Post on 23-Jun-2015
La Grande Guerra
“Pellicola cinematografica” impressa nella mente e nel cuore
Era il 28 giugno 1914 quando
l’arciduca d’Austria, Francesco
Ferdinando, erede al trono di Vienna, venne assassinato insieme alla moglie,
mentre si trovavano in visita a Sarajevo, colpiti a
morte da una rivoltellata sparata
dallo studente serbo-bosniaco Gravilo Princip.
Ma questo episodio è solo un pretesto, perché i motivi erano ben altri: le tensioni politiche tra
le potenze; il sistema delle alleanze (Triplice Alleanza e Triplice Intesa); le cause
economiche e la corsa agli armamenti; il nazionalismo aggressivo che trasformava
l’amor patrio in spinta imperialistica.
Inizialmente gli alti gradi militari ritennero che il conflitto potesse concludersi in breve tempo (guerra lampo) ma non fu così: sul fronte occidentale e su quello orientale i soldati appostati nelle trincee, lungo una linea quasi ininterrotta che andava dal mare del Nord alla Svizzera, si fronteggiavano in una guerra di posizione, tramutatasi ben presto in una guerra di logoramento.
L’Italia il 3 Agosto 1914 dichiara la sua neutralità
Fino a quando il ministro Sonnino, il 26 aprile del 1915 non firmò il patto
segreto di Londra entrando in guerra a fianco dell’Intesa. Il compenso, in caso di vittoria, sarebbe stato vantaggioso: il
Tirolo meridionale (di lingua tedesca) fino al Brennero, Trieste, la Venezia
Giulia e la Dalmazia (con l’esclusione di Fiume, che sarebbe rimasto un porto
austriaco) e la partecipazione alla spartizione della provincia turca di
Adalia e delle colonie tedesche in Africa orientale.
Manifestazioni di piazza
spinsero la maggioranza neutralista a
cambiare idea, si votò per
l’intervento e Salandra
ottenne i pieni poteri: il 24
maggio 1915 l’Italia dichiarò
guerra all’ Austria.
’
Il fronte occidentale si
caratterizzò per gli scontri avvenuti
all’ inizio e alla fine della
guerra, mentre la fase centrale del conflitto fu una guerra di
posizione combattuta
nelle trincee.
Circa sette milioni di italiani ,
contadini, pastori,
bottegai, operai, per lo più analfabeti, senza parlare
una lingua comune, male
armati, in nome della
Patria si avviarono
verso quello che si rivelò un massacro.Si combatté a est e a ovest dei territori
occupati dagli imperi
centrali.
Le prime furono quelle costruite sul fronte occidentale dai francesi per frenare l’avanzata dei tedeschi. Trincee furono costruite anche sugli altri fronti, tra cui quello italiano, teatro
degli scontri con l’esercito austriaco.
Erano larghi fossati sostenuti da pareti di legno, dotati di piccole scale per salire sugli spalti quando si doveva sparare al nemico. Nei punti più ampi
si ponevano le vettovaglie, o
alloggiavano gli ufficiali o si
creavano le latrine. Il fronte era coperto da sacchi di sabbia
e il filo spinato li proteggeva dal
nemico.
Altrettanto pericolose erano i cavalli di Frisia, consistenti in aste di legno incrociate e coperte da filo spinato, che
facevano impigliare chi volesse scavalcarle
divenendo così bersaglio sicuro per i cecchini.
Le trincee contrapposte
erano separate dalla terra di
nessuno, minata pericolosamente
e piena di trappole mortali.
Ingente fu il numero di soldati impegnato per anni al fronte
durante l’estenuante guerra di trincea e di quelli che militarono tra le
montagne del Massiccio dell’Adamello (al confine tra
Lombardia e Alto Adige); sulla Marmolada (tra Trentino e
Veneto) o sulle Dolomiti Orientali,
reclutati principalmente tra i giovani di montagna, abituati
alle basse temperature. Costoro rimasero lì combattendo per oltre due anni, costruendo
baraccamenti, trasportando munizioni e armi. La loro vita
quotidiana scorreva tristemente tra la paura della morte che
incombeva e i sacrifici da affrontare minuto dopo minuto.
“ La grande guerra di latta” è
un volume fotografico relativo al
ritrovamento nei campi di battaglia delle scatolette di latta, contenenti
cibi consumati dai soldati in trincea
in un contesto non certo invitante,
dal momento che ai sapori si
mescolava l’odore della polvere da sparo con quella dei cadaveri in
decomposizione, poco lontani dalla linea di reticolati.
Tra gli elementi che concorrono a
non dimenticare la grande guerra vi è
anche una testimonianza
insolita, contenuta in un libro di
recente pubblicazione
(Edizioni Menin, 2013) scritto da
due patrioti veneti: Giovanni Delle
Fusine e Gianluca Demenego, giornalista e
scrittore, nonché Dirigente del Museo della
Grande guerra (il primo) e cuoco ed
escursionista (l’altro).
Dentro i baraccamenti si riscaldavano soltanto con i
fornelletti per le vivande; il loro vestiario, anche se di lana, non li
proteggeva abbastanza dal freddo; per riparare la vista dal sole si costruirono degli occhiali con l’alluminio. Inizialmente le
loro uniformi erano di colore grigio-verdi, ma ciò li rendeva facilmente individuabili tra il
bianco della neve, quindi nel 1916 furono loro assegnate tute
bianche.
Da ricerche da loro effettuate risulta che durante il conflitto
agli italiani sono stati distribuiti circa duecento
milioni di scatolette di carne, di tonno, da 200 grammi
cadauna, burro, mortadella, oltre a dadi per brodo,
consumati dietro autorizzazione superiore in
caso di mancanza del rancio caldo cucinato nel campo.
Ma non furono trovate soltanto scatolette arrugginite: alcune
mantengono i colori con la grafica dei marchi storici
(Cirio, Bertolli) altre contenevano prodotti
etichettati con nomi patriottici come: “Antipasto finissimo Trento e Trieste”; “Alici alla Garibaldi”; ” Filetti Savoia”,
“Antipasto Tripoli” in cui spesso compariva il disegno
della bandiera italiana.
Inizialmente la razione quotidiana per ogni militare era di 4.350
K/calorie, che diventavano 4.700 per le truppe di alta montagna (a differenza di quanto veniva dato agli austriaci, che era di meno). Negli anni seguenti si passò a
3.000 k/calorie per l’assottigliarsi delle scorte alimentari.
Dalle lettere e dai diari scritti dai soldati si legge
che la quantità del cibo era buona, a volte superiore a
quella che ciascuno
assumeva nella propria famiglia,
ma capitava che il cibo nelle trincee arrivasse scotto o
freddo. Consumavano vino e liquori prima delle
battaglie, ma scarseggiava
l’acqua.
Al fronte le condizioni di vita dei soldati erano insostenibili. Alle difficoltà oggettive se ne aggiungevano altre psicologiche, per cui si
verificarono tanti casi di insubordinazioni e di diserzione. Anche le lettere che i soldati dovevano
inviare a familiari e conoscenti venivano lette e controllate: non dovevano dare informazioni di
carattere militare o esprimere stanchezza, critiche, malcontento verso chi li comandava.
Si giunse addirittura al ferimento volontario e all’automutilazione pur di lasciare il proprio
posto di combattimento: arrendersi e consegnarsi al nemico o essere un ferito erano due possibilità per sopravvivere.
Non si può, altresì, trascurare il ruolo ricoperto
in tale occasione dalle Portatrici Carniche, le
donne che rifornivano di munizioni, armi e viveri i
loro uomini che combattevano tra le
montagne.
Ogni famiglia aveva uno o più uomini impegnati lì a combattere, per cui la necessità impose che fossero sostituiti nei loro ruoli dalle donne. La collaborazione femminile allo sforzo bellico andò oltre, vedendole anche impiegate come
operaie nelle fabbriche per la produzione di armi e di esplosivi per rifornire gli eserciti, nonché nei laboratori di cucito per
produrre coperte e indumenti per i soldati in trincea. Le donne furono utilizzate anche in altri settori, grazie alla
scolarizzazione femminile avviata nel decennio precedente. Tutto era finalizzato alla guerra che coinvolgeva così l’intera
società, impegnata nel cosiddetto fronte interno.Le donne nelle fabbriche erano impiegate come operaie
Donne al lavoro in una fabbrica di missili
Di grande importanza fu il ruolo rivestito dalla Croce Rossa
internazionale durante la prima guerra mondiale. Costituitasi
nel 1863, si prodigò assistendo l’altissimo numero di feriti,
malati, mutilati che le nuove armi producevano.
Il simbolo della Croce Rossa doveva essere rispettato da tutti i combattenti.
Da qui deriva il detto: “E’ come
sparare sulla Croce Rossa” quando si
attacca un indifeso che si sta
prodigando per il bene di tutti.
Cartoline d’epoca
I combattenti del Carso, nonostante
contrapposti, si sentivano vicini ai
nemici feriti e inoffensivi, perché soffrivano come loro; a riguardo
Ungaretti (militante al fronte) così
scrisse:
“ Il Carso non è più un inferno: una
comune sofferenza la nostra e quella di chi ci stava di fronte
e che dicevamo il nemico, ma che noi, pure facendo senza viltà il nostro cieco
dovere , chiamavamo nel
nostro cuore fratello”.
Anche i piccoli sono coinvolti emotivamente nella tenuta del fronte
interno, educati ai sacrifici e alla
costruzione di una salda coscienza nazionale,
veicolata dal “martellante messaggio”
a favore della guerra. La letteratura per
l’infanzia, durante il conflitto, propagandava,
infatti, l’immagine di una
“guerra giusta e santa”, combattuta contro un
nemico feroce da annientare con il
contributo di tutti.
Pur se gli analfabeti erano ancora tanti, allo scoppio
della guerra gli iscritti alle scuole primarie e
secondarie erano alcuni milioni; i pochi lettori
erano in grado di comprendere filastrocche, storielle, racconti o fiabe,
spot propagandistici sull’argomento. Molti
ragazzi, vista l’esigenza, si misero a lavorare
precocemente nei campi e nelle fabbriche, infatti fu
sospesa la legislazione che vietava il lavoro minorile.
I pochi fortunati che poterono continuare ad andare a scuola costatarono la portata dell’evento bellico in corso nei libri e nei programmi in uso: in scienze si
studiavano gli effetti dei gas asfissianti; in Matematica si facevano esercizi su quanto costasse mediamente
un soldato in guerra; in Geografia impararono a conoscere i luoghi in cui stavano combattendo i loro
padri o i propri fratelli.
Il Corriere dei piccoli riporta e illustra le vicende umoristiche, create da Antono Rubino, di Italino, un
contadino trentino interventista, che ostacola dispettosamente il suo rivale austroungarico: il
“grande e goffo” Imperial regio commissario Otto Kartoffel, stilizzandone il comportamento.
Il censimento del 1911 riportava il
numero dei maschi che avevano l’età
per essere chiamati alle armi; alcune regioni del Sud vi
contribuirono massicciamente
come: la Calabria per il 78%; l’Abruzzo
per il 94%, la Liguria, invece, per il
44% a causa degli esoneri agli operai
che lavoravano nelle industrie e agli equipaggi che
facevano parte della marina mercantile.
Il calabrese Mario Saccà, nato a Catanzaro, si occupò particolarmente dei fatti di Santa Maria La Longa (Udine) dove si trovava acquartierata dal 25 giugno 1917, per un breve periodo di riposo, la Brigata Catanzaro costituita, appunto, a Catanzaro
Lido il 1° marzo 1915. Formata da due reggimenti: 141° e 142° i militari, che erano soprattutto calabresi, dopo avere appreso la notizia di essere stati destinati come brigata d’assalto in trincea di prima linea fecero scoppiare una rivolta. Alle ore 22.00 del 15
luglio 1917 iniziò il fuoco; tra i reggimenti ci furono ammutinamenti che richiesero l’intervento dei Carabinieri, di
quattro mitragliatrici e di due autocannoni.
Il16 luglio furono fucilati presso il muro di cinta di santa Maria La Longa ventiquattro
fanti (secondo la pratica della decimazione) e altri quattro, colti in
flagrante.
Esco Silvestri, “biondo e silenzioso soldato calabrese” appartenente al 142 RF fu
testimone dei fatti e a tal proposito scrisse versi toccanti. Ad avvalorare questa
testimonianza contribuì quanto Corrado Tumiati, ufficiale medico, scrisse nel racconto
“Il caporale poeta” in cui descrive ampiamente il militare.
”Era muratore in pace e mitragliere in guerra, con lo sguardo che pareva tonto e assonnato”,
ma dotato di vena poetica.Il suo estro lo accomunava a un cantastorie,
scriveva in italo-calabrese, usava parole bislacche che spesso finivano in “e” e
rispettava poco la punteggiatura. Scriveva ovunque sotto la tenda o in trincea per
raccontare la guerra vissuta che ispirò i suoi versi, interpretandola ironicamente.
Tumiati in un altro suo libro “I tetti rossi” include tre racconti brevi, i cui protagonisti sono
soldati calabresi. In uno di essi “Errori” parla della rivolta della Brigata Catanzarese avvenuta
tra il 15 e il 16 luglio, che fino a oggi è l’unica fonte, oltre alla testimonianza di D’Annunzio, sui caduti e fucilati in quelle
ore. Così scriveva:
“ La Brigata Catanzarese fu certamente una delle più
gloriose e provate nella Grande guerra. Il suo proverbiale
eroismo la condannò a due anni ininterrotti di guerra
carsica. Stremata, mutilata, consunta, risorgeva dal sangue
e dalla morte, con energie nuove sempre imbattibile”.
Esco Silvestri per sfuggire alla censura militare regalò diari in rima al suo ufficiale Tumiati, che
questi scelse di lasciare ai posteri per ricordare il biondo muratore e le sue storie di trincea.
In un poemetto dal titolo ”Brigate Zingare” il caporale calabrese per simboleggiare i frequenti spostamenti della Brigata Catanzaro sui campi di
battaglia si esprimeva così:
“Voi lo sapete amice careChe i zingare fermo non possono stareSolo tre giorni in un paeseE continuare di nuovo a marciare”
A proposito della rivolta di luglio, in cui i militari stanchi e insofferenti spararono dei colpi in aria,
perché volevano essere mandati in Trentino, zona più tranquilla di quella carsica, Esco descrisse i
motivi e come si svolse la protesta:
“Tra i soldati tutti stanchiS’ incomincia un mormoriaE la sera della partenzaCi fu una piccola fucileria”
Egli per poetare non si estraniava dalla realtà, ma ne leggeva il senso raccontando in versi ambienti, nomi, gioie e sofferenze dei soldati
come un vero cantastorie”:
“O musa mia prestami attenzioneRinfrescami un po’ la memoriaSeguime nel cammino in continuazioneA ciò possa comporre questa storiaScrivere dobbiamo di quella missione Che dell’ umanità è onore e gloria…”
Tumiati racconta che un giorno il caporale calabrese gli disse piano:
”Legga questa, signor tenente, se le piace. Non badi agli spropositi”. Era il
dialogo tra l’arma di Esco, la mitragliatrice e una falce caduta in
campo e abbandonata, il suo poemetto più completo, che il testimone oculare
delle vicende vissute e agite nella Grande guerra dal soldato calabrese,
pose alla fine del suo racconto:
Muta e tranquilla o sono nel riposareSvelte e terribile io sono nel lavorareE se una buona mane maneggiar mi saAlla mia vista ognun tremeràDelle battaglie la regina io sonaE della vittoria son sempre la coronaDal mio posto viete il passo ai nemiceAlto là gli dico io sono la mitragliatrice
Fra noi due non ce paragoneIo sono adoperate per falciare il granoE tu pel sterminio della vita umanoIo lavoro per fare l’ uomo più forteMentre col tuo tu gli dai la morteA tale parlare chiaro franco e modesteA dare risposte la mitragliatrice s’ apresteE disse-se io non fo opere buoneLa colpa non è mia ma della mano dell’ uome..
Una ricca testimonianza del contributo dato dai soldati calabresi alla Grande guerra, sia in termini di valore che di
vite umane, è contenuta in un manoscritto di Adolfo Zamboni, redatto il giorno successivo alla VI° battaglia dell’
Isonzo sul San Michele e poi riordinato intorno al 1933
La validità di questa testimonianza sta nel fatto che Zamboni fu tenente di fanteria, poi insignito di tre
medaglie d’ argento al valore militare e operò nella Brigata Catanzaro,141° e 142° Reggimento.
“In queste poche pagine di vita vissuta tratte dal mio diario di guerra, parlo di fatti dei quali fui testimonio, di umili personaggi che vidi io stesso in azioni: il mio unico desiderio è che i lettori non dimentichino i nomi di coloro di cui si fa menzione nel presente modesto lavoro. E ai giovani faccio una calda preghiera: visitino i luoghi dove fu combattuta la grande guerra, portino il loro contributo di pietà agli oscuri eroi che dormono e dormiranno eternamente nei cimiteri del fronte i quali raccolgono le loro salme gloriose”
Adolfo Zamboni
La Brigata Catanzaro nel 1916 trascorse il maggior numero di giornate nelle trincee di prima
linea, rimanendovi per 7 mesi e 12 giorni, mentre stette a riposo soltanto 4 mesi e 18 giorni.
Carlo Salsa, tenente di complemento in fanteria nello
stesso periodo, per dimostrare la perizia dei militari calabresi nel suo
libro “Trincee” così scrive: “ Se una brigata si comporta bene non se la cava più… è sempre lei che deve rosicchiarsi gli ossi fuori ordinanza. Le brigate scalcinate invece le mandano in licenza nel Trentino”.
Il tenente Zamboni così parla dei suoi uomini:
“Piccoli, bruni, curvi sotto il peso del grave fardello, scesero alle stazioni delle retrovie e si incamminarono verso le colline carsiche gli umili fantaccini della remota Calabria, la forte terra delle montagne boscose e dai clivi fioriti dove pascolano a mille i placidi armenti. Chiamati lontano dalla Patria in armi, questi poveri figli di una regione abbandonata lasciarono le loro casette sperdute tra i monti, abbandonarono i campicelli e le famiglie quasi prive di risorse e vennero su nelle ricche contrade che il nemico mirava dall’ alto, bramoso di conquista e di strage. Percorsero tutta la penisola verdeggiante e sostarono nelle trincee scavate nella roccia e bagnate di sangue. Fieri e indomiti, cresciuti nella religione del dovere, i calabresi non conobbero la viltà… Alla patria in pericolo consacrarono tutta l’energia dei loro rudi cuori… Apparivano selvaggi ed erano pieni di affetti nobilissimi; sembravano diffidenti e aprivano tutto il loro animo a chi sapeva guadagnarsi il loro amore; all’ ingenuità e al candore quasi puerili univano il coraggio e la risolutezza dei forti; un piccolo servigio, una cortesia usata loro ve li rendeva fedeli fino ad affrontare per voi con indifferenza il pericolo”.
Il 1917 segnò una svolta: la rivoluzione comunista in Russia e la fine del regime zarista determinarono l’uscita del Paese dalla guerra, ma se l’Intesa perse un membro ne guadagnò un altro, perché gli Stati Uniti d’America
divennero suoi alleati. Inizialmente rifornivano via mare Gran Bretagna e Francia senza entrare in guerra, ma furono costrette dichiarare guerra alla Germania dopo
l’affondamento di proprie navi, ad opera della marina da guerra tedesca.
Il 1917 segnò un sconfitta per l’Italia presso Caporetto, quando gli
austro-tedeschi sfondarono le linee italiane occupando il Friuli e il Veneto.
Gli italiani, ormai stanchi e stressati dal comando esasperante e
disumano del generale Cadorna, pronto a punire con la fucilazione gli
insubordinati, abbandonarono al nemico la maggior parte
dell’artiglieria pesante. Ma il 24 ottobre, sotto il comando di
Armando Diaz riportarono la vittoria decisiva nella battaglia di Vittorio Veneto, a cui seguì l’armistizio con
l’Austria (3 novembre) e con la Germania (11 novembre).
Fu così che i maggiori imperi esistenti al tempo (tedesco; austro-
ungarico; ottomano e russo) cessarono di esistere dando vita a
diversi stati nazionali, che segnarono una nuova geografia
politica dell’Europa.
Il 141° Reggimento trascorse i mesi finali della guerra nelle retrovie del Piave, agli ordini del Comando supremo;
successivamente marciò alla volta di Mestre, nei giorni della vittoria. Infine a bordo della nave “Re Umberto” si imbarcò a Venezia il 15/12/1918 sbarcando due giorni dopo a Trieste, che era in festa: dopo tanti sacrifici avevano raggiunto la meta! Qui presidiò la città per più di un anno, ospite della caserma Oberdan fino al 21/06/1920, quando il cappellano
militare Can. Chelli, nella caserma ”Cernaia” di Torino, salutò l’“amata” bandiera baciata singolarmente dai fanti,
profondamente commossi.
Lo storico milanese Alessandro Gualtieri, un vero appassionato della grande guerra, nel 2007 scriveva che i reduci del
conflitto mondiale restavano in tredici: uno in Germania; tre in Gran Bretagna; due in U.S.A.; uno in Turchia; uno in Canada;
tre in Australia e due in Calabria, i cui nomi erano Delfino Borroni e Francesco Domenico Chiarello, morti nel 2008
all’età di 110 anni.
Delfino Borroni
Francesco Domenico Chiarello
Gli italiani,ormai stanchi e stressati dal comando esasperante e disumano del generale Cadorna, pronto a punire con la fucilazione gli insubordinati, abbandonarono al nemico la maggior parte dell’ artiglieria pesante. Ma il 24 ottobre, sotto il comando di Armando
Diaz riportarono la vittoria decisiva nella battaglia di Vittorio Veneto, a cui seguì l’armistizio con l’Austria (3 novembre) e con la
Germania (11 novembre).Fu così che i maggiori imperi esistenti al tempo (tedesco; austro-ungarico; ottomano e russo) cessarono di esistere dando vita a
diversi stati nazionali, che segnarono una nuova geografia politica dell’Europa.
Alla fine del conflitto S.A. R. il Duca d’Aosta sulla cima terza del San Michele pose una lapide con l’epigrafe
Su queste cimeItaliani e Ungheresi
Combattendo da prodi Si affratellarono nella morte
Lo stesso Duca per elogiare le gesta eroiche dei soldati calabresi che presero parte alla Grande guerra proferì queste parole:
“…ho sempre nel cuore questa magnifica legione di prodi che dalla terra di Calabria
trasse la tenacia e l’ animo pugnace”.
Il bilancio di coloro che persero la vita per la Patria comune fu tragico.
Si stima che siano caduti in guerra circa 650.000 soldati, di cui: 500.000 morti in combattimento; 50.000 per ferite e malattie;
100.000 morti in prigionia (dato rimasto a lungo sconosciuto agli storiografi
del primo conflitto mondiale).
Dagli elenchi regionali dell’Albo d’Oro si legge che i caduti in guerra in totale sono stati 530.000, con il contributo in termini di
vite umane dato maggiormente dalla Basilicata, dalla Sardegna e dalla Calabria.Dai dati a cura della sanità militare sono
stati 30.770 i mutilati, per lo più provenienti dalla Basilicata.
Il numero delle Medaglie d’Oro al Valore Militare assegnate alla Calabria è stato di
14.Per non dimenticare gli italiani di varie
regioni, differenti per cultura, censo, ma con la stessa uniforme che sacrificarono la
loro vita per la Patria sono stati innalzati dei monumenti in vari paesi o città con a fianco
dei cannoni appartenuti a quello che era stato ”uno dei più potenti eserciti del
mondo”.
Fine
Ricercare e meditare per non dimenticare…