" La Via " raccolta 2010

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Tracce di un Cammino il Vangelo annunciato ad una comunità “ LA VIA “ RACCOLTA 2010

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Raccolta del foglio settimanale "La Via" scritto da don Umberto. In questo libro tutte le uscite 2010

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Tracce di un Camminoil Vangelo annunciato ad una comunità

“ LA VIA “RACCOLTA 2010

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LA VIA L’IMPORTANZA DEL NOME

L’intuizione è arrivata da una constatazione immediata: Roveleto e Cadeo sono attraversati dalla via Emilia che è la croce e la delizia dei nostri pae-si. Crea magari un po’ di traffico, ma garantisce la vitalità dell’ambiente e anche la funzionalità di esercizi commerciali.Evidentemente però non è questa la motivazione portante della scelta di questo nome.In realtà bisogna cercare il motivo direttamente nel Nuovo Testamento.La VIA era infatti il nome con cui era chiamata la prima comunità cri-stiana.Quando S. Paolo, negli Atti degli Apostoli, racconta la sua conversione, dice di aver perseguitato accanitamente ”questa nuova via” riferendosi al cristianesimo. (At 22, 4 )I cristiani stessi erano chiamati, nel 1° secolo, “quelli della via”.Tutto questo è spiegato molto bene dal priore della comunità di Bose, Enzo Bianchi, nel suo libro “La differenza cristiana”.A me pare stimolante pensare che, mentre in quei secoli tutti i sistemi di pensiero o le religioni venivano chiamate “dottrine”, il cristianesimo fosse chiamato “VIA”.Essere cristiani non è infatti questione di imparare una lezione, o di usare solo la mente per idee astratte.La fede cristiana è un’esperienza di vita, un luogo dove incontrare perso-ne, stabilire rapporti, proprio come su una via.Siamo in cammino, mai fermi, esattamente come gli angeli che Giacobbe vide salire e scendere sulla scala (Gen 33 ).Per questo il nome “la via” mi è sembrato quanto mai azzeccato: siamo anche noi come la prima comunità cristiana, entusiasti dell’incontro con Gesù e i fratelli e mai sazi, mai arrivati, mai chiusi a quelle novità che lun-go la strada Dio ci farà trovare.

16 dicembre 2007 La Via

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La Via

Il senso di questa parola stà semplicemente tutto qui, nel tempo che si trascorre insieme, nella strada che si percorre insieme al risorto. Su questo annuncio del Vangelo ognuno di noi è singolarmente invitato a diventare sequela.Attraverso la parola domenicale così sapientemente presentata da Don Umberto, si focalizza in modo sempre più chiaro una percorso spiritua-le che ogniuno di noi deve compiere all’interno del proprio cuore, per incontrare Dio. Tra le righe di queste frasi che guidano nell’intimo ognuno di noi, si intravvede con evidenza la strada da compire per diventare una nuova chiesa. Chiesa fatta di gesti quotidiani, di condivisione, di sostegno reciproco, di solidarietà e di richiesta di perdono che ci porta al coraggio di una testimonianza. Testimonianza che nasce tutti giorni dall’invito di Cristo: “non abbiate paura io ho vinto il mondo”, invito che determina la consapevolezza in ognuno di noi che, al di la dei proprio limiti e delle avversità, è chiamato ad essere testimone di questa meravigliosa chiesa di Dio.

Stefano

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A VOI CHE ASCOLTATE

PAROLE PER LASCIARSI ACCOMPAGNARE DAL VANGELO (Mt 11, 2 - 11)

Ci sarà rimasto male Giovanni Battista evidentemente.S’aspettava che Gesù facesse piazza pulita, che tagliasse gli alberi senza frutto, che punisse i peccatori, e invece Cristo si rivela misericordioso e amico dei deboli, mite e umile di cuore.Le aspettative del Battista andarono deluse come può succedere anche a noi quando Dio non rientra più nei nostri schemi, non adempie i nostri desideri, non accetta la nostra preghiera.In fondo è una questione decisiva della fede quella di affidarsi alla volon-tà di Dio piuttosto che tentare di ridurlo alle nostre prospettive.Dio può spiazzarci.Lasciamolo fare.

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DALLE ACQUE LA SALVEZZA

(Lc 3,15-16. 21-22)

Ci si salva attraverso l’acqua.Pare, questa, una delle constatazioni più chiare ed evidenti della Bibbia.Attraverso le acque del diluvio si salvò Noè, uscendone, lui e coloro che con lui erano nell’arca, dopo un tempo di purificazione della Terra. Anche Mosè si salvò dalle acque: da quelle del Nilo quando era in fasce e da quelle del Mar Rosso quando condusse con sé il popolo verso la Terra promessa. Quindi anche nel caso di Gesù, (Lui che porta a compimento l’Antico Testamento), noi possiamo parlare di salvezza attraverso le acque, quelle del suo Battesimo. Si salvano tutti coloro che si immergono con lui, tutti i peccatori con cui egli è in fila e, da quel momento, tutti coloro che saranno battezzati in lui.C’è però una differenza tra queste tre situazioni: perché Noè e i suoi si salvassero, gli uomini di quel tempo, malvagi ma pur sempre esseri viventi, hanno dovu-to morire. Così come l’attraversamento miracoloso del Mare da parte di Israele ebbe come controparte l’annientamento degli Egiziani.Gesù invece salva senza che nessuno debba pagarne le conseguenze: afferma la sua verità e la sua grazia non “contro” qualcuno ma sempre “per qualcuno”.In una società in cui si crede che per affermarsi bisogna sempre schiacciare gli altri questo è decisamente un messaggio in controtendenza.Come in controtendenza è lo stile di Gesù nel gesto iniziale della sua vita pubbli-ca. Un gesto che tanto pubblico non è se rimane così confuso tra quello di molti peccatori del suo tempo. I cieli aperti, la voce dall’alto, la colomba come segno dello Spirito sono esperienze che Gesù vive singolarmente e personalmente. Se così non fosse avrebbe avuto subito folle di seguaci a proclamarlo figlio di Dio: ma questa professione di fede fu fatta solo da Pietro molto tempo dopo. Gesù invece inizia il suo cammino confuso tra la folla perché ha bisogno egli stesso di una conferma da parte di Dio.Anche per lui deve aprirsi la strada indicatagli dal Padre e questa strada non gli era chiara fin dall’inizio. Riusciamo ad immaginare come per Gesù, al momento del Giordano, questa strada non sia ancora definita o questo ci pare eccessivo? Quella esperienza è valida oggi per noi.Occorre che si torni al nostro Battesimo per confermare la nostra fede, per ria-scoltare la voce del Padre rassicurarci nella nostra identità di figli.Nel solco di questa consapevolezza e di questo rilancio si colloca la Missione Popolare Diocesana che quest’oggi solennemente apriamo.

Domenica 10 gennaio

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la via raccolta 2010Domenica 17 gennaio

SE IL VINO FINISCE (Gv 2, 1-11)

Prima o poi il vino finisce; è sempre così nella vita.Non si tratta solo di uno spiacevole inconveniente capitato ad una festa di nozze di duemila anni fa. La fine del vino, il suo terminare significa la fine della gioia e della letizia come atteggiamenti costanti di fondo che accompagnano l’esistenza. Pensiamo, ad esempio, ad ogni matrimonio: nella lunga vita comune tra l’uomo e la donna vengono i giorni nei quali la comunione della mensa e del tetto ces-sa di apparire così gioiosa, facile, rassicurante, come invece appariva all’inizio. Essa, si dice, diventa una vita “normale”: ma in questa normalità si intravede una sorta di stanchezza, di abitudine logorante, priva di slancio e vuota di progettua-lità. A volte sembra anche che ci si sia rassegnati a questa sorte, tanto che questo principio non vale solo per le nozze e per il matrimonio.Tutta la vita, infatti, ai suoi inizi e nella stagione della giovinezza è come una festa e la gioia ne è un ingrediente essenziale.Con il passar del tempo e dei giorni però questo clima iniziale si consuma; ci si abitua a vivere la vita senza entusiasmo e ci si rassegna a vivere senza gioia, addirittura senza una speranza nel domani ma solo tirando avanti.Si finisce col pensare che in questo consiste il diventare adulti e persone assen-nate: nel maturare un disincanto nei confronti della vita, una sorta di distacco che permette di non apparire ingenui. A questo destino non si rassegnano ne’ Gesù, ne’ Maria sua madre. Cristo non accetta che l’uomo trascini avanti una vita spenta senza convinzione.Per questo compie il segno richiesto dalla Madonna rendendo nuovamente pre-sente il vino, cioè la gioia di vivere.Non un vino qualsiasi, ma il migliore; poiché la gioia cristiana è segnata da una pienezza di vita.Il vino buono, in fondo, si raccomanda da sé.Come cristiani chiamati alla missione, noi non siamo persone che devono, con timore, smerciare materiale scadente quasi pregando i clienti di avere pazienza fino a quando non ci sarà di meglio.La gioia del Vangelo è buona per tutti, ha un sapore inconfondibile e chi la gusta non la dimentica più.Riversare sugli altri questa gioia del Vangelo è semplicemente il traboccare della gioia dentro di noi.A ciascuno sia dato il dono di percepirne tutta la forza e la verità nel proprio cuore.

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la via raccolta 2010Domenica 24 gennaio

“OGGI PER VOI SI COMPIE …” (Lc 4, 14-21)

Non è sempre una buona cosa essere famosi.A volte questa notorietà crea delle attese spropositate, genera curiosità che han-no più il sapore del gossip che della reale volontà di conoscere la persona.Anche Gesù passò attraverso questa ambiguità di relazione nei suoi confronti.Il Vangelo dice che la sua fama si era diffusa presto in tutta la regione.La fama era diffusa, ma non la fede. La gente ha saputo in fretta di gesti e insegnamenti da lui compiuti eppure non lo ha riconosciuto. C’era un’attesa nei suoi confronti: erano infatti abituati alla sua presenza quelli che vivevano a Nazareth; e questa abitudine poteva essere scossa da qualcosa di totalmente nuovo,di inedito, di sensazionale. Gesù quel sabato in sinagoga avrebbe fatto e detto qualcosa di speciale. Questo pensava la gente. E invece niente di tutto ciò.“Oggi per voi si compie …” ecco le parole di Gesù.Nessun commento particolarmente brillante o approfondito: ma non era famo-so per i suoi insegnamenti? Nessun miracolo: ma non ne aveva già compiuti a Cafarnao. Sovraccaricare le proprie aspettative è sempre un rischio, spesso un danno. Anche nei confronti di Gesù: si finisce con il perdere di vista che le cose sono un dono.Cristo non fa nient’altro che accogliere la Scrittura profetica , così come quel giorno gli viene consegnata, per sentirne interiormente tutta la forza, la concre-tezza e l’attualità.Ciò che Gesù dice riecheggia l’atteggiamento del popolo di Israele descritto nella prima lettura: l’ascolto della Parola di Dio fa piangere, gioire, emozionare; fa, cioè, reagire come di fronte ad una persona viva che ci interpella.Tutto il resto poi viene da sé!Ma se la Parola di Dio non ci tocca nel profondo già da sola, già con la sua nuda proclamazione, allora il commento del prete sarà al massimo una buona musica per le nostre orecchie, un effimero discorso da salotto.Dal testo profetico Gesù invece si lascia toccare fino a lasciare che sia questa Parola a dire il senso della sua vita e della sua missione.Gesù non inventa da solo il suo servizio e il suo ministero: egli lo riceve; ed è per questo che vi rimane fedele senza modificarlo.Se fosse stato una cosa sua avrebbe potuto aggiustarlo a suo piacimento, correg-gerne il tiro, addolcirne la portata.Ma la missione di Gesù non è sua, ma del Padre.Come la nostra missione e come, in fondo, anche la nostra vita.

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la via raccolta 2010Domenica 31 gennaio

UN SASSO NELLO STAGNO (Lc 4, 21-30)

Anticipare le dinamiche della passione. Ecco ciò che l’evangelista Luca vuole esprimere nel brano di oggi. Gesù infatti annuncia la sua missione ma viene rifiutato e osteggiato. Minacciano di ucciderlo, ma egli passa attraverso questa situazione di morte e se ne va. Questo passaggio è il simbolo della Pasqua: il passaggio per eccellenza dalla morte alla vita. Una volta definita però la cornice teologica di questo racconto, occorre che ne guardiamo anche la scena dipinta, cioè narrata: con essa i particolari che sono rivelatori dell’insieme. Perché la gente di Nazareth rifiuta Gesù? Perché una re-azione così ostile, addirittura violenta a tal punto da cercare l’omicidio? Gesù aveva invitato ad una apertura del cuore e della mente gente totalmente chiusa nei suoi orizzonti. È impressionante come la vita dei piccoli paesi sia segnata, ovunque, dalla stessa mediocrità. Un po’ di commercio, poche e consolidate abitudini, molte chiacchiere e pette-golezzi e soprattutto nessuna voglia di cambiare le cose. Questa era la realtà di Nazareth. In una condizione del genere chi modifica gli equilibri, chi invita ad allargare gli orizzonti, evidentemente non quelli fisici, ma quelli mentali, chi non sta al gioco, è un elemento di disturbo. Gesù quel giorno, proprio nella sinagoga (perché è dai luoghi deputati a parlare di Dio che deve venire la vera novità) dice a questa gente che se non aprono i cuori e non abbat-tono i pregiudizi della consuetudine, non troveranno salvezza. E loro lo cacciano. Gesù è sconfitto: così inizia il suo ministero, con un sonoro fallimento. Per quel suo splendido coraggio di svincolarsi dalle aspettative errate della gente egli paga di persona. Nessuno lo segue nessuno cambia idea, nessuno si smarca da quelle sicurezze di piccolo cabotaggio che rendono stagnante una vita. D’altronde, anche negli stagni qualcuno ci vive. Ma francamente preferiamo co-loro che sanno solcare i cieli, coloro che credono alle parole profetiche, coloro che non si lasciano sfuggire il treno della grazia di Dio per la propria ristrettezza mentale. Non era indispensabile essere andati di persona a Sidone dove viveva la vedova che si fidò del profeta Elia; e nemmeno aver calcato la terra di Siria, patria di Naaman che ascoltò Eliseo e fu guarito. Bastava fidarsi, invece che dei propri calcoli, della parola di Gesù. Bastava credere ai sogni. Così oggi: non occorre per forza una grande cultura, ma un cuore capace di entusiasmo e di disinteresse; anche noi “siamo tutti in fila davanti a un sogno” e lasciarselo sfuggire sarebbe un peccato imperdonabile.

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la via raccolta 2010Domenica 7 febbraio

UN BEL GIORNO TI ACCORGI CHE ESISTI … (Lc 5, 1-11)

Ci si sveglia al mattino e si comincia a correre. Almeno, solitamente è così. Non si ha molto tempo per pensare,perché le cose da fare incombono.Al massimo si fa, mentalmente, un piano della giornata facendo scorrere gli appuntamenti e gli impegni. Qualche volta però capita anche di riuscire a trovare uno spazio minimo di ri-flessione; e quando capita sorgono domande.“Che senso ha quello che faccio?” “Perché corro dalla mattina alla sera?” “A chi è utile la mia vita?” Se non si trovano risposte soddisfacenti, allora o si smette di pensare, o si diventa un po’ cupi, quasi di cattivo umore.Tutte le mattine sono uguali e ripetitive, ma ogni tanto ce n’è qualcuna diversa.Anche quel giorno in cui Gesù comparve sulla riva del lago era mattina. Una fresca mattina uguale alle altre ma molto amara per un gruppo di pescatori che avevano faticato tutta la notte senza prendere nulla.Una di quelle mattine che mettono di cattivo umore, soprattutto un pescatore rientrato a mani vuote che si chiede:”che ci sto a fare qui?”Già, perché questa era probabilmente la vera ragione della tristezza di Pietro: la sua vita non serviva a niente. Nella sua vita gli sembrava non ci fosse nessun obiettivo così importante da po-ter giustificare la dedizione.Quando Gesù gli chiese di poter salire sulla sua barca per poter parlare alla folla, questo gli diede un grande sollievo. Se non altro la sensazione di essere utile a qualcuno di importante e la piacevole impressione che quella mattina ci sarebbe stato un diversivo. Ma aveva bisogno di un semplice diversivo o di qualcosa di più? Di che cosa avremmo veramente bisogno per far sì che i giorni non trascor-rano inutili, uno dopo l’altro, nell’attesa passiva che qualcosa cambi?Con questo interrogativo possiamo accostarci al brano della pesca miracolosa.Pietro sperimenta non solo l’abbondanza della grazia divina, ma anche la sua stessa miseria. E con essa la certezza di poter essere utile a Dio e, da pescatore di uomini,a tutti coloro che cercano salvezza. Quel che Pietro trova è un nuovo e più profondo significato della sua povera esistenza. Il frutto di quella pesca non fu la cosa più importante: quei numerosi pesci furono lasciati lì, abbandonati come le barche, dimenticati come le reti, per essere raccolti e mangiati da chissà chi. C’era qualcosa di più importante che non poteva essere perduto: il legame con il Signore Gesù, l’unico in grado di dare gusto e sapore alla ripetitiva vita di ogni giorno.

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la via raccolta 2010Domenica 14 febbraio

LA PARTE MANCANTE (Lc 6, 17.20 - 26)

L’evangelista Luca possiede la forza della concretezza; basta guardare il modo con cui riporta le beatitudini.Per lui non si tratta dei “poveri in spirito” ma dei poveri, in senso materiale.Non sono beati coloro che hanno fame e sete di giustizia, ma coloro che han-no fame e coloro che hanno sete, e basta. Sensazioni molto fisiche, condizioni corporee,molto concrete, appunto. Sono queste le persone che aveva davanti agli occhi Gesù quel giorno, radunate in gran folla in un luogo pianeggiante (ma non era, secondo Matteo, il discorso della montagna?) Gesù li vede e li proclama beati. Perché non toglie la loro po-vertà? Perché non agisce concretamente per cancellare quella precaria condizio-ne di indigenza in cui versano? E poi perché proprio loro e non altri, ad essere beati? Cristo si rivolge a co-loro che lo stanno ascoltando e si esprime così perché vede che, stranamente, proprio in costoro la sua parola trova interesse più spiccato, e quindi poi anche accoglienza più sicura. Ma persone oppresse da problemi di sopravvivenza non dovrebbero avere altro a cui pensare? Sembra strano eppure è come se queste persone arrivassero prima degli altri (i ricchi) a capire che sulla terra non si può trovare quello che veramente soddisfi la nostra vita. Certo non è una cosa auto-matica; anche un povero può essere egoista, meschino, senza fede.Ma forse, quando guarda in faccia la propria povertà, la propria fame e sete, riesce a capire che c’è un Dio più grande delle ingiustizie che gli uomini sanno generare. È la mancanza a generare il desiderio, ed è il desiderio, se è autentico e non puramente un bisogno, a nutrire la fede: e questo vale pure per le nostre mancanze e le nostre povertà, magari anche non materiali. Ci sono mancanze che devono rimanere tali perché Dio trovi dimora. La fede non è una medicina, come qualcosa che servisse a star bene. Chi vive del Van-gelo in genere finisce col preoccuparsi non solo delle sue, ma anche delle pene degli altri: ma l’obbiettivo della vita è star bene? O non è piuttosto essere buoni? Le due cose non coincidono. Forse ci sono quelli che pensano di star bene e di non mancare di nulla e sono quei ricchi che Gesù nel Vangelo apostrofa con una parola tremenda “guai a voi!” Li maledice perché hanno già la loro consolazione. Il peggio che può accadere all’uomo è appunto quello di aver già la propria con-solazione, di essere saturo, di non cercare più altro.La sazietà non può essere la condizione vera dell’uomo in questo mondo. Il Signore ci conceda di comprenderlo.

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la via raccolta 2010Domenica 21 febbraio 1° di Quaresima

DOVE CI PORTA LO SPIRITO ? (Lc 4, 1-13)

Mi ha sempre sorpreso quel passaggio evangelico dove si dice che è lo Spirito a condurre Gesù nel deserto.In quel luogo privo di vita, dimora abituale del demonio, luogo generato dal peccato e non dalla Grazia, Gesù ci va non per sua volontà ma perché lo Spirito ve lo conduce.Come se fosse necessario passare da lì, passare attraverso quelle tentazioni, pas-sare attraverso la fame e la fatica per poter fare qualcosa di più grande.Noi siamo abituati a maledire la prova: ad essa invece conduce lo Spirito, così dice il Vangelo di oggi. Si concentra, nelle tentazioni e nel loro superamento, tutto lo stile di vita di Gesù e del suo ministero.Gesù delinea le sue scelte di fondo che non riguardano le cose da fare, ma lo stile con cui farle.La prima tentazione è quella di ricorrere a soluzioni pratiche, quando si è di fronte a un problema, senza far riferimento alla Parola di Dio.Gesù era affamato, come i poveri a cui parlava, e il demonio gli propone di ri-solvere questo problema subito: Cristo risponde rimandando ad ogni Parola che esce da Dio. La seconda tentazione concerne il potere: Gesù poteva solo far del bene, non era possibile che il demonio lo rendesse cattivo. Per questo la tentazio-ne è sul modo di fare il bene: imponendolo con il potere. Instaurare la dittatura del bene. Ma il bene non può mai obbligare, lascia liberi.È il male a costringere l’uomo a qualcosa.Questo è uno dei modi più facili per riconoscerlo: quando c’è una costrizione.La terza tentazione ha come teatro Gerusalemme, il luogo della dimora di Dio, il Tempio. Quindi riguarda la fede.In fondo, a Gesù viene chiesto di conquistare la fede dei presenti attraverso un gesto spettacolare. Un modo per plagiare, quasi sedurre gli altri e condurli a cre-dere. Un’altra forma sottile di imporre se stessi, attraverso il miracoloso.Cristo rispose di no, perché non fu poi questo il movente dei suoi miracoli.In tal modo il diavolo esaurì tutte le sue tentazioni e si allontanò da lui.Anche questa annotazione mi riempie di stupore: il male si allontana.Ci tocca, è vero; ci sottopone a tentazioni a volte sottili e profonde. Ma poi va via, la sua presenza non è continuativa né costante. E noi rimaniamo in compagnia di Dio. Perchè nella nostra vita siamo molto più spesso sorretti dalle ali degli angeli che sbranati dalle fauci dei demoni.Ogni tanto è bene ricordarlo. Magari in Quaresima.

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la via raccolta 2010Domenica 28 febbraio2° di Quaresima

CHI DORME … (Lc 9, 28-36)

Il proverbio sapremmo completarlo tutti: si dice, appunto, “chi dorme non piglia pesci”.Il senso, ovvio, è quello che il sonno, l’inerzia più in generale, impedisce di com-piere una attività che sia fruttuosa e feconda.Anche il giorno della Trasfigurazione di Gesù sul monte c’era qualcuno che era in preda al sonno: i suoi discepoli.Erano addirittura “oppressi” dal sonno, dice il testo. Perché? Perché in un mo-mento così importante non sanno far altro che appisolarsi? Gesù è descritto nell’atto di parlare con Mosè ed Elia della sua passione che si sa-rebbe compiuta a Gerusalemme. E questo discorso della passione per i discepoli è stato sempre indigesto. Non l’hanno mai fino in fondo accettato: quando Gesù ne parlava non gli chiedevano spiegazioni o addirittura, come faceva Pietro, lo contrastavano. Il loro sonno è allora il modo con cui non entrare in comunione profonda con Gesù, è l’espressione della distanza tra loro e Cristo.Non a caso anche nel Getsemani si addormenteranno profondamente per la grande tristezza. Non sopportando la fatica e la pena della Passione se ne estra-nieranno.La metafora del sonno allora diventa chiara immediatamente anche alla nostra coscienza credente: il sonno è quella condizione di torpore spirituale, di inerzia e di rifiuto della proposta evangelica quando essa si fa più esigente e più impe-gnativa. Per questo i Padri della chiesa dicevano che quando la gente si addormentava mentre si predicava la Parola, quel sonno veniva dal demonio.Se una persona intende abbracciare seriamente la vita cristiana il nemico di Dio entrerà in azione. Così può capitare di ritrovarsi dopo la prima settimana di quaresima totalmente presi da questo sonno: abbiamo deciso di digiunare e ci ri-troviamo a mangiare di più; abbiamo deciso di trovare tempo per pregare e non diciamo più neanche le preghiere elementari; abbiamo scelto di spegnere la TV con la sua pochezza e ci ritroviamo a guardare anche i programmi più stupidi. O forse, per Quaresima non abbiamo ancora fatto nessuna scelta penitenziale: allora nel sonno eravamo già immersi da prima!!Ci sarà una lotta in questo tempo santo; sarebbe preoccupante il contrario.Ma il frutto della penitenza e dell’ascesi è sempre l’amore di Dio che sarà river-sato in noi.

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la via raccolta 2010Domenica 7 marzo 3° di Quaresima

REAGIRE AL MALE CONVERTENDOSI (Lc 13, 1-9)

Il brano appare, a prima vista, di difficile comprensione.Pilato, uomo crudele e senza scrupoli, aveva fatto uccidere alcuni Giudei che cospirarono contro il potere di Roma.Li aveva fatti trucidare nel tempio, il luogo santo per eccellenza, mischiandone il sangue con i sacrifici di animali che in quel luogo erano compiuti come offerta a Dio. Fu un episodio raccapricciante che turbò profondamente la coscienza del popolo di Gerusalemme; un turbamento dovuto non solo al sangue sparso e alla profanazione ma anche agli inquietanti interrogativi che un simile avvenimento portava con sé.Quella gente era stata uccisa nel Tempio: perché Dio non era intervenuto a pro-teggere i suoi fedeli?E queste morti erano forse la giusta ricompensa per uomini peccatori?Le stesse domande, inespresse, ma presenti, accompagnano l’altro episodio: una torre franata su 18 persone uccidendole.Ma perché una simile ingiustizia? Se Dio non è intervenuto ad evitare il male si può ancora dire che sia buono? E onnipotente?Forse però Egli è giusto e quindi ha fatto pagare a quella gente le conseguenze dei loro gesti sbagliati …Nella mente e nelle parole di coloro che quel giorno si rivolgevano a Gesù c’era-no questi dubbi e con essi l’attesa di una risposta.Gesù non prese la difesa di Dio perché non è compito nostro sindacare sul suo agire. Molte cose non le comprendiamo fino in fondo soprattutto la presenza del male. A Gesù stava a cuore dire come stare di fronte al male, come reagire ad esso e non tanto perché il male esiste. E la sua risposta fu chiara.Il male è, per un credente, l’occasione per decidersi alla conversione.Ecco spiegato il perché di questa pagina nel tempo quaresimale.Quando la cattiveria, la violenza, l’ingiustizia ci entrano in casa, magari fisica-mente, o forse solo attraverso la cattiva maestra televisione, l’unico modo effica-ce che abbiamo di reagire è quello di deciderci a fare il bene, convertendoci dai nostri comportamenti quando assomigliassero, anche solo un poco, a quelli che vediamo.Come il fico della parabola, noi siamo lenti a portare frutti, reticenti a conver-tirci.Dio ci concede tempo. Ma questa è veramente una questione seria, da non prendere con superficialità.

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la via raccolta 2010Domenica 14 marzo 4° di Quaresima

UN FINALE INATTESO (Lc 15, 11-32)

Se dovessimo scrivere il finale di questa famosa parabola cosa scriveremmo ? Entrerà o meno il fratello maggiore alla festa per il figlio perduto e ritrovato ? O rimarrà fuori, chiuso nella sua ostinazione? Per dare una risposta, percorriamo i passaggi salienti della parabola, partendo dalla figura del Padre. La sua miseri-cordia è tale da lasciarsi schiacciare, da lasciarsi dichiarare morto dal figlio più piccolo. Le parole del figlio sono terribili: l’eredità poteva essere divisa solo in punto di morte del padre: chiedere di poterla avere prima era come dichiarare la fine non solo del rapporto, ma della persona stessa del padre. Di un padre che avrebbe avuto tutte le ragioni per punire il figlio: ragioni sacrosante, stabilite dalla legge di Israele. Invece non lo fa. Egli attende; vive quell’attesa che è uno dei tratti distintivi dell’amore. Vede il figlio che torna quando è ancora lontano: ad immagine eloquente di Dio che raggiunge l’uomo nella sua lontananza, quasi segno della discesa agli inferi di Cristo stesso. E quando il figlio appare gli si getta al collo: è lui a compiere il gesto filiale, è lui ad amare abbassandosi. Solo allora quel figlio perduto si ritrova, solo allora può nascere il vero pentimento del figlio. Prima era un bisogno ad averlo portato dal Padre: la sua fame. Ora invece sente su di sé quell’abbraccio che scioglie ogni falsità e supera ogni cinismo. Non tornerà mai ad essere un giusto: sarà sempre un peccatore perdonato. Ma solo così potrà mantenersi umile e vivere il pentimento: solo lasciando la sua ferita aperta perché il Padre vi versi l’olio del suo amore. Non è la legge ad averlo sal-vato, ma la relazione con una persona. Come Pietro, che si salvò per lo sguardo misericordioso di Cristo. Nello stesso momento in cui Giuda si impiccò di fronte al volto duro ed impietoso della legge. Quella stessa legge vissuta e rispettata perfettamente dal figlio maggiore. Colui che non aveva trasgredito neppure uno dei comandi del padre non era stato capace di assorbirne lo spirito di amore e di misericordia. Stava in quella casa non come un figlio, ma come un servo. Esatta-mente come suo fratello minore.Figli o servi? Questa è l’alternativa per i Cristiani nella Chiesa.Questa stranissima somiglianza tra i due figli che figli non si sentiva-no, ma piuttosto servi, ci fa presagire il finale della parabola. Anche il maggiore eliminerà il padre. Un padre divenuto pericoloso anche per l’ordine costituito, per le convenienze sociali che regolano la società.Il figlio maggiore rappresenta i farisei che ascoltano questa parabola; il minore rappresenta i peccatori. Cristo morirà per entrambi. E così questo padre; anch’egli morirà per entrambi. Solo allora, amati dallo stesso amore, i due figli si sentiranno fratelli. Ogni fraternità nella Chiesa non nasce da simpatie psichiche, ma dall’amore di Dio infuso nei nostri cuori.Ci sia concesso, per grazia, di coglierlo e sperimentarlo.

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la via raccolta 2010Domenica 21 marzo 5° di Quaresima

TRA LA LEGGE E LA GRAZIA (Gv 8, 1-11)

Quel suo matrimonio ormai non aveva più sapore. Ci aveva provato in molti modi a rilanciarlo, ma forse per colpa sua o forse per la freddezza del marito le cose non avevano preso la piega giusta ma erano via via sprofondate nella noia. Era allora che aveva cominciato a frequentare un altro uomo che, a suo parere, “le dava di più”. Certo è sempre difficile capire bene cosa voglia dire questo “di più”; sta di fatto però che le sembrava di non fare alcun male ad avere un amante.Le classiche frasi autoassolutorie giravano nella sua testa: “che male c’è a volere un po’ di amore vero, un po’ di felicità ?”Aveva così dato il via ad una doppia vita piena di tutte le tristezze che queste scelte comportano ma di cui non ci si rende mai conto: incontri rubati e clande-stini, senso di colpa, rabbia per non aver incontrato prima “il principe azzurro” e via dicendo. Fino al giorno in cui le cose erano andate storte. Pensavano di essersi nascosti bene ma li avevano scoperti. L’amante se l’era filata subito:nonostante le parole di amore eterno sussurrate mille volte, nonostante gli abbracci ripetuti, uno “il coraggio mica se lo può dare”. E lei era finita davanti ad un tribunale sommario pronto a condannarla, anzi a lapidarla come prescriveva la legge. Tra lei e la morte c’era solo una piccolissima fessura, uno spiraglio quasi insignificante. Lo spazio utile per le parole chiare e liberanti di Gesù di Nazareth. Il Signore si trovò di fronte ad un bivio: seguire la legge e far morire una persona, o salvare una persona sovvertendo la legge. La persona fu salva perché la legge ciascuno doveva prima applicarla a se stes-so piuttosto che usarla per condannare altri. E nella salvezza della persona ci fu anche la conferma della legge: “va’ e non peccare più”. Gesù non chiuse un occhio di fronte al peccato. I suoi occhi erano invece ben aperti per guardare in faccia l’adultera. Nessuno ammiccamento in lui, ma lo sguardo puro e cristallino della verità. Così quel giorno iniziò per Gesù una lenta strisciante e progressiva persecuzione. La donna avrebbe capito col tempo che Cristo andava incontro alla morte mentre lei era rimasta in vita. Avrebbe capito che Cristo offriva la sua vita al posto di lei che avrebbe meritato ben altra sorte. Le sarebbero venute alla mente le parole del profeta Isaia “il castigo che vi dà salvezza si è abbattuto su di lui”. E si sarebbe sentita amata, forse per la prima volta. Amata senza falsi-tà, senza ricatti affettivi, amata senza niente in cambio. Avrebbe infine capito e amato la legge come il modo più autentico per rispondere a questo amore e per custodirlo. Quella legge che aveva sempre considerato antiquata e fuori moda sarebbe diventata per lei il tesoro della vita.

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la via raccolta 2010Domenica 28 marzo Le Palme

L’INFEDELTÀ DEI DISCEPOLI E LA FEDELTÀ DI GESU’

(Lc 22,14-23,56)

In tutti e quattro i Vangeli il racconto della passione è narrato in modo pressoché identico, ma questo non toglie che ogni evangelista abbia voluto esprimere in esso una sua propria peculiarità.Tipico del vangelo di Luca, oggi ascoltato, è la contrapposizione tra la grandezza di Gesù e la meschinità dei discepoli.Si inizia già dall’ultima cena quando, di fronte a un Gesù che serve, i discepoli discutono tra loro di chi fosse il più grande, in totale dissonanza con gli insegna-menti del maestro.Si prosegue nel Getsemani dove i discepoli non trovano di meglio che dormire mentre Gesù vive la sua agonia; poi al momento dell’arresto reagiscono con la violenza, loro che erano discepoli di un rabbì mite ed umile di cuore .Se a tutto questo ci aggiungessimo il tradimento di Giuda, il rinnegamento di Pietro e la fuga da parte di tutti loro, il quadro sarebbe completo e tutt’altro che consolante.È come se la passione facesse emergere il lato più debole ed ambiguo della loro fede, portando alla luce fragilità e incertezze fino ad allora accuratamente na-scoste.In fondo fu così anche per Gesù, ma da un punto di vista totalmente opposto.La sua passione iniziò con l’ingresso trionfale a Gerusalemme laddove egli fu osannato come re.Ma Gesù aveva sempre rifiutato quel titolo fino ad allora, aveva sempre voluto che non si rivelasse la sua piena identità. Ora invece, entrato nella città santa, quel che fino ad allora era nascosto si rivela.Ed è così anche per un altro episodio della Passione: i due ladroni crocifissi con Gesù.C’è bisogno di questo momento estremo perché ciò che essi veramente si porta-no nel cuore divenga manifesto: o il rifiuto totale o l’abbandono fiducioso.La settimana Santa è quindi un progressivo rivelarsi della verità nascosta di Gesù e di chi gli stava intorno.Per questo è chiamata la settimana autentica: perché ci spinge ad essere auten-tici, a far chiarezza e verità sul nostro discepolato, a scegliere di stare con Gesù anche sotto la croce, consapevoli che “le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi”.

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la via raccolta 2010

Rendici simili a te attraverso l’amore

Signore Dio nostro,aiutaci a mettere tutta la nostra fede in Gesù Cristo tuo Figlioseparandoci dai costumi del mondo.Noi siamo chiamati alla speranza:aiutaci a prendere su di noi il tuo giogo leggero, questo dono che ci salva dalla nostra condizione mortalee che fa di noi degli esseripartecipi della tua divinità.

Padre santo,aiutaci a compiere le tue parole fino alla morte,perché possiamo vederti faccia a faccia.N ai siamo stranieri sulla terra:che le ferite quotidiane facciano di noi degli imitatori di tuo Figlio, perché egli illumina quelli che lo cercano.

Rendici simili a te attraverso l’amore,o Dio tre volte santo che vivi nei secoli dei secoli.

SIMEONE NUOVO TEOLOGO

preghiera

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la via raccolta 2010Domenica 4 aprile S. Pasqua

L’ALBA DELLA SPERANZA (Gv 20, 1-9)

Tutto avvenne all’alba.Le donne al sepolcro con gli aromi; la pietra rotolata via; l’angelo e le sue parole; lo stupore e la corsa degli apostoli.Un’alba nuova. Un nuovo inizio, o meglio una nuova creazione.Come allora, anche qui, la luce irrompe e squarcia le tenebre: là, del nulla, qui della morte.Forse per questo la fede cristiana celebra la Pasqua come il primo dei giorni , come il momento al quale bisogna sempre daccapo ritornare per gustare la fre-schezza degli inizi quando tutto ha il sapore di novità e il cuore è colmo di spe-ranza. L’alba, in fondo conserva questo segreto: che il giorno che ci sta davanti possa scorrere sereno e positivo, vitale e gravido di bontà.È come l’infanzia: anch’essa è carica di speranza. Nell’infanzia tutta la vita sta davanti all’uomo con il suo carico di fiducia e non con i colori cupi e tenebrosi del pessimismo.Poi gli anni passano, le memorie si accumulano e con esse anche le nostalgie e le preoccupazioni e così la speranza diviene meno certa e più evanescente.Scrivo di una speranza che non consiste solo nel dire a se stessi che le cose an-dranno bene, ma più profondamente nel sapere che ciò che facciamo, viviamo e amiamo rimane per sempre e non è destinato a perire.In una parola la speranza che è legata al senso della nostra vita. Non al suo scopo o alla sua utilità, ma al suo senso, che è cosa più decisiva.Proprio nel solco di questa speranza si inserisce l’evento della resurrezione di Gesù. È il fatto inimmaginabile che la realtà eterna entri nel nostro quotidiano e lo possa trasfigurare e renda i nostri gesti capaci di sfondare il muro dell’eternità.Soffriamo tutti, oggi,di un deficit di speranza e se dobbiamo parlare del senso della nostra vita lo facciamo balbettando.Eppure le donne al sepolcro si domandarono appunto “che senso avesse tutto questo”; e il loro interrogativo interiore fu la condizione indispensabile perché gli angeli potessero parlare loro.Se c’è la domanda di senso, allora la resurrezione è la risposta più convincente, quella che custodisce in sé tutta la freschezza degli inizi, quando le promesse della vita sono sentite come vere e autentiche.È l’aurora di un tempo nuovo, e io prego che ciascuno di voi con l’avanzare del giorno possa gioire sempre del segreto dell’alba.

Buona Pasqua

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la via raccolta 2010Domenica 18 aprile

LA NOSTRA STORIA

In preparazione all’assemblea di venerdì 23 aprile

Questa settimana, più che offrire spunti di commento al Vangelo di oggi, vorrei suggerire alcune piste di riflessione per preparare l’assemblea comunitaria (aper-ta a tutti) di venerdì 23 aprile.Si tratterà di un altro passo nel cammino formativo che abbiamo iniziato sul tema della nuova chiesa.Una chiesa non è un puro edificio in muratura, ma esprime la storia di una co-munità parrocchiale. Domenica 25 aprile 2010 Attraverso l’edificazione di una chiesa i membri della comunità possono esprimere la loro identità e la loro provenienza ecclesiale.Pertanto l’incontro di venerdì sera sarà guidato da queste domande:

Noi chi siamo?

Da quale storia ecclesiale e spirituale proveniamo?

Quali sono i tratti salienti della nostra comunità?

Quali sono le figure spirituali che ne hanno segnato la storia?

Attorno a quali valori e contenuti fondamentali la nostra comunità si raduna?

E qual è il legame con la nostra diocesi?

Queste domande vengono formulate già ora perché si possa giungere all’incon-tro preparati e il confronto possa essere fruttuoso e non generico.Raccoglieremo le risposte e il frutto dell’assemblea in un insieme organico da poter presentare a p. Rupnik quando sarà presente tra noi nel mese di maggio.Personalmente è da molto tempo che prego su questo sogno della chiesa nuova e rimetto questo progetto nelle mani del Signore.Ora una preghiera la chiedo anche a voi.

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la via raccolta 2010Domenica 25 aprile

LA VOCE (Gv 10,27-30)

Il paragone che oggi il Vangelo ci presenta è ben noto: Gesù è il pastore, il buon pastore, e noi siamo il gregge, le sue pecore.È un paragone che mi ha sempre suscitato una certa perplessità: in fondo le pe-core sembrano animali senza una precisa personalità, remissivi, inclini a muo-versi tutti insieme,certamente non in grado di intuire le parole del pastore.Ma proprio qui sta il punto: Gesù dice che le pecore ascoltano la sua voce, non le sue parole.Le pecore non capiscono i discorsi del pastore, non colgono i ragionamenti e il senso delle affermazioni, ma distinguono una voce e si fidano. Sanno che quella voce ha il suono di chi le condurrà al pascolo ristoratore.Questa intesa magica con il pastore è quindi figlia dell’istinto e non della ragione.Se la applicassimo alla nostra condizione di uomini dovremmo dire che siamo chiamati prima a fidarci e poi a comprendere: un gesto che per la nostra menta-lità è come un triplice salto mortale. Però c’è un’esperienza che tutti abbiamo fatto e che può aiutarci a cogliere la forza di questo paragone: la primissima infanzia.Il bambino piccolo non coglie il significato delle parole e dei ragionamenti, ma distingue le voci. Sente una voce e la associa alla persona del padre o della ma-dre. È la voce a suscitargli fiducia. La voce da lui udita lo fa sentire accolto, cer-cato, atteso. Potremmo quasi dire che la voce gli fa capire di esistere.Se viene chiamato da qualcuno il bambino capisce di esistere, di esserci.Così siamo noi: esistiamo perché qualcuno ci chiama e questo qualcuno è Dio.Noi siamo tutti dei “chiamati” ed è per questo che siamo al mondo: è questa la nostra identità. Non ce la siamo costruita da noi stessi, ma l’abbiamo ricevuta da Qualcuno che pronuncia continuamente il nostro nome. Per questo, per noi cristiani l’autenticità non coincide con l’originalità a tutti i costi, ma col seguire la chiamata ricevuta. Oggi infatti la Chiesa celebra la giornata mondiale delle vo-cazioni e lo fa proprio con questa consapevolezza: ogni cristiano è un chiamato, e chiamata (vocazione appunto) vuol dire lasciare che la vita sia scandita dalla voce di Dio, dai suoi continui appelli alla bontà, alla giustizia, alla carità.Lo scrittore francese Paul Claudel diceva che non dobbiamo inventarci la croce, ma salire su quella di Cristo. Così pure non vogliamo inventarci la vita ma aderire a quella che Dio ha in serbo per noi e che ci rivela chiamandoci con il suono della sua voce.

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la via raccolta 2010Domenica 2 maggio

LA NOVITA’ DELL’AMORE (Gv 13,31-35)

Al cenacolo, la sera dell’ultima cena.È qui che è ambientato il brano evangelico di oggi, è qui che risuonano le parole pronunciate da Gesù che hanno il sapore nostalgico dell’addio, ma anche la fre-schezza di un annuncio totalmente nuovo.Il clima di quella sera fu certamente turbato dall’annuncio del tradimento di Giuda.Perché Giuda tradisce? Probabilmente perché si è sentito lui per primo tradito da Gesù; tradito nel senso di non soddisfatto nelle sue aspettative.Aveva sovraccaricato Gesù di attese politiche, di vittoria e prestigio, e ora capisce di aver a che fare con un messia povero, disposto a morire nel servizio piuttosto che ad imporsi.È questa profonda delusione a generare il tradimento di Giuda, ed è un tradi-mento che mette tutti in crisi, quasi che Gesù non fosse riuscito a convincere e convertire neppure i più intimi tra i suoi discepoli.Ma proprio in questo apparente fallimento, in questa grande tribolazione, ri-suonano più forti le parole del Signore riguardanti il comandamento dell’amore.Un comandamento che è presentato come “nuovo”. In cosa consiste questa no-vità? Non nel comandamento in sé, già formulato nell’Antico Testamento, ma nel fat-to che occorre adempierlo come Gesù.Quel “come” non è solo un modello, ma è un principio sorgivo.Noi possiamo amarci veramente perché Gesù per primo ci ha amati.Non siamo chiamati ad amarci affidandoci semplicemente alla conoscenza, alla simpatia, all’attrattiva spontanea che lega l’uomo alla donna o i genitori ai figli.Il legame nuovo, quello che solo consente di amare senza pentimenti, è quello che Gesù ha istituito tra di noi.Per questo la qualità dell’amore cristiano non si basa su ammiccamenti reciproci o su emozioni che possono facilmente passare; siamo anzi abbastanza delusi da come si possa presentare un sentimento nobile come l’amore con una simile banalità e con un tale cattivo gusto.Cristo ci ha fatto dono di un amore che rimane, ed egli stesso ci aiuti a compren-dere la qualità non psichica, ma spirituale di questo nostro legame.

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la via raccolta 2010

Voglio amare come te

Signore mio Gesù,

voglio amare tutti coloro che tu ami.

Voglio amare con te la volontà del Padre.

Non voglio che nulla separi il mio cuore dal tuo,

che qualcosa sia nel mio cuore

e non sia immerso nel tuo.

Tutto quel che vuoi io lo voglio.

Tutto quel che desideri io lo desidero.

Dio mio,

ti do il mio cuore,

offrilo insieme al tuo a tuo Padre

come qualcosa che è tuo

e che ti è possibile offrire,

perché esso ti appartiene.

Charles de Foucauld

preghiera

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la via raccolta 2010Domenica 9 maggio

PER VIVERE (Gv 14, 23-29)

Come domenica scorsa, anche oggi si profila all’orizzonte una novità. L’emozione che Gesù ci offre e ci presenta.Questa volta la novità riguarda la pace che Gesù lascia ai suoi nel suo te-stamento spirituale; una pace diversa, non come quella che dà il mondo. Una pace, appunto, nuova.Quando nel Vangelo si parla del male, si intende con questa parola una realtà e un modo di pensare non in sintonia con Dio e la sua Parola, si intende una cultura totalmente profana, in grado di afferrare il cuore dell’uomo e allontanarlo dal suo Signore.Com’è intesa nel mondo la pace? E come la intende invece Gesù?La pace che il mondo suggerisce di cercare passa molto spesso attraverso il taglio dei legami con gli altri: se ciascuno sta a casa sua, se ciascuno fa le sue cose senza occuparsi di quelle altrui allora non ci saranno motivi di conflitto.Si usa il motto “vivi e lascia vivere” proprio come dogma per custodire la pace, almeno quella illusoriamente promossa dal mondo.Gesù invece, in modo chiaramente opposto, ci comanda di occuparci dei fratelli, di interessarci alle loro pene; da qui nascerà la pace.Così pure quella pace interiore, quella serenità di spirito che ognuno cerca, sembra percorrere vie differenti.Nella logica del mondo essa è frutto di una rimozione dei problemi, di una sorta di anestetizzazione delle passioni e della sofferenza. Per questo si va a cercarla negli psicofarmaci ( di cui non nego, in certi casi, l’utilità) o nelle filosofie orientali a buon mercato.Per Gesù invece questa pace del cuore passa attraverso la sofferenza, na-sce anche nella inquietudine, si alimenta al fuoco della passione per Dio.

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la via raccolta 2010Domenica 16 maggio Ascensione

ALLE RADICI DELLA GIOIA (Lc 24, 46-53)

“Tornarono a Gerusalemme con grande gioia.”Come è possibile che i discepoli abbiano gioito dopo che Gesù si era separato da loro con l’Ascensione? Strana questa gioia, apparentemente inspiegabile; ma proprio per questo tale da spingerci a cercarne il segreto.Cercare e trovare il segreto della gioia dei discepoli per dare vigore alla nostra gioia, così precaria a volte, così confusa e instabile.La prima parte di questo segreto sta in un numero: quaranta.Secondo lo schema narrativo di Luca infatti il tempo che intercorre tra la Pasqua e l’Ascensione è di quaranta giorni.Subito ci vengono in mente altri riferimenti biblici importanti ed eloquenti, le-gati alla stessa cifra:per quarant’anni il popolo di Israele aveva vagato nel deserto prima di entrare nella Terra promessa, con una generazione nuova, non più quella uscita dall’E-gitto; per quaranta giorni, sempre nel deserto, Gesù soggiornò e fu tentato dal diavolo, uscendone vincitore per dare inizio al suo ministero.In entrambi i casi il numero quaranta fu il preludio a qualcosa di nuovo ed inau-dito che da lì in avanti avrebbe avuto inizio. L’Ascensione generò nei discepoli la certezza di una nuova presenza di Cristo nella loro vita, non più fisica, ma altrettanto reale e profonda. E fu questo a motivare la loro gioia: che non ci fosse più solo il vincolo del corpo a dire la certezza di una relazione.Basterebbe questo motivo per la nostra gioia? Se così non fosse, ci sarebbe co-munque la seconda parte di questo segreto.Gli apostoli quel giorno capirono, misteriosamente, che il loro destino era as-sociato a quello del Signore e che quindi la loro stessa vita avrebbe raggiunto la comunione con Dio Padre. Anche noi oggi siamo chiamati a condividere questa gioiosa certezza: noi viviamo una doppia appartenenza; apparteniamo a questo ristretto angolo di terra e apparteniamo pure alla terra nuova, inaugurata da Cri-sto. Siamo nel tempo e siamo nell’eterno e quel che seminiamo, raccoglieremo. L’idea che tutto finisca qui, che si debba dimorare solo in un mondo chiuso e governato dalla furbizia e dalla prepotenza, potrebbe generare in noi cinismo e rassegnazione. Ma l’Ascensione ci ha spalancato una porta per varcare la quale occorrono gesti di dedizione, d’amore e di carità.Perché solo l’amore rimane per sempre.

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la via raccolta 2010Domenica 23 maggio Pentecoste

IL SOGNO D’INTENDERSI (Gv,14)

Non so se avete mai la sensazione di non essere capiti. Se vi capita mai di dire una cosa e venire fraintesi o mal interpretati.O anche se vi capita di essere voi a non capire gli altri, ad intendere le loro parole in modo diverso da ciò che essi volevano veramente dire.Probabilmente sì, sarà capitato anche a voi.E non so se dopo questi episodi vi capita di fare una riflessione su quanto sia difficile comunicare veramente e su quanto sia un sogno quello di intendersi con gli altri.A me capita spesso di pensarci e di sentire anche che sarebbe facile prendere una scorciatoia per risolvere la situazione: quello di chiudersi a riccio, o magari solo con coloro che dimostrano di capirci veramente.È la stessa situazione descritta per il miracolo di Pentecoste: gli apostoli erano sì in comunione tra di loro, ma una comunione che aveva le dimensioni di una prigione. Se ne stavano serrati; loro soli, dentro una stanza chiusa. Come se il mondo non potesse capirli, come se chi era fuori non sapesse rac-cogliere la loro testimonianza. Tutti noi abbiamo la tentazione di chiuderci nel nostro cenacolo dicendo: “sono gli altri a non capirci …”Ma il prodigio della Pentecoste fu proprio questo: uscire da quel luogo chiuso e cominciare a parlare ad altri; ed essere, miracolosamente, capiti ed intesi.Una intesa che fu lo Spirito Santo a generare, non certo le capacità dei discepo-li: non avevano studiato a tal punto da poter parlare tutte quelle lingue.A loro fu chiesta la disponibilità ad aprirsi, ad uscire dalla paura e dalla chiusu-ra e poi lo Spirito generò comunione.Ci dovrà pur essere anche per noi la capacità di intenderci e di comunicare veramente.Se così non fosse la Chiesa perderebbe la sua identità che non è quella di tratte-nere i suoi figli, ma di inviarli.Da una parrocchia o da una comunità cristiana, comunque configurate, alla fine si deve uscire.Uscire per una missione, non uscire per delusione o perché il luogo ci sembra diventato troppo stretto e soffocante.Occorre che i luoghi della comunione fraterna non diventino un rifugio dove fuggire o peggio, una prigione, ma un punto di partenza.Allora, e solo allora, essi ci accompagneranno per tutta la vita.

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la via raccolta 2010Domenica 13 giugno

ATTENZIONI POCO DISCRETE (Lc 7,36 - 8,3)

Pare di vederli i due personaggi di questa pagina evangelica. Pare quasi di toccarli nel loro differente modo di stare insieme a Gesù. Da una par-te un fariseo che invita a cena il Maestro, dall’altra una donna peccatrice, non invitata, ma furtivamente entrata a quella mensa.Una donna dalle attenzioni poco discrete.Cerca Gesù, lo circonda, lo bacia, lo cosparge di profumo. Gesti da amante compiuti sulla persona di Cristo: roba da imbarazzo totale.Eppure, grande è la libertà di questa donna: non sono nascosti i suoi sentimenti, vuol bene a Gesù e lo fa capire; tutti lo comprendono e sanno subito con chi hanno a che fare, non occorrono interpretazioni o chiarimenti per intendere ciò che davvero si porta nel cuore.Al suo opposto, quasi in senso fisico, c’è Simone il fariseo.Vede la scena, la condanna, la biasima, la deplora. Ma non parla.La sua è una obiezione silenziosa, non articolata a parole, non espressa ad alta voce.Tipico dei farisei, anche quelli di oggi: non capisci mai con chi hai ve-ramente a che fare e, se parlano, non dicono del tutto quel che pensano. Usano le parole per nascondere il pensiero, non per manifestarlo.A volte un po’ di diplomazia serve, ma se è il tratto abituale della comu-nicazione tutto diventa atrofizzato.Anche per loro però, se non parlano le labbra, diventa eloquente il volto.L’imbarazzo di Simone quel giorno si sarà capito; almeno, Gesù lo ha capito e se l’è preso a cuore.Parlò a Simone con una strategia: l’uso di un paragone per portarlo a guardarsi nel cuore.Perché anche questo accade sempre al fariseo: che con queste persone non è mai possibile affrontare direttamente il tema, occorre sempre aggi-rare la prevedibile resistenza dell’interlocutore.Gesù ricorre ad un discorso indiretto per suscitare una riflessione, un esame di coscienza.

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la via raccolta 2010Domenica 20 giugno

LA GENTE, I DISCEPOLI E NOI (Lc 9, 18-24)

Non si può certo dire che Gesù amasse le grandi folle o i momenti di grande pubblicità.Si può, invece, sostenere con una certa sicurezza il contrario: ogni volta che si sentiva accerchiato dall’applauso e dall’attesa della folla letteralmente fuggiva.Anche i discorsi sulla sua persona non erano da lui molto amati: a Gesù stava a cuore parlare di Dio e del suo regno, ma sembrava quasi infastidito da ogni chiacchiera fatta sulla sua persona. E quel che gli accade è naturalmente tutto il contrario di quel che egli desidera: le folle lo cercano, si accalcano attorno a lui, e soprattutto si interessano della sua persona e della sua identità molto più che del suo messaggio. Quasi prefiguran-do un certo modo di fare e di agire dei moderni mezzi di comunicazione anche allora si correva il rischio di un entusiasmo superficiale frutto di curiosità più che di una reale conoscenza delle parole e dei pensieri del Maestro. Così, Gesù, dopo la moltiplicazione dei pani, si ritira in un luogo deserto e lì, lontano da folle incuriosite, dialoga con i suoi discepoli proprio sulla sua identità. È come se volesse che almeno loro evitassero la superficialità per conoscerlo davvero. Per questo parte dalla domanda “la gente chi dice che io sia?”: perché quello è un riferimento da superare, un approdo da abbandonare per prendere il largo, cioè la profondità di una risposta più personale e soprattutto coinvolgente. La ri-sposta personale arriva, è quella di Pietro. È un azzardo, una professione di fede altissima una frase coraggiosa, che guarda caso, non compariva nel campionario delle superficiali risposte della gente. Nella vita ci sono delle cose talmente vere e talmente importanti che occorre conoscerle in profondità: la figura di Gesù è una di esse. Ci potrà essere, in questo processo di conoscenza, qualcosa di difficile da com-prendere e da accettare: allora sarà il Signore stesso a venirci in aiuto, come a Pietro. È Cristo infatti a svelargli il volto sofferente e crocifisso del suo essere messia. Laddove Pietro non poteva arrivare, arriva la Parola di Gesù. Una parola che illumina e che invita a seguirlo. Tutto ciò perché anche i discorsi a proposito di Gesù possono diventare una distrazione se rimangono puri discorsi, se non arrivano,cioè, a mettere in questione la vita di chi li fa. Ci sono infatti molti di-scorsi “religiosi” che di religione hanno ben poco. Perché vero discorso religioso è solo quello che porta chi lo pronuncia e chi lo ascolta a mettere in gioco qual-cosa di se stessi. Il Signore ci conceda di poterlo fare anche noi.

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la via raccolta 2010

BISOGNA ESSERE DURI, SENZA MAI PERDERE LA TENEREZZA

(Lc 9, 51-62)

Questa frase che oggi uso come titolo campeggiava anni fa su alcuni manifesti pubblicitari.Mi è tornato in mente pensando al brano evangelico di oggi nel quale emerge anzitutto la durezza di Gesù, una durezza che si tramuta in determinazione.Gesù inizia il suo viaggio verso Gerusalemme e lo fa con una decisione forte, letteralmente “rendendo duro il suo volto”.A questa determinazione si accompagnano le esigenze impegnative e severe che egli presenta ai suoi apostoli e a chi lo vuol seguire: condizioni al limite dell’im-possibile.Sono il primo scoglio di questo vangelo, la prima pietra di inciampo per la no-stra religiosità più incline a cercare tranquillità, pace, quieto vivere.Per capire Gesù occorre uno sforzo con se stessi, a volte violento, certamente non automatico ne’ spontaneo. Per noi invece spontaneità e autenticità coincido-no e riteniamo che abbia senso fare una cosa solo se “ce la sentiamo”.Non pare così, all’opposto, per la sequela di Gesù.Altra pietra d’inciampo è poi la figura stessa del discepolo di Gesù o del creden-te: in questo vangelo questa figura non è quella dell’amico, ma dello straniero.Chi segue il Signore non è legato a tutti, ma si fa estraneo alla vita di parenti e amici e solo così può rendere una testimonianza efficace della verità e della esi-stenza di un altro mondo, di un altro ordine di valori.Per il discepolo la croce non è solo il simbolo delle cose patite, subite, ma anche la forma che prende la propria vita avendo preso decisioni, ardue avendo scelto con determinazione di raggiungere precisi obiettivi.I discepoli quel giorno capirono questo linguaggio, ma lo interpretarono in modo ambiguo: la loro risolutezza e decisione fu indirizzata non tanto verso se stessi , ma verso eventuali nemici esterni. È questa la terza pietra d’inciampo di questo brano: essere duri non significa esserlo con gli altri ma anzitutto con se stessi. C’è un’aggressività positiva da coltivare che è quella nei confronti della nostra inerzia e della nostra mediocrità.Se deve proprio scendere un fuoco dal cielo e consumare qualcosa (come dico-no i discepoli nel Vangelo) non è tanto sulle persone che ci circondano, ma sul nostro limite che deve indirizzarsi.Perché chi migliora se stesso saprà sempre portare beneficio agli altri.

Domenica 27 giugno

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la via raccolta 2010Domenica 12 settembre

OGNI COSA A SUO TEMPO

(Lc 15, 1-32 ; Es 32, 1-7)

Luca è l’unico evangelista a raccogliere in unità le tre parabole di oggi.Esse costituiscono un insieme denominato “parabole della misericordia” perchè è chiarissimo come sia proprio il tema della misericordia ad identificarle.Tra le righe però c’è forse anche un altro tema, oggi evocato anche dalla prima lettura: il tema dell’attesa.Il popolo d’Israele si costruisce un vitello d’oro. Perchè lo fa?Perchè Mosè tarda a ritornare; si dilata il tempo della sua permanenza sul monte Sinai al cospetto di Dio e questa incapacità di attendere porta il popolo a peccare.L’attesa diventa insopportabile e la sensazione di non essere padroni del proprio tempo rende il popolo insofferente.Così anche nella parabola del figliol prodigo: il figlio minore chiede subito la sua parte di eredità.Con un gesto che ferisce a morte il padre non riesce ad attendere i tempi oppor-tuni per avere ciò che gli spetta: in fondo non sa attendere i tempi della sua stessa maturità, della sua crescita. Questa incapacità di attendere lo fa sbagliare.All’opposto di queste due figure (il popolo e il figlio minore) sta il padre della parabola. Egli attende il ritorno del figlio senza alcun segno di impazienza, sen-za ostacolare la sua scelta. E’ proprio l’attesa il tratto distintivo del suo amore; è la sua capacità di aspettare che alla fine porta frutto. C’è quindi, nelle letture odierne, una beatificazione della capacità di attendere che deve farci riflettere. Sentiamo infatti in noi sorgere alcune obiezioni: l’attesa non rischia di farci per-dere l’occasione propizia?Non rischia di degenerare in rassegnazione o inerzia? Essa davvero è una virtù spirituale? Dalla Bibbia capiamo che il popolo fu incapace di attendere perchè voleva un Dio a sua misura, da manipolare a proprio piacimento come si fa, appunto, con una statua. Così anche il figlio minore, non attese perchè voleva imporre alle cose e alla vita la sua personalissima visione, il suo metro di misura tanto avventato quanto solitario. Attendere significa quindi non forzare la vita secondo i nostri disegni ma accoglierli da Dio; attendere è non prendere decisioni senza cercare consiglio da un saggio;attendere è non manipolare la libertà delle persone perchè rientrino nei nostri schemi;attendere è rimanere anche nell’oscurità senza perdere la fede “finchè non spunti il giorno e la stella del mattino brilli nei nostri cuori”.

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la via raccolta 2010Domenica 19 settembre

DI CHI E’ LA MIA VITA ? (Lc16, 1-13)

Mi accingo a scrivere queste righe con il cuore appesantito dai lutti che hanno colpito la nostra comunità in questa settimana.Forse non è lo stato d’animo idoneo per mettersi di fronte al Signore e alla forza del suo Vangelo perchè mi pare che sia più forte il Suo silenzio che la Sua Parola.A volte la preghiera non ottiene risposta, a volte stare di fronte a Dio è difficilissimo e la fede è un vero salto nel buio.Noi non siamo padroni della nostra vita, ne siamo solo amministratori.Questo ci dice la morte precoce di un fratello; questo ci dicono tutte le morti di cui siamo sbigottiti testimoni.Ma non è quello che ci dice anche il Vangelo di oggi?Chi è il padrone di cui parla la parabola se non Dio?Chi è l’amministratore se non noi?E cos’è la ricchezza se non la nostra stessa vita?Prima o poi Dio ci farà capire (se non l’ha già fatto) che la vita non è nostra e che non abbiamo il diritto di sperperarla.Ci illuminerà il cuore e la mente perchè possiamo fare della nostra vita un dono, un bene per gli altri, come l’amministratore della parabola. Ci farà dire non più “faccio della mia vita quello che voglio” ma “faccio della mia vita quello che vuole il Signore”.Questo pensiero ci rincuora, perchè la vita autentica non deve tanto essere lunga, quanto piuttosto buona, cioè donata.Questo pensiero rompe il silenzio di Dio sulla morte dei nostri fratelli: anch’essi hanno fatto della loro vita un dono e quindi riceveranno la lode dall’Altissimo.Tutti siamo chiamati ad offrire la vita, in un modo o nell’altro.Oggi per la nostra comunità questa scelta si fa palpabile nella vita di un nostro giovane, Marco Savoia, che entra in Seminario.Anche quest’anno il Signore ci fa questa grazia, e nel suo “sì” noi rinno-viamo la nostra stessa adesione al Vangelo.Noi tutti preghiamo per lui, per Marco (e con lui per Paolo e Fabio), perchè sentano che niente è più bello che una vita spesa in pienezza.

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la via raccolta 2010Domenica 26 settembre

AVVERTIMENTI (Lc 16, 19-31)

C’è una profonda continuità tra il Vangelo di domenica scorsa e quello di oggi, una continuità data dal tema della ricchezza nella sua pericolosità per la salvez-za di una persona. C’è però anche una discontinuità:l’amministratore disonesto aveva colto bene l’avvertimen-to datogli dal padrone e, furbescamente, si era messo a fare il bene.Oggi invece, il ricco Epulone,non si occupa nemmeno del grande avvertimento che è il povero Lazzaro e degli avvertimenti che vengono da Mosè e i profeti e così la sua vita eterna va in rovina.L’intento della parabola è proprio questo:non tanto denunciare l’insensibilità e la crudeltà dei ricchi verso i poveri, quanto denunciare la loro incredibile sordità alla voce di Dio.Di questa sordità è offerta una immagine eloquente anche dalla prima lettura, tratta dal profeta Amos: qui il ricco non è descritto come cattivo, ma come uno spensierato, un uomo di cartapesta, godereccio e ignaro che un giorno gli verrà chiesto conto del suo sperpero e che le conseguenze del suo rammollimento non tarderanno a farsi sentire.Nella parabola, il ricco Epulone tormentato cerca di porre rimedio almeno per i suoi cari rimasti in vita: che vengano avvertiti così da convertirsi.Ma la risposta è chiara: hanno Mosè e i profeti, cioè la Scrittura. Essa può ba-stare, come voce di Dio, per fare scelte importanti e giuste.Quel ricco non è lontano dal pensiero di tanti contemporanei: “perchè Dio non parla? Perchè non fa capire chiaramente cosa vuole? Perchè non si rivela apertamente con una voce tonante dal cielo?”Si finisce inavvertitamente col pensare, anche tra i credenti, che i messaggi di Dio siano troppo vaghi, troppo cifrati, troppo antiquati.In una parola, che Mosè e i profeti o addirittura il Vangelo non bastino a farci intendere cosa farne della nostra vita.Da una parte questo è il modo di agire di Dio: Egli non urla in faccia le cose, non costringe, nemmeno verbalmente.Ma parla.Ha già parlato. E una Parola è detta e scritta anche per noi: sarebbe un guaio accorgersene solo dopo aver condotto una vita effimera.Questa Parola non è troppo oscura per noi, ma nel nostro cuore e sulle nostre labbra perchè la possiamo ascoltare.

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la via raccolta 2010Domenica 3 ottobre

MISURARE LA FEDE? (Lc 17, 5-10)

I discepoli chiedono a Gesù di accrescere la loro fede e questa richiesta non pare del tutto estranea alla nostra stessa esperienza di fede.Anche a noi capita di avvertire la nostra fede come qualcosa di fragile, di troppo esiguo e incostante. O meglio, ci sembra di avere fede quando le cose vanno per il meglio o quando si resta sui massimi sistemi, ma poi quando si va al concreto, quando la vita ci presenta ostacoli da superare, quando occorre scegliere, allora ci sembra che la fede non sia mai sufficiente, che sia poca cosa, che non ci possa veramente sostenere. Ma cosa è davvero la fede? O meglio come la intesero quel giorno i discepoli quando chiesero a Gesù che la aumen-tasse in loro?Anche ai loro occhi la fede apparve incerta e forse non se ne sentirono così sicuri.Essi avevano creduto in Gesù fin dal primo incontro; avevano lasciato tutto per seguirlo.La loro scelta era stata motivata dalla fede e tuttavia nel corso del loro cam-mino al seguito del Maestro avevano dovuto constatare di aver capito proprio poco del suo insegnamento. I loro giudizi, le loro scelte e soprattutto i loro litigi mostravano sempre da capo quanto fossero lontani dal pensiero di Gesù.Lo avevano capito davvero? Dovevano continuare a seguirlo? Da questi interrogativi nacque la richiesta di accrescere la loro fede: una fede quindi, che li illuminasse nel comprendere il Maestro e che li sostenesse nella loro scelta di sequela. Ecco come si presenta anche a noi la fede: la capacità di dire sì anche quando non tutto è chiaro e al contempo la luce interiore per comprendere la logica di Dio. Una fede così sarà sempre piccola, fragile, apparentemente inconsistente: per questo Gesù la para-gona ad un granello di senape. Per Gesù la fede non ha misura, non è questione di quantità ma di qualità.Non può essere misurata come si può misurare un patrimonio. Essa deve essere sempre da capo decisa. Se la cerchi hai l’impressione di non trovarla mai, devi in qualche modo praticarla quando sei di fronte ad una decisione.Ma proprio come il seme più piccolo ha la forza di rompere il terreno e far emergere da sè la pianta così la fede possiede una energia straordinaria perchè Dio agisce in chi ha fede.Dio è in cerca di persone che si fidino, poi sarà Lui ad operare.

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la via raccolta 2010Domenica 10 ottobre

IL BENE IN CONTROLUCE

(Lc 17, 11-19 e 2 Re 5, 14-7)

“Uno su mille ce la fa” recita il ritornello di una nota canzone.Nel Vangelo la proporzione è più alta: uno su dieci. Uno su dieci torna a ringra-ziare Gesù di essere stato guarito dalla lebbra. “Gli altri nove dove sono?” chiede il Signore. Presi dall’euforia, forse dalla voglia di rientrare subito in quella società che li ave-va a lungo esclusi non avevano pensato a Colui che aveva ridonato loro la pos-sibilità di vivere, amare, pregare. Interessava loro di fruire della ritrovata salute senza altre complicazioni. E all’unico che torna a ringraziare cosa interessava allora? Evidentemente non perdere il legame con Colui che lo aveva guarito, non dimenticare per niente al mondo la grazia ricevuta.Così è pure nella prima lettura dove il generale siriano guarito dalla lebbra porta con sé un po’ di terra d’Israele per non dimenticare, anche lui, il beneficio rice-vuto. C’è nella nostra esperienza di vita una situazione simile alla quale, a volte, non poniamo molta attenzione: ogni grazia che sperimentiamo, ogni momento felice dell’esistenza ci suscita non solo una particolare gioia, ma ci ridona anche un certo gusto di vivere, una fiducia nella vita e negli altri.Ci sembra che sia come una sorgente d’acqua viva a cui poterci dissetare, ma poi ci accorgiamo che inaridisce in fretta. Avvertiamo che la gioia è passeggera e questa transitorietà dei momenti felici ci rende tristi. Succede un po’ come ai bambini che, euforici per un nuovo giocattolo, lo usano poche ore per poi dimenticarlo. Perchè ci succede questo? È solo il carattere fugace dei momenti felici o c’è un motivo più profondo? Forse è perchè non riusciamo a trovare il significato e il senso dei benefici e dei doni che Dio ci fa. Essi sono un assaggio del paradiso. Il dono rimanda al Donatore, la grazia a Colui che la elargisce; ogni momento felice lascia intravedere, in controluce, la fonte di ogni felicità che è Dio. Tutti i beni di questa vita, infatti, sono soltanto SEGNI, come amava ripetere S. Agostino: essi rimandano a qualcos’altro. Tornare indietro a ringra-ziare, come il lebbroso del Vangelo, è il modo per evitare che i benefici di Dio avviliscano in fretta. Il bene ricevuto nella vita va ricordato, perchè è come se fosse ricevuto da Dio: è il bene compiuto che va dimenticato per non essere tentati dalla superbia o dalla rivendicazione.Ci conceda il Signore di non lasciare nell’oblio gli assaggi di beatitudine che Egli ci dà.

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la via raccolta 2010Domenica 17 ottobre

PAROLE SULLA PREGHIERA (Lc 18, 1-8)

Già il titolo non mi convince del tutto, ma non sono riuscito a trovarne uno migliore. Non mi convince perchè della preghiera non occorre tanto parlarne, quanto praticarla. La preghiera è una di quelle pratiche cristiane che bisogna prima vivere e poi capire. Gesù stesso infatti non ne ha tanto parlato, ma ne ha insegnata una (il Padre Nostro) perchè noi la recitassimo. Egli stesso non faceva discorsi sulla preghiera, ma pregava, pregava molto, anche notti intere, ritirandosi da solo in disparte. Anche il Vangelo di oggi non è propriamente un discorso sulla preghiera quanto un appello di Gesù a pregare incessantemente, quindi a fare della preghiera il proprio pane quotidiano. Gesù parla con sempli-cità attraverso una parabola e ci consegna, con essa un profondo insegnamento sulla preghiera. L’altro insegnamento ci è dato dalla prima lettura; ma andiamo con ordine: anzitutto il Vangelo. La vedova che ha subito un torto deve rivolgersi ad un giudice che non teme Dio e non rispetta nessuno. Non ci sono molte pos-sibilità che le sue ragioni vengano ascoltate o che le venga fatta giustizia. Ci si aspetterebbe un fallimento. Invece è un successo: il giudice agisce a favore della vedova. L’insistenza (preghiera) della vedova ottiene l’inatteso e l’insperabile.Spesso infatti c’è sproporzione tra ciò che chiediamo nella preghiera e ciò che “realisticamente” potrebbe accadere e questo a volte ci riempie di scetticismo: val proprio la pena pregare? Cosa speriamo di ottenere? Oggi la pagina evange-lica ci testimonia la potenza della preghiera che può ottenere da Dio cose grandi. Grande era anche la vittoria degli Israeliti nella battaglia raccontata dalla prima lettura. Anche qui si parla di preghiera: Mosè prega per questa vittoria. Ma Mosè conosce la stanchezza, ed è proprio la stanchezza ad impedirgli di pregare. È solo grazie all’intervento di due amici che egli riesce a proseguire la sua preghiera e cosi favorire il popolo intero. E chi tra noi non ha sentito la stanchezza proprio quando doveva pregare?Quante volte non abbiamo pregato perchè troppo stanchi? Un po’ per la nostra malsana abitudine di confinare la preghiera alla fine della giornata quando non ne possiamo più e l’unico desiderio è andare a dormire; un po’ anche (e questo mi sembra il messaggio della lettura) perchè avremmo bisogno di amici che ci stimolino e non ne troviamo. Infatti anche per la vita spirituale sono fondamentali le amicizie: se frequentiamo solo persone che non pregano e non leggono il Vangelo dopo un po’ ci sembrerà normale essere così e diventerà sempre più difficile praticare il cristianesimo.Occorrono amici, vero dono di Dio, che possano tenere in alto le nostre mani e farcele rivolgere al Signore.

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la via raccolta 2010Domenica 24 ottobre

VERA E FALSA RELIGIONE (Lc 18, 9-14)

Ma cosa gli mancava?Al fariseo della parabola intendo. A quell’uomo ritto in piedi nel Tempio cosa mancava, religiosamente parlando? Egli ha tutte le carte in regola, vive per-fettamente tutto ciò che è basilare per l’esperienza religiosa: preghiera, carità, digiuno.Eppure sente il bisogno di misurarsi con un altro, di disprezzarlo in cuor suo, per presentarsi davanti a Dio come persona giusta e uomo per bene.In una parola sente il bisogno di “giustificarsi”, cioè di avere una ragione di vita che renda la sua esistenza un valore.Con un linguaggio più comune, quello degli psicologi, ciò che manca a quest’uomo è una sufficiente stima di sé o una sufficiente fiducia in se stesso.E anch’egli, come capita a tanti di noi, pensa di poterla trovare disprezzando gli altri; pensa di innalzarsi abbas- sando quelli che stanno intorno a lui.Tutto questo naturalmente non si vede ad occhio nudo, perché all’apparenza questo fariseo è un uomo corretto. La sua presunzione infatti è intima; proprio così dice il Vangelo “ ... intima presunzione di essere giusti”. È solo la preghiera che rivela ciò che egli ha davvero nel cuore, perché solo davanti a Dio e alla sua Parola, che penetra nell’intimo, l’uomo trova la sua verità. Anche quando è una verità tagliente, come in questo caso: tutte le pratiche religiose di quest’uomo erano un modo per affermare se stesso, per far vedere quanto valeva. La reli-gione quindi era svuotata del suo più profondo significato: essa infatti consiste, con le sue pratiche e le sue regole, nel cammino che una persona compie per dimenticare se stessa al fine di trovare il Vero Amore e vivere di esso. Il fari-seo invece aveva bisogno di sentirsi qualcuno, di essere stimato e apprezzato pensando che la sua giustificazione venisse dalle opere religiose della legge. Ci vorrà un grande fariseo convertito, S. Paolo, per dire che “dalle opere della legge non è mai stato giustificato nessuno” (Gal 3,11)E ci vorranno i santi per indicare la via preferenziale, praticata da S. Ignazio negli esercizi spirituali:

“Voglio, scelgo e desidero più essere considerato insensato e folle per Cristo che essere stimato saggio e prudente per questo mondo”

(EESS 167.3)

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la via raccolta 2010Domenica 31 ottobre

CAPOVOLGIMENTI (Lc 19, 1-10)

L’episodio evangelico di Zaccheo è così conosciuto da farci pensare di sapere già tutto quello che ci vuole dire.È invece un brano pieno di sorprese, di novità provocatorie che potremmo met-tere sotto il titolo di “capovolgimenti”.Anzitutto la folla: ha un entusiasmo dapprima favorevole a Gesù; è incuriosita dal suo arrivo, vuole vederlo, conoscerlo.Poi cambia umore; allorché Gesù va a casa di Zaccheo tutti cominciano a mor-morare, nessuno escluso.La massa cambia rapidamente opinione, è come una banderuola e questo do-vrebbe bastarci a non farci preoccupare più di tanto di “quel che dice la gente”.Poi c’è Gesù: anch’egli opera un capovolgimento.Va a casa di un uomo ritenuto un poco di buono, un traditore della sua gente.Di solito non si faceva così: ci si teneva lontano da certa gente e si entrava a casa delle persone considerate brave.Gesù sovverte le abitudini acquisite, sconvolge l’ordine precostituito. È per questo che sarà considerato pericoloso.Egli stesso vive un capovolgimento: Zaccheo è la prima persona che Egli guarda dal basso in alto. Fino a Zaccheo avveniva il contrario.Ma è proprio con lo stesso Zaccheo che avviene il capovolgimento maggiore. Egli era un uomo ricco, di una ricchezza accumulata ingiustamente, attraverso la frode.Dopo l’incontro con Gesù dà la metà dei suoi beni ai poveri, fino a diventare povero pure lui!La persona peggiore comincia a vivere radicalmente il Vangelo.Sono tanti, quindi, capovolgimenti avvenuti in questo episodio.Potrà continuare la nostra vita sulla medesima routine pur ascoltando continua-mente la Parola del Signore?Potrà andare avanti la Missione popolare Diocesana senza mutare nulla della nostra pastorale?Magari non un capovolgimento, ma almeno una svolta a novanta gradi sarebbe auspicabile.

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la via raccolta 2010Domenica 7 novembre

DIO DEI VIVENTI (Lc 20, 27-38)

Con il testo evangelico di oggi ci troviamo di fronte ad una novità.Nelle ultime domeniche infatti siamo stati accompagnati nel cuore di Gesù, nel suo amore per i peccatori, nella sua misericordia che è, in fondo, quella di Dio Padre. Oggi, senza preavviso, ci viene presentato il tema della resurrezione e della vita eterna. Gesù ne parla in polemica con i Sadducei, un gruppo sacer-dotale aristocratico, i quali non credevano alla resurrezione. Gli argomenti usati da Gesù e la sua risposta ci permettono di fare una riflessione su due temi: anzitutto la realtà della resurrezione e poi il modo di vita da risorti. Ci guidano, in pratica, due domande: “noi davvero risorgeremo?” e “come saremo quando saremo risorti?” Sono domande che chiunque di noi si è posto qualche volta e alle quali ha risposto a volte con molta fantasia, altre volte con un certo scetticismo. Le parole di Gesù nel Vangelo sono sobrie ed essenziali (in fondo anche quelle di S. Paolo nelle sue lettere) ma costituiscono un punto di non ritorno. Anzitutto: noi risorgeremo. E questo a motivo della potenza di Dio, non certo della nostra condizione umana. La morte non può interrompere il nostro rapporto con Dio altrimenti dovremmo dire che essa è più forte di Dio stesso. E che Dio sarebbe quindi? Se dunque crediamo in Dio, è logico credere alla resurrezione, così come credere all’immortalità dell’anima che è in fondo una esplicitazione della potenza di Dio. Ma come saremo da risorti? Come sarà il nostro corpo? Da questo brano evangelico è azzardato trarre risposte det-tagliate (se è possibile dare risposte dettagliate …). Saremo come angeli. Non prenderemo moglie né marito. Cosa vuol dire però? La relazione coniugale era concepita come finalizzata alla procreazione. Il generare figli era poi visto come il modo di superare la morte, di prolungare biologicamente, nel sangue, la propria presenza. Un ebreo convinto sapeva che avrebbe potuto vedere l’avven-to del Messia attraverso gli occhi dei suoi discendenti. Sta di fatto che questa relazione uomo-donna era abbastanza strumentale. Ma se nel mondo della resurrezione noi avremo già superata la morte, non ci sarà più bisogno della procreazione e non ci saranno più relazioni strumentali. In una parola non ci saranno più relazioni egoistiche e segnate dalla paura.Sarà un mondo di relazioni vere, vissute nell’unico amore di Dio.È una risposta che forse dice niente, ma in realtà dice tutto. Forse è poca cosa, ma in realtà è tantissimo. Se non altro l’immagine più convincente del paradiso.

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la via raccolta 2010Domenica 14 novembre

PIETRE DISTRUTTE PER UNA FEDE PIU’ FORTE

(Lc 21, 5-19)

In apertura, una profezia di Gesù.Una profezia sul Tempio e sulla sua futura distruzione che si verificò, puntual-mente, circa 40 anni dopo. Come i profeti che lo avevano preceduto, e anzi più di loro, Gesù intravedeva il futuro, non per magia, non con la sfera di cristallo, ma a partire da una saggia interpretazione del presente.Gesù sapeva discernere i segni dei tempi; capiva, alla luce del suo legame con Dio Padre, in che direzione sarebbero andate le cose.Aveva soprattutto la franchezza nel parlare e nel mettere a nudo le false sicurez-ze, come quelle del Tempio “e delle belle pietre che lo adornavano”.Perché coloro che allora facevano discorsi sul Tempio cercavano una rassicura-zione, cercavano una sicurezza che facesse da argine contro quell’atmosfera di ansia e paura da cui tutti si sentivano oppressi.A quei commenti Gesù risponde con parole sorprendentemente dure: “non re-sterà pietra su pietra” e aggiunge una previsione del futuro a tinte fosche, fatto di difficoltà, incomprensioni, persecuzioni.Di che si tratta? È un improvviso pessimismo di Gesù? Cosa vuol comunicarci il Signore?Egli distrugge le certezze ordinarie della nostra vita. Non per terrorizzarci, ma per convertirci.Gesù ci offre un modo per interpretare le difficoltà e le fragilità.Se Dio le permette, se Dio ci fa attraversare questo fuoco è perché la nostra fede sia più forte, più salda.E insieme alla fede, evidentemente, la nostra stessa persona.I momenti di desolazione non durano per sempre,ma ci saranno. Crearsi illusioni è da ingenui; crearne agli altri è far del male.Ma per evitare che la paura polarizzi la nostra vita il Signore stesso ci offre la sua presenza, la sua persona.Egli che per primo ha portato la croce, l’ha, in fondo, anche trasfigurata, fa-cendola passare dal momento del più profondo dolore a quello del più grande abbandono, della più grande fede.L’ha fatto perché ogni uomo si possa abbracciare a Lui quando le fragilità, le persecuzioni le difficoltà busseranno alla porta della nostra vita.

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la via raccolta 2010Domenica 21 novembre

LA LOGICA DEL REGNO (Lc 23, 35-43)

Un re senza regno è come una scatola vuota. Un re senza regno suscita ilarità, compatimento e derisione.Se quindi Gesù è Re (e oggi lo festeggiamo così) bisogna che anch’egli abbia un regno.Dov’è questo regno del Signore? O meglio, cos’è questo regno di Dio?Anticamente i regni si identificavano con gli stessi re che li governavano ed indi-cavano, non solo un preciso territorio, ma anche una determinata epoca storica.Noi stessi ci esprimiamo così: “sotto il Regno di Carlo Magno ...”, oppure “all’e-poca di Napoleone …”Lentamente abbiamo assistito ad un mutamento di scenario: il regno non si identifica più con una persona o un territorio, ma mantenendo la sua connota-zione temporale, è passato ad indicare uno stile di vita espresso però solo con gli strumenti che più lo definiscono.Oggi infatti diciamo: “siamo nel regno della tecnologia” o “siamo nel regno dell’informatica”. Lo strumento, sembra sufficiente a definire un’epoca, indipen-dentemente dall’intenzione che si può avere nell’utilizzarlo.È sufficiente tutto ciò a dire la qualità del Regno di Dio? Evidentemente no.Esso non si identifica né con una persona, né con un territorio, né con un’epoca storica, né con uno strumento. Si può incarnare in ciascuno di essi, ma li supera tutti quanti, li trascende e assegna loro un preciso significato.Il regno di Dio riguarda la coscienza dell’uomo e le sue intenzioni , riguarda il suo cuore, riguarda il suo amore. A seconda di come l’uomo vive queste cose si è nel regno di Dio o nel suo contrario. Nel testo più bello e più significativo di S. Agostino, il De Civitate Dei, è conte-nuta la famosissima frase: “DUE AMORI DANNO ORIGINE A DUE CITTÀ (REGNI): LA CITTÀ TERRENA, IL CUI AMORE DI SÉ GIUNGE FINO AL DISPREZZO DI DIO; LA CITTÀ CELESTE IL CUI AMORE DI DIO GIUNGE FINO AL DISPREZZO DI SÉ”.Questa città celeste, o regno dei celi, è concepita qui sulla Terra, quando gli uo-mini vivono mettendo al centro Dio e l’amore per i fratelli.È questo il Regno in cui entra il buon ladrone: egli infatti non è solamente un personaggio del vangelo, ma anche (insieme all’altro malfattore) il simbolo del cuore umano diviso e ambivalente.Un cuore che si decide per la sequela a Cristo e per quello stile di vita che solo può anticipare il Regno di Dio qui sulla Terra.

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la via raccolta 2010Domenica 28 novembre 1° domenica d’Avvento

COSTRUIAMOCI UN’ARCA (Mt 24, 37-44)

Siamo ancora capaci di attendere?Abbiamo ancora qualcosa da aspettare?Certo la nostra capacità si esercita su quelle attese di piccolo calibro: un appun-tamento, una persona, una risposta.Diventa mal sopportazione quando le attese si protraggono smodatamente come nel caso di un esame medico.Ma appena possiamo, questi tempi di attesa li riduciamo al minimo: non c’è più ad esempio la bellezza di attendere una lettera scritta a mano.L’attesa ci pare tempo perso. E forse anche per questo non guardiamo più al futuro; non al futuro immediato, ma al futuro della nostra società, della Chiesa, fino a quel grande futuro che sarà la vita eterna. Il tempo di Avvento è invece un grande appello all’attesa, non solo del Natale ma della venuta del Signore. È un grande richiamo al futuro come tempo che può riempire di senso il pre-sente. Se infatti cancelliamo il futuro, il presente si appiattisce, costringendoci a ”tirare a campare” e dandoci l’illusione che sia l’unico tempo possibile. Il compito dell’Avvento è smontare una tale illusione.Di questa illusione viveva la gente al tempo di Noè, così come ce la descrive il Vangelo di oggi:“Mangiavano, bevevano, prendevano moglie e prendevano marito” quasi che queste cose fossero le più ovvie. Nessuno alzava gli occhi al cielo. Nessuno cer-cava più in alto la verità di ciò che viveva. Per questo Noè entrò nell’arca: era il modo di uscire da quell’illusione ,da quello stile di vita appiattito sul presente. Per Noè costruire l’arca fu come per noi vigilare durante l’Avvento. E la forma più caratteristica della vigilanza è la preghiera. Essa è faticosa, come faticoso fu costruire l’arca. Ma la metafora è davvero assai pertinente:la preghiera infatti non è anzitutto riposo, ma lavoro. Essa permette di vedere il mondo con altri occhi, così come se si fosse nell’arca. Noi abbiamo della preghiera una percezione sentimentale e romantica: la rite-niamo un tempo di distacco tranquillo, di effusione del cuore,di pace dell’anima.Così appena essa rivela il suo vero volto di lotta, subito rinunciamo e la ab-bandoniamo. Ma la costruzione dell’arca fu per Noè qualcosa di difficile che comportò per lui anche una certa solitudine, una certa, rinuncia una certa in-comprensione degli amici.Per questo, in Avvento, decidere di pregare di più sarebbe già una scelta impor-tante.

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la via raccolta 2010Domenica 5 dicembre 2° domenica di Avvento

L’ULTIMO DEI PROFETI (Mt 3, 1-12)

Mentre muoviamo i primi passi verso il Natale del Signore, ci viene incontro la figura di un grande profeta, Giovanni Battista: l'evangelista lo presenta come un uomo vestito di peli di cammello e con una cintura di pelle intorno ai fian-chi; il suo cibo sono locuste e miele selvatico. Si ritira nel deserto di Giuda, lontano da Gerusalemme, e parla un linguaggio insolito, seppure chiarissimo. «Razza di vipere», dice a chi opprime i più deboli, predicendo su di loro l'ira imminente di Dio. Per tutti aggiunge che la scure è ormai posta alla radice degli alberi: chi non produce frutti buoni sarà tagliato e gettato nel fuoco. Insomma, le sue invettive mettono in guardia gli abitanti di Gerusalemme per la loro lontananza da Dio e dal suo amore. Giovanni aveva preso le distanze da Gerusalemme. Si era spogliato di tutto; voleva essere forte solo della parola: «Voce di uno che grida nel deserto». Sì, il suo vero nome è: «Voce di uno che grida». È solo una voce, che indica però la via della salvezza: «Preparate la via al Signo-re». Oggi questo profeta torna tra noi. Ma chi è? È il Vangelo. Questa parola è una voce che indica vie diverse da quelle della sopraffazione, dell'interesse solo per se stessi, del disprezzo, della violenza, della indifferenza.Giovanni, è il Vangelo, ripetono: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vici-no». Le nostre vie sono spesso lontane dal Vangelo.Convertirci vuol dire, perciò, chiedere anzitutto perdono per la distanza che abbiamo frapposto tra noi e il Vangelo, tra noi e il Signore Gesù.E il Signore dona il suo perdono spalancando davanti ai nostri occhi la sua visione, quella stessa che vide Isaia: un mondo ove «il lupo dimorerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà.La mucca e l’orsa pascoleranno insieme; si sdraieranno insieme i loro piccoli.Il leone si ciberà di paglia, come il bue.Il lattante si trastullerà sulla buca dell’aspide; il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi. Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno il mio santo monte, perché la saggezza del Signore riempirà il paese».È un mondo svuotato di violenza e pieno di benevolenza e di amicizia. È il regno di Dio che soppianta quello triste e violento di questo nostro mondo,

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la via raccolta 2010

ove gli uomini continuano a combattersi, ove la violenza del terrorismo semina angoscia, ove un popolo si scaglia contro il vicino, ove una parte della stessa nazione si mette contro l’altra, ove ciascuno si rinchiude nel proprio egocentri-smo e bada solo a difendere i propri interessi. Abbiamo bisogno dell’avvento di Dio e del suo regno. E Dio viene, anzi, è or-mai alle porte. Questa è la buona notizia del Natale e ha il volto di un bambino. Sì, il Bambino di Betlemme guiderà verso il regno. Il piccolo libro del Vangelo, se lo leggiamo con amore, ci illuminerà e ci gui-derà. Lo Spirito Santo che oggi viene effuso nei nostri cuori è come un fuoco: riscalderà il nostro cuore perché non siamo più schiavi dell’egoismo; guiderà i nostri passi perché non giriamo sempre e solo intorno a noi stessi; sorreggerà le nostre mani perché le stendiamo per aiutare chi ha bisogno; irrobustirà i nostri piedi perché percorriamo le vie dell’amore; illuminerà la nostra mente perché riconosciamo le cose vere e belle della vita.

Domenica 5 dicembre 2° domenica di Avvento

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la via raccolta 2010Domenica 12 dicembre3° d’Avvento

GLI OCCHI APERTI SUL BENE (Mt 11, 2-11)

Viene da chiedersi se le profezie che accompagnano la liturgia di questa dome-nica di Avvento siano solo un’utopia, un improvviso momento di ottimismo o se corrispondano alla realtà perché si sono in parte già realizzate.Sentiamo parlare di tenebre trasformate in luce, di luoghi impervi in pianure; sentiamo annunciare che i ciechi vedranno e gli storpi smetteranno di zoppicare; sentiamo, in una parola, la profezia di un mondo migliore che non riguarderà solo la vita eterna ma già il nostro oggi, il presente.Anche Giovanni il Battista fu preso da perplessità simili alle nostre, affiorò anche per lui, il precursore, il dubbio circa l’era messianica inaugurata da Gesù.“Sei tu?” questa fu l’interpellanza del Battista con la quale egli esprime tutta la sua fatica a credere.Un’ipotesi così a molti commentatori cristiani appare sconveniente perché, dico-no, un santo non può dubitare. Essi quindi interpretano la domanda di Giovanni come una strategia per confermare i discepoli e non se stesso.Noi tutta questa sconvenienza non la vediamo affatto.Ci pare invece che il Battista, solo,carcerato e abbandonato potesse avere anche lui domande che si collocassero sulla soglia tra la fede e lo scetticismo.Gesù gli aprì gli occhi invitandolo a considerare le opere da Egli stesso compiute, opere che il Battista non sapeva interpretare perché troppo condizionato dalla sua faticosa condizione. Quel carcere, quella buia cella, quella pena erano un filtro troppo negativo nella lettura della realtà.Così come capita a noi quando un problema, un disagio, una sofferenza diventa-no l’unico oblò da cui guardare il mondo.I segni del Maestro di Nazareth invece erano lì sotto gli occhi di tutti; segni di bene ma non direttamente riguardanti il Battista.Come per gli Apostoli: Gesù non compì mai per loro segni prodigiosi o mira-coli. I segni sono compiuti per coloro che sono di passaggio, per i credenti della soglia.I compagni abituali di Gesù devono credere senza bisogno di ricevere segni.Quel che il Signore fece e operò allora continua anche oggi (almeno dovrebbe) attraverso i credenti in Lui.Egli stesso ci ha detto infatti che se crederemo compiremo le sue stesse opere, se non di più grandi (Gv 14,12). Gesù non mente, non ci prende in giro. Questo bene esiste, e al di là di ogni ragionevole dubbio e di ogni pessimismo, invita ciascuno di noi ad aprire gli occhi per poterlo vedere.

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la via raccolta 2010Domenica 19 dicembre4° d’Avvento

NESSUNA GRANDEZZA (Mt 1, 18-24)

Nella vicenda di Giuseppe inizia a manifestarsi la logica di Dio, quella logica che si compirà con la nascita di Gesù: l’onnipotente si rivela in ciò che agli occhi degli uomini appare ordinario e davanti ai grandi della Terra sembra irrilevante.Chi era infatti Giuseppe? Non sappiamo nulla di lui, non se ne parla affatto prima degli avvenimenti Na-talizi.Era della tribù di Davide: ma ce n’erano migliaia.Era un giusto: ma di uomini giusti ne esistevano anche altri; sono quella catego-ria di persone fondamentalmente corrette e oneste, semplici e normali.Niente di eccezionale quindi, niente di particolarmente brillante da far pensare che Dio avrebbe scelto certamente lui.Invece, proprio in questo uomo ordinario ma sincero si compiono le profezie di Isaia.Giuseppe stesso avrà ascoltato ogni volta quelle parole dei profeti senza riconoscere che lo riguardavano personalmente. Troppo lontano da lui era il pensiero di un regno, addirittura il Regno del Mes-sia! La sua vita era fatta di cose a portata di mano senza riconoscervi un nesso con la grandiosa promessa dell’Antico Testamento.Come per lui, anche noi, esponenti di questa”normale quotidianità” siamo toc-cati dall’Avvento del Signore.E come fu coinvolto Giuseppe?Quando avvenne ciò? In sogno. Ma come poteva riuscirgli di dormire? Dal giorno in cui Maria, la sposa promessa, gli aveva confidato l’eccezionalità della nuova condizione, il dubbio e lo sconforto erano penetrati nel cuore di quest’uomo. Considerazioni amare si erano addensate come nuvole nere nella sua mente e gli avevano tolto il sonno. Chissà quanti notti in bianco! Pochi e fugaci erano i momenti in cui riusciva ad assopirsi. Ma proprio in uno di questi momenti l’angelo gli si rivela in sogno.Questa volta è Dio a cogliere l’attimo fuggente, a far suo quel breve spazio, quel momento impercettibile e quasi insignificante ormai nella vita di Giuseppe.Dio gli si rivela, lo rassicura e lo inserisce nel suo disegno di salvezza.È stato un attimo, ma è bastato.È stato un breve momento, ma capace di dare senso ad una scelta, ad una vita intera.Senza assillare continuamente, senza in-sistere, senza ossessionare, Dio si rivela al cuore dell’uomo e della donna che credono: quanto più tenue e discreta, voce di silenzio sottile, tanto più autentica e consolante sarà per noi la Parola del Signore.

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Grazie a nome di tutta la comunità adon Umberto per il tempo che dedica alla stesura dei

commenti che ci accompagnano prima nella celebrazione domenicale e poi per tutta la settimana.

grafica C & C

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Santuario “ Beata Vergine del Carmelo”

Roveleto di Cadeo Pcwww.parrocchiaroveleto.it

I DUE DISCEPOLI DI EMMAUS Luca 24, 13-35