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1 Sergio Virginio -Verso Barcellona -La costa Brava -L’Andalusia -Madrid e Toledo -Maiorca -Il tour del Portogallo Riferimenti bibliografici storici: Wikipedia, l'enciclopedia libera.

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Sergio Virginio

-Verso Barcellona -La costa Brava -L’Andalusia -Madrid e Toledo -Maiorca

-Il tour del Portogallo

Riferimenti bibliografici storici: Wikipedia, l'enciclopedia libera.

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Viaggi iberici

La regione iberica si trova all’estremità occidentale dell’Europa. La penisola, bagnata dal mar Mediterraneo e dall’oceano Atlantico, è delimitata dai Pirenei che rappresentano un confine naturale molto deciso. Le coste si presentano piatte, rettilinee, basse e depresse più volte in albuferaras, lagune costiere, là dove la meseta è fasciata da pianure litoranee. In alcune zone di costa alta e frastagliata, calle di sabbia color oro si mimetizzano tra i colori caldi della roccia e della vegetazione spontanea. Nei territori settentrionali gli inverni sono miti e le estati fresche. La regione costiera atlantica ha inverni ancor più miti ed estati calde, ma procedendo verso sud e sul versante mediterraneo, d’estate aumenta la temperatura e diminuisce la piovosità.

Dopo i secoli di sottomissione alle presenze romana e araba, i due paesi che si dividono la penisola, vantano il passato storico dei potenti regni marinari, dai tempi in cui Cristoforo Colombo era partito con le tre caravelle alla scoperta delle Americhe e Vasco De Gama che raggiunse le Indie dopo mesi di navigazione. Ma le civiltà dell’Iberia, antico nome della penisola, affondano le proprie radici storiche in epoche ancor più remote: dai celti sino alla preistoria.

La Spagna occupa la parte più grande della penisola, affacciandosi all’Atlante e al Mediterraneo. Le spiagge più frequentate sono dislocate dai confini della costa Brava sino alla Costa del Sol, che si esaurisce sullo stretto. Nel sud la costa è tutto un susseguirsi di paesini di ex pescatori. Alla fine degli anni Settanta, una volta scoperti dal turismo di massa, questi stessi paesi si sono sviluppati esponenzialmente e sono entrati a far parte di uno dei centri balneari più importanti del paese. L’Andalusia dell’arido sud è la regione più affascinante. Antiche torri di avvistamento, villaggi abbarbicati sulle alture per sfuggire alle incursioni dei pirati, le huertas delle colture subtropicali che contrastano con le secche montagne. Località dimenticate dallo scorrere del tempo, in una magica atmosfera di flamenco.

Il Portogallo, bagnato dal solo Atlantico, sorprende per la molteplicità dei suoi aspetti e per la ricchezza e la varietà dei suoi paesaggi, rari in un paese di così piccole dimensioni. Catene di monti che penetrano le nebbie mattutine e pianure dorate dai campi di grano popolate di olivi, Dune atlantiche che spuntano solitarie nei vasti arenili e colorite spiagge meridionali avvolte dalla luce. Nella capitale, gli echi della presenza araba si rivelano nei muri rivesti di azulejos, piastrelle perfettamente in armonia con il barocco lavorato a oro, mentre sembra di sentire ovunque gli accordi di una chitarra che suona il nostalgico fado.

Il primo viaggio in auto, nel lontano ’72, attraverso i Pirenei per scendere a Barcellona, la più importante metropoli di mare della Catalogna. Poi il tranquillo soggiorno sul litorale di Blanes, ridente località turistica della costa Brava. Dopo dodici anni, il ritorno in treno su quella costa, soggiornando a Lloret de Mar con le visite di Barcellona, Montserrat e Blanes. Poi nel ’91 il volo per Madrid, l’affascinante capitale del Prado, l’escursione nella mitica Toledo e la visita dell’Escorial che fu residenza della famiglia reale di Spagna. Nei primi anni Novanta, col volo per Malaga, i due tour dell’Andalusia con le tappe di Granada, Cordova, Siviglia, l’inglese Gibilterra, Ronda e Torremolinos. Nel ’96 si atterra all’isola di Maiorca per un soggiorno settimanale in un villaggio estivo nei pressi di Cala Mandia, una piccola spiaggia di sabbia soffice, finissima e bianca che si trovava all’interno di un’insenatura limitata da una serie di scogliere basse e ricche di una lussureggiante vegetazione. Nel 2003, dulcis in fundo con il tour del Portogallo: Faro, Evora, Coimbra, Oporto e Lisbona la capitale lusitana. Affascinante scorcio della penisola iberica, terra ricca di storia, cultura, tradizioni, folclore e di incantevoli compositi paesaggi.

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Verso Barcellona

Se si pensa al viaggio di nozze come a un momento di pausa successivo allo stress post nuziale, è interessante scoprire che già nelle sacre scritture si affermava che a un novello sposo non si doveva assegnare alcun compito gravoso, poiché il suo dovere principale era quello di rendere felice la moglie. Nel settembre 1972, freschi di matrimonio, io e mia moglie avevamo fatto le valigie e riempito il bagagliaio della mia Simca. Il nostro programma prevedeva di andare in auto fino in Spagna e, al ritorno, di fermarci alcuni giorni dagli zii di mia moglie a Lucerna, in Svizzera. Avevamo a disposizione un budget di 213.000 lire. Era una splendida giornata settembrina e, dopo aver mangiato una pizza al Moretti, siamo partiti di buona lena. Abbiamo percorso l’autostrada fino allo svincolo di Verona e proseguito in direzione di Parma per poi prendere la statale che attraversava l’Appennino ligure. Con l’imbrunire, ci siamo fermati a pernottare sui quei monti, in un piccolo albergo a Borgo di Taro. Il giorno successivo, dopo una sosta a Rapallo, siamo arrivati a Portofino. Abbiamo fatto qualche foto sulla piazzetta del grazioso porticciolo, lastricata di pietra bianca. Un posto romantico, ideale per due freschi sposini. Non potevamo esimerci dal concludere quella visita con un delizioso pranzetto a base di pesce.

Dopo aver percorso tutta la riviera ligure e passata la frontiera francese, ci siamo diretti a Montecarlo. La città del principato di Monaco era nota per il suo casinò, le spiagge, i grattacieli, la moda e per essere stata eletta come luogo di residenza di diversi personaggi famosi. Dal terrazzo della pensione, che avevamo trovato per caso, abbiamo assistito al tramonto del sole che arrossava tutta la fascia costiera. La città si affacciava al mare distendendosi lungo la costa e salendo leggermente verso l’interno. Col calare dell’oscurità, aumentavano a vista d’occhio i puntini elettrici provenienti dai natanti, da palazzi e grattacieli, da insegne colorate al neon e dalle strade illuminate della elegante metropoli. Col calar della sera, le luci diventavano sempre più fitte e incandescenti. La vista panoramica di Montecarlo, avvolta dal buio, era diventata un suggestivo spettacolo pirotecnico.

Il terzo giorno, percorrendo la costa Azzurra, abbiamo dato uno sguardo alle famose spiagge di Cannes e St. Tropez. Dopo una sosta a Marsiglia, dove abbiamo assaporato la nouvelle cuisine francese, siamo entrati sull’autostrada per Montpellier. Abbiamo trascorso la notte in un grazioso bungalow nei pressi di Perpignan, dopo aver mangiato a sazietà in un affollato ristorante al prezzo di due cognac.

Il giorno dopo, la mia Simca 1000 bianca stava arrancando sui tornanti della catena montagnosa dei Pirenei. C’erano lunghe montagne marrone e pini isolati. Su alcuni pendii lontani si notavano foreste verdi. In cima c’era la frontiera, delimitata da un ponte e dal torrente che scendeva. Da una parte i militi francesi con képi e baffoni. Dall’altra i carabinieri spagnoli con berretti lucidi e carabine a tracolla. Passato il confine, abbiamo fatto sbollire l’acqua del motore, all’ombra di un locale a Pulcerdà dove ci siamo dissetati con una fresca cerveza. Scendendo attraverso una foresta di querce, dove alcune mucche bianche stavano brucando l’erba, abbiamo fatto una sosta a Ripoli per il pranzo. Da lì abbiamo preso la strada per Barcellona, la città più importante della Catalogna. Lasciate le montagne alle spalle, abbiamo preso velocità sulla strada diritta, fiancheggiata da faggi e da campi verdi e giallognoli.

Nel tardo pomeriggio, nel centro della metropoli, il traffico era infernale. Abbiamo fatto il giro di una grande piazza con in mezzo una fontana dalla forma circolare, con altissimi getti d’acqua. Poi avevamo percorso la circonvallazione che ci aveva spinti verso il mare, al puerto industrial.

La mia compagna di viaggio non aveva molta dimestichezza con la carta stradale, e mi dovevo arrangiare da solo. Non era facile orientarsi in una grande metropoli, senza una meta o un punto di riferimento. Ormai il sole volgeva al tramonto. Dovevamo cercare un albergo per trascorrere la notte. Decidemmo di andare verso la periferia, prendendo la strada sul mare, verso nord-est.

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Qualche chilometro dopo, a Badalona il traffico era scorrevole e trovammo subito una camera all’“Hotel Miramar”. A cena ci siamo abbuffati con un’abbondante paella, la nota specialità spagnola a base di riso condito con carne e pesce.

Ritirati in camera, dalla finestra entrava un rumore infernale. Mi sono affacciato di fuori, constatando che il trambusto era causato dal transito di un lungo e velocissimo convoglio. La linea ferroviaria internazionale passava proprio di lì, a due passi dall’albergo, in riva al mare. La stanchezza del viaggio e un soffice letto ci fecero scordare il rumore del treno. Quel treno che non mi abbandonava mai!

La costa Brava

Al risveglio mattutino, dall’alto della finestra spalancata, ci era apparso il mare. Il Mediterraneo era immenso e il suo colore di un azzurro chiaro si confondeva col cielo terso. Le sue acque erano solcate da natanti e da piccoli puntini bianchi che sembravano barche a vela. L’aria fresca mi allargava i polmoni. La vista di quel mare e l’odor della salsedine che saliva fin lì, mi gonfiavano il cuore. Verso nord c’era la costa Brava, che d’estate veniva presa d’assalto da molti turisti stranieri per le sue spiagge rinomate, ma soprattutto per la vita notturna a buon prezzo. Così, anziché avventurarci nel caos di Barcellona, abbiamo proseguito il viaggio lungo la costa. Passando per Blanes, una ridente località turistica, ci siamo inoltrati con l’auto sul lungomare. La spiaggia aveva la sabbia color oro. A metà percorso di quel litorale, tre faraglioni dello stesso colore della sabbia, di poco distanti dall’arena, spuntavano fuori dall’acqua. Era un posto incantevole!

Decidemmo di parcheggiare l’auto. Sul viale, el paseo maritimo, i due sensi di marcia erano separati da una zona verde piena di agavi. In mezzo, una fila di palme maestose che sventolavano le cime. Vista la stagione, la spiaggia non era affollata. La brezza era gradevole e il profumo della salsedine che arrivava dal mare, si mescolava a quello del pesce fritto che usciva dai camini dei ristoranti. Vista l’ora di pranzo, con l’acquolina in bocca, entrammo in uno di quei locali che erano allineati lungo il paseo. Il pesce fu di nostro gradimento e, siccome il ristorante faceva parte dell’“Hotel Aster” con camere disponibili, decidemmo di fermarci lì per una settimana.

Durante il soggiorno, ci siamo trattati come si conviene per una luna di miele. Il cambio era favorevole e il costo di ottocento pesetas al giorno di pensione completa, era compatibile col budget che avevamo a disposizione. La camera era al primo piano con terrazzo vista mare. Le giornate piene di sole erano favorevoli alla balneazione, passeggiate sulla battigia e compere ai mercatini. Ai pasti, i camerieri stappavano bottiglie dei migliori vini locali dal profumo di resina: blanco col pesce, e rojo con la carne. L’ultimo giorno, di domenica, siamo andati alla plaza de toros di Lloret de Mar per assistere, per

la prima volta, alla grandiosa corrida de novillos: uno spettacolo tradizionale ma molto violento, dove si vedeva la sabbia gialla dell’arena macchiarsi di rosso.

Il lunedì siamo ripartiti verso Perpignan, attraversando la frontiera sulla strada turistica, a pochi chilometri dal mare. Avevamo proseguito il percorso in autostrada verso Montpellier, e poi fino ad Avignone. Da lì abbiamo seguito l’indicazione per Lione dove, all’imbrunire, ci siamo fermati a pernottare in un vecchio albergo della periferia.

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L’indomani abbiamo ripreso la corsa verso la Svizzera. Subito dopo il confine c’era Ginevra. Da lì ci siamo immessi sull’autostrada per Losanna, poi Berna e, finalmente, Lucerna. Siamo arrivati a Emmenbrücke verso sera.

Mi era rimasto un bel ricordo della costa Brava e nell’estate del 1984, dopo dodici anni, avevo deciso di fare ritorno in terra spagnola anche con mio figlio. Il viaggio di andata fu un po’ lungo e tormentato. Eravamo partiti da Udine a mezzogiorno del 20 di giugno. Poi a Genova ci eravamo sistemati nelle cuccette per viaggiare durante la notte. Con le prime luci dell’alba, il treno era fermo alla stazione di confine a Le Perthus, per via dello scartamento ridotto della ferrovia spagnola. Ero sceso dal treno, assieme ad altri curiosi, per seguire le operazioni del cambio di carrello. Il sole aveva vinto le nuvole leggere, l’azzurro del cielo era pallido e casto, una fresca brezza che arrivava dal mare, mi rinfrescava la faccia. Ad operazione ultimata, risalii in carrozza per ripartire. Siamo scesi dal treno nella stazione di Gerona. Lì, sul piazzale della stazione, c’era il bus per Lloret de Mar, una delle località turistiche di maggior spicco di quel litorale. Verso l’ora di pranzo, siamo arrivati all’hotel che era a due passi dal mare. Il viaggio aveva durato un giorno e una notte.

Fu un soggiorno piacevole, all’insegna del relax sulla spiaggia o ai bordi della piscina. Un giorno abbiamo aderito all’escursione in bus per Barcellona, dove abbiamo visitato la Sagrada Familia, la stupefacente cattedrale in stile gotico catalano, dalle guglie marrone e sottili, che sembravano bucare il cielo. Poi ci siamo soffermati a contemplare la famosa fontana di zampilli che si muovevano a suon di musica. Da quelle parti, verso il mare, c’era la statua di Cristoforo Colombo che svettava su di un’altissima colonna. Nel

pomeriggio, giunti alla plaza de toros monumetal, abbiamo assistito allo spettacolo della corrida coi tre toreri di maggior spicco.

Indimenticabile fu la suggestiva escursione in battello per raggiungere Blanes, dove avevamo soggiornato durante la luna di miele. Il mare era di un turchino abbagliante e la costa, con le sue piccole calle di sabbia gialla e la vegetazione selvaggia, era uno spettacolo gratificante. Dopo lo sbarco a destinazione, siamo andati a visitare le tre zone dell’esteso giardino botanico Mar i Murtra, collegate tra loro da passaggi sotterranei. Fu interessante anche la gita che avevamo fatto fino al monastero benedettino della madonna di Montserrat, situato ad un' altitudine di 720 metri, sull’omonima montagna dalle rocciose cime tondeggianti. Dopo una decina di giorni, abbiamo ripreso la via ferrata del ritorno.

In occasione di quel viaggio in terra catalana, avevamo socializzato con un gruppetto di partecipanti che provenivano da altre località italiane. In particolare, avevamo fatto amicizia con una famiglia sarda di Oristano: marito, moglie e due ragazzine dell’età di mio figlio. Lui era ferroviere e sua moglie lavorava alle Poste.

L’Andalusia

La partenza del bus da Udine era stata fissata per mezzogiorno di domenica 25 marzo 1990 dal piazzale della nuova sede della Goccia di Carnia di viale Palmanova. Per il secondo anno consecutivo la cooperativa ferrovieri aveva superato il budget di fornitura d’acqua minerale dello stabilimento carnico che dava diritto a un viaggio premio. Sul pullman eravamo una cinquantina di persone. Si trattava perlopiù di operatori privati del settore della distribuzione commerciale. Alcuni erano accompagnati da mogli o da familiari. In mia compagnia c’era Pierino, un mio valido collaboratore, vicepresidente della cooperativa.

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Dall’aeroporto di Bologna siamo partiti con un volo charter affittato da Alpitour, la nota tour operator italiana che organizzava viaggi e vacanze. Durante la fase d’atterraggio, guardando fuori dall’oblò, lo spettacolo era molto suggestivo. Dall’alto, lo specchio del mare era illuminato dalla una luna splendente. Sulla costa s’intravedeva un luccichio di piccolissime luci che si avvicinavano sempre di più.

Allo sbarco, dopo il ritiro dei bagagli, abbiamo fatto la conoscenza della nostra guida. Si chiamava Ignacio, un professore di storia in pensione. Sul piazzale dell’aeroporto di Malaga, ad attenderci c’era anche Manuel, l’autista del nostro bus riservato. Ci trasferì al “Don Pablo”, un vasto albergo sulla spiaggia della vicina Torremolinos, uno dei complessi turistici più conosciuti della costa del Sol. La costa era un susseguirsi di paesini di ex pescatori, la maggior parte dei quali si trovava a ovest di Malaga. Alla fine degli anni Settanta, una volta scoperti dal turismo di massa, questi stessi paesi si sono sviluppati esponenzialmente e, nel complesso, sono entrati a far parte di uno dei centri balneari più importanti del Sud della Spagna.

A Granada, la prima tappa del tour nell’entroterra andaluso, siamo arrivati dopo un paio d’ore di pullman. La giornata era splendida e la temperatura mite. Il “Princesa”, il nostro albergo, era in pieno centro. Disteso sul letto della mia camera, potevo ammirare l’alta vetta della Sierra Nevada, ancora incappucciata di neve. Sulla strada sottostante, avevo visto transitare alcune auto con gli sci di sopra. Anche le costruzioni che s’intravedevano di fronte erano bianche come la neve. Dopo il pranzo, il professore ci aveva guidato alla visita dell’Alhambra e nei giardini del Generalife, la meravigliosa residenza dei sovrani musulmani. Patrimonio mondiale dell’umanità, si trovava su un’altura, simbolo della città e della sua ricca storia. Granada aveva una straordinaria posizione

geografica, con la catena montagnosa alle spalle e il mare della costa Tropical che la divideva dall’Africa. Metà cristiana e metà moresca, era davvero unica per la sua bellezza, per le fantasie che suscitava la sua storia, per l’imponenza e la raffinatezza della civiltà araba.

Il martedì mattina ci siamo avventurati nelle vie del centro. I luoghi di maggior interesse turistico erano frequentati da zingare vestite di nero che vendevano fiori per pochi pesos, oppure si offrivano di leggere la mano. Ma Ignacio ci aveva

raccomandato di stare alla larga. Di giorno scendevano in cerca di espedienti assieme ai bambini. Vivevano nelle grotte delle montagne circostanti. Gli uomini, specializzati in truffe e furtarelli, agivano nelle ore serali e notturne.

Abbiamo fatto qualche acquisto: le nacchere, alcuni souvenir e dei piatti tipici in ceramica; uno di questi rappresentava il frutto melograno, simbolo della città. Poi ci siamo fermati a pranzo in un tipico locale. Il soffitto della stanza era foderato di jamon iberico, decine di prosciutti che pendevano dall’alto. La regione era nota per la maestria nella lavorazione delle carni e per i suoi insaccati di eccellente qualità come salami, sanguinacci e le tipiche salsicce bianche. Ma si distingueva anche per la produzione di ottimi formaggi, prodotti con latte di pecora e di capra, dal sapore intenso e di consistenza cremosa.

Il pomeriggio abbiamo percorso i centocinquanta chilometri che ci separavano da Cordova in mezzo alle vastissime piantagioni di ulivi che coprivano il territorio collinare. Gli alberelli, tutti allineati a una distanza ravvicinata, si univano tra loro attraverso le radici che assorbivano l’acqua depositata nelle zone basse della collina. La storica città sorgeva in un ansa del fiume Guadalquivir, nel cuore della campagna andalusa. Siamo arrivati verso il tramonto. Il sole, dopo essersi posizionato a ponente, stava infuocando lentamente il cielo. Ci siamo sistemati nelle camere assegnate all’“Hotel Gran Capitan” e siamo scesi nel ristorante per la cena.

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L’indomani mattina c’era la visita del centro storico. Il fascino di Cordova era dovuto alla bellezza dei suoi monumenti e alla grandezza moresca di cui era esempio l’imponente e maestosa Mezquita, con una foresta di archi e colonne, simbolo della gloria di Al-Andalus. Poi c’erano i patios e i vicoli medioevali, dichiarati dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Nell’Ottavo secolo, dopo la conquista moresca, Cordova era diventata una città estremamente prestigiosa, ricca di innumerevoli palazzi, eleganti edifici pubblici e numerose moschee, tanto da rivaleggiare con Costantinopoli come capitale dell’arte, della cultura e delle scienze. Nel corso dei secoli, il dominio cristiano l’aveva trasformata e arricchita con nuove strutture come l’Alcazar de los Reyes Cristianos e la Torre Fortaleza de la Calahorra. Prima della partenza, ci siamo fermati a visitare l’imponente cattedrale cristiana che, al suo interno, aveva racchiuso la moschea dei mussulmani. Durante il tragitto, la campagna circostante si presentava rigogliosa e ordinata, ricca di numerose coltivazioni. Nonostante il clima estivo caldissimo e i problemi di siccità, le cooperative agricole utilizzavano dei moderni sistemi di irrigazione.

Siamo arrivati a Siviglia all’ora di pranzo. L’elegante hotel “Sol Macarena” era situato nei pressi di una grande piazza alberata. Sul lungo tavolo del buffet c’era ogni ben di dio. Ma, tra le varie pietanze, la più interessante era la paella valenciana, il piatto tipico di quella città. A base di riso con zafferano, pezzi di pollo, di pesce e frutti di mare era diventato il piatto tradizionale della

cucina spagnola. Nel pomeriggio libero mi sono recato in centro col

mio compagno di viaggio. In quella circostanza avevo comprato un orologio sopramobile, incorporato in una ceramica pitturata a mano. Uno dei più bei ricordi spagnoli che arredano la mia casa. Siviglia era il capoluogo e la più grande città dell’Andalusia. La città era l’anima di quella terra e l’incarnazione del famoso modo di vivere andaluso. Era conosciuta per la vivacità delle sue feste, la grandiosità delle sue processioni, i balconi pieni di fiori, i patios e i capolavori dell’arte mudejar. Gli abitanti dell’elegante città dorata

vivevano intensamente le tradizionali passioni spagnole: le tapas, il vino, la birra, le corride, il flamenco, la movida e le feste.

Fu l’unica località del nostro tour dove ci fermammo per due notti. Dalle informazioni della guida, sembrava che a Siviglia l’atmosfera fosse ogni sera magica. Qui la gente, allegra e rilassata, amava divertirsi e trascorrere la notte nei numerosi locali: tapas, bar, ristoranti, pub e discoteche. Così, Pierino ed io, grazie al nostro precario spagnolo, ci trovammo a trascorrere la serata in un localino un po’ equivoco, pieno di ragazze scollate e provocanti che, appena davamo loro un po’ di confidenza, ci proponevano di appartarci. A suon di pesos naturalmente! Così, dopo qualche ballo e un paio di brandy Cardenal Mendoza, abbiamo preferito rientrare al nostro hotel.

Nella mattinata di giovedì era prevista la visita guidata dei principali monumenti della città: la cattedrale, il Barrio de Santa Cruz e l’Alcazar. Poi la sera ci hanno accompagnato a El Arsenal per assistere allo spettacolo di flamenco, la tipica danza cantata d’origine gitana a suon di tacchi, nacchere e chitarra.

Quello del sesto giorno, fu il percorso più lungo del tour: duecentoquaranta chilometri. Nella mattinata ci eravamo fermati tra gli interminabili filari di viti delle campagne di Jerez de La Frontera, con la sosta per una degustazione di vini liquorosi in una delle famose cantine di brandy e di sherry. Poi abbiamo ripreso la marcia, transitando nei pressi di Cadice, sulla costa dell’Oceano Atlantico. La città di Algeciras era situata in una piccola baia dello stretto di Gibilterra, sull’estrema punta meridionale della penisola iberica. Eravamo arrivati all’“Hotel Octavio” per l’ora di pranzo. Di fuori soffiava un forte vento. Per una buona parte del percorso, avevo notato che sulle reti di

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recinzione la forza del vento teneva perennemente appiccicati cartoni, carte e sacchetti di plastica. Una sorta di “pattumiera atlantica”. La guida ci disse che qui il vento poteva aumentare o diminuire, ma che non cessava mai.

Nel pomeriggio, dopo aver portato i bagagli nelle camere assegnate, il nostro pullman è partito per l’escursione di Gibilterra, situata a pochi chilometri. Oltrepassati i posti di confine, siamo scesi dal nostro mezzo per montare sul bus che faceva la spola fino sopra alla rocca. Per gli antichi greci e romani questa rocca calcarea, alta 426 metri, con scogliere a strapiombo sul mare, era una delle due colonne d’Ercole che, insieme a quella di Jebel Musa, in Marocco, segnava il confine del mondo antico. Da qui gli inglesi avevano il controllo delle navi che uscivano ed entravano nel Mediterraneo.

Dopo aver comprato le sterline, ci siamo fermati a fare shopping in un grazioso centro commerciale. Il possedimento inglese era diventato un’incredibile città cosmopolita dove si incontravano le culture e le storie inglesi, spagnole, genovesi e nordafricane. Ad Algeciras, durante la notte, il sibilo del vento mi aveva svegliato di frequente.

Sabato siamo partiti subito dopo la prima colazione. Eravamo diretti in montagna, ma prima abbiamo visto l’azzurro del mar Mediterraneo per diversi chilometri, fino a San Pedro de Alcantara.

Da lì il nostro bus aveva preso la strada che portava sulla Serrania de Ronda.

Quando eravamo in dirittura d’arrivo, non volevo credere ai miei occhi! Una città che sembrava sospesa nel vuoto. Il torrente che scorreva in fondo al canyon aveva scavato la roccia, formando un impressionante dirupo: il Tajo. Ronda, dalle origini celtiche, era una delle città più antiche della Spagna. Era divisa in due dal burrone che era profondo più di cento metri. Da un lato c’era la Ciudad, la città vecchia, dove prevaleva l’impronta moresca con strade strette e

tortuose. Dall’altro lato il Mercadillo, quartiere nuovo. Le due parti erano unite dal Puente Nuevo costruito verso la fine del Diciottesimo secolo. In questo spettacolare angolo dell’Andalusia, nascosto in mezzo ai dirupi e ben protetto dalla cinta muraria, avevano trovato asilo non solo banditi andalusi, ma anche i repubblicani ricercati nel periodo della dittatura franchista.

Passeggiando per le vie del quartiere nuovo, siamo arrivati alla più antica plaza de toros con l’arena in stile neoclassico. Qui si erano esibiti i toreri più celebri. Tra gli spettatori più famosi, lo scrittore Ernest Hemingway, che aveva dedicato molte pagine dei suoi romanzi alle corride. La visita si era conclusa con il pranzo a El Escudero un tipico ristorante locale. E poi di nuovo sui tornanti della strada in discesa, in mezzo al verde di una rigogliosa vegetazione. Dopo circa tre quarti d’ora, siamo arrivati a Marbella, una delle più movimentate località della costa del Sol. C’era ancora mezz’ora di strada per arrivare a Torremolinos dove finiva l’ultima tappa del tour dell’Andalusia. Sulla spiaggia, mentre il sole si avvicinava lentamente verso il tramonto, alcuni bagnanti si godevano ancora il tiepido sole primaverile. L’indomani il nostro bus arrivò al capolinea: Malaga. Da lì, poi siamo ripartiti in volo per Bologna.

Un viaggio affascinante! L’Andalusia era un territorio fantastico che si configurava in aree formate dall'interazione di diversi fattori ambientali. Bellezze storiche e naturali, tradizioni, cultura, gente vivace e accogliente. Così, quando qualche anno dopo ebbi l’occasione di fare il capogruppo del “tour dell’Andalusia”, ci ritornai volentieri.

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Madrid e Toledo

Nella mia collezione di viaggi spagnoli, mancavano la capitale e la storica Toledo, principale attrazione turistica dell’entroterra spagnolo. Così, avevo accettato l’invito di partecipare alla gita annuale riservata a dirigenti e consiglieri d’amministrazione di Coop Consumatori, la cooperativa a cui ero legato da un accordo di collaborazione. Il ritrovo dei partecipanti era fissato la mattina presto di giovedì 3 ottobre 1991 all’aeroporto di Ronchi dei Legionari, che avevo raggiunto assieme a mia moglie. Dopo un breve volo fino a Milano, ci siamo imbarcati per Madrid, la capitale spagnola. Il gruppo era abbastanza numeroso, i consiglieri erano quasi tutti accompagnati dalle proprie mogli, le poche consigliere donne erano single. Il nostro albergo era ubicato in una zona tranquilla, non molto distante dal centro storico. Madrid era la più grande città della Spagna. Attraversata dal fiume Manzanarre, contava circa tre milioni di abitanti.

La mattinata del venerdì l’avevamo dedicata alla visita guidata del Prado, una delle pinacoteche più grandi al mondo, e dello splendido palazzo reale. Nel pomeriggio siamo stati accompagnati in un noto centro commerciale della periferia. In città non si erano visti negozi di nessun genere. Solo palazzi, monumenti, abitazioni, uffici, sedi di banche e agenzie varie. Ma Madrid, dal pomeriggio del venerdì, era come se cambiasse volto e, al ritmo della movida, per due giorni e mezzo si colorava di vita. Anche noi la sera, dopo una cena leggera a base di minestrina, jamon e

verdure, ci siamo buttati nella bolgia di una discoteca ad assaporare un po’ di quel clima. Il sabato siamo andati in bus a Toledo, a una settantina di chilometri, per la visita della “città

museo”. Splendeva il sole e il clima era gradevole. Alla vista della roccaforte medioevale, arrampicata sulla collina, il colpo d’occhio era davvero suggestivo con il centro storico che si ergeva dominante e panoramico. Sotto, il Tago scorreva quieto e lento. Il giro della visita guidata aveva messo in mostra il melting pot dei tre secoli di dominio mussulmano dove diverse culture e religioni convivevano assieme. Dopo il pranzo in un tipico locale, abbiamo preso la via del ritorno con una fermata per la visita dell’Escorial che fu residenza dei re di Spagna e monastero.

La domenica sera, malgrado le dispettose turbolenze in volo e un forte temporale durante l’atterraggio a Milano Linate, siamo rientrati a casa sani e salvi.

Maiorca

Verso la fine di maggio del ’96 avevo deciso di fare alcuni giorni di vacanza. Era il periodo che lavoravo nel turismo e avevo organizzato una settimana di soggiorno a Maiorca, la più grande isola dell’arcipelago delle Baleari. Quando ci siamo alzati in volo da Bologna, sotto di noi, c’era un mare di nubi bianche. Sulla costa ligure c’era il sereno: l’azzurro turchese del mare si staccava nettamente dal chiarore del cielo. Il primo scalo avvenne sull’isola di Minorca, poi il velivolo spiccò nuovamente il volo per un breve tragitto fino all’aeroporto di Palma di Maiorca. Quegli atterraggi furono fantastici: le isole, dai contorni frastagliati, erano piccolissime e, man mano che si scendeva di quota, le loro dimensioni crescevano sempre di più a vista d’occhio.

Dal bus che ci portò al villaggio turistico, vidi per la prima volta gli alberi del mandorlo. Erano in fila ai lati della strada. La pianta, dalle foglioline verdi lunghe e strette, veniva coltivata essenzialmente per il suo seme: la mandorla. Eravamo diretti nella località di Porto Cristo, circa a metà della costa orientale.

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Il nostro residence era dislocato sopra un piccolo promontorio. I bungalow, delle graziose villette bianche con le tegole rosse, s’intravedevano appena. Erano immerse nel verde in una tranquillità assoluta e guardavano verso il mare trasparente. Cala Mandia era una piccola spiaggia di sabbia soffice, finissima e bianca che si trovava lì vicino, all’interno di un’insenatura limitata da una serie

di scogliere basse e ricche di una lussureggiante vegetazione. Un posto stupendo, baciato dal sole, ideale per una balneazione tranquilla nelle acque cristalline che odoravano di salsedine. Durante le mie passeggiate mattutine, m’inoltravo per qualche chilometro sulle stradine di terra rossastra in mezzo alla profumata vegetazione marittima.

Mi ero assentato da quella cala solo per una giornata, dopo aver aderito all’escursione fino a Formentor, una stretta penisola situata a nordest. Il

suo punto estremo era a strapiombo sul mare; s’incontrava con una baia, formando una spiaggia lunghissima costeggiata da una pineta. Un luogo affascinante immerso nella natura incontaminata e frequentato da personaggi famosi. Una vetrina per i numerosi turisti dell’isola. Cala Mandia era rimasta tra i miei ricordi più belli: una delle spiagge più affascinanti e tranquille fra quelle che avevo avuto modo di conoscere.

Il tour del Portogallo

Dall’alto del volo, in fase d’atterraggio, le onde dell’Atlantico spumeggiavano sulle rive del "Sotavento", un sistema lagunare formato da lunghe e strette isole sabbiose, parallele alla linea della terraferma, con canali, isolotti, paludi e una vegetazione a macchia. L’aeroporto internazionale di Faro, una località dell’estremo sud del Portogallo, era situato subito dopo quella laguna da incanto. La piccola città, di origine medioevale, era diventata la base dei turisti che arrivavano e ripartivano in volo. Il 25 di agosto del 2003 ero partito con mia moglie per fare l’accompagnatore di una cinquantina di persone che, tramite il dopolavoro ferroviario di Udine, avevano aderito al giro del Portogallo di Alpitour. Il viaggio organizzato era molto comodo a differenza del “fai da te”, con la consapevolezza che veniva a mancare quel rapporto vivo con la popolazione locale. Il mio impegno di capogruppo era limitato ai soli viaggi di andata e di ritorno. All’aeroporto c’erano ad attenderci la guida del tour Isabel con Eduardo, l’autista del pullman.

Dal terrazzo dell’“Hotel Eva”, dove ci avevano alloggiato per il primo pernottamento, si vedeva uno scorcio di mare aperto. Sotto di noi un simpatico porticciolo ci teneva compagnia, pieno di barche dalle piccole dimensioni, che stazionavano tutte allineate. La sera, io e mia moglie siamo usciti a fare quattro passi fino alla città vecchia, circondata da una cerchia muraria araba medioevale, coperta in buona parte da edifici. L’unico monumento di interesse storico era la cattedrale che aveva, in epoche diverse, ospitato le varie religioni che si erano susseguite. Nei pressi del nostro albergo, c’era una festa popolare gremita di gente con un’orchestrina che suonava. Abbiamo preferito proseguire verso la nostra camera: l’indomani, il nostro tour iniziava di buon mattino.

Avevamo lasciato l’Algarve con la sua terra inaridita dalla calura estiva avara di precipitazioni. Isabel, prima di iniziare le sue spiegazioni sulla storia e geografia di questo paese, ci aveva raccomandato la massima attenzione. L’ultimo giorno del tour ci avrebbe messo alla prova con la compilazione di un questionario sulle sue lezioni: mi sembrava di esser ritornato a scuola. Dopo un paio d’ore di corsa, con morbidezza, senza un distacco repentino, siamo entrati nel silenzio d’una campagna dagli echi lontani. Luoghi selvaggi e solitari, originaria bellezza dell’Alentejo,

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scivolavano velocemente dal finestrino. Una terra rassicurante, armoniosa nella sua nudità, baciata dal sole e trascurata dalla pioggia. Una pianura che donava al mondo il vino tinto e i turaccioli delle bottiglie.

Sullo sfondo, le mura scure di Monsaraz e il bianco dell’antica chiesa. Siamo saliti a piedi accompagnati dal dolce scalpitio dei cavalli che ci precedevano. Sulla rue Direita rivestita in scisto, si affacciavano balconi in ferro battuto tra due ali di bianchissime case basse rifinite a calce, dai cui

terrazzi esplodeva il fucsia delle ortensie. Finestre e porte bordate di giallo e blu, celavano la vita interiore di focolari antichi. Profumo di churrasco. C’era tranquillità tra il saliscendi e simpatia sul volto sorridente dei vecchietti seduti sulle panchine. C’era quiete nei gesti d’una donna mentre filava la lana. Ogni angolo era un fresco azulejo. Il portone della chiesa lo aveva aperto un’anziana col scialle di pizzo nero. La chiave, legata ad una corda in vita, scivolava sulla lunga veste nera. L’interno fu sorprendente: tre navate uguali divise da grandi colonne di pietra bianca. Come tutti i borghi

medioevali anche Monsaraz aveva il suo castello e la torre di guardia. Sentinella di confine, testimone di scaramucce ispano-lusitane. La vista da lì si perdeva nella bassa pianura dorata. Illusioni di giochi e ombre dei tetti marroni sul candore delle facciate. E su tutto, una luce forte e accecante.

Eravamo diretti a Evora, luminosa e fiorente capitale dell’Alentejo, tra le più belle e autentiche province del Portogallo. Era una giornata dal cielo terso, un azzurro forte che si alleggeriva verso l’orizzonte. La luce era già abbagliante sulle strade deserte della campagna resa arida dalla lunga estate. Dal vetro aveva ripreso a sfilare l’alchimia dei colori, seducenti regali di quella natura. L'ocra del sughero, l’oro delle stoppie, il verde delle querce. A perdita d’occhio, apparivano macchie di uliveti centenari. Sul ciglio della strada, in groppa all’asino, un’anziana donna vestita di nero e con un cappellaccio di paglia trascinava un carretto. Contadini con forconi in spalla si recavano nei campi di terra rossastra.

Evora era una pittoresca cittadina lusitana sorta all’apice di una collina. Ma a Evora c’era molto di più che in una città qualsiasi: c’era l’arte, la cultura e la magia! Prendendo a prestito le parole del premio Nobel per la letteratura, lo scrittore portoghese José Saramago scriveva: “Evora è una predisposizione dell’animo”. La sua storia affondava le radici alle primissime civiltà che s’insediarono nella penisola iberica. Durante l’epoca romana, aveva attraversato un periodo di particolare prosperità. Il tempio di Diana, con le sue aggraziate colonne corinzie, ne era buon testimone. I quattro secoli e mezzo di presenza moresca, avevano lasciato il segno nell’architettura della città: dalle viuzze con gli archi, nei patii piastrellati e nelle terrazze piene di piante e fiori. Poi seguirono i secoli del periodo cristiano, caratterizzato dall’igreja de São Francisco e dalla capela dos ossos. Per riprenderci dalla vista di tutte quelle ossa in mostra dei monaci defunti e di decine di teschi accatastati, avevamo fatto una passeggiata di gran sollievo nei vicini giardini col meraviglioso palazzo luso-moresco dalle tipiche finestre appaiate in archi a forma di ferro di cavallo. Un pranzetto prelibato in un tipico locale, prima del tempo libero, per poi finalmente raggiungere il “Dom Fernando” per il pernottamento.

Anche il terzo giorno siamo partiti subito dopo la colazione. Mentre Isabel spiegava al microfono il programma della giornata, Eduardo aveva preso la strada del nord. Ci aveva confidato di conoscere il percorso a menadito: aveva fatto questo tour perlomeno un centinaio di volte. La prima sosta programmata era a Tomar, una deliziosa cittadina che assomigliava per molti versi a un angolo di Toscana, immersa in dolci colline coperte di ulivi e vigneti, caratterizzata da splendidi

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edifici antichi dai colori caldi della terra: dall’ocra al bruno, dal rosa all’arancio. Il paesaggio che scivolava velocemente sul vetro, con quel suo verde, era diventato più grazioso e gentile di prima. Abbiamo fatto quattro passi per le viuzze strette, dove si trovavano negozi di cappelli e vecchie librerie. La bellissima piazza, dalla pavimentazione geometrica, abbagliava sotto il sole della tarda mattinata. Ma l’attrazione più famosa della zona era il magnifico convento che si trovava sulla collina alle spalle della città. Dichiarato patrimonio Unesco, era dotato di sette magnifici chiostri riccamente decorati e da un’architettura barocca molto superba. Verso mezzogiorno siamo arrivati a Fatima. La città, sopra quel brullo altopiano, si era formata a seguito dell’apparizione della madonna ai tre pastorelli. La grande spianata dove sorgeva il bianco santuario, era limitata da un largo porticato semicircolare, sopraelevato da gradini. Al centro c’era la grande basilica neoclassica, preceduta da un’alta torre con la statua della vergine in una nicchia, sulla punta una croce di vetro stagliava contro l’azzurro del cielo. Vista l’ora, io e mia moglie abbiamo preferito appartarci in un ristorantino dei dintorni specializzato in ben cento ricette di bacalhau, piatto forte della cucina portoghese.

Coimbra l’avevo fotografata dal basso, tutta appollaiata sull’altura che si specchiava nelle acque del fiume Mondego. Si presentava come una tranquilla città immersa nel verde della campagna. Nella parte bassa c’era il centro storico con la famosa università. Ad alcuni chilometri di distanza si trovavano le rovine della Conimbriga, di epoca romana, distrutta poi dai barbari. Anche qui il percorso storico della città aveva visto un periodo di dominio arabo, prima di diventare capitale del regno di Portogallo.

Il centro si presentava vivace e affollato. Sulla nostra strada il traffico era sostenuto. Le automobili di media cilindrata, in coda, luccicavano coi raggi del sole. Sulle interminabili vie pedonali lastricate, l’aspetto architettonico era sobrio ed elegante. I negozi si susseguivano uno dopo l’altro sotto grandi insegne verticali e colorate. Il centro storico era caratterizzato da un groviglio di vicoli fiancheggiati da antichi edifici, piccole piazze e terrazze. Durante il tempo libero, io e mia moglie ci siamo seduti all’aperto sotto gli ombrelloni bianchi dell’antico Cafe Restaurante a gustare un buon caffè brasiliano con la vista della facciata in pietra scura della vecchia cattedrale, Sé Velha, con l’ingresso protetto da un portico ad arco di pietra bianca, fastosamente scolpita in stile barocco fino alla finestra centrale.

Poi, col gruppo, abbiamo visitato la storica università, conosciuta come uno dei principali centri di insegnamento europei: un agglomerato monumentale col collegio degli studenti.

La sua torre, che emergeva fra i tetti di tegole rosse valorizzando le sue linee di un barocco erudito, era diventata l’emblema della città. E poi le decorate sale interne, il museo d’arte sacra e la cappella, fino ad arrivare alla stupenda biblioteca Joanina, raffinata opera di artisti portoghesi, con oltre trecentomila volumi che potevano venir consultati dai ricercatori. Si diceva che qui gli studenti conservavano ostinatamente le tradizioni, passeggiando ancora avvolti nelle lunghe cappe nere. La giornata si era conclusa al “Melia Confort Coimbra” con la cena in ristorante e il meritato riposo notturno.

L’indomani mattina abbiamo proseguito verso il Nord, quella parte del paese che, grazie alle copiose piogge autunnali, era caratterizzata da una natura rigogliosa: colline di vigneti, boschi di castagni e vallate verdi. Oporto, coi suoi palazzi dai tetti rossi che salivano sulla ripida collina, si rifletteva sulla superficie delle tranquille e trasparenti acque del Douro. Dai stretti vicoli scoscesi della città alta, siamo scesi nella parte bassa dove ci si poteva addentrare nel reticolo di viuzze di un quartiere più colorato e pittoresco che si chiamava Ribeira, per ammirare scorci caratteristici e

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scoprire tante enoteche. Qui eravamo attesi per la visita di una tipica cantina piena di gigantesche botti, colme di vino porto più o meno stagionato, ma sempre dal gusto amabile e liquoroso. Poi la città si estendeva fino alla costa atlantica, con le sue spiagge orlate di pinete fresche e profumate. Il fiume navigabile aveva avuto una grande importanza sullo sviluppo di questa città fin dall’epoca romana, che continuò a prosperare nonostante le successive devastazioni dell’occupazione saracena e della riconquista cristiana.

Dopo il pranzo, prima di ripartire in pullman per l’escursione facoltativa nella regione del Minho, abbiamo preso possesso della camera al “Vila Galè Porto”. Il paesaggio scorreva velocemente col suo verde intenso di campi e di vigne. Dal tenero grigio di un cielo liscio e leggero cominciava a cadere una pioggerella scherzosa. Da Isabel avevamo saputo che la bellezza di questo territorio si sposava con l’allegria contagiosa di feste e sagre, e con l’ineguagliabile ospitalità delle sue genti. Braga ci aveva accolti tutta in fiore con lunghissime file di ordinate aiuole variopinte e il suo tetro castello merlato. Il centro storico si sviluppava nei pressi della gotica cattedrale con piccole palazzine dalle facciate leggermente colorate e dagli infissi bianchi con terrazzi in ferro battuto. Sulla cima di una collina, poco a nord della città, dopo aver percorso un’interminabile gradinata, era d’obbligo una visita al santuario barocco de Bom Jesus do Monte. Il luogo sacro era situato in una zona paesaggistica particolarmente suggestiva, circondato da un bellissimo parco.

Il quinto giorno, il nostro autista Eduardo aveva intrapreso la via del ritorno verso il Sud. L’azzurro del cielo si confondeva con quello del mare leggermente increspato dalle onde. Abbandonata la costa, ci siamo diretti verso Batalha dove c’era un maestoso monastero di pietra in stile gotico che, col passar del tempo, aveva preso una calda tonalità ambrata; sulla cima, archi dentellati e numerosi pinnacoli a guglia che bucavano il cielo.

Ma la sosta più gradevole del tour, fu quella nella località balneare di Nazarè, antico villaggio di pescatori dell’Estremadura. Sul litorale erano allineate delle graziose palazzine di tinta chiara a tre piani. Sulla sabbia dorata, le numerose tende a forma di cabina tutte in fila e dello stesso colore, mi avevano fatto ricordare i miei tempi di bambino. C’erano diversi bagnanti distesi al sole e qualche sporadico nuotatore che sfidava le onde dell’Atlantico. Poco ci mancava che mi facessi un bagno anch’io, passeggiando sulla battigia; a piedi scalzi, mi ero avvolto i jeans fino alle ginocchia, quando improvvisamente giunse un’onda, bagnandomi i pantaloni fino quasi all’inguine. Al “O Cassalinho” abbiamo gustato il pesce locale: assaggio d’aragosta, tagliolini al granchio, spigola e scampi ai ferri con verdure e dolce. Nel cuore della cittadina, tre o quattro donne di una certa età, erano sedute sull’uscio di casa; indossavano ampie gonne nere con le sottovesti colorate che spuntavano da sotto e con il capo coperto da uno scialle, sempre rigorosamente nero.

Prima dell’imbrunire, siamo arrivati nella capitale lusitana. Lisbona si estendeva su una serie di colli nella riva destra del fiume Tago sino alla strozzatura tra il mare interno e la foce. Un lunghissimo ponte, di recente costruzione, collegava le due sponde. Per due notti eravamo ospiti del “Villa Rica”, un’elegante struttura alberghiera a due passi dal centro. La sera Eduardo ci aveva accompagnato in un locale tipico del posto dove ci aspettavano per la cena con spettacolo di danze folcloristiche accompagnate dai suoni dolci e profondi del fado, un genere di musica popolare dal tono nostalgico tipicamente portoghese.

Il giorno successivo fu dedicato alla visita della città. La sua particolare conformazione urbanistica aveva creato un movimento interno, fatto di scalinate, discese vertiginose, ripidi vicoli e punti panoramici che lasciavano senza fiato. La Baxia, uno dei pochi quartieri in piano, era il cuore del centro storico, in cui si concentravano le attività diurne e ai suoi lati si dipanavano i quartieri più

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pittoreschi. A est i vecchi rioni popolari del Castelo, Alfama e Graça conservavano ancora intatto tutto il carattere moresco della città. A ovest Chiado, Carmo, Barrio Alto e Mangragoa, pieni di ristoranti e discoteche, affascinavano per la bellezza dei loro monumenti. Salendo verso nord, lungo la costa, c’era Belém, l’antico borgo di pescatori, ricco di monumenti storici e artistici di assoluta bellezza, tra cui la torre bianchissima sul mare avvolta nella bruma. Dichiarato patrimonio Unesco il monastero dos Jeronimos era uno dei più grandi capolavori di arte manuelina, un’esasperazione dello stile gotico, miracolosamente sopravvissuto alle scosse di un terremoto. Grandioso, maestoso, lucente nel suo biancore e incredibilmente ricco di decorazioni. Questa opera colossale, dedicata al santo protettore dei marinai, nacque per celebrare i viaggi di Vasco de Gama nelle Indie e la potenza marinara del Portogallo in epoca coloniale.

Il 31 di agosto, di buon mattino, avevamo lasciato la capitale per raggiungere una località di montagna, situata verso nord-est a soli trenta chilometri di distanza. Sintra sembrava appartenere a un altro mondo, con il suo clima fresco e il suo stile di vita vagamente bucolico. I boschi collinari e le valli lussureggianti che circondavano la località erano abitati fin dai tempi preistorici. I saraceni furono i primi a costruire il castello che si scorgeva in alto sopra la serra. In tempi successivi Sintra divenne la residenza estiva dei re e dell’aristocrazia portoghese e il suo Palàcio Nacional, di epoca medioevale, fu la più alta espressione della ricchezza e del potere di quei tempi.

Scendendo dalla serra, Eduardo si era particolarmente impegnato alla guida del mezzo per farci raggiungere Cascais in una manciata di minuti. La costa de Estoril si presentava piena di luminosità col cielo sereno e con tutto il suo fascino marinaro ancora intatto. All’epoca delle grandi scoperte, fu la prima città che i naviganti avvistarono al ritorno dalle loro spedizioni e commerci e, nei secoli, aveva sempre avuto un posto di rilievo nella vita della capitale: località di soggiorno, stazione balneare e residenza estiva per la famiglia reale.

Il pranzo, in un tipico locale vista mare, era rigorosamente a base di pesce: una saporita zuppa. Durante il viaggio fino a Faro, Isabel aveva ritirato dai partecipanti il questionario che aveva distribuito la mattina. Il primo premio, un piatto decorativo lavorato a mano, era toccato a una signora che aveva totalizzato il maggior numero di risposte esatte: dieci su dieci. A un anziano signore, che ne aveva azzeccato una sola, era toccato il premio di consolazione: un’automobile in miniatura. Con il ritorno all’“Hotel Eva” per l’ultimo pernottamento, si chiudeva il nostro tour di questo affascinate spaccato della penisola iberica, ricca di storia, cultura, tradizioni, folclore e di incantevoli compositi paesaggi.