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IO SONO UN’ARMA David Tell

× Addestramento marines, Parris Island, 1989 ×

FRATELLI GUERRIERIAaron Cohen

× Antiterrorismo israeliano, 1994 ×

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AZIONE IMMEDIATA Andy McNab

× Missioni SAS, 1975-1991 ×

PATTUGLIA BRAVO TWO ZEROAndy McNab

× Guerra del Golfo, gennaio 1991 ×

BANDA DI FRATELLIStephen E. Ambrose

× Normandia, giugno 1944 ×

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David TellIo sono un’arma − memorie di un marineTitolo originaleThe Point at the Tip of the SpearTraduzione di Alessio Lazzati

© 2015 Edizione speciale per Il GiornalePubblicato su licenza di Longanesi & C. S.r.l.

© 2014 Longanesi & C. MilanoGruppo editoriale Mauri SpagnolProprietà letteraria riservatawww.longanesi.it

© by David Tell

Supplemento al numero odierno de Il GiornaleDirettore Responsabile: Alessandro SallustiReg. Trib. Milano n. 215 del 29.05.1982Tutti i diritti riservati

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IO SONO UN’ARMAMEMORIE DI UN MARINE

D A V I D T E L L

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Osservo quelli che mi stanno intorno a bordo dell’elicottero. Abbiamoquasi tutti il medesimo aspetto. Tute da volo nere identiche, giubbettiantiproiettile neri, gilet tattici neri, maschere antigas con le lenti anne-rite, guanti da volo neri, pistole mitragliatrici H&K MP5 a tracolla,pistole 9mm in fondine a estrazione rapida e stivali da combattimentoneri. Pur con ogni singolo centimetro di pelle coperto, vestiti nello stessomodo e senza poter vedere un solo volto, uno o due anni fa sarei statoperfettamente in grado di sapere chi era chi: solo dal modo in cui teneval’arma, stava seduto, incurvava le spalle o da mille altri impercettibilidettagli. Oggi quei giorni sembrano cosı lontani. Gli altri membri dellasquadra d’assalto indossano mimetiche standard e sono equipaggiaticon le armi e le dotazioni tipiche della fanteria. Anche se fossi in gradodi vedere i loro volti, non conoscerei comunque i nomi. Il sergente delmio plotone e a bordo dell’elicottero e non so nemmeno il suo, di nome.A volte dimentico di quale plotone faccio parte, chi e chi, o addiritturadove siamo. Suppongo che in fin dei conti non abbia importanza. Nes-suno di loro si augura che mi capiti qualcosa di brutto, ma al tempostesso a nessuno importa davvero se le mie cervella finiscono sparse a ter-ra. Non e nulla di personale: e cosı e basta.

Per uno strano gioco del destino la persona che conosco meglio non enemmeno un marine, ma e un « calamaro », uno dellaMarina, un por-taferiti con cui sono stato in missione insieme e con cui ho scambiatonon piu di cento parole in tutto. Il suo viso e quello che mi e piu fami-liare. Magari sa come mi chiamo, magari no. Non saprei. E armato dipistola e ha gettato via il simbolo della Croce Rossa che lo identifica co-me non combattente. Nel posto in cui stiamo andando se ne fregano diquel simbolo o di cio che rappresenta. Credo che da un punto di vistameramente professionale al portaferiti importi se le mie cervella finisco-no per terra. Cio lo rende il mio miglior amico a bordo dell’elicottero.Non so come si chiama.

Mi trovo in questa squadra e in questo plotone da un paio di setti-mane soltanto. Sono ancora degli estranei per me, e io per loro. Si co-noscono tutti bene e sono amici. Per cominciare a sentirci a nostro agio

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gli uni con gli altri ci vorrebbero mesi. Ancora di piu per cominciare apensare in termini di amicizia. Non li abbiamo tutti questi mesi, nemai li avremo. Il mio inserimento in questo plotone e talmente prov-visorio che mi e stato detto di non prendermi nemmeno la briga di spo-stare i miei effetti personali in una camera nell’area del nuovo plotone.Alloggio con un plotone di cui facevo parte tre mesi fa e non sono nem-meno sicuro se nel frattempo ne ho gia cambiati altri due oppure tre.Sappiamo tutti che probabilmente dopo questa missione verro trasferi-to a un altro plotone. Sempre ammesso che sopravviva. Abbiamo circaventi minuti prima che, come si suol dire, la merda finisca nel venti-latore e la gente cominci a crepare.

Il sergente artigliere e il sergente maggiore di Compagnia si sonopresentati dal sergente e dal comandante di Plotone e nel corso diuna « sincera discussione » gli hanno comunicato che senza un po’ diesperienza aggiuntiva la loro squadra era troppo acerba per questamissione. Quindi hanno « caldamente consigliato » di fare richiestaa livello di plotone perche io venissi trasferito presso di loro. Lo so per-che il giorno prima della discussione il sergente artigliere e il sergentemaggiore della compagnia mi avevano portato in un piccolo bar fuoridalla base. Laggiu mi avevano offerto un boccale di birra e chiesto sefossi disponibile a trasferirmi presso questo plotone per una missione.Non avevano fornito altri dettagli, ne io li avevo chiesti. Con queidue avevo avuto molti altri incontri simili. Nonostante la differenzadi grado in privato mi e concesso di chiamarli « Rick » e «Dan ». Unasimile richiesta era gia di per se una cortesia. Che l’avessero formulataprima di parlarne col comando del plotone ne raddoppiava il valore.Avrebbero potuto semplicemente trasferirmi. Per due anni avevo rispo-sto « sı » a richieste del genere e sapevano che avrei acconsentito. Sape-vano anche che il secondo boccale di birra l’avrei offerto io.

Sono consapevole che il plotone prova sentimenti contrastanti neimiei confronti. Al plotone non piace andare in missione con qualcunocon cui non si e addestrato per un lungo periodo di tempo. Il plotonenon puo ammettere apertamente di non essere abbastanza rodato e diaver bisogno dell’aiuto di un esperto. I membri del plotone lo conside-rano un insulto al loro orgoglio professionale. Non gli e stata detta laverita e pensano che la richiesta sia partita dai loro stessi ufficiali: seconoscessero il resto della storia mi odierebbero ancora di piu. Al tempostesso pero sono anche contenti che io ci sia. So quello che dicono allemie spalle. Sono considerato « fortunato », perche nonostante l’elevatonumero di missioni sono ancora vivo. Durante le simulazioni ascolta-

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vano le mie proposte e seguivano i miei consigli: nel giro e consideratosegno di rispetto. Quelli seduti ai miei fianchi stanno scrupolosamenteattenti a non toccarmi, nel modo piu assoluto. Non mi hanno dettoquello che provano. Ma dopo due anni e innumerevoli missioni condiversi plotoni, l’ho capito da un pezzo quello che provano. Lo so me-glio di loro. Ci sono abituato. Ogni cosa dopo un po’ puo essere accet-tata come normale. Quello che provano non mi importa davvero, tranon molto verro trasferito di nuovo. Poi non li vedro piu se non comevisi vagamente familiari in giro per la caserma.

Sono considerato un killer.

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gli uni con gli altri ci vorrebbero mesi. Ancora di piu per cominciare apensare in termini di amicizia. Non li abbiamo tutti questi mesi, nemai li avremo. Il mio inserimento in questo plotone e talmente prov-visorio che mi e stato detto di non prendermi nemmeno la briga di spo-stare i miei effetti personali in una camera nell’area del nuovo plotone.Alloggio con un plotone di cui facevo parte tre mesi fa e non sono nem-meno sicuro se nel frattempo ne ho gia cambiati altri due oppure tre.Sappiamo tutti che probabilmente dopo questa missione verro trasferi-to a un altro plotone. Sempre ammesso che sopravviva. Abbiamo circaventi minuti prima che, come si suol dire, la merda finisca nel venti-latore e la gente cominci a crepare.

Il sergente artigliere e il sergente maggiore di Compagnia si sonopresentati dal sergente e dal comandante di Plotone e nel corso diuna « sincera discussione » gli hanno comunicato che senza un po’ diesperienza aggiuntiva la loro squadra era troppo acerba per questamissione. Quindi hanno « caldamente consigliato » di fare richiestaa livello di plotone perche io venissi trasferito presso di loro. Lo so per-che il giorno prima della discussione il sergente artigliere e il sergentemaggiore della compagnia mi avevano portato in un piccolo bar fuoridalla base. Laggiu mi avevano offerto un boccale di birra e chiesto sefossi disponibile a trasferirmi presso questo plotone per una missione.Non avevano fornito altri dettagli, ne io li avevo chiesti. Con queidue avevo avuto molti altri incontri simili. Nonostante la differenzadi grado in privato mi e concesso di chiamarli « Rick » e «Dan ». Unasimile richiesta era gia di per se una cortesia. Che l’avessero formulataprima di parlarne col comando del plotone ne raddoppiava il valore.Avrebbero potuto semplicemente trasferirmi. Per due anni avevo rispo-sto « sı » a richieste del genere e sapevano che avrei acconsentito. Sape-vano anche che il secondo boccale di birra l’avrei offerto io.

Sono consapevole che il plotone prova sentimenti contrastanti neimiei confronti. Al plotone non piace andare in missione con qualcunocon cui non si e addestrato per un lungo periodo di tempo. Il plotonenon puo ammettere apertamente di non essere abbastanza rodato e diaver bisogno dell’aiuto di un esperto. I membri del plotone lo conside-rano un insulto al loro orgoglio professionale. Non gli e stata detta laverita e pensano che la richiesta sia partita dai loro stessi ufficiali: seconoscessero il resto della storia mi odierebbero ancora di piu. Al tempostesso pero sono anche contenti che io ci sia. So quello che dicono allemie spalle. Sono considerato « fortunato », perche nonostante l’elevatonumero di missioni sono ancora vivo. Durante le simulazioni ascolta-

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vano le mie proposte e seguivano i miei consigli: nel giro e consideratosegno di rispetto. Quelli seduti ai miei fianchi stanno scrupolosamenteattenti a non toccarmi, nel modo piu assoluto. Non mi hanno dettoquello che provano. Ma dopo due anni e innumerevoli missioni condiversi plotoni, l’ho capito da un pezzo quello che provano. Lo so me-glio di loro. Ci sono abituato. Ogni cosa dopo un po’ puo essere accet-tata come normale. Quello che provano non mi importa davvero, tranon molto verro trasferito di nuovo. Poi non li vedro piu se non comevisi vagamente familiari in giro per la caserma.

Sono considerato un killer.

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Tutti i marines conoscono questa barzelletta.Il corpo dei Marines degli Stati Uniti viene fondato il 10 no-

vembre del 1775. Il governo manda dei reclutatori alla Tun Taverndi Filadelfia, dove offrono da bere e distribuiscono denaro ai ma-rinai ubriachi perche si uniscano al nuovo corpo. Il primo marinereclutato viene indirizzato a una nave per presentarsi a rapporto.Una volta giunto lı pero non sanno che farsene di lui. I marinaigli dicono di andare a poppa e aspettare. Dopo un po’ si presentaun altro marine a cui viene ordinato di raggiungere il primo a pop-pa. I due restano in silenzio per un po’, incerti sul da farsi. Alla fineil secondo chiede: « Perche ce ne stiamo qui cosı? » Il primo gli rifilaun’occhiata raggelante e risponde: « Voi nuovi marines sapete soloprotestare e lamentarvi. Nel vecchio Corpo era molto piu dura! »

Quando ero nei Marines non passava settimana senza che sen-tissi un paragone tra il vecchio e il nuovo Corpo. Immancabilmen-te il paragone era fatto da uno che era in servizio da piu tempo aqualcuno piu nuovo per metterlo in riga se si lamentava di qualco-sa. I Marines adorano lagnarsi.

La storiella contiene un briciolo di verita, ne sono certo. Ovvia-mente le radio dei nostri giorni sono parecchio piu piccole, leggeree potenti di quelle impiegate anni fa. Sono certo che nel vecchioCorpo ci si lamentava delle proprie radio e di quanto pesavanoproprio come facevano i marines in servizio con me. E immaginoche quando le radio ancora non esistevano, quello che portava lebandierine dell’alfabeto semaforico si lagnasse anche di quelle.

Ma in questa storiella c’e anche un livello di verita piu profondoche ogni marine coglie al volo, mentre puo darsi sfugga a coloroche non hanno mai prestato servizio. La verita piu profonda eche in ogni conversazione tra due marines c’e una certa dose distronzate, in mancanza di un termine migliore.

In altre parole, quando un gruppo di marines si riunisce, la con-versazione seguira sempre uno schema prevedibile. Tutti scopriran-no quali sono gli incarichi degli altri e dove hanno prestato servizio.

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Poi controlleranno di avere eventuali conoscenze in comune, per-che i Marines sono proprio come una grande famiglia. Scoprirannochi e stato in combattimento, dove e per quanto tempo e se ha ineffetti fatto qualcosa o era semplicemente presente nel teatro diguerra. Quelli che hanno partecipato ai combattimenti sminuiran-no cio che hanno fatto, gli altri esalteranno le proprie gesta.

E infine si passera a parlare del campo di addestramento. Per al-cuni di certo sara stato piu facile che per altri, per alcuni una via dimezzo, per altri ancora si sara trattato di un’esperienza davvero ter-rificante. Nessuno comunque ammettera mai di aver sperimentatola versione facile. Potranno dire di aver superato l’addestramentosenza troppa difficolta, ma non diranno mai che quello del loroplotone e stato anche solo un minimo piu semplice di quello deltizio accanto, quello con la storia davvero terrificante.

Entrambi forse stanno sparando stronzate. E piuttosto probabi-le, a dire il vero.

In questo libro puo esserci una certa percentuale di stronzate. For-se il cento per cento.Magari nulla.Dov’e, cos’e e persino se c’e, toccasolo a voi stabilirlo. In ogni caso, non cambiera la storia.

Un’antica maledizione cinese recita: « Che tu possa vivere in tempiinteressanti ». I miei tempi sono stati interessanti.

Questo non e un libro sull’addestramento. Non e neanche soloun libro sui Marines. E la mia storia. La storia del mio percorso perdiventare un membro d’elite dell’unica unita di forze speciali delcorpo dei Marines. Di come era davvero essere un tiratore inuna squadra antiterrorismo. L’addestramento, essere il nuovo arri-vato, le persone, l’ascesa fino a una posizione di comando, le mis-sioni e le mie sensazioni.

Non e possibile affrontare una cosa del genere senza che ti cambinel profondo.

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Tutti i marines conoscono questa barzelletta.Il corpo dei Marines degli Stati Uniti viene fondato il 10 no-

vembre del 1775. Il governo manda dei reclutatori alla Tun Taverndi Filadelfia, dove offrono da bere e distribuiscono denaro ai ma-rinai ubriachi perche si uniscano al nuovo corpo. Il primo marinereclutato viene indirizzato a una nave per presentarsi a rapporto.Una volta giunto lı pero non sanno che farsene di lui. I marinaigli dicono di andare a poppa e aspettare. Dopo un po’ si presentaun altro marine a cui viene ordinato di raggiungere il primo a pop-pa. I due restano in silenzio per un po’, incerti sul da farsi. Alla fineil secondo chiede: « Perche ce ne stiamo qui cosı? » Il primo gli rifilaun’occhiata raggelante e risponde: « Voi nuovi marines sapete soloprotestare e lamentarvi. Nel vecchio Corpo era molto piu dura! »

Quando ero nei Marines non passava settimana senza che sen-tissi un paragone tra il vecchio e il nuovo Corpo. Immancabilmen-te il paragone era fatto da uno che era in servizio da piu tempo aqualcuno piu nuovo per metterlo in riga se si lamentava di qualco-sa. I Marines adorano lagnarsi.

La storiella contiene un briciolo di verita, ne sono certo. Ovvia-mente le radio dei nostri giorni sono parecchio piu piccole, leggeree potenti di quelle impiegate anni fa. Sono certo che nel vecchioCorpo ci si lamentava delle proprie radio e di quanto pesavanoproprio come facevano i marines in servizio con me. E immaginoche quando le radio ancora non esistevano, quello che portava lebandierine dell’alfabeto semaforico si lagnasse anche di quelle.

Ma in questa storiella c’e anche un livello di verita piu profondoche ogni marine coglie al volo, mentre puo darsi sfugga a coloroche non hanno mai prestato servizio. La verita piu profonda eche in ogni conversazione tra due marines c’e una certa dose distronzate, in mancanza di un termine migliore.

In altre parole, quando un gruppo di marines si riunisce, la con-versazione seguira sempre uno schema prevedibile. Tutti scopriran-no quali sono gli incarichi degli altri e dove hanno prestato servizio.

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Poi controlleranno di avere eventuali conoscenze in comune, per-che i Marines sono proprio come una grande famiglia. Scoprirannochi e stato in combattimento, dove e per quanto tempo e se ha ineffetti fatto qualcosa o era semplicemente presente nel teatro diguerra. Quelli che hanno partecipato ai combattimenti sminuiran-no cio che hanno fatto, gli altri esalteranno le proprie gesta.

E infine si passera a parlare del campo di addestramento. Per al-cuni di certo sara stato piu facile che per altri, per alcuni una via dimezzo, per altri ancora si sara trattato di un’esperienza davvero ter-rificante. Nessuno comunque ammettera mai di aver sperimentatola versione facile. Potranno dire di aver superato l’addestramentosenza troppa difficolta, ma non diranno mai che quello del loroplotone e stato anche solo un minimo piu semplice di quello deltizio accanto, quello con la storia davvero terrificante.

Entrambi forse stanno sparando stronzate. E piuttosto probabi-le, a dire il vero.

In questo libro puo esserci una certa percentuale di stronzate. For-se il cento per cento.Magari nulla.Dov’e, cos’e e persino se c’e, toccasolo a voi stabilirlo. In ogni caso, non cambiera la storia.

Un’antica maledizione cinese recita: « Che tu possa vivere in tempiinteressanti ». I miei tempi sono stati interessanti.

Questo non e un libro sull’addestramento. Non e neanche soloun libro sui Marines. E la mia storia. La storia del mio percorso perdiventare un membro d’elite dell’unica unita di forze speciali delcorpo dei Marines. Di come era davvero essere un tiratore inuna squadra antiterrorismo. L’addestramento, essere il nuovo arri-vato, le persone, l’ascesa fino a una posizione di comando, le mis-sioni e le mie sensazioni.

Non e possibile affrontare una cosa del genere senza che ti cambinel profondo.

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Parte prima

CAMPO DI ADDESTRAMENTO

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Il viaggio in macchina coi miei reclutatori fino a Richmond, Virgi-nia, duro novanta minuti. Grazie alla sicurezza in me stesso che so-lo un diciottenne puo avere, non ero nervoso, e nemmeno preoc-cupato. Mi stavo preparando al campo di addestramento da un po’,fin da quando ero entrato in un programma di arruolamento dif-ferito, che mi aveva dato il tempo per raggiungere una buona formafisica. Avrei potuto passare il test di idoneita fisica dei Marines conun punteggio di alto livello cosı, su due piedi. Da mesi studiavo ilManuale dei Marines, la bibbia del marine, e ne avevo memorizzatoampi passaggi. In macchina ridevamo, ce la spassavamo; mi sentivopronto. I reclutatori si occuparono del check-in e mi dissero comeultimo consiglio: « Fa’ solamente del tuo meglio ». Quando giunsi aCharleston, Carolina del Sud, entrai per la prima volta in contattocon lo « stile dei Marines ». Avevo immaginato di bighellonare unpo’ per l’aeroporto, mettere qualcosa sotto i denti e rilassarmi. In-vece ad attendermi trovai un marine. « Seguimi », disse.

Attraversammo il terminal e ci unimmo ad altri marines che ac-compagnavano altri ragazzi. Ci condussero attraverso l’aeroportocome un gregge di pecore. Ci portarono in una stanza al piano in-terrato. « Seduti, in silenzio, non dormite, non muovetevi. Studiateil Manuale dei Marines. »

Eravamo quasi tutti rintontiti. Restammo seduti lı dentro pergran parte della giornata e la stanza si riempı poco a poco di nuovepersone che arrivavano con regolarita. Non lasciammo mai la stan-za se non per andare in bagno, peraltro accompagnati all’andata eal ritorno. Ci diedero un panino imbottito e una bottiglia d’acquaciascuno. Nient’altro. Prima arrivavi nel corso della giornata, piu alungo ti toccava star seduto in quella stanza. Nei Marines lo chia-mano « sbrigati e aspetta » perche ogni livello della catena di co-mando si e ritagliato un margine di tempo per assicurarsi che ognu-no arrivi per tempo. I margini di tolleranza predisposti da ogni gra-do si accumulano e il risultato finale e un sacco di gente che si af-fretta per andare in un qualsiasi posto e poi se ne sta lı un sacco di

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tempo a far nulla, in attesa di quel che sara. Ero troppo nuovo percapire che quella sarebbe divenuta la procedura standard e ben pre-sto la noia comincio a farsi sentire.

A tarda sera ci condussero fuori e ci imbarcarono su un autobusche doveva portarci al Centro addestramento reclute di ParrisIsland. «Non muovetevi, non parlate, non dormite. »

A quel punto eravamo tutti affamati e stanchi. Molti erano incrisi di astinenza da nicotina. Una pausa sigaretta sarebbe stataben accetta, ma non era prevista.

Era l’inizio di agosto del 1989 e ci trovavamo nella Carolina delSud, in un caldo soffocante. Sull’autobus non c’era aria condizio-nata e i finestrini erano chiusi. Tutti erano troppo preoccupati onervosi per abbassarli: ci limitammo a stare lı seduti in silenzio asudare tutto il tempo. Quelli intorno a me si stavano addormen-tando e alla fine decisi di far riposare gli occhi. Non avevo inten-zione di addormentarmi, ma capito.

Il corpo dei Marines forma le reclute a Parris Island da tanto,tanto tempo. Ogni dettaglio e pensato con cura. L’arrivo a nottefonda dopo una giornata lunga e noiosa significa che le reclute so-no perlopiu addormentate e quindi ancora piu disorientate e im-preparate all’assalto che le attende.

Non so di preciso che ore fossero quando giungemmo a desti-nazione, ma era notte fonda e stavo ancora dormendo. Fui sveglia-to da un istruttore reclute salito sull’autobus e intento a urlarci con-tro. Notai che ce n’erano altri cinque come lui.

Gli istruttori gridarono i loro nomi, poi dissero che ogni voltache ci avrebbero parlato avremmo dovuto rispondere « sissignore »a pieni polmoni. Non riuscire a rispondere con sufficiente forza co-me gruppo o individualmente avrebbe garantito una punizione oun’attenzione speciale di genere non precisato. Ci vollero alcunitentativi prima che accettassero come abbastanza forti le nostre urladi risposta. All’esterno dell’autobus c’erano degli altri istruttori checamminavano tutt’intorno e strillavano contro di noi.

«Quando dico ’muoversi’ vi alzate in piedi, scendete dal mioautobus piu in fretta che potete e andate a posizionarvi sulle im-pronte gialle dipinte sulla mia strada di fronte al mio autobus.Vi alzate, scendete, andate di fronte al mio autobus, vi posizionatesulle mie impronte. Sono stato chiaro? »

« Sissignore », gridammo, ma non risulto sufficientemente forteo chiaro e dovemmo ripeterlo ancora un po’ di volte.

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Alla fine ci venne impartito l’« attenti... muoversi » e ci alzammoin piedi, ci facemmo strada a spintoni fin fuori dall’autobus piu infretta possibile e corremmo verso le impronte. Anche di notte eracaldo e afoso. Ci sciamavano addosso nugoli di zanzare. Alcuni li-tigavano su quali fossero le rispettive impronte, come se cambiassequalcosa. E diversi istruttori si aggiravano tutt’intorno urlando co-mandi. Non era molto peggio di quello che qualsiasi atleta ha sem-pre sentito dagli allenatori. A dire il vero, la maggior parte dellevolgarita erano modificate in termini tipo « cacchio » o « cavolo ».

Non appena tutti furono grossomodo radunati sulle improntegialle ricevemmo una rapida lezione su come camminare (partirecol piede sinistro) e poi ci dissero di muoverci. Ebbi la visione diun sonno rigenerante e magari dell’inizio dell’addestramento ilgiorno dopo.

Ci incamminammo con uno schieramento vagamente somi-gliante a una mandria ordinata. Alcuni si erano addirittura portatidelle valigie e se le trascinavano dietro. Gli istruttori non smiseromai di ronzarci attorno tutto il tempo. Infine ci fermammo all’e-sterno di un edificio. Uno degli istruttori ordino di mettersi sull’at-tenti e disse: «Quando vi dico di muovervi, rompete le righe, su-perate di corsa quell’ingresso e vi sedete a un banco. Sono statochiaro? »

« Sissignore », urlammo, e ancora una volta non fummo abba-stanza chiari o decisi e dovemmo ripeterlo qualche volta in piu pri-ma che l’istruttore comandasse: « Attenti... muoversi! » Scoppio lastessa confusione che c’era stata ai sedili sull’autobus e alle impron-te. Alla fine, con un notevole accompagnamento di strilli da partedegli istruttori, ci ritrovammo tutti seduti.

Comparvero due marines e uno ci disse: «Quando dico ’ora’tutti quanti prenderete alcolici, tabacco, droghe, armi e altri generiugualmente illegali e li getterete a terra. Se in seguito verrete trovatiin possesso di tali generi sarete accusati di disobbedienza a un or-dine diretto in base alla legge militare. Mi avete capito? »

Urlammo tutti « sissignore » per un po’ di volte finche non fugiudicato abbastanza forte e chiaro. Poi ci venne detto « ora ».

La gente comincio a gettare per terra il piu in fretta possibilepacchetti di sigarette e scatolette di tabacco. I due marines preserodelle scope, spazzarono tutto in un mucchio, lo setacciarono e simisero in tasca le loro marche preferite: il resto lo gettarono nellaspazzatura. I Marines non rubano... pero « acquisiscono ».

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tempo a far nulla, in attesa di quel che sara. Ero troppo nuovo percapire che quella sarebbe divenuta la procedura standard e ben pre-sto la noia comincio a farsi sentire.

A tarda sera ci condussero fuori e ci imbarcarono su un autobusche doveva portarci al Centro addestramento reclute di ParrisIsland. «Non muovetevi, non parlate, non dormite. »

A quel punto eravamo tutti affamati e stanchi. Molti erano incrisi di astinenza da nicotina. Una pausa sigaretta sarebbe stataben accetta, ma non era prevista.

Era l’inizio di agosto del 1989 e ci trovavamo nella Carolina delSud, in un caldo soffocante. Sull’autobus non c’era aria condizio-nata e i finestrini erano chiusi. Tutti erano troppo preoccupati onervosi per abbassarli: ci limitammo a stare lı seduti in silenzio asudare tutto il tempo. Quelli intorno a me si stavano addormen-tando e alla fine decisi di far riposare gli occhi. Non avevo inten-zione di addormentarmi, ma capito.

Il corpo dei Marines forma le reclute a Parris Island da tanto,tanto tempo. Ogni dettaglio e pensato con cura. L’arrivo a nottefonda dopo una giornata lunga e noiosa significa che le reclute so-no perlopiu addormentate e quindi ancora piu disorientate e im-preparate all’assalto che le attende.

Non so di preciso che ore fossero quando giungemmo a desti-nazione, ma era notte fonda e stavo ancora dormendo. Fui sveglia-to da un istruttore reclute salito sull’autobus e intento a urlarci con-tro. Notai che ce n’erano altri cinque come lui.

Gli istruttori gridarono i loro nomi, poi dissero che ogni voltache ci avrebbero parlato avremmo dovuto rispondere « sissignore »a pieni polmoni. Non riuscire a rispondere con sufficiente forza co-me gruppo o individualmente avrebbe garantito una punizione oun’attenzione speciale di genere non precisato. Ci vollero alcunitentativi prima che accettassero come abbastanza forti le nostre urladi risposta. All’esterno dell’autobus c’erano degli altri istruttori checamminavano tutt’intorno e strillavano contro di noi.

«Quando dico ’muoversi’ vi alzate in piedi, scendete dal mioautobus piu in fretta che potete e andate a posizionarvi sulle im-pronte gialle dipinte sulla mia strada di fronte al mio autobus.Vi alzate, scendete, andate di fronte al mio autobus, vi posizionatesulle mie impronte. Sono stato chiaro? »

« Sissignore », gridammo, ma non risulto sufficientemente forteo chiaro e dovemmo ripeterlo ancora un po’ di volte.

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Alla fine ci venne impartito l’« attenti... muoversi » e ci alzammoin piedi, ci facemmo strada a spintoni fin fuori dall’autobus piu infretta possibile e corremmo verso le impronte. Anche di notte eracaldo e afoso. Ci sciamavano addosso nugoli di zanzare. Alcuni li-tigavano su quali fossero le rispettive impronte, come se cambiassequalcosa. E diversi istruttori si aggiravano tutt’intorno urlando co-mandi. Non era molto peggio di quello che qualsiasi atleta ha sem-pre sentito dagli allenatori. A dire il vero, la maggior parte dellevolgarita erano modificate in termini tipo « cacchio » o « cavolo ».

Non appena tutti furono grossomodo radunati sulle improntegialle ricevemmo una rapida lezione su come camminare (partirecol piede sinistro) e poi ci dissero di muoverci. Ebbi la visione diun sonno rigenerante e magari dell’inizio dell’addestramento ilgiorno dopo.

Ci incamminammo con uno schieramento vagamente somi-gliante a una mandria ordinata. Alcuni si erano addirittura portatidelle valigie e se le trascinavano dietro. Gli istruttori non smiseromai di ronzarci attorno tutto il tempo. Infine ci fermammo all’e-sterno di un edificio. Uno degli istruttori ordino di mettersi sull’at-tenti e disse: «Quando vi dico di muovervi, rompete le righe, su-perate di corsa quell’ingresso e vi sedete a un banco. Sono statochiaro? »

« Sissignore », urlammo, e ancora una volta non fummo abba-stanza chiari o decisi e dovemmo ripeterlo qualche volta in piu pri-ma che l’istruttore comandasse: « Attenti... muoversi! » Scoppio lastessa confusione che c’era stata ai sedili sull’autobus e alle impron-te. Alla fine, con un notevole accompagnamento di strilli da partedegli istruttori, ci ritrovammo tutti seduti.

Comparvero due marines e uno ci disse: «Quando dico ’ora’tutti quanti prenderete alcolici, tabacco, droghe, armi e altri generiugualmente illegali e li getterete a terra. Se in seguito verrete trovatiin possesso di tali generi sarete accusati di disobbedienza a un or-dine diretto in base alla legge militare. Mi avete capito? »

Urlammo tutti « sissignore » per un po’ di volte finche non fugiudicato abbastanza forte e chiaro. Poi ci venne detto « ora ».

La gente comincio a gettare per terra il piu in fretta possibilepacchetti di sigarette e scatolette di tabacco. I due marines preserodelle scope, spazzarono tutto in un mucchio, lo setacciarono e simisero in tasca le loro marche preferite: il resto lo gettarono nellaspazzatura. I Marines non rubano... pero « acquisiscono ».

Page 17:  · IO SONO UN’ARMA MEMORIE DI UN MARINE DAVID TELL. Osservo quelli che mi stanno intorno a bordo dell’elicottero. Abbiamo quasi tutti il medesimo aspetto. Tute da volo nere identiche,

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Poi cominciammo a sbrigare le pratiche: arrivo un altro marinee ogni singolo pezzo di carta da firmare ci venne spiegato metico-losamente, mentre i nostri istruttori erano schierati in piedi in fon-do alla stanza. Ogni sezione venne debitamente sottoscritta, spessopiu di una volta, ma io ho solo una vaga idea di quel che riporta-vano. Era notte fonda ed ero sveglio da quasi due giorni, uno deiquali passato a fare baldoria e l’altro a bordo dell’autobus o sedutosu una seggiola in aeroporto a far nulla. A quel punto avrei firmatovolentieri qualsiasi cosa solo per avere il permesso di andare a dor-mire. C’era gente che continuava a fare domande, un atteggiamen-to che scaldo ulteriormente gli animi degli altri. Tutti volevamosoltanto darci un taglio.

La maggior parte dei moduli era roba di routine. Chi era il pa-rente piu prossimo in caso di emergenza. Volevamo iscriverci alG.I. Bill per il college e autorizzare il governo a trattenere un po’di soldi da ogni paga per farcela restituire piu avanti con un piccoloextra come contributo per l’istruzione universitaria? Quale religio-ne professavamo? Nessuna di queste domande sembrava particolar-mente interessante e le spiegazioni per ciascun documento si trasci-navano monotone. Ma alcuni documenti erano molto interessantie le spiegazioni assolutamente terrificanti.

In uno si dichiarava che ci era stato spiegato il Codice uniformedi giustizia militare (UCMJ): dovevamo firmarlo solo dopo la spie-gazione. Quando comincio, ero lı seduto a fare su e giu con la testapronto a sprofondare nel sonno.

– L’articolo 86 stabilisce che mancare a una manovra della propriaunita e punibile per legge, quindi se il tuo plotone va da qualcheparte e non hai l’esplicito permesso di assentarti... eccoti l’arti-colo 86.

– Gli articoli 90 e 91 stabiliscono che disobbedire a un sottufficia-le o a un ufficiale, mancargli di rispetto o colpirlo sono atti pu-nibili per legge. Venne declamata una litania di cose che pote-vano essere considerate irrispettose, compresa roba tipo alzaregli occhi al cielo o guardare negli occhi un istruttore. Persinofare una smorfia per qualcosa che era stato detto poteva costarea qualcuno l’incriminazione e la gattabuia.

– L’articolo 92 afferma che la mancata obbedienza a un ordine le-gittimo e punibile per legge. Qualunque marine a Parris Island edi grado superiore alle reclute, quindi a ogni ordine che impar-

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tiscono si deve obbedire senza esitazione. La mancata obbedien-za istantanea equivale a disobbedienza a un ordine legittimo.Quindi, non riuscire ad arrampicarsi su una corda, per esempio,non significa solo non esserne capace. Ti e stato detto di farlo ehai fallito, quindi sei colpevole di disobbedienza a un ordine le-gittimo. Oppure, ancora, dal momento che ci veniva ordinatodi bere molta acqua, finire disidratato era punibile per legge.

– L’articolo 115 stabilisce che marcare visita o far finta di esseremalati e punibile per legge. Dissero che se ci sentivamo maleera nostro diritto andare in infermeria per farci visitare. Ma seandavamo in infermeria senza essere malati eravamo passibili dipunizione.

Gli articoli vennero illustrati con dovizia di particolari: per evitaredi essere condannati, ci dissero, avremmo dovuto dimostrare la no-stra innocenza. La situazione comincio a suonarmi kafkiana. Ogniesempio cominciava con una trasgressione di poca importanza, poivenivano formulate le accuse e si finiva con la recluta agli arresti.Mi rimpicciolii sulla sedia: non mi sentivo piu tanto sicuro dime stesso.

Finalmente terminammo le scartoffie. A dormire? Nemmenoper sogno. Ora dovevamo consegnare tutti gli effetti personali.Svuotammo le tasche mentre ci urlavano che non eravamo abba-stanza veloci. La nostra roba venne gettata dappertutto. Un ragazzoaccanto a me aveva un libro. Un istruttore lo getto per terra, ci salısopra e comincio a saltarci su e giu gridando. Un altro ragazzo fecel’errore di farsi sfuggire una risata nervosa e gli istruttori gli furonotutti intorno. Desideravo solo infilarmi in un buco e scomparire.

Ogni cosa venne registrata, fino al numero di serie sulle banco-note, a quante monetine esatte avevamo, in quali tagli e se avevamopacchetti di fazzolettini o un portachiavi... tutto. Se avevi la patenteveniva ritirata e inventariata. Consegnammo tutto e firmammo pertutto. Ci vollero ore.

Poi, per rendere la situazione ancora piu kafkiana, ci venne re-stituito un po’ del nostro denaro, venti dollari circa. Dovemmo pe-ro sottoscrivere che avevamo ricevuto quella somma, registrato inumeri seriali, barrato il seriale dove l’avevamo annotato e poi ap-posto le iniziali per confermare di averlo barrato. Ci consegnaronodelle piccole borse blu: dovevamo infilarci il denaro assieme a un

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Poi cominciammo a sbrigare le pratiche: arrivo un altro marinee ogni singolo pezzo di carta da firmare ci venne spiegato metico-losamente, mentre i nostri istruttori erano schierati in piedi in fon-do alla stanza. Ogni sezione venne debitamente sottoscritta, spessopiu di una volta, ma io ho solo una vaga idea di quel che riporta-vano. Era notte fonda ed ero sveglio da quasi due giorni, uno deiquali passato a fare baldoria e l’altro a bordo dell’autobus o sedutosu una seggiola in aeroporto a far nulla. A quel punto avrei firmatovolentieri qualsiasi cosa solo per avere il permesso di andare a dor-mire. C’era gente che continuava a fare domande, un atteggiamen-to che scaldo ulteriormente gli animi degli altri. Tutti volevamosoltanto darci un taglio.

La maggior parte dei moduli era roba di routine. Chi era il pa-rente piu prossimo in caso di emergenza. Volevamo iscriverci alG.I. Bill per il college e autorizzare il governo a trattenere un po’di soldi da ogni paga per farcela restituire piu avanti con un piccoloextra come contributo per l’istruzione universitaria? Quale religio-ne professavamo? Nessuna di queste domande sembrava particolar-mente interessante e le spiegazioni per ciascun documento si trasci-navano monotone. Ma alcuni documenti erano molto interessantie le spiegazioni assolutamente terrificanti.

In uno si dichiarava che ci era stato spiegato il Codice uniformedi giustizia militare (UCMJ): dovevamo firmarlo solo dopo la spie-gazione. Quando comincio, ero lı seduto a fare su e giu con la testapronto a sprofondare nel sonno.

– L’articolo 86 stabilisce che mancare a una manovra della propriaunita e punibile per legge, quindi se il tuo plotone va da qualcheparte e non hai l’esplicito permesso di assentarti... eccoti l’arti-colo 86.

– Gli articoli 90 e 91 stabiliscono che disobbedire a un sottufficia-le o a un ufficiale, mancargli di rispetto o colpirlo sono atti pu-nibili per legge. Venne declamata una litania di cose che pote-vano essere considerate irrispettose, compresa roba tipo alzaregli occhi al cielo o guardare negli occhi un istruttore. Persinofare una smorfia per qualcosa che era stato detto poteva costarea qualcuno l’incriminazione e la gattabuia.

– L’articolo 92 afferma che la mancata obbedienza a un ordine le-gittimo e punibile per legge. Qualunque marine a Parris Island edi grado superiore alle reclute, quindi a ogni ordine che impar-

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tiscono si deve obbedire senza esitazione. La mancata obbedien-za istantanea equivale a disobbedienza a un ordine legittimo.Quindi, non riuscire ad arrampicarsi su una corda, per esempio,non significa solo non esserne capace. Ti e stato detto di farlo ehai fallito, quindi sei colpevole di disobbedienza a un ordine le-gittimo. Oppure, ancora, dal momento che ci veniva ordinatodi bere molta acqua, finire disidratato era punibile per legge.

– L’articolo 115 stabilisce che marcare visita o far finta di esseremalati e punibile per legge. Dissero che se ci sentivamo maleera nostro diritto andare in infermeria per farci visitare. Ma seandavamo in infermeria senza essere malati eravamo passibili dipunizione.

Gli articoli vennero illustrati con dovizia di particolari: per evitaredi essere condannati, ci dissero, avremmo dovuto dimostrare la no-stra innocenza. La situazione comincio a suonarmi kafkiana. Ogniesempio cominciava con una trasgressione di poca importanza, poivenivano formulate le accuse e si finiva con la recluta agli arresti.Mi rimpicciolii sulla sedia: non mi sentivo piu tanto sicuro dime stesso.

Finalmente terminammo le scartoffie. A dormire? Nemmenoper sogno. Ora dovevamo consegnare tutti gli effetti personali.Svuotammo le tasche mentre ci urlavano che non eravamo abba-stanza veloci. La nostra roba venne gettata dappertutto. Un ragazzoaccanto a me aveva un libro. Un istruttore lo getto per terra, ci salısopra e comincio a saltarci su e giu gridando. Un altro ragazzo fecel’errore di farsi sfuggire una risata nervosa e gli istruttori gli furonotutti intorno. Desideravo solo infilarmi in un buco e scomparire.

Ogni cosa venne registrata, fino al numero di serie sulle banco-note, a quante monetine esatte avevamo, in quali tagli e se avevamopacchetti di fazzolettini o un portachiavi... tutto. Se avevi la patenteveniva ritirata e inventariata. Consegnammo tutto e firmammo pertutto. Ci vollero ore.

Poi, per rendere la situazione ancora piu kafkiana, ci venne re-stituito un po’ del nostro denaro, venti dollari circa. Dovemmo pe-ro sottoscrivere che avevamo ricevuto quella somma, registrato inumeri seriali, barrato il seriale dove l’avevamo annotato e poi ap-posto le iniziali per confermare di averlo barrato. Ci consegnaronodelle piccole borse blu: dovevamo infilarci il denaro assieme a un

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documento che lo inventariava e ai numeri seriali. Alla fine ci sen-tivamo tutti molto sollevati.

Poveri sciocchi.Tutto questo sarebbe diventato la regola. Quando entravamo in

un edificio diventavamo proprieta di quelli che ci lavoravano, men-tre i nostri istruttori se ne stavano sullo sfondo e a volte si avven-turavano piu avanti per cominciare ancora una volta a urlarci ad-dosso. I marines impiegati nell’edificio non erano gentili ma nem-meno arrivavano a risultare sgradevoli. Per loro era soltanto un la-voro. Ci dicevano cosa fare con istruzioni monotone e con doviziadi dettagli. Ma non ci spiegavano mai perche o cosa sarebbe suc-cesso in seguito. Completati i nostri compiti venivamo riconsegna-ti agli istruttori, che finche ci tenevano con loro non smettevanomai di urlarci contro. Ordinavano di uscire e metterci in formazio-ne sulle impronte e poi andare chissa dove a fare chissa che cosa. Ilcampo di addestramento seguiva questo schema, tutto il tempo:non sapevo mai dove ero diretto o cosa avrei fatto una volta arri-vato. Era molto disorientante non avere idea di quel che stava ac-cadendo o di cosa c’era in programma, era straniante e lo era diproposito.

In formazione sulle impronte, via verso un altro edificio. Ci ven-nero consegnati gli scarponi. Poi una sacca verde. Divise e vestiti.Indossare la divisa, gli scarponi e mettere le restanti divise nella sac-ca. Raccogliere gli abiti che avevamo indosso al momento di varca-re il cancello, registrarli su un pezzo di carta, infilarli in un sacco diplastica e consegnarlo. Ce l’avrebbero restituito dopo l’addestra-mento. Considerando che sarebbe durato circa tre mesi, che avevotenuto quei vestiti addosso tutto il giorno ed eravamo in agostonella Carolina del Sud, non avevo alcun interesse a riprendernepossesso in futuro. Naturalmente era un’opzione non contemplata.

Poi fu la volta dell’equipaggiamento di base per l’addestramen-to: un’imbracatura a H che passava sopra le spalle e lı formava unaH e veniva agganciata a una cintura con fibbia. Lı ci appendi le ta-sche per le borracce. Mettici le borracce. Ecco l’elmetto. Il giubbet-to antiproiettile. Il sacco a pelo. La maschera antigas. Lo zaino. Laparte piu entusiasmante fu firmare per le lenzuola e una coperta.Poi, stanchi all’inverosimile, ci rimettemmo in movimento portan-doci in spalla una sacca verde piena di materiali e vestiario.

Ci fermammo di fronte a un vecchio edificio a tre piani. Era ret-tangolare, con scale antincendio in metallo su entrambi i lati corti.

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L’ingresso principale era una doppia porta situata al centro, rivoltaverso la strada. Erano strutture vetuste. La porta si apriva su unatrio con un corridoio su cui si affacciavano piccoli uffici in cui ve-niva svolto il lavoro amministrativo. L’intero edificio era percorsoda un corridoio centrale da cui partivano le scale. A ogni piano c’e-rano due camerate, una su ciascun lato del corridoio. Le pareti del-l’atrio erano decorate da foto di comandanti, ex comandanti e altrimarines degni di nota. Spesso accanto alla fotografia c’era l’enco-mio per il conferimento di una medaglia d’onore. Alcuni erano dinotevole ispirazione. Mi ci vollero settimane per rendermi contoche uno dei precedenti comandanti non era Bob Hope. La somi-glianza era incredibile. In quanto reclute non ci era consentito l’ac-cesso a quell’area senza permesso. Non dovevamo mai entrare ouscire dalle camerate tramite l’ingresso principale. Per quelli comenoi c’erano le scale antincendio e avrei presto imparato che nell’u-sarle avremmo fatto meglio a correre.

Salimmo le scale antincendio portandoci tutti i nostri vestiti, l’e-quipaggiamento e la biancheria per il letto. La maggior parte di noibarcollava per il caldo, per la stanchezza e per il puro e semplicepeso di tutta la roba. La camerata era una grande stanza piena diletti a castello su entrambi i lati e con un ampio spazio vuoto alcentro. Lungo ogni lato c’erano forse trenta brandine. Su unodei lati corti una porta si apriva sulla scala antincendio che avevamoappena usato per entrare. Sul lato opposto c’erano alcune piccolestanze. Una era chiamata la « casa » degli istruttori ed era un piccoloufficio con un letto e le tendine sempre abbassate. Di fronte c’eral’« armadietto del whisky », chiamato cosı anche se non contenevaalcolici. Periodicamente ci veniva chiesto di acquistare determinatioggetti, come le fibbie in ottone per le cinture o i fermacravatte, etutto veniva custodito lı dentro. La porta successiva si apriva su unripostiglio di materiali per le pulizie, ferri e assi da stiro, sapone,carta igienica e altri prodotti simili. Di fronte, proprio accanto alla« casa », c’era il bagno. Conteneva tre enormi lavandini e un lungoorinatoio in una stanza, una seconda stanza piena di « cacatoi » incubicoli privi di porte e una terza con una serie di soffioni per ladoccia infissi a un muro. Nella parete tra la porta del bagno e ilmagazzino dell’equipaggiamento si apriva un’altra porta che davasul corridoio comune tra le camerate dei due plotoni. Ci era proi-bito utilizzare quell’accesso a meno che non fossimo incaricati diandare in corridoio per fare le pulizie.

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documento che lo inventariava e ai numeri seriali. Alla fine ci sen-tivamo tutti molto sollevati.

Poveri sciocchi.Tutto questo sarebbe diventato la regola. Quando entravamo in

un edificio diventavamo proprieta di quelli che ci lavoravano, men-tre i nostri istruttori se ne stavano sullo sfondo e a volte si avven-turavano piu avanti per cominciare ancora una volta a urlarci ad-dosso. I marines impiegati nell’edificio non erano gentili ma nem-meno arrivavano a risultare sgradevoli. Per loro era soltanto un la-voro. Ci dicevano cosa fare con istruzioni monotone e con doviziadi dettagli. Ma non ci spiegavano mai perche o cosa sarebbe suc-cesso in seguito. Completati i nostri compiti venivamo riconsegna-ti agli istruttori, che finche ci tenevano con loro non smettevanomai di urlarci contro. Ordinavano di uscire e metterci in formazio-ne sulle impronte e poi andare chissa dove a fare chissa che cosa. Ilcampo di addestramento seguiva questo schema, tutto il tempo:non sapevo mai dove ero diretto o cosa avrei fatto una volta arri-vato. Era molto disorientante non avere idea di quel che stava ac-cadendo o di cosa c’era in programma, era straniante e lo era diproposito.

In formazione sulle impronte, via verso un altro edificio. Ci ven-nero consegnati gli scarponi. Poi una sacca verde. Divise e vestiti.Indossare la divisa, gli scarponi e mettere le restanti divise nella sac-ca. Raccogliere gli abiti che avevamo indosso al momento di varca-re il cancello, registrarli su un pezzo di carta, infilarli in un sacco diplastica e consegnarlo. Ce l’avrebbero restituito dopo l’addestra-mento. Considerando che sarebbe durato circa tre mesi, che avevotenuto quei vestiti addosso tutto il giorno ed eravamo in agostonella Carolina del Sud, non avevo alcun interesse a riprendernepossesso in futuro. Naturalmente era un’opzione non contemplata.

Poi fu la volta dell’equipaggiamento di base per l’addestramen-to: un’imbracatura a H che passava sopra le spalle e lı formava unaH e veniva agganciata a una cintura con fibbia. Lı ci appendi le ta-sche per le borracce. Mettici le borracce. Ecco l’elmetto. Il giubbet-to antiproiettile. Il sacco a pelo. La maschera antigas. Lo zaino. Laparte piu entusiasmante fu firmare per le lenzuola e una coperta.Poi, stanchi all’inverosimile, ci rimettemmo in movimento portan-doci in spalla una sacca verde piena di materiali e vestiario.

Ci fermammo di fronte a un vecchio edificio a tre piani. Era ret-tangolare, con scale antincendio in metallo su entrambi i lati corti.

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L’ingresso principale era una doppia porta situata al centro, rivoltaverso la strada. Erano strutture vetuste. La porta si apriva su unatrio con un corridoio su cui si affacciavano piccoli uffici in cui ve-niva svolto il lavoro amministrativo. L’intero edificio era percorsoda un corridoio centrale da cui partivano le scale. A ogni piano c’e-rano due camerate, una su ciascun lato del corridoio. Le pareti del-l’atrio erano decorate da foto di comandanti, ex comandanti e altrimarines degni di nota. Spesso accanto alla fotografia c’era l’enco-mio per il conferimento di una medaglia d’onore. Alcuni erano dinotevole ispirazione. Mi ci vollero settimane per rendermi contoche uno dei precedenti comandanti non era Bob Hope. La somi-glianza era incredibile. In quanto reclute non ci era consentito l’ac-cesso a quell’area senza permesso. Non dovevamo mai entrare ouscire dalle camerate tramite l’ingresso principale. Per quelli comenoi c’erano le scale antincendio e avrei presto imparato che nell’u-sarle avremmo fatto meglio a correre.

Salimmo le scale antincendio portandoci tutti i nostri vestiti, l’e-quipaggiamento e la biancheria per il letto. La maggior parte di noibarcollava per il caldo, per la stanchezza e per il puro e semplicepeso di tutta la roba. La camerata era una grande stanza piena diletti a castello su entrambi i lati e con un ampio spazio vuoto alcentro. Lungo ogni lato c’erano forse trenta brandine. Su unodei lati corti una porta si apriva sulla scala antincendio che avevamoappena usato per entrare. Sul lato opposto c’erano alcune piccolestanze. Una era chiamata la « casa » degli istruttori ed era un piccoloufficio con un letto e le tendine sempre abbassate. Di fronte c’eral’« armadietto del whisky », chiamato cosı anche se non contenevaalcolici. Periodicamente ci veniva chiesto di acquistare determinatioggetti, come le fibbie in ottone per le cinture o i fermacravatte, etutto veniva custodito lı dentro. La porta successiva si apriva su unripostiglio di materiali per le pulizie, ferri e assi da stiro, sapone,carta igienica e altri prodotti simili. Di fronte, proprio accanto alla« casa », c’era il bagno. Conteneva tre enormi lavandini e un lungoorinatoio in una stanza, una seconda stanza piena di « cacatoi » incubicoli privi di porte e una terza con una serie di soffioni per ladoccia infissi a un muro. Nella parete tra la porta del bagno e ilmagazzino dell’equipaggiamento si apriva un’altra porta che davasul corridoio comune tra le camerate dei due plotoni. Ci era proi-bito utilizzare quell’accesso a meno che non fossimo incaricati diandare in corridoio per fare le pulizie.

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Guardai i letti. Ormai mi sarei addormentato volentieri sulla re-te di metallo. Ma a quel punto avrei dovuto gia capire l’andazzo.

Per prima cosa dovemmo prepararci i letti e per farlo ci volleuna lezione. Piegate le lenzuola esattamente cosı, con questa ango-lazione precisa, rimboccatele qui proprio in questo modo e liscia-tele quaggiu. Poi fu il turno di una lezione su come contrassegnare inostri indumenti. Per prima cosa dovemmo prendere il nostronuovo set di timbri e apporre nome e numero di plotone su tuttoil vestiario. I grassi dovettero apporre una striscia gialla lungo i loroabiti, quelli sottopeso due strisce, quelli con i capelli rossi o moltopallidi un’altra indicazione analoga. Naturalmente c’e un metodoprestabilito per riporre e piegare il tutto. Ogni capo va ripiegato inmaniera specifica per essere di una dimensione precisa una voltafinito e poter essere collocato esattamente al posto giusto.

All’esterno era ancora buio quando terminammo e pensai chefinalmente avremmo avuto la possibilita di dormire. No. Marciam-mo per andare a fare colazione. Ci mettemmo in fila in sala mensacon gli istruttori di fianco. Osservavano, valutavano, controllava-no. « Attenti, passo. Attenti, passo. » Avanzammo di qualche passo,prima la gamba sinistra. In cima alla fila, ai quattro in riga dissero:« Prendete i vassoi. Teneteli a novanta gradi rispetto al corpo pertutto il tempo ».

« Fianco sinist. »Tutti si girarono verso sinistra.« Attenti... muoversi. »Ognuno di noi si mosse per prendere il cibo.Pancake, toast alla francese, uova, pancetta, cereali e succo. Il

latte non era consentito a colazione e non bevvi mai caffe per tuttala mia permanenza sull’isola. I Marines credono in quantita enormidi cibo e non badano al modo in cui e cucinato.

Niente sonno nemmeno dopo la colazione. Era l’ora della rasa-tura. Mi rasarono il cranio in meno di 45 secondi e quando fini-rono mi sanguinava il cuoio capelluto e avevo matasse di capelli sututta la testa. Poi fummo condotti allo spaccio e ci venne dettoesattamente quali oggetti il corpo dei Marines ci ordinava di com-prare. Vedemmo delle sigarette ma ci era proibito acquistarle. A di-re il vero, era proibito acquistare qualsiasi cosa al di fuori di quantospecificamente ordinato.

Sorse il sole e il giorno seguente trascorse monotono. Prendetequesto, portate quest’altro. Tutte le pratiche amministrative venne-

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ro sbrigate in una confusa frenesia, esasperata dalla mancanza disonno. E dura trasportare borsoni di roba pesanti quasi settantachili con le cinghie rotte. Se qualcuno ne lasciava cadere uno, do-vevamo tutti ritornare al punto di partenza. Non camminavamocon calma da un punto all’altro: correvamo. Nessuno ci diceva cosaci aspettava alla tappa successiva. Ci dicevano solo di uscire, pren-dere posizione sulle impronte gialle, cominciare a correre da qual-che parte, restare lı ad aspettare, rientrare e poi scoprire perche era-vamo in un certo edificio. In camerata c’era un orologio. L’unicoorologio che vidi in tutta la mia permanenza a Parris Island. Dun-que quanto rimanevo in un certo posto e quanto tempo ci volevaper fare una cosa? Chi lo sa. Quando non c’e un sistema concretoper misurarlo il tempo diventa un flusso indistinto. So che restam-mo svegli tutta la notte, il giorno seguente e anche gran parte dellanottata successiva.

Tornati in caserma, assonnati e con gli occhi arrossati, ci dissero dispogliarci e rimanere in mutande. La camerata era divisa in due la-ti. Destra e sinistra? Nemmeno per sogno. Dritta e babordo. Quellia dritta furono spediti in bagno in massa. Avevamo sı e no cinqueminuti per andare di corpo, far la doccia e raderci. Tutti ci accal-cammo attorno agli orinatoi per pisciare e poi ci fiondammo al la-vello per fare la barba. Con cosı tanta gente ammassata attorno nonc’era la minima possibilita di usare lo specchio. Poi partı un contoalla rovescia da dieci. Non avevamo il permesso di lasciare la prua(il bagno) prima dell’inizio del conto alla rovescia, ma quando ar-rivava a uno ci conveniva essere di nuovo sulla linea bianca davantial nostro letto e sull’attenti. L’altro lato fu spedito in bagno mentrenoi venivamo tenuti in linea e bersagliati di urla. Quando ebberofinito, gli altri tornarono alle loro linee bianche.

Poi inaugurammo quello che sarebbe diventato un rituale diogni nottata. Ognuno venne spedito di corsa a recuperare la saccacontenente il suo denaro e i pochi altri effetti personali consentiti.Dopodiche ci precipitammo tutti di nuovo alla linea bianca e cimettemmo sull’attenti mentre l’istruttore faceva il conto alla rove-scia da dieci. Il corpo dei Marines era sul punto di iniziarmi al si-stema piu complicato mai visto per assicurarsi che ciascuna reclutapossedesse ancora la sua piccola sacca col denaro e le altre cose divalore.

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Guardai i letti. Ormai mi sarei addormentato volentieri sulla re-te di metallo. Ma a quel punto avrei dovuto gia capire l’andazzo.

Per prima cosa dovemmo prepararci i letti e per farlo ci volleuna lezione. Piegate le lenzuola esattamente cosı, con questa ango-lazione precisa, rimboccatele qui proprio in questo modo e liscia-tele quaggiu. Poi fu il turno di una lezione su come contrassegnare inostri indumenti. Per prima cosa dovemmo prendere il nostronuovo set di timbri e apporre nome e numero di plotone su tuttoil vestiario. I grassi dovettero apporre una striscia gialla lungo i loroabiti, quelli sottopeso due strisce, quelli con i capelli rossi o moltopallidi un’altra indicazione analoga. Naturalmente c’e un metodoprestabilito per riporre e piegare il tutto. Ogni capo va ripiegato inmaniera specifica per essere di una dimensione precisa una voltafinito e poter essere collocato esattamente al posto giusto.

All’esterno era ancora buio quando terminammo e pensai chefinalmente avremmo avuto la possibilita di dormire. No. Marciam-mo per andare a fare colazione. Ci mettemmo in fila in sala mensacon gli istruttori di fianco. Osservavano, valutavano, controllava-no. « Attenti, passo. Attenti, passo. » Avanzammo di qualche passo,prima la gamba sinistra. In cima alla fila, ai quattro in riga dissero:« Prendete i vassoi. Teneteli a novanta gradi rispetto al corpo pertutto il tempo ».

« Fianco sinist. »Tutti si girarono verso sinistra.« Attenti... muoversi. »Ognuno di noi si mosse per prendere il cibo.Pancake, toast alla francese, uova, pancetta, cereali e succo. Il

latte non era consentito a colazione e non bevvi mai caffe per tuttala mia permanenza sull’isola. I Marines credono in quantita enormidi cibo e non badano al modo in cui e cucinato.

Niente sonno nemmeno dopo la colazione. Era l’ora della rasa-tura. Mi rasarono il cranio in meno di 45 secondi e quando fini-rono mi sanguinava il cuoio capelluto e avevo matasse di capelli sututta la testa. Poi fummo condotti allo spaccio e ci venne dettoesattamente quali oggetti il corpo dei Marines ci ordinava di com-prare. Vedemmo delle sigarette ma ci era proibito acquistarle. A di-re il vero, era proibito acquistare qualsiasi cosa al di fuori di quantospecificamente ordinato.

Sorse il sole e il giorno seguente trascorse monotono. Prendetequesto, portate quest’altro. Tutte le pratiche amministrative venne-

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ro sbrigate in una confusa frenesia, esasperata dalla mancanza disonno. E dura trasportare borsoni di roba pesanti quasi settantachili con le cinghie rotte. Se qualcuno ne lasciava cadere uno, do-vevamo tutti ritornare al punto di partenza. Non camminavamocon calma da un punto all’altro: correvamo. Nessuno ci diceva cosaci aspettava alla tappa successiva. Ci dicevano solo di uscire, pren-dere posizione sulle impronte gialle, cominciare a correre da qual-che parte, restare lı ad aspettare, rientrare e poi scoprire perche era-vamo in un certo edificio. In camerata c’era un orologio. L’unicoorologio che vidi in tutta la mia permanenza a Parris Island. Dun-que quanto rimanevo in un certo posto e quanto tempo ci volevaper fare una cosa? Chi lo sa. Quando non c’e un sistema concretoper misurarlo il tempo diventa un flusso indistinto. So che restam-mo svegli tutta la notte, il giorno seguente e anche gran parte dellanottata successiva.

Tornati in caserma, assonnati e con gli occhi arrossati, ci dissero dispogliarci e rimanere in mutande. La camerata era divisa in due la-ti. Destra e sinistra? Nemmeno per sogno. Dritta e babordo. Quellia dritta furono spediti in bagno in massa. Avevamo sı e no cinqueminuti per andare di corpo, far la doccia e raderci. Tutti ci accal-cammo attorno agli orinatoi per pisciare e poi ci fiondammo al la-vello per fare la barba. Con cosı tanta gente ammassata attorno nonc’era la minima possibilita di usare lo specchio. Poi partı un contoalla rovescia da dieci. Non avevamo il permesso di lasciare la prua(il bagno) prima dell’inizio del conto alla rovescia, ma quando ar-rivava a uno ci conveniva essere di nuovo sulla linea bianca davantial nostro letto e sull’attenti. L’altro lato fu spedito in bagno mentrenoi venivamo tenuti in linea e bersagliati di urla. Quando ebberofinito, gli altri tornarono alle loro linee bianche.

Poi inaugurammo quello che sarebbe diventato un rituale diogni nottata. Ognuno venne spedito di corsa a recuperare la saccacontenente il suo denaro e i pochi altri effetti personali consentiti.Dopodiche ci precipitammo tutti di nuovo alla linea bianca e cimettemmo sull’attenti mentre l’istruttore faceva il conto alla rove-scia da dieci. Il corpo dei Marines era sul punto di iniziarmi al si-stema piu complicato mai visto per assicurarsi che ciascuna reclutapossedesse ancora la sua piccola sacca col denaro e le altre cose divalore.

Page 23:  · IO SONO UN’ARMA MEMORIE DI UN MARINE DAVID TELL. Osservo quelli che mi stanno intorno a bordo dell’elicottero. Abbiamo quasi tutti il medesimo aspetto. Tute da volo nere identiche,

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Ogni recluta doveva mostrare la propria sacca con il braccio si-nistro teso e sollevato. Poi la prima recluta sul lato di babordo (si-nistra) doveva urlare « uno » e abbassare di scatto la mano con lasacca. Immediatamente la recluta successiva doveva urlare « due ».La successiva « tre ».

La conta avanzo in fretta lungo il lato di babordo e quando l’ul-timo della fila ebbe urlato il proprio numero quello di fronte a luisul lato di dritta grido il numero seguente e il conto proseguı finoall’ultima recluta. Il nostro istruttore sogghigno. « Non ci siamo.Troppo lento. Non era ne abbastanza forte ne abbastanza chiaro.Rifare. » Lo rifacemmo ancora. E poi ancora e ancora e ancora.Quando fu finalmente stabilito che l’avessimo eseguito in modoadeguato ci dissero: «Quando vi dico di muovervi, vi precipiteretea mettere quella sacca al suo posto e poi ritornerete in riga. Avanti,march! » Corremmo. Non abbastanza veloce. Lo rifacemmo. Anco-ra una volta non fu abbastanza veloce per cui... di nuovo.

Poi ci fu l’ispezione corporale. Aprimmo le bocche come cavalli,presentammo le mani a comando e sollevammo i piedi perche lipotessero esaminare. Quelli non rasati sufficientemente a filo do-vettero ripetere l’operazione a secco, lı su due piedi, per ovviare allamancanza, spesso immaginaria.

Finalmente, alle 2.30, ci mettemmo a dormire.Fummo svegliati alle 5.30.Persino durante la prima notte di sonno vengono stabiliti i turni

di guardia in camerata. Ogni persona di guardia fa un turno diun’ora. Per mia fortuna mi toccarono tutte e tre le ore di sonno.Qualche poveraccio ebbe un’ora di sonno, poi fu svegliato per ilsuo turno di guardia da un’ora ed ebbe un’altra ora di sonno primadi essere svegliato dall’istruttore che scagliava bidoni dell’immon-dizia per tutta la camerata e urlava di uscire dai letti e mettersi inriga. Ancora mezzo addormentato e intontito corsi verso la lineabianca. Incredibilmente ci fu chi non si sveglio nemmeno. Gli ri-baltarono la branda con lui ancora dentro che ronfava.

Trascorremmo le ore successive a fare e rifare tutti i letti. Ognivolta ci davano un conto alla rovescia variabile: variabile nel sensoche poteva durare davvero dieci secondi o essere eseguito in fretta,tipo in tre secondi. Dipendeva tutto da quanto eravamo vicini acompletare l’opera: il conto veniva accelerato per garantire il nostrofallimento. Poi i letti venivano disfatti e lenzuola e coperte gettate aterra. Dovevamo ricominciare da capo. Ancora. E ancora.

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Poi una corsa al bagno per lavarsi i denti e pisciare. Trenta ra-gazzi che cercano di farsi strada verso un unico, lungo orinatoio episciano tutti allo stesso tempo, con l’istruttore che conta alla rove-scia da dieci per tutto il tempo. Il sistema e progettato e manipolatoin modo da causare fallimenti. Potranno sempre accelerare il con-teggio o trovare qualcosa di sbagliato, se vorranno. L’essenziale enon diventare quello che viene incolpato di continuo per ogni cosache va male.

Prendere le cinture con le due borracce, indossarle, correr giudalle scale antincendio dal terzo piano per raggiungere le improntegialle prima della fine del conto alla rovescia. Non riuscirci. Rifar-lo. Ancora una volta. Poi in marcia per la mensa. L’istruttore im-partı una monotona cadenza « destra, sinistra, destra, sinistra » convoce annoiata. Disse che non valevamo una cadenza migliore. Ve-demmo altri plotoni in giro. Loro marciavano sul serio, noi erava-mo una massa disordinata. Quando ci avvicinavamo agli altri plo-toni i loro istruttori facevano osservazioni pungenti: eravamo ungruppo di piccoli maiali, scivolavamo gli uni contro gli altri, am-massati, disgustosi, mai e poi mai degni di essere Marines, dellevergogne... e il nostro istruttore gli dava ragione.

Dovemmo correre dovunque per svolgere dei compiti e poi tor-nare di corsa in camerata. Su per le scale e in riga. Poi l’istruttore siritiro nel suo ufficio e chiuse la porta. Da noi ci si aspettava chestessimo seduti sui nostri bauletti senza dire una parola. A studiarela nostra « conoscenza », vale a dire, in sostanza, leggere piu e piuvolte lo stesso libro con l’obiettivo di memorizzarlo per poter let-teralmente ripetere, come plotone, la medesima risposta parola perparola. Il libro era l’onnipresente Manuale dei Marines. Era scrittocon una terminologia navale, per cui una « finestra » diventava un« oblo » e un « bagno » diventava una « prua ». Conteneva gli Ordinigenerali per un marine al posto di guardia, le immagini delle mo-strine della Marina e dei Marines e via dicendo. In sostanza tutto loscibile che ci si aspettava venisse imparato da una giovane recluta.Ogni giorno trascorrevamo ore seduti a studiare quel libro. Se nonavevamo gli occhi sul libro, voleva dire che stavamo lucidando glistivali.

Quando eravamo soli la camerata doveva essere assolutamentesilenziosa in ogni momento. Le reclute non erano autorizzate a par-lare tra loro. Gli unici che potevano dare il via a una conversazioneerano gli istruttori, a meno che una recluta non avesse bisogno di

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Ogni recluta doveva mostrare la propria sacca con il braccio si-nistro teso e sollevato. Poi la prima recluta sul lato di babordo (si-nistra) doveva urlare « uno » e abbassare di scatto la mano con lasacca. Immediatamente la recluta successiva doveva urlare « due ».La successiva « tre ».

La conta avanzo in fretta lungo il lato di babordo e quando l’ul-timo della fila ebbe urlato il proprio numero quello di fronte a luisul lato di dritta grido il numero seguente e il conto proseguı finoall’ultima recluta. Il nostro istruttore sogghigno. « Non ci siamo.Troppo lento. Non era ne abbastanza forte ne abbastanza chiaro.Rifare. » Lo rifacemmo ancora. E poi ancora e ancora e ancora.Quando fu finalmente stabilito che l’avessimo eseguito in modoadeguato ci dissero: «Quando vi dico di muovervi, vi precipiteretea mettere quella sacca al suo posto e poi ritornerete in riga. Avanti,march! » Corremmo. Non abbastanza veloce. Lo rifacemmo. Anco-ra una volta non fu abbastanza veloce per cui... di nuovo.

Poi ci fu l’ispezione corporale. Aprimmo le bocche come cavalli,presentammo le mani a comando e sollevammo i piedi perche lipotessero esaminare. Quelli non rasati sufficientemente a filo do-vettero ripetere l’operazione a secco, lı su due piedi, per ovviare allamancanza, spesso immaginaria.

Finalmente, alle 2.30, ci mettemmo a dormire.Fummo svegliati alle 5.30.Persino durante la prima notte di sonno vengono stabiliti i turni

di guardia in camerata. Ogni persona di guardia fa un turno diun’ora. Per mia fortuna mi toccarono tutte e tre le ore di sonno.Qualche poveraccio ebbe un’ora di sonno, poi fu svegliato per ilsuo turno di guardia da un’ora ed ebbe un’altra ora di sonno primadi essere svegliato dall’istruttore che scagliava bidoni dell’immon-dizia per tutta la camerata e urlava di uscire dai letti e mettersi inriga. Ancora mezzo addormentato e intontito corsi verso la lineabianca. Incredibilmente ci fu chi non si sveglio nemmeno. Gli ri-baltarono la branda con lui ancora dentro che ronfava.

Trascorremmo le ore successive a fare e rifare tutti i letti. Ognivolta ci davano un conto alla rovescia variabile: variabile nel sensoche poteva durare davvero dieci secondi o essere eseguito in fretta,tipo in tre secondi. Dipendeva tutto da quanto eravamo vicini acompletare l’opera: il conto veniva accelerato per garantire il nostrofallimento. Poi i letti venivano disfatti e lenzuola e coperte gettate aterra. Dovevamo ricominciare da capo. Ancora. E ancora.

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Poi una corsa al bagno per lavarsi i denti e pisciare. Trenta ra-gazzi che cercano di farsi strada verso un unico, lungo orinatoio episciano tutti allo stesso tempo, con l’istruttore che conta alla rove-scia da dieci per tutto il tempo. Il sistema e progettato e manipolatoin modo da causare fallimenti. Potranno sempre accelerare il con-teggio o trovare qualcosa di sbagliato, se vorranno. L’essenziale enon diventare quello che viene incolpato di continuo per ogni cosache va male.

Prendere le cinture con le due borracce, indossarle, correr giudalle scale antincendio dal terzo piano per raggiungere le improntegialle prima della fine del conto alla rovescia. Non riuscirci. Rifar-lo. Ancora una volta. Poi in marcia per la mensa. L’istruttore im-partı una monotona cadenza « destra, sinistra, destra, sinistra » convoce annoiata. Disse che non valevamo una cadenza migliore. Ve-demmo altri plotoni in giro. Loro marciavano sul serio, noi erava-mo una massa disordinata. Quando ci avvicinavamo agli altri plo-toni i loro istruttori facevano osservazioni pungenti: eravamo ungruppo di piccoli maiali, scivolavamo gli uni contro gli altri, am-massati, disgustosi, mai e poi mai degni di essere Marines, dellevergogne... e il nostro istruttore gli dava ragione.

Dovemmo correre dovunque per svolgere dei compiti e poi tor-nare di corsa in camerata. Su per le scale e in riga. Poi l’istruttore siritiro nel suo ufficio e chiuse la porta. Da noi ci si aspettava chestessimo seduti sui nostri bauletti senza dire una parola. A studiarela nostra « conoscenza », vale a dire, in sostanza, leggere piu e piuvolte lo stesso libro con l’obiettivo di memorizzarlo per poter let-teralmente ripetere, come plotone, la medesima risposta parola perparola. Il libro era l’onnipresente Manuale dei Marines. Era scrittocon una terminologia navale, per cui una « finestra » diventava un« oblo » e un « bagno » diventava una « prua ». Conteneva gli Ordinigenerali per un marine al posto di guardia, le immagini delle mo-strine della Marina e dei Marines e via dicendo. In sostanza tutto loscibile che ci si aspettava venisse imparato da una giovane recluta.Ogni giorno trascorrevamo ore seduti a studiare quel libro. Se nonavevamo gli occhi sul libro, voleva dire che stavamo lucidando glistivali.

Quando eravamo soli la camerata doveva essere assolutamentesilenziosa in ogni momento. Le reclute non erano autorizzate a par-lare tra loro. Gli unici che potevano dare il via a una conversazioneerano gli istruttori, a meno che una recluta non avesse bisogno di

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parlare con uno di loro per una qualsiasi ragione suicida. Avevi bi-sogno di andare in bagno? Dovevi metterti all’esterno della « casa »,sulle onnipresenti impronte gialle e sull’attenti. Sulla parete c’erauna tavola di legno con dipinta l’impronta di una mano. Alzavila mano sinistra e la sbattevi sulla sagoma dipinta piu forte che po-tevi urlando: « Signore, la recluta Tell chiede il permesso di parlareall’istruttore, signore ». Era pericoloso farlo, potevi ricevere in cam-bio qualsiasi tipo di risposta. In genere era meglio non chiederenulla. Startene tranquillo sperando che non si accorgessero di tee che qualcun altro andasse a domandare cio di cui avevi bisogno.Tenere un basso profilo diventava una questione di istinto di so-pravvivenza.

Certa gente sembrava non arrivarci. Il punto chiave era tenerepresente che non aveva importanza cosa facessimo. Era il tempoa dettare ogni cosa. Se c’era tempo libero nel programma allora tut-to quello che facevamo era sbagliato. Non eravamo andati su e giuper le scale abbastanza in fretta. I letti non erano stati fatti abba-stanza velocemente o abbastanza bene. C’era sempre qualcosache non andava e di conseguenza, mentre ripetevamo l’operazione,ci veniva puntualmente detto che eravamo indisciplinati e disgu-stosi. Potevano trascorrere ore a ripetere all’infinito lo stesso sem-plice compito. Ma se il programma top secret a cui noi non aveva-mo mai accesso richiedeva che ci precipitassimo da qualche parte,allora si verificava il miracolo e tutto a un tratto ogni letto era fattonella maniera corretta e abbastanza in fretta. Parecchi ragazzi sem-bravano proprio non afferrare questo concetto. Si infuriavano conqualcuno perche veniva preso di mira dall’istruttore, che gli davapiu volte di fila la colpa del fallimento. Poi era il turno di qualcunaltro. Era come osservare gli istruttori intenti a regolare minuzio-samente l’umore di tutti quanti per trasformarli in una massa pe-rennemente furiosa e frustrata.

A me quello che stava succedendo sembrava del tutto evidente.La privazione del sonno era usata per farci crollare dal punto di vi-sta psicologico e sincronizzarci sul medesimo ritmo circadiano. Ildivieto di usare i pronomi personali « io » o « tu », « lui » e l’obbligodi sostituirli con « questa recluta, quella recluta, l’istruttore » erapensata per spogliarci delle nostre identita. Non farci mai saperedove saremmo andati o quello che avremmo fatto serviva a tenercicostantemente in tensione. I conti alla rovescia variabili quandoc’era da portare a termine gli incarichi non erano utilizzati solo

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per renderci piu rapidi, ma anche per punirci e incrementare i li-velli di pressione. Era lo stesso motivo per cui gli istruttori urlavanoe strillavano costantemente: per intimidirci e aumentare lo stress.Le nostre urla di risposta poi, servivano a incrementare l’attivitacardiovascolare, a indebolirci individualmente e a punirci tuttiquanti se gli istruttori decidevano che la voce di qualcuno nonera abbastanza alta. Cominciavano prendendo di mira qualcunoa cui imputavano il fallimento, poi colpivano il gruppo a causadel suo insuccesso. In questo modo potevano emergere parecchieinformazioni non solo sul prescelto ma su tutti i componenti delgruppo. Il divieto di parlare alle altre reclute ci isolava ancora dipiu come individui.

Lo scopo era farci ricorrere a tutte le risorse interiori in nostropossesso in un ambiente sempre piu ostile e stressante, mentre gliistruttori mantenevano il pieno controllo della situazione e ci valu-tavano in segreto su ogni cosa.

Piu o meno corrispondeva a quel che mi ero aspettato dall’ad-destramento e fino a quel momento mi sentivo piuttosto a mioagio dal punto di vista mentale. L’unica cosa che mancava era l’e-sercizio fisico, ma ci era stato detto che sarebbe iniziato in un se-condo momento, dopo che ci fossimo acclimatati al caldo. Presi laspiegazione per buona e diedi per scontato di aver cominciato ilcampo d’addestramento e che tutto il resto di cio che prevedevosarebbe stato introdotto gradualmente.

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parlare con uno di loro per una qualsiasi ragione suicida. Avevi bi-sogno di andare in bagno? Dovevi metterti all’esterno della « casa »,sulle onnipresenti impronte gialle e sull’attenti. Sulla parete c’erauna tavola di legno con dipinta l’impronta di una mano. Alzavila mano sinistra e la sbattevi sulla sagoma dipinta piu forte che po-tevi urlando: « Signore, la recluta Tell chiede il permesso di parlareall’istruttore, signore ». Era pericoloso farlo, potevi ricevere in cam-bio qualsiasi tipo di risposta. In genere era meglio non chiederenulla. Startene tranquillo sperando che non si accorgessero di tee che qualcun altro andasse a domandare cio di cui avevi bisogno.Tenere un basso profilo diventava una questione di istinto di so-pravvivenza.

Certa gente sembrava non arrivarci. Il punto chiave era tenerepresente che non aveva importanza cosa facessimo. Era il tempoa dettare ogni cosa. Se c’era tempo libero nel programma allora tut-to quello che facevamo era sbagliato. Non eravamo andati su e giuper le scale abbastanza in fretta. I letti non erano stati fatti abba-stanza velocemente o abbastanza bene. C’era sempre qualcosache non andava e di conseguenza, mentre ripetevamo l’operazione,ci veniva puntualmente detto che eravamo indisciplinati e disgu-stosi. Potevano trascorrere ore a ripetere all’infinito lo stesso sem-plice compito. Ma se il programma top secret a cui noi non aveva-mo mai accesso richiedeva che ci precipitassimo da qualche parte,allora si verificava il miracolo e tutto a un tratto ogni letto era fattonella maniera corretta e abbastanza in fretta. Parecchi ragazzi sem-bravano proprio non afferrare questo concetto. Si infuriavano conqualcuno perche veniva preso di mira dall’istruttore, che gli davapiu volte di fila la colpa del fallimento. Poi era il turno di qualcunaltro. Era come osservare gli istruttori intenti a regolare minuzio-samente l’umore di tutti quanti per trasformarli in una massa pe-rennemente furiosa e frustrata.

A me quello che stava succedendo sembrava del tutto evidente.La privazione del sonno era usata per farci crollare dal punto di vi-sta psicologico e sincronizzarci sul medesimo ritmo circadiano. Ildivieto di usare i pronomi personali « io » o « tu », « lui » e l’obbligodi sostituirli con « questa recluta, quella recluta, l’istruttore » erapensata per spogliarci delle nostre identita. Non farci mai saperedove saremmo andati o quello che avremmo fatto serviva a tenercicostantemente in tensione. I conti alla rovescia variabili quandoc’era da portare a termine gli incarichi non erano utilizzati solo

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per renderci piu rapidi, ma anche per punirci e incrementare i li-velli di pressione. Era lo stesso motivo per cui gli istruttori urlavanoe strillavano costantemente: per intimidirci e aumentare lo stress.Le nostre urla di risposta poi, servivano a incrementare l’attivitacardiovascolare, a indebolirci individualmente e a punirci tuttiquanti se gli istruttori decidevano che la voce di qualcuno nonera abbastanza alta. Cominciavano prendendo di mira qualcunoa cui imputavano il fallimento, poi colpivano il gruppo a causadel suo insuccesso. In questo modo potevano emergere parecchieinformazioni non solo sul prescelto ma su tutti i componenti delgruppo. Il divieto di parlare alle altre reclute ci isolava ancora dipiu come individui.

Lo scopo era farci ricorrere a tutte le risorse interiori in nostropossesso in un ambiente sempre piu ostile e stressante, mentre gliistruttori mantenevano il pieno controllo della situazione e ci valu-tavano in segreto su ogni cosa.

Piu o meno corrispondeva a quel che mi ero aspettato dall’ad-destramento e fino a quel momento mi sentivo piuttosto a mioagio dal punto di vista mentale. L’unica cosa che mancava era l’e-sercizio fisico, ma ci era stato detto che sarebbe iniziato in un se-condo momento, dopo che ci fossimo acclimatati al caldo. Presi laspiegazione per buona e diedi per scontato di aver cominciato ilcampo d’addestramento e che tutto il resto di cio che prevedevosarebbe stato introdotto gradualmente.