza di arnia si tratta di un aspetto del territorio. E’ difficile immaginare una migrazione dalla Albania alla Scozia, ed è temerario supporre che le invasioni ariane abbiano spezzato una continuità linguistica, ossia che gli europei parlassero un’unica lingua, dall’Albania alla Scozia, prima dell’arrivo degli ariani.

Di antichissimo uso per la copertura dei tetti, e connessa con arduo, è l’ARDESIA, parola paleo-europea, forse in relazione con il toponimo ARDENNE in Francia, Ardenno in Italia. Un termine del tutto isolato, e quindi certamente pre-ariano, è l’ARENA, ovvero « la rena », da GHASENA, HASENA. E’ interessante notare che anche “SABBIA” non sta in relazioni chiare con i corrispondenti termini nelle altre lingue indoeuropee.

L’ALLIME, dal latino alumen è privo di connessioni evidenti. Se ne faceva gran mercato nell’antichità classica, poiché era usato per conciare le pelli. Cessato il boom dell’ossidiana, Lipari ritrovò il benessere, molti secoli prima di Cristo, vendendo allume. Oltre che a Lipari, in Italia si trova allume ad Allumiere. C’è una baia dell’ allume al Giglio. Affine ad allume è, oltre all’alluminio, l’ALUDA o alluda o aluta: corteccia della quercia, ricca di tannino, usata per conciare le pelli in mancanza di allume. Un’altra corteccia molto ricca di tannino usata allo stesso scopo era quella dell’ontano, il cui nome antico era ALNO. Tutte sostanze che ALLAPPANO.

ATRO è parola (senza connessioni evidenti) caduta in disuso: significa “nero, scuro”, e ci interessa perché, forse attraverso l’etrusco, avrebbe dato origine all’altrimenti inspiegabile ATRIO.

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Visto che aria, alberi e Alpi sono arrivati in italiano da lingue non ariane, è confortante accertare che almeno “l’acqua” appartiene al lessico dei Romani, e ha nobili parentele col sanscrito. Però i Romani non avevano, inizialmente, una grande confidenza con il mare. Mediterranea è l’ANCORA. E si può ben immaginarli, i borghi dei pescatori mediterranei, e gli uomini agili e abbronzati, con l’ANELLO d’oro all’orecchio, che giocavano a dadi nelle taverne. ALEA era il nome mediterraneo del dado, quello che Cesare si giocò passando il Rubicone. Pochi di quei pescatori erano ASTEMI: voce ibrida, con una a- privativa che si suppone indoeuropea prefissata al TEMETUM (uno dei nomi mediterranei del vino). E bevendo scommettevano ai dadi i loro poveri guadagni, poche ASSI. Infatti, prima di diventare sotto i Romani un’unità monetaria, l’asse (priva di connessioni attendibili), era una misura di lunghezza e peso dell’Italia centrale (una tavola), corrispondente in parte alla “libbra” latina. (La libbra diventò poi l’italiana “lira”, da una radice *LIDHR che potrebbe anche essere ariana, e che oggi, forse per nemesi storica, non vale un asse.)

I proletari venivano a compromessi con i vincitori, finché possibile: quando non riuscivano a cogliere qualche vantaggio adulando, riuscivano magari qualche volta a rifarsi ammaccando le ossa al prepotente ariano, colto solo, la notte, in un vicolo oscuro magari per AMMAZZARLO, picchiandolo in capo con la mediterranea mazza.

Le donne mediterranee, concubine dei vincitori, o mogli di pescatori e braccianti ai limiti della sussistenza, certamente continuarono sotto la dominazione dei latini ad aver cura dei bambini e dei vecchi malati, e a lavare il corpo dei morti. Dobbiamo a loro, quindi, la conservazione di parole mediterranee che la scienza ha nobilitato, come ADDOME, ADIPE, ALLUCE, AMNIOTICO, ANO. Dalle loro antiche cucine è discesa a noi l”ALICE, che originariamente non era un pesce, ma una salsa di pesce, probabilmente simile a quella delle moderne alici (mai, si noti, acciughe), in salsa piccante. E non dimentichiamo l’arrosto di ARISTA (schiena di maiale).

Erano italiane come quelle di oggi ( o meglio di ieri), tenere e amorose. L’AMORE è una puntura che la civiltà classica attribuì a un pargoletto dispettoso, Eros, figlio di Venere: ma in riva al Mediterraneo la puntura veniva dall’AMO, causata forse da qualche divinità marina. L’amore è tutto pre-ariano: la radice *AM non si trova né presso i celti, né presso i tedeschi e gli slavi. “Cara”, invece, è parola ariana, ma con dubbie connotazioni affettive: la donna desiderata era “costosa”. E questo valore della parola si è mantenuto a tutt’oggi in italiano. I collegamenti di “cara” nelle altre aree indoeuropee sono anche meno rispettabili: “Hüre, whore, kurva” indicano “colei che si affitta” per eccellenza, ossia la prostituta. La radice indoeuropea più vicina al significato di amore è LEUBH, che ha dato in tedesco “Liebe”, in slavo “liubi” e in inglese “love”. LEUBH, ossia provar piacere, in latino e in italiano ha avuto come esito “libidine”.

Libidine è quanto la società ariana patriarcale offriva legittimamente alla donna, considerata come semplice proprietà del padre o del marito, produttrice di prole. Tanto caratteristico della società mediterranea era invece il concetto di amore, che ci è pervenuta un’intera famiglia di derivati importanti: AMANTE, e AMASIO, AMENO e AMICO.

Dall’amico ci deriva il N-EMICO, applicando alla parola un prefisso negativo indoeuropeo.

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Si è detto che le lingue sacre non dovevano accontentarsi della meccanica formazione di antonimi a mezzo del prefisso an-/in. Questa brillante semplificazione, che con poca fatica raddoppia il vocabolario, è assai utile dove abbondano gli stranieri. Recentemente in Italia, i ciechi sono stati trasformati in “non-vedenti”: è una sterilizzazione che sembra rispettosa, ma in realtà chiude questi infelici in uno spazio ristretto e negativo. I non-vedenti sono persone-no. Un bardo “non-vedente”, come Omero, è goffo e sporcherà la moquette. Se l’Amore è non-vedente, sarà tutto un brancicare.

E nemmeno si può attribuire a queste neo-formazioni il valore di una lodevole franchezza. Perché la nuova struttura prolifera inaspettatamente nella doppia negazione, e un politico o un economista ci farà sapere che la tal cosa “non è impossibile”, “non è inattesa” “non è inadeguata”, o che la sua è una “non-vittoria”.

Conforta il poeta il pensiero che l’opposto della dolcezza d’amore sia, nella lingua mediterranea, l’AMARO: non la sua negazione meccanica, ma il fondo, che allappa, di un vino troppo denso.

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B come “bacio”

“Da mihi basia centum, inde mille, inde centum...” Così il poeta veronese Catullo sollecitava la sua amante qualche decennio prima di Cristo. Che è quasi buon italiano, ma latino non troppo ariano. La contabilità sì (“centum”), è indoeuropea, ma i baci sono privi di connessioni attendibili nelle altre lingue ariane. In quanto all’atto del baciare, esso era noto pure alla civiltà patriarcale, e designato col termine “osculum”: da “os”, la bocca, più un suffisso diminutivo. I senatori osculavano. Il bacio del senatore però non è passato nel linguaggio di oggi: il bacio dei suoi servi mediterranei da tremila anni resiste.

La lettera B offre una notevole abbondanza di vocaboli mediterranei nelle aree semantiche dove il linguista si aspetta i relitti del substrato.

Nell’area della flora, la lingua italiana ha ereditato dagli idiomi mediterranei bacca (con baccello, bacillo e bacheca), balaustra (che anticamente era il nome del fiore del melograno nel cui cuore c’è una specie di colonnina simile a quella delle balaustre), borra (originariamente = “ceppo d’albero”), bosso, brèntine (una specie di cisto), bronco (nel

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senso di cespuglio e delle diramazioni bronchiali), brusco (nodo del legno, e poi foruncolo ossia bruscolo e brufolo), e buccia.

Per quel che riguarda gli animali, l’elenco delle parole probabilmente pre-ariane contiene becco (ossia il capro selvatico) e stambecco, e poi belva, bestia, biscia, blatta, il serpente boa, il bricco (o montone) e il brocco (o creatura dai denti sporgenti) e poi bordone (penna d’uccello, germoglio, e bastone del pellegrino, e mulo da trasporto), bruco, e inoltre branca (cioé zampa), e probabilmente balena.

Il proletario agricolo impose ai padroni ariani i termini relativi agli strumenti di produzione: così in italiano troviamo il badile (derivante da un tema mediterraneo BAT, cioè recipiente di grande di grande apertura, da cui sbadiglio), e la barra. Quest’ultima indicava originariamente un muro di argilla (e oggi, all’Elba, un muro non crolla, ma “barra”), e più tardi ha voluto dire “contrafforte, o sostegno, o impedimento”, cioè “sbarramento” e “sbarra”. Il basto, che era ed è il sostegno per ciò che si carica sulla groppa dell’asino, è diventato il carico stesso, (anche nel Rajàsthan basto è una misura di carico) da cui basta!, ossia, “il carico è completo”. E’ emozionante scoprire che questa esclamazione è valida in tutta l’area compresa tra Torino e Delhi, battuta da ininterrotte carovane di venditori ambulanti: forse da prima che gli ariani arrivassero.

Alla stessa radice appartiene il bastone, termine non ariano, sebbene in mano ai padroni. Ma il bastone = è il “sostegno per eccellenza”, non è nato come alternativa alla carota.

Mediterraneo è il timone dell’aratro, o bure, come forse la borra, o lana greggia: il verbo artigianale sborrare, con un prefisso estrattivo decisamente indoeuropeo, sta a dimostrare l’avvenuta fusione tra la cultura indigena e quella dei conquistatori.

Stupisce, data la passione dei pastori per gli incendi dei boschi, scoprire che non è ariano il termine brusa =”bruciatura delle foglie”, con tutta la famiglia del verbo bruciare: brusta la brace, e bruscare e abbrustolire e, per una curiosa di associazioni di idee, il busto (del defunto cremato).

Non stupisce scoprire che sono termini indigeni e pre-latini bótte e bottiglia, bòccia, bòtola e brocca: data la costante familiarità dei mediterranei con vini e cantine. Un’altra tribù pre-ariana domiciliata sulle alture ci ha lasciato la bàita (rifugio di montagna). Il berretto deriva da un latinizzato ‘birrus” = il mantello, e ha dato origine agli ammantellati sbirri, parecchi secoli più tardi (ma sempre birri all’Elba).

Mediterranea è la bugna, recipiente panciuto, da cui, in architettura, si è ricavato il termine tecnico bugnato. Mediterranea è la bilancia (da un tema LANK, il piatto), già allora probabilmente truccata... e anche la nobile bùssola, prezioso strumento scientifico medievale che aveva in comune, con l’urna in cui avvenivano le votazioni, la materia prima: il legno di bosso.

Ovviamente, con tanto mare intorno, è probabile che dobbiamo ai mediterranei i termini per barca (e burchio). Al tempo delle guerre puniche i Romani scoprirono che il loro destino era e sarà sempre sul mare: e così rispolverarono l’antichissima e nobile indoeuropea “nave”... e i mediterranei furono rapidamente declassati al ruolo di scaricatori di porto. Infatti secondo il Devoto baiulus, ossia “il facchino” è un termine indigeno, derivato probabilmente da una radice BAI = “sostenere”, che ha dato bàlia (la

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portatrice del bambino), baggiolo = il sostegno, e baglio, che è la trave di sostegno del ponte delle navi.

E’ una gloria indiscussa dei romani la rete stradale che collegava tutto l’impero, e così i ponti, i teatri, e le mura: lavori pubblici colossali, eseguiti, naturalmente, da una manovalanza di non-cittadini. Così si spiega il gran numero di termini privi di connessioni evidenti con le altre lingue indoeuropee, relativi alla natura del terreno e alla canalizzazione delle acque, che sono entrati in italiano attraverso una latinizzazione sommaria, come: balma = riparo di roccia, grotta; baluginare, da balux = sabbia aurifera in iberico; balzo, imparentato con balza, bàlteo, e balzello (l’imposta ahimé rimasta costante nella storia d’Italia, così detta perché colpisce a balzi...). Balzo potrebbe derivare dall’etrusco, in cui aveva il significato originario di “ripiano” (vedi le balze).

Secondo il dizionario del Buck, non-ariana è la baia, e secondo il Devoto non è ariana la bòdola o fossato, in cui cresce l’erba di palude o biòdo. Bòdola è un termine caduto in disuso, ma dalla radice mediterranea BODO deriva il nome ligure del fiume Po: Bodincus, ed anche il suo nome leponzio, Padus.

Molto noto, fino a pochi anni fa, era il nome dell’erba betònica, che cresce in luoghi ombrosi, per cui si usava dire: “conosciuto come la betònica”. Il borro, il botro e il burrone sono entrati in latino dal greco, ma non hanno connessioni in altre lingue ariane e dovrebbero essere pre-ariani. Dal genovese bratta = “fango”, si ricostruisce un’origine mediterranea per il verbo imbrattare (il prefisso è indoeuropeo).

Brattea vuol dire lamina di metallo, oppure indica la foglia rigida che protegge il fiore: ed è parola priva di connessioni evidenti con altre lingue ariane.

Non vi è dubbio sull’origine non ariana della brenta,= roccia di forma arcuata; del bricco = rilievo dirupato e puntuto, da cui è derivata la breccia (nel senso non di “buco nel muro”, ma di “pietra frantumata”), assieme al brecciame, al brecciolino, e anche alla brìccola (nome dato ai pali che, nella laguna di Venezia, segnalano una secca).

Pre-ariano è il nome della breva, che dà i brividi, e della brezza, più gentile. I baci (più o meno blandi) delle donne mediterranee, escluse dalla vita sociale,

beavano i loro amanti, romani e no. Però la maggior parte del tempo delle donne era impiegato a badare ai bambini (da un supposto verbo mediterraneo batare = “stare a bocca aperta”), o in cucina a bruschettare il pane. Per nostra fortuna, tuttavia, le balie, come gli altri servi e artigiani, un’ora di libertà la trovavano... e così ci hanno lasciato il verbo ballare.

C come casa

Secondo il Devoto, non sarebbero ariani con certezza nè la casa, nè il campo, nè la capanna, nè la calce, nè il cantiere, nè il cardine, nè il cuneo, nè il cunicolo... (Neppure la catena deriva, in italiano, dal linguaggio originario dei padroni del mondo.) Eppure i latini e gli altri italici avevano da molti secoli superato lo stadio delle tende di pelli e di feltro,

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al tempo del loro arrivo in Italia, e già si segnalavano come costruttori, tanto è vero che “tetto”, “trave”, “vico” sono parole indoeuropee, come il latino “domus”.

I vocaboli sopraelencati, privi di connessioni attendibili con le altre lingue indoeuropee, dimostrano che (già prima del I millennio a.C.) i primi abitatori della penisola vivevano in case ben costruite, in mezzo a campagne coltivate, e che si rassegnarono a costruirle anche per i nuovi padroni, senza ovviamente mutare i nomi degli oggetti a loro familiari. Qualche volta, i due termini, indigeno e di importazione, sopravvivevano al fianco, con connotazioni diverse. Già Walter Scott aveva notato che in inglese gli animali domestici conservavano il loro nome sassone finché stavano nel cortile, affidati ai servi sassoni per l’allevamento, ma acquisivano un nome francese arrivando alla tavola dei baroni: allora “ox” diventava “boeuf” carne di manzo, “calf” diventava “veau” carne di vitello, e “swine” diventava “pork” carne di maiale. Così noi in italiano rispolveriamo il latino “equus” per i monumenti equestri e le medaglie di equitazione, ma per tirare un carro, o galoppare all’assalto si usiano sempre i cavalli, forse da un greco kaballes, cavallo da lavoro.

La lista dei termini relativi a piante, di origine quasi certamente mediterranea, è veramente lunga, e comprende non solo parole tecniche come il cacchio (germoglio infruttifero che il vignaiolo deve eliminare), ma nomi di uso quotidiano come cappero, cardo, cetriolo, cocuzza... e forse ceduo, ossia il bosco adatto al taglio, dato che le connessioni etimologiche del verbo latino caedere sono vaghe. C’è poi il cespo, con cespuglio e cespite, il quale ultimo, prima di interessare l’Intendenza di Finanza, significava, in qualche lingua della penisola, “zolla”. Alla lista si possono aggiungere quegli altri nomi legati alla flora, che hanno termini affini soltanto nel greco: cacto, carota, castagna, ciliegia, cipresso, cisto, cìtiso, clematide, cotogno, e la parola indicante il seme dei cereali: chicco. Il cìano (cianotico, cianuro) ossia il fiordaliso, vanta ascendenza minoica: kuwano (3) era a Creta un colore e una tintura.

Un interessante esempio della vitalità del substrato pre-ariano è la cicca = membrana bianca all’interno della melagrana, amarissima, e quindi da sputare, per cui già in Plauto troviamo la frase ”non vale una cicca” che precede di molto l’introduzione del tabacco.

Per quanto riguarda gli animali, sono di origine pre-ariana catello, tuttora usato in Toscana per dire “cagnolino”,camoscio, cicala, cicogna, cimice, colubra (=serpe, da cui cobra) e anche coniglio, più i termini derivati dal greco e probabilmente provenienti dallo stesso substrato mediterraneo a cui anche il greco classico ha attinto: cammello, cernia, colombo, corallo.

Pre-latino sembra essere anche chele = cosa biforcuta. E non dovrebbero esserci dubbi sull’origine mediterranea di camorra, che aveva il senso primitivo non di “banda”, ma di “gregge”, dal mediterraneo morra = mucchio, più un prefisso spregiativo “ca”, assai diffuso anche tra le lingue i.e., di “cacca”, che appare in altri composti, come camuso e camuffare. Persino coda è “di origine rustica”, dice il Devoto, e privo di affinità con i vocaboli i.e. corrispondenti.

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Nell’area semantica relativa alle forme del paesaggio, troviamo le parole pre-ariane cala, calanco = frana, calestro = sasso, chiana = acqua stagnante, (che è di origine etrusca, e con ampliamento dà Chianti), chiavica da un mediterraneo KLAVA = scarico di rifiuti, (da cui Chiavari), che ha influenzato anche cloaca, cerro = montagna, cocuzzolo e croda = guglia di roccia. Quest’ultima parola è di origine nord-orientale, ovvero euganea. Per cocuzzolo Devoto ricorda il tema KUKKA, “vertice”, attribuibile a uno strato “paleoeuropeo”, cioè a una specie di vocabolario di base primitivo, i cui relitti sono dispersi su un’area vastissima (4) .

E’ interessante scoprire che non solo la coda, ma anche il còdice è privo di connessioni attendibili, il che significa che non vi erano radici i.e. a cui attingere per una neo-formazione. Del resto gli stessi legionari romani adottarono termini mediterranei per designare parti delle loro armi, come cocca (la tacca in cui si incunea la freccia). “Freccia” è parola ariana di origine germanica, ma i romani usavano il termine “sagittà, che in italiano ha dato “saetta” e che potrebbe essere di origine etrusca (un intero ramo della scienza aruspicina etrusca si occupava dei fulmini). Cùspide, ossia punta di lancia o di freccia, è pure di origine mediterranea,come càsside (elmo), che deriverebbe dall’etrusco.

Si è già notata la povertà della lingua italiana per quel che riguarda i gesti: non stupirà quindi che cenno derivi da una lingua non ariana e che lo stesso si possa dire per claudicante, zoppo. Scarsa doveva esser anche l’attenzione ai colori, dato che cesio = verde grigio, non ha connessioni i.e.. Da una radice KUL derivano (caligine e colombo). KUL ha il significato di “nero” dalla Turchia alla Nuova Zelanda. Si noti anche la frase idiomatica spagnola: “oscuro come il collare della colomba”.

Agli schiavi domestici siamo debitori per l’introduzione in latino dei termini da cui son derivati cacio (oltre al cascino, strumento per fare il formaggio) e cassata: gli invasori, come molti popoli asiatici anche ai nostri giorni, non conoscevano l’arte di trasformare il latte in formaggio. Il Buck mette cacio in relazione con il sanscrito “Kvath” = bollire, però in India non si mangia formaggio. La maggior parte degli arnesi usati in cucina aveva nomi non ariani, e da questi sono arrivati a noi la casseruola e il catino, forse il canestro (forse da canna), il ceppo, il cibo stesso, la cogoma/cuccuma; il colìno con tutta la famiglia del verbo colare e fuor di cucina la cazzuola e la coltre, e senza dubbio la croce (tema mediterraneo KRUK). Mediterranea è anche la carena delle barche. Il cerino, poi deriverebbe dal cretese cerinthos = testa di ape. CER/CAR era la dea delle api micenee.

Una radice estremamente produttive, priva di connessioni ariane attendibili, è quella di KALK = il calcagno, da cui derivano la calza e la calìga, e ovviamente i calzoni. E ancora il calcio e il verbo calcare = pestare coi piedi, da cui il calco e la calca, dove si sta pigiati, e rocce calcaree, compatte e pressate, e la calce che se ne ricava.

KALK potrebbe essere l’ampliamento di quella radice non ariana KALA/GALA, il sasso, da cui son derivati il già citato calestro (galestro) e calcolo, il sassolino. Gli antichi, Pitagora incluso, facevano i conti con i sassolini, per cui la parola moderna è solo apparentemente astratta. La diffusione di KAL (= sasso = coltello) è forse superiore a quella di qualunque altra radice: e se si pensa che l’arte di scheggiare i sassi è stata la base

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di ogni civiltà, c’è da domandarsi se questo non sia l’indizio di una antichissima unità di tribù più progredite delle altre. Sembra ovvia una derivazione di callo, e forse calle dalla stessa radice.

Celibe è parola non ariana: un maschio non sposato era un “diverso” nella Roma antica, come in India oggi.

Le donne mediterranee hanno conservato per noi molti vocaboli relativi al corpo e al sesso: la cerussa o belletto, (da cera), il cirro, o ricciolo, la cicatrice, il cimurro, la cocolla o cappuccio, il covile, la covata, il verbo cubare, e la culla, da cunula.

Non meraviglia che la culla derivi dalla lingua delle nutrici, ma stupisce che un bel termine indoeuropeo, patriarcale e legale, come “testicoli”, abbia avuto per 3000 anni al fianco il mediterraneo (plurale) coglia con il relativo accrescitivo, che ha poi avuto una grandissima fortuna in tutte le lingue romanze (mentre il non ariano cazzo sembra essere una metafora puramente nazionale) da caza, cazza = mestolo, tuttora vivo in veneto.

Quanto al culo, esso merita una disquisizione a parte. Di tutte le lingue indo-europee a parte le lingue romanze in cui troviamo termini derivati dal latino culus, soltanto l’irlandese conserva una forma simile, Kul, che però indica la nuca, cioé “la parte posteriore del collo”. Nel dialetto lombardo, che è a base celtica, esiste il termine “col” per “collo” (il “collo” è certamente ariano, e imparentato con il tedesco “Hals”) mentre il culo, in lombardo, è cu.

In latino non c’è possibilità di equivoco tra “collus” e “culus”, per cui si può fare l’ipotesi che culus derivi da una lingua mediterranea, tanto più che la radice si ritrova in cul di sacco, culo di bottiglia e rinculare, oltre che in frasi idiomatiche volgari come prendere per il culo, nel senso di “beffare” e “ingannare”, che contiene chiare allussioni sessuali. Inspiegabile invece, a prima vista, è la frase avere culo, nel senso di “avere una fortuna sfacciata”, “avere il mana”.

Una spiegazione possibile è fornita dall’idiome inglese “to have kudos”. Si tratta, si noti, di forma “colloquiale”, ossia che si riscontra nella lingua parlata piuttosto che in quella scritta: cosa veramente singolare, dato che, senza possibilità di equivoci, la frase deriva dal greco omerico, e kydos da 3000 anni significa, “gloria, carisma” ma anche, proprio “fortuna di origine magica”, qualcosa di analogo al MANA. E’ possibile che, così come Odisseo divenne Ulisse, il kudos sia stato trasformato in kulos, venendo a coincidere con un termine sguaiato-comico, per la gioia dei semplici. Del resto la sostituzione di l per d in latino è normale.

Oggi è impossibile immaginare quanto invalicabile sia stata per secoli la separazione tra il mondo della cultura scritta e quello degli analfabeti. Le ingiurie e le oscenità gridate per secoli, sono spesso sopravvissute proprio attraverso la cultura orale: l’emarginazione è stata la miglior difesa che i diseredati potessero avere. L’analfabeta stava su un imprendibile Aventino, sicché non c’è da stupirsi della sopravvivenza di un simile fossile.

Oggi le maggioranze sono impotenti a difendersi dalla invadenza culturale delle élites. Oggi non è più necessario tagliare la lingua a chi parla un idioma che si vuol sopprimere: basta assordarli con gli spot televisivi.

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D come dolo

Sono pre-ariani il dàino e la damma, derivati da lingue alpine, e il dòlio, grande recipiente di terracotta in cui si conservavano olio, vino e cereali.

Mediterraneo è il delfino, legato alla mitologia del mare. Ariano è invece il “dito”, che insieme a “donna”, “domare”, “destro” e “dare” fa

parte dello scarno patrimonio lessicale ariano alla lettera D. Pagine e pagine, infatti, sono dedicate ai composti con “de-” e “dis-”. Non ariano sarebbe “dilettare”, da de-lacere = attrarre.

L’etimologia di dolce è dubbia, come quella di dolore. Il disco e il desco (da quello derivato) hanno forti probabilità di essere mediterranei. Il disco in età storica era usato nei giochi atletici (per esempio, in quelli in memoria di Patroclo), ma deve esser ben più antico della Iliade: la mitologia ci dice che Apollo uccise Giacinto con un disco. Giacinto appartiene allo strato mitologico greco più antico, e il disco era usato come arma: stranamente, si sono trovati piccoli dischi di bronzo in tombe laziali femminili. In India troviamo un simile uso del disco come arma da getto: ma il nome “chakra” che lo designa è schiettamente i.e. (.5).

Dubbia resta l’etimologia di dovizia, da dives, il ricco: meno dubbi ci sono per il dolo, il quale, ahimè, è assai antico nel Mediterraneo, e ha una forma parallela nel greco omerico.

E come erba

Troviamo alla lettera E una lunga serie di composti con il prefisso estrattivo “ex”, derivato da una preposizione indo-europea.

Tra i termini non ariani si segnala il nome pre-latino della “quercia”: eschio/ischio. Interessante è il fatto che non abbia connessioni attendibili con altre lingue ariane l’erba, l’umile, comunissima erba, da herba, da GHERBA: una radice che ha dato anche gèrbido, termine piemontese che indica terreni brulli, e poco adatti alla coltivazione per mancanza di sali di calcio. Poiché gli invasori indoeuropei erano, e rimasero prevalentemente pastori per tutta l’età protostorica, è singolare che non sia sopravvissuto in latino un termine i.e. per l’erba.

Di grande impatto sociale sono tre parole estranee ai campi semantici usuali, prive di connessioni attendibili: èmulo, che però appare solo nel latino tardo, eguale ed equo. Si arriva al concetto di equaglianza, in latino come in altre lingue, attraverso l’idea di “superficie piana”, e infatti abbiamo il latino “aequor” = il mare (vedi italiano aulico equoreo). Uno pensa alle sterminate pianure erbose dell’Asia interna, e si domanda come mai esse non abbiano ispirato un termine ariano. Nelle altre lingue i.e. la radice più

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frequentemente usata è quella di SEM = uno (Sanscr. “sama”, inglese “same”, italiano “simile”).

Il che può significare che il concetto di equaglianza non era importante per gli ariani di una volta.

F come famiglia

Alla lettera F le parole italiane di origine non indoeurope sono molto numerose. Il segno grafico rappresentava una consonante mediterranea diversa dalla labiodentale F, in una lingua unitaria primitiva da cui sono derivati in italiano fico e falce, che in latino sono ficus e falx, ma in greco sykon e Zankle/Dankle

Nell’area semantica della flora abbiamo: fagiolo (nel caso che la forma greca da cui deriva sia indipendente da “fava”, come dubita il Buck), falasco = erba palustre usata come lettiera per il bestiame; felce; festuca; fungo; fragola, fibra; fimbria; frasca; frùtice, che vuol dire “arbusto” e non è in relazione con l’i.e. “frutto”; fronda; fusto che aveva il senso di “palo”. Forfora originariamente era la crusca. Frequente era un termine agricolo, col senso di “fitto, denso”. Folto ha connessioni i.e. poco chiare. Dubbia l’ etimologia di fieno.

Per quel che riguarda la fauna, sarebbero termini pre-ariani falco, favo (delle api), felino (che probabilmente indicava la martora), e fringuello, forse falena e foca, entrambi derivati dal greco.

Tra le forme del paesaggio, è indigeno il faraglione, da un tema mediterraneo FARA = roccia.

Grande è il contributo degli artigiani mediterranei: oltre alla falce, il fascio, che cambiò connotazione nelle mani dei conquistatori romani, ma in origine indicava un modesto e rurale involto, e aveva parentele poco imperiali come fascia, fascina e fastello. Termini non ariani sono anche finestra, fiòcina, fionda, fune, forcone e ahimè forca. Si postula un’origine semitica per il nome del ferro, sebbene, data la grande quantità dei minerali ferrosi dell’Elba, sia più logico supporre che il nome sia indigeno.

Ai cestari dobbiamo il fisco: originariamente una “cesta”, ma più tardi passato al servizio delle classi dirigenti come cassa statale.

Donne e servi ci hanno conservato il nome pre-latino del fuoco (da cui il focolare e la tassa detta focàtico), ben distinto da “ignis”; il fuoco sacro degli ariani, che ritroviamo in India come dio Agni e da cui l’Italiano aulico ha derivato “igneo”. Al fuoco è collegato anche l’acciarino o focile, da cui il fucile.

I servi, nella civiltà romana giuridicamente inesistenti, avevano conservato il nome pre-latino di famuli, che ritroviamo nei famigli di ottocentesca memoria. In conclusione, i Romani presero a prestito dai loro sudditi non solo la casa e il focolare, ma anche la famiglia che era, all’origine, il complesso degli schiavi, delle donne e dei figli di proprietà del paterfamilias.

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Senza rivalità con termini indoeuropei, dal linguaggio indigeno entrarono in latino e poi in italiano fame e fatica (da cui forse fesso), probabilmente febbre, con certezza faloppa (l’immondezza) e feccia: cose vili, i sottoprodotti della lavorazione dei cereali e del vino. Ed è logico che, guardando i loro padroni dal basso, i mediterranei coniassero un termine per l’alterigia dei ricchi (il fasto) e uno per il fastidio che essa provoca, anche quando i padroni non si armano di frusta o di flagelli.

Il funerale è entrato tardi nel latino scritto, in relazione a un funus, funeris senza connessioni evidenti, da cui è derivato funesto. E’ vero che le radici per “seppellire” e “cremare” sono ariane, però il funerale era una cerimonia elaborata, che includeva una processione con maschere nonché la rappresentazione teatrale delle imprese del defunto, ed è probabile che questa usanza sia stata mutuata dai costumi degli indigeni. Nel mondo mediterraneo, infatti, da sempre, l’amore dei vivi accompagnava alla tomba il defunto, che veniva sepolto con gioielli, armi e cibo, mentre è comprensibile che una tribù nomade non accordasse ai suoi morti tanta attenzione: a meno che non si trattasse di prìncipi per cui si erigevano tumuli, sarebbe stato difficile ritrovare il luogo della sepoltura.

Per l’arianità di fonte si cita il sanscrito DHAN = scorrere. Sarebbe un altro caso, come “ignis”, di parola che si trova solo a Roma e in India, due aree piuttosto lontane. Comunque, se la fonte è in relazione con DHAN resta da spiegare l’ampliamento in -t, assente in sanscrito. Inoltre alla fontana andavano ancelle (mediterranee), non senatori (ariani), e per conservarci la fonte c’è stato un andirivieni di donne per tremila anni. In Toscana si dice tuttora fonte, mentre nel resto dell’Italia si usa fontana, del tardo latino “aqua fontana”.

E c’è il problema della parola spagnola fuente: se derivasse da DHAN, anche fuente presenterebbe lo stesso inspiegabile ampliamento in -t.

Alla fonte si lavavano i panni, spesso affidati a uno schiavo detto il follone, che li pigiava con i piedi per estrarne il sudiciume, come tuttora si fa in Asia là dove i detersivi non arrivano. Follare significa infatti calcare con i piedi.

Trattando in questo modo i fiocchi di lana (che sono privi di connessioni i.e.), la massa si fa più folta. E grazie a una metafora analoga al già visto calca da calcare, si ottiene la folla da follare.

La “veste” (antichissimo termine ariano) di lana veniva indossata dal senatore, ma il fuso stava in mano alle sue donne. L’etimologia di fuso è oscura, però nelle altre lingue i.e., compreso il greco, il nome dell’attrezzo sta in relazione a un verbo come “torcere, girare, o filare”, mentre in italiano il termine è isolato e ha tutta l’aria di esser sopravvissuto dalle fasi più antiche, indigene, della lingua. L’attrezzo non è più di moda, ma dal rumore che faceva son derivate le fusa del gatto, e dalla forma i fusi orari. Anche le frange, altro prodotto dell’attività femminile, sono state poi modernizzate nella frangia oraria.

Alle donne dobbiamo gratitudine per la conservazione di termini relativi al corpo come fauce (con la normale estensione metaforica alla bocca del fiume, o foce) e fistola. Le donne indigene arricchirono il vitto degli ex-pastori con i piatti della sapiente cucina mediterranea. Dalla dieta ariana, cantata da Omero, di latte e carne arrostita, insaporita da bacche colte nei boschi, i latini passarono ai cibi farciti (6 ), ovvero imbottiti, alle

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focacce, alle fette di torta. Fetta è il diminutivo di un termine mediterraneo per “piccola focaccia”: aufa / offa / offetta. Vedi la frase, caduta in disuso assieme ai cani da guardia: “gettar l’offa a qualcuno”.(7).

Le donne gestivano le provviste, trovandole a volte friabili, o frolle e spesso fracide, come le olive lasciate a macerare per la lunga conservazione (da cui oggi fradicio). Nè c’è da stupirsi che, con tutta quella roba in fermentazione attorno, le donne ci abbian lasciato in eredità termini mediterranei come fètido e fetente, che con tanti piatti da fregare abbian coniato il sostantivo fretta, (caratteristica della casalinga supersfruttata), che ahimè, come nota padre Dante, “l’onestate ad ogni atto dismaga”, intendendo per onestà la serenità di chi non è assillato da troppi doveri.

E a volte le donne cercavano una rivincita da schiavi, la rivincita dei frustrati: la frode (tuttavia per quest’ultima si potrebbe presupporre la radice i.e. DHREUGH = mentire). Solo una volta all’anno c’era un periodo di festa (etimologia dubbia), in cui era possibile invertire i ruoli sociali normali, ed era il periodo dei Saturnali, in dicembre.

C’era poi, come sempre, la valvola di sicurezza di quelli che sono politicamente impotenti: fottere, dal latino futuere, che è entrato in tutte le lingue romanze, mentre solo in italiano è restata la mediterranea fica..

La lettera F, così produttiva di termini non ariani, ci fornisce anche una parola di grosso impatto sociale, se è vero che la fine (il limite), è priva di connessioni e non ha niente a che fare con “figere” = fissare, come suggerisce il dizionario Ernout-Meillet. Certo il concetto di confine doveva essere piuttosto elastico nella cultura originaria dei nomadi, anche se un millennio più tardi appresero benissimo ad usarlo. Non per nulla Remo fu ucciso perché aveva oltraggiato il solco di confine.

Tante sono le parole mediterranee in queste poche pagine che viene la curiosità di controllare le parole ariane. Queste derivano per lo più da radici i.e. in BH, o DH, e sono importanti: “fabbro fama fare favella fingere fiore fiume frutto fratello fumo...”

E ci sono anche i “figli”, ossia, gli allattati, da un verbo latino non sopravvissuto, “fere” da DHE(I) = allattare, e si scopre una metafora da lasciar di sasso le donne liberate: “felice” può esser solo una “femmina”, perché “felice” per gli ariani, originariamente, era “colei che allatta”.

G come governo

Le piante i cui nomi indigeni sono passati in Italiano dopo una sommaria latinizzazione sono: gaggìa, genziana, gìgaro, giglio, giacinto, giunco, giuggiolo, ginestra, glicine. Mediterraneo è il termine galla, (una deformazione della superficie della foglia) da cui deriva “stare a galla”.

Tra i nomi di animali ricordiamo gabbiano (detto anche gavina), gambero, gazza, ghiozzo, ghiro grongo, nonché giuba = criniera, da cui è venuto giubba.

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Per quel che riguarda la natura abbiamo il già citato galestro (=ciottolo, oggi noto nome di un vino secco), greppo (= pietra, parente degli istriani “grèbani” e veneti grèvani, e poi ghiaia o grava, gravina e greto, gavone = il fosso, e forse goccia e certamente gora. Galena è il nome di un minerale di piombo, di alto peso specifico: un sasso, insomma (GAL) particolarmente pesante.

Dalla vita grama degli espropriati potrebbero essere entrati in latino e poi passati in italiano termini indigeni come gabbia, galletta (il biscotto duro come un sasso), la gavetta o scodella (GAVA = infossamento), il gavòcciolo o bubbone. A un tema mediterraneo GABA = gozzo dobbiamo gavazzare = riempirsi il gozzo, e gavotta =danza dei gozzuti (così erano chiamati, con ariana simpatia, i montanari delle Alpi). Attraverso il latino ganeo = bettoliere, c’è arrivata ganza = la meretrice e ganzo il puttaniere. Gli schiavi passavano il tempo a gramolare non il ghiaccio, per fare le granite, ma le fibre del lino, come una mazza chiamata gràmola. Altri attrezzi erano i graticci, e le griglie prive di connessioni con le altre lingue ariane, così come le gromme e i grumi.

Di sospetta origine non ariana è l’antico termine garbo per “acidulo”, nonché il gotto, vaso a collo stretto, che vale per “bicchiere” a Venezia come a Barcellona (etrusco qutum, greco kothon). In tale contesto di gozzuti, bettole e pietrame, diventa patetica la presenza di un aggettivo come grande, di oscura etimologia, ma che ha rimpiazzato il latino “magnus” (radice i./e. *MEG(H). “Grande” però è arrivato fino a noi assieme ai più casalinghi grosso e grasso, e giunge appena a sfiorare Alessandro (che è rimasto per lo più Magno) e soprattutto non è mai entrato nella dignitosa Aula Magna.

Resta da segnalare la grondaia, che ha come antenato un latino grunda, passato dall’edilizia mediterranea a quella dei colonizzatori. Non i.e. dovrebbe essere l’aggettivo glauco (antico nome proprio cretese).

C’è poi un aggettivo che si presta a meditazione: “gaio”, che, nel senso di allegro, è entrato in Italia dal provenzale, e potrebbe, dice Devoto, essere in relazione con gazza. Gaio però era uno dei pochi nomi personali che venivano comunemente imposti ai bambini romani. Gaio, tanto comune da esser sopravvissuto nella formula ‘Tizio, Caio e Sempronio” (= gente da nulla, senza patronimico), ricorre nella frase rituale pronunciata dalla sposa romana, che suonava: “Dove sei tu Gaio, io sarò Gaia”. Senonché, pare da analoghe formule indiane, che il matrimonio non avesse a che fare con l’allegria: la fanciulla indiana infatti prometteva “ dove sarai tu, mio toro, io sarò la tua vacca” (da un tema i.e. GWOUS = il bovino). Antichissima e venerabile formula, dunque, anche quella romana, che ci riporta al tempo in cui i nostri antenati mandriani avevano per le vacche lo stesso rispetto degli indiani, che le considerano sacre e semidivine.(8) E uno stupisce della strada che ha percorso la arianissima “vacca” in italiano, dal talamo coniugale ad assai meno rispettabili giacigli.

Ovviamente i popoli pastori adottarono in blocco la terminologia mediterranea rispetto alle cose del mare. (In India un Bramino non può viaggiare per mare: perderebbe casta all’istante). Così il latino fu imbottito di termini marinareschi non ariani, come garello = galleggiante per le reti; gavitello, giava = rispostiglio di bordo, forse grippia = grossa fune, e infine, più importante di tutti, dal greco, governo, ovvero il timone.

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Dal quale è disceso il tipico modo di governare italiano, privo, come dice il dizionario, di connessioni attendibili, ma assunto indipendentemente dallo stesso substrato sia dagli Elleni in Grecia che dai Romani in Italia: l’arte, insomma, del galleggiare in gran tempesta.

I come isola

Tra le piante mediterranee sconosciute, gli indoeuropei trovarono l’ibisco e l’indivia, tra gli animali l’istrice. E forse è mediterraneo il nome, simile anche in greco, della sanguisuga: irudine.

L’ibridazione è un processo complicato attraverso cui l’agricoltore esperto ottiene nuove e più produttive varietà di animali e piante. Certo gli ariani dovevano aver fatto esperienza di incroci tra gli animali che allevavano: comunque il termine ibrido deve essere pre ariano, dato che ha affinità solo con un termine greco col significato di “bastardo”.

Istrione è una delle poche parole di cui sappiamo con certezza che deriva dall’etrusco. Sconosciuta invece è l’etimologia delle Idi, giorno festivo che poteva cadere il 13 o il 15 del mese, e che forse originariamente coincideva col plenilunio.

Il latino scientifico contiene il termine ilia, di etimologia sconosciuta, che indica le ossa iliache, dell’anca. Non è certo connesso con ilo, termine specializzato che indica il filamento dei semi delle fave, ma che non sembra in relazione con “filo”, parola indubbiamente indoeuropea, ma con hilum, hila, hire = tubo intestinale.

Indugio aveva un primo significato di “tregua”, dal latino plurale indutiae: è possibile che “in-” sia un prefisso i.e., negativo, comunque la parola non ha connessioni attendibili. Altrettanto dubbio è il valore di in- in infula (= la benda di lana bianca del sacerdote durante il rito), che invece è intensivo nel termine familiare ingordo (dal latino imperiale).

Un verbo senza connessioni attendibili è inquinare, nel quale il radicale KWEI sarebbe però indoeuropeo, e avrebbe il valore di “insudiciare” (Devoto): non è dunque il caso di insistere per inserirlo tra le parole indigene.

Interessante è invece il caso di isola. Non ci sarebbe da meravigliarsi se un idioma formatosi nella steppa fosse privo di un termine per definire un pezzo di terra circondato perennemente dalle acque. Ci si aspetterebbe un nome del tipo del sanscrito “dvipa”, “tra due acque” o dello slavo “ostrov” = obu-strovu = con attorno la corrente. Si è comunque tentato di far derivare insula da “en sales” = nell’acqua salata, e si è detto che la parola era i.e., poiché il radicale SAL è comune a latino e irlandese, e lituano e tocarico. E tuttavia non c’è traccia di SAL in iranico, e in sanscrito “sara” è la polla di acqua viva, da cui il nome di “Sarasvati” = ricca di sorgenti, la dea della saggezza. In greco poi, hals è l’unico sostantivo con un tema in -l, e potrebbe essere pre-ellenico.

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La diffusione di SAL in tutta l’area indoeuropea non significa necessariamente che questo radicale sia indoeuropeo, trattandosi di una merce che aveva valore di scambio, e che ha sostituito per millenni la moneta nell’interno dell’Africa. Forse dalle rive del Mediterraneo partivano carovane che portavano il sale verso l’Asia interna, mentre l’Iran e l’India potevano sfruttare le saline dei mari prosciugati interni e dei mari tropicali.

Sempre che insula abbia a che fare col sale. Un‘altra teoria, infatti, sostenuta da Ernout-Meillet, è che sia imparentata col greco nesos, dorico nasos, che rifletterebbero una parola egea a tema NASA, NSA. (vedi Dodecaneso). Vedi anche, vicino a Capri, l’ isoletta di Nisida.

Insula deriverebbe da un originario *nisula, *inisula. E qui viene a mente che in Indonesia abbiamo proprio lo stesso radicale per “isola”: nisa/nusa... L’Indonesia è lontana, ma le lontananze non fanno paura ai marinai. E torniamo ancora una volta all’ipotesi del “nostratico”, ossia di un complesso di lingue diverse ma serialmente connesse da contatti commerciali.

E il nome dell’”Italia”? L’”Italia” è il paese dei vitelli, ossia delle bestie che han compiuto un anno, di proprietà degli ariani. Terra di conquista il cui nome pre-ariano si è perso. E tanto per completare le contraddizioni, originariamente si chiamava Italia quel che oggi è la Calabria da Lagonegro in giù ...

L come lècito

Molti sono i nomi derivati da lingue pre-ariane, riguardanti la vegetazione: laburno, lambrusco, lampone, lantana, làppola, làrice, làttice (il tema qui è LATEX, non LACT, e quindi non c'è relazione con latte), làudano, lauro, leccio, lente (lenticchia e lentiggine), libro (che originariamente, e tuttora in gergo botanico, indica lo strato del tronco che sta immediatamente sotto la scorza), ligustro, loglio, loppa, lupino, luppolo e, dal greco, lichene e loto. Mediterraneo sembra anche il letame, che significa letteralmente ciò che rende fecondo e allieta il campo. Lieto, infatti, è privo di connessioni attendibili.

Per quel che riguarda la fauna, non trovano connessioni attendibili nelle altre lingue i.e. lampreda, larva, lepre, libellula, e forse anche lince, luccio, lucertola. Secondo il Buck il leone dovrebbe essere aggiunto alla lista, nonostante la universale diffusione in Europa. Sarebbe entrato in latino, germanico, celtico e baltico e slavo dal greco, e il greco l'avrebbe preso a prestito da una lingua pre-ellenica. Il fatto che in sanscrito troviamo un termine completamente diverso, SINHA, (che pure ha avuto, ma verso il sud-est, una grande diffusione), fa pensare che leone sia un termine egeo o anatolico.

Lacca è una parola che si segnala come mediterranea per il suo vocalismo, e indica un tumore da cui sono normalmente affette le gambe delle bestie da tiro, e quindi la coscia dell'animale e la natica dell'uomo. E ci sono paralleli a Creta per la voce lacca nel senso di “valletta” che è il senso del toponimo Lacco Ameno. Nel senso di vernice, l'origine è orientale.

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Per quel che riguarda la conformazione del terreno, non hanno corrispondenze nelle altre lingue ariane lagno = fossato, lama = pantano (cfr. Lama dei Peligni), lanca = ansa di fiume, lastra, lavagna e lido. E' singolare anche la mancanza di connessioni di un sostantivo astratto come luogo, che ha avuto tanta fortuna nelle lingue romanze, sviluppandosi dal latino locus. Da lingue indigene dovrebbero derivare anche limite e limine (= soglia), e l’aggettivo subliminale.

Come al solito troviamo una lunga lista di termini relativi all'artigianato, che potrebbero esser stati immessi nel latino da lingue pre-indoeuropee. Certamente mediterraneo è il nome del labirinto, attestato a Creta nel lineare B (scrittura del XIII secolo a.C.) sotto la forma da-pu-ri-to. Sembra che, piuttosto che a una costruzione artificiale (attribuita dal mito a Dedalo), si debba pensare a un sistema di caverne e corridoi sotterranei. Il problema interessante, per quel che riguarda questo studio, è l'ipotesi del collegamento di labirinto piuttosto che con il lidio labrys = la scure, con il licio labra = la pietra e forse con il greco *LAUR (9), che sta alla base di innumerevoli toponimi sia in Italia (da Laurìa a Laurentum), che in Grecia. In Grecia il toponimo più interessante è quello delle miniere del Laurion (presso Capo Sounion) di piombo e argento, famosissime nell'antichità e sfruttate fin dal 3000 a.C.. Esse sono un autentico labirinto di gallerie. Quel che è certo è che Laurion non ha a che fare con l'alloro (in greco daphne/laphne), ma piuttosto con il lavoro forzato.

Il quale “lavoro” vien fatto derivare dal Devoto come dal Buck da “labor” (fatica, pena) da “labi", scivolare e cadere, = ossia star chino come uno che sta per cadere: cioè da una radice indoeuropea. E tuttavia “spaccar pietre in una miniera” sembra una metafora più espressiva per un travaglio che non “scivolare e cadere". Laborare, poi significava anche “partorire”, un travaglio in cui la donna non scivola e non cade, ma si fa una sfacchinata da minatore.

E' pressoché impossibile indicare con certezza gli esiti fonetici di sillabe arrivate a noi da lingue di cui conosciamo pochissimo, trasmesse mediante alfabeti approssimativi, e passate da una lingua antica all'altra per bocca di schiavi e marinai analfabeti. Comunque, l'etimologia proposta per lavoro non sembra convincente. Anche lapide (con lapillo e lapidare), originariamente “la pietra", è priva di connessioni al di fuori del latino.

Pre-latino è il termine lacerna (= mantella con cappuccio), e così pure il tema LANK di bilancia.

Mediterranea è la lastra, così come la latta e il laterizio ovvero il mattone. Non ha connessioni il lembo della veste, nè le hanno il liccio (da cui tra/liccio) = la parte del telaio che solleva i fili, nè la lima, nè losco, con un suffisso di mancanza -co.

Etrusco è il nome del lanista (padrone di una scuola di gladiatori) e c'è da temere che mediterraneo fosse il lenone. Dal cortile e dalla cucina ci arrivano la lite e la lotta, con cui gli infelici sfogavano la frustrazione. Il legionario invece “pugnava": un'attività non tanto sublime, dato che in pratica significa “prendersi a pugni”. Anche lagnarsi denota atti scomposti e violenti: il senso originario è graffiarsi nel parossismo del dolore (vedi dilaniare).

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Nel cortile si immagina anche che siano nate certe valutazioni approssimative di grandezza, come largo (e stretto) privo di connessioni: invece “lungo” ha echi in tutte le lingue ariane.

Nel cortile i bambini giocavano alla lippa, mentre in cucina le donne si davano da fare con il lardo e le lasagne. Lasagna deriva dal greco, e poteva indicare la teglia in cui la pasta cuoceva, oppure lo strato di cera che si cola nello stampo nella tecnica metallurgica detta “a cera persa": da cui, poi, una pietanza stratificata.

Riguardo a libare troviamo solo in greco un verbo affine con il senso di “versare goccia a goccia": ciò che sembra indicare una raffinatezza, una misura nel gustare, che evoca le figure sorridenti sedute a banchetto sopra i sarcofagi etruschi. Uomini e donne assieme, naturalmente: pratica che i Romani condannavano, bollandola come una delle molte dissolutezze degli etruschi. Trattandosi perciò, nella Roma repubblicana, di banchetti per soli soldati e militari in pensione, viene il dubbio fondato che essi piuttosto tracannassero (canna viene dal greco, con possibili derivazioni dal fenicio) e che per questo tipo di commensali i mediterranei che li servivano abbiano coniato l'aggettivo non ariano lurco = “che mangia a crepapelle", che il Carducci applicava con gusto ai tedeschi venti secoli più tardi.

La religione dei Romani era piuttosto sbrigativa: Giove padre, Giunone e Vesta, al principio, ma poi, ammesse a una a una a scanso di malocchio, tutte le divinità riconosciute dagli altri, a cominciare dall'etrusca Minerva e dalle divinità agresti, per finire con Cibele, Mitra e Iside. Per quel pò di suggestività che un rito deve possedere, i Romani attinsero a piene mani alla più alta cultura indigena della penisola, quella dei misteriosi etruschi, di cui una cosa è certa: che non parlavano una lingua indoeuropea.

Etrusco dunque era il lituo, bastone ricurvo degli auguri, oggi dei vescovi. Etruschi i protettori della casa romana, i Lari il cui sesso non era determinato (l'antropomorfismo è soprattutto ariano), tanto che a volte al loro posto troviamo le Lase.

Etrusca era l'idea delle anime dei morti che tornano tra i vivi (le larve, dette anche Lemuri). Il paterfamilias scongiurava debitamente i Lemuri in festività apposite, il 9, 11 e 13 maggio, gettandosi dietro le spalle 9 fave nere. Ovidio però dice che le feste Lemurie erano in realtà Remurie e l'anima da esorcizzare era quella di Remo, morto malamente.

Il Mommsen vede negli etruschi un popolo cupo, notturno, dalla mentalità contorta, da contrapporre alla solare latinità. Al contrario, da quel che è rimasto del lessico, e dal genere di vita che vediamo affrescato nelle tombe, si direbbe che gli etruschi praticassero quell'arte di lasciar vivere che è stata fino a poco tempo fa una caratteristica dei paesi mediterranei, e che ha il difetto, che purtroppo si è ingigantito, di traboccare facilmente nel qualunquismo e nella omertà o nella corruzione vera e propria.

Non per niente lècito potrebbe essere una parola mediterranea, dato che sopravvisse solo in latino e nella lingua osca.

Termine romano, come ci si poteva aspettare, è invece la “legge", “dura lex": parola antica che si riferisce al rituale religioso, con connessioni indoeuropee sopravvissute solo in India tra i Bramini e in Iran tra gli ayatollah. Lecito e legge i due poli della latinità. E l’Italia in mezzo.

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24 novembre rivediamo questa roba SI RICOMINCIA SUL FLOPPY DALLA LETTERA L LA PRIMA PARTE E’ CORETTA SUL DISCO DURO M come moglie

Per ciò che riguarda la flora, abbiamo anzitutto il nome settentrionale della fragola, magiostra, le cui connessioni nelle altre lingue non ariane arrivano fino al paese basco. Legate a un substrato non indoeuropeo sono pure mace, mallo, malva, margotta, marrone (=prima la castagna e poi il colore), il marrubio (detto anche “erba sega” e usato come febbrifugo), la marruca che è il biancospino, e poi menta, mora (e anche la pianta, il moro, ossia il gelso, dal latino morus, mentre il Moro di Venezia deriva da “maurus", abitante della Mauritania), mugo (pino di alta montagna da cui si estrae il mugòlio); e poi, in comune solo col greco da cui derivano, maggiorana, melo, mandragora, mirtillo, e mirto, ovvero mortella.

Nel campo della fauna, il manzo potrebbe esser voce della cultura alpina (in concorrenza con l'i.e. “bue"), e forse non è ariano il maiale, che si usava offrire ritualmente in sacrificio alla dea Maia, che ha dato il nome al mese di maggio, (e può essere, o no, la più bella delle Pleiadi), ed era la madre di Mercurio, divinità non ariana.

Il maiale era sacro in Grecia a Demetra e in India a Durga, e le Pleiadi sono assenti dal cielo di maggio (poiché il sole è nel Toro, e le rende invisibili). Una devozione alle Pleiadi sarebbe ragionevole da parte di una comunità agricola, dato che il loro ciclo ha costituito il più antico dei calendari, determinando il tempo della semina e del trapianto. Non ci sono dubbi sulla pura arianità di “suino” e “porco".

Non ariano potrebbe essere il merlo, e certo non lo sono il milvo (meglio noto come nibbio), il mìtilo, la monacchia ovvero cornacchia, il muflone, ovino indigeno della Sardegna, e il mùrice, mollusco marino da cui si estraeva la pregiatissima porpora e la murena. Senza connessioni evidenti è midollo.

Per Devoto è certa anche l'origine mediterranea del mulo, sterile ma utile frutto dell'incrocio di una puledra di facili costumi (di proprietà degli ariani domatori di cavalli) con qualche sornione asino mediterraneo. Il termine muso sembra pure affiorato da un substrato mediterraneoma ha anche strane parentele con termini diffusi nelle lingue dravidiche e munda, ossia in India..

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Per ciò che riguarda le forme del paesaggio, sono pre-latini i termini: malga (pascolo montano), marino/smarino = scarico dei detriti risultanti dalla perforazione di una galleria, connesso con marna (= roccia sedimentaria, il cui nome originario pare fosse marga), e forse con marra =mucchio di sassi. Incerta è l'origine di mole, connesso vagamente solo con una parola greca indicante un lavoro faticoso anche in italiano ci si lagna per una “grande mole di lavoro”. La grave mora, o macigno, è mediterranea, come morena (mucchio di sassi), entrato in latino come murra. Un tipo speciale di ammucchiata è la e mediterranea camorra (vedi lettera C).

Pre-romana, benché i suoi malefici influssi si facciano sentire soprattutto nei dintorni di Roma, è la marrana, rivo o scolo di acque più o meno putride.

Mediterranea è la motta, originariamente 'cumulo di sassi", che attraverso un latino mutta ha dato come risultato in italiano il mucchio, oltre al nome della città di Modena e dei numerosi agglomerati urbani chiamati Motta, dalla valle della Livenza (Treviso) a Catanzaro. Anche in questo caso il mucchio ha suggerito la metafora dell'associazione: la Motta fu una società costituita nel XIII secolo da piccoli borghesi in lotta contro i privilegi feudali. Oggigiorno però il termine vive in italiano solo in senso negativo, nel verbo smottare. E finalmente abbiamo murgia = sasso aguzzo (le Murge) dal sopra citato mediterraneo mùrice, che ha due punte aguzze.

Dalla vita domestica ci sono arrivati, generalmente attraverso il latino tardo, termini connessi con lingue non ariane di cui non sappiamo nulla; come macchia, forse legata, come macco (=polenta di fave) e ammaccare e certamente maglia, a un mediterraneo MAKKA; e maceria, originariamente un muro di cinta rustico e non quel muro già crollato. In macerare secondo Devoto si rivela un tema *MACOS con corrispondenze solo nel greco masso= “io impasto", che poi si sarebbe evoluto in “argilla impastata” e avrebbe dato il tedesco machen e l'inglese make = fare (vedi Buck, op. cit.). Vedi anche magma, e, ovvio, le masse.

Macinare deriva dal latino volgare, attraverso il dorico makhanà, = “macchina, attrezzo", che in latino ha preso il significato specializzato di màcina. Ora è un fatto che la radice universalmente diffusa per le altre lingue europee, salvo il latino, è MELE, che ha dato nel latino stesso “mola” e “mulino", e in armeno “melen” = pestare, in lituano “malunas” = mulino, in russo “melnica", e in tocarico B “mely” = premere, schiacciare, oltre all'inglese “mill” e al tedesco Muhle". Viene naturale pensare, davanti a tanta unanimità, che un termine tanto diverso come macina sia entrato in dorico da una lingua indigena, tanto più che la coltivazione dei cereali aveva certamente preceduto l'arrivo degli indoeuropei.

E certo, alla macina non lavoravano i padroni. Se si tratta di un prestito, il prestito è molto antico, dai primi coloni della Magna Grecia. Anche l'italiano macchina deriva dal dorico machanà, ma è prestito più tardo, e ancora più tardo è meccanico, dall'Attico-ionico mechane (10).

Dal greco deriva molibdeno, un metallo raro, ma anticamente il nome del piombo. E’ strano ritrovare una quasi identica parola di ben quattro sillabe in Nuova Guinea, dove malabadi significa metallo.

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Anche la madia (e l'armadio che ne deriva) è connessa solo con il greco magis, magidos che vuol dire sia “pane” che “madia". Il termine ci è noto solo attraverso il latino volgare, ma si propone una origine mediterranea poiché gli indoeuropei non erano consumatori di pane al principio della loro storia.

Lo stesso dubbio , che cioè l'invenzione potrebbe difficilmente risalire a un popolo di tradizioni pastorali, viene a proposito del mànfano, cioè quello dei due bastoni del correggiato che serve per trebbiare o per sgusciare, battendoli, i fagioli: come usavano i piccoli proprietari fino alla seconda guerra. Anche il màngano, pure derivato dal greco, è una macchina, da guerra originariamente, che ruota attorno a un perno, come fa, dopo tutto, la mandibola che avrebbe connessioni “evanescenti", dice il Devoto, in qualche area. Forse è ipotizzabile un radicale non i.e. MAN(D) = “ruotare su un perno” da cui manducare e mangiare. Dopo tutto la radice più diffusa per “mascella” nelle lingue indoeuropee è GENU, “il ginocchio". (In sanscrito “hanu", in greco “genus” = mascelle e guancia, in latino “gena” = guancia. Gotico “kinnus” = guancia, e antico tedesco “chinnibahho" (11). Le parole sono differenti, ma l’associazione di idee è la stessa.

Interessante è anche masca, dal termine mediterraneo MASCA, che più tardi ha acquisito il significato di “parte prodiera del fianco della nave", ma aveva originariamente il significato di “guancia", e poi anche di “maschera” (e “strega"). Forse si potrebbe collegare alla masca la mascella, giunta a noi attraverso un latino “maxilla” che generalmente si preferisce collegare alla radice MAK (i.e.) di “macerare".

Certamente mediterranei sono la manteca = il burro, con il verbo mantecare, e forse il màntice, (da un tema MANTA, il mantello) anche qui si potrebbe identificare un movimento “a ginocchio". Dal tema MAPPA, abbiamo mappa, la carta geografica, che originariamente era la tovaglia, e da MARRA, la marra che è il nome della zappa in una differente lingua pre-ariana. Per marra si propone un'origine semitica, e si cita l'accadico “marru". Mediterraneo, anzi, paleosardo, è il termine mastruca = pelliccia. Mediterraneo è il mattone, da MATTA = stuoia (ma inizialmente “blocco di terra” o rivestimento in terra battuta). La matassa, che deriva dal greco, dovrebbe essere indigena, perchè riguarda un’attività femminile.

Priva di connessioni i.e. evidenti è la mazza, da cui ammazzare, e lo stesso vale per menda = l'errore, da cui l'ammenda e il rammendare, e anche il mendicante, poiché in genere chi aveva un difetto fisico era ridotto a elemosinare. Poi c'è l'aggettivo mite, forse collegabile, attraverso il latino “metius", a un termine poco usato mézzo, che vuol dire “molle e marcio". (Vedi più avanti la lusinghiera associazione di moglie...).

All’aggettivo miro = ammirabile, privo di connessioni attendibili fuori del latino mirus, fanno capo non solo la meraviglia, ma il verbo mirare e il mirino e il miracolo.

Mediterraneo è il suffisso -moia di salamoia, mediterranea è probabilmente la morchia, dal greco “amorge", ma importata anticamente in latino attraverso l'etrusco. Non del tutto certo, ma altamente sospetto è il muco, assieme al moccio e forse al mùggine.

Privo di connessioni attendibili, ma per motivi climatici quasi certamente mediterraneo è il mosto, da “mustus” = nuovo (vino nuovo): da cui moscio, che originariamente voleva dire “appiccicoso” (come il mosto).

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Per mutilare (con interessanti derivati come mozzicone e mozzarella), il Devoto ammette che il termine è privo di connessioni i.e., ma ne afferma la certa tradizione proto-latina: mutilus gli sembra una formazione parallela a “rutilus", che vuol dire “rosso splendente". Comunque, mutilare è senza dubbio una attività antichissima.

Anche facendo qualche mutilazione alla lista, bisogna dire che questi relitti del substrato alla lettera M sono veramente tanti. C'è poi la qualità di certi termini, sospetti di essere indigeni, che li rende particolarmente interessanti.

Merce, mercato (e Mercurio, il dio protettore dei commerci) derivano da un tema MERK- che non è indoeuropeo, e non sarebbero diventati parte integrante del latino se tra gli invasori ci fosse stata una classe di mercanti, ossia un regime economico con scambi frequenti. Il culto di Mercurio fu introdotto ufficialmente a Roma nel 495 a.C., l'anno della cacciata dei re, in un tempio fuori porta, sull'Aventino: la sua festa era celebrata alle idi di maggio (quella di Maia il 1° maggio).

Mantissa, che è l'aggiunta decimale di un numero, deriva dall'etrusco, lingua di cultura, precedentemente ai contatti con la Magna Grecia. Mediterraneo è il minio, che indicava indifferentemente il tetrossido di piombo (abbondante in Spagna) e il cinabro, solfuro di mercurio: ambedue sono rossi, ma il cinabro abbonda nei giacimenti del Monte Amiata (per esempio a Monte Labbro) e in quello di Allumiere (Grosseto), frequentato dai micenei. Comunque minio dovrebbe esser voce iberica (Basco amineà), e da essa derivano miniare e miniatura.

Marone è voce etrusca, indica il titolo di un magistrato di quel popolo, ed era il cognome di Virgilio. Priva di connessioni attendibili è la miseria, e così è la morra, passatempo dei miseri.

La moglie (vagamente collegabile solo con “mollis”, secondo il Devoto) deriva da “mulier” che originariamente voleva dire “donna”. (Per moglie” esisteva la parola “uxor”, da cui “uxoricidio", sicuramente ariano.) Il Buck, invece, è meno cavalleresco: dopo aver precisato che la parola “donna” porta “un valore emotivo che è soggetto a grandi fluttuazioni” (12), il Buck ci informa che nel caso che “mulier” derivasse dall'indoeuropeo mollis (Scr. mr- du-) con un suffisso comparativo (più molle di che?) il senso primitivo potrebbe essere inteso non già come “delicato, tenero”, ma con connotazioni oscene.

Ora, mentre è comune il caso di termini rispettosi che poi diventano denigratori (come è avvenuto in rumeno proprio per la parola muiere), sembra poco probabile che un termine offensivo venga nobilitato. Per esempio, in antico inglese “knave” vuol dire “paggio”, e in seguito, dopo qualche secolo di furti, “mascalzone”. Ma è assurdo che uno si prenda per paggio un mascalzone (parola ariana).

Il fatto è che nella Roma antica il matrimonio esisteva solo per i patrizi, e anche in seguito, fino al Concilio di Trento, i proletari non facevano contratti, ma si limitavano a convivere con la loro “donna”, (soprattutto nelle campagne), tanto più facilmente chiamata moglie in quanto la parola apparteneva al substrato linguistico dei diseredati (“donna” deriva da “domina”, la signora della casa). In seguito, coll'ascesa nella vita sociale delle nuove classi, mulier avrebbe potuto imporsi nell'accezione odierna.

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Auguriamoci che moglie derivi da un tema mediterraneo dignitoso, e non sia un sinonimo del mediterraneo fica...

Il “marito”, dovrebbe essere schiettamente indoeuropeo, da un tema MARI (=adolescente maturo per la procreazione) che in origine si riferiva indifferentemente a maschi e femmine. Per il maschio, (da mas, maris) Buck ammette una etimologia dubbia, tanto più che Maris, Marte era il dio etrusco della guerra. Per Devoto mas è parola antichissima, priva però di connessioni indoeuropee. Uno resta perplesso, comunque, trovando le stesse sillabe usate nello stesso senso di adolescente nelle lingue munda, nel bacino del Gange…

Qualche volta, parole non ariane sono state scelte per tradurre concetti estranei al latino. Prendiamo per esempio l’aggettivo mondo, da mundus = pulito, privo di connessioni attendibili, ma forse legato alla cultura etrusca (vedi anche mondina mondare e immondo). Come sostantivo indicava la fossa sacra, circolare, al centro di una città, attraverso cui si credeva che i morti potessero tornare in terra, e che veniva riaperta tre volte all'anno. E ancora mondo sta per universo, e vuol dire la terra e il cielo che le ruota attorno con tutte le stelle. Queste tre accezioni non sono contrastanti: sacra, e quindi “monda” era la fossa, e “puro ed elegante” si lega al greco “kosmé”. E come da questo si è ricavato il “cosmo”, così da “puro” si è ricavato il mondo, la meraviglia del creato.

N come negro

Per quel che riguarda la flora, da temi mediterranei derivano napo e navone, che indicano l'ariano “cavolo”; narciso, nardo, nasturzio, neccio (in castagnaccio), nepa = ginestra e nepitella = mentuccia, nonché nespolo.

Tra gli animali, è pre-ariano il nibbio. Per quel che riguarda la tecnica della navigazione e della pesca, ci sono arrivati,

attraverso il greco, naca, rete per la pesca a strascico, nassa = cesta usata per catturare pesci e crostacei sul fondo, e il vento Noto. Dalla tecnologia della tessitura viene nappa, fiocchetto di fili, per dissimilazione della m originaria, già incontrata in mappa = la tovaglia.

Certamente mediterraneo è il nuraghe, da un tema NURRA = il mucchio. Totalmente isolato è l'aggettivo negro/nero.

Alla familiarità delle donne col corpo umano, dobbiamo probabilmente la conservazione di neo (latino naevus) e di nàtica e natta.

Abbiamo visto che celibe non ha connessioni nell'area i.e.. Invece la parola italiana che indica lo stato civile corrispondente per le femmine è tutta ariana: “nubile”, che sarebbe la sposabile, la non ancora sposata, e non, come oggi si intende, la non sposata

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per niente. “Nubile” suona agli orecchi degli ignoranti come connessa con “nube”, e infatti è così. “Nubile” è “colei che può essere velata”, ossia, in pratica, avvolta in una coperta che ne soffochi le grida, buttata su un cavallo e portata via: un tipo di matrimonio, ammesso in India in passato, ancora recentemente affascinante per i Kazaki (ma punito al tempo dei sovietici con la pena di morte), che il Devoto seraficamente definisce “per raccolta, e impropriamente detto per ratto".

O come ozio

Nell'area semantica della flora, relitti delle lingue pre-ariane designano l'oleandro, l'orìgano, e l'ortica (da cui le sostanze irritanti). C'è poi l'olivo con l'olio che se ne ricava, prodotto fondamentale per l'economia del Mediterraneo fin dal tempo di Minosse.

L'olivo selvatico, con frutti piccoli e scarsamente eduli, è diffuso su tutte le coste del Mediterraneo, ma l'olivo domestico potrebbe appartenere a un'altra specie, secondo alcuni originaria delle pendici meridionali del Caucaso, secondo altri della Palestina e dell'Egitto. Non ci sono dubbi sul fatto che la parola olivo entrò in latino attraverso il greco elaiFa, termine che si trova menzionato per la prima volta in un testo cretese-miceneo.

Oppio viene dal greco: indicava, oltre al succo del papavero, anche il succo dell'acero, o l'acero stesso o il pioppo, attraverso un latino populus.

Non è certo che il nome dell'asino mediterraneo, l'onagro, sia pre-ariano (potrebbe aver a che fare con onos, in greco “il peso”: anche somaro viene da soma). Più certi i il nomi pre-ariani orca e ostrica.

Dalla tecnologia domestica ci sono arrivati i termini mediterranei dell'offa o polpetta (con offella = pasta dolce) nonché di orcio e otre. Ordito è la serie dei fili longitudinali che si ordiscono sul telaio, tra cui vanno inseriti i fili orizzontali della trama. Da ordito derivano il filo orsoio, forse l'ornamento, certamente l'ordine. (Un contributo inatteso dalle lingue del substrato a strutture imposte dai conquistatori.)

E' privo di connessioni evidenti ogni da omnis, che oltre a ogni, ognuno, voleva anche dire “tutto, intero”. Altrettanto importante è orbe = “circolo, globo, mondo”, che sembra affine soltanto ad urbe, priva di connessioni attendibili. Infine l'Orco, sede dei morti, è pure privo di connessioni attendibili nell'area i.e..

Altrettanto isolata è l'orina/urina, una delle tante parole relative alla fisiologia che, sopraffatte da termini ariani (la radice più comune, anche in greco è *MEIGH, da cui “mingere”) sono poi ricomparse come termini scientifici.

Ma forse la parola più interessante presa a prestito dal substrato non ariano è ozio, che certo non ci è stata tramandata da generazioni di tessitrici e cuoche. L'ozio deve essere entrato in latino per bocca di quei notabili pre-ariani che avevano denaro e potere, e che, lasciato il patriottismo ai diseredati, erano riusciti a sparire al momento del primo

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impatto con gli invasori, per poi venire a compromesso con loro. “Otium” era il tempo libero dagli affari e dalla politica, perciò, lungi dall'essere il padre dei vizi, era un termine positivo, e il suo antonimo, negativo, era il negozio. Dietro queste due parole brevi si nasconde la consueta schizofrenia. Nel Mediterraneo si è tenuti ad affermare che il lavoro nobilita l'uomo, ma segretamente si è convinti che l'ozio, che lascia spazio alla meditazione e alla contemplazione, è nobile e degno di esser vissuto.

P come popolo Tra i vocaboli legati alla flora, la lista dei nomi mediterranei è lunga: pampino, pero, pervinca, pomo, porro, prugna, pruno e pula, pisello (di probabile origine egea), e pistacchio, platano, popone, e porro. Per il pioppo si segnala una singolare coincidenza con pipal (= Ficus religiosa) in India.

Tra i termini relativi alla fauna non sembrano i.e.: passero e forse pavone, piattola da BLATTA, pidocchio (con riserva, poiché ci sarebbero connessioni nell'area iranica) pica la gazza, picchio, certamente due pesci, parago e praio, e pantera e pernice, del greco perdix: a Chio, prima che il gallo facesse la sua apparizione nell'Egeo, nell’VIII secolo a.C. le pernici venivano allevate come animali da cortile, ed erano sacre ad Afrodite, e legate in vari modi ai miti cretesi di Dedalo e Talo.

Per quel che riguarda le forme del paesaggio il tema più importante è quello di PALA = dosso montano rotondeggiante, collegato a palato, palazzo e Palatino; e poi ci sono palude e pantàno (tema mediterraneo PALTA) il fango denso è ancora oggi palta, nel nord.

Per pendere e pendìo il caso è dubbio, però mancano connessioni attendibili fuori dal latino. La radice proposta è l'i.e. PEN = tendere, ma d'altra parte abbiamo un mediterraneo pentima = pendio sui laghi vulcanici. Identica radice ha il pèndolo.

Pulo è termine mediterraneo che designa in Puglia gli affossamenti di tipo carsico, e senza connessioni sono pozzo e pozza.

Numerosi anche i termini domestici: pallio il mantello e palla la sopravveste (ma non “il pallone”,), da cui paludato. Paura e pavimento (terra battuta e timore di esser battuto) sono isolati in latino. Pila = pilastro (e poi vasca per l'acqua e a Roma pentola per bollire l'acqua) è di origine oscura, così come pilèo (il berretto dei marinai mediterranei) e pilo, forma poco usata dal latino pilum, = giavellotto. Il pilèo era anche detto “berretto frigio”, e venne assunto come simbolo rivoluzionario al tempo della Rivoluzione francese, perché, oltre ad essere il copricapo degli umili, adornava anche le statue di antiche divinità mediterranee, come Hermes (Mercurio) e le teste dei rispettivi sacerdoti, e veniva conferito nelle cerimonie di emancipazione: di conseguenza, era il copricapo della libertà.

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Alla tecnologia mediterranea risale il peltro ed il suo nome. Né poteva essere altro che mediterranea la pergola di viti davanti alla casetta,

derivata dal termine mediterraneo di BARCA/PARGA/PERGA, che sta alla base di tanti toponimi da Pergamo in Asia Minore a Bergamo.

Priva di connessioni evidenti in altre lingue ariane, è la pertica = lungo bastone, e unità di misura, che nella antica Roma corrispondeva a 10 piedi (circa tre metri).

Non è ariana la pinca, cioé la lèsina del calzolaio, senza connessioni (e affidata a umili mani), nè il plaustro, che è sinonimo del celtico (e quindi i.e.) “carro”; il pulpito manca di connessioni e così il pulvino, o guanciale delle colonne.

E' mediterraneo il nome del piombo. Dal greco viene il nome isolato panos, del pane della vite, che a lungo andare si spana. Di nobile discendenza minoica è il plinto, nobile parola tuttora comunemente usata dai muratori elbani nel senso di “blocco di pietra o mattone”.

Ci si sente presi da una bizzarra emozione, quando si pensa ai 3000 anni di eroica sopravvivenza della pattumiera (medit. PATTA), che raccoglie il pattume o spazzatura. Da questo termine, forse con connotazioni denigratorie, derivò il nome dei patarini o rigattieri, poi nobilitato dai rivoltosi della Patarìa dell'XI secolo (quando il basso clero e il popolo si ribellarono contro gli ecclesiastici arricchitisi con la simonìa e contro la nobiltà prepotente).

Abbiamo dubbi sulla polenta e sulla polta, ma polpa è senza connessioni evidenti, così come i termini affini polvere, polpaccio e il nome illustre del polpaccio: poplite. Priva di connessioni attendibili è la pancia, plebea.

Dalla cucina, ovviamente, e dal greco, ci è arrivato il nome mediterraneo della pasta, forse neutro plurale di pàstos, “spruzzato di sale”, che già prima di diventare il piatto nazionale significava pasticcio con salsa, e non sembra in relazione con “pasto”.

Di origine non curiale, ma indubbiamente pre-ariana, sono pelo e peluria, e forse la peste. Della penuria si può dire che è collegata con l’avverbio paene = quasi, e che entrambi sono privi di connessioni attendibili. Ne è privo anche il panno da cui è derivata la panna, cioè lo spesso telo di grasso che si forma sopra il latte, e che viene prelevata per fare la manteca: un’attività certo non senatoriale.

Ha anche buone probabilità di essere di origine indigena il paio = due cose della stessa specie. Paio non è la stessa cosa dell’ariano “coppia” (da “co-apere”). Nella coppia le due parti si associano ma non devono necessariamente essere usate assieme, e sono separabili (come marito e moglie, quando la coppia è in crisi). Infatti uno può comprare una coppia di uova, da friggere insieme o separatamente, e anche un paio d’uova, ma non va a comprare una coppia di scarpe. Il paio non può mai entrare in crisi, perché le due parti del paio sono perfettamente pari. Pari deriva dal nome di un alto magistrato etrusco, il parXis, che sta all’origine dei Pari della Camera dei Lord inglese. Per questo il parricidio era un delitto gravissimo: perché l’assassinato non era di rango inferiore (uno schiavo, per esempio, o una donna) ma un maschio adulto socialmente eguale, e magari il padre stesso (percò è errato pensare che il parricidio sia specificatamente l’uccisione del padre).

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C’era una tendenza tra gli etruschi, a nominare i magistrati in coppia, con pari potere, e l’istituzione repubblicana dei due consoli, da eleggere annualmente, ricalca un istituto etrusco, o comunque indigeno.

Questa alternativa alla monarchia (come ci racconta Tito Livio) venne infatti adottata troppo velocemente e pacificamente, per non essere una formula già nota. Anche presso altri popoli italici si hanno prove di una preferenza per magistrati plurimi: ed erano in coppia (non proprio uguali!) a Messina, a Velletri, a Corfinio, a Nola (13). Anche i magistrati delle città umbre, ricalcando la magistratura etrusca del maru, venivano eletti a coppie e si chiamavano marones. E i ribelli italici della guerra sociale elessero due imperatori.

Un paio è il doppio di uno, il che è già molto, si tratta di un aumento del 100%: perciò da pari, con un suffisso diminutivo ariano, i mediterranei ci hanno lasciato in eredità un italianissimo, sarcastico parecchio.

E’ sorprendente scoprire che alle nazioni non ariane, agli etruschi, dobbiamo anche il termine popolo: il nucleo della parola è POPLO/BOBLO = da crescita, ossia, è un concetto dinamico, non statico come “tutti”.

Pertanto la formula SPQR ci mostra la somma delle due forze che costituivano la repubblica. E’ una formula linguisticamente ibrida, con un termine i.e. antichissimo, “senatus” (14) l’insieme dei vecchi, accoppiato a un termine prelatino che indicava quelli ricchi soltanto di vita, il potere biologico, il popolo (in latino populus, di genere maschile).

La saggezza di Roma, al tempo della repubblica consisteva nel controllare l’ostentazione della ricchezza da parte dei patrizi, allo scopo di non irritare il popolo e convincerlo della necessità e convenienza della collaborazione.

La lunga lotta del popolo per raggiungere la parità con i patrizi, fu coronata dalla concessione della cittadinanza romana anche agli italici non residenti in Roma, e poi anche agli schiavi liberati: ma soltanto quando ormai esser cittadino romano voleva dire esser suddito dell’imperatore. E accade anche adesso, nelle migliori repubbliche, che il popolo si conquista il diritto di voto, e se lo conquistano magari anche le donne, quando ormai sulla lista dei candidati da eleggere c’è un nome solo.

Pritaneo è una parola mediterranea importata dal greco. Indicava l’edificio in cui si riunivano i 50 consiglieri di Atene, sarebbe in rapporto con il termine etrusco prytanis, che vuol dire “il signore”.

R come Romano

Per uno dei tanti paradossi della storia, le colonizzazioni bonarie, che favoriscono l’acculturazione dei vinti, sono in grado di cancellare l’identità culturale dei sudditi meglio delle occupazioni violente.

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Più astuti dei conquistatori di imperi a prezzo di lacrime, sudore e sangue, i generali della pubblicità, con un martellamento di slogan e spot coloratissimi, in poco più di vent’anni, hanno pressoché azzerrato il vocabolario e la capacità di pensare di un paio di generazioni, con efficienza assai superiore a quella dimostrata in precedenza dai baroni medievali, dalla Chiesa Cattolica e dalla Nomenklatura sovietica.

Le nuove generazioni non sono più in grado di riconoscere nè la flora locale nè i suoi nomi, nè di raccogliere erbe per farsi una tisana o un’insalata. Chi sa più che racemo vuol dire grappolo, che l’acqua ragia è in relazione con la resina, che la spiga ha una resta, come il pesce, che il rìcino è una pianta comune nel sud? Pochi saprebbero cogliere la rughetta nei prati, e utilizzare il rusco (pungitopo) o il rosolaccio, sebbene ancora riconoscano la rosa. (15)

Prima di essere espropriati del loro antico lessico dall’istruzione obbligatoria, i contadini conoscevano i nomi degli animali che strisciano, corrono, nuotano, volano: erano per lo più nomi pre-ariani, antichissimi, come ragno, rana, raia o razza (= un pesce), riccio, rondine, rosignolo, ruga, (= bruco), forse rospo e certo ruminante.

Il paesaggio aveva ricevutodagli avi di quei contadini nomi che sono rimasti rimasti in qualche toponimo, derivando per esempio da rave, che è il precipizio o da ravaneto che è l’insieme dei detriti franatici dentro. Rena è la sabbia. La fortezza costruita sulla roccia è una rocca, l’acqua scorre rumorosamente nella roggia (tema mediterraneo ARRUGIA), degli acquedotti romani rimangono i ruderi, e la crepa nel muro si chiamava rima (ma è sopravvissuta nei testi di anatomia come rima palpebrale).

La rete non ha connessioni attendibili e si trova in un area semantica in cui il substrato spesso riaffiora, e da essa deriva la rètina. Privo di connessioni è il rogo, sinonimo della ariana “pira”.

Alle donne che lavavano i morti potremmo esser debitori dell’aggettivo rigido, ma anche, finalmente, del verbo ridere.

Vale la pena di soffermarsi sulle qualità di certi termini che ci illuminano sulla visione della vita che sempre sta sottesa dietro ogni parola che viene coniata. Prendiamo la radice di racemo, RAG/RAK. Per i pre latini essa racchiudeva il senso “contratto e costretto”, perché così stanno gli àcini nel grappolo e fanno pressione: ne derivano in italiano racchio e rachitico. Può sembrare singolare, questa valutazione del “grappolo”. Oggi racemo si usa solo in botanica e “grappolo” è la parola corrente derivata da radici germaniche. Infatti ai Longobardi che da bravi tedeschi cercavano la struttura dell’oggetto, il frutto della vite si presentava come un viluppo di uncini, o “grappe” e il loro punto di vista ha trionfato. E’ il punto di vista del mangiatore avido, che trangugia gli àcini in fretta, e gli resta in mano il “graspo”.

Mancava ai Longobardi la simpatia per gli àcini, serrati gli uni contro gli altri... come famiglie di sfrattati in coabitazione o immigrati in dormitorio. Gli mancava quell’esperienza.

Ràncido descrive il sapore e l’odore dell’olio e del grasso invecchiato e stantìo: un odore familiare a chi è senza frigorifero nelle settimane di scirocco sul Mediterraneo. Difatti dalle cucine pre-indoeuropee l’aggettivo è passato alle cucine europee, inclusa quella tedesca: ranzid. Ravo è un aggettivo caduto in disuso = biondo scuro, e si

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contrappone a flavo, cioè biondo chiaro: entrambi sono privi di connessioni attendibili (16) . Ravo è poi rimpatriato dalla Spagna come roano, a designare un cavallo dal mantello grigio. Rude è un aggettivo senza affinità fuori del latino, come rauco.

Dopo pagine e pagine di dizionario di parole arianamente prefissate “dis- in- de- pro-”, finalmente incontriamo un prefisso che non ha connessioni attendibili: re-, che indica una inversione di movimento con ritorno allo stato precedente, come avviene dopo ogni ri-voluzione attraverso il latino RE(D), senza connessioni attendibili. E’ normale che un tale prefisso sia stato sviluppato in una società legata all’agricoltura, dove vige una concezione ciclica e non lineare del tempo. Il progresso è una spirale, non una linea retta. La particella re- ha per derivati retro, arretrare, retribuire, etc.

Infine, con una certa sorpresa, tra le parole di etimologia dubbia troviamo il nome stesso dei colonizzatori ariani: e precisamente dei Romani.

Non ci sono dubbi sul fatto che non Roma è derivata da Romolo, ma Romolo da Roma. Però tutta la faccenda è un pò confusa. C’era un fiume, anticamente chiamato Albula, ma anche, all’etrusca, Rumon, che oggi è il Tevere. C’era un colle, detto Ruma, che oggi è il Palatino, e sul colle c’era un albero di fico detto ruminale, perché dai suoi rami i fichi pendevano dolci e gonfi come “mammelle” (nella lingua mediterranea, rumis).

L’albero sopravvisse fino alla fine della Repubblica, dice Tito Livio, e lo chiamavano “il fico di Romolo”, perché presso il fico ruminale la corrente del Rumon fece arrestare il canestro che conteneva i due gemelli, Romolo e Remo: là si trovava la lupa che li allattò. E c’era anche il nome gentilizio etrusco dei Ruma, connesso col nome del fiume... Il tutto fa considerare assai probabile la derivazione del nome di Roma dall’etrusco, così come etruschi, ci dice Varrone, erano i nomi delle tre tribù dei Rammi, dei Tizi e dei Luceri.

S come seno

Per quanto riguarda l’area semantica della flora, i nomi privi di connessioni attendibili sono: sabina = specie di ginestra, saggina = pianta da ingrasso, soprattutto per i maiali, da cui saìna, grasso di maiale; sala = erba palustre; sambuco, santoreggia, = orzo; scirpo = giunco; scopa; scordio = erba dall’odore agliaceo; sègale; e più importante di tutti, selva.

Un termine probabilmente pre-ariano, siliqua, è entrato nel linguaggio scientifico, mentre la parola serqua ne è la trascrizione nel linguaggio corrente, con il senso di “lunga serie”, così come è lunga la fila dei piselli dentro la siliqua. Serpa è la cassetta della carrozza, fatta di giunchi leggeri.

E inoltre, di sospetta origine mediterranea, o per lo meno, senza collegamenti nelle altre lingue ariane, sono siepe, sorbe e sorbo; spicchio, spiga, spigo, spina, spino; più il vile sterpo, che originariamente voleva dire “tronco”, da cui deriva l’aulica stirpe; stoppia,

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sughero, e, dal greco selinon, il sedano (toponimo: Selinunte). La sulla, usata per il sovescio, era il cognome di Lucio Cornelio Silla.

Un minerale dal nome pre-ariano è lo smeriglio (17), che i minoici estraevano da Nasso (capo Emeri). Più piccole sono le miniere in provincia di Parma.

Nell’area della fauna troviamo scorzone = vipera (in dialetto siciliano scursuni attraverso un latino “curtio” ); scrofa, con relative setole; tra i pesci spigola, squadro e forse il sàrago; forse squalo e squama, scombro e seppia e salpa, e squilla = gambero. C’è poi la starna, e (dal greco) sauro = rettile e forse scimmia, scolopendra, scorpione, siluro, sorcio e sirena.

Nell’area semantica relativa alle forme del paesaggio troviamo speco e spelonca, stagno = palude; stilla = goccia e scrùpolo che originariamente voleva dire “sassolino”.

Numerose sono anche le parole tecniche, salvaguardate dagli artigiani della zona popolare di Roma, chiamata Suburra (parola forse derivata dalla stessa radice mediterranea che ci ha dato zavorra). Dal gergo dei legionari ci vengono saetta = freccia, sago/saio = “mantello” (18), sàgola = funicella di bordo, (da SAGA), diminutivo di soga = fune, e forse (dal greco sagma = carico) salmeria, soma e somaro; probabilmente scamato = bacchetta per materassi, e scàndola = scaglia di legno usata come tègola; e scrigno, spago, stìpite, stiva dell’aratro, forse stuoia e, (attraverso il greco) sàgoma, sàndalo (sia “scarpa” che “barca”, però forse prestito orientale antico, vedi persiano “sandal”), scalmo, termine marinaro comune al greco, e forse silo = granaio sotterraneo (latino sirus e greco siros).

Setaccio deriva da setole. Legato alla tecnologia dei cereali, lo strumento venne preso a prestito dagli Ungheresi (tardi invasori dalle steppe la cui economia non era basata sull’agricoltura) col nome di szita, e da questi fu anche usato nei riti sciamanici, in quanto simbolo di fertilità e di abbondanza, sia per la presenza delle setole della fecondissima scrofa, che come fonte basilare di carboidrati, in quanto selezionava le farine. Voltare il setaccio era un’operazione magica della tecnica divinatoria, tuttora usata in qualche villaggio in Transilvania (19).

Sappiamo che pochi schiavi selezionati venivano educati alla scienza astronomica che era stata dagli etruschi, e dall’etrusco probabilmente è discesa la parola satellite.

Circolavano, al tempo dei Romani, come circolano adesso, i sicarii, uomini armati di un pugnale speciale, detto sica, che veniva dalla Tracia, e di cui ignoriamo l’etimologia (SEK?).

La maggior parte del popolo comunque era impegnato a scacchiare, sfregare, stringere e (sottovoce) a sfottere, salvo la naturale reverenza osservata nei riguardi delle Sibille e dei libri sibillini.

Schiavi e liberti organizzavano per conto dei padroni le compagnie teatrali, e vi recitavano: cosicché la terminologia relativa all’arte drammatica ha probabilità di non essere ariana. Scurrile deriva da scurra, nome etrusco del buffone; personaggio da persona, che è probabilmente un termine greco filtrato attraverso l’etrusco; maschera, come abbiamo visto, deriva dal mediterraneo MASCA (= i due lati della prora della nave, decorata usualmente con una figura mitologica), mentre sipario è di origine ignota. Esso potrebbe essere stato filtrato dal greco attraverso l’osco supparus = velo, anche se

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l’invenzione potrebbe essere greca, e infatti “yavanico” ossia “ionico” è il nome con cui il sipario fu introdotto in India.

Comunque il sipario greco non pendeva dall’alto, ma veniva issato tra due pali per separare il pubblico dalla scena, come tuttora si usa in India e in Indonesia durante gli spettacoli di « teatro delle ombre ». Il sipario latino invece era una tenda che si abbassava, come nei nostri teatri.

Le donne, naturalmente, fin quasi ai tempi dell’Impero, non avevano il permesso di calcare le scene. C’è da domandarsi che cosa fosse permesso di fare, alle donne. Il Carcopino ha esaminato circa mille epitaffi del Corpus di iscrizioni latine, e ha trovato solo 2 donne pedagoghe contro 18 maschi, 4 medichesse contro 51 medici, una sola sarta di fronte a 20 sarti. Insomma, a parte le pettinatrici, levatrici e balie, nel primo secolo dell’Impero le donne di Roma erano tutte “senza professione” (20) e vivevano in un dolce far niente totale, se benestanti, avendo a loro disposizione quelle impagabili e non pagate “colf” che erano le schiave. Perciò della vita delle matrone nel linguaggio non è rimasta traccia, mentre le schiave e le proletarie dell’Urbe ne hanno lasciato di indelebili.

Le altre donne, quelle i cui mariti vivevano vendendosi alle elezioni politiche e facendo la fila con la tessera per il grano gratuito, dovevano arrangiarsi a sbarcare il lunario nel monolocale senza servizi, tra nugoli di bambini, e scodelle e scope e secchie e sporte, cucinando pappe di sèmola (SIMLA) in grasso di maiale (saime) e olio di sansa (SAMPSA), difendendo la salamoia dai sorci. O se ne stavano con spille (da spinula) in bocca davanti a neonati a pancia in su sulla sponda (priva di connessioni) del letto. La loro è una traccia di cattivi odori (fetori, senza connessione) per i continuati contatti con orina, sangue, e sanie (ossia pus) (21), per la quotidiana consuetudine con maschi raramente sobri (antonimo di ebri, senza connessioni), sborniati e sbronzi (forme dialettali), più il contatto (nel tentativo di far pulizia), con sebo e scroti e smegma e naturalmente sterco (di dubbia etimologia, ma sinonimo di altre due parole ariane “escremento e merda”, lituano “smirdeti”) e quindi probabilmente indigeno.

Tutto ciò faceva parte della nobile missione della donna, ma alle donne naturalmente appariva sporco (dall’etrusco) e lo dissero apertamente per un paio di millenni (altrimenti la parola non sarebbe arrivata a noi) facendo amari commenti sulla scalogna (da calunnia, priva di connessioni evidenti) di esser donna. E dovevano badare (vedi). a non fare sciupii (privi di connessioni i.e.) e trovare la forza di sorridere, magari nel frattempo cercando di rimediare qualcosa per i piccini frugando tra mediterranei stracci, detti scruta, da cui il verbo scrutare: che però in seguito, è passato a designare alcune alte funzioni politiche riservate in genere ai maschi, come scrutinio e scrutatore.

Non sapremo mai se un terzo sinonimo del “polpaccio”, sura (oggi nel linguaggio anatomico), ci sia giunto “dalla parte di lei”; meno dubbi ci sono per le sevizie (“saevus” = feroce, non ha connessioni attendibili), frequentemente riservate a individui privi di personalità giuridica, come le donne e gli schiavi.

Invece il seno (da un “sinus” di etimologia dubbia) ossia, originariamente, la piega della veste femminile al centro del petto ( da cui insenatura), il seno delle donne mediterranee ha subito un infortunio nel corso del suo trasferimento alla lingua italiana, anzi, un ribaltamento di significato, perché da concavo è passato a convesso.

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Il risultato è che le donne italiane, sebbene le loro nonne abbiano avuto un solo seno, oggi si trovano ad averne due. Anzi, se si tien conto dei due livelli di cultura, quello della lingua scritta (“allevarsi una serpe in seno”) e quello della lingua parlata, i seni sono tre.

Il “sesso”, invece, sembra totalmente ariano. Il sesso è in relazione, pare, con la radice i.e. SEK = tagliare, segare, da cui anche la “scure”, e, facendo un passo indietro ancora, è legato al”sak-sum”, il sasso, più o meno abilmente scheggiato nell’età della pietra, che è stato il primo coltello dell’uomo. Difatti il sesso è ciò che, secondo i patriarchi, divide la società umana in due parti diverse e inconciliabili.

Non ci meraviglia quindi che, mentre il languido sospirare e sdraiarsi sembrano privi di parentele nelle lingue i.e., compiutamente ariano sia lo “stupro” (da “stuprum”, inizialmente “sciagura”, e nel latino classico “atto vergognoso” ma letteralmente: “battere e lasciare sotto choc”, in una specie di stupore... e ancora più brutalmente “una botta (e via)”.

Quando una società giunge a tali eccessi di sopruso, ecco però che quella che Ernesto de Martino chiama “l’immensa potenza del negativo” suggerisce una via d’uscita a livello individuale (per le casalinghe formare un sindacato è anche più difficile che per i contadini), e la via d’uscita è nel campo dell’irrazionale. Nasce così la strega.

La parola, che questa volta sarebbe passata dal latino nel greco, potrebbe derivare dal nome di un uccello notturno simile al vampiro (strix?), oppure indicare la reincarnazione di un corpo femminile di un essere soprannaturale, oppure l’acquisto di poteri paranormali. Caso grammaticale pressoché isolato (un altro esempio è l’i.e. “vedova da cui “vedovo”), dalla strega è derivato lo stregone, e non viceversa, come per tutte le altre professioni. Perché, sentenzia il patriarca, la donna ha minori capacità logiche, il suo campo è l’irrazionale, laddove può avere la supremazia.

Bisogna andare in Micronesia, nel Pacifico, nel più lontano atollo dell’arcipelago di Yap per trovare una società di poche dozzine di persone totalmente prive di aggressività, in cui si spera che il bambino che deve nascere sia femmina “perché i maschi sono inferiori: le donne possono avere bambini, gli uomini no”..(22)

Gli antropologi hanno esaminato a fondo il problema delle guaritrici, o fattucchiere o streghe (in Lucania e in Corea, in India o in Thailandia) riscontrando sempre alla base del fenomeno una degradata condizione sociale femminile. La fuga nell’irrazionale pertanto è perfettamente razionale. E’ la logica che permette alla “scimmia in gabbia” di Kafka di evadere: dato che il fattore gabbia è una costante su cui la scimmia non può agire, bisogna agire sulla variabile scimmia. Non più scimmia, ossia non più donna, ma strega: e la gabbia si dissolverà. E’ una decisione di altissima logica, oltre che un’intuizione poetica.

Si noti anche che in rumeno striga vuol dire “civetta”, e la civetta era sacra a Pallade Atena, alias Minerva, la patrona del sapere.

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T come tramare

Il numero delle parole che sembrano estranee al lessico indoeuropeo, e che iniziano con la consonante dentale sorda t è veramente imponente.

FLORA - La lista comincia con talea (e da TALEA viene il verbo tagliare, dal latino tardo taliare); e continua con tamarisco o tamèrice; tanacèto (nome, poco usato, del crisantemo), terebinto, arbusto da cui si ricava una specia di trementina, e tasso, pianta velenosa. E’ privo di connessioni attendibili il tronco, imparentato col verbo troncare, e forse il turione o gemma. Parole sospette, comuni solo al latino e al greco, sono tallo e tifa (= pianta di palude). Comune al greco, e di probabile origine mediterranea, come le altre piante aromatiche del Mediterraneo, è il timo.

FAUNA - E’ singolare, dopo aver incontrato l’etrusco assìllo, imbattersi in un altro nome non indoeuropeo per l’odioso moscone; eppure anche tafàno sembra legato all’etrusco, dato che ne deriva il nome di una famiglia nobile, come è provato da un’iscrizione a Velletri. Da cui si deduce che, o le mandrie degli ariani non erano afflitte da tali insetti, il che è improbabile, o che, arrivati in sede, essi scaricarono del tutto la cura del bestiame ai loro servi, tafani inclusi. .

Provatamente mediterranei sono i temi di talpa, tarlo, tarma e termite, forse tellina (anche in greco) tartaruga e testuggine, tinca, tigre, topo (variante di TALPA), tortora, trota, e forse tonno e totano e triglia. Un’antica parola mediterranea sarebbe sopravvissuta in setten-trione, ossia i sette buoi (triones) della costellazione dell’Orsa Maggiore, che indicavano il nord, a meno che non sia ariana e in relazione con “terra” e “tritare”.

FORME DEL TERRENO - In Sardegna è sopravvissuta la parola tanca = terreno circondato da muretti a secco, cioè recinto per il bestiame come sul continente mandria (dal greco). Sarebbe indigena la TIMPA, rilievo del terreno con usuale forma alternativa in e, (tempa), che appare come Timpone, Tempone in vari toponimi (23). Teppa, = zolla erbosa, da TIMPA, ha dato all’Elba teppone, area di terreno indurito. In un toponimo sopravvive anche tòrmeno, = l’altura. Importante è tufo, dall’etrusco, e obsoleta, ma mediterranea, è troscia, la pozzanghera.

Legati alla vita e ai mestieri dei lavoratori manuali sono: tabarro, tassello, tagliola, tina ( originariamente la bottiglia, che mascolinizzandosi si è ingrandita e ha dato il tino); telo = freccia, tasca da TASKA = borsa; forse trullo; tuba = tromba e tubo, e transenna, autentica parola etrusca che però aveva il significato di “rete per gli uccelli”.

Un discorso a parte meritano torre e taverna. Torre deriva dall’etrusco: i Tyrrhenoi, come li chiamavano i greci, sarebbero stati “il popolo delle torri”, da TURSI. Taverna deriverebbe da un mediterraneo TABA = tavola, rispecchiato dall’umbro tafla, a cui si affiancano tabella, tablino, tabulare, tavella, tavolato, tavolino, e intavolare.

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Tuttavia nel mondo antico raramente si usavano tavole come le nostre: i convitati sedevano su sgabelli portatili e la “mensa” veniva allestita provvisoriamente in occasione dei pasti e poteva essere un vassoio. TABL doveva indicare una superficie piana fissata in posizione permanente, come quella del triclinio o del banco del taverniere.

Di recente la tavola ha ufficialmente acquistato un compagno, sebbene il Manzoni avvertisse che “la tavola non ha marito”. E qui si vede quale sia il potere forgiante del linguaggio, che ha strutture obbligate, al di fuori delle quali non siamo capaci di esprimerci, e si vede come esprimendoci noi contribuiamo a fissare ulteriormente quelle strutture. Infatti la tavola è rimasta dov’era, in cucina (è lì che la donna stira e appoggia le pentole) o in sala da pranzo, dove la padrona di casa si darà da fare per adornarla con una bella tovaglia e dei fiori.

Niente del genere si potrà fare sul tavolo: che è il dominio dell’architetto o dell’avvocato o del professore, e sta nello studio, lontano da mani unte e cattivi odori, e la colf è pregata di non toccare quel che c’è sopra. Così il neologismo ricalca gli schemi antichi e li perpetua. Non importa quante centinaia di parole siano entrate da un substrato in cui la donna aveva una posizione sociale diversa: lo stampo della lingua è conforme a un’ideologia ariana, che discrimina il sesso femminile anche inconsciamente, come quando nella flessione dei nomi in latino storico, vecchi collettivi vengono assimilati a femminili singolari: l’inanimato (neutro) plurale, va a coincidere con il femminile (24).

Un altro esempio, non registrato dai dizionari, viene dal gergo di inconsapevoli droghieri: quando la merce è di buona qualità, si chiama riso, quando i chicchi sono piccini, un pò corrosi, e adatti al pastone del cane, si chiama risetta...

Ritornando alle taverne, è da segnalare l’aggettivo antico temulento = ubriaco, o forse piuttosto “intossicato”: si parla di un vino sconosciuto, il temetum (da cui abbiamo visto astemio). Però il nome di temulina è stato dato a un alcaloide che si trova nei semi del loglio e che ingenera confusione mentale, oltre a gravi disturbi fisici. C’è da chiedersi se il temetum non fosse una specie di birra, fatta con vari semi di cereali, bolliti e fermentati, (vedi greco zyme = lievito?) possibilmente a buon mercato, e quindi misto con grani guasti o con alcool metilico. Termine tecnico non ariano era pure il tirocinio, o apprendistato, connesso con il verbo tirare, che significava originariamente “introdursi nella vita militare”: un tipo di carriera a cui il suddito normale si piegava, evidentemente, proprio perché vi era tirato per i capelli. Non ariano era il tiranno.

Tra le mura domestiche le donne hanno tenacemente conservato per noi termini relativi al corpo come tallone, tergo, testa, (col valore di guscio di tartaruga, anfora, coperchio e testa), teschio, tonsilla e treccia (attribuire “thrix” il pelo a un idioma mediterraneo, ci conduce a includere nella lista di parole non ariane tricheco, districare e intrigante).

Potrebbero non essere ariani tisana (dal greco), tibia = flauto (per l’abitudine a diffusione planetaria di usare le ossa lunghe dei morti per farne flauti), tuorlo (d’uovo), che vale per “rigonfiatura” ed è quindi stranamente imparentato con un termine architettonico, il toro, privo di connessioni, e la torta che non ha un’etimologia sicura. La

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traggèa una volta era la frutta secca, e non la confettura: un cibo da paesi con estati calde e asciutte.

Occasionalmente in cucina dovevano anche confezionarsi sostanze tossiche, perché le umiliazioni dàn frutti di cenere e tòsco, sebbene la destinazione originaria fosse la punta della freccia (dal greco tokson = la freccia, di etimologia molto dubbia, se non è in relazione con il velenoso albero di tasso, da cui veniva ricavata).

Di per sè i lavori domestici non sono precisamente esaltanti, e neanche al tempo dei Romani erano considerati tali dagli uomini che ne godevano il frutto. Non solo le vesti, ma anche tutto il materiale per confezionarle eran fatti in casa (un sistema che vigeva nella patriarcale Corea soltanto 30 anni fa): tonache e tuniche (di origine mediterranea o semitica) e la tràbea (una specie di toga) che la gente di casa indossava, eran tutte il risultato dell’applicazione femminile all’ordito e alla trama: un lavoro qualificato ma deprimente: e così tramare (come ordire) designa la qualità subdola dei tradimenti domestici, e le donne traditrici avevano ancelle che facevano da tràmite nei traffici (letteralmente = trasferimento di feccia o di feci, stessa radice FAIK = le porcherìe) ovviamente loschi.

Vili erano anche le turbe dei clienti, le torme dei servi: vili i loro in-trighi. (Purtroppo la balia mediterranea aveva regalato al giovin signore tutti i termini indigeni per disprezzare gli esseri inferiori, a cominciare dalle donne, che fan sempre tardi (senza connessioni attendibili) e sono morbosamente timide (da temère da timere), etimologia dubbia. Bisogna farsi temere dai sudditi, fargli venire la strizza (stringere non ha connessioni attendibili). Lui, il signore, se ha sesterzi a sufficenza, sente il tedio (senza connessioni) della vita, che però è tetra e triste (senza connessioni) soprattutto per quelli che sono costretti a servirlo e a vivere tra quattro mura, e in particolare per le donne, che d’altra parte devono esser protette da un mondo turbolento di maschi con pieno diritto di cittadinanza, ma che alle donne appaiono, esposte come sono alle loro violenze, pieni di appetiti torbidi e turpi (senza connessioni attendibili). Sicché per loro fortuna, forse, restava alle donne poco tempo per pensare (E. -Meillet 1025 f: “senza etimologia”).

U come vino

I Romani originariamente avevano un solo segno per indicare i valori di u e di v italiani ed era v. U comparve come variante grafica nel II secolo dopo Cristo, e per secoli nel Medioevo v venne usata come iniziale (per es. vno = uno). Fu soltanto il Trissino (1524) che ad imitazione dello spagnolo cominciò a distinguere u (vocale o semiconsonante, come in uomo) da v sempre consonante: però questa soluzione divenne d’uso corrente per i tipografi solo attorno al 1650. La u italiana corrisponde per lo più alla u lunga latina. La u breve, o aperta, venne quasi sempre a confondersi con o in italiano. Nelle liste che seguono, come nei vecchi dizionari, tratteremo u e v come lettera unica.

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Uliva e ulva, vaniglia (dallo spagnolo, ma ricavato dalla radice di vagina, poiché si usa solo la corteccia tubulare della pianta), veccia, veratro (mediterraneo per “elleboro”) verbasco (con tipico suffisso ligure), verde (senza connessioni attendibili, sebbene il Buck citi l’Antico Norvegese visir = “germogliare”), che è legato a verdure e verza, e possibilmente a verga e vergine (25). Vino è parola senza dubbio mediterranea, (greco Foinos, ebraico yayin), come vinaccia e vigna. E poi mediterranea è la viola come il vischio e il viburno, comunemente detto “lantana” e forse la vescia.

Dubbio è il caso di “uva”: il prodotto, diciamo, non lavorato, a cui gli ariani avrebbero potuto dare un nome simile a quello della bacca (in Lituano “uoga”). E maggiori perplessità dà la pianta della “vite”, che ha a che fare con “avvitarsi”, e con l’i.e. *WEI = “avvolgersi”.

Usignolo, upupa, vaio (= scoiattolo, e poi in latino varius e varietà per il colore screziato della pelliccia), velia = uccello più noto col nome (pure mediterraneo ) di averla; e verdesca o pescecane, sono termini relativi alla fauna indigena. E i vanni sono le penne delle ali, privi di connessioni, dal cui diminutivo vannulus è venuto il verbo vagliare e “passare al vaglio”, per analogia con il movimento necessario (ma non il “vaglia”, trasferimento di denaro, imperativo del verbo di origine i.e. “valere”).

Nel paesaggio non familiare, gli invasori si orientarono adottando le designazioni dei nativi. Su “valle” si hanno forti dubbi, perché sarebbe legata a i.e. WEL = volgere, ma la valanga, una specialità dello sfacelo geologico nazionale, sarebbe legata al tema mediterraneo LAVA, mediante il suffisso mediterraneo ligure in -anca. Un’altra specialità della penisola sono i vulcani, in qualche relazione con il dio romano Volcanus, il quale a sua volta ha dubbie relazioni con il dio etrusco Vel (ne leggiamo il nome su un fegato bronzeo usato per la divinazione), e con il cretese Felchanos, che però sembra piuttosto un dio della vegetazione. Certo il culto di Vulcano risaliva ai tempi di Tito Tazio (Dion. Alic. II, 50, 3). Il dio Volcanus aveva un “flamen”, ossia uno dei 12 grandi sacerdoti minori. I Volcanalia erano una delle 45 “feriae publicae”, e si celebravano il 23 agosto. Inoltre il flamen Volcanalis faceva offerte speciali a Maia il 1° maggio (26): tutto tutto ciò che fa pensare a una origine composita, comunque antica, che contiene germi della religiosità indigena primitiva.

Il vingone è un canale artificiale, da un tema (A)VINCO, mediterraneo, = canale di scolo delle acque, che è una significativa indicazione del livello tecnico dei popoli sottomessi. Dal linguaggio degli abili artigiani, passò in latino e poi in italiano urna da *urcna, forse legata al greco hyrchè = terrina, nonché all’orcio.

E’ privo di connessioni il vaso, oggetto fondamentale in cucina, da cui vascello. Senza connessioni è la vara = sostegno biforcuto (vedi divaricare, ginocchio valgo, valicare, varcare, varco) usato specificatamente per varare le barche.

Il vetro è un materiale costituito soprattutto da silicati, dapprima fluidificati, e poi lasciati raffreddare e solidificare: l’archeologia fa risalire i primi oggetti in pasta vitrea al 1500 a.C., in Egitto, e abbiamo le prove della loro precoce esportazione ad opera dei commercianti fenici, nonché della loro diffusione sia al Nord che in Oriente.

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Questi oggetti erano variamente colorati, ma più spesso azzurri o verdeazzurri, come la coppa etrusca della tomba Barberini e le famose perle blu, diffuse un pò dovunque in Eurasia, e che rendono perplessi gli archeologi, quando se le trovano a Taiwan e in Micronesia. Il vetro soffiato, invece, arriva col tardo ellenismo, e dai greci viene definito “ialino”, ossia semi-trasparente. Per la parola italiana “vetro”, però, si suggerisce un’origine i.e., considerando l’antico tedesco “weit” (in italiano, dal longobardo: “guado”) che indica un’erba europea, l’Isatis tinctoria, che contiene un principio colorante analogo all’indaco. La derivazione sembra alquanto macchinosa, e prudentemente il Devoto si limita a testimoniare che vetro è privo di connessioni attendibili.

Usare, uso sono pure, stranamente, privi di connessioni attendibili, sebbene non si tratti di termini tecnici ma generici, mentre normalmente i termini mediterranei designano oggetti e atti materialmente visibili.

Tali sono urina, vagina, varice, vasca, vassoio, vena, vescica, viscere, vestigia = impronta di piedi, vibice = lividure. Vìscido sembra una via di mezzo tra viscere e vischio. Vile non ha connessioni attendibili fuori d’Italia, ma vigliare significava spazzar l’aia, e quindi il vigliacco è da buttare.

E finalmente l’urbe, come già l’orbe, è parola decisamente pre-ariana. Avendo già scoperto che il nome stesso di Roma non era nè latino nè ariano, ma etrusco, non ci stupisce che l’urbe non abbia connessioni attendibili nelle altre lingue ariane, tanto più che, nel tempo in cui si formarono i loro primi dialetti, ancora nella steppa, gli indo-europei non avevano tradizioni urbane, mentre nel cuore delle antiche regioni agricole le città avevano già una storia come in Mesopotamia Ur, abitata già nel IV millennio. Degli altri derivati di UR si è già detto.

Vile è privo di connessioni attendibili, come anche volgo, che potrebbe avere una lontanissima affinità con il sanscrito “varga” = divisione, gruppo. Per Ernout-M. (1128) volgo è senza etimologia, ma non sarebbe il primo caso di una parola sopravvissuta solo in sanscrito e in latino: vedi “rex”, e “ius”.

Il vernacolo, invece, merita la nostra attenzione, perché verna, di probabile origine etrusca, è lo schiavo nato in casa, e il vernacolo (= il piccolo domestico) è poi passato a indicare lo strano idioma infantile composto per lo più delle parole apprese dalla madre, inserite goffamente nella struttura della lingua del padrone. Nella famiglia, dove i padroni vivevano fianco a fianco ai famuli e ai loro bambini, il vernacolo era destinato a perpetuarsi, tra le citazioni scherzose, i rimbrotti dei puristi e i ricordi degli affetti giovanili.

Ed è poi diventato la nostra lingua italiana.

Z come zabaione

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Zappa, zavorra (da un ligure o veneto saburra), zìzzolo dal greco (ziziphon) giuggiolo, zòccolo, zucca da cocuzza... Non sono parole poetiche, e pare anche che il suono moderno della zeta fosse estraneo al sistema fonetico latino: infatti zeppa e zoccolo erano pronunciate anticamente con un s iniziale.

Per la zappa, latino sappa, da cui pare derivi il greco moderno sappa e il turco ciappa, il Buck propone una derivazione da zappu = capra, perché originariamente l’attrezzo sarebbe stato un bidente modellato sulle corna della capra. Comunque l’attrezzo, che presso i Sumeri della Mesopotamia era ritenuto un dono del dio Enlil, non porta un nome ariano.

Anche lo zùfolo deriva in ultima analisi da un etrusco subulo, il flautista, per quanto “zufolare” e “sibilare” siano soprattutto voci onomatopeiche.

E’ possibile che la sostituzione di s con zeta sia dovuta a influssi longobardi: comunque la s originaria non è mai stata spodestata in alcuni dialetti o nel linguaggio incolto, e ha resistito a livello scientifico nei derivati dello zolfo [SULP(H)] cioè nei solfuri e nei solfati.

Non concluderemo queste liste diabolicamente e astiosamente con lo zolfo. Ma in onore delle donne, che hanno dato un contributo essenziale alla conservazione del lessico indigeno più arcaico, nonché di un patrimonio culinario eccezionalmente vario, che da tutti ci viene invidiato, finiremo con lo zabaione: dal tardo latino sabaia, specialità leggermente alcoolica delle regioni illiriche.

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PARTE IV

Lingua, Nazione, Politica

Capitolo VII

Lingua letteraria e unità nazionale

Il quadro complessivo degli imprestiti probabili dal substrato pre-indoeuropeo dimostra che, a parte i “relitti del substrato” (piante rare come il terebinto, mortai per pestare il grano e bastoni per battere i fagioli), esiste ancora in italiano un’imponente quantità di parole che ci sono arrivate attraverso il latino, sia classico che medievale, ma che non hanno rapporti con il lessico delle altre lingue indoeuropee, per cui potrebbero essere entrate in latino dal substrato dei popoli non ariani assoggettati..

E’ interessante che alcuni di questi vocaboli, derivati da antiche metafore (come « amore, governo, ordine ») siano risultati insostituibili per i conquistatori ariani : ciò prova che essi sono andati a riempire dei vuoti nella lingua latina e che i vinti hanno avuto l’opportunità di inserirveli in quanto ormai accettati nella nuova società. Quindi gli indigeni dovevano essere abbastanza numerosi da poter esprimere una loro elite, e salvare parte della loro cultura.

I vocaboli pre-indoeuropei che si riferiscono alla vita quotidiana sono tanti che, in pratica, le casalinghe del passato, che di rado uscivano dalle loro cucine, avrebbero potuto vivere e morire quasi senza usare il lessico ariano, se si escludono verbi generici come “dare, fare, cuocere, pulire, lavare”. Questi verbi, che non derivano dal substrato, ma hanno corrispondenti in tutte le lingue indoeuropee, hanno l’aria di esser stati, in origine, dei semplici comandi. Infatti quegli schiavi e concubine che continuavano ad usare i nomi a loro familiari per il « fuoco » e per le « lasagne », avranno posseduto nella loro lingua i verbi relativi alla cottura del cibo: ma l’ordine di cucinare veniva dal padrone, che usava il suo idioma ariano.

Una analoga spartizione del lessico tra substrato e lingue egemoni si riscontra in quella lingua franca del Pacifico, nota con il nome di “pidgin”: la maggioranza dei sostantivi è di origine cinese o malese, ma i verbi che esprimono un comando sono in genere derivati da lingue europee, e fa quasi sorridere scoprire che “fuori” si dice « heraus » e che « surik » vuol dire “indietreggiare” (cioè “zuruck”), dal tedesco, mentre dall’inglese sono derivati « sanap », stare in piedi (da « stand up »,= in piedi!) e « subim », fare entrare (da « shove him in » = spingilo dentro, = fallo entrare). Sembra quasi di vederli, questi tedeschi e questi inglesi, paonazzi in volto per l’irritazione e l’eccesso di indumenti, ad affrontare i pigri e sciamannati indigeni del Pacifico.

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In Micronesia l’accanimento contro gli indigeni fu diretto soprattutto contro le loro credenze religiose. Tedeschi prima e giapponesi poi si erano anche adoperati contro l’“assurdo” costume del matriarcato, imponendo agli indigeni di registrarsi sotto il nome paterno, con il risultato di sconvolgere totalmente l’asse ereditario locale, che era matrilineare. In Italia e in Grecia, nell’ antichità classica, non c’ era stato un deliberato, radicale attacco alla cultura degli autoctoni indigeni. Solo nell’età cristiana, tra i nuovi invasori ariani dell’Europa (tra il IV e il X secolo dopo Cristo), abbiamo la prova scritta che alcuni barbari erano consapevoli dell’importanza di distruggere lingua e tradizioni per soggiogare un popolo in un testo chiamato MABINOGION, raccolta di storie gallesi dell’XI secolo. E’ qui che si narra, nella “ Storia di Maxen, imperatore romano”, di un gruppo di gallesi che decidono di non tornare in patria, ma di continuare a vivere facendo bottino e conquistando castelli. E questi banditi si accordano anche “per tagliare la lingua alle donne, per timore che la parlata britannica uscisse poi contaminata” nella bocca della loro numerosa prole bastarda. Fortunatamente, i Longobardi capitati da noi non erano tanto raffinati.

Evidentemente i primi antichi conquistatori dell’Italia, della Grecia e dell’India, non tagliarono la lingua alle loro concubine. Con il risultato che in sanscrito sono entrati i suoni esotici delle lingue dravidiche (le cosiddette consonanti cerebrali), che la cultura greca posa su una mitologia sommersa tutta da ristudiare, e che noi italiani possiamo vantarci di parlare una lingua con doppia potenzialità espressiva.

D’altra parte, quando i verbi appartengono al padrone e i nomi al servo, abbiamo una situazione coloniale e in quella cultura serpeggerà un subliminale senso di rancore. Il rancore può scomparire, nel corso dei secoli, se la distanza tra il padrone e il servo diminuisce. Ciò avviene tanto più facilmente se le lingue in questione sono affini (il sassone e il francese non lo erano e per la fusione nella lingua inglese ci vollero quattro secoli) e se i popoli interessati sono di stirpe affine : i Normanni (che avevano acquisito la lingua francese) erano di stirpe germanica come i Sassoni da loro sottomessi. Viceversa nel Galles e in Cornovaglia , dove il substrato era etnicamente diverso , i dialetti celtici ela razza diversa hanno opposto resistenza all’ inglese fino ai giorni nostri..

La fusione delle varie lingue celtiche (ariane) parlate in Gallia e in Spagna e nella Padania con il latino (ariano) ebbe luogo senza grossi problemi : così nacquero varie lingue romanze (il francese, lo spagnolo, il portoghese e i dialetti piemontesi, lombardi e veneti). In Spagna però vi era una etnia che parlava il basco, che non possiede alcuna affinità con le lingue ariane: la mutua incomprensibilità mantenne una distanza fisica tra baschi e celtiberi prima, e tra baschi e iberici latinizzati poi, contribuendo così a conservare anche la identità dell’etnia basca.

La sorte degli etruschi in Italia avrebbe potuto essere simile a quella dei baschi in Spagna. Per cultura e lingua gli etruschi erano inassimilabili dagli ariani e infatti si schierarono contro Roma in qualsiasi occasione, persino al tempo di Catilina, cioè molto tempo dopo che i Romani, esasperati dalle continue rivolte, erano ricorsi a un parziale genocidio. Di conseguenza i Romani estirparono la lingua etrusca (e quelli che la parlavano) così radicalmente che in Etruria già nel I secolo, al tempo di Claudio, si parlava soltanto il latino e di conseguenza, secoli più tardi, in Toscana il latino si sciolse

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armoniosamente nel volgare, senza incontrare la resistenza di un substrato, e la Toscana fu la regione d’ Italia in cui il volgare in bocca al popolo si distanziava meno da quello parlato dai signori Per felice coincidenza i grandi scrittori del Trecento furono per lo più toscani, sicché sul volgare toscano fatalmente si modellò la lingua di cultura dei discendenti dei Romani. E fu una specie di vendetta allegra.

Nelle altre regioni d’ Italia, salvo che nel Lazio, la parlata, con le sue cadenze, del substrato, con tipiche cadenze locali, è sopravvissuta nei dialetti di uso corrente fino all’ era della televisione.

Fuori dell’ Etruria, il toscano rimase per secoli l ‘ italiano parlato e scritto dalle classi privilegiate. Di conseguenza, alle differenze etno-linguistiche delle altre regioni italiane, derivanti dal passato pre-ariano, si aggiunsero quelle sociali: l’ italiano era la lingua di quelli che avevano la ricchezza e il potere. Fanno una interessante eccezione il dialetto veneto e il napoletano, che hanno posseduto una secolare letteratura scritta che il frazionamento politico del paese ha contribuito a conservare : per lo mano queste due « lingue romanze » secondarie meriterebbero di esser riconosciute nella storia della letteratura d’ Italia, così come in Svizzera è riconosciuto il romancio. Il napoletano e il veneto venivano (e spesso sono ancora) parlati da individui di tutte le classi sociali. Là dove ciò non esiste un contrasto di classe in campo linguistico, come in Campania, nel Veneto e in Toscana, l’armonia sociale che ne deriva si rispecchia nella natura e nell’architettura, nell’ immaginazione e nella creatività..

Queste compatte unità regionali (oltre a svraite altre, però minori e meno evidenti), non sono formalmente riconosciute dalla nostra costituzione. Ciò spiega le battaglie politiche della Lega. Dietro quel partito c’e una realtà, a parte i risultati elettorali non costanti e i problemi finanziari che il federalismo implica. Riconoscere quella realtà non significa cancellare l’italiano come lingua di cultura. Un secolo fa il Manzoni sigillava il destino linguistico della nuova nazione che stava nascendo andando a sciacquare i panni in Arno, benché avesse il Ticino e l’ Adda a sua disposizione.

Fatto l’italiano, bisognava indurre gli italiani ad usarlo. In tutto l’Ottocento, il modello linguistico che raggiunse le masse nel delicato

momento in cui si tentava di trasformare l’ Italia espressione geografica in Italia nazione-e-stato fu quello dei libretti d’opera. Il popolo, per la maggior parte analfabeta, conosceva i testi a memoria e si cimentava a cantarli:e ne citava versi con valore proverbiale. Purtroppo, non si trattava di grande poesia. Fu una occasione perduta. Nel Novecento, infatti, vennero i testi atroci e la musica mediocre delle canzonette e a fine secolo la penisola è stata colonizzata dal gergo pastorizzato della televisione e da una scolarizzazione di massa priva di ambizioni..

Oggigiorno il contrasto non è più tra italiano letterario e parlate popolari e non è più sociale, ma è un contrasto generazionale e il quadro complessivo è preoccupante. Mentre si cominciano ad accogliere le pretese degli immigrati degli ultimi dieci anni, l’ italiano letterario parlato dai vecchi ex-alunni dei licei è in via di estinzione e nel frattempo aumenta la prepotenza e l’ impatto di un gergo burocratico asettico, comprensibile solo agli addetti ai lavori. Il popolo che non legge ha a sua disposizione,

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come alternativa, dialetti in stato avanzato di decomposizione, spesso pubblicizzati dai « mass media » nella loro forma più scurrile.

I relitti dei dialetti potrebbero essere fertili di nuovi sviluppi se riabilitati da un federalismo non litigioso. Le lingue di cultura infatti divengono asfittiche, come acque stagnanti senza vegetazione e senza pesci, quando mancano le correnti vitali che perennemente devono scorrere dal fondo alla superficie e dalla superficie al fondo. Si è già accennato al pidgin, la lingua franca del Pacifico : proprio perché il pidgin è affidato alla creatività dei parlanti, e non alla TV, dal pidgin stanno nascendo letteratura e poesia.

Di poeti il pianeta ha bisogno. Di poeti e non di intellettuali alla greppia dei mezzi di comunicazione di massa, che attingono ai dialetti solo a scopi pubblicitari. E’ stato notato che, in televisione, per gli intermezzi comici si preferiscono le inflessioni del romanesco o del napoletano, mentre la brava massaia della pubblicità è veneta o lombarda. Purtroppo, quel lessico familiare che è stato raccolto nel nostro dizionario e che i dialetti custodivano, viene condannato a sparire dallo sviluppo della tecnologia. Per esempio, la progressiva sostituzione dell’attrezzatura domestica (la stessa per millenni) con nuovi utensili, per lo più elettrici, e la contemporanea diffusione di cibi precotti e di indumenti confezionati, contribuiscono ad eliminare molti vocaboli di stampo pre-ariano, i soli che la lingua letteraria ufficiale era costretta a condividere con i dialetti. Gli oggetti divengono obsoleti, le ricette pure, e persino nelle cucine italiane entrano parole nuove, parole prefabbricate per i cibi precotti.. Inoltre, con l’urbanizzazione inesorabilmente crescente, sparisce la familiarità con le piante domestiche e selvatiche, con i loro parassiti, con gli uccelli... e con i nomi di tutte queste creature.

La lingua letteraria custodita e tramandata dalla scuola ha perso credibilità anche perché è stata usata dai politici per mezzo secolo per vendere aria fritta o per imporre decreti, sia pur mascherati sotto forma di consigli per l’ acquisto o di propaganda elettorale.

E’ triste poi ascoltare, dalla bocca di italiani doc, parole entrate in inglese nel Cinquecento e nel Seicento (quando l’italiano era la lingua europea di cultura), che oggi rimbalzano nella nostra conversazione con il significato acquisito all’estero. Un esempio che le generazioni degli anziani non possono fare a meno di notare è il caso di “realizzare” nel senso, del tutto nuovo, di “rendersi conto” invece di ”render concreto” (da « res », ”la cosa”). Ma per lo meno “realizzare” è un neologismo tutto ariano. Il caso di ”intrigante” è anche più triste, perché il suo vero significato non può sfuggire alle padrone di casa pettegole alle prese con i condomini. Anche alle madri che pettinano i loro bambini resterà sempre familiare il suo antonimo “districare”. La radice mediterranea TRIX (il capello) non è stata importata in Inghilterra, sicché gli inglesi non hanno avuto problemi a usare “intriguing” nel senso di “intricato » e quindi « misterioso e affascinante”. Ma quando in italiano si usa la parola in tal senso, e soprattutto quando la usano i critici letterari, allora bisogna concludere che gli italiani sono diventati sordi alla loro lingua, che non li intriga proprio più. Tanto che nessuno si scompone se un poeta laureato usa “fittile” nel senso di “conficcato”.

Forse “non ritorneremo più al bosco, perchè son tagliati gli allori”, come si cantava in Vandea. E’ fatale che appassisca una pianta a cui si son tagliate le radici: le radici

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ariane, di « res », e quelle mediterranee, degli intrighi. E come può il singolo, privato delle sue radici, essere indipendente nelle sue visioni e avere il coraggio di assegnare nomi nuovi a cose nuove?

Come si potrà far poesia? Questo problema, che imbarazza molti scrittori europei, è pressochè inesistente là

dove gli uomini vivono a contatto con la natura. Cosi, tra gli atolli del Pacifico, in una lingua recente come il pidgin, il significato astratto di “nero” viene trasmesso usando al posto dell’aggettivo il nome di qualcosa che è veramente nero: invece di dire “nero” si dice “corvo”, proprio come nella preistoria d’Europa al posto dell’aggettivo “rosso” si diceva ”rame”. In italiano, al contrario, volendo significare “fondi neri”, (espressione pregnante, poetica, che evoca ad un tempo la stregoneria con i fondi di caffè e il pozzo nero), oggi un leader politico parlerà di “fondi non contabilizzati”.

Il pidgin, lingua poetica, per sostituire la voce inglese ”blind”= cieco (difficile da memorizzare perché foneticamente arbitraria) inventa un vivido “aispas” (cioè, « eyes past » = occhi passati = occhi che non funzionano più): assai più espressivo del nostro “non-vedenti”, che si rifà a una condizione anziché a un’immagine e quindi classifica anziché evocare fuori del tempo, come avviene quando diciamo “occhi passati” o “acqua passata”.

La lingua che non evoca tende a rinviare tutte le visioni dallo stato di veglia a quello del sonno. Ma la mente umana ha bisogno di visioni: noi non siamo programmati dal nostro DNA per essere dei computer. E invece le visioni sono sparite dal nostro quotidiano. Non ci sono più poeti per evocarle e la gioventù cerca l’organico gridando i nomi degli organi sessuali (di cui anche l’ economia di mercato ha difficoltà a privarli) oppure soddisfa il suo bisogno di mistero nei termini in lingua straniera… e si aggira tappandosi le orecchie con la musica.

Ma la visione non appare neanche se si urla la parola ai livelli assordanti dei concerti negli stadi, nemmeno accompagnando la voce con il tamburo. E le luci psichedeliche restano esterne alla voce. Ci vuole la droga per far splendere dall’interno la parola: ma in quei bagliori acrilici l’osservatore, muto e solo e abbagliato, chiude gli occhi.

C’è da domandarsi se la cosiddetta “crisi dei valori” non sia soprattutto una crisi della formulazione dei valori. Tutte le crisi nascono dentro a un linguaggio, perché ogni singolo linguaggio è una filosofia, è una visione del mondo..Di qui lo smarrimento delle moltituidni alla fine del secolo XX. Basta pensare a quanta parte del pensiero occidentale e di tutto il complesso culturale antico che aveva le sue radici nell’animismo (come sottolineava Yeats) ci è stata resa estranea tre secoli fa quando è stata svuotata dall’Illuminismo con una violenza settaria simile a quella che soltanto la Chiesa aveva a volte minfestato. L’Illuminismo con tutti i valori e la brutalità della rivoluzione francese, era stato accettato con entusiasmo dagli intellettuali progressisti, ma poi venne imposta in tutta Europa ai risentiti oppositori rurali con « democratici » eccidi di massa (che nella sola Italia fecero 300.000 morti ). Per capire il fatale progresso dei dogmi degli illuministi basta pensare all’arroccamento teologico del pensiero politico liberale e socialdemocratico alla fine della seconda guerra mondiale: ogni colloquio con i sospetti di

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totalitarismo venne escluso. Quello stesso pensiero è stato poi vanificato pacificamente in pochi mesi dalla altrettanto fanatica teologia del libero mercato.

Questa ultima colonizzazione, operata dal potere finanziario, è impersonale e invisibile e ci risparmia le crocifissioni. Ma la Parola,.ossia ciò che fa dell’uomo una specie a parte nel regno animale, oggi è minacciata. La parola, come unità indivisibile e riconoscibile nel fluire del discorso, è inerme di fronte al gergo internazionale dei computer (si pensi a quei primi tentativi del BASIC, in cui un chiarissimo inglese “go to” = ”vai a” , in inglese, diventava un barbarico GOTO). C’ è poi l’abuso di pleonasmi, introdotti dagli slogan che si sostituiscono all’aggettivo singolo (“più- bianco-del-bianco” è una nuova forma di superlativo). Una volta che la parola isolata sia privata del suo impatto, ecco che diventa possibile per un politico sedurre gli elettori pubblicizzando la “democrazia popolare”, che sarebbe “ il potere del popolo ad uso del popolo”… inconsapevole confessione del fatto che il normale potere del popolo gli è stato ormai sottratto dai suoi nemici.

Forse è il caso di prescrivere lo studio dell’etimologia ai giornalisti e ai candidati al Parlamento. Ma un’onda irresistibile continuerà a spingere i « gay » di sesso maschile a chiedere accesso al « matrimonio », ossia alla « maternità legale », perché essi possono troncare ogni discussione scagliando contro chi li richiama all’ etimologia l’ aggettivo « fascista ». .

Quando i parlanti non sono più consci del valore delle parole, le conseguenze non si limitano al campo della lirica.. Ed è un errore pensare che gli slogan che ci bombardano dai cartelloni stradali e dai teleschermi siano più innocui delle antiche preghiere, cioè delle formule magiche che sollecitano il divino a manifestarsi tra noi. Tutta la pubblicità, sia commerciale che politica, è intesa a manipolare l’ opinione e si basa sulla diluizione del significato nell’intera frase, per far emergere l’ emozione e celare a chi la prova la fredda intenzione di chi l’ ha coniata.

L’intenzione (di farci comprare, o votare o combattere guerre sante e preventive ) si serve senza pudore dell’ appello emotivo. Questi sono i biscotti della nonna. Quello è il partito di Garibaldi. Vota per il sole che sorge, socialismo, nuova alba del mondo. E anche Alberto da Giussano, che ha perso un pò di smalto da quando le nuove generazioni non sono più costrette a studiarsi a memoria LA CANZONE DI LEGNANO (“chi era costui?”).Si pensi all’uso della musica della Marsigliese o di una rapsodia di Liszt nei film : arrivano i nostri.

L’ emozione rimuove le capacità logiche sicché l’ intento viene percepito in uno stadio che precede l’articolazione. Il cane sa che sto per batterlo. Il philodendron sente che chi è entrato nella stanza non ama le piante. L’elettore è predisposto ad applaudire: non per nulla chi parla è un uomo del suo partito. La crisi “del” linguaggio si manifesta anche in questo: che l’approccio linguistico è diventato secondario rispetto a quello psicologico.

Inoltre, con lo sviluppo dei gerghi tecnologici, la maggioranza della popolazione è regredita a una situazione di bilinguismo tutta nuova ma analoga a quella dei non ariani nel l000 a.C.. C’è al potere una minoranza che ha radici (finanziarie, oggi, piuttosto che militari come in passato) fuori del territorio nazionale, che possiede strutture il cui

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potenziamento ha luogo altrove e che legifera in un suo idioma particolare. Questo potere emana i suoi gestori, sicchè nascono ogni pochi anni nuove caste (che sono spesso classi di età), che parlano lingue in parte incomprensibili ai loro predecessori..

L’ avvicendamento nel campo della tecnologia elettronica è trainante anche nel campo del rinnovamento del lessico quotidiano.

Un esempio della accelerazione a cui sono sottoposti i processi linguistici ci viene offerto da Mario Lodi, il cui PAESE SBAGLIATO risale soltanto al l970. Mario Lodi aveva domandato a un bambino lombardo: “Ti piace la mela?” E il bambino non rispondeva, perché non capiva il significato della parola “mela”, che è di origine pre-ariana, ma è entrata nella lingua italiana ufficiale attraverso il greco eolico (secondo Varrone, V, 102), cioè è entrata nel meridione. Per il bambino lombardo il nome del frutto era « pomm », che è la trascrizione di un altro termine non indoeuropeo, ma è entrato in latino (« pomum », il pomo) da un substrato centro-settentrionale. Evidentemente nel l970 il prestito standardizzato di “mela” non aveva ancora raggiunto tutti i distretti della Padania.

Negli anni novanta era già noto a tutti gli abitanti della penisola che una mela al giorno leva il medico di torno, senza che ciò comunque abbia apportato loro grandi vantaggi. Infatti l’approfondimento del lessico non ariano legato alle cose non è mai stato qualificante e oggi lo è meno che mai. Le parole evocative giovano ai poeti per la loro magia bianca, cioè per attingere un potere spirituale che nulla ha a che fare con il possesso e che non provoca gli ascoltatori a fare o a comprare.

E’ l’ altra lingua, quella che sacra non è, che dà il potere assieme al possesso: è la lingua del palazzo, dei dirigenti, che viene spregiudicatamente usata a fini vagamente intimidatori. La prima reazione, quando l’ utente delle ferrovie scopre di esser stato trasformato da « viaggiatore » in « cliente », è che ci risiamo all’imbecillità fascista. Per dimostrare una entusiastica adesione alla nuova teologia del libero mercato, il trasporto non è più un trasferimento nello spazio, ma è stato ridotto ai suoi costi, cioè al trasferimento di denaro. Quel che accade in altri uffici è anche più scopertamente prevaricatorio. Spiazzato dallo scoprire che su tutti gli sportelli degli uffici postali hanno scritto « prodotti postali » il cittadino che deve comprare un francobollo si informa timidamente : « Dove faccio la coda ? ». Apparentemente il francobollo è diventato prodotto postale per puro servilismo alla ideologia dominante del libero mercato, però di fatto il cittadino è stato trasformato in postulante.

La tipica strategia colonizzatrice si rivela nell’ uso ufficiale, a partire dal 2002, della parola inglese « devolution ». Devoluzione è, secondo il dizionario, « l’assegnazione di qualcosa a favore di qualcuno ». E’ un derivato del lessico ariano, quindi di uso corrente per le classi di potere, ma con una sua ambiguità che un figlio di mamma mediterraneo tradurrebbe come « bustarella ». Una volta tradotta dal latino in inglese i prestigiatori e cavadenti di Montecitorio ce la rifilano furbescamente nel senso di « federalismo ».

Intendiamoci, è un gioco in cui non ci sono innocenti La volontà di ridurre il cittadino in stato di inferiorità coloniale risulta evidente a

chi prenda in mano il modulo per la dichiarazione dei redditi. Il questionario è infatti

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comprensibile solo a quanti si sono inchinati al nuovo idioma coniato dai padroni del vapore :cioè alla casta emergente dei consulenti fiscali, che ricavano lauti guadagni dalla sua oscurità.

E’ un passo ulteriore nella perdita della libertà : il cittadino che dall’infanzia è stato educato a non essere indipendente per quanto rigurda il cibo e il riscaldamento, scopre che la sua lingua madre non lo abilita a comprendere quel che la sua patria vuole da lui.

Oggi chi non ha familiarità con la lingua del palazzo si ritrova nella condizione di Renzo davanti all’avvocato con il suo “latinorum”. In pratica il cittadino italiano è tanto impotente di fronte al suo governo quanto un umbro indigeno di 3000 anni fa di fronte a un burocrate di quella minoranza di umbri indoeuropei che aveva usurpato il nome della sua tribù e lo arringava irritato in un idioma non suo. C’è però una differenza, che va tutta a sfavore dell’umbro dei nostri giorni: 3000 anni fa era più probabile che si parlasse di dazio sulle mele piuttosto che di percentuali sul reddito lordo, sicché l’umbro, con l’evidenza della mela in mano o nel cestino, riusciva a cavarsela autonomamente. La perplessità dell’umbro di oggi, invece, davanti a gerghi ad un tempo intimidatori e esoterici, è che l’ oggetto della contestazione è assente o virtuale.

Il sentimento di frustrazione che ne deriva, nell’immediato, provoca una rivolta contro Roma che emana gli incomprensibili ukase.D’altra parte, la frustrazione comune agisce come collante. La prepotenza del governo ladro odierno risveglia nel subconscio collettivo la memoria di torti antichi e recenti (subiti da romani e tedeschi, da francesi e spagnoli, e per duemila anni dalla chiesa) e unisce i fratelli d’ Italia in una perenne, silenziosa riottosità. Era stata proprio la comune animosità contro il potere centrale cieco e avido del Senato che aveva unito italici ed etruschi contro Roma al tempo della guerra sociale. I ribelli avevano preso il nome di « italici » in un senso vicino al nostro di « italiani » proprio in quell’ occasione, nella rivolta contro Roma.

Solo molti secoli dopo Roma divenne il simbolo di una antica libertà e dignità perduta, nella penisola continuamente saccheggiata da eserciti stranieri, venuti a sopprimere l’autonomia dei comuni e dei principati . E cominciò il Petrarca a parlare dell’Italia come di una nazione reale, e non solo dell’ espressione geografica che di fatto era..

Il Petrarca parlava (indarno), in qualità di membro di una elite esigua e coltissima. Ma non aveva dubbi: l’Italia si identifica con Roma, quella Roma che aveva dominato tutto il mondo conosciuto. I fratelli d’Italia, per il Petrarca, sono figli di Roma, come lo saranno per Goffredo Mameli secoli dopo. E l’Italia ha confini ben precisi, quelli dei “nostri dolci campi” violati da un “diluvio strano” di barbariche genti. Grazie alle comuni sofferenze inferte a tutti gli italici dagli stranieri, i ”nostri” dolci campi non sono soltanto toscani, ma includono tutte le fertili campagne a sud delle Alpi, che sono “nostre”, cioè, italiane, comprese le terre oggi perdute

“a Pola, presso del Quarnaro, che Italia chiude e i suoi termini bagna”

come scrisse padre Dante, non sospetto di fascismo.

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La stessa consapevolezza è in Machiavelli, il quale non era un mitomane, bensì un uomo di stato e apparteneva al palazzo. Anche per lui l’Italia era un paese reale, benché fossero passati mille anni dall’unità della penisola sotto Odoacre, e benché il paese fosse stato quant’altri mai “battuto, spogliato, lacero e corso.” A Machiavelli inoltre “gli italiani” apparivano superiori agli altri europei per forza, destrezza e ingegno e non si scusava di dirlo. L’Italia come stato non esisteva ancora, ma esistevano gli italiani, e ad ognuno di essi “puzzava questo barbaro dominio”.

Anche Alfonso I d’Este, nel l5l2, alla battaglia dell’Acquatussa, aveva le idee chiare. Lui era in grado di distinguere gli italiani dagli altri combattenti e di confortare quei suoi bombardieri, pessimi tiratori, che decimavano gli alleati: “Voi non potete errare, perché sono tutti nemici”. Il che vuol dire che anche quegli artiglieri analfabeti sapevano distinguere gli italiani dagli altri. Così almeno ci racconta Paolo Giovio.

Ci sono luoghi con nomi magici, nazioni i cui contorni vengono fissati per l’eternità dagli sconfitti immersi nel loro sangue sul campo di battaglia, dai profughi cui è negato il ritorno, dagli orfani in esilio. Nome magico è stato quello dell’Italia, come quelli della Polonia, dell’Irlanda, di Gerusalemme… e nome tuttora magico, è quello del Curdistan.

La prova forse più commovente del valore magico della parola “Italia” si trova nel cimitero spagnolo di San .Francisco, in una lapide datata 1832, e dedicata in italiano: A Lorenzo Falzon, dalmata, morto lontano

dall’Italia, i compatrioti posero. E Lorenzo era morto con un passaporto austriaco in tasca, mentre Carlo Alberto, ambiguo, non si muoveva dalla Savoia e in Toscana c’erano i Lorena e a Napoli governavano gli Spagnoli e il papa regnava su Roma, e la Dalmazia (ci ricordano i libri di storia), salvata dai turchi in nome del leone di San Marco, geograficamente e politicamente è stata di Venezia per mille anni ma non è stata italiana mai. Però i compatrioti (di quella patria virtuale) che avevano dato sepoltura a Lorenzo il dalmata lo sapevano italiano e si sapevano italiani..

Quale immagine il nome di Italia evocasse alla mente del dalmata nel momento della morte gli esuli di tutte le patrie lo capiscono. I curdi lo capiscono. I tibetani lo sanno. L’ Italia era un’idea in cui anche i dalmati potevano riconoscersi . Non sappiamo, invece, in quale lingua Lorenzo avrà mormorato le sue ultime parole: difficilmente in quella di Petrarca. Infatti, nel paese là dove il sì suona, solo il sì, e il pane e il vino suonavano eguali per tutti, al tempo di Lorenzo. Persino una parola quotidiana, come “ragazza”, aveva, e ancora ha una versione diversa in ogni regione. Sul letto di morte Lorenzo si ricordò forse del suo primo amore, di una “muleta” nella lingua di Trieste o di una “putea” in quella di Venezia: non certo di una “ragazza”, termine oggi universalmente accettato, ma importato un secolo fa dall’arabo magrebino, in sostituzione dell’ aulico (e ariano) termine di “fanciulla”, che sarebbe la creatura tenera che da poco ha imparato a parlare.

Nessuno statuto federale, nessuna accresciuta autonomia regionale, nessun finanziamento del teatro dialettale, potrà mai distruggere l’ unità profonda sopravvissuta a

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tanti secoli di invasioni e spartizioni. I nostri emigrati all’estero da tutte le regioni d’Italia non hanno mai avuto dubbi su cosa significa essere italiani.

Gli svizzeri sono una nazione plurietnica, che ha un’unica squadra nazionale di calcio. Un’ Italia federale avrebbe sulla Svizzera il vantaggio di possedere, oltre al tricolore, che ci commuove quando appare sugli spalti degli stadi di calcio, una lingua letteraria unica e non un idioma tribale scelto a caso, come nelle Filippine : la lingua di Dante.

Quale potrebbe essere il motto di una buona battaglia? federalisti di tutta Italia, unitevi?

Capitolo VIII

Lingua biforcuta

. Scomparso l’ uso quotidiano dei dialetti, noi italiani ci troviamo a dover parlare un

idioma bastardo, perché nessuna delle nostre due lingue è autonoma : ciò che crea un vero e proprio disturbo della personalità. Dentro casa diciamo ”bottiglia, bacio, cantiere, mattone, dolo, fame, febbre, fuoco, olio, vino, gabbia” e tutte le parole necessarie sul lavoro e nell’ozio, per fare all’amore e per fabbricare una barca. Parole magiche, si è detto, perché evocano immagini, senza le quali non si fanno esorcismi, ma neanche si fanno gli spaghetti alla carbonara. Poi usciamo di casa e diciamo “prodotto interno

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lordo, tangenziale ovest, comparsa di costituzione di sfratto”: e così ci destreggiamo nella giungla politica e amministrativa.

Fuori di casa gestiamo con disinvoltura un idioma povero di elementi, ma col potere illimitato di proliferare mediante prefissi e suffissi:

“mobile, immobile, immobiliare, immobilità, immobilismo,immobilizzabile, mobilitare”...

Le sillabe si sommano e si sostituiscono come gli accessori di un trapano. Proprio questa componibilità, tipica delle lingue ariane, ha permesso agli europei di essere flessibili negli approcci e di sopraffare le altre culture. Lingue di conquistatori, diceva il Meillet: dovendo emanare un decreto, che sia chiaro e autorevole. E il latino era perfetto per emettere scomuniche ed è tuttora insostituibile nelle epigrafi. In teoria, la situazione degli italiani è invidiabile: hanno a disposizione un lessico adeguato sia al mercato che al cimitero.

In conclusione siamo schizofrenici. Abbiamo in bocca due idiomi che non sono in pace tra loro. Le rispettive voci sono registrate nello stesso dizionario e ciò non è privo di conseguenze. Anzi, le conseguenze sono gravi per la salute della nostra società e della psiche individuale, complicano l’ amministrazione del paese e ostacolano il nostro inserimento nella grande comunità europea.

Per esempio, il lessico tutto ariano dominante nei tribunali e nelle università, influenza i gestori dell’editoria che non apprezzano la divulgazione di alto livello che è il fiore all’ occhiello della stampa inglese. Poiché la cultura di una nazione dipende dal livello medio di istruzione dei cittadini e non dal numero dei suoi premi Nobel o dei cervelli riparati all’estero in piena crisi di sconforto, nel complesso l’ Italia del terzo millennio è il fanalino di coda delle nazioni civili. Una serie di scelte politiche miopi e faziose ci impediscono di ricordare a noi stessi e agli stranieri che la nostra lingua letteraria ha fornito un lessico indispensabile a musicisti e pittori e giuristi nel mondo intero.

Questo masochismo a livello elitario affligge le nuove generazioni con un complesso di inferiorità che si riflette nell’ accoglimento di ogni genere di voci straniere come nell’imposizione della più straziante musica « etnica » (termine balordo per evitare di dire asiatico o africano). La coscienza della propria dignità non è arroganza e non è prevaricazione, e giustamente noi la rispettiamo presso i Sioux e i Curdi. D’altra parte, se Roma (arianissima) è stata grande, i Comuni nati dalle tradizioni del substrato sono un’altra delle nostre glorie. La tragedia dell’ Italia attuale è la soffocante supremazia di mezzi ariani depressi sopra mezzi ariani insofferenti. La mancata integrazione delle due componenti del nostro carattere e in pratica delle nostre due lingue nazionali è un grave handicap nei confronti degli stranieri, perché ha una marcata influenza negativa sul nostro carattere. Abbiamo una cattiva fama all’ estero, per l’ incoerenza del nostro comportamento e la mancata fedeltà ai patti. Noi non siamo consapevoli di questi difetti, noi non ci accorgiamo neppure di parlare ora l’una ora l’altra lingua o di parlarle ambedue confusamente assieme, appannando la limpidezza del messaggio. I discorsi dei nostri rappresentanti politici sono un giorno

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trasparenti e presuntuosi, un giorno ermetici e cinici, un giorno pieni di senso pratico e di fedeltà tribale. Noi abbiamo la lingua biforcuta e gli stranieri lo sentono.

Un altro fattore che ci rende inaffidabili è quell’ odio che si è detto (eredità di secoli in cui abbiamo vissuto sottomessi a stranieri) per il potere centrale, che anche oggi si rivolge a noi in una lingua straniera. Poco importa che il parlamento sia stato eletto da noi (ma in base a liste compilate da « loro » !): noi ci sentiamo in diritto di dissociarci in qualunque momento dallo stato che ufficialmente ci rappresenta (e dalla chiesa cui ufficialmente apparteniamo).

Non pagare le tasse non è reato nemmeno per gli italiani miliardari: non confondiamo un grande evasore fiscale con il mascalzone che ci scippa dal motorino !… I dogmi della chiesa ?…Noi battiamo le mani al papa e ci riserviamo libertà di giudizio e di revisione del giudizio a proposito dell’aborto.

In Italia le parole volano più consapevolmente che altrove. Impossibile tradurre in inglese una frase come « Qui lo dico e qui lo nego. ». Se anche esiste un impegno collettivo preso dalla autorità centrale (una cosa semplice, come l’ obbligo del casco, o una dichiarazione di guerra), tanto peggio per « loro » : dovrebbero sapere che in Italia le scelte individuali scavalcano il patto sociale.

Questo rifiuto dell’impegno appare agli stranieri come volubilità di immaturi oppure come mancanza assoluta di principi morali, però anche tra gli italiani genera un’aura diffusa di incertezza che accresce lo sconforto della vita quotidiana. Persino quelli che, nel privato, non tradirebbero un amico, sentono che il patto sociale, proprio in quanto sociale, in Italia non è vincolante. Non lo è per i nostri uomini politici per cui cambiare campo durante una guerra perduta è una manovra legittima, dettata dal buon senso della cuoca in cucina e del garzone di stalla, che sono appunto quelli che parlano quasi esclusivamente la lingua pre-ariana e che sono da sempre contrari a firmare una dichiarazione di guerra, perché poi « sono gli stracci che volano in aria »..

Di conseguenza la società degli italiani è schizofrenica a un livello inimmaginabile non solo per gli altri paesi europei, ma anche per le tribù più primitive. Noi siamo inaffidabili perché c’è una metà ribelle, dentro a ognuno di noi, che non consente a quello che, in una lingua non totalmente nostra, abbiamo promesso.

Succede quindi che in Italia, paese che ospita il papa e che è ufficialmente cattolico al 95%, il 75% dei cittadini voti in favore del divorzio (« che può saperne il Papa, che non è sposato? ») mentre il 60% vota in favore dell’aborto. L’ 85 % dei cattolici italiani non ha mai letto il Vangelo . I musulmani immigrati lo hanno già capito : gli italiani, salvo un 7% di eccezioni, non si opporranno alla circoncisione, purché sia gratuita e garantisca il posto fisso. Il 7% è’ la percentuale a cui si ridussero i fascisti dopo la guerra persa, in un paese che era stato a lungo plebiscitariamente fascista…Il 7% potrebbe essere un numero statisticamente indicativo in moilte circostanze.

Però dire che noi italiani abbiamo la lingua biforcuta non ci rende giustizia: biforcuta è la lingua che abbiamo a disposizione.

Anzitutto c’è l’ onnipresenza del latino, defunto da 2000 anni, che continua a proliferare, tanto che il dizionario ci dà come primo significato di “attore” « colui che prende l’iniziativa di un processo ». Alla notizia viene la tentazione di fare dello spirito a

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proposito dei processi italiani e ci si conferma nell’ idea apprendendo che la “comparsa” è l’atto scritto con cui l’avvocato difensore chiede al giudice di intervenire in suo favore.

Basata su un lessico del genere, è chiaro che la giustizia italiana non può essere una cosa seria. A Roma tutti possono vederla, la Giustizia, correttamente rappresentata in cima al Palazzaccio: ha le mani occupate da bilance e spade ed è talmente impegnata a reggerle che non può evitare di lasciar cadere i reati in prescrizione (puro termine ariano).

E’ comprensibile che, con i tribunali ridotti a teatrini bilingui affollati di attori e comparse, il cittadino guardi sempre più spesso a quelle istituzioni in cui “sgarro”, “onore” e “infamia” sono parole non ambigue. Lo stesso sostantivo “famiglia”, nell’ uso che ne fa la mafia è, dal punto di vista semantico, ammirevolmente corretto: la famiglia era l’ insieme delle persone impegnate nel servizio a una minuscola collettività.

In senso generico la mafia (con le tangenti, le concussioni, le corruzioni) è presente in tutti i paesi del mondo: si tratta di gruppetti di spregiudicati (anche russi o cinesi) che non indietreggiano davanti alla violenza pur di far denaro rapidamente e senza fatica e si organizzano per taglieggiare i deboli e i pavidi. Però in Italia a partire dal dopoguerra la mafia (camorra, ‘ndrangheta, sacra corona, e “stidda”) è diventata la nostra genuina struttura sociale, che riaffiora continuamente dal substrato.

La mafia oggi è una potenza finanziaria transnazionale, troppo astuta per quotarsi in borsa. Ma fino a poco tempo fa il suo fascino stava nel fatto di essere a misura d’uomo: il patto di sangue delle iniziazioni era concreto e faceva della cosca la madre, del capo il padre, degli altri associati i fratelli. Era il clan ricostituito, con quel calore consolante che lo stato moderno, sopraregionale, non sa più dare ai cittadini. La scelta di quella madre siciliana che mai perdonò alla figlia di aver tradito la cosca denunciando i suoi reati dovrebbe farci meditare, e non soltanto farci indignare per la morte della sventurata adolescente.

Forse, oltre al vantaggio economico e al terrore della punizione che incombe sui traditori, dietro alla fedeltà alla mafia c’ è anche il cocente bisogno di legami personali..Gli stati moderni hanno rinunciato ufficialmente alla pena di morte (sostituita in caso di necessità da convenienti « suicidi »), ma le mafie, sagaci, hanno ridotto tutte le forme di punizione ad una sola : per qualunque sgarro, per qualunque inefficienza, per tutto ciò che porta danno al clan c’ è la morte, mentre « gli uomini veri » che si distinguono per coraggio e intelligenza fanno rapidamente carriera.

Persino la segretezza di queste associazioni a delinquere trova un’eco nella schizofrenia (linguistica ed etica) dell’italiano medio. Solo per un osservatore superficiale i mediterranei sono estroversi. A qualsiasi ora del giorno, Ulisse era disposto a esternare le sue emozioni di mercante o di mendicante, di guerriero o di esule: ma esternava menzogne. Il suo vero io era impenetrabile. Non piace ai mediterranei essere conosciuti nell’ intimo: non è mai prudente esporre le proprie debolezze. Sorridiamo, ma il vero scherzo rimane segreto. Il sorriso arcaico dell’Apollo di Veio, indecifrabile, si ritrova sulle labbra della Gioconda. Nemmeno di noi stessi ci fidiamo completamente…: e con ragione.

A livello individuale, è vero, gli italiani sono capaci di reazioni virili e di sacrificio generoso, ma a livello collettivo i « pianisti » del Senato sono gli autentici

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rappresentanti del nostro popolo, specialmente quando, regolamento alla mano, ci dimostrano di essere dalla parte della legge, evocando nella memoria degli anziani certe gag di Totò.. E ciò sia detto senza far torto agli italiani che arrossiscono per lo sguardo ironico dell’arbitro svedese quando un nostro calciatore fa la commedia torcendosi sul prato in area di rigore. E mentre la massa degli italiani, negli anni dal’ 43 al ‘50, dava una prova formidabile della superiorità biologica del nostro popolo, della nostra invincibile volontà di sopravvivere, c’era un Fecia di Cossato che si suicidava, non sopportando la vergogna della sconfitta. E nonostante il nostro innato scetticismo in fatto di religione e morale, 880 cittadini di Otranto, fatti prigionieri dai Turchi, si fecero decapitare uno per uno rifiutando di sputare sulla croce. Si potrebbe persino dire che Salvo D’Acquisto non poteva essere che italiano!..

Non si può far torto a quel famoso 7%. Né si possono accusare tutti gli altri, dato che quella violenza quasi preistorica

degli ariani (nostri padri) sui più antichi abitanti della penisola (sulle nostre madri) ci ha mutilato per tutti i secoli. Ogni stupro è per sempre, perché la creatura che nasce incarna l’ ingiustizia e la perpetua. Non siamo i soli ad aver subito questo: nessuno dei popoli sopravvissuti dall’antichità è privo di cicatrici. La Storia è monotona: i maschi dei vinti vengono uccisi, le donne diventano concubine, i bambini vengono adottati. Però ci sono tre nazioni, l’Italia, la Grecia e l’India, in cui il vincitore non si è trovato di fronte a dei selvaggi isolati, ma a culture superiori, con economie ben sviluppate e popolazioni troppo numerose per essere sterminate. Non c’è cittadino greco, non c’è indiano dell’India, che non sia cresciuto in mezzo a contraddizioni che rispecchiano le nostre.

In India solo recentemente si è cominciato a rivalutare il contributo alla cultura nazionale delle genti sottomesse dagli ariani. In India il carattere dell’individuo medio è più ombroso del nostro, ma presenta il medesimo tipo di instabilità (non sappiamo per certo chi siamo).

I pre-ellenici, frazionati dalle asperità del territorio in mille, inconquistabili etnie, hanno lasciato nella lingua greca una profonda impronta. Però i discendenti dei vinti non furono soli a perdere l’indipendenza, ad opera dei Romani prima e degli Ottomani poi : anche l’ aristocrazia ariana che li aveva sottomessi fu ridotta in servitù. Forse ciò diede loro agio di fondersi più armoniosamente degli italiani, sebbene anche tra i Greci si manifesti spesso la componente anarchica, l’ insofferenza per l’autorità centrale.

In Italia gli invasori finora sempre ariani, però ogni volta diversi, hanno lasciato cicatrici profonde, che non spariranno certo eliminando il latino dalle scuole. Il latino è la lingua dei padri ereditata dopo che già essa aveva assorbito tanta parte della parlata delle nostre madri. Però guardiamoci dall’ identificarci totalmente con i Romani : sarebbe un errore psicologico oltre che storico, che potrebbe condurci ad altri piazzali Loreto, anche se nei secoli bui, nel servaggio più impotente, rivendicare il sangue dei Romani antichi può esser stato un conforto.

E’ un peccato che Don Milani, nemico del Foscolo dei programmi ministeriali, non abbia avuto occasione di riconsiderare quel poeta come un infelice, senza speranza di vivere in patria o di morirci. Forse con la sua umanità Don Milani avrebbe compreso che

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Foscolo era una figura tragica (all’italiana: appena in rilievo su uno sfondo di femmine e debiti), che attraverso la poesia cercava una motivazione per sopravvivere. Il Foscolo era consapevole della frattura che la nostra lingua rivela e dell’impossibilità per gli italiani di rinunciare all’eredità romana. E lo dice in un suo celebre sonetto:

Te nutrice alle Muse, ospite e dea, le barbariche genti che ti han doma nomavan tutte, e questo a noi pur fea lieve la varia, antiqua, infame soma.

Chè se i tuoi vizi, e gli anni, e sorte rea ti han morto il senno ed il valor di Roma, in te viveva il gran dir che avvolgea regali allori alla servil tua chioma.

Or ardi, Italia, al tuo genio ancor queste reliquie estreme di cotanto impero; anzi il toscano tuo parlar celeste

ognor più stempra nel sermon straniero onde, più che di tua divisa veste, sia il vincitor di tua barbarie altero.

E’ un eloquio tanto diverso da quello corrente che si comprende il terrore dei

ragazzi della scuola di Barbiana. Il fraseggio è ferocemente contorto. Eppure il dolore è vero, e l’analisi perfetta.

I nostri padri hanno certamente preso parte alle battaglie e ai trionfi di Roma, e questo sarà un ricordo confortante per gli italiani anche nelle future paci di Campoformio, negli 8 settembre fatalmente a venire. Qualche dubbio abbiamo a proposito del ”gran dire” della seconda quartina, noi che oggi assistiamo alle beghe invereconde tra politici e giudici. Però, con lucidità di poeta, Foscolo sa che la Parola di per sé è potere, sa che di una lingua sontuosa chi ne è degno si incorona e si inebria. Con lucidità di figlio di mercanti veneziani, Foscolo vede chiaramente che gli allori regali sono posati sulle chiome di creature servili.

Ecco un sintetico ritratto di schizofrenico: un vile servo (l’insulto è sintetizzato nel suffisso dell’aggettivo) che però si aggira con in testa la corona d’alloro che spettava ai generali degni del trionfo. Ovvio, questo schiavo è fuor di senno. E chi glielo permette, questo camuffamento? il gran dire, cioè il latino.

Il poeta l’ha detto: sotto l’alloro c’è un servo, cioè, noi. Ma al tempo di Foscolo la NATO non c’era. Ma da chi erano nati questi italiani servi, se non dsi Romani, che comunque li avevano riconosciuti, sebbene a denti stretti. I Romani usavano con parsimonia l’istituto della legittimazione. I “patrizi” così si chiamavano perché avevano un « padre » registrato all’ anagrafe (perché per gli ariani è il padre che conta).. Gli altri erano tutti figli di mamma: (e senza vergogna, perché per i mediterranei contava la madre). Poi eravamo diventati tutti cittadini romani, però corrispondenti giusto al ventre e alle membra, passive e grevi, di quel corpo della Repubblica di cui i figli di papà erano la testa: come spiegava candidamente al popolo in rivolta il buon patrizio Menenio Agrippa.

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In quanto al toscano parlar celeste, esso è, come si è visto nel dizionario, romano solo a metà.

Romano l’alloro, ma solo per metà romana la fronte. La metà romana ci aiutava a tener duro mentre i barbari saccheggiavano, violentavano, incendiavano tutti i simboli del potere di Roma, inclusi gli uffici anagrafe. E così avvenne che in Italia i sopravvissuti ne approfittarono per dichiararsi Romani e basta. (Non era il caso di spiegare ad Attila i grandi meriti della civiltà etrusca.)

Però non era vero. Basta leggere i primi capitoli della Storia del Mommsen (il quale era innamorato dei Romani perché gli sembravano proprio tedeschi) per rendersi conto dell’abisso che separa l’invincibile macchina da guerra che era Roma dalle dame cretesi chine sui fiori e dal Boccaccio, deciso a passar bene il tempo, in attesa che si esaurisca la peste.

In tutto il Mediterraneo gli ariani si erano mescolati con popoli di differenti etnie, però resi affini dalla dolcezza dell’ambiente. Popoli esuberanti e amanti dei piaceri e di sangue caldo, ma anche spregiudicati e lucidi a tal punto che si resta in dubbio se accusarli di cinismo o lodare la loro innocenza.

Per i nostri padri romani contava la legge dell’onore virile: “Dulce et decorum est pro patria mori”. E invece il sangue materno nelle nostre vene approvava il realismo , non sublime, ma certamente non ipocrita, che aveva dettato ad Omero, tremila anni or sono, parole indimenticabili.

“O Achille“, dice Ulisse all’anima dell’eroe defunto, “quando eri vivo ti abbiamo onorato come un dio, ed ora che sei morto, anche nell’al di là sei grande. E dunque non crucciarti di esser morto.”

A cui Achille, il guerriero invincibile, risponde: “Non mi volere, Ulisse divino, lodare la morte: vorrei, sopra la terra vivendo, esser

servo di un altro, di un uomo privo di beni, che anch’egli stentasse la vita, piuttosto che regnare su tutta la turba dei morti.”

E invero in nessun paese al mondo la vita può esser dolce come sulle coste di questo grande lago azzurro, ricco di baie e di isole, dove le stagioni si avvicendano stimolando il sangue e il cervello, ma senza estremi di gelo o di caldo torrido, senza catastrofi come nella zona dei monsoni. Un ambiente dove l’occhio non si perde in spazi illimitati, a sognare, ma è tenuto desto dal continuo mutare del terreno, della vegetazione, del vento e dei vini. Dove coltivare la terra costa ingegno oltre che fatica, sicché al piccolo proprietario ogni albero, ogni sasso, è familiare e caro come i mobili di casa. Dove la vita si può svolgere all’aperto per quasi tutto l’anno, con il sole rosso tra gli alberi al mattino, o alto sui pendii di olivi e cicale a mezzogiorno, e nel viola della sera, con sul fondo il mare color del vino.

Non è più, ahimé, l’ Italia di oggi, però quella Italia era sempre stata ambita dai barbari del nord ed era facile da saccheggiare, però nel suo intimo era rimasta inconquistabile fino a questi ultimi decenni, cioè fino a quando le campagne si sono svuotate e le giovani donne per prime hanno voluto andarsene e il paesaggio è diventato un “poster” e tutta l’antica cultura (la saggezza ereditata con le parole delle madri) è stata scartata in favore di nuovi metodi di produzione. Oggi non si riscontra più, tra gli anziani

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che sopravvivono vicino ai loro campi, l’antico silenzio critico e prudente, la resistenza, cocciuta, al nuovo del rurale aggrappato ai suoi attrezzi, ai prodotti della terra e alle parole sacre, bestemmie incluse. Il silenzio che gli cade addosso in autunno, con l’allontanarsi del turismo di massa (con lo strepito dalle discoteche, le moto senza tubi di scarico, gli incendi) è lo stesso silenzio che segue le pestilenze e le battaglie. E’ un silenzio di morte. Forse nemmeno Achille vorrebbe ritornare per vivere questo.

Le ninfe, come i santi che avevano dato nomi nuovi ai genii pagani delle fratte, ci hanno lasciato. Nessuna giovinetta porta più fiori alle cappelle disseminate nei campi, per chiedere uno sposo alla Madonna, come lo si era chiesto a Demetra e al dio Pan. Solo i vecchi vanno a messa la domenica. La polemica millenaria tra il padre che sta nei cieli e la madre che ci nutre dalla terra si è spenta per mancanza di combattenti.

La sensazione di avere ormai l’acqua (o il petrolio) alla gola, l’ angoscia di dover almeno qualche volta aprire la bocca per dir qualcosa, ha indotto alcuni benintenzionati a recuperare Bertoldo e a ripescare oscenità nel gergo della malavita. Non è stata una reazione fruttuosa. Per lo meno contro l’italiano delle lapidi eravamo vaccinati da secoli, e la magnificenza del latino è insuperabile per inaugurare ponti. Invece questa ulteriore centralizzazione, a livello del dialetto canagliesco della capitale, rende ancor più arroganti i romani e ingenera repulsione negli altri italiani, depositari di dialetti nobilitati da secoli di letteratura scritta.

Oggi, anche sopra gli urbanizzati dell’antico, sottile strato borghese, ai professionisti e ai professori, ricade lo stesso silenzio. La parlata loro abituale è “datata”, buona per parlare di cose scomparse. Si discute ancora sull’utilità dell’insegnamento del latino, ma per stanchezza, come i cacciatori parlano di caprioli nelle notti d’inverno. Non ci sono più caprioli, se non come specie protetta, e il latino di Virgilio si allontana per la via dove sono scomparse la lingua minoica e la lingua etrusca.

L’antichissima dicotomia si ripete e si rinnova: il cittadino memore della sua eredità millenaria, che dice cieco al cieco, non farà mai parte della nuova classe dirigente, che ha scelto le nuove categorie di « vedenti » e « non- vedenti », che farcisce il periodo di espressioni inglesi e accetta rapporti paritari solo con gli utenti di internet.

L’ideologia dei pastori ariani, razzisti, arroganti e guerrieri è giunta alla fine della sua parabola. Il Dio degli eserciti che sta nei cieli aveva prescelto le loro etnie, da pastori si erano trasformati in guerrieri e Dio li benediceva mentre saccheggiavano pascoli altrui : quel Dio li aveva guidati, 3000 anni fa, a impadronirsidell’Europa, del Medio Oriente e dell’ India e 500 annif a a conquistare le Americhe e poi il Pacifico. Dopo la disgregazione di un impero troppo vasto il dio ariano venne rinnegato dalle generazioni che sognano l’ infinito con gli occhi fissi alle profondità dei computer.

Anche i pastori semiti del Medio Oriente si erano proiettati nel tempo e nello spazio segurendo la stessa parabola : Le mandrie sempre più numerose, il territorio sempre più vasto, le razzie di mandrie altrui, le guerre di conquista…Mille anni fa, i pastori semiti divenuti guerrieri si erano impadroniti del Medio Oriente e dell’Africa : arginati nel Mediterraneo, si espandevano nel sud-est asitico. Quindi il grande impero e poi il crollo dell’ impero. Però i semiti, trovati i mezzi della rinascita nel petrolio, non

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hanno rinnegato il loro Allah, il Dio trascendente che continua a spingerli alla conquista dell'altra sponda del Mediterraneo… la nostra.

E le mandrie ? Le mandrie sono diventate invisibili: sono azioni e obbligazioni e recentemente,

per legge, possono persino pascolare senza il supporto cartaceo. Oggi che le mandrie sono vrtuali, il ciclo delle lingue utilitarie dei pastori sembra concluso: la parola non è più magica e non sta più per la cosa e non è neanche più necessario dirla. Si può stamparla, in compenso, e macchine elettroniche provvederanno a illuminarla provvisoriamente su uno schermo, con qualche scintilla di energia.

Ma gli emarginati che hanno nomi per quelle cose che essi toccano non devono disperare. Gli sciamani infatti stanno rialzando il capo. Può darsi che la tirannia millenaria dei pastori sparisca alla prima carestia.

Basterà che manchi la corrente. Bibliografia

L’autore, nelle sue ricerche su campo sui relitti dell’antico culto dei serpenti praticato nell’Eurasia e nel Pacifico, (vedi Sette Serpenti, Manifesto-Libri, Roma 1994) ha consultato quanto era disponibile nelle biblioteche locali, oltre che nella School of Oriental and Afracan Scudies a Londra, della Australian National University a Canberra e del Micronesian Area Reesearch Center di Guam.

Di continua consultazione sono stati i dizionari del Pokorny (Indogermanisches Etymologishes Worterbuch, 1959), del M. Monier-Willians (A Sanscrit-English Dictionary, Oxford 1899), quello del Buck,, C.D. (Dictionary of Selected Synonyms in the Principal European Languages, Chicago 1949), del Tregear, E. Maori-Polynesian

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Comparative Dictionary, Wellington 1891, oltre agli studi delle lingue uralo-altaiche di Poppe e di Ramsted, e i circa 40 volumi sul Pacifico occidentale della Spedizione germanica del 1910-11, editi da Thilenius. Fondamentale l’ Avviamento all etimologia italiana de Devotp. Pertanto la Bibliografia che segue è paziale. Barrow, J.D. La luna nel pozzo, Milano, 1994 (1992) Bishop, Isaben B. Korea and Her Neighbours, Chicago 1898 Burroughs, E.G. & Spiro M.I., An Atoll Culture, 1965 Carcopino, J. La vita quotidiana a Roma, Bari 1976 Capra, F. Il Tao della fisica, Milano 1994 Cesare, De bello Gallico Cicerone, M.T., De Divinatione Devoto, G. Gli antichi italici, Firenze 1931 Devoto, G. Il linguaggio d’Italia, Milano 1974 Detienne, M. I maestri di virtù della Grecia arcaica, Milano 1992 Diodoro Siculo, La Biblioteca della Storia, vol.II, IV, V Dyen, I. Malayo Polynesian in Formosa in Asian Perspectives 1963, 261 Eco, U. La ricerca della lingua perfetta, Bari 1995 Edons, C. Dynamics of Trade in the Acient mesopotamian Word in Amer. Anthropologist, 1992, 94. 1 Erodoto, Storie Farnell, L.R. La vie quotidienne èn Crète au temps di Minos, Paris 1973 Frazer, J. Il ramo d’oro Gimbutas, M. I Balti, Milano 1967 Grace, G.W., Anthropological Linguistics, in EG PEO 1967, 3/9 Harva, U., Les representatuons religieuses des peuples Altaiques Paris, 1959 Heurgon, J., Vita quotidiana degli etruschi, Parigi, 1961 Jung, C.G., Foreword to I Ching (Wilhelm Transl.), London 1960 (1951) Lovejoy, The Great Chain of Being Lawrence, D.H. Etruscan Places Lawson, J.C., Modern Greek Folklore and Acient Greek Religion Cabridge 1910 Lecsa, W.A., Ulithi, in Folklore Studies, 1951 Levin, M.G. Ethnic Origin of the People of North East Asia Toronto 1963 Lolli, Gabriele, Dagli insiemi ai numeri, Torino 1994 Meillet, A. Introduction a l’etude comparatif del langues i.e. Paris, 1924 Mommsen, Th. Storia di Roma Monteil, P. Elements de phonetique et de morphologie du Latin, Paris, 1974 Migliorini, B. Storia della lingua italiana, Firenze 1966 Marazzi, M. La società micenea, Roma 1978 Moscati, S., Guzzo P.G., Dusini G. Antiche genti d’ItaliaRoma, catalogo mostra 1994-95 Ovidio, Fasti

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Pallottino, M. Etruscologia, Milano 1957 Pisani, V. Lingua e cultura in Plaidea, 1969 Plutarco, Il fato e la superstizione, Roma 1993 Rilke, R.M. Elegie Duinesi Scott, W. Ivanhoe Salvi, S. Le nazioni proibite, Firenze 1973 Staccioli, R.A.,Gli etruschi, mito e realtà, Roma 1980 Thomas, K., Religion and the Decline of Magic, 1971 Topping, G.B. Chamorro Referenve Grammar, Honolulu 1973 Tregear, E. A maori Comparative Dictionary, Wellington, 19 Ulving, V. Indoeripean Elements in Chinese in Anthropos, 63-64, 1968-69, p.945 Varrone, Marco T. De lingua Latina Vayda, A.P. Peoples and Cultures of the Pacific, N.Y., 1968 Weber, max, Storia sociale ed economica dell’antichità, 1909 Winsted, T.O. Tokin, J. RAS mal. Br., IX, I, 137 Wissowa, G. Religion und Kultus der Romer, Monaco 1912 Wurn S.A. and Wilson, B. English Finderlist of Reconstruction in Austronesian Languages, in Pacific Linguistics, 1975, 33 Yeats, W.B. A General Introduction to My Work CONTATTARE [email protected] se interessati al libro, di cui esistono poche copie stampate in proprio, ma per cui si cerca un editore

R come Romano

Per uno dei tanti paradossi della storia, le colonizzazioni bonarie, che favoriscono

l’acculturazione dei vinti, sono in grado di cancellare l’identità culturale dei sudditi meglio delle occupazioni violente.

Più astuti dei conquistatori di imperi a prezzo di lacrime, sudore e sangue, i generali della pubblicità, con un martellamento di slogan e spot coloratissimi, in poco più di vent’anni, hanno pressoché azzerrato il vocabolario e la capacità di pensare di un paio di generazioni, con efficienza assai superiore a quella dimostrata in precedenza dai baroni medievali, dalla Chiesa Cattolica e dalla Nomenklatura sovietica.

Le nuove generazioni non sono più in grado di riconoscere nè la flora locale nè i suoi nomi, nè di raccogliere erbe per farsi una tisana o un’insalata. Chi sa più che racemo vuol dire grappolo, che l’acqua ragia è in relazione con la resina, che la spiga ha una resta, come il pesce, che il rìcino è una pianta comune nel sud? Pochi saprebbero cogliere la rughetta nei prati, e utilizzare il rusco (pungitopo) o il rosolaccio, sebbene ancora riconoscano la rosa. (15)

Prima di essere espropriati del loro antico lessico dall’istruzione obbligatoria, i contadini conoscevano i nomi degli animali che strisciano, corrono, nuotano, volano: erano per lo più nomi pre-ariani, antichissimi, come ragno, rana, raia o razza (= un pesce), riccio, rondine, rosignolo, ruga, (= bruco), forse rospo e certo ruminante.

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Il paesaggio ha avuto dai loro nonni nomi rimasti in qualche toponimo: rave è il precipizio, ravaneto l’insieme dei detriti franatici dentro, rena la sabbia. La fortezza costruita sulla roccia è una rocca, l’acqua scorre rumorosamente nella roggia (tema mediterraneo ARRUGIA), degli acquedotti romani rimangono i ruderi, e la crepa nel muro si chiamava rima (ma è sopravvissuta nei testi di anatomia come rima palpebrale).

La rete non ha connessioni attendibili e si trova in un area semantica in cui il substrato spesso riaffiora, e da essa deriva la rètina. Privo di connessioni è il rogo, sinonimo della ariana “pira”.

Alle donne che lavavano i morti potremmo esser debitori dell’aggettivo rigido, ma anche, finalmente, del verbo ridere.

Vale la pena di soffermarsi sulle qualità di certi termini che ci illuminano sulla visione della vita che sempre sta sottesa dietro ogni parola che viene coniata. Prendiamo la radice di racemo, RAG/RAK. Per i pre latini essa racchiudeva il senso “contratto e costretto”, perché così stanno gli àcini nel grappolo e fanno pressione: ne derivano in italiano racchio e rachitico. Può sembrare singolare, questa valutazione del “grappolo”. Oggi racemo si usa solo in botanica e “grappolo” è la parola corrente derivata da radici germaniche. Infatti ai Longobardi che da bravi tedeschi cercavano la struttura dell’oggetto, il frutto della vite si presentava come un viluppo di uncini, o “grappe” e il loro punto di vista ha trionfato. E’ il punto di vista del mangiatore avido, che trangugia gli àcini in fretta, e gli resta in mano il “graspo”.

Mancava ai Longobardi la simpatia per gli àcini, serrati gli uni contro gli altri... come famiglie di sfrattati in coabitazione o immigrati in dormitorio. Gli mancava quell’esperienza. Ràncido descrive il sapore e l’odore dell’olio e del grasso invecchiato e stantìo: un odore familiare a chi è senza frigorifero nelle settimane di scirocco sul Mediterraneo. Difatti dalle cucine pre-indoeuropee l’aggettivo è passato alle cucine europee, inclusa quella tedesca: ranzid. Ravo è un aggettivo caduto in disuso = biondo scuro, e si contrappone a flavo, cioè biondo chiaro: entrambi sono privi di connessioni attendibili.16 Ravo è poi rimpatriato dalla Spagna come roano, a designare un cavallo dal mantello grigio. Rude è un aggettivo senza affinità fuori del latino, come rauco.

Dopo pagine e pagine di dizionario di parole arianamente prefissate “dis- in- de- pro-”, finalmente incontriamo un prefisso che non ha connessioni attendibili: re-, che indica una inversione di movimento con ritorno allo stato precedente, come avviene dopo ogni ri-voluzione attraverso il latino RE(D), senza connessioni attendibili. E’ normale che un tale prefisso sia stato sviluppato in una società legata all’agricoltura, dove vige una concezione ciclica e non lineare del tempo. Il progresso è una spirale, non una linea retta. La particella re- ha per derivati retro, arretrare, retribuire, etc.

Infine, con una certa sorpresa, tra le parole di etimologia dubbia troviamo il nome stesso dei colonizzatori ariani: e precisamente dei Romani.

Non ci sono dubbi sul fatto che non Roma è derivata da Romolo, ma Romolo da Roma. Però tutta la faccenda è un pò confusa. C’era un fiume, anticamente chiamato Albula, ma anche, all’etrusca, Rumon, che oggi è il Tevere. C’era un colle, detto Ruma, che oggi è il Palatino, e sul colle c’era un albero di fico detto ruminale, perché dai suoi rami i fichi pendevano dolci e gonfi come “mammelle” (nella lingua mediterranea, rumis).

L’albero sopravvisse fino alla fine della Repubblica, dice Tito Livio, e lo chiamavano “il fico di Romolo”, perché presso il fico ruminale la corrente del Rumon fece arrestare il canestro che conteneva i due gemelli, Romolo e Remo: là si trovava la lupa che li allattò. E c’era anche il nome gentilizio etrusco dei Ruma, connesso col nome del fiume... Il tutto fa considerare assai

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probabile la derivazione del nome di Roma dall’etrusco, così come etruschi, ci dice Varrone, erano i nomi delle tre tribù dei Rammi, dei Tizi e dei Luceri.

S come seno

Per quanto riguarda l’area semantica della flora, i nomi privi di connessioni attendibili sono: sabina = specie di ginestra, saggina = pianta da ingrasso, soprattutto per i maiali, da cui saìna, grasso di maiale; sala = erba palustre; sambuco, santoreggia, = orzo; scirpo = giunco; scopa; scordio = erba dall’odore agliaceo; sègale; e più importante di tutti, selva.

Un termine probabilmente pre-ariano, siliqua, è entrato nel linguaggio scientifico, mentre la parola serqua ne è la trascrizione nel linguaggio corrente, con il senso di “lunga serie”, così come è lunga la fila dei piselli dentro la siliqua. Serpa è la cassetta della carrozza, fatta di giunchi leggeri.

E inoltre, di sospetta origine mediterranea, o per lo meno, senza collegamenti nelle altre lingue ariane, sono siepe, sorbe e sorbo; spicchio, spiga, spigo, spina, spino; più il vile sterpo, che originariamente voleva dire “tronco”, da cui deriva l’aulica stirpe; stoppia, sughero, e, dal greco selinon, il sedano (toponimo: Selinunte). La sulla, usata per il sovescio, era il cognome di Lucio Cornelio Silla. Un minerale dal nome pre-ariano è lo smeriglio (17), che i minoici estraevano da Nasso (capo Emeri). Più piccole sono le miniere in provincia di Parma.

Nell’area della fauna troviamo scorzone = vipera (in dialetto siciliano scursuni attraverso un latino “curtio” ); scrofa, con relative setole; tra i pesci spigola, squadro e forse il sàrago; forse squalo e squama, scombro e seppia e salpa, e squilla = gambero. C’è poi la starna, e (dal greco) sauro = rettile e forse scimmia, scolopendra, scorpione, siluro, sorcio e sirena.

Nell’area semantica relativa alle forme del paesaggio troviamo speco e spelonca, stagno = palude; stilla = goccia e scrùpolo che originariamente voleva dire “sassolino”.

Numerose sono anche le parole tecniche, salvaguardate dagli artigiani della zona popolare di Roma, chiamata Suburra (parola forse derivata dalla stessa radice mediterranea che ci ha dato zavorra). Dal gergo dei legionari ci vengono saetta = freccia, sago/saio = “mantello” (18), sàgola = funicella di bordo, (da SAGA), diminutivo di soga = fune, e forse (dal greco sagma = carico) salmeria, soma e somaro; probabilmente scamato = bacchetta per materassi, e scàndola = scaglia di legno usata come tègola; e scrigno, spago, stìpite, stiva dell’aratro, forse stuoia e, (attraverso il greco) sàgoma, sàndalo (sia “scarpa” che “barca”, però forse prestito orientale antico, vedi persiano “sandal”), scalmo, termine marinaro comune al greco, e forse silo = granaio sotterraneo (latino sirus e greco siros).

Setaccio deriva da setole. Legato alla tecnologia dei cereali, lo strumento venne preso a prestito dagli Ungheresi (tardi invasori dalle steppe la cui economia non era basata sull’agricoltura) col nome di szita, e da questi fu anche usato nei riti sciamanici, in quanto simbolo di fertilità e di abbondanza, sia per la presenza delle setole della fecondissima scrofa, che come fonte basilare di carboidrati, in quanto selezionava le farine. Voltare il setaccio era un’operazione magica della tecnica divinatoria, tuttora usata in qualche villaggio in Transilvania (19).

Sappiamo che pochi schiavi selezionati venivano educati alla scienza astronomica che era stata dagli etruschi, e dall’etrusco probabilmente è discesa la parola satellite.

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Circolavano, al tempo dei Romani, come, circolano adesso, i sicarii, uomini armati di un pugnale speciale, detto sica, che veniva dalla Tracia, e di cui ignoriamo l’etimologia (SEK?).

La maggior parte del popolo comunque era impegnato a scacchiare, sfregare, stringere e (sottovoce) a sfottere, salvo la naturale reverenza osservata nei riguardi delle Sibille e dei libri sibillini.

Schiavi e liberti organizzavano per conto dei padroni le compagnie teatrali, e vi recitavano: cosicché la terminologia relativa all’arte drammatica ha probabilità di non essere ariana. Scurrile deriva da scurra, nome etrusco del buffone; personaggio da persona, che è probabilmente un termine greco filtrato attraverso l’etrusco; maschera, come abbiamo visto, deriva dal mediterraneo MASCA (= i due lati della prora della nave, decorata usualmente con una figura mitologica), mentre sipario è di origine ignota. Esso potrebbe essere stato filtrato dal greco attraverso l’osco supparus = velo), anche se l’invenzione potrebbe essere greca, e infatti “yavanico” ossia “ionico” è il nome con cui il sipario fu introdotto in India.

Comunque il sipario greco non pendeva dall’alto, ma veniva issato tra due pali per separare il pubblico dalla scena, mentre quello latino era una tenda da abbassare, come nei nostri teatri.

Le donne, naturalmente, fin quasi ai tempi dell’Impero, non avevano il permesso di calcare le scene. C’è da domandarsi che cosa fosse permesso di fare, alle donne. Il Carcopino ha esaminato circa mille epitaffi del Corpus di iscrizioni latine, e ha trovato solo 2 donne pedagoghe contro 18 maschi, 4 medichesse contro 51 medici, una sola sarta di fronte a 20 sarti. Insomma, a parte le pettinatrici, levatrici e balie, nel primo secolo dell’Impero le donne di Roma erano tutte “senza professione” (20) e vivevano in un dolce far niente totale, se benestanti, avendo a loro disposizione quelle impagabili e non pagate “colf” che erano le schiave. Perciò della vita delle matrone nel linguaggio non è rimasta traccia, mentre le schiave e le proletarie dell’Urbe ne hanno lasciato di indelebili.

Quelle donne, i cui mariti vivevano vendendosi alle elezioni politiche e facendo la fila con la tessera per il grano gratuito, dovevano arrangiarsi a sbarcare il lunario nel monolocale senza servizi, tra nugoli di bambini, e scodelle e scope e secchie e sporte, cucinando pappe di sèmola (SIMLA) in grasso di maiale (saime) e olio di sansa (SAMPSA), difendendo la salamoia dai sorci. O se ne stavano con spille (da spinula) in bocca davanti a neonati a pancia in su sulla sponda (priva di connessioni) del letto. La loro è una traccia di cattivi odori (fetori, senza connessione) per i continuati contatti con orina, sangue, e sanie (ossia pus) (21), per la quotidiana consuetudine con maschi raramente sobri (antonimo di ebri, senza connessioni), sborniati e sbronzi (forme dialettali), più il contatto (nel tentativo di far pulizia), con sebo e scroti e smegma e naturalmente sterco (di dubbia etimologia, ma sinonimo di altre due parole ariane “escremento e merda”, lituano “smirdeti”) e quindi probabilmente indigeno.

Tutto ciò faceva parte della nobile missione della donna, ma alle donne naturalmente appariva sporco (dall’etrusco) e lo dissero apertamente per un paio di millenni (altrimenti la parola non sarebbe arrivata a noi) facendo amari commenti sulla scalogna (da calunnia, priva di connessioni evidenti) di esser donna. E dovevano badare (vedi). a non fare sciupii (privi di connessioni i.e.) e trovare la forza di sorridere, magari nel frattempo cercando di rimediare qualcosa per i piccini frugando tra mediterranei stracci, detti scruta, da cui il verbo scrutare: che però in seguito, è passato a designare alcune alte funzioni politiche riservate in genere ai maschi, come scrutinio e scrutatore.

Non sapremo mai se un terzo sinonimo del “polpaccio”, sura (oggi nel linguaggio anatomico), ci sia giunto “dalla parte di lei”; meno dubbi ci sono per le sevizie (“saevus” =

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feroce, non ha connessioni attendibili), frequentemente riservate a individui privi di personalità giuridica, come le donne e gli schiavi.

Invece il seno (da un “sinus” di etimologia dubbia) ossia, originariamente, la piega della veste femminile al centro del petto ( da cui insenatura), il seno delle donne mediterranee ha subito un infortunio nel corso del suo trasferimento alla lingua italiana, anzi, un ribaltamento di significato, perché da concavo è passato a convesso.

Il risultato è che le donne italiane, sebbene le loro nonne abbiano avuto un solo seno, oggi si trovano ad averne due. Anzi, se si tien conto dei due livelli di cultura, quello della lingua scritta (“allevarsi una serpe in seno”) e quello della lingua parlata, i seni sono tre.

Il “sesso”, invece, sembra totalmente ariano. Il sesso è in relazione, pare, con la radice i.e. SEK = tagliare, segare, da cui anche la “scure”, e, facendo un passo indietro ancora, è legato al”sak-sum”, il sasso, più o meno abilmente scheggiato nell’età della pietra, che è stato il primo coltello dell’uomo. Difatti il sesso è ciò che, secondo i patriarchi, divide la società umana in due parti diverse e inconciliabili.

Non ci meraviglia quindi che, mentre il languido sospirare e sdraiarsi sembrano privi di parentele nelle lingue i.e., compiutamente ariano sia lo “stupro” (da “stuprum”, inizialmente “sciagura”, e nel latino classico “atto vergognoso” ma letteralmente: “battere e lasciare sotto choc”, in una specie di stupore... e ancora più brutalmente “una botta (e via)”.

Quando una società giunge a tali eccessi di sopruso, ecco però che quella che Ernesto de Martino chiama “l’immensa potenza del negativo” suggerisce una via d’uscita a livello individuale (per le casalinghe formare un sindacato è anche più difficile che per i contadini), e la via d’uscita è nel campo dell’irrazionale. Nasce così la strega.

La parola, che questa volta sarebbe passata dal latino nel greco, potrebbe derivare dal nome di un uccello notturno simile al vampiro (strix?), oppure indicare la reincarnazione di un corpo femminile di un essere soprannaturale, oppure l’acquisto di poteri paranormali. Caso grammaticale pressoché isolato (un altro esempio è l’i.e. “vedova da cui “vedovo”), dalla strega è derivato lo stregone, e non viceversa, come per tutte le altre professioni. Perché, sentenzia il patriarca, la donna ha minori capacità logiche, il suo campo è l’irrazionale, laddove può avere la supremazia.

Bisogna andare in Micronesia, nel Pacifico, nel più lontano atollo dell’arcipelago di Yap per trovare una società di poche dozzine di persone totalmente prive di aggressività, in cui si spera che il bambino che deve nascere sia femmina “perché i maschi sono inferiori: le donne possono avere bambini, gli uomini no”..(22)

Gli antropologi hanno esaminato a fondo il problema delle guaritrici, o fattucchiere o streghe (in Lucania e in Corea, in India o in Thailandia) riscontrando sempre alla base del fenomeno una degradata condizione sociale femminile. La fuga nell’irrazionale pertanto è perfettamente razionale. E’ la logica che permette alla “scimmia in gabbia” di Kafka di evadere: dato che il fattore gabbia è una costante su cui la scimmia non può agire, bisogna agire sulla variabile scimmia. Non più scimmia, ossia non più donna, ma strega: e la gabbia si dissolverà. E’ una decisione di altissima logica, oltre che un’intuizione poetica.

Si noti anche che in rumeno striga vuol dire “civetta”, e la civetta era sacra a Pallade Atena, alias Minerva, la patrona del sapere.

T come tramare

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Il numero delle parole che sembrano estranee al lessico indoeuropeo, e che iniziano con la consonante dentale sorda t è veramente imponente.

FLORA - La lista comincia con talea (e da TALEA viene il verbo tagliare, dal latino tardo taliare); e continua con tamarisco o tamèrice; tanacèto (nome, poco usato, del crisantemo), terebinto, arbusto da cui si ricava una specia di trementina, e tasso, pianta velenosa. E’ privo di connessioni attendibili il tronco, imparentato col verbo troncare, e forse il turione o gemma. Parole sospette, comuni solo al latino e al greco, sono tallo e tifa (= pianta di palude). Comune al greco, e di probabile origine mediterranea, come le altre piante aromatiche del Mediterraneo, è il timo.

FAUNA - E’ singolare, dopo aver incontrato l’etrusco assìllo, imbattersi in un altro nome non indoeuropeo per l’odioso moscone; eppure anche tafàno sembra legato all’etrusco, dato che ne deriva il nome di una famiglia nobile, come è provato da un’iscrizione a Velletri. Da cui si deduce che, o le mandrie degli ariani non erano afflitte da tali insetti, il che è improbabile, o che, arrivati in sede, essi scaricarono del tutto la cura del bestiame ai loro servi, tafani inclausi. .

Provatamente mediterranei sono i temi di talpa, tarlo, tarma e termite, forse tellina (anche in greco) tartaruga e testuggine, tinca, tigre, topo (variante di TALPA), tortora, trota, e forse tonno e totano e triglia. Un’antica parola mediterranea sarebbe sopravvissuta in setten-trione, ossia i sette buoi (triones) della costellazione dell’Orsa Maggiore, che indicavano il nord, a meno che non sia ariana e in relazione con “terra” e “tritare”.

FORME DEL TERRENO - In Sardegna è sopravvissuta la parola tanca = terreno circondato da muretti a secco, cioè recinto per il bestiame come sul continente mandria (dal greco). Sarebbe indigena la TIMPA, rilievo del terreno con usuale forma alternativa in e, (tempa), che appare come Timpone, Tempone in vari toponimi (23). Teppa, = zolla erbosa, da TIMPA, ha dato all’Elba teppone, area di terreno indurito. In un toponimo sopravvive anche tòrmeno, = l’altura. Importante è tufo, dall’etrusco, e obsoleta, ma mediterranea, è troscia, la pozzanghera.

Legati alla vita e ai mestieri dei lavoratori manuali sono: tabarro, tassello, tagliola, tina ( originariamente la bottiglia, che mascolinizzandosi si è ingrandita e ha dato il tino); telo = freccia, tasca da TASKA = borsa; forse trullo; tuba = tromba e tubo, e transenna, autentica parola etrusca che però aveva il significato di “rete per gli uccelli”.

Un discorso a parte meritano torre e taverna. Torre deriva dall’etrusco: i Tyrrhenoi, come li chiamavano i greci, sarebbero stati “il popolo delle torri”, da TURSI. Taverna deriverebbe da un mediterraneo TABA = tavola, rispecchiato dall’umbro tafla, a cui si affiancano tabella, tablino, tabulare, tavella, tavolato, tavolino, e intavolare.

Tuttavia nel mondo antico raramente si usavano tavole come le nostre: i convitati sedevano su sgabelli portatili e la “mensa” veniva allestita provvisoriamente in occasione dei pasti e poteva essere un vassoio. TABL doveva indicare una superficie piana fissata in posizione permanente, come quella del triclinio o del banco del taverniere.

Di recente la tavola ha ufficialmente acquistato un compagno, sebbene il Manzoni avvertisse che “la tavola non ha marito”. E qui si vede quale sia il potere forgiante del linguaggio, che ha strutture obbligate, al di fuori delle quali non siamo capaci di esprimerci, e si vede come esprimendoci noi contribuiamo a fissare ulteriormente quelle strutture. Infatti la tavola è rimasta dov’era, in cucina (è lì che la donna stira e appoggia le pentole) o in sala da pranzo, dove la padrona di casa si darà da fare per adornarla con una bella tovaglia e dei fiori.

Niente del genere si potrà fare sul tavolo: che è il dominio dell’architetto o dell’avvocato o del professore, e sta nello studio, lontano da mani unte e cattivi odori, e la colf è pregata di non toccare quel che c’è sopra. Così il neologismo ricalca gli schemi antichi e li perpetua. Non importa quante centinaia di parole siano entrate da un substrato in cui la donna aveva una

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posizione sociale diversa: lo stampo della lingua è conforme a un’ideologia ariana, che discrimina il sesso femminile anche inconsciamente, come quando nella flessione dei nomi in latino storico, vecchi collettivi vengono assimilati a femminili singolari: l’inanimato (neutro) plurale, va a coincidere con il femminile (24).

Un altro esempio, non registrato dai dizionari, viene dal gergo di inconsapevoli droghieri: quando la merce è di buona qualità, si chiama riso, quando i chicchi sono piccini, un pò corrosi, e adatti al pastone del cane, si chiama risetta...

Ritornando alle taverne, è da segnalare l’aggettivo antico temulento = ubriaco, o forse piuttosto “intossicato”: si parla di un vino sconosciuto, il temetum (da cui abbiamo visto astemio). Però il nome di temulina è stato dato a un alcaloide che si trova nei semi del loglio e che ingenera confusione mentale, oltre a gravi disturbi fisici. C’è da chiedersi se il temetum non fosse una specie di birra, fatta con vari semi di cereali, bolliti e fermentati, (vedi greco zyme = lievito?) possibilmente a buon mercato, e quindi misto con grani guasti o con alcool metilico. Termine tecnico non ariano era pure il tirocinio, o apprendistato, connesso con il verbo tirare, che significava originariamente “introdursi nella vita militare”: un tipo di carriera a cui il suddito normale si piegava, evidentemente, proprio perché vi era tirato per i capelli. Non ariano era il tiranno.

Tra le mura domestiche le donne hanno tenacemente conservato per noi termini relativi al corpo come tallone, tergo, testa, (col valore di guscio di tartaruga, anfora, coperchio e testa), teschio, tonsilla e treccia (attribuire “thrix” il pelo a un idioma mediterraneo, ci conduce a includere nella lista di parole non ariane tricheco, districare e intrigante). Potrebbero non essere ariani tisana (dal greco), tibia = flauto (per l’abitudine a diffusione planetaria di usare le ossa lunghe dei morti per farne flauti), tuorlo (d’uovo), che vale per “rigonfiatura” ed è quindi stranamente imparentato con un termine architettonico, il toro, privo di connessioni, e la torta che non ha un’etimologia sicura. La traggèa una volta era la frutta secca, e non la confettura: un cibo da paesi con estati calde e asciutte.

Occasionalmente in cucina dovevano anche confezionarsi sostanze tossiche, perché le umiliazioni dàn frutti di cenere e tòsco, sebbene la destinazione originaria fosse la punta della freccia (dal greco tokson = la freccia, di etimologia molto dubbia, se non è in relazione con il velenoso albero di tasso, da cui veniva ricavata).

Di per sè i lavori domestici non sono precisamente esaltanti, e neanche al tempo dei Romani erano considerati tali dagli uomini che ne godevano il frutto. Non solo le vesti, ma anche tutto il materiale per confezionarle eran fatti in casa (un sistema che vigeva nella patriarcale Corea soltanto 30 anni fa): tonache e tuniche (di origine mediterranea o semitica) e la tràbea (una specie di toga) che la gente di casa indossava, eran tutte il risultato dell’applicazione femminile all’ordito e alla trama: un lavoro qualificato ma deprimente: e così tramare (come ordire) designa la qualità subdola dei tradimenti domestici, e le donne traditrici avevano ancelle che facevano da tràmite nei traffici (letteralmente = trasferimento di feccia o di feci, stessa radice FAIK = le porcherìe) ovviamente loschi.

Vili erano anche le turbe dei clienti, le torme dei servi: vili i loro in-trighi. (Purtroppo la balia mediterranea aveva regalato al giovin signore tutti i termini indigeni per disprezzare gli esseri inferiori, a cominciare dalle donne, che fan sempre tardi (senza connessioni attendibili) e sono morbosamente timide (da temère da timere), etimologia dubbia. Bisogna farsi temere dai sudditi, fargli venire la strizza (stringere non ha connessioni attendibili). Lui, il signore, se ha sesterzi a sufficenza, sente il tedio (senza connessioni) della vita, che però è tetra e triste (senza connessioni) soprattutto per quelli che sono costretti a servirlo e a vivere tra quattro mura, e in particolare per le donne, che d’altra parte devono esser protette da un mondo turbolento di maschi

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con pieno diritto di cittadinanza, ma che alle donne appaiono, esposte come sono alle loro violenze, pieni di appetiti torbidi e turpi (senza connessioni attendibili). Sicché per loro fortuna, forse, restava alle donne poco tempo per pensare (E. -Meillet 1025 f: “senza etimologia”).

U come vino

I Romani originariamente avevano un solo segno per indicare i valori di u e di v italiani ed era v. U comparve come variante grafica nel II secolo dopo Cristo, e per secoli nel Medioevo v venne usata come iniziale (per es. vno = uno). Fu soltanto il Trissino (1524) che ad imitazione dello spagnolo cominciò a distinguere u (vocale o semiconsonante, come in uomo) da v sempre consonante: però questa soluzione divenne d’uso corrente per i tipografi solo attorno al 1650. La u italiana corrisponde per lo più alla u lunga latina. La u breve, o aperta, venne quasi sempre a confondersi con o in italiano. Nelle liste che seguono, come nei vecchi dizionari, tratteremo u e v come lettera unica.

Uliva e ulva, vaniglia (dallo spagnolo, ma ricavato dalla radice di vagina, poiché si usa solo la corteccia tubulare della pianta), veccia, veratro (mediterraneo per “elleboro”) verbasco (con tipico suffisso ligure), verde (senza connessioni attendibili, sebbene il Buck citi l’Antico Norvegese visir = “germogliare”), che è legato a verdure e verza, e possibilmente a verga e vergine (25). Vino è parola senza dubbio mediterranea, (greco Foinos, ebraico yayin), come vinaccia e vigna. E poi mediterranea è la viola come il vischio e il viburno, comunemente detto “lantana” e forse la vescia.

Dubbio è il caso di “uva”: il prodotto, diciamo, non lavorato, a cui gli ariani avrebbero potuto dare un nome simile a quello della bacca (in Lituano “uoga”). E maggiori perplessità dà la pianta della “vite”, che ha a che fare con “avvitarsi”, e con l’i.e. *WEI = “avvolgersi”.

Usignolo, upupa, vaio (= scoiattolo, e poi in latino varius e varietà per il colore screziato della pelliccia), velia = uccello più noto col nome (pure mediterraneo ) di averla; e verdesca o pescecane, sono termini relativi alla fauna indigena. E i vanni sono le penne delle ali, privi di connessioni, dal cui diminutivo vannulus è venuto il verbo vagliare e “passare al vaglio”, per analogia con il movimento necessario (ma non il “vaglia”, trasferimento di denaro, imperativo del verbo di origine i.e. “valere”).

Nel paesaggio non familiare, gli invasori si orientarono adottando le designazioni dei nativi. Su “valle” si hanno forti dubbi, perché sarebbe legata a i.e. WEL = volgere, ma la valanga, una specialità dello sfacelo geologico nazionale, sarebbe legata al tema mediterraneo LAVA, mediante il suffisso mediterraneo ligure in -anca. Un’altra specialità della penisola sono i vulcani, in qualche relazione con il dio romano Volcanus, il quale a sua volta ha dubbie relazioni con il dio etrusco Vel (ne leggiamo il nome su un fegato bronzeo usato per la divinazione), e con il cretese Felchanos, che però sembra piuttosto un dio della vegetazione. Certo il culto di Vulcano risaliva ai tempi di Tito Tazio (Dion. Alic. II, 50, 3). Il dio Volcanus aveva un “flamen”, ossia uno dei 12 grandi sacerdoti minori. I Volcanalia erano una delle 45 “feriae publicae”, e si celebravano il 23 agosto. Inoltre il flamen Volcanalis faceva offerte speciali a Maia il 1° maggio26: tutto tutto ciò che fa pensare a una origine composita, comunque antica, che contiene germi della religiosità indigena primitiva.

Il vingone è un canale artificiale, da un tema (A)VINCO, mediterraneo, = canale di scolo delle acque, che è una significativa indicazione del livello tecnico dei popoli sottomessi.

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Dal linguaggio degli abili artigiani, passò in latino e poi in italiano urna da *urcna, forse legata al greco hyrchè = terrina, nonché all’orcio.

E’ privo di connessioni il vaso, oggetto fondamentale in cucina, da cui vascello. Senza connessioni è la vara = sostegno biforcuto (vedi divaricare, ginocchio valgo, valicare, varcare, varco) usato specificatamente per varare le barche.

Il vetro è un materiale costituito soprattutto da silicati, dapprima fluidificati, e poi lasciati raffreddare e solidificare: l’archeologia fa risalire i primi oggetti in pasta vitrea al 1500 a.C., in Egitto, e abbiamo le prove della loro precoce esportazione ad opera dei commercianti fenici, nonché della loro diffusione sia al Nord che in Oriente. Questi oggetti erano variamente colorati, ma più spesso azzurri o verdeazzurri, come la coppa etrusca della tomba Barberini, e le famose perle blu, diffuse un pò dovunque in Eurasia, e che rendono perplessi gli archeologi, quando se le trovano a Taiwan e in Micronesia. Il vetro soffiato, invece, arriva col tardo ellenismo, e dai greci viene definito “ialino”, ossia semi-trasparente. Per la parola italiana “vetro”, però, si suggerisce un’origine i.e., considerando l’antico tedesco “weit” (in italiano, dal longobardo: “guado”) che indica un’erba europea, l’Isatis tinctoria, che contiene un principio colorante analogo all’indaco. La derivazione sembra alquanto macchinosa, e prudentemente il Devoto si limita a testimoniare che vetro è privo di connessioni attendibili.

Usare, uso sono pure, stranamente, privi di connessioni attendibili, sebbene non si tratti di termini tecnici ma generici, mentre normalmente i termini mediterranei designano oggetti e atti materialmente visibili.

Tali sono urina, vagina, varice, vasca, vassoio, vena, vescica, viscere, vestigia = impronta di piedi, vibice = lividure. Vìscido sembra una via di mezzo tra viscere e vischio. Vile non ha connessioni attendibili fuori d’Italia, ma vigliare significava spazzar l’aia, e quindi il vigliacco è da buttare.

E finalmente l’urbe, come già l’orbe, è parola decisamente pre-ariana. Avendo già scoperto che il nome stesso di Roma non era nè latino nè ariano, ma etrusco, non ci stupisce che l’urbe non abbia connessioni attendibili nelle altre lingue ariane, tanto più che, nel tempo in cui si formarono i loro primi dialetti, ancora nella steppa, gli indo-europei non avevano tradizioni urbane, mentre nel cuore delle antiche regioni agricole le città avevano già una storia come in Mesopotamia Ur, abitata già nel IV millennio. Vedi caso, uri è la città in basco.

Il volgo è privo di connessioni attendibili, salvo una lontanissima affinità con il sanscrito “varga” = divisione, gruppo. Per Ernout-M. (1128) volgo è senza etimologia, ma non sarebbe il primo caso di una parola sopravvissuta solo in sanscrito e in latino: vedi “rex”, e “ius”. Il vernacolo, invece, merita la nostra attenzione, perché verna, di probabile origine etrusca, è lo schiavo nato in casa, e il vernacolo (= il piccolo domestico) è poi passato a indicare lo strano idioma infantile composto per lo più delle parole apprese dalla madre, inserite goffamente nella struttura della lingua del padrone. Nella famiglia, dove i padroni vivevano fianco a fianco ai famuli e ai loro bambini, il vernacolo era destinato a perpetuarsi, tra le citazioni scherzose, i rimbrotti dei puristi, e i ricordi degli affetti giovanili.

Ed è la nostra lingua italiana.

Z come zabaione

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Zappa, zavorra (da un ligure o veneto saburra), zìzzolo dal greco (ziziphon) giuggiolo, zòccolo, zucca da cocuzza... Non sono parole poetiche, e pare anche che il suono moderno della zeta fosse estraneo al sistema fonetico latino: infatti zeppa e zoccolo erano pronunciate anticamente con un s iniziale.

Per la zappa, latino sappa, da cui pare derivi il greco moderno sappa e il turco ciappa, il Buck propone una derivazione da zappu = capra, perché originariamente l’attrezzo sarebbe stato un bidente modellato sulle corna della capra. Comunque l’attrezzo, che presso i Sumeri della Mesopotamia era ritenuto un dono del dio Enlil, non porta un nome ariano.

Anche lo zùfolo deriva in ultima analisi da un etrusco subulo, il flautista, per quanto “zufolare” e “sibilare” siano soprattutto voci onomatopeiche.

E’ possibile che la sostituzione di s con zeta sia dovuta a influssi longobardi: comunque la s originaria non è mai stata spodestata in alcuni dialetti o nel linguaggio incolto, e ha resistito a livello scientifico nei derivati dello zolfo [SULP(H)] cioè nei solfuri e nei solfati.

Non concluderemo queste liste diabolicamente e astiosamente con lo zolfo. Ma in onore delle donne, che hanno dato un contributo essenziale alla conservazione del lessico indigeno più arcaico, nonché di un patrimonio culinario eccezionalmente vario, che da tutti ci viene invidiato, finiremo con lo zabaione: dal tardo latino sabaia, specialità leggermente alcoolica delle regioni illiriche. PARTE IV

Lingua, Nazione, Politica

Capitolo VII

Lingua letteraria e unità nazionale

Il quadro complessivo degli imprestiti probabili dal substrato pre-indoeuropeo dimostra che, a parte i “relitti del substrato” (piante rare come il terebinto, mortai per pestare il grano e bastoni per battere i fagioli), esiste ancora in italiano un’imponente quantità di parole che ci sono arrivate attraverso il latino, sia classico che medievale, ma che non hanno rapporti con il lessico delle altre lingue indoeuropee..

E’ interessante che alcuni di questi vocaboli, derivati da antiche metafore (come amore, governo, ordine) siano risultati insostituibili per i conquistatori ariani, il che prova che essi sono andate a riempire dei vuoti nel loro linguaggio, e implica la possibilità che i vinti abbiano avuto

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l’opportunità di inserirvele in quanto essi erano stati accettati nella nuova società. Quindi anche dopo gli scontri più duri con gli indoeuropei, gli indigeni sopravvissuti, in Italia, erano abbastanza numerosi da poter esprimere una loro elite, e salvare parte della loro cultura.

I vocaboli pre-indoeuropei che si riferiscono alla vita quotidiana sono tanti che, in pratica, le casalinghe del passato, che di rado uscivano dalle loro cucine, sarebbero state in grado di vivere una vita intera senza quasi usare il lessico ariano, se si escludono verbi generici come “dare, fare, cuocere, pulire, lavare”. Questi verbi, che non derivano dal substrato, ma hanno corrispondenti in tutte le lingue indoeuropee, hanno l’aria di esser stati, in origine, dei semplici comandi. Infatti quegli schiavi e concubine che continuavano ad usare i nomi indigeni per il fuoco e per le lasagne, avranno senza dubbio posseduto nella loro lingua un verbo relativo alla cottura del cibo: ma l’ordine di cucinare veniva dal padrone, che usava il suo idioma nativo.

Una analoga spartizione del lessico tra substrato e lingue egemoni si riscontra in quella lingua franca del Pacifico, nota con il nome di “pidgin”: la maggioranza dei nomi è di origine cinese o malese, ma i verbi che esprimono un comando sono in genere derivati da lingue europee, e fa quasi sorridere scoprire che “fuori” si dice heraus e surik vuol dire “indietreggiare” (cioè “zuruck”),dal tedesco, mentre dall’inglese sono derivati sanap, stare in piedi (da stand up,= in piedi!) e subim, fare entrare (da shove him in = spingilo dentro, = fallo entrare). Sembra quasi di vederli, questi tedeschi e questi inglesi, paonazzi in volto per l’irritazione e l’eccesso di indumenti, ad affrontare i pigri e sciamannati indigeni del Pacifico.

In Micronesia l’accanimento contro gli indigeni fu diretto soprattutto contro le loro credenze religiose. Tedeschi prima e giapponesi poi si erano anche adoperati contro l’“assurdo” costume del matriarcato, imponendo agli indigeni di registrarsi sotto il nome paterno, con il risultato di sconvolgere totalmente l’asse ereditario locale, che era matrilineare. In Italia e in Grecia un deliberato, radicale attacco alla cultura degli indigeni nell’antichità classica, non c’era stato. Solo nell’età cristiana, tra i nuovi invasori ariani dell’Europa (tra il IV e il X secolo dopo Cristo), vi sono stati barbari consapevoli dell’importanza di distruggere lingua e tradizioni, per soggiogare un popolo, come si può dedurre dalla lettura del Mabinogion, una raccolta di storie gallesi dell’XI secolo (nella Storia di Maxen“ imperatore romano”).

Vi si narra di un gruppo di gallesi che decidono di non tornare in patria, ma di continuare a vivere facendo bottino e conquistando castelli. E questi briganti si accordano anche “per tagliare la lingua alle donne, per timore che la parlata britannica uscisse poi contaminata”, nella bocca della loro numerosa prole bastarda. Fortunatamente, i Longobardi capitati da noi non erano tanto raffinati.

Evidentemente i primi antichi, conquistatori dell’Italia, della Grecia e dell’India, non avevano tagliato la lingua alle loro concubine. Con il risultato che in sanscrito sono entrati i suoni esotici delle lingue dravidiche (le cosiddette consonanti cerebrali), che la cultura greca posa su una mitologia sommersa tutta da ristudiare, e che noi italiani possiamo vantarci di parlare una delle lingue più melodiose d’Europa, con una doppia potenzialità espressiva.

D’altra parte, quando i verbi appartengono al padrone e i nomi al servo, abbiamo una situazione coloniale, e serpeggia nella civiltà un subliminale senso di rancore. Il rancore può scomparire, nel corso dei secoli, se la distanza tra il padrone e il servo diminuisce progressivamente. Ciò avviene tanto più facilmente se le lingue in questione non sono incompatibili, come è il caso dell’inglese e del francese, che in Inghilterra si erano armoniosamente fusi nel corso di soli quattro secoli dopo l’invasione normanna. In Inghilterra ha contato anche il fattore etnico: i Normanni di lingua francese provenivano dallo stesso ceppo dei Sassoni da loro sottomessi. Là invece dove il substrato era celtico, nel Galles e in Cornovaglia, i

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dialetti locali hanno resistito fino ai giorni nostri alla diffusione del sassone prima e dell’anglo-normanno poi.

Anche quando la lingua ariana egemone era stata il latino, la fusione era avvenuta senza grossi problemi nelle regioni occupate dai Celti, che già parlavano una lingua ariana. Così nacquero varie lingue romanze (il francese, lo spagnolo, il portoghese),e anche in Italia nacquero i dialetti piemontesi, lombardi e veneti. In Spagna però vi era una popolazione che parlava il basco, che non possiede alcuna affinità con le lingue ariane: la mutua incomprensibilità mantenne una distanza fisica tra baschi e celtiberi prima, e baschi e iberici latinizzati poi, conservando anche la purezza dell’etnia basca, che nessuno straniero riuscì a sterminare.

La sorte degli etruschi avrebbe potuto essere identica a quella dei baschi. Per razza,cultura e lingua essi erano inassimilabili dagli ariani, e infatti si schierarono sempre contro Roma in qualsiasi occasione, persino al tempo di Catilina, cioè molto tempo dopo che i Romani, esasperati dalle continue rivolte, avevano scelto la soluzione del genocidio. Di conseguenza la lingua etrusca venne estirpata così radicalmente che in Etruria si parlava soltanto il latino, e, secoli più tardi, la Toscana potè diventare la culla della lingua italiana odierna. Caduto l’Impero, in Toscana il latino si sciolse armoniosamente nel volgare, senza incontrare la resistenza di un substrato, e il volgare in bocca al popolo era identico a quello parlato dai signori.

Accadde poi che i grandi scrittori del Trecento furono per lo più toscani, e sul volgare toscano fatalmente si modellò incancellabilmente la lingua della cultura dei discendenti dei Romani. E fu una specie di vendetta allegra.

Presso tutti gli altri abitanti d’Italia, infatti, il substrato era sopravvissuto, sicché il volgare toscano si distacca dai volgari delle altre regioni. Dal Trecento in poi, tutti i letterati, e i politici se ne giovarono, e infatti per secoli esso fu la lingua della cultura, prendendo il posto del latino. L’italiano quindi, salvo che in Toscana, per quasi ottocento anni rimase la lingua di una classe privilegiata. Di conseguenza, alle differenze etno-linguistiche delle altre regioni italiane, derivanti dal passato pre-ariano, si aggiunsero quelle sociali, la cui base è stata intaccata soltanto dopo la seconda guerra mondiale. Solo per le classi sociali alfabetizzate da generazioni l’ italiano era una lingua viva: per il popolo, che continuava a parlare i dialetti locali, l’italiano era la lingua dei signori.

Il contrasto sociale era meno sentito nelle regioni in cui dal dialetto parlato si era sviluppata una secolare letteratura scritta, che il frazionamento politico del paese aveva contribuito a conservare. Il napoletano, per esempio, dovrebbe essere considerato una lingua vera e propria ed è parlato da individui di tutte le classi sociali. Tale è anche il caso del veneziano (da queste due lingue dipendono dialetti minori). Con alle spalle questa consapevolezza, che è certezza di una salda identità culturale, in Campania e nel Veneto la dicotomia sociale non risulta evidente al semplice approccio linguistico.

Purtroppo queste compatte unità regionali, come tutti gli altri nuclei di cultura distinta, minori e meno evidenti, non sono ufficialmente riconosciute dalla nostra costituzione. Ciò spiega il successo politico della Lega. Dietro quel partito, c’e una realtà, a parte i risultati elettorali. Tuttavia, nessun partito riuscirà mai a cancellare il fatto che l’italiano è la lingua della cultura. Un secolo fa il Manzoni sigillava il fato della lingua italiana andando a sciacquare i panni in Arno, pur avendo il Ticino e l’ Adda a sua disposizione. Fatto l’italiano, bisognava indurre gli italiani ad usarlo.

In tutto l’Ottocento, il vero modello linguistico che raggiunse le masse, proprio nel delicato momento in cui si tentava di passare da espressione geografica a stato unitario, fu quello dei libretti d’opera. Il popolo, per la maggior parte analfabeta, conosceva i testi a memoria, e si cimentava a cantarli: purtroppo, non si trattava di grande poesia. Fu una occasione perduta. Nel

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Novecento, infatti, vennero i testi atroci e la musica mediocre delle canzonette, e a fine secolo siamo stati linguisticamente livellati dal gergo pastorizzato della televisione e da una scolarizzazione di massa di basso livello.

E’ stato un processo progressivamente accelerato. Oggi infatti il contrasto non è più tra italiano letterario e dialetti popolari e non è più un contrasto sociale, ma è un contrasto generazionale, e il quadro complessivo è disastroso. Da una parte abbiamo un italiano letterario in via di estinzione parlato dai vecchi ex-alunni dei licei e dall’altra un gergo ufficiale asettico, inadatto alla espressione di giovani e generose generazioni, che hanno a loro disposizione, come alternativa, solo una congerie di dialetti in stato avanzato di decomposizione, spesso pubblicizzati nella loro forma più scurrile.

Questi relitti dei dialetti potrebbero pur sempre essere fertili di sviluppo qualora fossero riabilitati a prendere un ruolo positivo nella vita sociale, da parte di un federalismo non litigioso. . Le lingue di cultura infatti divengono asfittiche, come acque stagnanti senza vegetazione e senza pesci, quando mancano le correnti vitali che perennemente devono scorrere dal fondo alla superficie e dalla superficie al fondo. Proprio perché il pidgin è una lingua affidata alla creatività dei parlanti, e non alla TV, persino nel pidgin sta nascendo una letteratura. Di poeti abbiamo bisogno: non di quegli intellettuali addomesticati dai mezzi di comunicazione di massa, che attingono ai dialetti solo per modellare dei clichè. E’ stato notato che, in televisione, per i comici si preferiscono le inflessioni del romanesco o del napoletano, mentre la brava massaia degli spot pubblicitari è veneta o lombarda. Purtroppo, quel lessico che è stato raccolto nel nostro dizionario, e che i dialetti custodivano, è condannato a sparire dallo sviluppo della tecnologia. Per esempio, la progressiva sostituzione dell’attrezzatura domestica (la stessa per millenni) con nuovi utensili, per lo più elettrici, e la contemporanea diffusione di cibi precotti e di indumenti confezionati, contribuiscono ad eliminare molti vocaboli di stampo pre-ariano, i soli che la lingua letteraria ufficiale era costretta a condividere con i dialetti. Gli oggetti divengono obsoleti, le ricette pure, e anche nelle cucine italiane entrano parole prefabbricate.

Con l’urbanizzazione progressivamente crescente, sparisce la familiarità con le piante domestiche e selvatiche, con i loro parassiti, con gli uccelli... e con i nomi di tutte queste creature.

La lingua letteraria tramandata attraverso la scuola ha perso credibilità anche perché è stata usata per cinquant’anni per vendere aria fritta o per trasmettere disposizioni, sia pur mascherate sotto forma di consigli per l’ acquisto, o di propaganda elettorale.

E’ anche triste ascoltare in bocca agli italiani parole entrate in inglese nel Cinquecento e nel Seicento (quando l’italiano era la maggior lingua europea di cultura), che oggi rimbalzano nella nostra lingua parlata con il significato acquisito all’estero. Un esempio che le generazioni degli anziani non possono fare a meno di notare è il caso di “realizzare”, nel senso, del tutto nuovo, di “rendersi conto” invece di ”render concreto” (da res, ”la cosa”). Ma per lo meno “realizzare” era una neologismo tutto ariano. Il caso di ”intrigante” è anche più triste, perché il suo vero significato non può sfuggire agli italiani non scolarizzati, consapevoli dell’esistenza del suo antonimo, che è il comunissimo “districare”. Questo antonimo in inglese non esiste, sicché gli inglesi han potuto giustificatamente usare “intriguing” nel senso di “interessante, affascinante”. Ma quando in italiano si usa la parola in tal senso, quando la usano i critici letterari, allora bisogna concludere che gli italiani sono diventati sordi alla loro lingua, che non li intriga proprio più. Tanto che nessuno si scompone quando un poeta laureato usa “fittile” nel senso di “conficcato”.

Forse “non ritorneremo più al bosco, perchè son tagliati gli allori”, come si cantava in Vandea. E’ fatale che appassisca una pianta a cui si son tagliate le radici: le radici ariane, di res, e

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quelle mediterranee, degli intrighi. E come può il singolo, privato delle sue radici, essere indipendente nella visione, e osare di assegnare nomi nuovi a cose nuove?

Come può far poesia? Questo problema, che imbarazza molti scrittori europei, è pressochè inesistente là dove gli

uomini vivono a contatto con la natura. Cosi, tra gli atolli del Pacifico, (palme da cocco e pesci di scoglio) persino in una lingua recente come il pidgin, succede che il significato astratto di “nero” venga trasmesso usando al posto dell’aggettivo il nome di qualcosa che è veramente nero: invece di dire “nero” si dice “corvo”, così come nella preistoria d’Europa al posto dell’aggettivo “rosso” si diceva ”rame”. In italiano, al contrario, volendo significare “fondi neri”, (espressione pregnante, poetica, che evoca ad un tempo la stregoneria con i fondi di caffè e il pozzo nero), oggi un leader politico parlerebbe certamente di “fondi non contabilizzati”.

Il pidgin, lingua poetica, per sostituire la voce inglese ”blind”= cieco, (difficile da memorizzare perché non ha alcun senso per i parlanti del Pacifico), inventa un vivido “aispas” (cioè, eyes past = occhi passati = occhi che non funzionano più): assai più espressivo del nostro “non-vedenti”, che si rifà a uno stato anziché a un’immagine e quindi classifica anziché evocare fuori del tempo, come avviene quando diciamo “occhi passati” o “acqua passata”.

La lingua che non evoca, tende a rinviare tutte le visioni all’inconscio dallo stato di veglia a quello del sonno. Ma la mente umana ha bisogno di visioni: noi non siamo programmati dal nostro DNA per essere dei computer. E invece le visioni sono sparite dal nostro quotidiano. Non ci sono più poeti per evocarle e la gioventù cerca suoni gridando i nomi degli organi sessuali, di cui l’ economia di mercato ha difficoltà a privarli, oppure in termini di lingue straniere… e si aggira tappandosi le orecchie con la musica.

Ma la visione non appare neanche se si grida la parola a livelli assordanti come ai concerti negli stadi, nemmeno accompagnando la voce con i tamburi. E le luci psichedeliche restano esterne alla parola. Ci vuole la droga perché la parola splenda dall’interno di luce propria: ma in quei bagliori acrilici l’osservatore, muto e solo e abbagliato, chiude gli occhi.

C’è da domandarsi se la cosiddetta “crisi dei valori” non sia soprattutto una crisi della formulazione dei valori. Tutte le crisi nascono dentro a un linguaggio. Basta pensare a quanta parte del pensiero occidentale e di tutto il complesso culturale con radici nell’animismo (come sottolineava Yeats), ci è stata resa estranea ed è rimasta svuotata dalla nuova filosofia dell’Illuminismo (accettato o imposto). Basta pensare alla aratura profonda del pensiero occidentale attuata dalle sinistre dopo la seconda guerra mondiale (accettata o imposta), che ha separato il gergo politico e critico da ogni altra forma di espressione, e soprattutto dalla lingua parlata dal popolo.

La crisi culturale purtroppo non è isolata. Lo smarrimento di questa fine secolo è la crisi del linguaggio in sè e per sè: del linguaggio dell’umanità. La parola, come unità indivisibile e riconoscibile nel fluire del discorso, è in crisi. C’è la minacciosa avanzata del gergo dei computer (si pensi a quei primi tentativi del BASIC, in cui un chiarissimo “go to” = ”vai a” , in inglese, diventava un barbarico GOTO). C’è l’abuso dei pleonasmi, degli slogan che si sostituiscono all’aggettivo singolo (“più- bianco-del-bianco” è una nuova forma di superlativo). Diventa possibile un’espressione come “democrazia popolare”, che suona un’offesa all’intelligenza, dato che democrazia equivale a “potere del popolo” e solo nei regimi totalitari “il potere del popolo” appartiene al partito e non al popolo. Forse sarebbe opportuno prescrivere lo studio dell’etimologia nella scuola dell’obbligo, e magari ai candidati al Parlamento.

Si illude chi pensa che distogliere l’attenzione dei parlanti dal valore delle parole singole, abbia conseguenze limitate al campo dell’estetica. Ed è un altro errore pensare che gli slogan che ci bombardano dai cartelloni stradali e dai teleschermi siano altrettanto innocui quanto le formule

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magiche che sollecitano il divino a manifestarsi tra noi. Tutta la pubblicità, sia commerciale che politica, ha per scopo la manipolazione delle opinioni ed è basata sulla diluizione del significato sull’intera frase, di modo che venga in evidenza l’intenzione.

L’intenzione (di farci comprare, o votare o combattere) chiama in ballo l’emozione del riconoscimento. Questi sono i biscotti della nonna. Quello è il partito di Garibaldi. Vota per il sole che sorge, socialismo nuova alba del mondo. E anche, ovviamente, Alberto da Giussano, che ha perso un pò di smalto da quando le nuove generazioni non sono più costrette a studiarsi a memoria La canzone di Legnano (“chi era costui?”).

Si pensi all’uso della musica della Marsigliese nel sottofondo dei film. La propaganda per le masse, fin dal tempo delle prediche sull’inferno, si prepara il terreno provocando uno stato di emotività, che rimuove le capacità logiche dei singoli.

Le intenzioni, infatti, vengono percepite in uno stadio che precede l’articolazione. Il cane sa che sto per batterlo. Il philodendron sente che chi è entrato nella stanza non ama le piante. L’elettore è predisposto ad applaudire: non per nulla chi parla è un uomo del suo partito. La crisi “del” linguaggio consiste appunto in questo: che l’approccio linguistico è diventato secondario rispettò a quello psicologico.

Inoltre, con lo sviluppo dei gerghi tecnologici, la maggioranza della popolazione è regredita a una situazione di bilinguismo simile a quella dei non ariani nel l000 a.C.. C’è al potere una minoranza che ha radici (finanziarie, oggi, piuttosto che etniche come in passato) fuori del territorio nazionale, che possiede strutture il cui potenziamento ha luogo altrove e che legifera nel suo idioma. E si creano ogni pochi anni nuove caste o meglio classi di età, che parlano lingue in parte incomprensibili ai loro fratelli maggiori.

Un esempio della accelerazione a cui sono sottoposti in Italia i processi linguistici ci viene offerto da Mario Lodi, il cui Paese sbagliato risale soltanto al l970. Mario Lodi aveva domandato a un bambino lombardo: “Ti piace la mela?” E il bambino non rispondeva, perché non capiva il significato della parola “mela”, che è di origine pre-ariana, ma è entrata nella lingua italiana ufficiale attraverso il greco eolico (secondo Varrone), cioè è entrata nel meridione. Per il bambino lombardo il nome del frutto era pomm, che è pure la trascrizione di un termine non indoeuropeo, ma è entrato in latino (pomum, il pomo) da un substrato centro-settentrionale. Evidentemente nel l970 il prestito standardizzato di “mela” non aveva ancora raggiunto tutti i distretti della Padania.

Negli anni novanta era già noto a tutti gli abitanti della penisola che una mela al giorno leva il medico di torno, senza che ciò comunque, abbia apportato loro grandi vantaggi. Infatti l’approfondimento del lessico non ariano, legato alle cose, non è mai stato qualificante, e lo è oggi meno che mai. Le parole evocative giovano ai poeti, per la loro magia bianca, cioè per attingere un potere che nulla ha a che fare con il possesso.

E’ l’altra lingua, quella che sacra non è, che dà il potere assieme al possesso: la lingua del palazzo, dei dirigenti, che viene spregiudicatamente usata a fini vagamente intimidatori. Un caso limite è stato segnalato in occasione di recenti esami per la patente di guida: molti candidati non erano stati in grado di rispondere a un test, perché nella domanda la parola cunetta (dalla stessa radice non ariana che ci ha dato culla), era stata sostituita da una circonlocuzione “esplicativa”. Un caso ancor più comune è quello del contribuente in crisi di fronte al modulo per la dichiarazione dei redditi. Il questionario è infatti specificatamente indirizzato a coloro che hanno accettato la nuova cultura ufficiale e studiato il modulese: cioè ai consulenti fiscali, che ricavano lauti guadagni da questa loro competenza.

Oggi chi non ha familiarità con la lingua del palazzo si ritrova nella condizione di Renzo davanti all’avvocato con il suo “latinorum”: cioè, tanto impotente di fronte alla burocrazia

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quanto un umbro indigeno di 3000 anni fa di fronte a un burocrate di quella minoranza di indoeuropei che aveva usurpato il nome della sua tribù e lo accusava con irritazione in un idioma bastardo o poco familiare. C’è però una differenza, che va tutta a sfavore dell’umbro del XX secolo: 3000 anni fa era più probabile che si parlasse di dazio sulle mele piuttosto che di percentuali sul reddito lordo, e l’umbro, con l’evidenza della mela in mano o nel cestino, riusciva a cavarsela autonomamente. La perplessità dell’umbro di oggi, invece, deriva dal doversi confrontare con gerghi ad un tempo intimidatori e esoterici.

Il sentimento di frustrazione che ne deriva ha effetti interessanti. Nell’immediato, esso provoca una rivolta contro il centro che emana gli incomprensibili ukase (così si ingrossano le file delle Leghe) e all’italiano scolastico della prima repubblica i ribelli sostituiscono quel che è sopravvissuto nel lessico dialettale nei ghetti del sottoproletariato: il turpiloquio.

D’altra parte, la frustrazione comune agisce come collante. Il nemico del momento (di volta in volta, lo sono stati i tedeschi, gli spagnoli, e il governo ladro) risveglia nel subconscio collettivo il ricordo di torti antichissimi, e ci affratella nelle manifestazioni di piazza, dalle Alpi alla Sicilia.

(E’ una reazione normalissima: sono stati i Turchi a fare dei Greci un’unica nazione, e oggi, venuta meno l’egemonia degli inglesi, in India si rinnovano rancori secolari. Il vincolo creato dalla comune impotenza tiene finché dura la consapevolezza di esser rinchiusi nella stessa gabbia, in balìa degli stessi inetti legislatori).

La comune animosità contro il potere centrale cieco e avido di Roma aveva unito italici ed etruschi contro Roma al tempo della guerra sociale. Più tardi l’antica potenza di Roma divenne oggetto di rimpianto in seguito alle continue incursioni di eserciti stranieri, che sopprimevano l’autonomia dei piccoli stati formatisi dopo secoli di asservimento ai barbari: e il Petrarca arrivava a cantare l’Italia come una nazione reale, anziché come un’espressione geografica. Il Petrarca parlava (indarno), in qualità di membro di una elite esigua e coltissima. Ma non aveva dubbi: l’Italia si identifica con l’antica Roma, quella Roma che aveva dominato il mondo conosciuto. I fratelli d’Italia, per il Petrarca, sono figli di Roma, come lo saranno per Goffredo Mameli secoli dopo. E l’Italia ha confini ben precisi, quelli dei “nostri dolci campi” violati da un “diluvio strano” di barbariche genti. Grazie alle comuni sofferenze inferte dagli stranieri, i ”nostri” dolci campi non sono soltanto toscani, ma includono tutte le fertili campagne a sud delle Alpi, che sono “nostre”, cioè, italiane, comprese le terre vicine

“a Pola, presso del Quarnaro, che Italia chiude e i suoi termini bagna”.

La stessa consapevolezza è in Machiavelli, il quale non era un mitomane, bensì un uomo di stato, un pragmatico: e apparteneva al palazzo. Anche per lui l’Italia era un paese reale, benché fossero passati mille anni dall’unità della penisola sotto Odoacre, e benché il paese fosse stato quant’altri mai “battuto, spogliato, lacero e corso.” A Machiavelli inoltre “gli italiani” apparivano superiori agli altri europei per le forze, la destrezza e l’ingegno. L’Italia come stato non esisteva, ma esistevano gli italiani, e ad ognuno di essi “puzzava questo barbaro dominio”.

Anche Alfonso I d’Este, nel l5l2, alla battaglia dell’Acquatussa, era in grado di distinguere gli italiani dagli altri combattenti e di confortare quei suoi bombardieri, pessimi tiratori, che decimavano gli alleati: “Voi non potete errare, perché sono tutti nemici”. Vuol dire che il concetto di italianità era chiaro anche ai suor bombardieri analfabeti. Così almeno ci racconta Paolo Giovio.

Ci sono patrie dal nome magico, nazioni i cui contorni vengono fissati per l’eternità dagli sconfitti immersi nel loro sangue sul campo di battaglia, dai profughi cui è negato il ritorno, dagli

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orfani in esilio. Nome magico è stato quello di dell’Italia, come quello di Gerusalemme, e nome tuttora magico, è quello del Curdistan.

Una prova forse più commovente del valore magico della parola “Italia” si trova nel cimitero spagnolo di San .Francisco, in una lapide datata 1832, e dedicata in italiano: A Lorenzo Falzon, dalmata, morto lontano

dall’Italia, i compatrioti posero. E Lorenzo era morto con un passaporto austriaco in tasca, mentre Carlo Alberto, ambiguo, non marciava dalla Savoia e in Toscana c’erano i Lorena e a Napoli gli Spagnoli e il papa regnava su Roma, e la Dalmazia (ci ricordano i libri di storia), per secoli terra di Venezia, geograficamente e politicamente è stata veneziana non è stata italiana mai. (A volte i federalisti rendono onore agli italiani meglio degli sbandieratori di professione.). E lui, Lorenzo, il dalmata, si sentiva italiano come i compagni che gli avevano dato sepoltura.

Quale immagine il nome di Italia evocasse alla sua mente, gli esuli di tutte le patrie lo capiscono. I curdi lo capiscono. I tibetani lo sanno. L’ Italia è un’idea anche i dalmati potevano riconoscersi ( e al tempo della guerra sociale, più di duemila anni fa, il nemico dell’Italia era Roma…) Non sappiamo, invece, in quale lingua Lorenzo avrà mormorato le sue ultime parole: difficilmente in quella di Petrarca. Infatti, nel paese là dove il sì suona, solo il sì, e il pane e il vino suonavano eguali per tutti, al tempo di Lorenzo. Persino una parola quotidiana, come “ragazza”, aveva, e ancora ha una versione diversa in ogni regione. Sul letto di morte Lorenzo si ricordò forse del suo primo amore, di una “muleta” nella lingua di Trieste,o di una “putea” in quella di Venezia: non certo di una “ragazza” termine oggi universalmente accettato, ma importato dall’arabo magrebino, che sostituisce l’aulico “fanciulla”, cioè la creatura tenera che da poco ha imparato a parlare.

Nessuno statuto federale, nessuna accresciuta autonomia regionale, nessun finanziamento del teatro dialettale, potrà mai distruggere quella unità profonda sopravvissuta a tanti secoli di invasioni e spartizioni. Sull’italianità i nostri emigrati all’estero da tutte le regioni d’Italia non hanno mai avuto dubbi.

Gli svizzeri sono una nazione plurietnica, che ha un’unica squadra nazionale di calcio. Noi avremmo su di loro il vantaggio di possedere anche, oltre al tricolore, che ci commuove quando appare sugli spalti degli stadi di calcio, una lingua letteraria unica e non un idioma tribale scelto a caso, come nelle Filippine, ma la lingua di Dante.

Quale potrebbe essere il motto di una buona battaglia? federalisti di tutta Italia, unitevi?

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Capitolo VIII

Lingua biforcuta

Italia dunque è una parola magica che evoca un luogo a tutti comune o qualcosa dentro di noi, a noi connaturato, una luce per chi sa accenderla e vuole farlo. E poiché in questo nome abbiamo riconosciuto la nostra identità al tempo di Mario e Silla, una accresciuta autonomia amministrativa delle regioni non varrà a farcela perdere. Ridare dignità ai grandi dialetti della penisola non dovrebbe proprio intaccare la nobiltà di una lingua nazionale che è non sé stata soltanto la lingua di grandi poeti, ma per secoli è stata uno strumento indispensabile per i musicisti, gli architetti e i giuristi del mondo intero. E’ un errore banalizzare questa lingua con cui ci presentiamo nei rapporti internazionali.

Però c’ è il problema dell’ ”altra” lingua nostra, quella di cui in queste pagine è stato esplorato il lessico e che in parte è custodita nei dialetti e dovrebbe essere la lingua della poesia.. Il problema dell’ altra lingua non ha a che fare con il federalismo, perché lo precede.

Il problema è che noi italiani abbiamo sempre parlato due lingue, però contemporaneamente. Dentro casa dicevamo ”bottiglia, barca, cantiere, mattone, dolo, fame,

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febbre, fuoco, gabbia, amore”...Tutte parole che servono per lavorare e stare in buona compagnia, per fare all’amore e per piangere i lutti. Parole magiche, perché evocano immagini, senza le quali non solo non si fanno esorcismi, ma neanche si fanno gli spaghetti alla carbonara. Fuori di casa, invece, dicevamo “prodotto interno lordo, tangenziale ovest, comparsa di costituzione di sfratto”: parole che ci servono per muoverci nella giungla politica e amministrativa. Fuori di casa gestiamo con disinvoltura un idioma povero di elementi, ma col potere illimitato di proliferare mediante prefissi e suffissi:

“mobile, immobile, immobiliare, immobilità, immobilismo,immobilizzabile”...

Le sillabe si sommano e si sostituiscono come gli accessori di un trapano: è questa qualità meccanica delle lingue degli ariani che ha permesso loro di sopraffare le altre culture e che ha fatto la fortuna del latino, parlato dai nostri antenati. Lingua di conquistatori, diceva il Meillet: se si tratta di emanare un decreto, bisogna far sentire al cittadino che dietro c’ è una autorità. E il latino era uno strumento perfetto per emettere scomuniche ed è tuttora insostituibile nelle epigrafi. In teoria, la nostra situazione è invidiabile: abbiamo a disposizione un idioma efficiente sia al mercato che al cimitero. Ma non è esatto: in realtà abbiamo in bocca due idiomiche non sono in pace tra loro.

Il nostro è bilinguismo autentico, sebbene le rispettive voci siano registrate all’interno di un medesimo dizionario: ciò non è privo di conseguenze. Anzi, le conseguenze sono gravissime per la salute della nostra società e della nostra psiche e costituiscono un impedimento a che si alzi il livello della cultura nazionale sia degno di una nazione europea.

In pratica, se il lessico arianizzante continua a dominare nei tribunali e nelle università, tra i gestori dell’editoria continuerà a mancare l’apprezzamento per la divulgazione e fatalmente mancherà la divulgazione e continueremo ad avere quel che abbiamo: la narrativa di bassa lega, che cerca il best-seller, da una parte, e dall’altra i libri che chi ha fatto solo la scuola dell’obbligo non è in grado di leggere, né è spronato a leggere. La cultura di una società dipende dal livello medio di istruzione, non dal numero dei suoi premi Nobel. Ma affinché si possa diffondere ampiamente una cultura media di livello europeo, occorre la volontà politica di coltivare entrambi gli idiomi.

.Psicologicamente questa mancata integrazione mina l’unità del carattere, e la coerenza dei comportamenti individuali e collettivi. Purtroppo, spesso senza averne nettamente coscienza, in Italia si parla ora l’una ora l’altra lingua, o si parlano ambedue le lingue confusamente assieme, appannando la limpidezza del messaggio. Non si arriva affatto, come uno potrebbe sperare, a una somma armoniosa delle virtù di entrambi gli strumenti a disposizione (chiarezza di analisi da una parte e concretezza poetica dall’altra). I nostri discorsi sono un giorno trasparenti e presuntuosi, un giorno ermetici e cinici, un giorno pieni di senso pratico e di fedeltà tribale. Noi abbiamo la lingua biforcuta, e gli stranieri lo sentono.

Molti stranieri ci disprezzano per la nostra mancanza di carattere. Noi italiani, in odio al potere centrale (che parla solo la lingua degli antichi conquistatori e che quindi ci sembra lontano anche se si tratta di un parlamento da noi eletto), ci sentiamo in diritto di dissociarci in qualunque momento dallo stato che ufficialmente ci rappresenta (governo ladro!).

Non pagare le tasse per l’italiano medio non è un reato, un evasore fiscale non va confuso con gli scippatori in Vespa. Perfino davanti ai dogmi della chiesa, noi ci riserviamo libertà di giudizio e di revisione del giudizio. Quando l’impegno è con l’autorità centrale, le scelte individuali scavalcano qualunque patto sociale e qualunque impegno di fede. Questa volubilità, che agli stranieri appare come una mancanza assoluta di principi, genera un’aura diffusa di incertezza che accresce lo sconforto della vita quotidiana. Anche coloro che,

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privatamente, sono leali verso gli amici, sentono che il patto sociale, in quanto sociale, in Italia non è vincolante. Non lo è per noi e non lo è per coloro che vengono a patti con noi. Non lo è per i nostri uomini politici per cui cambiare campo durante una guerra perduta è una manovra dettata dal buon senso.

La nostra società è di conseguenza schizofrenica a un livello inimmaginabile non solo negli altri paesi europei, ma anche nelle tribù più primitive.. Noi facciamo poco conto delle tessere e dei giuramenti e gli stranieri, a ragione, ci accusano di doppiezza e di inaffidabilità. Noi siamo inaffidabili perché c’è una metà, dentro a ognuno di noi, che non consente a quello che, in una lingua non totalmente nostra, promettiamo.

Pertanto l’Italia era un paese ufficialmente cattolico al 95% in cui il 75% votò in favore del divorzio (che può saperne il Papa, che non è sposato?), dove il 60% votò in favore dell’aborto (c.s.) e dove l’ 85 % non ha mai letto il Vangelo. Possiamo spezzare il cuore a un papa, ma anche i risultati di un’elezione politica sono di regola imprevedibili. Nel nostro paese, che era stato a lungo plebiscitariamente fascista, da un giorno all’altro i fascisti si ridussero al 7%, anche perché la nuova retorica del “palazzo” non tollerava nemmeno la più moderata opposizione.

Ma forse non è esatto dire che noi italiani abbiamo la lingua biforcuta: biforcuta è la lingua che abbiamo a disposizione. Il latino, defunto da 2000 anni, ha continuato a proliferare, sicché il primo significato di “attore” è colui che prende l’iniziativa di un processo. La “comparsa” è l’atto scritto con cui l’avvocato difensore chiede al giudice di intervenire in suo favore.

“Ricattare” (da re-captare) nel linguaggio giuridico è vincolato al senso di riscatto = “somma richiesta in caso di sequestro di persona”. Ma tra i toscani, dice il dizionario, ha ancora il senso di “recuperare” e nel resto della penisola significa estorcere denaro a mezzo intimidazione, con minacce di esporre qualcuno a censura morale o a sanzioni legali, e in pratica significa intimorire qualcuno affinché faccia qualcosa che non vorrebbe fare. La Giustizia in Italia è talmente lenta che è raro che il cittadino non abbia qualcosa da “recuperare”, sentendosi quindi dalla parte del giusto anche quando la legge dice il contrario. Tutti possono vederla, la Giustizia, correttamente rappresentata in cima al palazzaccio di Roma: : ha entrambe le mani occupate da bilance e spade, così impicciata e confusa che non può evitare di lasciar cadere i reati in prescrizione (puro termine ariano).

Dato che i nostri tribunali sono teatrini bilingui affollati di attori e comparse, succede poi che, pur conservando scrupolosamente la terminologia del diritto romano, il cittadino guarda sempre più spesso a quelle istituzioni in cui “sgarro”, “onore” e “infamia” sono parole non ambigue. Lo stesso sostantivo “famiglia” è, dal punto di vista semantico, ammirevolmente corretto: la famiglia era l’ insieme delle persone impegnate in un servizio a una collettività.

In senso generico la mafia (con le tangenti, le concussioni, le corruzioni) è presente in tutti i paesi del mondo: gruppetti di spregiudicati che non indietreggiano davanti alla violenza pur di far denaro rapidamente e senza fatica, si organizzano per taglieggiare i deboli e i timidi. Però in Italia la mafia (camorra, ‘ndrangheta, sacra corona, o “stidda”) è la nostra genuina struttura sociale, che riaffiora continuamente dal substrato. Nemmeno al tempo dei Romani ne eravamo immuni, a leggere tra le righe della storia, a parte le grosse tangentopoli tipo Verre (Verre era il suo autentico nome di famiglia, ed è sinonimo di “cinghialone”).

La mafia oggi è una potenza finanziaria transnazionale, troppo astuta per quotarsi in borsa: Ma fino a poco tempo fa il suo fascino stava nel fatto di essere a misura d’uomo: il patto di sangue delle iniziazioni era concreto e faceva della cosca la madre, del capo il padre, degli altri associati i fratelli. Era la tribù ricostituita, con quel calore consolante che lo stato moderno, sopraregionale, non sa più dare ai cittadini. Il segreto della fedeltà degli affiliati è anche il

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cocente bisogno di credere in qualcosa, oltre al vantaggio economico e al terrore della punizione che incombe sui traditori. Gli stati moderni hanno rinunciato ufficialmente alla pena di morte (sostituita candidamente dal suicidio) ma le mafie, sagacemente, hanno ridotto tutti gli articoli del codice ad uno solo. C’è una sola punizione, per qualunque sgarro, per qualunque inefficienza, per tutto ciò che porta danno alla tribù: ed è la morte. In cambio, si offrirebbe la garanzia di una remunerazione proporzionata ai membri che si distinguono per coraggio e intelligenza. Nella mafia ”gli uomini veri” fanno carriera e accumulano una ricchezza assai maggiore di quella che lo stato assicura ai suoi servitori.

Persino la segretezza di queste associazioni a delinquere trova un’eco nella schizofrenia (linguistica ed etica) dell’italiano medio. Solo per un osservatore superficiale i mediterranei sono estroversi. A qualsiasi ora del giorno, Ulisse era disposto a esternare le sue emozioni di mercante o di mendicante, di guerriero o di esule: ma esternava menzogne. Il suo vero io era impenetrabile. Noi non amiamo di essere conosciuti nel nostro intimo: non è mai prudente esporre le nostre debolezze. Sorridiamo: ma il vero scherzo rimane segreto: il sorriso arcaico dell’Apollo di Veio, indecifrabile, si ritrova sulle labbra della Gioconda. Nemmeno di noi stessi ci fidiamo completamente: e con ragione.

Icastici nelle denunce generiche, siamo vili di fronte alla prepotenza armata e attendiamo che qualcuno, da fuori, venga a fare giustizia e si prenda la gatta da pelare. A livello individuale, è vero, c’è chi è capace di reazioni virili e di sacrificio generoso, ma a livello collettivo, in genere, scegliamo la soluzione degli schiavi che vogliono evitare la frusta: siamo furbi.

“La sinistra ha il complesso della vittima lagnosa” è stato uno slogan fino a quando, recentemente, abbiamo scoperto che la destra ha il complesso della vittima becera.

Non donna di provincia, ma bordello, come scriveva padre Dante, il quale invero era più tedesco che italiano, e sapeva che in Italia “ogni uomo v’è barattier fuorchè Bonturo”1 Non voglio far torto agli italiani che arrossiscono per lo sguardo ironico dell’arbitro svedese quando un nostro calciatore fa la commedia torcendosi sul prato in area di rigore. E mentre la massa degli italiani, negli anni dal’ 43 al ‘50, davano una prova formidabile della superiorità biologica del nostro popolo, della nostra invincibile volontà di sopravvivere, c’era un Fecia di Cossato che si suicidava, non sopportando la vergogna della sconfitta. E nonostante il nostro innato scetticismo in fatto di religione e morale, 880 cittadini di Otranto, fatti prigionieri dai Turchi, si fecero decapitare uno per uno rifiutando di sputare sulla croce. Potremmo addirittura dire che Salvo D’Acquisto non poteva essere che italiano!...

E tuttavia, il tradimento è dentro di noi. La violenza che è stata compiuta sulle nostre madri in tempi remoti ha mutilato la nostra integrità. E oggi una spessa patina di americanismo finisce di sigillarla, togliendoci ogni memoria dell’antico oltraggio e facendoci meno diversi da tutti gli altri popoli ugualmente americanizzati. Questa è l’aggressione ariana definitiva.

Non siamo soli nella nostra attuale impotenza: quasi tutti i popoli della terra hanno subito sopraffazioni militari e culturali. Praticamente non c’è lingua al mondo che non contenga “relitti del substrato”, se vi è stata una continuità di occupazione del territorio. Nei pochi casi in cui questi relitti non esistono, bisogna postulare un genocidio radicale degli autoctoni, come nel caso dell’Uruguay o della Tasmania. Nessuno dei popoli attuali è interamente innocente, ma nessuno è privo di cicatrici. La Storia è monotona: i maschi dei vinti vengono uccisi, le donne diventano concubine, i bambini vengono adottati.

Però ci sono tre nazioni, l’Italia, la Grecia e l’India, in cui il vincitore si è trovato di fronte a una cultura superiore, a tradizioni radicalmente diverse, e a una popolazione troppo

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numerosa per essere sterminata. Non c’è cittadino greco, non c’è indiano dell’India, che non sia cresciuto in mezzo a contraddizioni che sembrano rispecchiare le nostre.

Gli indiani sono fieri della loro arianità: sebbene proprio in India gli autoctoni, grazie alla loro superiorità numerica, siano riusciti a conservare gran parte della loro cultura e spesso anche il linguaggio. Solo recentemente in India si è cominciato a rivalutare il contributo alla cultura nazionale delle genti sottomesse dagli ariani. In India il carattere dell’individuo medio è più ombroso del nostro, ma presenta il medesimo tipo di instabilità, che è fondamentalmente mancanza di sicurezza. (Non sappiamo per certo chi siamo.)

Nel caso dei Greci, frazionati dalle asperità del territorio in mille, inconquistabili etnie, il processo è stato differente: in tutto il corso della storia i vinti non hanno mai rinunciato alle loro tradizionali credenze, e hanno lasciato nella lingua ellenica una profondissima impronta. Avendo perduto precocemente l’indipendenza, ad opera dei Romani prima e degli Ottomani poi, le due etnie scontratesi nella preistoria si sono trovate in condizioni di parità, sicché hanno avuto agio di fondersi più armoniosamente che in Italia. L’insicurezza della propria identità si manifesta di rado: forse il mondo delle Madri, sopravvissuto nel sommerso per tremila anni , ha avuto più peso nel forgiare la grecità moderna.

Di questi tre paesi, l’Italia è quello in cui la violenza è durata più a lungo e ha lasciato cicatrici più profonde. Non si speri di far sparire le ferite eliminando il latino dalle scuole. Non giova gloriarci di una metà della nostra natura piuttosto che dell’altra. Il latino è la lingua dei nostri padri quale la ereditammo dopo che già aveva assimilato le lingue delle nostre madri: il latino era ormai una lingua romanza. Però identificarci totalmente con i Romani è un errore psicologico oltre che storico, che potrebbe condurre ad altri piazzali Loreto, anche se nei secoli bui, come quelli che si annunciano, nel servaggio più desolato, poter rivendicare il sangue dei Romani antichi era quanto mai consolante.

E’ un peccato che Don Milani, nemico giurato del Foscolo dei programmi ministeriali, non abbia avuto occasione di riconsiderare quel poeta come un essere umano infelice, senza speranza di vivere in patria o di morirci (nato a Zacinto, Foscolo aveva perduto la sua patria due volte, come veneto e come italiano). Forse con la sua umanità Don Milani avrebbe compreso che Foscolo era una figura tragica (all’italiana: appena in rilievo su uno sfondo di femmine e debiti), e che attraverso la poesia egli cercava una motivazione per sopravvivere. Il Foscolo era perfettamente consapevole, a livello di espressione, della frattura che si rivela in tutti noi, e dell’impossibilità per gli italiani di rinunciare all’eredità romana. E lo dice in un suo celebre sonetto:

Te nutrice alle Muse, ospite e dea, le barbariche genti che ti han doma nomavan tutte, e questo a noi pur fea lieve la varia, antiqua, infame soma.

Chè se i tuoi vizi, e gli anni, e sorte rea ti han morto il senno ed il valor di Roma, in te viveva il gran dir che avvolgea regali allori alla servil tua chioma.

Or ardi, Italia, al tuo genio ancor queste reliquie estreme di cotanto impero; anzi il toscano tuo parlar celeste

ognor più stempra nel sermon straniero onde, più che di tua divisa veste, sia il vincitor di tua barbarie altero.

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E’ un eloquio tanto diverso da quello corrente che si comprende il terrore dei ragazzi della

scuola di Barbiana. La voce del poeta ci giunge come attraverso un bozzolo di panni curiali. Il fraseggio è quasi esoterico, ferocemente contorto. Eppure il dolore è vero, e l’analisi perfetta.

Infatti i nostri padri hanno certamente preso parte alle battaglie e ai trionfi di Roma, e questo è un ricordo che i nostri figli faranno bene a tenere vivo nei giorni delle future paci di Campoformio, negli 8 settembre a venire. Qualche dubbio abbiamo a proposito della seconda quartina: il ”gran dire” suona vuota retorica quando si assiste quotidianamente alle beghe invereconde tra politici e giudici. Però, con lucidità mediterranea, Foscolo sa che l’abito fa il monaco. Con lucidità di poeta, sa che la Parola è potere: di parole ci si incorona e ci si inebria. Con lucidità di figlio di mercanti veneziani, Foscolo vede chiaramente che gli allori regali sono posati sulle chiome di creature servili.

Ecco un sintetico ritratto di schizofrenico: un vile servo (l’insulto è sintetizzato nel suffisso dell’aggettivo) che però si aggira con in testa la corona d’alloro che spettava ai generali degni del trionfo. Ovvio, questo schiavo è fuor di senno. E chi glielo permette, questo camuffamento? il gran dire, cioè il latino.

Il poeta l’ha detto: sotto l’alloro c’è un servo, cioè, noi. Ma servo di chi, originariamente, se non dei Romani, di cui siamo figli? Riconosciuti, sebbene a denti stretti. I Romani usavano con parsimonia l’istituto della legittimazione. I “patrizi” così si chiamavano perché avevano un padre legittimo. Gli altri erano tutti figli di mamma, plebei: cittadini, sì, però (poiché per gli indoeuropei è il padre che conta) corrispondenti giusto al ventre e alle membra, passive e grevi, di quel corpo della Repubblica di cui i figli di papà erano la testa: come spiegava candidamente al popolo in rivolta il buon patrizio Menenio Agrippa.

In quanto al toscano parlar celeste, esso è, come si è visto nel dizionario, romano solo a metà.

Romano l’alloro, ma solo per metà romana la fronte. La metà romana tuttavia ci aiutava a tener alta la testa mentre i barbari saccheggiavano, violentavano, incendiavano tutti i simboli del potere di Roma, inclusi gli uffici anagrafe. E così avvenne che in Italia i sopravvissuti ne approfittarono per dichiararsi Romani e basta.(Non era proprio il caso di spiegare ad Attila i grandi meriti della civiltà etrusca.)

Però non era vero. Basta leggere i primi capitoli della Storia del Mommsen (il quale era innamorato dei Romani perché gli sembravano proprio tedeschi) per rendersi conto dell’abisso che separa l’invincibile macchina da guerra che era Roma dalle dame cretesi chine sui fiori, da Boccaccio in attesa che si esaurisca la peste, da Giovanni Pascoli e da Pannella.

In tutto il Mediterraneo gli ariani si erano mescolati con genti diverse, ma rese affini dall’ambiente, esuberanti e amanti dei piaceri, e con una tale tenera passione per la vita da poterla scambiare (come spesso accade, equivocando, ai nordici) con la passione d’amore, e con una mente tanto lucida da rasentare il cinismo, tanto spregiudicata da approdare all’innocenza.

Per i nostri padri romani contava la legge scritta, e quella dell’onore virile: “Dulce et decorum est pro patria mori”. Ma il sangue materno nelle nostre vene approvava quel realismo , non sublime, ma certamente non ipocrita, che aveva dettato ad Omero, tremila anni or sono, parole indimenticabili.

“O Achille“, dice Ulisse all’anima dell’eroe defunto, “quando eri vivo ti abbiamo onorato come un dio, ed ora che sei morto, anche nell’al di là sei grande. E dunque non crucciarti di esser morto.”

A cui Achille, il guerriero invincibile, risponde:

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“Non mi volere, Ulisse divino, lodare la morte: vorrei, sopra la terra vivendo, esser servo di un altro, di un uomo privo di beni, che anch’egli stentasse la vita, piuttosto che regnare su tutta la turba dei morti.”

E invero in nessun paese al mondo la vita può esser dolce come sulle coste di questo grande mare azzurro, ricco di baie e di isole, dove le stagioni si avvicendano stimolando il sangue e il cervello, ma senza estremi di gelo o di caldo torrido, senza catastrofi come nella zona dei monsoni. Un ambiente dove l’occhio non si perde in spazi illimitati, a sognare, ma è tenuto desto dal continuo mutare del terreno, della vegetazione, del vento e dei vini. Dove coltivare la terra costa ingegno oltre che fatica, sicché al piccolo proprietario ogni albero, ogni sasso, è familiare e caro come i mobili di casa. Dove la vita si può svolgere all’aperto per quasi tutto l’anno, con il sole rosso tra gli alberi al mattino, o alto sui pendii di olivi e cicale a mezzogiorno, e nel viola della sera, con sul fondo il mare color del vino.

Un paese ambito da tutti i barbari, e facile da saccheggiare. nel suo intimo però inconquistabile, fino a questi ultimi decenni, fino a quando le campagne si sono svuotate e le donne le hanno abbandonate e il paesaggio è diventato un “poster” e tutta l’antica cultura (la saggezza ereditata con le parole delle madri) è stata scartata in favore di nuovi metodi di produzione. Oggi non si incontra più, tra la gente rimasta vicino ai campi, l’antico silenzio critico e prudente, la resistenza cocciuta del rurale aggrappato ai suoi attrezzi, ai prodotti della terra e alle parole sacre, bestemmie incluse.

Il silenzio che gli cade addosso in autunno, con l’allontanarsi del turismo di massa (con lo strepito dalle discoteche, le moto senza tubi di scarico, gli incendi) è lo stesso silenzio che segue le pestilenze e le battaglie. E’ un silenzio di morte. Forse nemmeno Achille vorrebbe vivere questo.

Le ninfe, come i santi che più tardi han dato nomi nuovi ai genii delle fratte, ci hanno lasciato. Non ci sono più sacerdoti per officiare nelle cappelle disseminate nei campi. Solo i vecchi vanno a messa la domenica. La polemica millenaria tra il padre che sta nei cieli e la madre che respira nella terra si è spenta, per mancanza di combattenti.

Le nuove generazioni parlano un linguaggio comprensibile solo agli addetti ai lavori. La sensazione di avere ormai l’acqua alla gola, l’urgenza che ci angoscia di dover almeno

qualche volta aprire la bocca per dir qualcosa, ha indotto alcuni benintenzionati a recuperare Bertoldo, e a ripescare oscenità nel gergo della malavita, soprattutto romanesca. Non è stata una reazione fruttuosa. Per lo meno contro l’italiano delle lapidi eravamo vaccinati da secoli, e la magnificenza del latino è insuperabile per inaugurare ponti. Invece questa ulteriore centralizzazione, a livello del dialetto canagliesco della capitale, rende ancor più arroganti i romani e ingenera repulsione negli altri italiani, depositari di dialetti nobilitati da secoli di letteratura scritta.

Oggi, anche sopra gli urbanizzati dell’antico, sottile strato borghese, ai professionisti e ai professori, ricade lo stesso silenzio. Il linguaggio che gli rimane è “datato”, buono per parlare di cose scomparse e di valori obsoleti. Si discute ancora sull’utilità dell’insegnamento del latino, ma per stanchezza, come i cacciatori parlano di caprioli nelle notti d’inverno. Non ci sono più caprioli, se non come specie protetta, e il latino di Virgilio si allontana per la via dove sono scomparse la lingua minoica e la lingua etrusca.

L’antichissima dicotomia si ripete e si rinnova: il cittadino memore della sua eredità millenaria dice cieco al cieco, e non farà mai parte della nuova classe dirigente, che ha scelto le nuove categorie di vedenti e non- vedenti, che farcisce il periodo di espressioni inglesi e accetta rapporti paritari solo con gli utenti di internet.

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Sono gli ultimi aneliti della ideologia pastorale: un Dio ha prescelto la loro classe seriale o la loro etnia, e li benedice mentre saccheggiano pascoli altrui. Le mandrie, nel frattempo, sono diventate invisibili: sono azioni e obbligazioni, recentemente, per legge, private persino del supporto cartaceo...

Il ciclo delle lingue utilitarie sembra concluso: la parole che non è più magica non indica la cosa e non è più necessario dirla. Si può scriverla, e subito risponde una luce sullo schermo, una scintilla di energia.

Ma gli emarginati che hanno nomi per le cose che toccano non devono disperare. Perché la tirannia millenaria forse è sull’orlo del crollo: forse la schizofrenia da stupro sta per dissolversi.

Basterà che manchi la corrente. Bibliografia

L’autore, nelle sue ricerche su campo sui relitti dell’antico culto dei serpenti praticato nell’Eurasia e nel Pacifico, (vedi Sette Serpenti, Manifesto-Libri, Roma 1994) ha consultato quanto era disponibile nelle biblioteche locali, oltre che nella School of Oriental and Afracan Scudies a Londra, della Australian National University a Canberra e del Micronesian Area Reesearch Center di Guam.

Di continua consultazione sono stati i dizionari del Pokorny (Indogermanisches Etymologishes Worterbuch, 1959), del M. Monier-Willians (A Sanscrit-English Dictionary, Oxford 1899), quello del Buck,, C.D. (Dictionary of Selected Synonyms in the Principal European Languages, Chicago 1949), del Tregear, E. Maori-Polynesian Comparative Dictionary, Wellington 1891, oltre agli studi delle lingue uralo-altaiche di Poppe e di Ramsted, e i circa 40 volumi sul Pacifico occidentale della Spedizione germanica del 1910-11, editi da Thilenius. Fondamentale l’ Avviamento all etimologia italiana de Devotp. Pertanto la Bibliografia che segue è paziale.

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