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IL QUADERNO SI PUBBLICA CON IL PATROCINIODEL CONSIGLIO REGIONALE DI BASILICATA

GAETANO CAPPELLI, GIUSEPPE LUPO, RAFFAELE NIGRO

MIMMO SAMMARTINO, MARIOLINA VENEZIA

OLTRE SINISGALLII mutamenti nella scrittura lucana e meridionale

a cura di

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COMUNE DIMONTEMURRO

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I N D I C E

Dalle radici in viaggio verso il futuro, cosa ci insegna SinisgalliPiero Lacorazza

I Quaderni tra memoria e ForgiaBiagio Russo

OLTRE SINISGALLII MUTAMENTI NELLA SCRITTURA LUCANA E MERIDIONALE

Gaetano Cappelli Giuseppe Lupo Raffaele Nigro Mimmo Sammartino Mariolina Venezia

LA FORGIA DI SINISGALLI

Leonardo Sinisgalli e Filippo Borra, Biagio RussoPassione per il disegno, Leonardo SinisgalliPiccoli viaggi, Leonardo SinisgalliLeonardo Sinisgalli e la poetica dell’oggetto, Giovanni Caserta

LA FORGIA DELLA FONDAZIONE

Elis Island di Silvio Ramat: da un esilio a un ElisioLuigi Beneduci

Almanacco 2015 (non solo) Social delle Muse

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La relazione di Luigi Beneduci è stata presentata in occasione della se-rata dedicata a Silvio Ramat e al suo libro, Elis Island. Poesie da un esi-lio (Mondadori, Milano 2015), il 15 Novembre 2015 a Montemurro, nell’ambito della quarta edizione del Furor Sinisgalli.L’incontro è stato coordinato da Mario Di Sanzo (presidente della Fon-dazione). L’autore ha duettato con l’attrice Nicole Millo. Gli intermezzi musicali sono stati a cura di Daniele Lerose.

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LUIGI BENEDUCI

ELIS ISLAND DI SILVIO RAMAT:DA UN ESILIO A UN ELISIO

C ominciamo dal titolo. Da Gérard Genette ab-biamo imparato quanto il titolo sia parte in-tegrante del significato dell’opera: «ridotto al

suo solo testo – si chiede il narratologo – e senza alcuna istruzione per l’uso, come leggeremmo l’Ulysses di Joyce se non si intitolasse Ulysses?»1. Quindi, per usare una cate-goria impiegata dal critico francese, il paratesto del titolo è significativo; è un potente portatore di significato, almeno quanto le altre parti di un romanzo o di una poesia: versi, rime, scelte lessicali, sintassi. Anzi, in certi casi, lo è di più.

Il titolo può diventare la chiave per penetrare, chiari-re, sintetizzare il senso dell’opera, o permette di accedere a significati altrimenti in ombra. Talvolta, però, può voler soltanto suggerire o evocare, quando addirittura non viene usato per confondere e depistare.

Proprio la successione degli elementi paratestuali pos-sono, allora, aiutare ad analizzare e scandagliare nelle sue

1 G. Genette, Soglie. I dintorni del testo, Einaudi, Torino 1989 (1a ed. francese 1987), p. 4.

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componenti, il volume Elis Island, Poesie da un esilio2, com-posto nel 2011, ma solo nel 2015 licenziato da Silvio Ramat, già docente universitario a Padova, critico letterario tra i più acuti della poesia italiana del Novecento e autore egli stesso di opere poetiche, a partire dallo scorcio degli anni Cinquanta3.

Questo titolo, Elis Island, ricorda Ellis Island, l’isolot-to alla foce del fiume Hudson nella baia di New York. Il principale punto d’ingresso per gli immigranti sbarcati ne-gli Stati Uniti all’inizio del Novecento, sullo sfondo della statua della Libertà. Che era anche il luogo della conten-zione, della decontaminazione, della quarantena. Una sorta di sosta purgatoriale, per espiare la colpa di provenire da un mondo povero e malsano, prima di entrare nel nuovo mondo delle opportunità e della libertà. Risuona in que-sto bisticcio lessicale Elis/Ellis, allora, almeno un duplice valore: quello della malattia e della reclusione da un lato, e dall’altro il sogno della libertà, la ricerca di una nuova, più alta, orbita di vita. Il nome dell’isola-approdo, richiama, inoltre, il tema del viaggio, che sarà centrale nel corso del li-

2 S. Ramat, Elis Island, Poesie da un esilio. Carteggio 2011 con un’amica, Monda-dori, Milano 2015; le citazioni dal testo saranno indicate dai numeri romani, corrispondenti alle poesie o ai corrispettivi brani in prosa, riprodotti in corsivo. 3 Per una prima ricognizione dell’opera poetica di Ramat si suggeriscono al-meno: S. Ramat, Tutte le poesie (1958-2005), Interlinea, Novara 2006; ed i più recenti Id., Banchi di prova. Racconto in versi, Marsilio, Venezia 2011; La dirimpettaia e altri affanni, Mondadori, Milano 2013; Mia madre un secolo, Marsilio, Venezia 2002 (nuova ed. accresciuta 2015).

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bro, come vedremo. Soprattutto il viaggio negli Stati Uniti. Ma allora perché Elis? Cosa vuol dire o, meglio, chi è

Elis? È la protagonista e autrice, insieme con il poeta, di questa raccolta: Elisabetta Graziosi, «amica e collega di an-tica data», detta appunto confidenzialmente Elis. Italiani-sta, studiosa di poesia del Rinascimento (Tasso), Ottocento (Pascoli) e Novecento (Montale) presso l’università di Bo-logna.

Con elenco, dalla suggestiva eco leopardiana, ella è «cara amica» (I), «trepida amica» (II), «tenera amica» (III), «pa-ziente amica» (IV), «amica da me non troppo lontana / ma neppure vicina quanto a volte / mi piacerebbe averti» (V), «amica temeraria» (VI) «amica premurosa» (VII). Ognuno dei 64 componimenti del libro presenta questo epiteto nel primo verso. È quindi una voce amica, sensibile, raffina-ta e discreta, sebbene non sempre accondiscendente, che accoglie le confidenze, le riflessioni, le osservazioni dello scrittore. Una voce, però, anche spesso pronta al rilancio e talvolta alla provocazione. Cortese ma ferma. È insomma il controcanto delle liriche del poeta, il «contrappunto senti-mentale», sostiene Giuseppe Langella4, alle riflessioni dello scrittore. La protagonista di un dialogo teso e schietto.

Scopriamo quindi che il libro di Silvio Ramat non è solo di Ramat (l’autore, il primo dato del paratesto, è

4 G. Langella, Elis Island. Carteggio con un’amica, «Poesia», n. 308, a. 28, ot-tobre 2015, pp. 54-55.

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incompleto); c’è un’autrice nascosta, presentata non in copertina, ma da una nota in limine: «Penso che i nostri nomi dovrebbero figurare entrambi sulla soglia dell’opera. Ma perché – ha insistito lei irremovibile – due autori quan-do uno può bastare? Peccato» (p. 6). Personaggio schivo, appunto, ma determinato. È insomma la «corrispondente», con cui il testo diventa un dialogo, un vero e proprio «car-teggio». Tanto che, in quarta di copertina, si parla di «ro-manzo epistolare».

“POESIE…”: LA POESIA-PROSA DI SILVIO RAMAT E LA PROSA-PO-ESIA DI ELISABETTA GRAZIOSI

Ancora una volta il titolo ci guida e insieme ci inganna: ci aspettavamo un libro di poesie e troviamo un romanzo epistolare. Ma romanzo in che senso? Tecnicamente è un prosimetro, alla maniera del più famoso, quello dantesco della Vita Nuova. «Io mi servirò dell’endecasillabo. / Ma tu, se preferisci, usa la prosa» (I). Ramat scrive le sue poesie; che in realtà sono epistole metriche, in perfetti endecasilla-bi, anche se di tanto in tanto le cesure sono marcate da un a capo. Inoltre c’è una caratteristica clausola, spesso in rima, che conclude e suggella il pensiero. O alcune rime interne che rafforzano la tenuta del discorso.

Elis invece risponde con brevi biglietti in prosa: ma una prosa delicata, condotta sul filo della memoria, legati tra loro dalla sutura debole delle associazioni mentali. Un di-scorso più evocativo che concreto, per cui ancora Langella

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ha parlato di «petit poème» (en prose), prosa di indole liri-ca, quindi. «Ti rispondo con sollievo (e userò la prosa). Le e-mail che mi arrivano ormai a frotte sono improponibili: hanno messaggi intimidatori e mittenti mal noti. Da molto non scrivo una lettera e so che la macchina in panne s’av-vierà con lentezza» (I).

Ma quella di Ramat che poesia è? Ci aspetteremmo un libro di liriche, come quelle oggetto di studio del Ramat critico letterario, di stampo ermetico: esempi di “poetica della parola”, una parola esatta, assoluta, scavata, risonante di significati universali. E invece, troviamo testi in una lin-gua prosastica, dimessa, antieloquente, per citare Montale.

D’altra parte, per ammissione stessa dell’autore, la scrit-tura di questo testo nasce da una sua sincera vocazione narrativa, dal desiderio di costruire una storia, con un rico-noscibile percorso diegetico, un un’idea che però, inadat-ta ad essere espressa compiutamente nel romanzo classico (sebbene il poeta stesso impieghi l’espressione «questo no-stro romanzo», LXIV), si è esercitata, come avviene già da tempo – in verità – nella poesia di Ramat, nelle forme del racconto in versi.

Versi che, pur così vicini alla prosa o al parlato, hanno come modello i tradizionali endecasillabi sciolti, quelli per intenderci dell’epistola metrica del Foscolo sui Sepolcri, in una resa però più popolare e narrativa.

Lo stesso autore ci assicura che spesso in un discorso

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in prosa si trova, senza averne la minima apparenza, una sequenza di endecasillabi; e che egli stesso potrebbe tenere un intero discorso in tali versi, facendoli passare inosservati (proprio come queste righe, che sono appunto costituite da sei endecasillabi, di cui il primo tronco).

È un grande virtuosismo versificatorio: il verso si fa pro-sa. Virtuosismo che ricorda quello di Gozzano (capace di scrivere decine di alessandrini – doppi settenari a rime in-crociate – quasi senza farne percepire il ritmo al lettore). A cui si aggiunge un tono intimo, ripiegato, dimesso, che rievoca le corde dei Crepuscolari, peraltro molto amati da Sinisgalli.

E possiamo ricordare che fu proprio Sinisgalli, nel pas-saggio dalla tarda poesia ottocentesca a quella primo-nove-centesca, ad osservare un’evoluzione che «dal sonetto alle parole in libertà, degrada verso la prosa» (24a delle Trenta proposizioni, in Horror vacui), giungendo a concludere che «tra prosa e poesia – è inutile farsi troppe illusioni – i confi-ni che un tempo apparivano così netti ai Retori e ai Sofisti, così visibili, che bastava a riconoscerli un semplice colpo d’occhio [...], tra prosa e poesia è avvenuta formalmente una commistione, una mimesi»5.

5 L. Sinisgalli si esprime così nella prosa Intorno alla figura del poeta, edita a puntate per la prima volta su «Il costume politico e letterario» tra dicembre 1946 e luglio 1947, quindi su «Il Verri», n. 1, sett. 1976 ed ora ristampato in Intorno alla figura del poeta e altri scritti, a cura di R. Aymone, Avagliano, Cava de’ Tirreni 1994, p. 26.

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Ed è ancora Sinisgalli, in un suo intervento su Leopardi del 1972, che vedeva nel grande recanatese l’autentico inizia-tore della poesia moderna, proprio in quanto «capostipite di una poesia la cui sostanza e le cui leggi di agglomerazio-ne sono sempre più vicine alla prosa»6.

Se già nelle prime raccolte di Ramat era stata indivi-duata «una chiarità che, pur da lontano, sembra presaga di quelli che Betocchi chiamava i “lunghi passi della pro-sa”»7, ora è lo stesso poeta, significativamente, a chiamare il proprio metro, così dimesso e prosaico, «endecasillabo pedestre» (LXII).

“…DA UN ESILIO”: UN’ASSURDA ED INQUIETANTE CONVALESCENZA Per quanto concerne il contenuto, l’opera si presenta,

come il diario di una convalescenza. Afferma il poeta: «I medici mi impongono / una lunghissima convalescenza» (I), ma per una malattia senza sintomi, senza cause, testimoniata solo da bende che non si sa neppure se ricoprano ferite, o cos’altro. Manca, inoltre, in quella «aria di sanatorio», a parte il «bianco abito dei fugaci / miei controllori», ogni odore di medicina, ogni segno di pranzi e mensa, ogni altro paziente: egli è «ospite unico / incastonato nel silenzio» (XXXVIII).

6 Sinisgalli pubblica il suo saggio su Leopardi (anepigrafo), negli Atti del III Convegno Internazionale di Studi Leopardiani, Leopardi e il Novecento (Reca-nati, 2-5 ottobre 1972), Olschki, Firenze 1974; ora lo si può leggere in Intorno alla figura del poeta e altri scritti, cit., pp. 45 ss.7 L. Baldacci nell’Introduzione a S. Ramat, Mia Madre un secolo, cit., p. 5.

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La mente corre alla più probabile fonte di ispirazione letteraria. Il Thomas Mann de La montagna incantata: c’è un sanatorio, una loggia dove prendere il sole (II), il pa-ziente avvolto da strati di coperte (III). Il poeta attende di conoscere l’esito del suo destino, proprio come il giovane Hans Castorp, nel Sanatorio internazionale Berghof, tra le grinfie dei dottori Behrens e Krokowski; il poeta resta in attesa della decisione che lo liberi, lui «segregato / tra camera e loggiato, per tot dies», finché in primavera non giunga la «delibera» che gli renda la libertà (VIII). La spia linguistica che rimanda esplicitamente al capolavoro del Mann è l’aggettivo di conio ramattiano: castorpino, utiliz-zato nell’espressione «vaghe tracce castorpine» (XXXVIII), derivato, con tutta evidenza, dal nome del protagonista del romanzo. E varrà anche per Ramat il fatto che quella era la storia, certo lentissima e tragica, di una crescita, di un’evo-luzione, un bildungsroman novecentesco?

Di certo l’autore non racconta un reale evento autobio-grafico: è troppo insistito il filtro deformante. Vi è qualcosa di inquietante e perturbante. In Ramat vi è un senso di so-spensione vitale, di esilio dalla vita: «Legato a un orizzonte che non muta». Immobilità e un senso di reificazione: «né accetto / che mi si “trasporti” come un bagaglio» (I). Come afferma il poeta, quel mondo è «una sorta di non-luogo» (nota a I), simbolo di una condizione più interiore che este-riore. A rafforzare il valore universale e metafisico di tale

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esperienza, soccorre il commento di Elis stessa, che sugge-risce: «A meno che non siamo tutti in una rete di sanatori dalla diversa ambientazione, senza saperlo» (XXXVIII).

Anche per Langella il motivo del ricovero ha un’«aura letteraria», è «una situazione limite totalmente immagina-ria», per la quale spende il nome di Kafka: non si conosce infatti la causa del ricovero, i tempi della degenza, le mo-dalità della cura. Eppure la convalescenza «può diventare amena» se si mostra accondiscendenza alle disposizioni nei medici; dove pare agire ancora il filtro letterario della Mon-tagna incantata o ci si sente trasportati nella claustrofobica condizione del montaliano Sogno del prigioniero. Ben pre-sto, infatti, i personaggi e il luogo di cura subiscono una degradazione carceraria, diventando i «destinati custodi» a cui non chiedere «uno sconto di pena / o evasioni nei dì di festa»; infine anche Elis scrive: «Quanto durerà la tua reclu-sione?» (VII) Il poeta appare quindi «prigioniero […]. Ben più che malato e convalescente. Espropriato di vesti, danaro, identità. Privato del futuro» (XXXVI).

E così Ramat delinea un personale ospedale-prigione-e-silio da cui cercare un contatto umano, delicato, sensibi-le, in un mondo dominato dal silenzio, dall’insensatezza, dall’indifferenza, da gesti ruvidi e scostanti.

La permanenza nel sanatorio prosegue, infatti, in modo sempre più strano. Il silenzio dei dottori e degli infermieri, la assenza di ogni spiegazione, l’efficienza dei gesti sembra-

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no avere qualcosa di meccanico e indecifrabile. Nella XXXII poesia un’enigmatica, inquietante, sur-

reale visita medica, lo informa di essere arrivato «a metà del guado». Ricorda quel bellissimo e terribile racconto di Buzzati, Sette piani (1937) sull’insensatezza e la fragilità del-la vita umana.

Che si possa pensare a Buzzati lo suggerisce anche una stessa osservazione di Elis, che parla di una città (ospe-daliera): «più moderna a piani sovrapposti in verticale, con ascensori silenziosi e sale d’attesa, simile a quella che è uscita intera dall’ossessione di un narratore del secolo scorso» (XXXIII) e lo scrittore viene citato esplicitamente con Kafka nella prosa conclusiva (LXIV). A Buzzati riman-da anche il senso di sospensione e di inquietudine per l’at-tesa di qualcosa che non arriva (Il deserto dei Tartari) «in queste pause […] della vita» (XI).

Ma è nel componimento successivo (XXXIII) che si rag-giunge il culmine: il paziente comprende che in realtà la visita del medico non è mai avvenuta. È stato un sogno? Un’apparizione? Un vaneggiamento? Un indizio di follia? Un’infermiera lo guarda con pietà.

LA SPANNUNG: DALL’OSSIMORO DELLA FIAMMA NERA ALLA RI-CERCA DI UN SENSO

La poesia si chiude con un inquietante ossimoro, il se-gno di una presenza minacciosa e distruttiva: «una cupa /estate arroventava alberi e tetti». È la Spannung, al centro

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esatto della raccolta. Delle 64 liriche, infatti, il centro è costituito proprio dallo spartiacque compreso tra la 32 e la 33. È la crisi; etimologicamente la svolta, che se superata conduce alla guarigione.

Cosa scorgiamo alle spalle dell’espressione «cupa / esta-te»? Un’intera sequenza di espressioni disseminate nella po-esia ermetica: «la cupa fiamma» di Luzi; la «luce nera» di Ungaretti (Sentimento del tempo, Ti svelerà, v. 5); il «sole / tenebroso» di Sinisgalli (Vidi Le muse, Ventoso, vv. 3-4); tutti segnali del «male che tarla il mondo». L’espressione già sinisgalliana conteneva il presagio di qualcosa di oscuro e terribile che per un tratto balena, rimandando ad un prin-cipio apocalittico di luce tenebrosa: vi si può intravedere un «senso di catastrofe che immane eternamente all’ordine delle cose»8.

Eppure la prigionia-degenza si trasforma anche in una ricerca poetica, nella individuazione di emblemi capaci di indicare e contenere un nascosto e misterioso senso della vita. Un baluginare di piante, animali, oggetti simbolici e significativi: «provo a distinguere fiore / da fiore, stella da stella» (I). Una meridiana che permetta di «capire le ragioni del tempo / alla scuola del sole» (II). L’attesa di un falco.

Il poeta chiede alla donna: «sei maestra, / lo so, nel deci-frare allegorie», quindi può aiutarlo a comprendere il «sen-

8 Così R. Aymone nel suo commento a L. Sinisgalli, Vidi Le Muse, Avagliano, Cava de’ Terreni 1997, nota 12, p. 224.

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so riposto» nel pascoliano «zirlare di un tordo […] impa-ziente ostinato nel portare / fuscelli e altro, nel folto di un leccio, / a un nido che i geli avevan disfatto / ma che, illuso fosse già primavera, / lui si fingeva e travedeva intatto» (III). Elisabetta offre il suo vaticinio: «Forse ti intravedi anche tu oltre le bende intatto, come per il tordo è il suo nido»(IV); è la profezia-augurio di una salute che tornerà presto.

UN DIARIO DI VIAGGIO La raccolta si può anche leggere come un diario di viag-

gio, reale o immaginario. Il libro si carica di luoghi, re-almente visitati o solo desiderati. Il poeta, in particolare, ricorda Milano, «dove Saba / scrisse che non si può so-gnare “d’arte / felicemente”: peccato per lui!», commenta Ramat, immaginando invece quanto sarebbe stato bello, per sé, fiorentino, viverci e nelle «belle mattine / d’inverno da attici e tetti scrutare / cristallino il profilo delle Alpi» (V). A tale proposito non posso sottrarmi dal ricordare, a questo punto, le feconde stagioni milanesi di Sinisgalli, per il quale Milano fu il luogo della fabbrica e della poesia: la città dove non solo sognare, ma scrivere, e vivere, d’arte – e assai felicemente.

Per la scrittrice, invece, assume centralità il rimpian-to di una terra, la California, da cui è dovuta andare via molto giovane. Terra del rimpianto. Terra delle possibilità inespresse. Ella mette in scena il contrasto tra un repressivo

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senso del dovere e l’aspirazione alla libera affermazione di sé. Che si concretizza nella tensione tra due luoghi: la Ca-lifornia e Bologna.

Nello Stato americano da ragazza ha trovato un gio-vanile slancio vitale, ora perduto e rimpianto: «Sai che ho amato molto la California. Non solo perché vi sono stata da giovane in giorni più lieti»; era il luogo del cielo splendente: «la città dei giardini e della luce accecante (California drea-ming)». Bologna, invece, l’austera città carducciana, incar-na l’anima borghese, l’educazione rigida e convenzionale. Con il suo «cielo quasi sempre annebbiato. Ligia (grigia) e obbediente, appunto». Tornata di recente in California le «è sembrato ancora possibile aggiungere qualcosa ai giochi già fatti. Conquistare un’opzione dopo il tutto esaurito (un last minute imprevisto!)» (V).

Anche il poeta ribadisce queste opposte posizioni attra-verso vivide impressioni coloristiche: da una parte indivi-dua «una tavolozza dove trionfano / i grigi e, se c’è un rosso, è il rosso spento / di Bologna e della valle del Po». Dall’altra, vi si oppongono l’«acerbo/carminio dei fiori del coral tree», (l’Erythrina crista-galli, una pianta dalle infiorescenze rosso corallo), lo sgargiante «giallo dei papaveri» di San Diego e la «Grande Arancia», che è il nome di Los Angeles (la Big Orange contrapposta alla Big Apple di New York). Eppure egli è convinto che siano quelli più smorti e opachi, ma an-che sottili e delicati i suoi (i loro) «i nostri giusti colori» (VI).

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A tale proposta Elis risponde con una sconsolata aspi-razione; quella di attingere alle possibilità multiple dell’e-sistenza: «mi sarebbe piaciuto vivere in due mondi», percor-rere «due diverse vicende biografiche», possedere «due anime diverse: una provinciale, complessa e sfumata in terracotta e l’altra disinvolta e abbacinata» (VII).

Continuando a seguire nella raccolta il tema del viag-gio, vediamo come, a partire dalla poesia XLIX, nell’estrema monotonia della segregazione, mentre «le albe avevano e i tramonti / la loro parte di sempre ed il passo», il poe-ta matura l’esigenza di «un gioco delicato»: ritornare con l’immaginazione sui luoghi del ricordo, obbligandosi a «un ritorno / (uno per giorno) ai luoghi e ai monumenti / che fanno la trama di un›esistenza. / Belli, certo; ma soprattutto vivi / per quel colore che hanno, indelebile, / di memoria».

Dopo aver progettato di visitare l’Italia, l’Europa e tutto il mondo (sistematicamente divisi in quadranti), pratican-dovi «l’arte dell’indugio», inizia con i più «maturi acini» della Liguria, dedicandovi due poesie (L e LI). E qui si sco-pre che i luoghi della memoria sono anche i luoghi della poesia e dell’arte.

Con sistematico rigore nomina le Cinque terre e «il pas-so di Marezzo» di Montale. La Bocca di Magra di Sereni. I borghi di Boine, Novara, Albisola, tutti «nomi già in sé garanti di poesia». La Spotorno di Sbarbaro. E Genova, «da poeti nutriti di poesia»: quella di Campana dai «vichi

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fondi tra il palpito rosso». La «Genova contemplata su dal Righi», il quartiere raggiunto con la funicolare delle omo-nime Stanze di Caproni (Litania «Genova città pulita. / Brezza e luce in salita./ Genova verticale, / vertigine, aria scale. / Genova nera e bianca. / Cacumine. Distanza»). La Genova del monumento funebre in frammenti di Marghe-rita di Brabante, sposa di Arrigo VII, a cui Dante aveva dedicato alcune liriche ed indirizzato le epistole VIII, IX e X. Ma anche, a sorpresa, la Genova di Sinisgalli: dove egli, tra descrittivismo e pathos, esprime la propria condizione dolorosa di esule dalla Lucania nelle regioni del Nord: Ge-nova «Sempre che torni sera / per queste città dove le luci / appena si staccano dai pali / e il mare brucia di là / sul molo un’area fiacca / raccoglie il fischio della sirena. / Solo mi dico la mia pena e brillano / agli occhi vaghi i lumi delle ville» (in Vidi le Muse, sez. Campi Elisi).

LA FIGURA DEL POETA Nella LVII il poeta si lamenta che nessun essere magico e

fiabesco lo abbia iniziato alla vita: «alla mia culla / o ai cro-cevia della mia vita, nulla / mi fu detto mai di profetico». Rientra questa assenza nella reductio della figura del poeta, praticata da Ramat.

Se l’archetipo lucano, Orazio, si definiva Musarum sa-cerdos (Carm., III, 1, 3), in Carmina, III, 4, la cosiddetta ode dell’investitura, racconta della sua «predestinazione

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poetica»9 in un episodio meraviglioso: essendosi perso, fanciullo, sulle pendici del Vulture, viene protetto e difeso dalle colombe, che lo coprirono di lauro e mirto, le piante della poesia. Per questo può dire di sé: Vester, Camoenae; O Muse, vostro sono.

Una favolosa apparizione che testimonia la propria vocazione poetica si trova, è appena il caso di ricordarlo, anche nella poesia di Sinisgalli: la nuova immagine del po-eta, in bilico «tra sublime e banale», si ritrova nella rap-presentazione delle Muse, le divinità classiche della poesia, così come appaiono nei testi sinisgalliani. Esse, fin dal loro primo apparire, danno luogo ad un percorso di desublima-zione; infatti le Muse, nel componimento eponimo della raccolta maggiore di Sinisgalli (Vidi le Muse), appaiono da subito, in una ierofania grottesca, caratterizzate da una deformazione animalesca: «Sulla collina / io certo vidi le Muse / appollaiate tra le foglie. / io vidi allora le Muse / tra le foglie larghe delle querce / mangiare ghiande e coccole. / Vidi le Muse su una quercia / secolare che gracchiavano».

Muse appollaiate, gracchianti, intente a mangiare ghian-de: Giuseppe Pontiggia parla, appunto, di una «metamor-fosi grottesca, quasi sarcastica» che preferisce esorcizzare mediante una deformazione grottesca, il timor panico di questi incontri. Per il critico le Muse sinisgalliane finisco-

9 Cfr. su questo tema M. Faggella,  Sulla Via Appia ad incontrar le Muse. “Luca-nità” di Orazio ed altri saggi, Arti Grafiche, Lavello 2005, p. 85.

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no col rivelarsi «proiezioni» e «simulacri», evidenziando «la loro natura di doppio» dell’autore; pertanto «invecchiano […] con il poeta»10, fino a diventare una «vecchia Musa decrepita».

L’ADYNATON DELLA SALVEZZA E proprio come Sinisgalli, Ramat profetizza per sé la

liberazione, il ritorno, «la salvezza» attraverso adynaton: «Sarò libero quando gli usignoli / grugniranno se il sole a mezzanotte / scintillerà sull’erba di Milano» (LVII); corri-spondenti al paradossale adynaton di Sinisgalli, che costi-tuisce l’epitaffio sulla sua tomba: «Risorgerò fra tre anni / o tre secoli tra raffiche / di grandine nel mese / di giugno».

Eppure Ramat ci svela, come in una sciarada, che gli im-possibilia proposti non sono in realtà tali: nella LVIII poesia immagina che sull’idroscalo di Milano ci possa essere una festa notturna che illumina a giorno l’acqua; presenta un giovane Picasso che si esercita ricopiando figure giottesche; in Sardegna infine un poeta che attende trepido il canto di un usignolo, può essere costretto invece ascoltare il gru-folare dei maiali in lontananza. La libertà è quindi vicina.

10 G. Pontiggia, Le Muse di Sinisgalli, introduzione a L. Sinisgalli, L’ellisse. Poe-sie 1932-1972, Mondadori, Milano 1974, p. 11.

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LA CONCLUSIONE: LA LIBERAZIONE E LA RICERCA DEL PRO-PRIO CAMMINO

Nella poesia LXI il poeta ascolta un prodigio nel silen-zio: «uno stridere furioso», il suono di uno stormo di stor-ni, in cui «nell’unità si captava il molteplice. / […] un volo pazzo, a migliaia, di storni / […] finché, a un comando che sfugge a chi è a terra, / le migliaia si sono dileguate, / schiera compatta in direzione sud».

Ancora una volta ha bisogno della capacità divinatoria di Ellis. Chi altri potrà interpretare il presagio? Come a Dante, il quale chiede alla cerchia dei poeti gentili di spie-gargli il famoso sogno di Amore che si nutre del suo cuore (A ciascun alma presa e gentil core, Vita nuova, III 10-12), risponde il «primo de li suoi amici» (e quella «fue quasi lo principio de l’amistà» tra i due), Guido Cavalcanti (Vede-ste, al mio parere, onne valore), così al poeta ora risponde «l’amica […] di antica data», che – non a caso – sembra interpretare quella visione in senso dantesco: «Hai sognato (era un sogno? allucinazione? fantasia? […]) il tuo deside-rio. Hai sognato la fine della lunga convalescenza, quando il nido è inutile e gli storni si dileguano».

Ci avviciniamo alla conclusione, quindi, ma come per chi è stato troppo in carcere, la liberazione divide tra de-siderio e timore. Bisogna accettare di mutare nuovamente condizione. L’opera sta per terminare: «Appeso al chiodo una volta per tutte / – corona che ha perduto ogni profu-mo– / questo mio endecasillabo pedestre / mi dovrò sfor-

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zare di essere “un altro”, imparare come respira “un altro” / e come parla, e di chi parla, e a chi» (LXII).

La sottile angoscia del congedo e il conseguente senso di smarrimento, nel dover iniziare una nuova tappa del pro-prio percorso esistenziale, viene colto dalla corrispondente, che lo esplicita mediante un’eco della Didone virgiliana: «Provi desiderio e rammarico per la prossima liberazione? Può darsi. Conosco i segni di questa fiamma ambigua».

Altrettanto misteriosa, improvvisa e irrazionale quanto la prigionia, si rivela la conclusione. Il convalescente tro-va  «fuori dell’uscio uno zaino» con dentro il necessario, abiti, denaro; nessun foglio di dimissioni, né un bigliet-to o un saluto, inspiegabilmente «schiena e petto senza più fasciature», ma soprattutto nessuna mappa che indi-chi dove si trova e dove dirigersi. Egli è semplicemente e terribilmente libero: «ai due cancelli non c’era lucchetto» (LXIV).

Credo che soprattutto l’assenza di qualsiasi spiegazio-ne e di ogni riferimento possa condurre a comprendere il significato di questa conclusione e di questa liberazione: «Libero, dunque libero! e affidato / alla sorte […] A che dimora, delle molte dove ho vissuto, debbo / puntare per trovarmi?»

Dopo la sospensione e l’immobilità, dopo aver riflettuto su di sé e sulla memoria, sulla propria storia personale, sulle sue scelte intellettuali, sui propri rapporti, l’autore è pronto

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a rigettarsi nella vita per cercare di nuovo se stesso, la sua direzione, il suo verso. Che è quanto ogni uomo deve fare.

Questo il messaggio e questa  la conclusione: la libera ricerca della propria meta. L’opera si chiude con un distico dalla perfetta rima in clausola: l’uomo si metaforizza in un fragile e violato elemento della natura e, umanamente ti-moroso, va alla ricerca del proprio destino, sotto le infinite possibilità del cielo: «ramo divelto / che ti cerca impaurito a cielo aperto» (LXIV).

Elis gli dirà: «Consìderati di nuovo on the road. Unico consiglio è rimettersi in marcia, e per te che ami la geografia complessa, i ritorni e gli abbandoni, non deve essere difficile» (LXIV). Ritornare nel mondo. Dall’universo senza spazio e senza tempo della propria interiorità, tornare nel nostro mondo, parafrasando Leopardi, “mezzo tra bello e terribi-le” (come testimoniano gli ultimi tragici avvenimenti pari-gini: le stragi, il terrore, l’estremismo, i calcoli geo-politici, le morti innocenti di ogni fede), e come tutti, cercare la propria strada.

L’ULTIMA METAMORFOSI DEL TITOLO Mi sarà concessa un’ultima osservazione sul sottotitolo,

che può anche avere – come testimoniato dall’autore – un semplice valore redazionale, ma si presta ad un’imprevedu-ta metamorfosi. Poesie da un esilio, con facile anagramma può divenire Poesie da un Elisio.

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E questo ci riporta a Montemurro, alla patria del poeta dei Campi Elisi. Certo, essi sono, fuor da ogni trasfigu-razione mitologica, il cimitero del paese; ma chi conosce Sinisgalli sa anche quanto per lui fossero il luogo della pace e della serenità, l’«orto meraviglioso», che egli arriverà a descrivere così: «questo non è un camposanto, questo è il paradiso» (L. Sinisgalli, Fiori pari, fiori dispari, XXVI). In-somma, non è detto che da un esilio non si possa, alla fine, raggiungere un paradiso.