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« Holocaust », il privato e la storia * Ovvero, si potrebbe anche intitolare: un libro, un film, un olocausto. E cercare di capire perché un brutto libro e uno sceneggiato mediocre, non per le inesat- tezze di dettaglio che contiene, ma per il modo complessivo della sua confezione irrimediabilmente di stampo hollywoodiano, siano riusciti a trasformare una delle più gigantesche tragedie della nostra storia contemporanea, della storia dei fa- scismi, 1’« olocausto» per l’appunto, insieme in un successo di pubblico senza precedenti, in una occasione di conoscenza e di discussione largamente disattesi, in una sorta di saga familiare che dopo avere toccato l’arsi della tragedia finisce poi per placarsi in un accomodante ed edificante happy end, che racchiude un po’ tutti i messaggi politici che il libro di Gerald Green ’, forse più ancora del telefilm, esplicita in misura sufficientemente trasparente: Rudi, l’ebreo soprav- vissuto, addita ai suoi correligionari come unica possibilità di salvezza la via della Palestina (messaggio sionista); rincontro tra Rudi e Inga, la moglie ariana di Karl Weiss, il fratello di Rudi morto in campo di sterminio, sembra il simbolo della riconciliazione non solo familiare ma più in generale tra ebrei e tedeschi non aguzzini; Kurt Dorf, lo zio di Erik, il protagonista dall’altra parte dello sterminio, il suo cervello esecutivo, emblematizzato dall’uso degli eufemismi che furono effettivamente uno dei canali del livellamento e dell’appiattimento delle coscienze nella Germania nazista, assurge al ruolo di rappresentare la coscienza pulita della Germania. Tutti sono salvi: gli ebrei sono stati torturati e annientati ma dal loro « olocausto » emerge a posteriori la validità della via additata dai padri del sionismo; il nazismo, senza connotati di nazionalità, ne esce certamente condannato anche se soltanto o quasi esclusivamente per i suoi crimini razziali; è evitata infine ogni condanna indiscriminata di tipo antitedesco. Ma questa distinzione tra tedeschi e nazisti che è sottesa nel finale edificante, e che in effetti avrebbe potuto costituire uno dei motivi portanti della struttura narrativa e drammaturgica del lavoro, manca nel film, come manca nel libro, perché l’avere isolato le vicende parallele e incrociate di due famiglie dal contesto della società e della storia di cui esse fanno parte non poteva consentire di stabilire i nessi di relazione ma anche le distinzioni di cui è intessuta tutta la vicenda anche di quel microcosmo sociale che è la famiglia, la cui esistenza ha tuttora un ruolo centrale nella società contemporanea, e la cui storia pertanto, anche quando si 1 gerald green, Olocausto, tr. di Katya Gordini, Milano, Sperling & Kupfer, 1979, pp. 511, lire 7500. L’edizione originale è del 1978; l’edizione tedesca è apparsa all’inizio dell’anno 1979 presso lo Hestia-Verlag di Bayreuth, che ne accordò ampi estratti al quotidiano di Springer « Bild ».

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  • « Holocaust », il privato e la storia

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    Ovvero, si potrebbe anche intitolare: un libro, un film, un olocausto. E cercare di capire perché un brutto libro e uno sceneggiato mediocre, non per le inesattezze di dettaglio che contiene, ma per il modo complessivo della sua confezione irrimediabilmente di stampo hollywoodiano, siano riusciti a trasformare una delle più gigantesche tragedie della nostra storia contemporanea, della storia dei fascismi, 1’« olocausto» per l’appunto, insieme in un successo di pubblico senza precedenti, in una occasione di conoscenza e di discussione largamente disattesi, in una sorta di saga familiare che dopo avere toccato l’arsi della tragedia finisce poi per placarsi in un accomodante ed edificante happy end, che racchiude un po’ tutti i messaggi politici che il libro di Gerald Green ’, forse più ancora del telefilm, esplicita in misura sufficientemente trasparente: Rudi, l’ebreo sopravvissuto, addita ai suoi correligionari come unica possibilità di salvezza la via della Palestina (messaggio sionista); rincontro tra Rudi e Inga, la moglie ariana di Karl Weiss, il fratello di Rudi morto in campo di sterminio, sembra il simbolo della riconciliazione non solo familiare ma più in generale tra ebrei e tedeschi non aguzzini; Kurt Dorf, lo zio di Erik, il protagonista dall’altra parte dello sterminio, il suo cervello esecutivo, emblematizzato dall’uso degli eufemismi che furono effettivamente uno dei canali del livellamento e dell’appiattimento delle coscienze nella Germania nazista, assurge al ruolo di rappresentare la coscienza pulita della Germania. Tutti sono salvi: gli ebrei sono stati torturati e annientati ma dal loro « olocausto » emerge a posteriori la validità della via additata dai padri del sionismo; il nazismo, senza connotati di nazionalità, ne esce certamente condannato anche se soltanto o quasi esclusivamente per i suoi crimini razziali; è evitata infine ogni condanna indiscriminata di tipo antitedesco. Ma questa distinzione tra tedeschi e nazisti che è sottesa nel finale edificante, e che in effetti avrebbe potuto costituire uno dei motivi portanti della struttura narrativa e drammaturgica del lavoro, manca nel film, come manca nel libro, perché l’avere isolato le vicende parallele e incrociate di due famiglie dal contesto della società e della storia di cui esse fanno parte non poteva consentire di stabilire i nessi di relazione ma anche le distinzioni di cui è intessuta tutta la vicenda anche di quel microcosmo sociale che è la famiglia, la cui esistenza ha tuttora un ruolo centrale nella società contemporanea, e la cui storia pertanto, anche quando si

    1 gerald green, Olocausto, tr. di Katya Gordini, Milano, Sperling & Kupfer, 1979, pp. 511, lire 7500. L’edizione originale è del 1978; l’edizione tedesca è apparsa all’inizio dell’anno 1979 presso lo Hestia-Verlag di Bayreuth, che ne accordò ampi estratti al quotidiano di Springer « Bild ».

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    pretende essere «storia dal basso», non può essere impunemente rappresentata come una astrazione, tanto meno assunta come simbolo di comportamenti generalizzabili, senza passare attraverso una serie infinita di mediazioni.Io credo che il caso Holocaust (a proposito del quale i superlativi si sprecano — « il più grande fenomeno televisivo di questo dopoguerra » lo chiama « La Repubblica » del 20-21 maggio 1979) — sia più interessante per la risonanza che ha suscitato, e quindi per la ricerca delle ragioni di questa risonanza, che per quello che è in sé il prodotto televisivo. Sotto quest’ultimo punto di vista, è necessario tuttavia sottolineare ancora una volta i limiti di credibilità della confezione che è stata proposta, perché essi rivelano anche probabilmente i limiti della possibilità di accostarsi ad argomenti storici del genere fuoriuscendo dalla scelta di una ricostruzione rigorosamente documentaria, che è certamente la più facile e la più ovvia delle critiche che si possono avanzare. Ora, a me pare che la scarsa credibilità di Holocaust non derivi dalle pur esistenti improprietà (ad esempio la scritta Arbeit macht frei sovrapposta all’ingresso di Buchenwald, laddove essa era tipica di un campo di sterminio come Auschwitz, e non a caso, perché ad Auschwitz il lavoro era una componente organica ed essenziale del processo di distruzione di massa) o dai silenzi (quello quasi totale sull’atteggiamento delle chiese o sul ruolo dell’industria nella gestione dei KZ, che è coerente con la riduzione al privato della vicenda ma non con la sua dimensione storica; l’ambiguità sul ruolo della Wehrmacht e non soltanto delle SS, e via dicendo) o ancora dalla assoluta incredibilità di alcuni episodi (le passeggiate di Inga al campo di Buchenwald o ancora la sua volontaria deportazione a Theresienstadt: tutto ciò è dentro la story ma è completamente al di fuori della history). Essa deriva soprattutto dalla moltiplicazione di coincidenze che vogliono certo conseguire un effetto emotivo sullo spettatore, mettendolo a contatto con personaggi che già conosce e intorno ai quali può esprimere quindi una partecipazione di attenzione e di tensione, ma che rendono per l’appunto familiare la tragedia, privandola della anonimità della sua dimensione.Certo, si può rappresentare questa storia anche attraverso la vicenda concretamente vissuta da persone concrete: metodologicamente sarebbe corretto, altrimenti dovremmo mettere in discussione tanta parte della memorialistica e di fonti per così dire non primarie (penso alle raccolte di lettere di soldati, a quelle curate da Nuto Revelli, ma anche alle ultime lettere dei soldati tedeschi da Stalingrado, ad altre ancora). Ma quello che la vicenda così come è raccontata in Holocaust tende a nascondere è la parzialità di questo tipo di approccio, legittimo ma, per l’appunto parziale. Karl Weiss viene arrestato e, guarda caso, chi è uno dei suoi guardiani, il sergente Mùller, vicino di casa della famiglia Weiss. Rudi ed Helena, la giovane praghese di cui si è innamorato, si danno faticosamente alla macchia e nella loro fuga dai tedeschi verso est, alle porte di Kiev, si imbattono in un tedesco, una vecchia conoscenza, Hans Helms, il fratello di Inga, che li denuncia regolarmente. Presi dai nazisti, i due giovani ebrei riescono a fuggire e, come se non bastasse, si imbattono, guarda caso, tra i rari testimoni, nel massacro di Babi Yar degli ebrei ucraini. E via di questo passo. Il coefficiente di sentimentalismo di cui è intriso tutto il racconto (diverso discorso implicherebbe il rapporto sessuale Erik-Marta evidenziato nel libro, per es. alla p. 98 dell’edizione italiana) contribuirà certamente a far sì che il « Paese-sera » possa titolare « Olocausto » piace e commuove tutti (10 giugno 1979) ma contribuisce anche a degradare la story a love story quasi totale.Uno degli elementi che mettono in evidenza l’oscillazione continua tra la dimensione della tragedia e la banalità e la falsità di cartapesta è a mio avviso l’immagine che viene offerta della famiglia, pur nella contrapposizione delle due parti

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    emblematizzate dalla famiglia Weiss e dalla famiglia Dorf. Credo sia difficile dare una lettura di questo che è certamente un nodo centrale della struttura narrativa ed ideologica dello sceneggiato. Ciò che unifica esperienze apparentemente così diverse è lo stesso stereotipo della famiglia. Al di là di accentuazioni caratteriali divergenti (per restare alla famiglia « ariana », basti pensare alla contrapposizione tra la figura di Inga e quella di Marta) sorge l’impressione che quello che qui veramente si vuole rappresentare non è tanto il dramma di una società spaccata e attraversata dalle tensioni aperte da una crisi che è anche crisi di valori e dalla soluzione che a questa duplice crisi offre il regime nazista, ma piuttosto un modello di vita familiare. Nell’uno caso come nell’altro la famiglia è un rifugio, è il luogo delle solide virtù, della solidarietà tra i membri del gruppo, degli affetti. Certo, non c’è parallelismo di idillio se non di scorcio (la fortuna di vecchi clicheés è dura a morire: mentre si addensano le avvisaglie della tragedia nella famiglia ebraica qualcuno continua a suonare il pianoforte); la scena dell’incontro al Prater tra Heydrich e la famiglia Dorf è di una improbabilità assoluta, né sembra nascondere alcun sottinteso all’infuori del tentativo, forse, di mostrare l’assurda normalità degli omicidi da tavolino, in maniera piuttosto piatta, oleografica e proprio per questo, appunto, scarsamente attendibile. Anche la riduzione degli assassini alla dimensione degli uomini qualunque, del kleiner Mann, ha un limite. La separatezza tra privato e dovere professionale di uno Hòss ad Auschwitz o di uno Stangl a Treblinka (come risulta, quest’ultimo, dall’intervista della Sereny) rivelano una profondità così intrinseca e un così profondo processo di introiezione della gerarchia di valori creata dal nazismo che la scena al Prater tra Heydrich e la famiglia Dorf appare una involontaria caricatura.Limite o incapacità del mezzo televisivo di tradurre determinate atmosfere e determinati processi psichici? O non piuttosto insufficiente scavo o consapevolezza della profondità del problema affrontato da parte degli autori del libro e rispettivamente dello sceneggiato? È questo forse uno dei punti nei quali maggiormente si avverte che è stata sfiorata l’intuizione di un punto nodale della vicenda, ma in cui è mancata la forza e la capacità di portare sino in fondo il discorso. Sulla rottura del modello della famiglia si è infranto il discorso di Green e dello sceneggiato. La rottura del modello avrebbe comportato la scomparsa dell’idillio e di ogni venatura sentimentale, ma per non correre questo rischio bisognava mantenere un modello funzionale a tutta la struttura narrativa. Credo che si possa legittimamente avanzare anche l’interrogativo se in questa struttura fondata sulla contrapposizione tra le due famiglie, al di là dell’intento di ricostruire non solo una storia vista « dal basso » ma anche una vicenda che colpisce emotivamente lo spettatore, gli autori non abbiano compiuto soltanto un recupero storico, ma abbiano proiettato sulla loro storia l’insicurezza di situazioni ben altrimenti attuali. Nei confronti dello spettatore odierno il richiamo alla certezza della famiglia non rappresenta un elemento rassicurante di fronte alla crisi più che evidente di questo come di altri istituti dell’attuale assetto sociale? È uno spunto che è stato intravisto da pochi interpreti di Holocaust, ma sul quale varrebbe forse la pena di ritornare2.Naturalmente, non sembra possibile che i realizzatori dello sceneggiato, che pare contare troppo accortamente sulle emozioni del pubblico, non si siano posti

    2 Mi riferisco tra l’altro a una breve nota di Ferdinando grossi sul « Manifesto » del 27 maggio 1979, p. 3 e all’analisi di Friedrich knilli e Siegfried ziel in sk i, A u sc h w itz lo h n t sich n o c h , in « Konkret », febbraio 1979, pp. 34-36.

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    il problema del tipo di reazioni che questa rappresentazione dei comportamenti familiari avrebbero potuto suscitare. Ne accenno soltanto una, non perché debba essere necessariamente la reazione che di fatto si è prodotta, ma perché può a mio avviso fornire la prova del rischio che è stato corso, di un possibile esempio della ricezione prodotta dall’ambiguità della rappresentazione. In fondo, la spaccatura che attraversa la famiglia « ariana » è quella tra la decisione di non esporsi, di non occuparsi di « loro » (degli ebrei), di non compromettersi e quella di compromettersi contro di loro vuoi per ragioni di carrierismo (Marta-Erik Dorf), vuoi perché, alla fin fine, questo non era che il male minore. Non ne esce eroicizzato Dorf, ma neppure l’ebreo che si getta nella resistenza e che attraverso le peripezie della lotta afferma la superiorità della sua scelta. Direi che ne esce legittimata semmai la posizione più qualunquista, la scelta comunque della mediocrità. Se esporsi voleva dire fare la fine degli ebrei, in fin dei conti non aveva ragione chi giunse a optare per il male minore? Che non era necessariamente la scelta carrieristica di Dorf, una scelta di attivismo già fuori del normale, ma per esempio la semplice scelta del non rifiuto, dell’accettazione più o meno passiva della morale nazista di un Müller. Sono convinto che più di un tedesco oggi, di fronte alle sollecitazioni di Holocaust, ha dato esattamente questa risposta, la risposta del male minore e di qui, appunto, l’ambiguità del tipo di discorso che gli è stato proposto. Credo che in questo senso ha ragione chi afferma che il nazismo ha cambiato la qualità del popolo tedesco, è del resto uno degli obiettivi che si ripromettono i regimi fascisti; e in questo senso gli storici farebbero bene a considerare con maggiore attenzione certe analisi sviluppate dalla psicologia sociale, in particolare per merito dei Mitscherlich3.L’analisi dello sceneggiato attraverso la debolezza della realizzazione porterebbe in evidenza molti altri punti fragili e molte altre zone di ambiguità. Ma a questo punto sottolineare che l’incendio della sinagoga di campagna non è molto diverso dalle fiamme che avvolgono una qualsiasi baracca di legno di un qualsiasi film western non aggiungerebbe né toglierebbe nulla alla valutazione generale dello spettacolo; caso mai, si può dire ancora che la visione a colori ha reso ancora più falso ciò che in bianco e nero aveva parvenza di credibilità. Personalmente, condivido il giudizio di chi, annunciando una proiezione del celebre Notte e Nebbia di Resnais lo ha definito « un documentario molto breve sui campi di sterminio nazisti che vale per profondità, serietà e dignità di immagini tutti gli olocausti di questa terra » 4. Sono però convinto che questo non risolve il problema del successo che ha riscosso, non necessariamente in termini di adesione ma quanto meno in termini di attenzione, lo sceneggiato di Holocaust, né quello dei giudizi che ne sono stati dati, né infine quello delle reazioni che ne sono seguite, né, al di là di ogni altra cosa, quello della possibilità di usare il mezzo in modo « altro ». I dati più indicativi sono ovviamente quelli che offre il dibattito sviluppatosi nella Repubblica federale tedesca, dove l’operazione è stata montata con cura pubblicitaria seconda solo a quella che ha accompagnato la serie in America, dove non è affatto da escludersi l’intento politico di mobilitare i mass media per una operazione tendente a facilitare l’abolizione della

    3 Cfr. di Alexander e Margarete Mitscherlich , l’analisi ormai classica Die Unfähigkeit zu trauern (di cui esiste un’edizione italiana con il titolo Germania senza lutto) e il contributo recente di M. m itscherlich-nielsen , Die Notwendigkeit zu trauern, nel volume a cura di peter märthesheimer e ivo frenzel, Im Kreuzfeuer: Der Fernsehfilm « Holocaust ». Eine Nation ist betroffen, Frankfurt a.M., Fischer Taschenbuch Verlag, 1979, che raccoglie una prima documentazione sulla risonanza nella RFT della serie televisiva.* « Manifesto », 29 maggio 1979, p. 5.

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    prescrizione per i crimini nazisti in discussione proprio in questo 1979; del resto, la stampa non ha nascosto il rapporto tra i due fa tti5.Il dato da cui bisogna partire è che nella RFT, secondo le prime valutazioni, Holocaust sarebbe stato visto da oltre venti milioni di spettatori, vale a dire del 48 per cento degli adulti superiori ai 14 anni, la metà quasi della popolazione adulta complessiva compresa nella sfera di incidenza della televisione tedesca, che in questa circostanza aveva sincronizzato il terzo programma delle sue reti su Holocaust, ivi compresa Berlino-ovest. Solo lo sceneggiato di Radici aveva raggiunto un successo superiore, coinvolgendo il 60 per cento della popolazione. La generazione maggiormente coinvolta è risultata quella tra i trenta e i 49 anni, seguita dai giovani inferiori ai 29 anni e infine dalla generazione dei più anziani, dai 50 anni in avanti6. La televisione tedesca ha deliberatamente innescato una grossa operazione politico-pubblicitaria, a differenza di quella italiana: la Rete 1 della TV italiana che aveva annunciato 1’emissione per l’autunno l’ha anticipata improvvisamente tra maggio e giugno, probabilmente per farla coincidere con la campagna elettorale; non sappiamo se la prospettiva di un maggior lasso di tempo implicava anche una maggior cura nel lancio della serie, che avrebbedovuto essere accompagnata da dibattiti e integrazioni documentarie e informative. Nel caso della TV italiana nulla di questo è avvenuto, né maggiorcontributo hanno dato sotto questo punto di vista il fascicolo speciale del« Radiocorriere » pubblicato dalla ERI, né i numeri normali del « Radiocorriere » stesso7. Semmai, può essere interessante registrare due diversi giudizi che sono stati espressi in margine all’iniziativa della RAI-TV. Il primo è di P. Levi, che in Italia è stato forse, non per iniziativa sua ma per il ruolo che oggettivamente gli è stato attribuito dalla stampa e dalla televisione, colui che ha maggiormente « sponsorizzato » e visto con favore e cauto distacco critico insiemel’operazione Holocaust. Nella presentazione al deludente fascicolo speciale del «Radiocorriere», Primo Levi tende a distinguere tra la verità storica incontestabile dei fatti fondamentali che fanno da cornice al filmato e il suo inquadramento storico; sintetizzando con le sue parole, risulta che « il filmato è decoroso e quasi per intero di buon livello, e soprattutto che non abusa del materiale incandescente su cui è stato costruito... È invece insufficiente, o inadeguato, lo spessore storico della vicenda, e qui il discorso si fa più complicato » 8.

    5 Cfr. ad cs. la « Süddeutsche Zeitung » del 29 gennaio 1979, p. 2, che in relazione alla risonanza di Holocaust riferisce dichiarazioni del ministro federale della Giustizia Vogel che registrano un aumento di consensi a favore deH’abolizione della prescrizione.6 Im Kreuzfeuer: Der Fernsehefilm « Holocaust », eit., pp. 221-224. Gli indici di ascolto relativi all’Italia sono riferiti fra l’altro nell’intervista del direttore della rete 1 a « La Repubblica » citata nel testo; da essi risulta che a parità, o quasi, di intensità dell’ascolto lo choc emotivo in Italia è stato estremamente contenuto, per ragioni di generalizzazione dell’informazione e di maggiore politicizzazione che non trovano riscontro in Germania, oltre che, evidentemente, per la minore misura di coinvolgimento diretto della nazione.7 Alludiamo in particolare allo speciale del « Radiocorriere TV » Le immagini di « Olocausto ». Dalla realtà alla TV, presentazione di primo levi, Torino, ERI, 1979. Quanto agli articoli pubblicati sul « Radiocorriere TV » nei numeri dal 13 maggio al 23 giugno 1979, a parte rapide testimonianze sul terrore nazista in Italia o sulla condizione degli ebrei oggi, l’essenziale è costituito da tre articoli di donald moyer, centrati sostanzialmente sulla storia spettacolare dello sceneggiato più che su quella dei fatti che gli hanno dato origine.s Citiamo dalla presentazione di prim o levi in Le immagini di « Olocausto », cit., pp. 2-5. In precedenza un giudizio, mutatis mutandis, analogo lo stesso scrittore aveva espresso anche a proposito del libro del Green, in « Tuttolibri », 28 aprile 1979, p. 2; dello stesso primo levi si vedano infine le più complessive considerazioni nell’articolo Perché non ritornino gli olocausti di ieri (Le stragi naziste, le folle e la tv), ne « La Stampa », 20 maggio 1979, p. 1, alla vigilia dell’inizio della serie alla TV italiana.

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    Laddove Primo Levi adombra soltanto la critica allo spessore storico insufficiente, un uomo di cinema come Fernaldo Di Gianmatteo dà un giudizio complessivo molto più impietoso e in certo senso anche accusatorio, riecheggiando voci di insoddisfazione:

    Ora perché si sente mormorare in giro che lo sceneggiato è meno efficace di quanto si sperava, che non dice nulla di nuovo e quel che dice di vecchio lo annega nel brodo lungo di fatti atroci cui converrebbe il tono della tragedia e non il tono della minuziosa narrazione documentaria? Probabilmente perché la magia del rito collettivo (con molta sapienza orchestrato dalle public relations cine-giornalistico-televisive) non è in grado di sortire lo scopo di far conoscere la verità. Tutti vorrebbero sapere e comprendere, specialmente i giovani. E di volta in volta aspettano la rivelazione che non viene.Scoprire la realtà del nazismo — sistema politico ferocemente e inflessibilmente coerente — è bisogno e compito di ognuno, oggi come ieri. Ma non è faccenda magica. Forse nonè neppure faccenda di spettacolo... È proprio soltanto colpa dell’equivoco che sta all’ori-gine del singolare episodio, quello che ha fatto scambiare un film (di impianto tradizionale) per una auspicata lezione di storia.Ma, siamo sinceri, chi si è mai attesa la scoperta della verità da uno sceneggiato televisivo?... Stavolta, invece, allo spettatore han fatto credere che si andava a lezione di storia e che attraverso la magia del piccolo schermo di casa ci si sarebbe trovata dinanzi agli occhi, chiara e completa, la realtà. Si è dimenticato di spiegare che la realtà non consiste in una serie di fatti messi diligentemente in fila ma in ciò che resta sotto, dietro e intorno ai fatti. Apposta lo si è dimenticato9.Il discorso di Di Gianmatteo non è in contraddizione con quanti avevano auspicato che, una volta operata la scelta di mandare sul video Holocaust, se ne cogliesse l’occasione per attivare una discussione e colmare il deficit di informazione, un auspicio abbastanza diffuso10, ma andato anche in misura altrettanto completa, deluso. Non ha contribuito a legare all’occasione offerta da Holocaust la deviazione del discorso che da qualche parte si è operata con dubbia sensibilità politica e pubblicistica esclusivamente sull’attualità dell’antisemitismo oggi, senza valutarne i nessi con le sue radici storicheu; né la preoccupazione presente anche nella pur interessante ma laterale rubrica messa in onda dalla TV, Olocausto italiano, perché, di minimizzare e sdrammatizzare le responsabilità del fascismo italiano, anziché di insistere e di approfondire il tema di queste responsabilità. Per quanto sia vero che la messa in onda in Italia ha incontrato un pubblico ben altrimenti politicizzato di quello della RFT, quindi comunque, sommariamente o meno, più informato, resta il fatto che il nodo delle responsabilità del fascismo andava affrontato senza riserve: non basta dire che i nazisti erano peggio, perché i nazisti hanno potuto operare come operarono anche grazie alla complicità, alle omertà e ai silenzi dei fascismi paralleli e di tanti « piccoli uomini » in tutta Europa. Per tornare all’Italia, senza il lavoro predisposto dai fascisti dal 1938 in poi il rastrellamento della comunità ebraica italiana dopo l’8 settembre 1943 da parte dei nazisti sarebbe stato molto

    ’ fernaldo di gianmatteo, Incauto « Olocausto », in « Radiocorriere TV », 24-30 giugno 1979, p. 94.10 Dal nostro articolo occasionato dal dibattito con il neofascista francese Faurisson alla TV di Lugano sul « Paese-sera » del 22 aprile 1979, p. 3 alle considerazioni di Giovanni cesareo nell’articolo Discutere per non dimenticare, ne « l’Unità » del 20 maggio 1979, p. 11, per non citare che due voci rappresentative di un modo di sentire certo assai diffuso; le considerazioni di Cesareo assieme all’articolo dello stesso autore L ’« operazione » Olocausto, a conclusione del ciclo, ne « l’Unità » del 19 giugno 1979, p. 8, restano tra le cose più equilibrate che abbiamo potuto leggere sull’argomento.11 Alludiamo all’« inchiesta » pubblicata da « L’Espresso » nel numero del 20 maggio 1979, alle pp. 80-97, lodevole nelle intenzioni ma mediocre nella realizzazione e incapace di operare distinzioni nella categoricità dell’affermazione contenuta nella formulazione « l’antisionismo è il nuovo antisemitismo ».

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    meno agevole. Verità molto semplici, che tuttavia è sempre bene ricordare quando si vuole ad ogni costo evitare di essere confusi con i nazisti, come se si trattasse di difendere onorabilità personali e non di analizzare un processo storico.Per varie vie la reazione critica in Italia, ancorché limitata a un panorama parziale di voci, mi pare caratterizzata dall’impressione che lo sceneggiato abbia rappresentato sostanzialmente una occasione mancata di per sé12, cui si è aggiunta l’occasione mancata dalla RAI-TV di trasformare la confezione hollywoodiana in una « provocazione positiva » 13. Può essere una nostra del tutto privata ipotesi, ma ciò che è mancato in assoluto in Italia è stata una strategia politica dell’uso che si poteva fare di Holocaust. Ritengo anch’io che mentre mezza Europa proiettava o si apprestava a proiettare Holocaust sarebbe stato assurdo e impossibile che l’Italia si sottraesse a una sollecitazione del genere e sotto questo profilo alcune sensate considerazioni di Luigi Pintor, al di là di apprezzamenti specifici più o meno criticabili, mi paiono sufficientemente probanti (Olocaust, storia nostra)I4. Ma ciò che è disarmante è il candore con il quale il direttore della Rete 1 della TV Mimmo Scarano sembra difendere, nell’intervista a « La Repubblica » del 23 giugno 1979 (p. 16), la scelta operata con argomenti essenzialmente a posteriori, vale a dire in base all’indice del successo e dell’ascolto registrati anche in Italia, certamente molto alti, anche da noi e non meno inferiori a quelli di Radici. E c’è quasi da augurarsi che sia proprio così, perché dal seguito dell’intervista si dovrebbe dedurre che se mai un significato politico si sarebbe dato all’operazione, questo sarebbe stato un ritorno ai temi più vieti del nazismo come irrazionalismo e, come è noto, quale migliore campo, per cavalcare questa tesi, dell’antisemitismo?Se torniamo all’esperienza della televisione tedesca, ci rendiamo facilmente conto e dell’apparato di public relations che è stato costruito in questa occasione e delle ragioni di uno choc che non ha avuto riscontro in alcun altro paese. Il fatto era ovviamente scontato in partenza, la Germania e il popolo tedeschi essendo coinvolti in persona prima nella vicenda; lo scontro emotivo era perciò prevedibile: ma la realtà ha operato in effetti ancora più in profondità di quanto non potesse anticipare l’immaginazione. La cura con cui è stata preparata la messa in onda dello sceneggiato conferma il proposito di canalizzare una informazione di massa secondo un modello centralizzato. Tilman Ernst, uno dei responsabili della Bundeszentrale fùr politische Bildung di Bonn lo ha esplicitamente dichiarato: « Con l’ausilio del mezzo televisivo viene messo in discussione tra milioni di cittadini un determinato problema, ciò che sarebbe possibile conseguire soltanto presso un numero relativamente esiguo di cittadini operando unicamente con gli strumenti e le misure della politische Bildung». La sua centrale distribuì in preparazione della emissione centinaia di migliaia di esemplari di materiali di lettura e di appoggio alla comprensione e alla interpretazione del filmato. Quindi era ben noto su quale terreno veniva a cadere la proiezione: un pubblico diseducato, assuefatto per molti versi alla « dura concorrenza » della Hitler-Welle (sotto forma di film, libri, rotocalchi), ai milioni di esemplari di stampa e opuscoli patriottico-combattentistici, nostalgici e via dicendo.

    1! Questo è nella sostanza il giudizio che si ricava dai diversi interventi pubblicati ad esempio nel numero di giugno 1979 del « bimestrale ebraico torinese » « Ha Keillah » - « La Comunità », non a caso centrato sul tema Da « Holocaust » alla prescrizione.13 L’espressione è di g. cesareo nell’articolo cit. L ’« operazione » Olocausto.14 Nel « Manifesto » del 1° giugno 1979, p. 1.

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    Certam ente — scrive T. Ernst — non si può definire la serie di Holocaust come un contributo propriamente ottimale per lo sviluppo della conoscenza storica, che appare urgente soprattutto nei giovani, sebbene le testimonianze essenziali offerte dalla serie siano storicamente documentate e le prime valutazioni di una indagine empirica della serie mostrano che sono state comunicate in misura notevole anche conoscenze storiche. D ’altra parte neppure 100 ore di serio insegnamento della storia tedesca garantiscono sempre il successo auspicato, come mostra non da ultimo l’indagine condotta da Dieter Bossmann 15.

    A differenza quindi della TV italiana, quella tedesco-federale ha esplicitamente concepito la trasmissione di Holocaust come una lezione di storia. Storici, sociologhi, politologhi, psicoioghi son stati chiamati a discutere intorno ai problemi sollevati dallo sceneggiato e soprattutto sollecitati dagli spettatori: 30 mila chiamate telefoniche agli studi della televisione in cinque giorni sono il bilancio di questo coinvolgimento del pubblico 16. Tutto positivo, dunque? È troppo presto per valutare con esattezza lo scatenamento di interesse, soprattutto nei giovani, che la trasmissione ha comportato. Bisognerebbe anzitutto conoscere il tenore delle chiamate telefoniche, soprattutto di quelle che non si limitavano a esprimere esigenze informative ma manifestavano stati d’animo, di adesione o di disgusto, anche di disgusto politico contro la diffamazione di cui ci si rendeva complici ai danni della Germania. Con la stessa tempestività con la quale a metà febbraio, a due settimane quindi dalla messa sul video della serie, che nella RFT è stata concentrata nella seconda metà di gennaio, l’editrice Fischer poteva pubblicare nella sua collana di tascabili il volume al quale attingiamo largamente in questa nostra rassegna, per la fine dell’anno il Westdeutscher Rundfunk, che è una delle sedi della rete televisiva della RFT che con maggiore convinzione si è impegnata nell’iniziativa, annuncia l’uscita di una ampia indagine sulla risonanza della serie con una documentazione delle lettere e delle chiamate telefoniche ad esso pervenute 17.Ma già le lettere ai giornali pubblicate da alcuni quotidiani e periodici possono fare intravedere il tipo di accoglienza presso un pubblico abbastanza indifferenziato. Sarebbe assurdo ricercare una reazione media, operare generalizzazioni; su dieci lettere che approvano o disapprovano ce ne può essere anche una sola che dal punto di vista sintomatico può risultare più interessante e valida di tutte le altre. « Non ne sapevamo davvero nulla? » è il titolo con il quale il settimanale t Die Zeit » (nel numero del 2 marzo 1979) ha inquadrato gli interventi dei lettori su Holocaust, dove in mezzo ad autocritiche laceranti quanto spesso irrazionali, tentativi di valutazioni critiche, testimonianze di impotenza, la tentazione ricorrente è ancora una volta la rimozione o il ribaltamento delle responsabilità chiamando in causa altre vicende. La fame in India e nel terzo mondo, le torture in tante parti del mondo, il Vietnam, la Cambogia, perché non parlare di tutto ciò? « Un giorno i nostri figli ci domanderanno anche questo: ma insomma non ne sapevate niente? ». E un altro lettore, tardo epigono spengleriano, sentenzia con molta sicumera: « Holocaust non è un affare specificamente tedesco, ma

    15 Dall’intervento di tilman ernst, « Holocaust » aus der Sicht der politischen Bildung, nel voi. Im Kreuzfeuer: Der Fernsehfilm eit., pp. 311-316; l’indagine cui si richiama lo Ernst è raccolta nel volume di Dieter bossmann, « Was ich über Adolf Hitler gehört habe... ». Folgen eines Tabus: Auszüge aus Schüler-Aufsätzen von heute, Frankfurt a.M., Fischer Taschenbuch Verlag, 1977, su cui si può vedere la nostra scheda nella « Rivista di storia contemporanea », 1978, n. 3, pp. 453-454.16 Dati riprodotti nel voi. cit. Im Kreuzfeuer: Der Fernsehfilm « Holocaust », p. 230.17 Anticipazioni dell’inchiesta del WDR nell’art. di Michael schwarze, Die Wirkung von « Holocaust », nella « Frankfurter Allgemeine Zeitung » del 4 maggio 1979, p. 25.

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    il problema della bestia in sé, dell’animale da preda organizzato». Per molti lettori della «Süddeutsche Zeitung» (cfr. il numero del 2 febbraio 1979, p. 35) si è trattato di una ulteriore provocazione antitedesca: « Da 34 anni — scrive una lettrice — il mondo viene istigato solamente contro i malvagi tedeschi. Non penso affatto di dover tornare ogni giorno a vergognarmi di essere tedesca ». Un lettore della « Frankfurter Allgemeine Zeitung » (2 febbraio 1979, p. 10) incomincia la sua lettera con questa promettente constatazione: « Il tedesco ha sempre avuto la fatale tendenza a lordare il suo nido ».Reazioni discutibili, ma comprensibili e comunque da tenere presente se si vuole capire la profondità dello choc, che cosa c’è dietro, come si suol dire. Meno comprensibili quando provengono da uomini politici di alte responsabilità. Franz Josef Strauss, uno che non è uno sconosciuto, ad esempio, ha subito levato l’accusa di falsificazione della storia: la serie infatti avrebbe sollevato l’impressione « che brutalità ed orrori di questo tipo siano per così dire una specificità tipicamente tedesca ». Di conseguenza la credibilità, e c’è da immaginare: l’obiettività, della televisione della RFT non sarà restaurata sin quando essa non offrirà in serie analoghe «altri raccapriccianti capitoli della storia contemporanea»: « per esempio il dramma di Katyn con la fucilazione di migliaia di ufficiali polacchi ad opera della polizia segreta sovietica; la consegna dei cosacchi all’Armata rossa e la loro uccisione; la consegna contro la parola data dell’esercito ungherese ai partigiani di Tito, che ne uccisero immediatamente due terzi; gli orrori dell’espulsione (dei tedeschi dall’est), gli orrori di certi campi di prigionieri di guerra in Russia e in Jugoslavia » 18. Franz Josef Strauss non è un lettore comune, ma sa cavalcare la tigre di certi umori popolari.Chi ha detto « che brutalità ed orrori di questo tipo siano per così dire una specificità tipicamente tedesca? ». Nessuno, non lo dice neppure, anzi meno che meno, Holocaust. Ma sta di fatto che a sterminare gli ebrei e altri gruppi etnici, razziali e politici sia stato il regime nazista in Germania: si tratta o no di un fatto che appartiene alla storia tedesca? In secondo luogo la teoria della equivalenza delle colpe sarà politicamente pagante, ma dal punto di vista storico non significa assolutamente nulla. E a nostro modesto avviso, ma è l’avviso di un laico miscredente, neppure dal punto di vista morale. L’insidia demagogica che si nasconde nelle parole di Strauss oltrepassa probabilmente anche le sue intenzioni. La stampa neonazista se ne è impadronita prontamente: un giornale neonazista invita a dare la risposta alla « propaganda degli orrori antitedesca » sottoscrivendo un abbonamento a suo favore. Ma fa dippiù, distorce il significato dello stesso termine di Holocaust con sapiente premeditazione. Due titoli della « Deutsche Nationalzeitung » del 6 luglio 1979: Holocaust der Ost- und Sudetendeutschen (p. 3, L ’olocausto dei tedeschi dell’est e dei tedesco-sudeti); Der Holocaust an den deutschen Städten (p. 5, L ’olocausto delle città tedesche, a proposito dei bombardamenti aerei alleati). La conclusione è molto semplice: l’appiattimento dei fatti e il livellamento delle responsabilità, tutti sono colpevoli e tutti nella stessa misura. Non è un gioco di parole, è una operazione politica ben meditata: se tutto è olocausto, nulla è più olocausto. Non c’è cioè soltanto l’obiettivo di ribaltare sugli altri le responsabilità, secondo un vecchio schema neonazista che la proiezione di Holocaust ha contribuito a risvegliare, c’è qualcosa di più: il

    18 Testo pubblicato sulla « Welt am Sonntag » (catena Springer) e riprodotto nel « Bayern- Kurier » del 3 febbraio 1979, p. 1; gli stessi argomenti sono ripresi nello stesso numero del settimanale bavarese in un articolo di thomas engel di attacco frontale alla politica della televisione ma diretto nella sostanza al governo socialdemocratico.

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    tentativo di ottundere completamente la sensibilità, di minimizzare e sdrammatizzare, quando non addirittura di negare, le responsabilità del nazismo, perché con quel regime, con quel tipo di Germania, con quel Reich, costoro si sono in passato identificati e, per quanto sopravvivono, continuano a identificarsi. Può solo meravigliare che ci sia ancora chi crede che la RFT, che si contende il secondo posto tra le potenze industriali del mondo, sia vittima di una congiura e di una provocazione permanente dalla fine della guerra. Il pericolo del neonazismo è questo, non è l’esistenza di un partito neonazista. Le meraviglie che si fanno i partecipanti alle tavole rotonde promosse intorno alla proiezione di Holocaust hanno poco senso se non ci si interroga su che cosa è successo o non è successo in Germania dal 1945 ad oggi. Il senso di sicurezza economica di cui gode oggi il tedesco-occidentale medio non implica necessariamente che egli sia in grado di fare i conti con la propria storia, anche perché è stato abituato a ragionare con altre categorie di giudizio, con altre scale di valori.Holocaust, scrive un critico della FAZ, « ha gettato nella confusione molti redattori della televisione — e non soltanto loro —. Dal 1958, è stato più o meno obiettato — il solo WDR ha programmato quaranta sceneggiati e film sullo stesso argomento. Si tratta di ripensare tutta la nostra estetica? » 19. Ma il problema non è estetico, né solo di politica culturale; è politico tout court. Nessuno dubita dell’onestà degli storici, dei Kogon (e chi meglio di lui sa che cosa è Lo stato delle SS), dei Broszat, degli Scheffler. Ma essi stessi non riescono a sciogliere il senso di impotenza che ha sinora circondato il loro lavoro. L’« antifascismo burocratico », per dirla con Fritz W. Haug, che improvvisamente si è impadronito della centrale dei mass media e di quella dell’educazione civica (la politische Bildung), è sicuro che sia questo il modo migliore per recuperare trenta e più anni di silenzio, non nella separatezza dello specialismo ma nella divulgazione anche dell’informazione con cui nella vita quotidiana si crea una coscienza politica che non è dissociabile dalla memoria storica come memoria di individui e della collettività nel suo insieme, intorno ai problemi centrali dello sviluppo della Germania dalla prima guerra mondiale in poi?Si è molto discusso sull’estetica di questo film e credo che esso abbia finito per essere accettato soltanto perché « la somma di verità che vi è in esso è più grande di tutte le falsificazioni», come si è espresso D.E. Zimmer20. Bruno Bettelheim ha acutamente avvertito il pericolo che alle rimozioni del passato potesse far seguito una risposta puramente emotiva basata sulla stessa cifra linguistica del titolo: « L’uso di concetti tecnici o di concetti sviluppati per scopi benefici in luogo di espressioni della lingua comunemente parlata è uno dei più noti meccanismi difensivi, che fanno sì che i momenti di esperienza intellettivi vengano sostituiti da quelli emotivi». Perché, è la domanda di Bettelheim, par

    19 Michael schwarze, Ein Volk begegnet seiner Schuld, nella « Frankfurter Allgemeine Zeitung » del 1° febbraio 1979, p. 19.20 Nell’articolo di dieter e . Zim m er , Holocaust-Melodrama vom Massenmord, in « Die Zeit », 19 gennaio 1979, pp. 23-26. Questo settimanale ha dedicato all’argomento due Dossier, il primo appunto in data 19 gennaio e il secondo, a conclusione del ciclo televisivo, il 2 febbraio 1979, con scritti dello stesso d. e . zim m er , di dietrich Strohmann e Walter jen s. Tra gli interventi pubblicati nelle settimane successive vanno segnalati, da punti di vista molto diversi, quelli di H. boll, d. forte e F. RADDATZ (Holocaust und die Folgen, nel numero del 9 marzo 1979, pp. 64-65) e di jurgen thorwald, Holocaust -eine Bilanz. Der Mythos von der Macht der Juden (nel numero del 4 maggio 1979, p. 16).Da ricordare infine che tra marzo e aprile il supplemento a colori « Zeit-Magazin » ha anticipato la rievocazione di dan kurzmann, Das Ghetto. Kampf und Tod der Juden in Warschau, annunciata in volume per i tipi dell’editore Bertelsmann.

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    lare di Holocaust al posto, più semplicemente, di assassinio in massa (Massen- mord)? 21. Seguire tutte le pieghe che ha assunto il dibattito nella RFT è impossibile: il volume più volte citato dell’editrice Fischer rappresenta al riguardo un primo punto di riferimento importante; gli altri vanno rinvenuti nella stampa, da settimanali come « Die Zeit » o « Der Spiegel » ai quotidiani22. Gli spunti sono infiniti. Fra l’altro, per quel tanto che ci è stato possibile controllare, la stampa tedesca ha seguito con comprensibile attenzione la risonanza del dibattito fuori della RFT: in Austria23, in Francia24, in Olanda25, in Polonia26, in Scandinavia 27, in Giappone28 e in generale all’estero29 — certamente, una attenzione acuita dalla campagna degli ultimi anni a favore di una « immagine » della Germania più accreditabile di quella offerta dal « modello » della democrazia protetta (o superprotetta). Ma altrettanto certamente distratta appare l’eco che questo dibattito ha suscitato in Italia.Come valutare l’ondata emotiva che ha scosso il pubblico della RFT? A leggere i più autorevoli organi della stampa tedesco-occidentale è avvenuta la rottura delFincantesimo, di un tabù. « Der Spiegel » (del 29 gennaio 1979): « Nella casa del boia si è parlato di corda come mai in precedenza. Holocaust è diventato il tema numero uno della nazione»; «Frankfurter Rundschau» (del 29 gennaio 1979): « Holocaust ha distrutto un tabù per troppo tempo non avvertito — soprattutto nelle generazioni non gravate da complessi di colpa o da senso di disagio. Con l’aiuto di un outsider pedagogico sono stati dati spunti che nell’ipotesi ideale potrebbero far sì che fossero recuperati le occasioni perdute nel dopoguerra da un’intera nazione»; « Stern » (Io febbraio 1979): «Non ci sarebbe stato bisogno di questo polpettone statunitense di Holocaust per dimostrare che questa < soluzione finale della questione ebraica > è unicamente cosa che interessa i tedeschi». La congiura del silenzio è rotta intitola una delle sue sezioni il volume del Fischer Taschenbuch Verlag. Ma «congiura del silenzio»: come, perché, da chi promossa? Per una curiosa coincidenza questa storia cade nel trentesimo anniversario della creazione dei due stati tedeschi, a quarant’anni dallo scoppio della seconda guerra mondiale, a trentaquattro dalla sua conclusione e dal crollo del Terzo Reich. Dopo i processi di rimozione così acutamente analizzati anche in questa occasione da Margarete Mitscherlich-Nielsen, l’esplosione di Holocaust

    11 Nel Dossier cìt. di « Die Zeit » del 19 gennaio 1979 (estratto di un articolo del Bettelheim apparso in « Der Monat » del dicembre 1978).22 Una citazione a parte merita almeno « Der Spiegel », per la sua influenza e per l’assiduita. con la quale ha seguito la vicenda, quasi ininterrottamente, si può dire, dalla metà di gennaio ■— dalla prima informazione sull’arrivo di Holocaust sul video (nel numero del 15 gennaio 1979, pp. 133-134) alle posteriori risonanze. Una prima serie di valutazioni in particolare nel numero del 29 gennaio 1979, la cui copertina è composta con immagini dello sceneggiato,al quale è dedicata la parte di apertura del fascicolo, con interventi fra l’altro del suo direttoreRudolf a u gstein , di heinz höhne (redattore del settimanale e autore di un libro sulle SS), di Gerhard m auz ed estratti di documenti da processi per criminali nazisti.Anche « Der Spiegel » a partire dall’inizio di febbraio ha anticipato a puntate la rievocazione del campo di sterminio di Auschwitz di wieslar kielar destinata poco dopo a uscire con il titolo Anus Mundi. Fünf Jahre Auschwitz presso il Fischer Verlag.23 Cfr. « Süddeutsche Zeitung » del 6 marzo 1979, p. 29; ed anche il n. 4, dell’aprile del 1979, delle « Mitteilungen » del Dokumentationsarchiv des österreichischen Widerstandes. È chiaro che non abbiamo sotto mano le fonti dirette della stampa austriaca.24 « Frankfurter Allgemeine Zeitung », 16 febbraio 1979, p. 23.25 «Süddeutsche Zeitung», 10 marzo 1979, p. 31.24 « Frankfurter Allgemeine Zeitung », 2 febbraio 1979, p. 27.27 « Süddeutsche Zeitung », 23 marzo 1979, p. 10.2! « Der Spiegel », 12 febbraio 1979, pp. 128-129.29 « Frankfurter Allgemeine Zeitung », 19 febbraio 1979, p. 18.

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    non poteva non fare l’effetto di una catastrofe naturale. Ma il problema è di sapere se come tante catastrofi naturali passerà anche questa sulla testa degli interessati senza lasciare né vittime né danni, ossia senza aprire un approfondito processo autocritico e di autentico rinnovamento. Non si può ipotecare il futuro e predire che tutto tornerà come prima, una volta sfogato l’urlo della bufera. Il discorso sulla «congiura del silenzio», per male che sia formulato il problema, è un discorso serio. Rimette in discussione trenta e più anni di storia, richiama eventi, sviluppi, responsabilità. Invita anche, se non si vogliono ripercorrere i passi sbagliati, e perduti, a cambiare strada. Ma come? Non è solo acquisendo più conoscenze storiche, imbottendo a partire da oggi i tedeschi di una migliore conoscenza della storia del nazismo, che si risponde a questo quesito. Memoria storica e coscienza politica a questo punto sono tutt’uno. Nella loro radicaliz- zazione gli interrogativi inquietanti che pongono due scrittori notoriamente non conformisti colpiscono indubbiamente nel segno.Non condivido il radicale pessimismo di Erich Kuby, ma come dargli torto quando in una lettera alla « Frankfurter Allgemeine Zeitung » del 16 febbraio 1979 sottolinea che cosa significherebbe veramente prendere coscienza per l’oggi, e non soltanto per la memoria storica, di che cosa è stato YHolocaust, con riferimento a un caso ben reale e concreto?

    Per dire una cosa assolutamente penosa — scrive Kuby —: la televisione tedesca I o II non m etterà mai in onda una analisi di Holocaust in cui si veda Schleyer girare per Praga accanto ad Heydrich e più tardi come consigliere del cancelliere federale. Per quanto io so, l’industriale ucciso non è mai stato ad Auschwitz né a Treblinka, non ha ucciso nessuno, ma senza la collaborazione di élites tedesche, realmente partecipi o meno, la « soluzione finale » non sarebbe stata possibile neppure durante la guerra. Soltanto in questo modo si lavora a fare la storia.

    A sua volta, nel contributo più volte citato al volume del Fischer Taschenbuch Verlag, la Mitscherlich si domanda, con riferimento ai processi di politicizzazione e alla frattura generazionale emersi nella RFT negli anni sessanta:

    Da allora, aumenta o diminuisce nella Repubblica federale la tolleranza di sopportare opinioni dissenzienti, in particolare quelle che mettono in discussione i valori correnti o l’immagine che di sé hanno i tedeschi?Come sappiamo, la reazione comune alla divulgazione degli assassinii in massa nei campi di concentramento fu fiacca o caratterizzata da un senso istintivo di rifiuto. Sino ad oggi ben pochi si sono interessati dei processi che riguardano coloro che hanno partecipato agli assassinii. Al processo di Majdanek, uno dei più grossi processi relativi al nazionalsocialismo, che si svolge attualm ente a Düsseldorf, il pubblico non prende parte, la maggior parte della gente non sa neppure che esso ha luogo. Come è generalmente noto, da quando si tengono processi per fatti del nazismo, è stata condannata una percentuale assai esigua di coloro che presero parte ai crimini del nazismo, e di essi pochi a pene detentive di una certa entità. Viceversa, ben altra è stata la reazione alle azioni dei terroristi in Germania. In questi casi sono state chieste con ogni intransigenza la persecuzione e la condanna illimitata di ogni singolo. L ’intera opinione pubblica tedesca prende parte con forte emozione alla condanna dei terroristi, con il che evidentemente qui non si vogliono minimizzare i loro crudeli e insensati assassinii. E tuttavia, se confrontati con le fiacche reazioni ad assassinii in massa di una inimmaginabile crudeltà, non possono non stupire particolarmente le reazioni che spesso sconfinano nell’isterismo alle gesta di pochi attivisti in posizione marginale. Esse sono state sufficienti ad esporre un ’altra volta a violenti attacchi la democrazia, i cui fondamenti poggiano come sempre sulla libertà di pensiero e di opinione. Ben diversa, rispetto a coloro che presero parte ai misfatti di H itler o ai suoi fiancheggiatori, è stata ora l’eccitazione nei confronti dei cosiddetti « simpatizzanti ». Chi cercava anche soltanto di capire o di spiegare che cosa spinse i terroristi a comportarsi come si comportavano o alle loro gesta insensate, veniva considerato meritevole di persecuzione e taluno di coloro che osò sottoporre a critica la scala dei valori esistenti e i modi di agire politici ad essi conformi, fu considerato ispiratore della «scena terroristica».

    Si tratta di due interventi provocatori, certo, ma in essi si riflette più realtà,

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    più verità e più storia che in tante lacrimogene e vuote recriminazioni. Forse anche la « congiura del silenzio » può incominciare a trovare una risposta in queste provocatorie citazioni. E proprio nel bilancio appena uscito di questo primo trentennio della repubblica tedesca ad opera di un gruppo di uomini, di «vecchi arrabbiati», che nel 1945 credettero a una vera rinascita della Germania, il filo conduttore, il Leitmotiv che unisce i motivi di delusione e di critica che ciascuno degli autori delinea sotto punti di vista diversi è la mancata denazificazione, nel senso più ampio dell’espressione, il mancato rinnovamento in tutti i campi della società tedesca30. Senza dare contorni precisi a questa « congiura del silenzio » nessun Holocaust della storia servirà a smuovere e a cambiare niente. È certamente positivo che l’ondata emotiva abbia già scosso qualche cosa, che il Diario di Anna Frank sia tornato tra i bestsellers, che siano stati messi in circolazione negli ultimi mesi più libri di buona divulgazione sul Terzo Reich di quanto non fosse accaduto in molti anni passati31. Ma tutto ciò rischia di essere inutile o di rimanere quanto meno alla superficie se non è accompagnato da un processo generale di riflessione critica e autocritica che coinvolga tutte le componenti della società tedesca. Il povero Adorno è stato certo una delle più illustri vittime di questa ondata di Holocaust, citato a proposito o a sproposito come gli è toccato di essere. Ma se un senso si deve dare alla sua frase secondo la quale dopo Auschwitz non sarebbe più possibile scrivere di poesia, questo è soltanto uno: che è su Auschwitz che bisogna riflettere, che dopo Auschwitz il mondo è cambiato, è diventato diverso e che, per dirla con Detlev Claussen, « dopo l’esperienza del fascismo non è più possibile la distinzione tradizionale tra estetica e politica, tra critica della cultura e critica della società». Che in definitiva, per riprendere il titolo dell’articolo del Claussen, ancora una volta « la storia è il presente » 32 33.

    ENZO COLLOTTI

    30 Ci riferiamo al volume a cura di axel eggebrecht, Die zornigen alten Männer. Gedanken über Deutschland seit 1945, Reinbek, Rowohlt, 1979, che comprende contributi di W. Aben- droth, H. Albertz, J. Améry, W. Graf Baudissin, H. Boll, B. Engelmann, W. Fabian, O. Flechtheim, E. Kogon, F. Sänger.31 È impossibile fare un bilancio di quello che « Der Spiegel » ha chiamato lo « Holocaust- Boom sul mercato librario », compresa la ristampa di molti libri già editi in passato ora ricomparsi con la parola Holocaust nel titolo. Ci limitiamo soltanto a segnalare alcuni dei testi più significativi apparsi negli ultimi mesi con riferimento diretto alle suggestioni suscitate dalla problematica dello sceneggiato nei suoi contenuti e nella metodologia d’approccio (la quotidianità ecc.) alla storia del Terzo Reich. Il solo Rowohlt ha lanciato nella serie dei popolari Rororo: Harald focke - u w e reim er , Alltag unterm Hakenkreuz. Wie die Nazis das Leben der Deutschen veränderten (antologia divulgativa di testi non sempre facilmente accessibili); ebbo demant (a cura di), Auschwitz- « Direkt von der Rampe weg... » Kaduk, Erber, Klehr: Drei Täter geben zu Protokoll (interviste a tre condannati del processo di Auschwitz); hörst Bürger, Warum warst du in der Hitler-Jugend? Vier Fragen an meinem Vater (ristampa di un libro destinato ai giovanissimi già uscito nel 1976 ed ora tornato di attualità in margine al problema del rapporto generazionale). Certo sull’onda di questa nuova domanda di informazione è nato quello che a nostro avviso è uno dei libri migliori, scritto appositamente per un pubblico giovane da max von der grün, Wie war das eigentlich? Kindheit und Jugend im Dritten Reich, Darmstadt-Neuwied, Luchterhand, 1979, felice intreccio di storia e vicenda autobiografica. Molti anche i titoli specifici intorno a Holocaust (un paio di esempi: m . stöhr , Erinnern nicht vergessen. Zugänge zum Holocaust, München, Chr. Kaiser, 1979; ch . Zentner, Anmerkungen zu « Holo- kaust », München, Delphin, 1979).Una biblioteca a parte sarebbe costituita dalla moltitudine di libri relativi non tanto allo sterminio degli ebrei quanto ai rapporti storici tra tedeschi ed ebrei, ristampati o pubblicati ex novo negli ultimi mesi.33 Ci riferiamo all’articolo di Detlev claussen , Geschichte ist Gegenwart. Holocaust im deutschen Fernsehen, in « Links », marzo 1979, pp. 10-11.