Post on 15-Feb-2020
ALMA MATER STUDIORUM – UNIVERSITÀ DI BOLOGNA DIPARTIMENTO DI SCIENZE POLITICHE E SOCIALI
Corso di Laurea inSCIENZE POLITICHE, SOCIALI E INTERNAZIONALI
HONG KONG: INTEGRAZIONE O SINIZZAZIONE?
Analisi sul grado di autonomia della Regione Amministrativa Speciale cinese
RELATORE:Prof. Antonio Fiori
PRESENTATA DA:Jessica Milano
SESSIONE UNICA ANNO ACCADEMICO 2018/19
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IndiceIntroduzione........................................................................................................................................................21 Hong Kong: da Porto Britannico a Regione Speciale della Repubblica Popolare Cinese..........................3
1.1 Hong Kong è un Sistema Ibrido..........................................................................................................31.2 Cenni Storici.......................................................................................................................................3
1.3 Tappe della Transizione di Hong Kong..............................................................................................5
1.4 Assetto Politico del “Porto Profumato” nell’Epoca Coloniale...........................................................7
1.5 Funzionamento della HKRAS............................................................................................................92 Hong Kong tra Proteste e Tentativi di Riforma........................................................................................15
2.1 Espressione del Dissenso a Hong Kong............................................................................................152.2 La Società Civile Hongkonghese contro la Legge sulla Sicurezza Nazionale.................................17
2.3 Primi Tentativi di Riforma e Inasprimento dei Rapporti tra la Popolazione e l’Élite al Governo....192.4 Il Movimento Contro l’«Educazione Morale e Nazionale» e Scholarism........................................222.5 Il Movimento degli Ombrelli............................................................................................................23
2.6 Riflessioni sul Movimento degli Ombrelli.......................................................................................272.7 2019: Hong Kong contro la Legge per l’Estradizione......................................................................29
3 Sinizzazione e Progressiva Perdita di Autonomia nella RAS...................................................................313.1 Integrazione Socio-Economica: l’Invasione di “Locuste” e le Grandi Opere Infrastrutturali..........31
3.2 Integrazione Culturale: il Cantonese, l’Educazione Patriottica e i Limiti dei Media.......................36
CONCLUSIONE..............................................................................................................................................44
BIBLIOGRAFIA..............................................................................................................................................46
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Introduzione
«马照跑舞照跳» (I cavalli continueranno a correre e le persone a danzare) è una citazione di Deng
Xiaoping da collocare nel periodo in cui iniziarono i negoziati per la “ripresa dell’esercizio della
sovranità su Hong Kong”. Il leader si riferiva alle due grandi passioni che da tempo accendevano gli
animi degli abitanti di Hong Kong: le corse di cavalli nella Happy Valley e la frizzante vita notturna
dei night club. Il messaggio che si voleva trasmettere è l’idea di un cambiamento graduale, nulla di
brutale né istantaneo, che la colonia inglese avrebbe dovuto affrontare per tornare sotto la
giurisdizione cinese. Una lunga serie di promesse disattese comincia con la Sino-British Joint
Declaration che, a parole, sarebbe stata a garanzia di un alto livello di autonomia conferito alla
nuova HKRAS (Regione Amministrativa Speciale).
Il percorso che mi propongo di affrontare qui di seguito avrà come obiettivo l’analisi del
processo di “sinizzazione” di Hong Kong, ovvero dell’assimilazione politica, economica, sociale e
culturale del cosiddetto “Porto Profumato” da parte del gigante cinese.
Nel primo capitolo, dopo una breve contestualizzazione storica, descriverò il processo di
negoziazione per il ritorno di Hong Kong alla Cina, da cui la voce della popolazione locale fu
totalmente esclusa. Seguirà poi una descrizione dell’assetto politico della HKRAS stabilito con la
Basic Law (“One Country, Two Systems”). Nel secondo capitolo riporterò una serie di eventi che
ho identificato come effetti della mancata partecipazione locale alla transizione, oltre che delle
suddette promesse sistematicamente disattese. Prenderò in esame i fatti del 2003 (protesta contro il
tentativo di emendamento dell’Art. 23 sulla Pubblica Sicurezza), la proposta di riforma del governo
di Hong Kong del 31 agosto 2014 a seguito delle richieste riguardo al suffragio universale e il suo
rifiuto da parte popolare che sfocia nella radicalizzazione di Occupy Movement, supportato poi
dagli studenti. L’evento passerà alla storia con il nome di Movimento degli Ombrelli. Terminerò
con un breve accenno alle proteste per la Legge di Estradizione che, mentre scrivo, stanno
scuotendo l’ex colonia britannica. Nel capitolo finale mi concentrerò sulle misure d’integrazione
economica, sociale, culturale e politica messe in atto dalla Repubblica Popolare. Alcuni tra gli
esempi concreti su cui mi soffermerò sono l’esclusione dal Consiglio legislativo di quattro deputati
democratici (2016); il progetto di costruzione di una “Greater Bay Area”, di cui è parte il
recentemente inaugurato ponte che funge da collegamento tra Zhuhai-Macao-Shenzhen e l’ondata di
turisti e lavoratori cinesi, che grazie al “one-way permit” entrano ad Hong Kong ogni giorno per
stanziarvisi definitivamente.
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1 Hong Kong: da Porto Britannico a Regione Speciale della Repubblica Popolare Cinese
1.1 Hong Kong è un Sistema Ibrido
Definire il peculiare regime vigente a Hong Kong non è semplice. Secondo Mathew Wong (2017),
ricercatore hongkonghese, si tratta di un sistema ibrido: sebbene non si possa parlare di regime totalmente
democratico, infatti, esso possiede innegabilmente alcuni elementi che ostacolano la sua classificazione tra
i regimi autoritari. Citando i ricercatori O’Donnel e Schmitter, Wong definisce la HKRAS come un ibrido
di tipo “autoritario liberale”: l’esistenza di libertà civili e di uno stato di diritto sono bilanciati da una
mancanza (pur non totale) di diritti politici. Prendendo invece in considerazione gli studi più recenti di
Levitsky e Way (2002), Hong Kong può essere etichettato come regime ibrido del tipo “autoritario
competitivo”: esistono elezioni competitive, ma la classe dirigente ha una certa influenza sull’andamento
delle stesse. Inoltre, la negazione dei diritti politici avviene in modo velato (tramite cooptazione per
esempio). Tuttavia, nel momento in cui l’interferenza della classe dirigente diventa eccessiva, essa può
incorrere in serie contestazioni, deleterie per la stabilità del potere. Anche Richard Bush (2016), studioso
di Cina, si riferisce a Hong Kong definendolo un sistema ibrido: un misto tra uno stato di diritto da un lato,
comprendente diritti politici e civili, e una democrazia elettiva dall’altro (seppur solo parziale). Anche in
termini sociali è riscontrabile una condizione d’ibridismo, continua Bush, in quanto se sono certamente
rintracciabili sul territorio i valori propri della tradizione confuciana cinese, come l’attaccamento alla
famiglia e un forte materialismo, tipico della Cina moderna, gli hongkonghesi, che pure si riconoscono
come appartenenti all’etnia cinese, tendono a prendere le distanze dai loro vicini della Cina Continentale.1
Per finire, vi è poi una dimensione anche economica dell’ibridismo: la coesistenza di un sistema capitalista
e un’economia di mercato, accettata formalmente dalla Cina comunista, la quale pure dal 1979 si è aperta
al commercio globale rivendicando le proprie “caratteristiche cinesi”.
1.2 Cenni Storici
Per comprendere cosa spinge ancora oggi gli abitanti di Hong Kong a mobilitarsi contro il governo locale
e centrale è imprescindibile uno sguardo al passato, utile anche per osservare come Oriente e Occidente si
intersechino qui, giungendo ad una sintesi peculiare nella prospettiva geopolitica attuale.
Hong Kong si distaccò dalla Cina con la prima Guerra dell’Oppio (1840-42), risultato di uno scontro
tra le mire espansioniste britanniche e il desiderio della dinastia Qing di dettare le proprie regole
1 Si inserisce qui un interessante discorso sull’identità. Nonostante gli sforzi della RPC, infatti, il patriottismo “con caratteristiche cinesi” a Hong Kong ancora stenta a mettere radici. I cinesi provenienti dal continente vengono percepiti come “others”, solitamente privi di educazione, autoritari e corrotti. (Chan, 2003) Questa percezione di essere altro dai vicini cinesi scaturisce sicuramente dalla differenza di usi e costumi, ma anche dalle esperienze storiche molto differenti: gli hongkonghesi di oggi sono figli e nipoti di dissidenti maoisti, che nulla volevano spartire con i connazionali.
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commerciali, soprattutto riguardo le importazioni di oppio, diventato ormai una piaga sociale nell’Impero
Celeste. Questo episodio accentuò il processo che, con il colonialismo, stava portando all’ascesa
dell’Occidente e al declino della Cina. A seguito della prima Guerra dell’Oppio, l’Impero Britannico
acquisì la parte meridionale dell’attuale territorio della RAS: Hong Kong Island. Seguì la seconda Guerra
dell’Oppio (1856-60) grazie a cui la Gran Bretagna, nuovamente vittoriosa, ottenne la regione di
Kowloon. L’acquisizione del territorio da parte inglese fu completata nel 1898 con i New Territories,
ceduti ai britannici in forma di un mandato della durata di 99 anni.
Il periodo coloniale inglese (interrotto dalla breve occupazione giapponese durante la Seconda
Guerra Mondiale) fece di Hong Kong un centro economico e finanziario, punto d’incontro tra Occidente e
Oriente. Prevalse in tutto il periodo un forte senso di superiorità tipicamente eurocentrica, con cui si
giustificò l’esclusione della popolazione dall'amministrazione pubblica. L’approccio scelto fu quello
cosiddetto minimalistico: scarsa attenzione venne rivolta alla popolazione locale e alla sua cultura,
considerata incompatibile con i valori della civiltà occidentale. L’unico punto d’incontro tra i governatori
inglesi e la popolazione locale, in questo periodo, si identificava nell’élite di businessmen e di leader locali
rappresentanti le varie corporazioni. La gestione effettiva della colonia hongkonghese risulta dunque
piuttosto contraddittoria se la si rapporta con la lunga tradizione democratica britannica.2 Tale approccio
svolse un ruolo fondamentale nella caratterizzazione della colonia come “politicamente apatica” (Yep,
2018). Un’apatia che forse oggi si sta affievolendo per lasciare posto, se non ad una coscienza politica, ad
una più forte consapevolezza. Il senso di apatia è riconducibile all’assoluta mancanza di prospettive di
governo da parte della popolazione di Hong Kong, costituita in quel momento principalmente da dissidenti
cinesi e migranti in fuga dalla guerra civile che si stava combattendo nella Cina continentale. Il numero di
rifugiati politici aumentò poi, dopo la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese (1949). La
succitata mancanza di coscienza politica sembrò essere momentaneamente smentita durante i disordini del
1967, che decretarono una vera e propria svolta nella politica amministrativa della colonia sotto
MacLehose (1971- 1982); un periodo che verrà ricordato come la Golden Era. In questo arco di tempo
furono varate diverse riforme: dall’introduzione della sanità pubblica, all’educazione primaria gratuita, ad
un sistema di case popolari facilmente accessibili. Vennero apportati miglioramenti anche alla rete di
trasporti interna e internazionale, favorendo i mercati globali. È a questo punto che i rifugiati, scappati
dalla Cina continentale, si stabilirono definitivamente in territorio hongkonghese, acquisendo un’identità
differente dai connazionali
2 Non mi è possibile in questa sede di fare digressioni sull’epoca coloniale; mi sembra tuttavia doveroso far riferimento all’inesattezza con cui oggi, principalmente le giovani generazioni guardano all’epoca coloniale, quasi rimpiangendola. È bene specificare che l’epoca coloniale inglese, istituzionalmente parlando, non garantiva un maggior livello di democrazia rispetto ad oggi. L’amministrazione era nelle sole mani di membri ex-officio in
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aggiunta ad altri scelti dalla Corona d’Inghilterra. La cooptazione era un metodo di governo esercitato per mero scopo utilitaristico al fine di ridurre al minimo il malcontento.
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rimasti in balia del regime Maoista.
La via socialista era sempre più lontana dalla realtà politica di Hong Kong, che aveva ormai
intrapreso la strada del capitalismo globale. Secondo l’analisi di Richard C. Bush (2016), questa “Nuova
Cina” forniva una valida e più accettabile alternativa, che spingeva i nuovi residenti a prendere le distanze
da quanto accadeva nella Cina continentale. Hong Kong, divenuto un luogo di rifugio e simbolo di
prosperità, costituiva tuttavia territorio fondamentale per la Cina Maoista che, in primo luogo, guardava al
suo successo in termini di sfida ideologica; in secondo, traeva benefici da esso sia a livello economico,
tramite le periodiche rimesse inviate dai migranti hongkonghesi ai propri parenti, che in termini
diplomatici, dall’utilizzo del “Porto Profumato” come luogo di contatto con l’amministrazione di Taiwan.
Per questo motivo fin dagli anni Venti del Novecento si registrò a Hong Kong un’influenza del Partito
Comunista Cinese, che venne palesemente allo scoperto in seguito ai sopracitati disordini del 1967. Il
diretto coinvolgimento di Pechino nelle dinamiche di Hong Kong è rintracciabile nella dichiarazione
dell’allora Ministro degli Affari Esteri, nel supporto economico conteggiato in 20 milioni di dollari e nelle
proteste di massa organizzate in quel periodo nelle varie città cinesi. Le ragioni di questa vera e propria
mobilitazione anticoloniale, partita da una semplice protesta contro l’aumento dei prezzi del traghetto,
sono da rintracciare nella mancanza di comunicazione tra l’élite coloniale e la popolazione. La
cooptazione al governo dei gruppi cinesi più abbienti da parte inglese, infatti, fungeva da strumento
d’integrazione delle élite verso altre élite, continuando a ignorare la popolazione locale. Nel 1967, per la
prima volta, l’amministrazione coloniale realizzò di essere davanti ad una “integration crisis” (King,
1975).
Chiaramente, in termini ideologici, anche la Rivoluzione Culturale in atto in quel momento in Cina
fu di grande ispirazione per i rivoltosi.
La morte di Mao Zedong (1976) e la successiva amministrazione di Deng Xiaoping aprirono
gradualmente la Cina all’economia di mercato e la proiettarono nel contesto delle relazioni internazionali
con un ruolo sempre più attivo. Riguardo alla situazione di Hong Kong, il Governo Centrale cambiò la
propria linea. Nell’epoca Maoista si sposava la politica del “long- term planning and full utilization”,
ovvero si posticipava indefinitamente la data del ritorno di Hong Kong, continuando comunque a sfruttare
a pieno le sue risorse economiche (Yep, 2009). Deng Xiaoping si pose a capo di una linea più decisa che
guardava al 1997, anno in cui la concessione relativa ai New Territories sarebbe scaduta.
1.3 Tappe della Transizione di Hong Kong
Si parlò pubblicamente del ritorno di Hong Kong, per la prima volta nel 1979 quando il già citato
governatore MacLehose incontrò il nuovo leader cinese, pronto a far valere i propri diritti sulla colonia.
Dopo l’incontro, passerà alla storia la celebre frase del governatore che introdusse l’argomento del
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“ritorno” fra la popolazione, rassicurandola del fatto che “they should put their hearts at ease” (citando
Deng) riguardo al
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futuro della colonia.3 Iniziarono così, dall’anno successivo, i negoziati tra la Repubblica Popolare di Deng
Xiaoping e la Gran Bretagna di Margaret Thatcher. Quest’ultima aveva inizialmente adottato un approccio
legalista: si dichiarava pronta ad assecondare il desiderio di Deng ma nel mero rispetto dei trattati conclusi
nel 1898, i quali concedevano alla Corona la sovranità sulla zona dei New Territories, per un periodo
limitato di 99 anni. La determinazione di Deng verso la restituzione di tutto il territorio di Hong Kong (non
solo dei New Territories), che gli inglesi avevano acquisito tramite la firma dei cosiddetti “Trattati
Ineguali”, portarono la Thatcher a desistere, accettando l’imposizione della Cina come base per le
negoziazioni (Yep, 2018).
La lunga contrattazione si concluse con la Sino-British Joint Declaration nell’ottobre del 1984, che
nel primo punto riporta:
“The Government of the People's Republic of China declares that to recover the Hong Kong area (including Hong Kong Island, Kowloon and the New Territories, hereinafter referred to as Hong Kong) is the common aspiration of the entire Chinese people, and that it has decided to resume the exercise of sovereignty over Hong Kong with effect from 1 July 1997.”
La Joint Declaration segnò l’inizio di una lunga serie di promesse di apertura politica e sociale,
sistematicamente deluse dal Governo Centrale, che già in questo momento gettava i semi per una futura
assimilazione della nuova Regione Amministrativa Speciale nel tessuto cinese. Una delle espressioni
contenute nella Joint Declaration più contestate ancora oggi riguarda la vaga attribuzione di quell’ “alto
livello di autonomia” (Annex I[I]) della cui reale effettività si tratterà nel terzo capitolo. È in questo
documento, inoltre, che si tratteggiarono i contorni di ciò che verrà poi meglio definito da Deng come
“One country, Two Systems”. Si prevedeva cioè che “l’attuale sistema socio-economico di Hong Kong
restasse immutato, così come lo stile di vita della sua popolazione” (Bush, 2016). Si garantiva ancora il
mantenimento del sistema giudiziario di Common Law e soprattutto si introducevano diversi accenni ad un
governo democratico, costituito sulla base di elezioni. Come Bush ricorda, anche vari organi della
Repubblica Popolare sono “costituiti sulla base di elezioni”, ma il processo elettivo è lungi dall’essere
competitivo, tantomeno democratico. Inoltre, continua l’autore, nulla nella Joint Declaration vietò alla
RPC (che si era di fatto arrogata il diritto di occuparsi del futuro ordinamento di Hong Kong) di modellare
la HKRAS a propria immagine e somiglianza. È bene riportare che i negoziati prevedevano l’esistenza di
un Sino-British Liaison Group con il compito di monitorare e guidare la transizione; gruppo che però fu
sciolto per inattività nel 1999 (Wong, 2017).
Non appena i negoziati si conclusero, Pechino si mise al lavoro per completare la stesuradella Basic
Law, la mini-costituzione che tutt’ora regola la regione. Si pose a questo punto una questione che tornerà
sistematicamente a galla nel corso della storia politica hongkonghese: la partecipazione popolare (e la
rappresentazione elettorale poi) nella definizione della nuova costituzione. Per dare alla popolazione locale
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l’impressione di essere parte attiva nella stesura della Basic Law, Deng Xiaoping istituì un Basic Law
Drafting Committee (BLDC), formato per il 60% da membri provenienti dalla Repubblica Popolare e per
il restante 40% da hongkonghesi (Bush, 2016). A questo organo aggiunse poi il Basic Law Consultative
Committee, atto a far credere ai residenti che il BLDC avrebbe preso in considerazione le loro opinioni. Il
Comitato Consultivo era infatti composto da 180 membri locali; la contraddizione è facilmente
rintracciabile nel fatto che tutti i componenti fossero pro-Pechino (Yep, 2009) fatta eccezione per due
esponenti: Martin Lee e Szeto Wah, legati alla concezione dello stato di diritto occidentale (Bush, 2016).
Il già precario tentativo d’ingraziarsi la popolazione di Hong Kong subì una violenta frenata in
occasione dei fatti di Tiananmen del 4 giugno 1989. La durissima repressione da parte del Governo
centrale a Pechino contribuì ad acuire il timore dei residenti di Hong Kong nei riguardi di ciò che sarebbe
stato il futuro della colonia. La confidence crisis si manifestò con il crollo del dollaro di Hong Kong
(stabilizzato solo dall’introduzione del tasso di cambio fisso con il dollaro americano) e un’emigrazione di
massa accompagnata da una brusca fuga di capitale (Wong, 2017). Per rispondere alla crisi, il governo
coloniale si attivò rilasciando documenti di viaggio per circa 50.000 famiglie; accelerò il progetto pima
accantonato del Rose Garden (un piano infrastrutturale riguardante la costruzione di aeroporto, porti,
ferrovie e autostrade che avrebbe restituito un’idea di apertura e libertà di circolazione caratterizzante
l’epoca a venire); portò avanti, infine, tramite l’ultimo governatore di Hong Kong, Chris Patten, un piano
per la futura democratizzazione di Hong Kong (Yep, 2019). Il taglio decisamente democratico delle
riforme di Patten e l’ingente spesa pubblica legata alle opere infrastrutturali spinsero Pechino ad accelerare
i lavori sulla Basic Law, che venne promulgata dal National People’s Congress of People’s Republic of
China (NPCP) già il 4 aprile del 1990.
1.4 Assetto Politico del “Porto Profumato” nell’Epoca Coloniale
Prima di entrare nel dettaglio del funzionamento della HKRAS intendo illustrarne brevemente il sistema
precoloniale al fine di rendere chiara la continuità istituzionale che si registra prima e dopo il 1997.
Il regime coloniale si basava principalmente su due elementi: le Lettere Patenti e le Istruzioni Reali,
atte a colmare i vuoti legislativi della prima. Lo scopo era quello di assicurare al Governatore, ponte tra la
Corona e la colonia, potere assoluto nel territorio. Potere che era, tuttavia, volutamente limitato da altri
organi per dare un senso vagamente democratico al governo coloniale. Tale necessità divenne poi ancora
maggiore dopo la parentesi dell’occupazione giapponese, quando i coloni inglesi avvertirono l’urgenza di
affrontare la questione della legittimità del governo a Hong Kong.
Il funzionamento della colonia ruotava attorno alla figura del Governatore, nominato dalla Regina,
che gli conferiva il potere di scegliere i membri ufficiali e ufficiosi del Legislative Council e
dell’Executive Council. Quest’ultimo veniva consultato dal Governatore nelle questioni principali del
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processo decisionale
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ed era composto da sei membri ufficiali, di cui cinque di diritto che non necessitavano di alcuna nomina
(Colonial Secretary, Colonial Treasurer, Attorney General, Commander of British Forces), e da otto
membri cosiddetti ufficiosi. Per vedere il primo componente cinese dell’Executive Council bisogna
aspettare fino al 1926, quando fu nominato il businessman Shouson Chow (King, 1975).
Il Legislative Council aveva invece potere legislativo e di controllo finanziario. L’approvazione dei
disegni di legge, tuttavia, richiedeva l’autorizzazione del Governatore, che avrebbe potuto rifiutarsi di
approvare un progetto di legge a lui poco gradito, e della Regina che conservava il proprio potere di
abrogazione. Tutti i quadri erano obbligati a giurare fedeltà alla Corona per poter entrare nel pieno delle
proprie funzioni. Tra i membri ufficiosi si ricorda il diplomatico cinese Ng Choy, nominato nel 1880 (Yep,
2018).
La necessità di costituire un regime riconosciuto come legittimo dalla popolazione portò al
fenomeno che King (1975) definisce come “administrative absorption of politics”: un’assimilazione
dell’elemento politico in quello amministrativo per mezzo della cooptazione delle élite socioeconomiche
locali, al fine di dare loro una parvenza di coinvolgimento nell’amministrazione. Definito da alcuni
studiosi una “synarchy”, era questo un governo congiunto di britannici e cinesi (King, 1975). Questi ultimi
ricevevano finalmente la possibilità di fare carriera nell’ambiente amministrativo e fungevano da
importante raccordo tra il governo coloniale e la popolazione locale. Chiaramente la cooptazione era solo
di facciata, a detenere il potere reale erano comunque gli inglesi; inoltre tra i locali, ad essere interpellate
erano solamente le élite. L’integrazione dei membri locali nel potere politico passava ad ogni modo anche
per altri organi: un Urban Council (consiglio municipale, incaricato di provvedere ai servizi locali) e una
serie di Advisory Bodies. Il primo era l’unico organo parzialmente eletto in epoca coloniale. La scarsa
partecipazione della popolazione (i registrati al voto non superavano mai l’1%), tuttavia, trasmetteva
l’immagine dell’apatia politica di cui si è già parlato. Essa derivava anche dall’ atteggiamento di una
amministrazione coloniale che circoscriveva i propri obiettivi alla crescita economica e alla stabilità
politica, lasciando poco spazio allo sviluppo di una coscienza popolare democratica. Si evince che il
tentativo di amministrare la politica “it is the antithesis of politization” (King, 1975).
Per quanto concerne gli Advisory Bodies, essi venivano consultati nel processo di decision- making,
nonostante poi l’effettivo peso della loro opinione fosse del tutto irrisorio. Tra i principali organi consultivi
vi erano il Po Leung Kuk (per il sostegno di mamme e bambini orfani), il gruppo Tung Wah (per
l’educazione e i servizi all’interno della comunità) e altre associazioni di vicinato (Yep, 2018). Il ruolo di
questi organi contribuiva a dare la parvenza di un “government by consultation” e a rafforzare quella
coalizione governativa informale che si era creata tra élite coloniale ed élite locale (Cheung, 1997).
La Cina compare già nell’epoca coloniale come attore politico esercitante un’influenza significativa
nella politica di Hong Kong. Anch’essa aveva infatti già messo in atto un processo di cooptazione di
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quell’élite che avrebbe facilitato la futura presa del potere. Il Partito Comunista Cinese mise radici sul
territorio hongkonghese a partire dal 1937, durante la guerra Sino-Giapponese, quando Hong Kong venne
sfruttata come base per tenere al sicuro materiale utile alla guerra e per la mobilitazione di risorse. Il PCC
nella colonia sposava una linea diametralmente opposta alla politica di massa perseguita in Cina; esso
faceva principalmente gli interessi dei “big capitalists”, ovvero ex membri del National People’s Congress
of China (NPCC) o del Chinese People’s Political Consultative Conference (CPPCC), industriali o
businessmen (Chu, 2011).
Le mosse dei cinesi erano dettate dalla strategia del United Front, il cui obiettivo, da una citazione di
Mao Zedong, era:
“(To) isolate the enemy by winning the vast majority to the side of the revolution, then through struggle, the isolated and now vulnerable enemy is destroyed” (Bush, 2016).
Ad Hong Kong questa strategia trovava senz’altro un punto d’appoggio nella Federation of Trade
Unions (FTU) che, fondata già nel 1948, era un corpo ideologicamente schierato a sinistra e leale a
Pechino (Bush, 2016). Altro strumento di cooptazione cinese era la New China News Agency, una
rappresentazione semi-diplomatica, che dava alla Cina comunista l’opportunità di studiare il
funzionamento del sistema coloniale inglese e d’insediarsi in modo sempre più significativo nel territorio.
Questo organismo ebbe un ruolo fondamentale nella formazione dei già citati comitati consultivi atti alla
stesura della Basic Law (Chu, 2011). Infine, già fortemente radicato, il PCC stimolò nel 1992 la
formazione del Democratic Alliance for the Betterment and Progress of Hong Kong (DAB), un partito a
supporto di Pechino (Bush, 2016).
Questo passaggio sulla cooptazione è estremamente utile per comprendere l’attuale funzionamento
della HKRAS, fondata su quell’élite che, analogamente al periodo coloniale, funge da tramite fra la
popolazione locale e il potere centrale (Pechino). La differenza tra le due amministrazioni è rintracciabile
nella maggior complessità che caratterizza la seconda; complessità che è dovuta non solo al nuovo
contesto locale e internazionale ma anche all’ inedita spaccatura originatasi tra l’organo esecutivo e quello
legislativo che verrà esaminata nel dettaglio qui di seguito.
1.5 Funzionamento della HKRAS
“The Hong Kong Special Administrative Region is an inalienable part of the People’s Republic of China” (Art. 1, Basic Law).
Così recita l’Art. 1 della Basic Law, la mini-costituzione che regola il funzionamento della HKRAS,
in vigore dal 1° luglio 1997. Il passaggio di Hong Kong da colonia inglese a regione speciale sotto la RPC
è regolato dall’Art. 31 della costituzione cinese che riporta:
“The state may establish special administrative regions when necessary. The systems to be instituted in
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special administrative regions shall be prescribed by law enacted by the National People’s Congress in the light of specific conditions.”
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Segue ora un’analisi della conformazione del potere esecutivo, legislativo e giudiziario così come è
stata pensata dal National People’s Congress e così come riportata dalla Basic Law. Un’analisi di questo
genere è base necessaria per spiegare il malcontento popolare che porterà alle proteste e alle conseguenti
richieste di riforme costituzionali di cui si tratterà nel prossimo capitolo.
Il Potere Esecutivo:Figura 1: Struttura del potere esecutivo nella HKRAS
Prof. Yep (2019)
La fig. 1 sarà funzionale all’argomentazione sul funzionamento del potere esecutivo. Esso è
principalmente nelle mani del Chief Executive (CE) il quale è legato da un vincolo di responsabilità e al
Governo Centrale e al governo di Hong Kong (Art. 43). Egli deve essere obbligatoriamente un cittadino
cinese di almeno 40 anni, residente sul territorio per un periodo continuativo minimo di 20 anni (Art. 44).
Il singolo mandato ha una durata di 5 anni e può essere prolungato una sola volta (Art. 46). I poteri
conferiti al CE dalla Basic Law sono piuttosto significativi, tra i principali vi sono la facoltà di emanare
provvedimenti legislativi; nominare i principal officials (il cui ruolo verrà trattato più avanti), i quali
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dovranno poi sottostare
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alla ratifica del NPC); designare i funzionari degli uffici pubblici e i giudici (con annesso potere di
destituirli secondo la Legge) (Art. 48). Peculiare è il meccanismo di selezione del CE, regolato dall’Art. 45
della Basic Law, secondo il quale il metodo prescelto dovrebbe essere tramite “elezioni o consultazioni”. Il
comma successivo costituirà l’appiglio fornito ai manifestanti protagonisti del Movimento degli Ombrelli
del 2014 che verrà analizzato nel capitolo seguente.
“The ultimate aim is the selection of the Chief Executive by universal suffrage upon nomination by a broadly representative nominating committee in accordance with democratic procedures.”
Tornando alla selezione del CE, l’Annex I della Basic Law fa riferimento ad un Election Committee
(EC) composto da 800 membri (diventano poi 1200 nel 2011) che ha il compito di eleggere il Chief
Executive, la cui elezione viene successivamente ratificata da parte del NPC. La controversia del sistema si
riscontra nella formazione di questo gruppo di 1200 elettori. Essi infatti, vengono a loro volta designati
sulla base di 4 gruppi aventi la possibilità di esprimere 300 voti ciascuno. Per gruppi si intende quello
commerciale-finanziario, professionale, politico (membri del Legislative Council, deputati hongkonghesi
del NPC o del CPPCC) e infine quello comprendente i lavoratori, i servizi sociali e le comunità religiose. I
quattro settori appena citati sono ancora divisi in 38 sub-settori, la cui composizione varia molto da un
sub- settore all’altro3 (Lam et alii, 2007).
Per rendere più chiara l’intricata procedura seguiranno alcuni dati. Il sub-settore relativo
all’educazione (gruppo professionale) ha un grande bacino di elettori (circa 100.000) ma può comunque
eleggere solo 30 membri dell’Election Committee. All’estremo opposto la Federazione dei Datori di
Lavoro di Hong Kong (appartenente al gruppo commerciale- finanziario) elegge 16 membri del comitato
elettivo ma sulla base di appena 100 corporazioni (per alcuni sub-settori il voto è corporativo e non
individuale) (Wong, 2017). È piuttosto evidente, dunque, che la grande sproporzione presente tra i diversi
settori conferisce molto peso al voto singolo dei membri dei piccoli settori e rende pressoché irrilevante il
voto di coloro i quali si ritrovano inseriti in un settore con un bacino elettorale molto ampio. Per quanto
riguarda il sistema elettorale, il singolo candidato alla carica di Chief Executive deve assicurarsi la nomina
di almeno 1/8 dei componenti dell’Election Committee (150 voti) per accedere alla votazione vera e
propria. Il candidato che ottiene più del 50% dei voti (601), prima di prendere il potere dovrà essere
formalmente incaricato dal NPC, in altre parole, “is required to go through the acceptance test conducted
by the CPG” (Governo Centrale) (Lam et alii, 2007). È chiaro che un ordinamento in cui solo il 5% (circa
200.000 persone su oltre 7 milioni di abitanti) degli aventi diritto può votare per il proprio rappresentante
non si può definire prettamente democratico (Yep, 2018). In aggiunta, secondo uno studio condotto dal
quotidiano South China Morning Post nel 2011, 78 membri dell’EC hanno votato per tutti e 4 i capi
dell’esecutivo; mentre 219
17
3 Per ulteriori informazioni sulla composizione e la ripartizione dei voti nei singoli settori e sub-settori consultare https://www.eac.hk/pdf/ecse/en/2016ecse/guidelines/2016ecse_Appendix_b.pdf
12
avevano partecipato 3 volte alla votazione4. Una volta scelto il nuovo capo dell’esecutivo egli sarà
incaricato di formare l’Executive Council (ExCo) designando direttamente i 16 membri non ufficiali e
nominando i 16 principal officials, i quali prenderanno il potere solo a seguito dell’autorizzazione
rilasciata da Pechino. Può essere membro del suddetto organo chiunque tra i principal officials, i membri
del legislativo o figure di spicco nella vita pubblica di Hong Kong. È piuttosto rilevante il fatto che non sia
prevista la presenza di membri dell’opposizione pan-democratica. L’ExCo è un organo consultivo, posto
in una relazione di assoluta inferiorità rispetto al Chief Executive. Nonostante quest’ultimo debba
consultare l’ExCo per le decisioni principali, prima d’introdurre progetti di legge nel Legislative Council o
per dissolvere il Legislative Council, egli è costituzionalmente libero di non accettare l’opinione della
maggioranza semplicemente ponendo per iscritto le sue motivazioni (Art. 56). L’organo consultivo del CE
deve inoltre conformarsi a due principi fondamentali: la responsabilità collettiva (nessun membro ha il
diritto di criticare l’operato del governo in pubblico, a prescindere dalle proprie idee) e la riservatezza (è
proibito rivelare dettagli su quanto avviene all’interno dell’ExCo) (Yep, 2018) Riassumendo, quindi,
l’Executive Council è composto da membri non ufficiali, generalmente appartenenti a partiti
filogovernativi e membri ufficiali cosiddetti principal officials, che, seppur con qualche distorsione
concettuale, possono essere indicati come ministri. Questi ultimi sono stati introdotti con una riforma della
pubblica amministrazione nel 2002, nel tentativo di fornire un’alternativa alla totale mancanza di
legittimazione all’interno dell’esecutivo. Al loro posto, prima della riforma, vi erano dei burocrati legati a
partiti politici e senza l’obbligo di responsabilità nei confronti delle policy da loro implementate. Con il
nuovo Principal Officials Accountability System, l’elemento politico viene staccato da quello
amministrativo. In altre parole, i principals officials, sotto nomina di carattere politico, sono responsabili
(quindi punibili) del successo e del fallimento delle policy legate al proprio dipartimento; i burocrati
vengono mantenuti nell’ordinamento ma sono tenuti a rispettare il principio di neutralità e hanno ruolo
consultivo e di implementazione delle policy espresse dai policy-makers (Cheung, 2011).
Il Potere Legislativo
La discussione in merito al potere legislativo sarà centrata su un aspetto peculiare della politica
hongkonghese, ovvero sulle limitazioni dello stesso potere. Prima di fare un’analisi in questo senso è però
utile comprendere la struttura del Legislative Council (LegCO). Il LegCo si compone di due sezioni, elette
con metodi differenti: i functional constituencies (FC) e i geographical constituencies (GC), entrambe
composte da 35 membri. I membri del GC sono eletti direttamente (con sistema proporzionale a liste
bloccate sulla base di 5 circoscrizioni territoriali molto ampie), quelli dell’FC, invece, sono eletti con un
complesso metodo legato alla rappresentanza per settori professionali (analogamente all’Election
4 https://www.scmp.com/news/hong-kong/politics/article/1792404/hong-kong-kingmakers-300-committee- members-long- history
13
Committee). Come osserva Bush (2016), Pechino progetta la Basic Law in modo da tenere sotto controllo
il risultato elettorale, e soprattutto affinché i suoi sostenitori siano coloro i quali detengono il potere. Per
quanto riguarda il LegCo, gli FC sono l’espressione di questa strategia politica. Il sistema elettorale di
questa sezione è molto simile a quello utilizzato per la costituzione dell’Election Committee: i loro 35
membri vengono eletti attraverso 29 Functional Constituencies (e.g. il settore relativo all’educazione,
all’agricoltura, quello commerciale, finanziario, ecc.). Ogni singolo FC ha diritto ad un voto individuale,
corporativo oppure entrambi (voto ibrido). I voti, con il metodo del first-past-the-post restituiranno un
seggio per ogni FC, fatta eccezione per il labour, i cui membri eleggono 3 rappresentanti5. Nel 2012 venne
approvata una riforma che introduceva un nuovo FC con il nome di District Council (DC), con il diritto di
eleggere 5 rappresentanti. A differenza degli altri FC, in cui gli elettori devono essere esclusivamente
appartenenti al settore in questione o avere legami con esso, il DC è il settore che comprende coloro i quali
non rientrano negli altri (Yep, 2018). Anche in questo caso la lettura di dati può facilitare la comprensione
non solo della procedura ma delle implicazioni della stessa. Così come per i sub-settori dell’Election
Committee, le sezioni degli FC hanno composizioni numericamente diverse tra loro: il FC finanziario
conta 125 elettori (voto corporativo), quello relativo all’educazione (voto individuale) invece ne ha
88,185. Dato che in entrambi i casi il seggio disponibile è uno solo, è chiaro come il settore finanziario sia
meglio rappresentato nel LegCo rispetto a quello dell’istruzione. Il peso del voto singolo, nel primo caso, è
certamente maggiore6.
Una volta analizzata la composizione dell’organo legislativo è possibile concentrarsi su funzioni e
limiti dello stesso. Secondo l’Art. 73 della Basic Law, il Legislative Council ha il potere di promulgare,
emendare e abrogare i progetti di legge; esaminare e approvare il bilancio proposto dal governo così come
la tassazione e la spesa pubblica. Il potere di legiferare è però di fatto ridimensionato dall’elevatissimo
numero di decreti governativi emessi dall’esecutivo. Inoltre, le proposte di legge avanzate da singoli
membri del LegCo (pratica esistente nelle comuni democrazie) non possono riguardare questioni di spesa
pubblica, struttura politica della regione o operazioni di governo. I disegni di legge riguardanti le politiche
governative, infine, necessitano dell’approvazione del CE per essere introdotti nel LegCo (Art. 74). La già
palese preminenza dell’esecutivo sul legislativo è ulteriormente confermata dai numeri: durante la
legislatura 2008- 2012 sono stati approvati 91 progetti di legge in totale; solo due di questi sono frutto di
proposte individuali, le leggi restanti hanno origine governativa (Wong, 2017). Altra questione legata alle
proposte individuali è il meccanismo dello split-voting. Per le leggi proposte dal governo, infatti, è
sufficiente la maggioranza semplice dei presenti nel LegCo; affinché le leggi proposte da singoli membri
vengano approvate, invece, è richiesta maggioranza sia tra i Functional Constituencies che tra i
Geographical Constituencies. Si verifica
14
5 Cfr. https://www.legco.gov.hk/education/files/english/Exhibition_Panels_Supplementary_Notes/Composition- of-the- LegCo.pdf6 https://www.voterregistration.gov.hk/eng/statistic20163.html
15
spesso un fenomeno detto “minority veto, ovvero capita che il primo gruppo, seppur in minoranza rispetto
al secondo, con il proprio veto abbia il potere di bloccare il progetto di legge.
Infine, per dare un’idea di quanto sia complesso riformare il sistema di Hong Kong, farò un breve
cenno alla modalità da seguire per tale scopo. La procedura è suddivisa in 5 fasi: in primo luogo il CE
deve notificare la necessità di una riforma, a cui deve seguire l’approvazione del National People’s
Congress Standing Committee (NPCSC, corpo ristretto del NPC);
successivamente il LegCo deve ottenere il supporto di una maggioranza di almeno 2/3, nel caso in
cui anche questa richiesta fosse soddisfatta è necessario chiedere l’ulteriore autorizzazione del CE prima e
del NPCSC poi. La procedura per emendare la Basic Law, invece, è ancora più complicata, viene richiesta
infatti oltre alla maggioranza dei 2/3 del LegCo, anche quella dei delegati di Hong Kong al NPC, insieme
ovviamente all’approvazione del CE. La decisione finale spetterà comunque al NPC.
Potere Giudiziario
Per quanto riguarda il potere di applicare la legge è sufficiente inquadrare la HKRAS in un sistema
di Common Law, evidentemente ereditato dal periodo coloniale. Il sistema teoricamente vigente, dunque,
dovrebbe essere quello dello Stato di Diritto, tuttavia è interessante notare come sin dal periodo coloniale
Hong Kong sia il risultato di forze contrapposte: la Rule of Law da un lato, frutto del periodo fortemente
riformista di Patten, nonché della secolare tradizione liberale britannica; e di Law and Order dall’altro,
espressione, in concreta opposizione con la prima, che ha caratterizzato gran parte dell’amministrazione
coloniale e che è il motore della Cina di ieri e ancor più di oggi, che fa della sicurezza nazionale il suo
primo obiettivo (Ku, 2004). Ai fini di questo testo mi concentrerò sulla questione del giudizio finale, che
secondo la Basic Law spetterebbe ad una Court of Final Appeal (CFA), la quale però non avrebbe il diritto
di giurisdizione sulle questioni di Stato riguardanti la difesa e gli affari esteri. Tutto ciò che esula dal
compito della CFA è potere del NPCSC. Quest’organo, politico per altro, quindi senza il potere di
giurisdizione in un normale Stato di Diritto, è la chiave del legame tra la Repubblica Popolare e la HKRAS
(Lam et alii, 2007). Le implicazioni del potere della RPC d’interpretare alcune leggi della HKRAS
verranno esaminate nel terzo capitolo.
16
2 Hong Kong tra Proteste e Tentativi di Riforma
Nel capitolo precedente ho inserito Hong Kong in un contesto storico-istituzionale con l’intento di
restituire una fotografia delle fondamenta sulle quali si regge la HKRAS. Il seguente capitolo esaminerà i
tentativi di negoziazione di Hong Kong con Pechino per ottenere una maggiore autonomia e per ricercare
una svolta a favore della democrazia. Le negoziazioni sono fortemente influenzate dalle richieste della
popolazione, che scende in strada sempre più frequentemente con la speranza di un cambiamento.
Reputo importante tale questione perché è a partire dalle contestazioni popolari che il Governo
Centrale si è reso conto della necessità d’inasprire la propria linea politica verso le Regioni
Amministrative Speciali. Il processo d’integrazione politica, economica, sociale così come culturale che è
oggetto della mia analisi, subisce, soprattutto dopo il Movimento degli Ombrelli, una significativa
accelerazione.
2.1 Espressione del Dissenso a Hong Kong
Il discorso sui movimenti di protesta è fortemente plasmato dall’ibridismo del sistema di Hong Kong: il
suo essere una “civil oligarchy”, infatti, presuppone l’esistenza di strumenti atti alla limitazione dei
cambiamenti. In altre parole, le riforme semi-democratiche avanzate dal governo sono promosse da una
cerchia ristretta che ha interesse ad evitare disordini, più che a dar voce alle richieste degli hongkonghesi.
Ed è proprio la mancanza di partecipazione popolare a generare malcontento, il quale sfocia poi in proteste
che l’apparato governativo non è capace di contenere (Cheng, 2016). Tuttavia, è bene ricordare che,
sempre per effetto del citato ibridismo, i residenti della HKRAS “have enjoyed meaningful,
institutionalized channels for political input”, per questo motivo, i manifestanti tendono ad essere piuttosto
“law-abiding”, così come la risposta dell’amministrazione prevede in genere un limitato uso della
violenza7 (Wright, 2018).
I movimenti di opposizione al governo e le richieste di maggiore partecipazione politica si
registrarono a Hong Kong già prima del 1997. La società civile, soprattutto a ridosso dello Handover, si
mostrava piuttosto attiva, uscendo da quella condizione di apatia politica che alcuni studiosi avevano
riscontrato nell’epoca precedente8 (Yep, 2018). La speranza era quella di giungere ad una piena
democratizzazione di Hong Kong, concretizzando le riforme di apertura avviate dall’amministrazione
Patten. L’attività dei gruppi democratici non cessò dopo l’Handover, anzi, crebbe in modo proporzionale
alla consapevolezza che la Cina avrebbe difficilmente portato a termine le promesse inserite nella Sino-
British Joint Declaration. Ad alimentare la speranza degli attivisti vi era la certezza dell’impossibilità
della Repubblica Popolare di reprimere brutalmente l’opinione pubblica nella RAS: innanzitutto Hong
Kong doveva fungere da polo
7 Affermazione che rischia di essere smentita oggi, alla luce della più grave crisi registrata a Hong Kong dal 1997, scoppiata a
17
seguito delle proteste contro la legge di estradizione verso Macao, Taiwan e Cina continentale.8 Grande risonanza ebbero le proteste a seguito dei fatti di Tiananmen del 1989. A soli 8 anni dallo Handover, gli abitanti di Hong Kong temettero per il futuro dei diritti civili e politici che erano stati promessi nella Joint Declaration. Masse di gente di ogni genere, status economico e opinione politica scesero in strada a manifestare il proprio dissenso verso l’azione violenta del Partito Comunista Cinese (Hemlock, 2019).
18
attrattivo per Taiwan, sperando di aggiudicarsene il consenso riguardo all’applicazione del “One Country,
Two Systems”; in secondo luogo la HKRAS era stata pensata come centro finanziario mondiale, utile
all’internazionalizzazione del RMB, la valuta cinese. Tale azione avrebbe opportunamente richiesto un
sistema legale credibile, una libertà di stampa effettiva e soprattutto una concreta stabilità politica9 (Hung,
Ip, 2012).
La trasformazione dei movimenti di contestazione popolare è riscontrabile nel cambiamento
lessicale: fino al 2006 le proteste a Hong Kong venivano indicate con il nome di “youxing 游行” o “jihui
集”, ovvero dimostrazioni o manifestazioni; queste (fatta eccezione per gli eventi del 2003) erano limitate
a piccoli gruppi di persone che rivendicavano gli interessi della propria cerchia di riferimento. Le
manifestazioni erano prontamente organizzate, con tanto di slogan progettati dagli esperti: “this practice
indicates the absorption of street protest into electoral politics” (Cheng, 2016). In altre parole, la protesta
popolare assunse nella HKRAS un ruolo non propriamente tipico delle democrazie occidentali, non più
mezzo di espressione della popolazione, ma mero strumento politico dell’opposizione al governo, che lo
utilizzava come fonte di pressione per ottenere l’approvazione di riforme di apertura politica.
Con il tempo, il dissenso si fece più radicale, sposando il principio per il quale “moderation would
never yield genuine change” (Bush, 2016). La moderazione, dopotutto, non era incentivata, come oggi,
neanche dal sistema elettorale che, con il calcolo dei resti10, attribuisce voti anche a candidati impopolari o
fuori dalla scena mainstream (Cheung, 2015).
Il cambiamento nella cultura delle proteste nella HKRAS è verificabile con alcuni dati visibili nella
Tab. 1. Nella categoria “legal processions” sono incluse le manifestazioni precedentemente
autorizzate: è significativo il loro aumento, da un totale di 1974 nel 2004; esse raggiungono il picco nel
2012, con 7529 dimostrazioni. Un altro dato rilevante, come sottolinea Cheng (2016), è l’aumento negli
anni dei processi per assemblea non autorizzata o aggressione ad agente di polizia, che l’autore traduce
con un incremento della “civil disobedience”.
9 Mentre scrivo la Cina sta già lavorando per fare in modo che in futuro Shenzhen possa sostituire Hong Kong nel suoruolo di centro finanziario e tecnologico. “Significa che Pechino manda un messaggio molto chiaro: ora come ora Hong Kong non è più fondamentale come prima e nel futuro potrebbe esserlo ancora meno” (Pieranni, 2019a).10 Il Sistema elettorale per la formazione del LegCo a Hong Kong prevede che i candidati siano organizzati in liste. I seggi vengono distribuiti alle liste che superano la soglia di sbarramento. Se la percentuale di voti raccolti da una lista è il doppio della soglia di sbarramento, si potranno eleggere due candidati (seguendo l’ordine d’iscrizione sulla lista). La ripartizione dei seggi viene poi esaurita calcolando i resti più alti, ovvero sommando i voti ottenuti dai candidati non ancora eletti di ogni lista e attribuendo i restanti seggi alla lista con il maggior numero di voti.
19
Tabella 1: Andamento delle proteste a Hong Kong negli anni 2004-2014
(Cheng, 2016)
A spiegare tale sviluppo vi sono i dati di un sondaggio condotto dall’Asian Barometer, che osserva
come i giovani d'oggi siano più istruiti e più vicini alla politica rispetto a nonni e genitori. Il malcontento
generato dalla situazione politico-istituzionale del loro paese fa sì che essi prediligano la mobilitazione di
massa più che le forme tradizionali di partecipazione politica (Bush, 2016). Anche il bersaglio delle
proteste nella RAS subisce un cambiamento nel corso del tempo: dapprima il governo locale, diventa poi il
Governo Centrale nel momento in cui la popolazione prende coscienza dell’effettiva ingerenza di questo
negli affari della Regione (Cheng, 2016).
Ponendo invece l’attenzione sulla natura delle proteste nella HKRAS, è riscontrabile una variazione
nel tempo dalla centralità dell’elemento politico (che si riscontra alla fine del periodo coloniale, come
detto prima) a quello economico. Il punto di svolta fu la crisi finanziaria che colpì alcuni paesi dell’Asia
Orientale proprio nel 1997, anno dello Handover. L’amministrazione Tung si scoprì incompetente, si coprì
di scandali (e.g. quello legato all’edilizia residenziale pubblica11), e non fu in grado di alleviare il peso
della crisi economica sulla popolazione, specialmente sui meno abbienti. Il peso morale di un Chief
Executive non direttamente eletto gravò su Tung e il malcontento raggiunse l’apice con la diffusione
dell’epidemia di SARS (So, 2011).
2.2 La Società Civile Hongkonghese contro la Legge sulla Sicurezza Nazionale
La scintilla che accese le proteste nel 2003 fu la proposta della Legge sulla Sicurezza Nazionale, elaborata
11 Cfr. https://www.wsj.com/articles/SB961940115899086863
20
dal governo sulla base dell’obbligo costituzionale previsto dall’Art. 23 della Basic Law, che recita:
“The Hong Kong Special Administrative Region shall enact laws on its own to prohibit any act of treason, secession, sedition, subversion against the Central People’s Government, or theft of state secrets, to prohibit foreign political organizations or bodies from conducting political activities in the Region, and to prohibit political organizations or bodies of the Region from establishing ties with foreign political organizations or bodies.”12
Tung Chee-hwa, il primo Chief Executive della HKRAS, aveva atteso il suo secondo mandato per
portare a termine il compito assegnatogli da Pechino: la messa in pratica del sopracitato articolo 23 della
Basic Law. La reazione popolare fu la più significativa mai registrata dopo l’Handover: il 1° luglio 2003, a
sei anni dalla nascita della HKRAS, 500.000 persone marciarono per 6 ore consecutive, esprimendo il
proprio dissenso contro la normativa. Ciò che spinse un così elevato numero di abitanti a manifestare fu la
paura di perdere quei diritti e quelle libertà che erano state loro concesse nella Basic Law. Anche
autorevoli voci di giudici, avvocati e giuristi espressero la propria contrarietà, contestando le “vague
definitions of subversion, sedition, treason – all these traditional things which would greatly put you in
danger of the law”. Oggetto di critiche erano appunto la definizione di “sovversione”, termine piuttosto
lontano dalla tradizione di Common Law britannica e di “secessione”, che chiaramente sarebbe stato un
appiglio per Pechino contro ogni tentativo di distacco di Hong Kong. Anche l’ipotesi di dare più poteri al
corpo di polizia fu piuttosto avversata così come la possibilità di bandire alcune organizzazioni per ragioni
di sicurezza nazionale causò non poco malcontento tra i membri del tanto contrastato Falun Gong13 (Tong,
2018).
L’azione popolare si diffuse in tutto il territorio di Hong Kong, riunita in un Civil Human Right Front,
di cui facevano parte circa 40 gruppi differenti (dalla comunità LGBT a gruppi religiosi, associazioni
di studenti, e attivisti democratici). Il Front era una piattaforma utile allo scambio d’informazioni ma
quanto a coordinamento e pianificazione ogni gruppo interno dettava la propria agenda e le proprie
priorità. I due gruppi più attivi in queste proteste furono quelli legati alla Chiesa Cattolica e i professionisti
del settore legale. Si unirono alla contestazione anche alcuni membri interni al LegCo, non appartenenti al
gruppo filogovernativo, nonché governi e multinazionali straniere che conservavano legami con Hong
Kong. Un ruolo esclusivo fu rivestito da media e dai social media che facilitarono la mobilitazione di
massa come mai prima (Wright, 2018).
Tornando allo svolgimento dei fatti, i manifestanti indissero un’altra dimostrazione per il 9 di luglio,
fuori dal palazzo del LegCo. Entro il 6 luglio fu però già chiaro che la legge non avrebbe avuto la
maggioranza necessaria per l’approvazione nel Legislative Council, a seguito dell’azione delLiberal Party,
12 L’Art. originale, redatto dal Basic Law Drafting Committee nel 1988 era più vago: esprimeva semplicemente la necessità di varare una legge per bandire “any act designed to undermine national unity or subvert the central government”. Dopo i fatti del 1989 fu modificato nella versione nota ancora oggi (Ng, 2017).
21
13 Nel 1999 il movimento del Falun Gong era stato messo al bando in Cina con l’accusa di rappresentare un pericolo per la sicurezza nazionale e per il governo del PCC. http://news.bbc.co.uk/2/hi/asia-pacific/561265.stm
22
che fece mancare il proprio sostegno alla proposta. Di conseguenza, il governo dichiarò il giorno seguente
che avrebbe rinviato la questione (sarebbe stata poi ritirata definitivamente a settembre). Sull’onda della
vittoria, i manifestanti scesero ancora in strada e alzarono la posta, chiedendo l’elezione diretta del Chief
Executive e del LegCo.
La società civile aveva, così, avuto la meglio sui partiti politici: si può addirittura affermare che i
partiti stessi dipendessero dall’opinione pubblica più che guidarla. A cavalcare quest’onda erano le
organizzazioni a supporto della democrazia, i cui membri iniziarono ad inserirsi nel campo istituzionale
ottenendo buoni risultati nelle elezioni del District Council nel 2003 e del LegCo l’anno successivo
(Wong, 2017).
Mi permetto a questo punto di tornare sul discorso del capitolo precedente riferito alla cooptazione,
portata avanti nel periodo coloniale sia dalla Corona inglese sia dalla Cina. È evidente come, con la
comparsa di strumenti tipici della democrazia elettiva (seppure non si possa etichettare Hong Kong come
regime democratico), il sistema istituzionale si complichi e la cooptazione risulti un po’ meno efficace. A
differenza dell’assoluta fedeltà e del certo supporto che l’élite cooptata forniva all’autorità nel periodo
coloniale, nella HKRAS i singoli membri del governo perseguono i propri interessi, i quali talvolta
possono coincidere con quelli del PCC, altre volte, si trovano a viaggiare su strade opposte. James Tien fu,
nel 2003, l’esempio concreto della mancata efficienza della cooptazione da parte cinese: egli, divenuto
leader del Liberal Party, membro del LegCo e del Chinese People’s Political Consultative Conference, si
dimise dall’Executive Council, di cui faceva parte dal 2002, per opporsi alla Legge sulla Sicurezza
Nazionale. Seguirono poi le dimissioni del Chief Executive con il conseguente innalzamento delle tensioni
tra governo ed élite, nonché tra governo e popolazione (Cheung, Wong, 2004). Le dimissioni di Tung e la
sospensione della legge ebbero un effetto positivo sulla società civile, la quale ebbe la prova del fatto che
“the mere size of the majority (as shown by polls) is not as important as the intensity of public sentiment
and the organisation and manner of its expression” (Lam et alii, 2007).
Si può definire questo evento uno spartiacque nella storia politica di Hong Kong perché, se da un
lato a trionfare fu la popolazione scesa in strada, dall’altro, il Governo Centrale mise in atto una strategia
di “reconfiguration”. Avviò cioè “un processo d’integrazione economica, adeguamenti istituzionali e
costruzione dell’identità che miravano a subordinare la società locale alla propria sovranità” (Cheng,
2016).
2.3 Primi Tentativi di Riforma e Inasprimento dei Rapporti tra la Popolazione e l’Élite al Governo
A seguito delle grandi proteste del 2003, giunse la decisione del NPCSC del 6 aprile 2004 che introduceva
il metodo, spiegato nel capitolo precedente, per apportare emendamenti all’elezione del CE e alla
formazione del LegCo. La procedura, tuttora, richiede l’approvazione del Governo Centrale ancor prima di
23
presentare la riforma nel LegCo e poi, chiaramente, anche al termine del processo (Basic Law, Instrument
18). Si trattò
24
evidentemente di un altro tentativo di bloccare lo sviluppo democratico della RAS.
Per placare il malcontento, l’amministrazione locale tentò l’avanzamento di timide riforme. Il
risultato, però, non accontentò i sostenitori della democrazia, i quali giudicarono la risposta del governo
eccessivamente conservatrice. La proposta in questione prometteva di allargare l’Election Committee, da
800 a 1200 membri, e di aggiungere 10 membri al LegCo: 5 nel Geographical Constituency e 5 nel
District Council Functional Constituency (Wong, 2017). I democratici erano combattuti: se avessero
accettato la debole riforma proposta i cambiamenti sarebbe stati quasi nulli; al contrario, ponendo il veto
su di essa avrebbero acconsentito al mantenimento dello status quo. Decisero infine di rifiutare, né Pechino
si rese disponibile ad un’ulteriore apertura, tanto che nessun cambiamento fu apportato al regime di Hong
Kong (Ma Ngok in Yep, 2013).
L’elezione a Chief Executive di Donald Tsang nel 2007 (che era subentrato a Tung nel 2005, dopole
dimissioni di quest’ultimo) sollevò di nuovo la questione del suffragio universale, anche in vista delle
elezioni del LegCo, che si sarebbero tenute l’anno successivo. In quel contesto, il NPCSC affermò che per
le elezioni del 2012 non era possibile introdurre alcun cambiamento, tuttavia:
“(…) the election of the fifth Chief Executive of the Hong Kong Special Administrative Region in the year 2017 may be implemented by the method of universal suffrage; after the Chief Executive is selected by universal suffrage, the election of the Legislative Council of the Hong Kong Special Administrative Region may be implemented by the method of electing all the members by universal suffrage” (Basic Law, Annex III, Instrument 18).
Le premesse sembrarono buone, tanto da far emergere una piccola speranza anche nei più scettici.
L’ottimismo per la promessa riguardo la futura implementazione del suffragio universale, previsto
dall’Art. 45, fu però offuscato dalla clausola riguardante un “Nominating Committee”, atto a gestire la
nomina del CE, a cui avrebbe fatto seguito l’elezione popolare. Ciò che si verificò fu uno scontro sulla
base della definizione di “suffragio universale”: il Governo Centrale mise a tacere le richieste degli
hongkonghesi, che rivendicavano il diritto di scegliere da sé i propri rappresentanti, affermando che ciò
avrebbe violato la Basic Law; “an ironic charge”, commenta Davis (2015), “given that even if it is true,
their own restrictions have violated that law more profoundly still”.
Oltre al susseguirsi di concessioni e promesse offerte alla popolazione dal governo locale e Centrale,
si verificarono in quegli anni svariate dimostrazioni per i temi più disparati. Nel 2007, per esempio, alcune
categorie di lavoratori quali i costruttori, le infermiere, gli insegnanti e gli assistenti sociali, scesero in
strada per manifestare contro il mancato adeguamento degli stipendi al trend di crescita, registratosi nella
HKRAS dopo la crisi economica di dieci anni prima.
Più o meno nello stesso periodo, un gruppo chiamato “Local Action” organizzò una serie di proteste
a favore del mantenimento del patrimonio culturale locale, esponendo la propria contrarietà al piano
governativo riguardo la demolizione di siti storici quali lo Star Ferry Terminal e il Queen’s Pier. Le
25
dimostrazioni assunsero presto il significato di rivendicazione degli spazi pubblici, pretesto a cui ci si
appigliò per chiedere una maggiore partecipazione negli affari della comunità. È innegabile che le ragioni
dei manifestanti fossero strettamente legate al processo di “sinizzazione” che stava avvenendo sul loro
territorio (So, 2011).
L’entusiasmo delle proteste del 2003 era aleggiato ancora per qualche anno fra la società civile, ma
si era poi progressivamente spento a seguito della mancanza di reazione da parte del governo. Se, infatti, le
varie dimostrazioni che ebbero luogo tra il 2003 e il 2004 contarono rispettivamente 460.000 e 200.000
partecipanti, quelle degli anni successivi ne totalizzarono una media di 29.000. Non si trattò tanto di
debolezza della società civile rispetto all’élite di governo, quanto alla frammentazione interna della stessa.
Le divisioni erano dovute alla scelta di obiettivi diversi tra i vari gruppi che avevano composto il Front nel
2003, scelte che a volte entravano in contraddizione tra loro (e.g. la comunità LGBT fu più volte boicottata
dai gruppi cattolici).
Tra il 2009 e il 2012 furono ancora organizzate svariate manifestazioni, anche molto significative,
quali il movimento contro l’Express Rail Link e quello contro l’Educazione Nazionale Patriottica (Wong,
2017).
A partire dal 2010, le divisioni nel fronte democratico si acuirono: l’ala più moderata chiedeva una
linea diretta di contatto con Pechino, non mediata dal CE; il gruppo più radicale, invece, voleva andare
oltre le dimostrazioni e le proteste di strada, sfidando Pechino con la proposta di un referendum sul
suffragio. Il leader del Democratic Party, Albert Ho, e la sua ala più moderata si mossero, infine, verso
l’apertura di trattative con Pechino. Anche nel Governo Centrale era prevalsa la linea moderata di chi era
convinto della necessità di una riforma, anche minima, per la RAS: un ulteriore stallo nel governo di Hong
Kong avrebbe causato una crisi irreversibile. Per la prima volta dal 1997 si giunse ad un compromesso tra
le due parti e la riforma fu approvata a giugno del 2011. Essa prevedeva (analogamente alla riforma
proposta nel 2004) l’aumento dei membri del LegCo, da 60 a 70, attraverso l’aggiunta di 5 membri del
District Council, un settore compreso nel Functional Constituency, per cui avrebbero avuto il diritto di
voto tutti coloro i quali non appartenessero ad altri settori (3.2 milioni di elettori in totale) e il supplemento
di 5 membri nel Geographical Constituency. L’accordo raggiunto ebbe un’importanza più simbolica che
sostanziale, essendo la sintesi di anni di scontri tra l’élite pro-Pechino e i pan-democratici: gli ultimi
accusavano i primi di ostacolare la comunicazione con il governo Centrale. Il compromesso tra le parti,
comunque, fu innegabilmente concepito all’insegna del pragmatismo: Pechino mostrò di essere in grado di
fare concessioni, se esse fossero state necessarie alla stabilità della Regione; dal canto loro i democratici,
per ottenere risultati, avrebbero dovuto dimostrare al PCC l’alto costo della sua intransigenza, la quale
avrebbe causato una crisi della legittimità nella HKRAS. Dopo la stipula dell’accordo, si accese tra gli
hongkonghesi la speranza di un dialogo più proficuo con Pechino a proposito della tanto attesa riforma
26
costituzionale che
27
fu, però, presto spenta dagli eventi successivi (Ma Ngok in Yep, 2013).
2.4 Il Movimento Contro l’«Educazione Morale e Nazionale» e Scholarism
Nel 2011, ad appena 14 anni, il giovane studente Joshua Wong fondava Scholarism: un’associazione di
studenti delle scuole secondarie accomunati dal desiderio di contrastare l’introduzione di “Moral and
National Education” nei curricola scolastici. Nel 2012, pur non appartenendo ad alcuna fazione politica,
gli studenti riuscirono a mobilitare circa 100.000 persone, facendogli firmare una petizione e
convincendoli a prender parte alla marcia di protesta del 29 luglio. Infine, i cittadini furono coinvolti in un
sit-in durato otto giorni, di fronte al palazzo del governo. L’azione di protesta fu fortemente sottovaluta sia
dai media sia dall’Unione degli Insegnanti, finché Wong non fu intervistato dalla televisione con decine di
microfoni, spiazzando tutti per le proprie doti comunicative (Wong, 2015). Il movimento prese, infine, una
forza tale da costringere Leung, il CE in carica, a ritirare il progetto l’8 settembre, il giorno precedente le
elezioni per il LegCo, annunciando che l’implementazione dello stesso sarebbe stata opzionale.
Il tentativo di far approvare dal LegCo la riforma sull’Educazione Nazionale era già stato portato
avanti da Tsang: nel 2008 la sua amministrazione aveva pubblicato un report dal Task Group on National
Education, istituito dallo stesso governo, che enfatizzava l’esigenza di costruire un’identità fondata su basi
etnico-culturali. Secondo il progetto, i nuovi curricula scolastici avrebbero dovuto mettere in luce i legami
raziali ed etnici, ovvero l’identità di tratti somatici tra gli hongkonghesi e i cinesi e il patrimonio culturale
che lega la RAS alla storia della Cina e l’intero paese in sé e per sé.
“Teachers should develop students’ affection for their country … Teachers should enable students to understand that they share the same root with their country and are closely linked to their country in history, race and culture” (Appendix 6).
Il piano di “Educazione Morale e Nazionale” fu presentato come un programma più ampio per
sviluppare un senso di cittadinanza locale, nazionale e globale; era tuttavia evidente il particolare accento
sulla dimensione nazionale, che sovrastava le altre due. Per altro, si fa poco riferimento a Hong Kong,
quanto più viene citata la dimensione più generica di “società”, chiaramente inscritta in un contesto
nazionale, nel quale le azioni di ognuno dovrebbero essere ispirate da un senso di “commitment, mutuality,
sense of belonging, national identity, patriotism, solidarity and cultural heritage” (Morris, Vickers, 2015).
Il progetto partì dalla constatazione che tra i ragazzi educati dopo il 1997 non solo era diminuito il
senso del patriottismo, bensì si erano sviluppati sentimenti anti-Pechino. L’obiettivo era l’introduzione di
materie, come Storia della Cina, che tralasciavano l’accuratezza nel riportare i fatti storici ma puntavano
più che altro ad un’educazione “morale”.
Gli aspetti più controversi della riforma furono i finanziamenti governativi a favore dei produttori di
materiale didattico pro-Cina e le valutazioni scolastiche date sulla base di criteri soggettivi, quali la fedeltà
28
al PCC, presupposto per un cosiddetto “lavaggio del cervello” che gli studenti rifiutavano con tutte le
forze. La maggioranza degli hongkonghesi, infatti, non disdegnava totalmente l’introduzione di
approfondimenti sulla cultura e la storia della Cina, ciò che veniva contestato da più di metà della
popolazione (56%), invece, era il fatto che il governo potesse imporre la propria visione d’identità e
nazione ai cittadini di Hong Kong (Veg, 2017).
2.5 Il Movimento degli Ombrelli
“I manifestanti) Hanno conquistato un pubblico occidentale desideroso di proiettarsi in altri mondi per
trovare un po’ di vitalità e hanno saputo tenere un comportamento rigoroso, nonostante agli organizzatori
sia scappata ben presto di mano l’intera mobilitazione” (Pieranni, 2014). Così venivano descritti dal
giornalista de “Il Manifesto” i fatti che per tutto il 2014 avevano tenuto con il fiato sospeso l’Occidente, la
Cina continentale e ancora di più gli abitanti di Hong Kong. “The Umbrella Movement in the fall
of 2014 was the dénouement of a drama in three acts”, commenta in modo romanzesco anche Bush
(2016): il primo atto fa riferimento alla battaglia concettuale tra le parti sulla definizione di “suffragio
universale”; il secondo fa capo alle consultazioni popolari, svoltesi a partire dal dicembre 2013, in merito
alle successive elezioni; l’atto conclusivo, infine, coincide con la decisione del 31 agosto 2014 che dette il
via alla radicalizzazione delle proteste. Facendo un passo indietro, trovo opportuno entrare più nel
dettaglio del dibattito sul suffragio, riguardo al quale Pechino e il governo della RAS guardavano ai
parametri imposti dalla Basic Law e dalle decisioni del NPCSC, mentre i democratici miravano a definire
le procedure di selezione dei loro dirigenti sulla base dell’International Covenant on Civil and Political
Rights14, che esprimeva la necessità che:
“Every citizen shall have the right and the opportunity, (…) without unreasonable restrictions (…) to vote and to be elected at genuine periodic elections which shall be by universal and equal suffrage” (Art. 25).
Dal 2012 l’aspettativa per le successive elezioni del CE del 2017, che sarebbero dovute avvenire a
suffragio universale, era piuttosto elevata. La società era inoltre polarizzata intorno alla discussione
relativa a quel Nominating Committee (Art. 45), che secondo alcuni costituiva un ostacolo alla
realizzazione del suffragio universale, mentre secondo altri era una concessione da mitigare con
l’innalzamento della soglia di sbarramento utile alla nomina. Il governo di Hong Kong iniziò nel dicembre
2013 un processo di consultazioni pubbliche, che si concluse nel maggio 2014. Durante quel periodo,
Pechino puntualizzò che il CE avrebbe dovuto essere un cittadino “patriottico”, nominato esclusivamente
attraverso l’apposito Comitato, la cui struttura avrebbe rispecchiato quella dell’Election Committee. Tale
limitazione causò forte
29
14 Ratificato nel 1976 dal Regno Unito, fu mantenuto in vigore con il passaggio di sovranità alla Repubblica Popolare Cinese nel 1997.
24
disappunto tra gli hongkonghesi, la maggioranza dei quali, pur non supportando l’irrealizzabile richiesta di
elezione popolare, avversava una nomina tanto selettiva. La maggior parte delle proposte ricevute dal
governo nel periodo di consultazione, infatti, escludevano categoricamente ogni restrizione sulla nomina
del CE, tuttavia ritenevano possibile l’implementazione di un sistema più democratico, da inserirsi nei
parametri dettati da Pechino, senza ricorrere all’elezione popolare o attraverso i partiti politici, come i più
radicali suggerivano (Chan, 2014).
Allo stesso tempo, dalla fine del 2012, Benni Tai, professore di legge all’Università di Hong Kong,
insieme a Chan Kin-man, professore di sociologia, e Chu Yiu-ming. ministro del culto Battista, fondò un
movimento con il nome di Occupy Central With Love and Peace (“Central” è il distretto finanziario
adiacente ai principali uffici governativi). Iniziarono a lavorare per elaborare un metodo democratico di
selezione del CE per il 2017, dichiarandosi un movimento praticante disobbedienza civile, prettamente
pacifico, che avrebbe valutato l’effettiva occupazione solo come ultima spiaggia.
Secondo il piano pensato dal Movimento, si sarebbero tenuti cinque “round” di discussioni a
proposito di vari modelli politici; al termine, i partecipanti avrebbero votato il più appropriato. Il modello
scelto sarebbe stato poi impiegato come standard di riferimento, da contrapporre a quello avanzato dal
governo della RAS. In ultimo, si sarebbe tenuto un referendum popolare (istituzione per altro non prevista
dalla Basic Law) il cui responso avrebbe giudicato accettabile o meno la proposta dell’amministrazione. In
caso negativo, in mancanza di alternative e solo con il supporto della popolazione, Tai avrebbe guidato
l’occupazione di Central.
Nonostante i buoni propositi, inizialmente il movimento non riscosse molto successo. Al termine del
periodo delle consultazioni nel maggio 2014, infatti, Tai decise di mettere al voto i 15 modelli proposti
durante i vari “round” di discussioni popolari, con l’obiettivo di restringere la votazione del referendum a
3 modelli. Purtroppo, data l’elevata partecipazione di elementi radicali nei sit-in di Occupy, tutte le
proposte finali prevedevano l’elezione popolare, il che attrasse non poche critiche, “charging that the
process that limited the public to a choice among three similar models itself was an example of political
screening” (Chan, 2014). Il supporto per Occupy Central era ai minimi termini.
La svolta avvenne a seguito dell’emissione del White Paper da Pechino, il 10 giugno, il quale
utilizzava termini molto distanti da quell’invito a “put their heart at ease” di 20 anni prima. Fulcro del
documento era la spinta a “fully and accurately implementing the policy (and) understanding the meaning
of One Country, Two Systems”15; esso enfatizzava la centralità del One Country come premessa di base per
i Two Systems. Conferiva al NPCSC, in modo del tutto paradossale, il ruolo di “guardiani dello stato di
diritto”, con potere d’interpretare ed emendare la Basic Law. Sottolineò inoltre, il requisito del patriottismo
15 State Council, The People’s Republic of China, (2014), White Paper on The Practice of the “One Country, Two Systems” Policy in the Hong Kong Special Administrative Region, 10 giugno 2014
25
http:/www.fmcoprc.gov.hk/eng/xwdt/gsxw/t1164057.htm
26
e dell’amore per il Paese (la Cina) e Hong Kong richiesto alla classe dirigente, compresi i giudici,
considerati meri amministratori. La preoccupazione generale era tanta che il referendum proposto da
Tai sfiorò gli
800.000 partecipanti e l’appoggio ad un sistema di elezione popolare crebbe sproporzionatamente come
effetto dell’atto del PCC.
Intanto, il processo per avviare una riforma della costituzione era iniziato come da procedura: il CE
Leung aveva inviato al NPCSC il resoconto delle consultazioni popolari e un proprio report sulla necessità
di riforme nella RAS. Studi effettuati in seguito dimostrarono però, che 9/10 del materiale inviato al PCC
proveniva da fonti pro-Pechino; lo scopo era quello di “to show that the government listens to the people,
but (it was) clearly designed to make the people listen to the government” (Ching, 2013). Fu in questo
contesto che il NPCSC elaborò la celebre decisione emessa il 31 agosto 2014. Il comitato deliberò che la
composizione del Nominating Committee avrebbe ricalcato, come anticipato, quella dell’Election
Committee, inoltre, venne introdotta la soglia del 50% per la nomina a CE. A rendere ancora più
improbabile l’ascesa di un membro dei pan-democratici fu l’introduzione del limite di 3 candidati per
l’elezione a Chief Executive16. La risposta del NPCSC fu più conservatrice del previsto: i pan-democratici
bloccarono la proposta nel LegCo, esprimendo il loro diritto di veto, mentre gli organizzatori di Occupy
Central acceleravano il loro piano di disobbedienza civile nelle strade, unendosi agli studenti in rivolta.
Questi appartenevano ad alcune associazioni come Scholarism (che si era mobilitata nel 2012 contro il
piano di “Educazione Nazionale”) e the Hong Kong University Federation of Students (HKFS), e avevano
indetto un boicottaggio delle lezioni a partire dal 26 di settembre. Alla loro protesta davanti al quartier
generale del governo, il 28 settembre si unì anche Benny Tai, portando il suo movimento allo step
successivo. Il supporto per gli studenti a quel tempo era schizzato alle stelle: la popolazione li identificava
come “calm, rational and highly persuasive” (Wright, 2018).
Il tempestivo intervento violento della polizia che, con l’utilizzo di gas lacrimogeni e spray al
peperoncino, cercò di contenere le proteste, non ebbe che l’effetto contrario, incrementando il numero di
simpatizzanti e partecipanti al cosiddetto Movimento degli Ombrelli (nome diffuso in ambito giornalistico
ispirato agli ombrelli che venivano usati dai manifestanti per ripararsi da spray e gas urticanti) (Branigan,
Kaiman, 2014). Con il passare delle settimane, tuttavia, l’iniziale entusiasmo per le proteste si spense
progressivamente non solo per i disagi nella città, di fatto paralizzata, dai mezzi pubblici all’economia, ma
anche per il crescendo di manifestazioni a supporto di Pechino quali l’Anti Occupy Central Group,
probabilmente finanziate dal governo Centrale.
In questo contesto di caos crescente il governo acconsentì ad un incontro con gli studenti, diventati
gli effettivi leader del Movimento, che venne però posticipato continuamente, fino al 21 ottobre. Essi
27
16 Decisione del NPCSC del 31 agosto 2104 http://www.scmp.com/news/hong-kong/article/1582245/full-text-npc- standing- committee-decision-hong-kong-2017-election
28
avanzarono in quell’occasione quattro richieste: il ritiro della decisione del 31 agosto del NPCSC,
l’abolizione dei functional constituencies, elezioni popolari per il Chief Executive e, infine, una data
precisa per il conseguimento di tali obiettivi (Chan, 2014). Inizialmente i presupposti erano buoni: Carrie
Lam, l’allora Chief Secretary for Administration, guidò l’incontro, proponendo d’inviare un report a
proposito dei sentimenti dei manifestanti all’Hong Kong and Macau Affairs Office of the State Council, a
Pechino. Prometteva, inoltre, di istituire una piattaforma multipartitica che sarebbe servita come base per
discutere della riforma costituzionale, da portarsi avanti tra il 2016 e il 2017. Durante l’incontro, però, fece
un passo indietro, molto probabilmente sotto ordine di Pechino, e posticipò le negoziazioni per
un’eventuale riforma a dopo il 2017. A quel punto gli studenti la accusarono di eccessiva vaghezza e il
dialogo si concluse con un nulla di fatto. Gli studenti proseguivano con il loro approccio “all-or-nothing” e
l’occupazione non accennava a fermarsi (Cheng, 2016). Il governo della Regione avrebbe potuto prendere
il comando e fare da effettivo mediatore tra i manifestanti e il Governo Centrale, eppure, apparve troppo
debole per svolgere un ruolo simile. Si limitò, quindi, ad una strategia che mirava a “wait out the
protestors”, ovvero intraprendere azioni minime, inondando notiziari e giornali di dati sul crollo
dell’economia e sulla paralisi della città, causata dalle proteste. L’inattività del governo, sostenevano nella
RAS e a Pechino, avrebbe messo in luce le divisioni tra i vari gruppi dell’ala pan-democratica (compresi
gli studenti), i quali già stavano sperimentando al loro interno non pochi dissidi (Wright, 2018).
Probabilmente nell’ottica di questa strategia alcuni gruppi Anti-Occupy vicini al governo, come All China
Express, avevano richiesto, il 1° dicembre, l’emissione di un’ordinanza restrittiva che avrebbe imposto,
agli occupanti situati di fronte al palazzo del governo, di sgomberare la zona, colpevoli secondo la società
di trasporti d’interferire nei loro affari17. Alcuni, soprattutto tra i più giovani, appartenenti ad associazioni
radicali con tendenze anarchiche quali Civic Passion, Hong Kong Autonomy Movement e Hong Kong
Independence Movement, non fecero alcun cenno di voler lasciare la zona occupata, anzi, accusarono i
leader di Occupy e degli studenti di aver monopolizzato il processo decisionale del Movimento,
dichiarandosi non rappresentati da essi. Questo gruppo di persone fu quello responsabile per le azioni più
violente attribuite al Movimento degli Ombrelli, quali scontri diretti con la polizia o l’occupazione di
uffici governativi con l’uso della forza (Cheung, 2017). A inizio dicembre 2014 alcuni studenti, tra cui
Joshua Wong, iniziarono uno sciopero della fame che non ebbe tuttavia i risultati sperati, tanto che, dopo
poco tempo, tutti gli occupanti rimasti lasciarono le loro tende: alcuni abbandonarono spontaneamente,
altri si fecero trascinare dalla polizia, altri ancora acconsentirono, senza opporsi, all’arresto per assemblea
non autorizzata. La strategia del governo aveva avuto la meglio per il momento, ma i manifestanti non si
erano ancora arresi, anzi, giuravano: “we will be back” e continuavano decisi: “You are only clearing a
camp, you can’t clear the idea” (Sala, Branigan,
29
17 “HK protesters brace for clearance after injunction published”, BBC News, 9/12/2014 https://www.bbc.com/news/world-asia- china-30390595
27
2014).
Nel gennaio 2015 iniziò un altro “round” di consultazioni a proposito del suffragio universale, che
terminò con la proposta del 22 aprile 2015 del Chief Secretary Carrie Lam al LegCo. Secondo la nuova
disposizione ogni individuo che ottenesse l’appoggio di 1/10 del Nominating Committee (che per numero e
composizione rimaneva identico all’Election Committee) sarebbe diventato un candidato potenziale a CE,
e avrebbe avuto la possibilità di esporre il suo programma, in modo del tutto trasparente, al comitato e
addirittura al popolo18. Questo avrebbe permesso ai pan-democratici di nominare almeno un loro
rappresentante, eppure rifiutarono anche questa proposta, rigettando sistematicamente ogni accordo basato
sulla decisione del 31 agosto, che reputavano insensato e incostituzionale (Bush, 2016).
2.6 Riflessioni sul Movimento degli Ombrelli
Commentando gli esiti del Movimento degli Ombrelli, alcuni attivisti ammisero di non aver raggiunto
l’obiettivo prefissato, tra questi lo stesso Joshua Wong, che si dichiarò però contento di aver risvegliato le
coscienze di alcuni concittadini (Wong, 2015); altri ancora commentavano, non del tutto rassegnati, che gli
hongkonghesi, dopotutto, avevano dimostrato “that they are no longer politically apathetic, (…) They’re
prepared to stand up and be counted.” (Hilgers, 2015); altri, con una nota pessimistica, si rammaricavano
a proposito della probabile eredità lasciata da Occupy: una grande spaccatura tra i pan-democratici, che
avrebbe potuto costituire un problema per i tentativi di riforma futuri (Hui, 2015). Occupy Movement,
infatti, era nato dall’idea di Benny Tai, non tanto di piegare Pechino alla propria concezione di
democrazia, quanto di ricavare più potere negoziale per i pan- democratici, facendo pressione sul governo.
Il movimento, purtroppo, finì per radicalizzare tanto le azioni dei democratici, quanto le visioni del PCC,
minando appunto la possibilità di un compromesso finale (Cheng, 2016). In altri termini, parafrasando
Cheung (2017), Occupy si trasformò da movimento per la democrazia, ovvero un piano basato sui
negoziati e sull’uso della politica, aventi come fine l’ottenimento del miglior risultato possibile, a
movimento del dissenso: un progetto meramente critico, che non accettava compromessi e che guardava a
valori morali e ideali difficilmente raggiungibili in un quadro reale.
Diversamente, guardando alla vicenda con gli occhi della Cina, è evidente come, pur essendo uscita
semi-vincitrice da questa vicenda, essa dovette fare i conti con l’incremento di sentimenti localisti: mentre
tra il 2001 e il 2009 solo il 30% degli abitanti della RAS si dichiarava puramente hongkonghese, la
percentuale salì poi al 40% dopo il 2014 (Cheng, 2018). Un altro sondaggio condotto da Cheng (2018)
indagò più precisamente sulla percezione dell’identità di coloro che avevano deciso di scendere in strada
nel 2014: l’81% di essi si definiva come hongkonghese puro, il doppio rispetto al totale della popolazione.
Nonostante i sostenitori della completa autonomia di Hong Kong dalla RPC fossero una netta minoranza,
18 Cfr. https://www.info.gov.hk/gia/general/201504/22/P201504220392.htm
28
l’aumento del sentimento localista allarmò Pechino, che lo percepì comunque come movimento pro-
indipendenza.
Michael DeGolyer provò a restituire una doppia prospettiva del Movimento degli Ombrelli.
Riferendosi all’establishment, il Professore, gli imputò svariati errori, tra i quali quello di usare una
consultazione pubblica (di norma usata per le policy) ai fini di un processo di riforma costituzionale;
inoltre Leung non fu realmente attento al sentimento popolare, in quanto troppo preoccupato a pensare alla
propria eventuale rielezione nel 2017. Il governo, continuava DeGolyer, fallì nel comprendere la
profondità dei problemi nella RAS, che erano chiaramente non solo politici ma anche sociali (il mercato
immobiliare a prezzi inaccessibili, le pensioni, le disuguaglianze, la dimenticata classe medio-bassa). Della
parte democratica, invece, si biasimava l’attacco ai moderati per il compromesso del 2010 (che aveva
frenato non poco alcuni membri dell’opposizione, i quali, 5 anni dopo, vedevano forse di buon occhio
l’ultima proposta avanzata da Lam ma non osarono appoggiarla); anche le modalità di consultazione
adottate dai leader di Occupy Central furono giudicate eccessivamente radicali; e infine, l’aver ignorato la
reazione cinese ad un atto di disobbedienza civile non giovò per nulla ai rivoltosi. Fu palese, in effetti, che
“treating Beijing as an enemy, instead of a friend, will only led Beijing to treat them as enemies. And
Beijing will not allow its enemies to rule Hong Kong” (Bush, 2016).
Ad oggi ancora non è chiaro se fosse possibile ottenere risultati migliori, sicuramente però “All
parties involved contributed to the death of the universal suffrage babe in arms before it could leave the
crib, let alone grow into a sturdy teenager” (Rowse, 2015).
Parlando della sconfitta della Movimento del 2014, comunque, non si può ignorare il fattore
principale, che esula dalla condotta dei manifestanti: il cosiddetto China Factor. Il dialogo sul suffragio
universale, infatti, non è che un dibattito unilaterale: come scriveva il ricercatore Chiew Ping Yew (2011)
ancora prima dei fatti del 2014, la relazione tra Hong Kong e Pechino è sì basata sul principio di “One
Country, Two Systems”, ma il livello di autonomia e il grado di democrazia presente a Hong Kong sono
nelle mani della Cina. Dal canto suo, la Repubblica Popolare non poteva permettersi un’eccessiva apertura
nei confronti di Hong Kong, rischiando di creare un precedente per le altre regioni autonome cinesi; in
secondo luogo avrebbe incrementato la fiducia della democratica Taiwan, con cui ancora non si era
formalizzato nessun accordo. Per quanto riguarda, invece, la stabilità interna alla Cina, difficilmente vi
saranno turbamenti, scriveva Pieranni (2014) smentendo alcune testate giornalistiche occidentali: nella
Cina continentale vige tuttora un severo sistema di censura dei media e dei social network, che tengono i
cittadini piuttosto all’oscuro dai fatti di Hong Kong.
Passando invece ad una prospettiva storica, l’analogia più probabile con il Movimento degli
Ombrelli è quella con i fatti di Tiananmen del 1989, guidata dagli studenti, proprio come l’Occupy
Movement, e accusata anch’essa di essere manipolata da potenze straniere. Eppure, osservavano
29
Wasserstrom e Ho (2014)
30
a commento delle proteste, non era Tiananmen l’esempio che gli studenti di Hong Kong avrebbero dovuto
seguire, bensì quello di un movimento di giovani ancora precedente: quello del 4 maggio 191919,
democratico e patriottico, che precedette la fondazione del Partito Comunista Cinese; partito che si è ormai
svestito di quel mantello carico di valori che contrastavano l’allora tiranno: la classe dirigente dei
mandarini, la tradizione confuciana, la classe imperiale vecchia e nuova (quella dell’auto-proclamatosi
presidente Yuan Shikai). Quello stesso partito che celebra tuttora il Movimento, ma l’ha svuotato dei
valori iniziali per riempirlo di Nazionalismo e di sete di progresso. I giovani, riunitisi in piazza Tiananmen
quel 4 maggio 1919, invocavano il “Dr. Scienza” e il “Dr. Democrazia”. La grande novità fu il fatto che a
manifestare il dissenso non fosse solo l’opinione pubblica colta, bensì, tutta la “nazione (cinese), che si
rivelò viva in tutte le sue componenti”: dai lavoratori delle fabbriche alle donne, fino ad allora sottomesse.
Per la prima volta un movimento partito dal basso ebbe conseguenze sulla politica reale del paese, tanto
che i delegati cinesi si rifiutarono di firmare il patto di Versailles (Crocenzi, 2019). E fu sempre in quella
piazza che, il 4 giugno di 70 anni dopo, altri giovani protestarono contro il governo, invocando lo stesso
spirito di chi li aveva preceduti. Quello spirito che era ancora presente, sottolinea Wasserstrom, (2019) tra
gli studenti scesi in strada durante il Movimento degli Ombrelli, come testimonia un tweet dello stesso
Joshua Wong, che riporta tre date in sequenza: “1919, 1989, 2014”, a voler restituire la stessa immagine.
2.7 2019: Hong Kong contro la Legge per l’Estradizione
Data la vicinanza dei fatti, non è possibile produrre alcuna analisi dettagliata sulle proteste che si stanno
svolgendo tuttora nel Porto Profumato. Ritengo, tuttavia, di dover menzionare tale episodio, vista l’enorme
rilevanza interna e internazionale che sta registrando.
Le proteste sono scoppiate a seguito della proposta del governo della RAS di passare una legge
sull’estradizione, che permetterebbe di processare nella Cina continentale gli accusati di crimini gravi,
come stupro e omicidio. La proposta è stata avanzata dopo che, nel febbraio 2018, un hongkonghese aveva
ucciso la propria fidanzata, appena ventenne, durante una vacanza a Taiwan. Il governo taiwanese aveva
richiesto l’estradizione per il ragazzo, ma non era stato possibile ottenerla a causa del vuoto legislativo in
merito. Ad aprile si erano registrate alcune manifestazioni di protesta, che si intensificarono nettamente
agli inizi di giugno, finché, il 12, non sono iniziati gli scontri con la polizia. A muoversi contro la proposta
erano stati gruppi e movimenti a tutela dei diritti umani, i quali sostenevano che l’approvazione di questa
legge avrebbe ulteriormente indebolito l’indipendenza del potere giudiziario e l’autonomia di Hong Kong:
la Cina
19 15 Il Movimento del 4 Maggio scoppiò a seguito della profonda insoddisfazione derivante dal trattato di Versailles e dalla ancor più forte delusione subita dall’Occidente che aveva propugnato il diritto alla self-determination di Wilson, per poi negarlo nel caso della Cina. I territori tedeschi dello Shandong, infatti, vennero ceduti al Giappone. L’unità del popolo contro il nemico
31
giapponese contribuì a formare un forte senso nazionale, soprattutto tra i ragazzi, che si volevano liberare del forte peso della tradizione confuciana che guardava al “vecchio”, senza troppo interesse per l’innovazione.
32
Continentale, temono, potrebbe utilizzare la legge a proprio favore richiedendo l’estradizione dei suoi
oppositori arrestati a Hong Kong, nel nome della “sicurezza nazionale”.
Dopo giorni di scontri e violenze, il 15 giugno Carrie Lam dichiarava pubblicamente il ritiro del
disegno di legge in questione, ciò non bastò, tuttavia, a frenare l’ondata di proteste: i manifestanti, infatti,
temevano si trattasse semplicemente dell’ennesima tattica politica. Lo slancio di Lam, piuttosto, derivava
da una valutazione di Pechino, che ritenne fosse meglio ritirare la proposta temporaneamente, piuttosto
che inasprire gli scontri (Graham-Harrison, Yu, 2019).
La sera del 21 luglio ci fu un’escalation di violenze: in una stazione della metropolitana un gruppo di
uomini, con indosso delle magliette bianche, si scagliava inizialmente contro i passeggeri che indossavano
magliette nere (simbolo delle manifestazioni), poi il caos divenne ingestibile tanto che tra i feriti si
contavano anche anziani e una donna incinta. Un membro dei pro-democratici denunciava il giorno
seguente a Reuters che la polizia aveva ignorato le loro richieste d’aiuto: “they deliberately turned a blind
eye to these attacks by triads on regular citizens” (Pomfret, 2019).
All’inizio di agosto la città fu paralizzata da uno sciopero dei trasporti senza precedenti, a cui
seguirono due giorni di sit-in in aeroporto, che resero necessaria la cancellazione di tutti i voli. È
impossibile prevedere ciò che accadrà, la Cina avrebbe il potere d’intervenire militarmente nella Regione,
tuttavia si è parlato solo di minacce. Fa comunque discutere la foto satellitare che ritrae un centinaio di
mezzi militari, appartenenti all’Esercito Popolare di Liberazione cinese, schierato a Shenzhen (la città
confinante con Hong Kong), ma solo per un’esercitazione, per altro programmata da tempo, secondo le
dichiarazioni della RPC (AP, Reuters, 2019).
Ciò che si è delineato in queste settimane, è che a differenza del Movimento degli Ombrelli, questa
volta le proteste non hanno veri e propri leader, tuttavia non manca l’organizzazione: attraverso l’utilizzo
di canali Telegram i manifestanti riescono a coordinarsi e comunicare con i giornalisti (anche stranieri) nel
modo più chiaro possibile. Le richieste avanzate si sono fatte via via più esplicite: dall’abrogazione
definitiva della legge sull’estradizione, all’amnistia per gli arrestati, un’indagine trasparente sulle violenze
compiute dalla polizia e, infine, il suffragio universale, obiettivo finale dei manifestanti. Ed è proprio con
l’intera comunità che Carrie Lam dovrà dialogare se realmente disposta ad aprire un tavolo negoziale,
come da lei dichiarato (Pieranni, 2019b).
Nel frattempo, ormai giunti all’undicesimo weekend di proteste, la comunità internazionale, quanto
gli hongkonghesi, resta con il fiato sospeso mentre questi ultimi continuano a lottare a denti stretti per una
Hong Kong più libera, democratica e autonoma; gli stessi hongkonghesi che pur rammaricandosi per il
caos in cui riversa la loro casa, sono certi del fatto che “non sarebbe accaduto quanto è successo se la Cina
avesse mantenuto la sua promessa e ci avesse concesso il nostro diritto di eleggere la nostra legislatura”
(Pieranni, 2019b).
31
3 Sinizzazione e Progressiva Perdita di Autonomia nella RAS
È indubbio che tanto più ci si avvicina al 2047, tanto più aumentano le misure di assimilazione di Hong
Kong verso la Cina, tanto meno l’idea di una Regione autonoma e democratica pare realizzabile. Questo
capitolo analizzerà le politiche d’integrazione concrete attuate dopo l’Handover, che stanno portando ad
una sempre più palese “sinizzazione” di Hong Kong. Con questo termine si fa riferimento “ai tentativi del
Partito Comunista Cinese, e dei suoi alleati, di esercitare maggiore controllo sulla HKRAS in termini
politici, economici, sociali e culturali, per integrarla nella Repubblica Popolare Cinese prima del 2047,
anno fissato come scadenza per la validità del modello One, Country, Two Systems” (Kong, 2017).
3.1 Integrazione Socio-Economica: l’Invasione di “Locuste” e le Grandi Opere Infrastrutturali
Dopo le proteste massive del 2003, si diffuse una forte preoccupazione per l’evidente mancanza di
patriottismo nella RAS e per l’imminenza di una crisi dell’amministrazione locale. Pechino, che era
consapevole del fatto che una crisi avrebbe incrementato il supporto al fronte pro-democratico, diede una
svolta alla propria politica nella Regione Speciale, puntando ad un’assimilazione totale di questa in vista
del 2047. Siccome la Cina aveva identificato nell’economia la principale sorgente dell’insoddisfazione
hongkonghese, l’integrazione fu inizialmente di stampo economico. In seguito, quando la dipendenza
economica di Hong Kong dal potere centrale fu comprovata, tentò di incrementare l’assimilazione, anche
politica, della Regione, il che portò ad un inasprimento degli scontri con la popolazione, che tuttora non
sembrano diminuire (Ma, 2015).
Un’integrazione di tipo economico è stata messa in pratica appena dopo l’Handover con il pretesto
della crisi asiatica, che invertì il flusso degli eventi: Pechino, che tempo prima aveva tratto non pochi
benefici dal Porto Profumato, diventò una grande fonte d’aiuto economico per lo stesso (Bush, 2016).
Prima tra tutte le misure vi fu il Closer Economic Parterniship Arrangement (CEPA), stipulato nel 2003
fra il Governo Centrale e la HKRAS, ai fini di promuovere nuove vie commerciali con la Cina
continentale. Il CEPA si pose quattro diversi obiettivi: liberalizzazione del commercio per mezzo di
barriere non tariffarie, che avrebbero agevolato l’importazione nella Cina continentale di merci
hongkonghesi; liberalizzazione dei servizi tramite un trattamento preferenziale nei confronti dei fornitori
hongkonghesi, che sarebbero entrati nel mercato cinese; riconoscimento reciproco delle qualifiche
professionali e, infine, agevolazioni degli investimenti e del commercio per potenziare il business tra le
due realtà. Siccome nella Basic Law i rapporti Cina-Hong Kong non sono pienamente regolati da norme,
spesso gli interlocutori hanno avuto modo di riempire i vuoti legislativi con nuove metodologie di dialogo
intergovernativo. Per esempio, essendo Hong Kong membro del World Trade Organisation (WTO), così
come la Cina, entrata nel 2001, si concluse che gli accordi riguardanti il CEPA si sarebbero espressi
all’interno di quel framework comunemente accettato nel WTO (trasparenza, negoziazioni, concorrenza)
(Cheung, 2014). Il CEPA nasceva di pari passo con il
32
rafforzamento della Hong Kong Guangdong Cooperation Joint Conference (HKGDCJC), apparsa già nel
1998 come collaborazione tra la regione del Guangdong e Hong Kong. Nella rinnovata versione del 2003,
essa fu arricchita di meeting, programmati per monitorare l’andamento del progetto; istituti di ricerca
come supporto; un comitato d’affari per rafforzare i legami tra le élite di businessmen e, per finire, un
Liaison Office ubicato in entrambe le zone per coordinare l’ordinaria amministrazione (Cheung, 2014). Il
CEPA portò senz’altro svariati benefici economici alla Regione: si registrò un innalzamento del PIL, da
circa 160 miliardi di dollari nel 2003, a oltre 360 miliardi nel 201820; inoltre, secondo i dati del Research
Office of the Legislative Council Secretariat (2018) la quota di merce hongkonghese esportata in Cina
raggiunse il 54% del totale, mentre la percentuale di esportazione dei servizi, dalla RAS alla RPC, nel
2016, si aggirò attorno al 40%. La RAS, inoltre, dipende fortemente ancora oggi dalla Cina per le forniture
di acqua potabile (70- 80%), verdura (90%), suini vivi (95%), bovini (100%), farina (70%) e per l’energia
elettrica generata dalla centrale nucleare della baia di Daya, nel Guangdong (Cuscito, 2017).
Nell’accordo per il CEPA fu varata una misura riguardante il turismo cosiddetto “individuale”:
Individual Visit Scheme (IVS). Questo sistema dava la possibilità ai residenti delle principali città cinesi di
visitare Hong Kong senza la necessità di un business visa né di un tour organizzato in gruppo. L’obiettivo
era quello di creare più omogeneità tra cinesi e hongkonghesi, separati per quasi un secolo di storia; in
secondo piano c’era poi l’intento di risollevare l’economia hongkonghese dopo l’impatto dell’epidemia di
SARS registratosi in quell’anno (Ma, 2015). Effettivamente il numero di turisti cinesi è cresciuto, da
allora, di anno in anno: da 6.8 milioni nel 200221 a 65.1 milioni nel 201822, con un trend di crescita attorno
al 15%. Mentre l’industria del turismo esultava per i record registrati, la popolazione guardava irrequieta le
masse di cinesi “sporchi e privi di buone maniere” che riempivano strade, negozi e alberghi della città
(O’Neill, 2014). Intervistati da Mark O’Neill (2014) alcuni commercianti addirittura affermavano: “diamo
il benvenuto al denaro della gente, ma non alla gente”. La società di Hong Kong, continuava il giornalista
del periodico economico, era polarizzata e, mi sento di aggiungere, lo è tuttora: chi supporta l’integrazione
con la Cina, definendola inevitabile e vantaggiosa, chi invece la critica fortemente, chiamandola appunto
“sinizzazione”, termine dispregiativo che accosta il desiderio della RPC di cancellare le specificità della
HKRAS, alle imprese tipiche del colonialismo ottocentesco. Secondo questi ultimi, più integrazione si
tradurrà con la perdita delle libertà civili, politiche e religiose. Ed è proprio chi sostiene questa linea di
pensiero che più volte si è riferito ai turisti cinesi come “locuste”, rappresentandoli come sciami d’insetti
affamati, i quali avrebbero divorato la Hong Kong che i locali avevano plasmato negli anni (Yang, 2014).
“Locuste”, tuttavia, non erano solamente i visitatori occasionali, bensì anche i migranti che, dalla Cina
continentale, si spostavano
20 https://tradingeconomics.com/hong-kong/gdp 21 World Tourism Organization UNTWO, (2015)
33
22 Phila Siu, South China Morning Post, (2019)
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nella più florida ed efficiente Hong Kong. Il meccanismo delle immigrazioni fu innescato, a partire dal
1997, con l’assegnazione di 150 one-way permit al giorno, che consentivano a tal numero di cinesi
(solitamente mogli e figli di residenti nella RAS) di trasferirsi a loro volta. Con le leggi vigenti nell’ex
colonia britannica, dopo sette anni è possibile richiedere la residenza permanente, di conseguenza si può
accedere al welfare e ai servizi sociali offerti dalla RAS. La questione è chiaramente gestita da un ufficio
cinese, il Public Security Bureau, senza che a Hong Kong venga lasciato alcun potere decisionale (Ng,
Mandy, 2015). Secondo le statistiche del governo, dal 2003 al 2014 sono arrivati circa 828 mila cinesi, che
costituiscono l’11% della popolazione totale. Hong Kong, senza dubbio, è sempre stato luogo di
migrazioni, soprattutto dalla Cina, eppure i migranti post-Handover hanno un significato tutto politico per
la Regione, essi sono perlopiù apolitici o passivi sostenitori del PCC, semplicemente perché “è l’unica
cultura che abbiano mai conosciuto” (Kong, 2017). A rendere ancora più intollerabile ai locali l’invasione
di cinesi vi era la smisurata quantità di donne che dalla RPC sceglievano di partorire a Hong Kong, di
modo che, al neonato, secondo la legge rimasta in vigore fino al 2012, fosse assegnata la cittadinanza
hongkonghese pur non avendo genitori del luogo. Il numero di bambini hongkonghesi nati da genitori con
altra cittadinanza, infatti, crebbe sproporzionatamente da 620 nel 2001 a 35.736 nel 2011. La paura dei
locali era che l’ondata di nuovi residenti avrebbe prosciugato le risorse della RAS, reso Hong Kong una
città sovrappopolata e subordinata alle necessità del PCC (Ma, 2015). Ciò che fu certo sin da subito, in
ogni caso, fu l’innalzamento della bolla immobiliare con un consecutivo incremento senza precedenti dei
prezzi degli immobili. Un taxista, intervistato dal Global Times, raccontò che lo stipendio che percepiva
negli anni ’80 (6000 HK$ al mese, ovvero 700€ circa), gli fu sufficiente per comprare una casa di 40 m2 a
220,000 HK$; il figlio trentatreenne, dichiarò ancora il taxista, con uno stipendio di 40.000 HK$ al mese,
ancora non si era potuto permettere una casa (Yang, 2014). Il problema abitativo rimane purtroppo ancora
irrisolto, nonostante sia sistematicamente inserito nell’agenda politica di ogni candidato al ruolo di CE.
Oltre ai problemi riscontrabili in tutto il mondo, dovuti alla globalizzazione e all’aumento della qualità
della vita, che spinge famiglie ricche e investitori a fare degli immobili una riserva di valore, alcune
caratteristiche di Hong Kong ne aggravano il problema. La mancanza di terreno edificabile è senz’altro
una di queste, le cattive politiche economiche del governo sono un’altra ricorrenza nell’amministrazione
della RAS. Il problema si riscontra nella disparità tra i proprietari delle abitazioni private, che possono
giovare dell’aumento del valore delle stesse, e gli affittuari delle case popolari, che hanno una mobilità,
per loro stessi e i propri figli di gran lunga ristretta (trovandosi questi ultimi intrappolati in minuscoli
appartamenti lontani dalle scuole più prestigiose e da buone opportunità lavorative) (Bush, 2016). I disagi
percepiti dai locali relativi “all’invasione” di cinesi sono incrementati con l’inaugurazione dell’Express
Rail Link tra Guangzhou–Shenzhen–Hong Kong e l’apertura del ponte di collegamento tra Hong Kong-
Zhuhai-Macao. Entrambi enormi progetti infrastrutturali portati avanti da Pechino nonostante le numerose
critiche giunte da Hong Kong, che li definivano “enormemente costosi,
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non necessari e indesiderati” (Kong, 2017).
L’inaugurazione, il 22 settembre del 2018, della rete ferroviaria che collega Hong Kong a Shenzhen
in 14 minuti ha avuto luogo fra i tanti timori in merito alla preservazione dell’indipendenza del potere
giudiziario. Secondo una legge passata nel giugno dello stesso anno, infatti, le forze di polizia cinesi
potranno applicare le leggi del diritto civile e penale della RPC sia sui treni che al capolinea della RAS.
Mentre per i sostenitori del progetto si tratterebbe di un’agevolazione per i passeggeri, che potrebbero
sostenere in unico edificio i controlli in uscita dalla RAS e in entrata nella RPC (e viceversa), per gli
esponenti pro-democratici e gran parte dei giuristi si incorrerebbe in una violazione dell’Art. 18 della
Basic Law (Liu, 2017). L’Articolo, infatti, prevede l’applicazione nella RAS delle leggi provenienti dalle
seguenti fonti: la stessa Basic Law, il LegCo e le Lettere Patenti dell’epoca coloniale (l’elenco di leggi di
questo tipo è esposto nell’Art. 8). Le leggi della Repubblica Popolare, escluse poche eccezioni23, non sono
valide per Hong Kong. Eppure, il progetto, come osserva Kong (2017), è diventato il “cavallo di Troia”
del Partito Comunista, che potrà così gradualmente inserire la legge della RPC nella RAS. Piuttosto
criticato fu anche l’aspetto economico: il progetto venne a costare 86,4 miliardi di dollari di Hong Kong
(quasi 10 miliardi di euro), oltre 20 miliardi di HK$ in più rispetto alle stime iniziali (Cheng, 2018a). Visto
il costo estremamente elevato, ci si è interrogati a lungo circa l’efficienza e l’effettiva necessità del
progetto; pare infatti che, la maggior parte delle città collegate dalla nuova ferrovia possiedano già un
aeroporto e che sarebbe dunque più sensato in termini economici e di tempo24 spostarsi con l’aereo
piuttosto che con il treno (Ewing, 2018). Inoltre, come lamentano alcuni residenti delle aree circostanti i
cantieri, i potenziali danni ambientali non sono indifferenti: si registrano infiltrazioni e crepe causate dalle
vibrazioni; per non parlare della popolazione d’interi villaggi trasferiti in altre zone di Hong Kong a causa
dei lavori (e.g. il caso di Choi Yuen Tsuen) (Cheng, 2018a).
Poco dopo l’apertura della ferrovia, fu il turno del ponte che collega Hong Kong e Macao, altra
Regione Amministrativa Speciale, alla città cinese di Zhuhai. Inaugurato il 23 ottobre 2018, è il ponte sul
mare più lungo al mondo (55 km) ed ha un valore di 17 miliardi di euro. Esso permette di raggiungere
Zhuhai dall’aeroporto di Hong Kong in soli 45 minuti (prima erano necessarie 2 ore e mezza in treno e
un’ora e mezza con il traghetto). È interessante l’analisi di alcuni particolari, come fa notare Pieranni
(2018), quali la guida a destra, dalla parte della Cina (a Hong Kong si guida a sinistra) o la presenza di
cosiddette telecamere “anti sbadiglio” che rilevano eventuali segni di stanchezza dei conducenti (o più
semplicemente, che raccolgono dati sui passeggeri per implementare le tecniche di riconoscimento facciale
della RPC). Ulteriormente paradossale è il fatto che i cittadini di Hong Kong, le cui tasse hanno
contribuito notevolmente alla realizzazione dell’opera, hanno bisogno di permessi speciali per
attraversare il ponte. Molto
23 Annex III, Basic Law24 Un viaggio da Hong Kong a Pechino in treno (9h) costerebbe 2.478 HK$. Facendo lo stesso viaggio, di sola andata, in aereo
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(3h 25min), si risparmierebbero più di 500 HK$.
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controverso, più del costo economico della struttura, è quello umano: pare infatti che 10 operai siano morti
duranti la costruzione e più di 600 siano stati feriti a partire dal 2010, anno di inizio dei lavori. Non sono
mancati poi i casi di corruzione legati allo staff incaricato dei controlli e gli scandali ambientali,
soprattutto nell’area di Lantau Island (Leung, 2018). Intento primario della Cina, che poco si è curata delle
critiche, era quello di mostrare la propria grandezza in fatto di opere architettoniche e urbane; in secondo
luogo, questo progetto, tanto quanto il precedente, mira alla costituzione di una Silicon Valley con
“caratteristiche cinesi”: l’Area della Grande Baia, che comprenderà Guangdong-Hong Kong-Macao.
Il progetto per la suddetta Area ha subito una forte spinta nel 2018 dopo che, a seguito del
completamento del ponte, centinaia di migliaia di turisti si sono riversati nella RAS in un solo weekend,
creando malcontento tra i localisti più radicali. L’opera della Grande Baia è stata pensata con una triplice
finalità: ingraziarsi una parte della popolazione (quella che guarda con più interesse all’economia) per
soffocare i sentimenti anti-Pechino, “ingolosire” Taiwan usando Hong Kong e Macao come esche, e
infine, accelerare il processo di assimilazione della periferia cinese, Taipei compresa, con le nove
principali città dell’Area: Shenzhen, Zhuhai, Dongguan, Huizhou, Guangzhou, Zhaoqing, Foshan,
Zhongshan e Jiangmen (Lo, 2018). Secondo il PCC, infatti, il progetto consentirà “ai compatrioti di Hong
Kong e Macao di condividere con il popolo della madrepatria la responsabilità storica di un rinvigorimento
della nazione e l’orgoglio per una patria forte e prospera.”25 Per favorire un’integrazione anche di tipo
sociale, questo progetto è stato affiancato dalla concessione di permessi di soggiorno e sussidi per la
pensione ai residenti di Hong Kong, Macao e Taiwan che intendono lavorare e vivere in Cina continentale.
Effettivamente, da 155 mila nel 2009, sono oggi circa 500 mila gli hongkonghesi che hanno deciso di
lasciare Hong Kong, attratti dai prezzi più abbordabili del mercato immobiliare cinese. Il potenziale
dell’Area è perciò piuttosto concreto: si stima che nel 2030 la Grande Baia avrà un output economico pari
a 3.6 mila miliardi. L’agglomerato potrebbe così competere con i grandi centri tecnologici stranieri e
sostenere il piano Made in China 202526 (Cuscito, 2018).
In conclusione, pare che le politiche d’integrazione economica messe in atto dal Governo Centrale
abbiano, da un lato, consolidato l’ultra-conservatorismo dell’élite di businessmen e “big capitalists”, i
quali identificano le riforme dei pan-democratici con un certo grado di destabilizzazione (che non
gioverebbe agli affari), dall’altro hanno indebolito il potere negoziale di quella stessa opposizione la quale,
all’aumentare della dipendenza di Hong Kong dal gigante cinese, si scontra con una minore
predisposizione di Pechino al compromesso. In altre parole, la Cina è sempre meno incentivata a
mantenere l’autonomia nella RAS, perché, di fatto, essa non gli è più indispensabile. (Lo, 2008).
25 Preambolo dell’Outline Development Plan for the Guangdong-Hong Kong-Macao Greater Bay Area (2019)26 Lanciato nel 2015 da Li Keqiang, si tratta di un’iniziativa che punta ad ampliare il potenziale industriale cinese, soprattutto nel settore high tech, nell’aviazione, nella robotica e nell’ambito delle energie rinnovabili. Il piano ha assunto un ruolo ancor più rilevante nella dinamica della guerra dei dazi con gli Stati Uniti. (Institute for Security & Development Policy, 2018)
38
3.2 Integrazione Culturale: il Cantonese, l’Educazione Patriottica e i Limiti dei Media
“Se si vuole uccidere una città, basta ucciderne la lingua”, esordiva così Claudia Mo, membro del LegCo,
intervistata dal reporter di The Vox Borders27. L’identità hongkonghese, infatti, poggia in gran parte sulla
lingua locale, il cinese cantonese, che viene parlato anche nel sud della Cina e in alcuni paesi del sud-est
asiatico come minoranza linguistica. Effettivamente, non sapendo il cantonese, cogliere i bisogni e le
insoddisfazioni della gente risulta estremamente difficile per i funzionari del Governo Centrale, affermava
Rita Fan Hsu Lai-tai (unico membro hongkonghese del National People’s Congress di Pechino) (Wong,
2016). Ciononostante, pare che il cinese mandarino stia diventando nella RAS la lingua dei media, della
finanza, del commercio, dell’educazione e ancor di più del turismo. I dati a riguardo sono piuttosto
significativi: se nel 1996 i residenti di Hong Kong che parlavano mandarino come prima lingua erano
65.892, nel 2016, le cifre salivano a 131.406, con un incremento del 99,4% (Bielicki, 2019). E sono di
fatto gli stessi dati che incoraggiano un numero sempre maggiore di genitori a iscrivere i figli in scuole
“cinesi” (il 70% del totale): credono che il mandarino sia una lingua più utile, in grado di offrire maggiori
opportunità lavorative (White, 2017). Tuttavia, un incremento nell’uso della lingua nazionale non
corrisponde necessariamente alla progressiva perdita del cantonese. Secondo i dati riportati da The
Diplomat, infatti, dal 1996 ad oggi la percentuale di popolazione che parla Cantonese è leggermente
cresciuta, da 88,7% a 88,9%. A detta di Bielicki (2019), appunto, quando nel 2047 tutte le barriere fisiche
e diplomatiche tra la Cina e Hong Kong spariranno, la lingua rimarrà una netta barriera contro
l’assimilazione. Oltre alla dimensione linguistica, il processo di “sinizzazione” si realizza anche nella
sfera educativa: la scuola è, a parere del Governo Centrale, un luogo potenzialmente utile ad assimilare
Hong Kong alla cultura della Repubblica Popolare. Gli interventi in questo campo, però, si svolgono con
difficoltà: i giovani, infatti, essendo più anticinesi rispetto alle generazioni passate, necessitano di essere
“istruiti nella maniera migliore possibile”, concordano i quadri del PCC (Kong, 2017). Molta pressione
viene fatta, di conseguenza, sui Consigli universitari per fare in modo che essi rivestano un ruolo di
supporto per il governo locale e Centrale. Il progetto di Educazione Morale e Nazionale lanciato nel 2012
rientrava proprio in questo piano, nonostante poi la grande partecipazione alle manifestazioni di protesta
abbia portato a ritirare la proposta di legge. Essa, tuttavia, aleggia ancora nell’aria, pronta ad essere
riproposta dai funzionari del governo. Lo stesso ministro dell’educazione cinese, Chen Baosheng, durante
un meeting a Pechino nell’estate del 2017, aveva avvisato Carrie Lam, la Chief Executive, del bisogno di
approfondire lo studio scolastico della costituzione cinese, della Basic Law e della storia della Cina.
Quest’ultima aveva replicato riconoscendo l’importanza di sviluppare una “consapevolezza nazionale” in
ambito scolastico, ma rimanendo comunque cauta, memore delle proteste del 2012 (Jun, Ng, 2017). Più
recentemente, alla luce della contestazione contro la Legge di Estradizione, alcuni membri del Chinese
People's Political Consultative Conference, hanno espresso
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27 Warris Johnny (2018) https://www.youtube.com/watch?v=MQyxG4vTyZ8&t=83s
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l’urgenza di “curare la malattia del separatismo” che sta dilagando tra i giovani hongkonghesi (Cheung,
2019). Essi propongono nuovamente l’introduzione di un piano per l’Educazione Patriottica, che possa
stimolare i ragazzi a percepire il loro legame con la Cina continentale. Sull’altro fronte, quello pro-
democratico, la resistenza al lavaggio del cervello, come lo definiva Joshua Wong (2015), continua: un
membro del Democratic Party ha fondato un gruppo con lo scopo d’individuare materiale scolastico
contenente elementi eccessivamente patriottici. Sono stati infatti criticati numerosi materiali esplicativi
riguardanti la Basic Law e destinati alla scuola primaria e secondaria, così come alcune linee guida per gli
Studi Umanistici che non paiono stimolare il pensiero critico. L’Education Bureau si difende affermando
che “le linee guida e i materiali sono solamente dei punti di partenza che gli insegnanti potranno integrare
per giungere ad una versione più inclusiva delle diverse opinioni” (Chiu, 2017).
Come è noto, anche i media hanno un ruolo determinante nella formazione culturale di ogni
individuo. E sono proprio i media hongkonghesi, ultimamente, ad essere considerati colpevoli, dai
giornalisti stessi e dal pubblico, di autocensura, mettendo così a rischio la tenuta della libera informazione.
I passaggi di proprietà degli organi di stampa generano spesso apprensione nella comunità; per questo
motivo, una loro analisi, rappresenta un ottimo strumento per misurare il grado di interferenza della Cina
nella RAS (Bush, 2016). Guardando ai mezzi di informazione hongkonghesi è visibile una netta linea di
divisione tra quelli favorevoli al PCC da un lato e quelli in supporto ai pro-democratici dall’altro. Tra
questi ultimi ci sono i quotidiani come Apple Daily, espressamente anticinese, Ming Pao e South China
Morning Post, acquistato dall’Alibaba Group nel 2016. Il passaggio di proprietà alimentò varie
preoccupazioni, in primo luogo legate allo stretto rapporto tra il suddetto gruppo e il Partito Comunista, in
secondo, a seguito delle dichiarazioni di Jospeh Tsai, Vicepresidente del Consiglio di Amministrazione,
che esplicitava l’intento di rendere il SCMP un mezzo di informazione globale, il quale si sarebbe preso
l’onere di “restituire un’immagine migliore della Cina nel mondo”. Aggiungeva poi, a voler placare il
dissenso, che intendeva mantenere la fiducia dei lettori conservando uno stile narrativo imparziale,
equilibrato, e soprattutto lasciando potere decisionale ai giornalisti riguardo la politica editoriale e la
copertura degli eventi (Chow, 2015). Effettivamente, ad oggi, si leggono quotidianamente critiche a tutti
gli esponenti del governo: dalla base al suo vertice. Altri mezzi efficaci per contrastare la forte interferenza
cinese sono i vari giornali online indipendenti come Hong Kong Free Press, Citizen News, The Initium e
inMedia.
Tornando invece all’altro lato dello spettro, giornali come Wen Wei Po, Ta Kung Pao e China Daily,
sono alcuni esempi di informazione pro-Pechino, in quanto fanno capo al Liaison Office of the Central
People’s Government. Il Liaison Office, di cui si parlerà più nel dettaglio nel paragrafo successivo, è il più
grande proprietario di distributori e rivenditori di libri a Hong Kong: possiede 51 librerie e ha acquisito
nelle proprie mani l’80% della quota di mercato relativa all’informazione. Questa questione è stata
sollevata più volte dai critici della “sinizzazione”, i quali si appellano all’Art. 22 della Basic Law, che
41
vieta l’interferenza di qualsiasi organo della Repubblica Popolare negli affari hongkonghesi. A rendere più
concrete le critiche
42
sul tema, fu un reportage pubblicato dall’Apple Daily nel 2015, che mostrò come il Liaison Office, spesso
utilizzando delle società fantasma, controllasse il 100% delle pubblicazioni delle tre principali catene di
librerie a Hong Kong: Commercial Press, Joint Publishing e Chung Wa. Tutte e tre controllate interamente
dal Sino United Publishing (SUP), gruppo editoriale con sede a Hong Kong (Sala, 2015). Lee Cho-jat, il
Presidente Onorario del SUP, aveva precedentemente negato la gestione diretta del SUP da parte del
Liaison Office, rigettando anche ogni accusa sulla presunta missione politica che, secondo i democratici, si
sarebbe celata dietro il controllo delle librerie (Cheng, 2018a).
Il discorso sulla libertà d’espressione si estende ovviamente anche oltre i giornali. Come raccontava
Ilaria Maria Sala per The Guardian (2015), ad una prima occhiata, sembra che ad Hong Kong non venga
esercitata alcuna censura. Eppure, l’interferenza cinese si sta insinuando a poco a poco nell’ex colonia
britannica attraverso una fitta rete di autocensura (spesso si evita di scrivere a proposito di temi che la Cina
definirebbe troppo sensibili o ne si attenuano i toni) e sottile censura, sommate al controllo economico
sulle librerie e gli organi di informazione. L’apparente libertà di stampa è visibile entrando nelle librerie
hongkonghesi e soffermandosi sui vari titoli inerenti al Movimento degli Ombrelli e alle varie proteste
susseguitesi nella storia della HKRAS. Tuttavia, dopo uno sguardo più attento, si nota come quelli più in
vista siano libri critici di quegli eventi. Ciononostante, era pratica piuttosto diffusa, fino a quattro o cinque
anni fa, quella della vendita di “Jinshu Books” (libri proibiti) e riviste contenenti biografie di quadri del
Partito (di discutibile attendibilità) in una sezione nascosta delle librerie di Hong Kong, tra le quali la più
famosa, chiamata ironicamente People’s Recreation Community. Con l’aumentare delle vendite ai turisti
cinesi (nel 2013 rappresentavano il 90% del totale), che si mostravano sempre più interessati al prodotto,
la compravendita dei libri sgraditi al Partito iniziò a destare non pochi sospetti tra le autorità della RPC,
che iniziarono ad irrigidire i controlli alla dogana e a requisire un gran numero di scritti di dubbia
provenienza (Buckley, 2013). Controlli che, per altro, avvenivano nella più totale arbitrarietà, vista la
mancanza di una lista ufficiale dei libri vietati. Problema che si verifica tuttora, rappresentando serio
pericolo per tutti i probabili contravventori. Sul tema degli arresti, che siano arbitrari o conformi alla legge
della RPC, interviene Bush (2016) sottolineando la dimensione anche geografica della restrizione della
libertà di stampa: se la RPC non può perseguire chi, da Hong Kong, supporta i dissidenti in Cina, o
pubblica informazioni contro il Partito Comunista, non appena il confine della Cina continentale viene
varcato, l’arresto è più che probabile (come accaduto nel caso di Yiu Man-tin28). “Le cose sono cambiate
radicalmente negli ultimi anni”, afferma Wong, proprietario della libreria Greenfield, “da quando Xi
Jinping ha preso il potere, ciò che era tollerato prima non viene più tollerato né in Cina né ad Hong Kong”
(Sala, 2015). In effetti, se fino
28 Nell’ottobre del 2013 il celebre editore hongkonghese, spesso critico della Repubblica Popolare, venne incarcerato durante un breve viaggio nella Cina continentale. Fu processato nel marzo successivo per contrabbando (all’arresto possedeva 7 bottiglie di
43
vernice non dichiarate). La famiglia scrisse una lettera al Presidente Xi Jinping con l’intento di denunciare l’atto come una ritorsione contro la pubblicazione di materiale sensibile (Boehler, 2014).
44
a qualche anno fa i tentativi di erosione della libertà d’espressione venivano occultati, ultimamente si
manifestano in maniera piuttosto evidente, basti pensare agli innumerevoli scontri avvenuti tra il corpo di
polizia e i giornalisti durante le manifestazioni contro la Legge di Estradizione. Secondo l’Associazione
dei Giornalisti di Hong Kong, infatti, la loro libertà di azione è ai minimi storici: durante le proteste si
sono verificatidiversi casi di violenza contro i reporter, sia da parte della polizia che da parte dei
manifestanti più radicali. Questo, sostiene l’Associazione, “limiterà realmente la libertà dei giornalisti di
denunciare i fatti, oltre che il diritto della gente di venire a conoscenza degli stessi” (Chiu, 2019). A
supporto di queste dichiarazioni vi è lo studio di “Reporter senza frontiere”, un gruppo di monitoraggio
parigino, che ha registrato nel tempo l’indebolimento della libertà di stampa nella HKRAS: su 180 paesi e
regioni, Hong Kong era 58esimo in classifica nel 2013, 70esimo nel 2015, e attualmente, nel 2019, si trova
in 73esima posizione.29 L’ultimo episodio significativo, che ha sicuramente influenzato l’esito dello studio,
si è verificato nell’ottobre del 2018 con il rifiuto di rinnovare il visto di lavoro al direttore del Financial
Times Asia, Victor Mallet. Il mese successivo tentò di entrare a Hong Kong con un visto turistico ma
neanche quello gli fu concesso. Mallet fu dichiarato colpevole di aver tenuto un evento, ad agosto dello
stesso anno, presso il Hong Kong's Foreign Correspondent Club a cui aveva preso parte Andy Chan,
leader del Hong Kong National Party, inviso a Pechino (Pomfret, 2018). Risulta chiaro, dunque, come la
Cina stia cercando di far convergere i media, l’educazione e persino la cultura locale (veicolata dalla
lingua) verso di sé, per offrire agli hongkonghesi l’immagine positiva di una Cina prospera e ricca di
cultura e tradizioni. Resta da provare se questa visione quasi mitologica della Madrepatria verrà imposta
con la forza ai cittadini di Hong Kong o se la cultura nazionale verrà passivamente assimilata dalla cultura
locale, che perderà le proprie specificità.
Integrazione Politica: Organismi di Controllo della RPC e Minacce al Sistema Giudiziario
L’integrazione di Hong Kong nei meccanismi politici della Repubblica Popolare è, senz’altro, l’aspetto più
complesso della strategia cinese. Essa viene portata avanti, in primo luogo, dai diversi organi di controllo
che, fisicamente, sono stati inseriti a Hong Kong dopo l’Handover o che, dalla RPC, interferiscono con il
funzionamento del regime. È questo il caso dello State Council Hong Kong and Macau Affairs Office, che
coadiuva il Primo Ministro cinese nella gestione degli affari di Hong Kong e Macao. Le sue funzioni
principali sono: il coordinamento tra i vari dipartimenti della Cina continentale e le RAS, il mantenimento
dei contatti con il Chief Executive e il governo di Hong Kong e Macao, l’incentivazione e il
coordinamento degli scambi in ambito economico, scientifico, tecnologico, educativo e culturale; la
gestione delle esportazioni dalle aziende cinesi alle RAS e, infine, la promozione delle norme della Basic
Law, oltreché dei
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29 Studio condotto da Reporters Without Borders, World Press freedom Index https://rsf.org/en/hong-kong
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principi e delle politiche del Governo Centrale inerenti Hong Kong e Macao30. Ad essere invece fisso sul
territorio hongkonghese è il Liaison Office, a cui si è fatto riferimento per la questione dei media. Esso è
stato inserito nella HKRAS a sostituire la New China News Agency, dell’epoca coloniale. Il compito
dell’ufficio sarebbe quello di facilitare l’interazione, fungere da ponte tra la Cina continentale e la
comunità di Hong Kong. Ha, inoltre, un ruolo fondamentale nella selezione dei delegati hongkonghesi da
inviare al National People’s Congress e al Chinese People’s Political Consultative Conference. Questo
organo è diventato in realtà un punto chiave per fare pressione sulla comunità locale, ai fini di ottenere
consenso (Yep, 2009). Altro elemento di contatto con la RPC è l’Office of the Commissioner of the
Ministry of Foreign Affairs che, come richiesto dall’Art. 13 della Basic Law, si occupa delle questioni
diplomatiche. Tra le principali funzioni vi sono: la gestione della partecipazione della HKRAS nelle
organizzazioni internazionali, l’implementazione dei trattati internazionali e la conclusione di accordi
bilaterali31. La presenza più discutibile sul suolo hongkonghese è, infine, quella di una guarnigione
di 4000 soldati dell’Esercito Popolare di Liberazione come simbolo dell’esercizio della sovranità della
Repubblica Popolare. Scopo dell’Esercito, comunque, non è quello di interferire nelle questioni locali a
meno che, come previsto dall’Art. 14 della Basic Law, il governo della RAS non faccia richiesta di
supporto, per il mantenimento dell’ordine pubblico o in caso di catastrofi. Questa lunga serie di organi
offre risorse quali intelligence, contatti con la comunità locale, costituisce mezzo di pressione verso la
comunità e genera feedback in merito al processo di decision-making, in favore del Central Coordination
Group on Hong Kong and Macao Works, istituito dopo le manifestazioni contro la Legge per la Sicurezza
Nazionale (Yep, 2009). L’assetto stesso della Regione, inoltre, permette alla Cina d’interferire su più
fronti negli affari di Hong Kong. Il funzionamento di esso è regolato dalla Basic Law, la mini-
costituzione che riflette l’intento di enfatizzare la dimensione del “One Country” nella RAS, ancora prima
di riservarle l’autonomia necessaria in virtù dei “Two Systems”. Come spiegato nel primo capitolo, il
potere esecutivo prevale fortemente su quello legislativo: detentore del primo è un singolo cittadino, il
Chief Executive, il quale viene eletto da una cerchia molto ristretta di individui (a maggioranza
filogovernativa) e, per di più, in nome di un sentimento patriottico. In altri termini, egli è sistematicamente
un membro dell’élite di businessmen, notabili o esponenti di associazioni legate alla Repubblica Popolare,
che ha tutti gli interessi a tenere i pro- democratici (e di conseguenza anche le proposte di riforme più
significative) lontano dal palazzo del governo. Da ricordare, infine, che il Governo Centrale detiene il
potere di veto sulla formazione dell’esecutivo: di fatto potrebbe rifiutare i funzionari (e lo stesso CE)
proposti dalla RAS. L’organo legislativo, dall’altro lato, sebbene si costituisca in parte per elezione
diretta, consta, come già detto, di limitazioni atte a evitare la preminenza dell’opposizione nel processo di
decision-making (e.g. split voting).
30 http://english.www.gov.cn/state_council/2014/10/01/content_281474991090982.htm
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31 http://www.fmcoprc.gov.hk/eng/
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Inoltre, la RPC ha un margine d’intervento piuttosto elevato nella promulgazione delle leggi nella
Regione: il NPCSC può incrementare il numero di leggi cinesi vigenti nella RAS, semplicemente
iscrivendole nella già citata sezione della Basic Law (Annex III). Allo stesso tempo, il Governo Centrale
ha il potere di invalidare qualsivoglia legge emessa dal LegCo, nel caso in cui questa sia incompatibile
con le disposizioni della Basic Law circa i rapporti tra autorità locale e RPC o le prerogative del Governo
Centrale (Yep, 2009). L’arma principale nelle mani della RPC, tuttavia, è il suo potere sugli emendamenti
e sull’interpretazione della Basic Law. Entrambi permettono di ridefinire la libertà d’azione della RAS.
Tuttavia, se le procedure di emendamento sono lunghe e rigorose, commenta il Prof. Yep (2009),
l’interpretazione delle leggi costituzionali sortisce lo stesso effetto e la procedura annessa risulta
decisamente meno problematica. Il primo esempio di azione di questo tipo si verificò il 29 gennaio 1999,
quando il NPCSC pronunciò il proprio giudizio sul diritto di residenza. La questione era nata con
l’emissione, da parte della Hong Kong Court of Final Appeal (CFA), di un precedente giudiziario che,
sulla base del principio di uguaglianza, concedeva il diritto di residenza per i bambini
(indipendentemente dal luogo di nascita), con genitori hongkonghesi. Lo stesso principio venne poi esteso
ai figli dei genitori cinesi cui era stato concesso il diritto di residenza nel corso della loro vita. Il
governo della RAS contrastò fortemente questa decisione, preoccupato di vanificare gli sforzi passati
della comunità hongkonghese, che aveva fatto del “Porto Profumato” un centro economico- finanziario di
riferimento sia per l’Oriente che per l’Occidente. L’amministrazione, per questo motivo, era decisa ad
evitare l’attuazione della disposizione emessa dalla CFA ad ogni costo, anche richiedendo l’intervento
del NPCSC. Per fare in modo che non venisse percepita dalla popolazione come mera manovra
amministrativa, il governo tentò di convincere gli hongkonghesi dell’appropriatezza della decisione,
producendo statistiche che avrebbero aiutato a quantificare gli effetti dell’ondata di migranti. Regina Ip,
Secretary for Security, aveva dichiarato che la sentenza della CFA avrebbe aperto le porte a 1.67 milioni
di migranti dalla Cina continentale, minando la qualità dei servizi (soprattutto istruzione e sanità),
peggiorando la situazione lavorativa e abitativa, oltreché l’inquinamento.32 Il tentativo andò a buon fine,
tanto che, dopo la pubblicazione di dati allarmanti sul futuro degrado di Hong Kong, l’80% delle persone
intervistate in un sondaggio telefonico, condotto dalla Chinese University of Hong Kong, si dichiarò
contraria alla decisione della CFA (Chan, 2003). Fu così deciso, infine, di richiedere l’interpretazione
degli Art. 22(4) e 24(2)(3) della Basic Law. Il verdetto finale, in contrasto con la delibera della CFA, si
impose su di essa, rappresentando un precedente piuttosto pericoloso per l’autonomia del potere
giudiziario nella RAS. Secondo l’Art. 158 della Basic Law, infatti, la CFA prima di pronunciare la
decisione finale, deve attendere l’interpretazione del NPCSC, ma solo in due casi: se si tratta di leggi
inerenti al rapporto tra Cina-Hong Kong oppure se la legge in questione rientra tra le prerogative
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32 Documento presentato dal Chief Executive al LegCo in cui viene espressa la necessità di richiedere l’interpretazione del NPCSC sulla questione https://www.legco.gov.hk/yr98-99/english/hc/papers/roa-e.pdf
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del Governo Centrale. Il diritto di residenza era chiaramente fuori da queste categorie. Va dunque
riconosciuta l’importanza di questo evento, che caratterizzò il fallimento del ruolo del governo come
“guardiano dell’autonomia del potere giudiziario”. Autonomia che fu sacrificata dai governatori per pura
opportunità politica (Benny Tai in Lam et alii, 2007). Inoltre, se da un lato la strategia del governo della
RAS ebbe successo nel preservare la prosperità della Regione, dall’altro, invece, contribuì ad allargare il
cleavage tra i membri delle due comunità: quella hongkonghese e quella cinese, vista come “estranea”,
minacciosa (Chan, 2003). Come afferma Benny Tai (in Lam et alii, 2007), dal gennaio 1999 è cambiato il
modo di agire della CFA: si presentò la necessità di fissare delle priorità sui compiti dell’organo. Fu chiaro
che, per proteggere l’alto grado di autonomia della HKRAS e promuovere il rispetto dei diritti umani per i
suoi cittadini, era imprescindibile mantenere viva l’indipendenza e l’autorità giuridica, prerogative dello
stato diritto. La priorità assoluta divenne, quindi, la difesa dello stato di diritto contro il suo peggior
nemico: un’altra interpretazione del NPCSC. La nuova strategia spiegherebbe il motivo per cui, in alcune
occasioni, la CFA si è mostrata disposta a tutto, compresa una restrizione dei diritti umani, pur di evitare
un ulteriore intervento del Governo Centrale. Effettivamente la CFA ha, per lungo tempo, mostrato
un’ottima capacità di resistenza e resilienza ai cambiamenti nell’ordine costituzionale della RAS. Non è
tuttavia certo che lo possa fare ancora a lungo.
Diciassette anni dopo, nel 2016, un altro fatto scosse la RAS in modo particolare: l’epilogo del
Movimento degli Ombrelli aveva incrementato i sentimenti localisti, tanto che alcuni sostenitori di questa
corrente furono eletti nel LegCo, come Yau Wai-ching e Baggio Leung, membri del partito
Youngspiration. Entrambi pronunciarono il giuramento di rito in forma provocatoria, riferendosi alla Cina
con l’appellativo “Cheena”33, atto che costò loro l’esclusione dal parlamento. Il governo, infatti, richiese
alla corte di esprimere una sentenza per chiarire che il presidente del LegCo non avrebbe potuto
autorizzare i due deputati ad esprimere nuovamente il loro giuramento, a causa della mancata promessa di
fedeltà al Governo Centrale. Inoltre, chiese al NPCSC di interpretare l’Art. 104 della Basic Law che
regola, appunto, il conferimento delle cariche politiche nella RAS. Il Governo Centrale si espresse il 7
novembre 2016, ribadendo l’assoluta intransigenza sulle procedure del giuramento. Il deputato, secondo
quanto riportato, deve “pronunciare il giuramento in modo corretto, sia per la forma che per il contenuto,
egli deve giurare in modo sincero e solenne, leggere in maniera accurata e completa”. Inoltre, continua il
documento, il deputato sarà prontamente squalificato nel caso in cui si rifiuti di esprimere il giuramento o,
intenzionalmente, ne alteri forma o contenuto. Infine, a supportare la posizione del governo della RAS,
l’opzione di dare un’altra possibilità ai deputati per ripetere la formula fu rifiutata.15 Nuovamente, il potere
giudiziario è stato scalvato dal governo locale prima (che ha chiesto l’intervento del NPCSC, compito che
spetterebbe alla corte), e dal
42
33 Termine usato in modo dispregiativo dai giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale. 15 Decisione del NPCSC del 7 novembre 2016 http://www.basiclaw.gov.hk/en/basiclawtext/images/basiclawtext_doc25.pdf
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Governo Centrale poi, che ha nuovamente interferito negli affari interni della RAS. L’interpretazione del
NPCSC creò un altro precedente politico, piuttosto allarmante: qualsiasi deputato del LegCo avrebbe
potuto essere privato della propria carica nel caso in cui venisse giudicato poco rispettoso nei confronti del
Governo Centrale. Questa vicenda ha dimostrato la rapidità della RPC nel rispondere qualora si senta
minacciata nella sicurezza o umiliata nell’orgoglio nazionale (Lo, 2018).
Poco meno di un anno dopo, nel luglio 2017, Leung Kwok-hung, Edward Yiu, Nathan Law e Liu
Shiu Lai, altri quattro membri del Youngspiration, furono squalificati dal LegCo dopo la sentenza della
Corte Suprema, sempre a causa del comportamento tenuto durante il giuramento. Una notizia che ha
“riportato dignità al Legislative Council”, affermò Priscilla Leung Mei-fun, avvocatessa e deputata del
LegCo, che così come gli esponenti dei partiti pro-Pechino, si rallegrava dell’esclusione dei sei esponenti
democratici che assicuravano all’opposizione l’impossibilità numerica per porre il veto sui decreti proposti
dal governo. Venne vista come un’occasione per risolvere lo stallo parlamentare, a cui si era giunti a causa
delle tecniche di ostruzionismo portate avanti dai democratici (Li, Liu, 2017). “Un vero oltraggio”, replica
Leung Kwok- hung, “il NPCSC ha ribaltato i risultati delle elezioni del settembre scorso. Questo non
succede nei paesi democratici” (Lau, Chung, 2017). Questo ulteriore affronto verso la comunità
hongkonghese ha ulteriormente accresciuto la presenza di localisti, invisi alla Cina. Tra quelli più
determinati c’è Andy Ho, leader del Hong Kong National Party, che aspirava all’indipendenza del Porto
Profumato dalla Cina continentale. Il suo partito, pur non essendosi messo a capo di alcuna azione
sovversiva, è stato bandito nel 2018 per questioni di sicurezza nazionale, ordine pubblico e tutela della
libertà e dei diritti della comunità. La messa al bando di un partito, avvenuta per la prima volta dal 1997,
ha rappresentato una grave limitazione alla libertà di associazione (Cheng, 2018c).
Ciò che si evince da quanto descritto è che il gigante cinese, anche quando non si occupa di costruire
enormi opere infrastrutturali, agisce ad un livello differente, meno palese ma ugualmentepenetrante. Il filo
conduttore dell’azione della Repubblica Pubblicare è senz’altro la sicurezza nazionale, un’ossessione che
estende il concetto di sicurezza anche ad elementi quali il pericolo di rottura dell’unità della Cina e le
minacce di oltraggio contro il Governo Centrale. Questo spiegherebbe perché la Cina è intervenuta
tempestivamente e, soprattutto, duramente, contro casi come questi (Lo, 2018).
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CONCLUSIONE
Nei capitoli precedenti è stato messo in luce come la Cina abbia sempre interferito negli affari di
Hong Kong: sia durante il periodo coloniale, quando la sovranità sugli affari interni apparteneva alla
Corona Britannica, che dopo l’Handover, nonostante la promessa di un alto grado di autonomia
avanzata nei confronti della RAS. Si è visto come il Partito Comunista Cinese avesse una base sul
territorio già dal 1937 e come esso puntasse all’attuazione di un United Front tramite la Federation
of Trade Unions, la New China News Agency e il DAB, partito pro-Pechino, per riunire gli
hongkonghesi contro il nemico Imperialista. Poi ancora è stato sottolineato l’evidente appoggio,
offerto dalla Cina, ai vari moti di rivolta anticoloniale (e.g. quelli del 1967) con l’intento di
diffondere il comunismo nel Porto Profumato. È noto poi, come negli anni della transizione (1984-
1997), la gestione cinese prevalse sia sugli inglesi, che sulle richieste della popolazione residente. È
innegabile, tuttavia, che una volta tornata sotto la giurisdizione cinese, Hong Kong, in quanto
Regione Amministrativa Speciale, sia stata dotata di più poteri rispetto ad un qualunque stato
federale: essa, per esempio, è libera di avere un sistema finanziario indipendente, una valuta propria,
non è tenuta a pagare le tasse al governo Centrale e può avere un ruolo internazionale in quanto
RAS. Ciò che va ricordato, tuttavia, è che tali prerogative, così come la promessa della futura
elezione a suffragio universale dei rappresentanti, siano scritte nella Basic Law, costituzione locale,
ma non in quella nazionale, che nella piramide gerarchica delle fonti è senz’altro in una posizione
primaria. Ecco perché si può affermare che l’autonomia di Hong Kong è “costruita sulla sabbia”
(Ghai, 2007). Tale consapevolezza si è fatta strada anche nella società civile, che in un crescendo di
manifestazioni di protesta si è mobilitata contro il tentativo cinese di far entrare Hong Kong nella
sua orbita, negandole quel sistema democratico che molti avrebbero desiderato. Infine, ho messo in
luce alcune delle modalità attraverso le quali la Cina sta tentando di assimilare la HKRAS: creando
una relazione di dipendenza economica di Hong Kong verso la Madrepatria; inserendosi nella
dimensione culturale, educativa e dell’informazione, al fine di creare una comunità “più cinese”,
eliminando il gap presente tra cinesi e hongkonghesi e, infine, interferendo nei suoi meccanismi
politici, negli affari interni e, soprattutto, minando il lavoro dell’unico settore in grado di preservare
l’autonomia della regione: il giudiziario. Hong Kong, così, si trasformerebbe gradualmente, secondo
il volere del PCC, in una qualunque città cinese, in vista della “scadenza” del modello “One
Country, Two Systems”, nel 2047. Un’analisi sul significato di questa espressione risulta, in effetti,
piuttosto utile per completare il quadro sulla riflessione circa l’effettivo grado di autonomia della
HKRAS. I modelli interpretativi sono due: si può pensare alla centralità della dualità di sistemi, in
cui l’autonomia degli stessi è base
45
fondativa per il Paese unito, oppure, ed è questa la versione ufficiale34, si può intendere il “One
Country” come assoluta precondizione per l’accettazione dei “Two Systems”. L’obiettivo primario,
in questo caso, è l’unificazione del Paese, e il modello dei “Two Systems” è mero strumento per la
realizzazione di questo (Tai, 2010). Che la si voglia quindi chiamare “sinizzazione” o più
semplicemente integrazione, è comunque chiaro (e lo è sempre stato) quale sia l’intento della
Repubblica Popolare. È dunque tenendo a mente questa interpretazione che si fatica a immaginare
un futuro democratico per Hong Kong, il quale, da stato indipendente sarebbe costretto a convivere
con la vicinissima potenza economica cinese, da cui, al momento, dipende una grande fetta
dell’economia locale; da Regione Amministrativa Speciale quale è, invece, si potrebbe sperare in
un’apertura democratica nel caso in cui Hong Kong fosse strettamente indispensabile alla Cina, in
quanto centro economico-finanziario internazionale. Come già puntualizzato, però, questa relazione
di dipendenza si sta affievolendo dalla parte cinese: un grande stimolo parte senz’altro dalla
concretizzazione del piano dell’Area della Grande Baia, con il potenziamento delle città della zona,
Shenzhen in particolare. Meno potere contrattuale è nelle mani degli hongkonghesi, più è probabile
che il 2047 registri una totale assimilazione di Hong Kong nella Repubblica Popolare Cinese.
Rimane tuttavia il nodo della società civile, che, al momento, non sembra intenzionata ad arrendersi
al gigante cinese.
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34 Hu Jintao nel discorso di commemorazione per i dieci anni della HKRAS disse che “non potevano esistere due sistemi separati senza il Paese, indivisibile”. (2007)
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