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STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 20
II SEMESTRE
A.A. 2017-2018
J. Habermas, Sul concetto di
partecipazione politica (1958)
L’analisi si attiene alle regole della teoria critica che è
libera proprio perché «accetta gli ideali borghesi, siano
essi quelli ancora coltivati (seppure in senso distorto) dai
rappresentanti della borghesia, o quelli in cui occorre
riconoscere, a dispetto di ogni manipolazione, il
significato oggettivo delle istituzioni tecniche e
culturali.. Essa espone la lingua alla contraddizione tra
fede e realtà e ciò facendo riflette un fenomeno del
tempo».
J. Habermas, Sul concetto di
partecipazione politica (1958)La fede nella libertà politica e nell’influenza politica del cittadino
viene contrapposta alla realtà della situazione attuale. Non si può
avere più alcun dubbio sulla ristrettezza dello spazio in cui è stata
confinata la partecipazione politica del cittadino medio. Questa
partecipazione può concretizzarsi, una volta ogni due anni circa,
nel processo elettorale in parte preformato in parte manipolato
(oppure nella astensione elettorale). Nei libri destinati
all’educazione politica e persino in molti dibattiti delle scienze
politiche la «partecipazione» si condensa in un valore in sé,
mentre l’espressione del voto e l’interesse politico diventano un
feticcio. Questa reificazione rispecchia appunto una buona parte
della realtà deformata.
J. Habermas, Sul concetto di
partecipazione politica (1958)
D’altro lato, il senso obiettivo delle istituzioni esistenti
nel nostro paese è in contraddizione con lo sviluppo
concreto. Sul piano giuridico il popolo è ancora e
sempre sovrano mentre su quello politico continua a
disporre, nel parlamento, di una istituzione fornita di
tutti gli auspicabili crismi costituzionali. Ci si può
chiedere dunque se anche oggi un’autentica
partecipazione dei cittadini alla vita politica, seppure non
effettiva, non sia per lo meno possibile…
J. Habermas, Sul concetto di
partecipazione politica (1958)Occorre (…) stabilire fino a che punto una società riesca a
trasformare il dominio in autorità razionale e cioè a dare
equamente al lavoro ciò che spetta al lavoro e all’esperienza ciò
che spetta all’esperienza, nell’interesse della collettività e sotto
il suo controllo; e inoltre, fino a che punto essa riesca a
superare la separazione fra il potere politico e la riproduzione
apparentemente privata della vita. A parte il suo carattere molto
(e forse troppo) generale questa formulazione indica la via di
un possibile sviluppo storico sul quale noi crediamo oggi di
poter fondatamente misurare il valore della coscienza
politica…
J. Habermas, Storia e critica
dell’opinione pubblica (1961)
I fondamenti strutturali della «sfera pubblica
borghese»:
1) sistematica astrazione dalle disuguaglianze di
status
2) assenza di limiti al processo di
problematizzazione riflessiva
3) assoluta apertura verso l’esterno
J. Habermas, Storia e critica
dell’opinione pubblica (1961)
La «sfera pubblica borghese» come luogo di
una libera discussione razionale fondata
sulla sola autorità dell’argomento
migliore, una determinazione cooperativa
del bene comune, non distorta da alcun
interesse di parte
J. Habermas, Storia e critica
dell’opinione pubblica (1961)
La sfera pubblica borghese può essere concepita in un
primo momento come la sfera dei privati riuniti come
pubblico; costoro rivendicano subito contro lo stesso
potere pubblico la regolamentazione della sfera pubblica
da parte dell’autorità, per concordare con questa le
regole generali del commercio nella sfera – privatizzata
in linea di principio, ma pubblicamente rilevante – dello
scambio di merci e del lavoro sociale. Peculiare e
storicamente senza precedenti è il tramite di questo
confronto politico: la pubblica argomentazione razionale
J. Habermas, Storia e critica
dell’opinione pubblica (1961)(…) I borghesi sono privati; come tali non «dominano». Le loro
rivendicazioni contro il pubblico potere si indirizzano perciò non
contro la concentrazione del dominio che dovrebbe essere
«spartito»; ma piuttosto attaccano il principio del dominio vigente.
Il principi del controllo contrappostogli dal pubblico borghese, la
pubblicità appunto, mira a modificare il dominio stesso. La
rivendicazione di potere così come si viene delineando
nell’argomentare pubblico, quella rivendicazione che eo ipso
rinunci alla forma di una pretesa di dominio, se si realizzasse
dovrebbe portare a qualcosa di più che a una mera sostituzione
della base di legittimazione di una sovranità conservatesi in linea
di principio
J. Habermas, Storia e critica
dell’opinione pubblica (1961)
(…) Il processo con cui il pubblico di privati che
discutono una funzione critica si appropria della sfera
pubblica autoritariamente regolata e con cui questa viene
istituita come momento della critica al pubblico potere,
si compie con la ristrutturazione delle funzioni di quella
sfera pubblica letteraria già dotata di istituzioni quali il
pubblico e le relative piattaforme di discussione. Tramite
questa mediazione, tutto il contesto delle esperienze
dell’ambito privato riferito al pubblico penetra anche
nell’ambito di una sfera pubblica politica.
J. Habermas, Storia e critica
dell’opinione pubblica (1961)
(…) Con la nascita di una sfera del sociale, per la cui regolamentazione
l’opinione pubblica si batte contro il potere pubblico, il tema
dell’ambito pubblico moderno, paragonato a quello antico, si sposta dai
compiti propriamente politici di una cittadinanza che agisce
com’unitariamente (giurisdizione all’interno e autodeterminazione verso
l’esterno) ai compiti prevalentemente civili di una società che discute
pubblicamente (garanzia dello scambio di merci). La funzione politica
dell’elemento pubblico borghese consiste nel disciplinare la società
civile (civil society, société civile, in contrapposizione a res publica);
con le esperienze di una sfera privata intimizzata alle spalle, essa tiene
fronte all’autorità monarchica stabilita; in questo senso, sin dall’inizio,
essa ha carattere insieme privato e polemico.
J. Habermas, Storia e critica
dell’opinione pubblica (1961)(…) I criteri di universalità e astrattezza che contrassegnano la norma giuridica
dovevano avere peculiare evidenza per i privati che, nel processo di
comunicazione della dimensione pubblica letteraria, si accertano della loro
soggettività, derivata dalla sfera dell’intimità. Infatti, in quanto pubblico, essi
sono già sottoposti a quella legge non formulata che codifica la parità degli
uomini colti, legge la cui astratta universalità è sola a garantire che gli individui
sussulti in modo parimenti astratto sotto di essa come «puri e semplici uomini»
vengano liberati nella loro soggettività proprio per tale via. I clichè di
«eguaglianza» e «libertà», irrigiditi nelle formule della propaganda borghese
rivoluzionaria, conservano qui ancora il loro nesso vivente: il dibattito pubblico
del pubblico borghese si compie, in linea di massima, prescindendo da tutti i
ranghi sociali e politici precostituiti, secondo regole universali che garantiscono
un campo d’azione al dispiegamento letterario nella loro intimità, dal momento
che restano, in quanto tali, assolutamente esteriori agli individui;
J. Habermas, Storia e critica
dell’opinione pubblica (1961)(…) Contemporaneamente, ciò che in tali condizioni risulta dal pubblico
dibattito, richiede raziocinio; secondo tale idea, un’opinione pubblica
nata dalla forza dell’argomento migliore aspira a quella razionalità
moralisticamente pretenziosa che cerca di far coincidere giustezza e
giustizia. L’opinione pubblica deve corrispondere alla «natura della
cosa». Perciò le «leggi» che essa vorrebbe stabilire ora anche per la
sfera sociale, possono pretendere, oltre ai criteri formali di generalità e
astrattezza, anche quello materiale della razionalità. In questo senso i
fisiocratici spiegano che soltanto l’opinion publique conosce e rileva
l’ordre naturel perché il monarca illuminato lo possa porre a base del
suo agire nella forma di norme generali. Il potere deve essere portato per
questa via a una convergenza con la ragione.
J. Habermas, Storia e critica
dell’opinione pubblica (1961)
Come privato il borghese è due cose in una: proprietario
di beni e persone, e uomo fra gli uomini: bourgeois e
homme. Questa ambivalenza della sfera privata è anche
l’ambivalenza della sfera pubblica, a seconda cioè che i
privati si intendano tra loro nel dibattito letterario e cioè
da uomini che discutono sulle esperienze della loro
soggettività, o che si intendano fra loro nel dibattito
politico, su come regolare la loro sfera privata, cioè da
proprietari. I componenti di queste due specie di
pubblico non sempre coincidono perfettamente (…).
J. Habermas, Storia e critica
dell’opinione pubblica (1961)
La pubblicità manipolativa:
«La dimensione pubblica viene, per così dire, dispiegata
dall’alto per procurare a certe posizioni un’aura di good will.
Originariamente essa garantiva il nesso del pubblico dibattito
delle idee tanto con la fondazione legislativa del dominio
quanto con il controllo critico del suo esercizio. Ma ormai
essa rende possibile la specifica ambivalenza di un dominio
esercitato sul potere dell’opinione non-pubblica: essa serve
alla manipolazione del pubblico e insieme alla legittimazione
di fronte ad esso. La dimensione pubblica critica è
soppiantata da quella manipolativa».
J. Habermas, Conoscenza e interesse
(1965)Una scienza sociale critica si sforza «di controllare quando le
proposizioni teoriche formulino regolarità invarianti dell’agire
sociale in generale e quando invece rapporti di dipendenza
ideologicamente irrigiditi, ma in principio modificabili. Nella
misura in cui ciò accade, la critica dell’ideologia, come del resto
la psicanalisi, conta sul fatto che l’informazione sulle connessioni
normative mettano in moto un processo di riflessione nella
coscienza dell’interessato stesso. In tal modo il livello di
coscienza irriflessa, che fa pare delle condizioni iniziali di tale
leggi, può essere modificato. Un sapere nomologico criticamente
mediato può così tramite la riflessione se non togliere vigore alla
legge, almeno sospenderne l’applicazione».
J. Habermas, Conoscenza e interesse
(1965)
…Ciò che ci distingue dalla natura è l’unico
dato di fatto che possiamo conoscere per
sua natura: il linguaggio. L’emancipazione
è posta per noi già con la sua struttura. Con
la prima proposizione viene espressa
inequivocabilmente l’intenzione di un
consenso universale e non imposto.
J. Habermas, Conoscenza e interesse
(1965)
Certamente la comunicazione potrebbe dispiegarsi soltanto
in una società emancipata, che avesse realizzato la maturità
dei suoi membri fino a diventare il dialogo sottratto al
dominio di tutti con tutti, dal quale deriviamo pur sempre
tanto il modello di un’identità dell’io formata nella
reciprocità, quanto l’idea del vero accordo. In questo senso la
verità di una proposizione si fonda sull’anticipazione della
vita riuscita. L’apparenza ontologica di una teoria pura,
dietro cui scompaiono gli interessi guida della conoscenza,
rafforza la finzione che il dialogo socratico sia possibile
universalmente e in ogni momento…
J. Habermas, Conoscenza e interesse
(1965)La filosofia ha supposto che l’emancipazione posta con la
struttura del linguaggio sia non solo anticipata, ma già reale.
Proprio la teoria pura, che vorrebbe derivare tutto da se stessa,
diventa preda dell’esterno rimosso e diventa ideologica. Solo
quando la filosofia scopre nel corso dialettico della storia le tracce
della violenza, che deforma il dialogo continuamente tentato,
continuamente spingendolo fuori dai binari di una comunicazione
senza coazione, porta avanti il processo, di cui altrimenti legittima
la stasi: il progresso del genere umano verso l’emancipazione.
(…) L’unità di conoscenza e interesse si verifica in una
dialettica che ricostruisca l’elemento represso a partire dalle
tracce storiche del dialogo represso.
J. Habermas, Tecnica e scienza come
ideologia (1967)
Con «lavoro» o agire razionale rispetto allo
scopo, intendo o agire strumentale o scelta
razionale oppure una combinazione di entrambi.
L’agire strumentale è organizzato secondo regole
tecniche, che si basano su un sapere empirico.
Esse implicano in ogni caso prognosi
condizionali su eventi osservabili, fisici o sociali;
tali prognosi possono rivelarsi esatte o non vere.
J. Habermas, Tecnica e scienza come
ideologia (1967)Con agire comunicativo intendo una interazione mediata
simbolicamente. Essa è organizzata in base a norme vigenti in
modo vincolante, che definiscono aspettative reciproche di
comportamento e che devono essere comprese e riconosciute da
almeno due soggetti agenti. Le norme sociali sono rese effettive
tramite sanzioni; il loro senso si oggettiva in una comunicazione
nel linguaggio quotidiano. Mentre la validità di regole tecniche e
strategie dipende dalla validità di proposizioni empiricamente vere
o analiticamente esatte, la validità di norme sociali è basata solo
sull’intersoggettività dell’intendersi in base a intenzioni ed è
garantita dal riconoscimento generale di obbligazioni
STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 20
II SEMESTRE
A.A. 2017-2018
J. Habermas, Teoria dell’agire
comunicativo (1985)La teoria dell’agire comunicativo è intesa a mettere in luce un
potenziale razionale insito nella stessa prassi comunicativa
quotidiana. Con ciò essa spiana contemporaneamente la strada a
una scienza sociale dal procedere ricostruttivo, che identifica in
tutta la loro estensione i processi di razionalizzazione culturale e
sociale, ripercorrendoli anche oltre la soglia della società
moderne; allora non si avrà più bisogno di ricercare potenziali
normativi solo in una formazione specifica di un’epoca. L’obbligo
di stilizzare le singole espressioni prototipiche di una razionalità
comunicativa incarnata nelle istituzioni viene a cadere in favore di
un intervento empirico, che allenta la tensione del contrasto
astratto tra norma e realtà.
Austin, How to do things with words (Come far cose con le parole), 1962:
I livelli di descrizione dell’atto linguistico
Dire qualcosa equivale a compiere tre atti simultanei:
Locutivo: atto del dire qualcosa, equivale a pronunciare una certa frase con uncerto significato (in senso tradizionale). Comprende l’atto di emettere certisuoni (fonetico), l’atto di proferire vocaboli appartenenti a un certo lessicoe a una certa grammatica (fatico), l’atto di usare questi vocaboli con unsenso e un riferimento più o meno definiti.
Illocutivo: atto nel dire, modo in cui deve essere interpretato ciò che si dice;forza: funzione comunicativa convenzionale: la forza illocutoria èesplicitabile attraverso forme messe a disposizione da una lingua naturale.
Perlocutivo: atto col dire, ciò che otteniamo o riusciamo a fare con le parole(dimensione non convenzionale).
Austin, How to do things with words (Come far cose con le parole), 1962:
Enunciati performativi (performative utterances):
Tali enunciati hanno la forma di enunciati dichiarativi ma, quando sonoproferiti in circostanze appropriate, non riferiscono né descrivono qualcosa,bensì eseguono un atto. I verbi che, alla prima persona del presenteindicative attivo, possono essere usati per formare enunciate performativi,vengono chiamati verbi performativi: “io affermo”, “io ordino”, “ioauspico”, ecc.
Secondo Habermas, la parte performatva dell’atto linguistico ha la specificafunzione di instaurare una relazione intersoggettiva: chi afferma qualcosadi fronte ad altri, contrae un impegno nei loro confronti, ma al tempo stessosolleva una pretesa nei loro confronti: la pretesa che concordino con lui, ameno che non abbiano adeguati motivi per dissentire. Affinchél’interazione discorsiva sia possibile, I partecipanti ad essa devono potersiintendere nel duplice senso del termine: comprendersi e raggiungere unaccordo razionale.
Habermas, Teoria dell’agire comunicativo:
La tesi di Habermas è che gli atti linguistici traggonola loro forza illocutiva, capace di muovereall’azione, dall’intesa sul riconoscimento diquattro pretese di validità razionalmentegiustificabili:
- Pretesa di comprensibilità;
- Pretesa di verità;
- Pretesa di veridicità/sincerità;
- Pretesa di giustezza/correttezza normativa
Habermas, Teoria dell’agire comunicativo (1985):
La situazione linguistica ideale:
Le pretese di validità della comunicazione implicanol’anticipazione di una “situazione linguistica ideale” che ogniparlante deve presupporre se vuole dare un senso alle proprieaffermazioni. Chiunque entri in una discussione con la seriaintenzione di convincersi di qualcosa nel dialogo con gli altri,deve infatti supporre che gli interessati facciano dipendere illoro consenso solo dalla forza cogente del miglior argomento.Ciò implica condizioni altamente improbabili, che però sonopresupposte controfattualmente dai parlanti: la pubblicità el’inclusione, la partecipazione paritaria, l’immunizzazionecontro costrizioni esterne o interne e l’orientamento all’intesadel partecipanti.
Habermas, Teoria dell’agire comunicativo (1985):
La svolta sistemica:
Dalla tradizionale nozione onnicomprensiva di “società” si passaalla coppia categoriale sistema/mondo vitale. Con quest’ultimotermine Habermas intende ambiti di azione integrati in terminidi agire comunicativo dunque governate dall’interesse perl’intesa reciproca. Essi si distinguono da nessi sitemici diazione come il Sistema economico e l’apparato amministrativostatuale, che sono invece integrati sulla base di media nonlinguistici (denaro e potere).
In questa prospettiva, il conflitto non è più tra classi ma tra ilsistema, teatro dell’agre razionale rispetto allo scopo, e i varimondi della vita, costituiti da valori, quotidianità, affetti.
J. Habermas, Fatti e norme (1992)
Il principio del discorso (principio D):
Sono valide solo le norme di azione che
tutti i potenziali interessati potrebbero
approvare partecipando a discorsi razionali
J. Habermas, Fatti e norme (1992)
Il principio del discorso (principio D):
Livello morale: principio di universalizzazione (o
principio U);
Livello giuridico: principio della democrazia;
J. Habermas, Fatti e norme (1992)
Principio della democrazia:
Possono pretendere validità legittima solo le
leggi approvbili da tutti i consociati in un
processo di statuizione a sua volta
giuridicamente statuito.
J. Habermas, Fatti e norme (1992)
Punto di vista morale:
E’ universalistico e fondato sul principio
dell’imparziale considerazione degli interessi di
tutti i coinvolti;
Punto di vista etico:
E’ particolaristico e fa appello a ciò che si ritiene
essere il bene di una certa comunità, ciò che essa
vuole essere alla luce dell’autocomprensione
autentica che ha di sé.
J. Habermas, Fatti e norme (1992)
Il diritto è il medium attraverso il
quale il potere comunicativo dei
cittadini si converte in potere
amministrativo
J. Habermas, Fatti e norme (1992)
STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 21
II SEMESTRE
A.A. 2017-2018
J. Habermas, L’idea kantiana di Pace perpetua
duecento anni dopo (1995)
Il diritto cosmopolitico deve essere istituzionalizzato in
maniera da vincolare i singoli governi. Le sanzioni della
comunità internazionale devono essere in grado di
costringere i suoi membri a rispettare – quanto meno nel
comportamento esterno – le leggi. Solo così un sistema
instabile di stati sovrani, che hanno finora riaffermato la
propria indipendenza sulla base di reciproche minacce, potrà
trasformarsi in una confederazione (Föderation) dotata di
istituzioni comuni che si accollano funzioni statali, vale a
dire istituzioni che regolano giuridicamente le relazione tra
gli stati membri e controllano l’osservanza di queste regole.
J. Habermas, La costellazione post-nazionale e il
futuro della democrazia (1995)
Ogni organizzazione mondiale si differenzia dalle comunità statali per il
requisito della inclusione completa (cioè per il fatto di non poter escludere
nessuno, non esistendo confini tra un “dentro” e un “fuori”). Una comunità
politica – per lo meno se vuole intendersi come democratica – deve sempre
poter distinguere gli appartenenti dai non appartenenti.
L’autodeterminazione collettiva designa, come concetto autoreferenziale, il
“luogo logico” che viene occupato da cittadini democraticamente riuniti
quali membri di una determinata comunità politica. Anche quando questa
comunità si costituisce secondo i principi universalistici dello stato
democratico costituzionale, essa forma pur sempre una identità collettiva
che interpreta e implementa tali principi alla luce della sua storia e del
contesto della sua forma-di-vita, Questa autocomprensione etico-politica –
propria dei cittadini di qualunque comunità democratica – è ciò che manca
alla comunità inclusoria dei cittadini cosmopolitici…
J. Habermas, La costellazione post-nazionale e il
futuro della democrazia (1995)
Quando nondimeno questi cittadini cosmopolitici si organizzano a livello globale,
procurandosi persino una rappresentanza eletta democraticamente, essi non possono
più ricavare la loro coesione normativa da una propria particolare autocomprensione
etico-politica che, come tale, verrebbe a differenziarsi da altre tradizioni e
orientamenti di valori. A questo livello essi possono derivare la loro coesione
normativa soltanto da una autocomprensione giuridico-morale. Il modello
normativo adeguato a una comunità che non esclude più nessuno è rappresentato
dall’universo delle persone morali (il kantiano “regno dei fini”). Non a caso nella
comunità cosmopolitica sono soltanto i “diritti dell’uomo” – ossia norme giuridiche
dal contenuto esclusivamente morale – a formare il quadro normativo. (…) Però
(…) neppure un consenso universale o mondiale sui diritti dell’uomo potrebbe
rappresentare un equivalente in senso stretto della solidarietà civica nata nell’ambito
nazionale. Mentre la solidarietà civica si radica in una identità collettiva volta a
volta particolare, la solidarietà cosmopolitica deve fondarsi soltanto
sull’universalismo morale rappresentato dai diritti umani
J. Habermas, La costellazione post-nazionale e il
futuro della democrazia (1995)La solidarietà dei “cittadini del mondo” – se la paragoniamo alla solidarietà attiva dei
“cittadini dello stato”, che sono giunti persino ad accettare le politiche redistributive
dello Stato sociale – conserva sempre un carattere semplicemente reattivo- Essa
garantisce infatti la coesione cosmopolitica soprattutto a partire da sentimenti di
indignazione nei confronti delle infrazioni giuridiche (siano esse repressioni statali o
violazioni dei diritti umani). Essendo organizzata nello spazio e nel tempo, una
comunità giuridica di cittadini cosmopolitici non potrà mai – per quanto inclusoria –
essere scambiata con quella comunità universale delle persone morali che non è né
capace né bisognosa di organizzazione. Per converso, tuttavia, essa non potrà nemmeno
giungere a quel grado relativamente saldo di integrazione che caratterizza una comunità
statale con concreta identità collettiva. (…) Una comunità cosmopolitica di cittadini del
mondo non offre base sufficiente a una politica interna mondiale. La
istituzionalizzazione procedurale cui tocca il compito di armonizzare globalmente gli
interessi, di generalizzarli, di costruire con intelligenza interessi comuni, e così via, non
è realizzabile nel quadro strutturale di uno stato mondiale. I progetti di una “democrazia
cosmopolitica” devono orientarsi a un modello diverso…
J. Habermas, A short reply (1999)
Nell’attuale scenario è più realistico tentare «di rafforzare le
deboli istituzioni della comunità mondiale e di perseguire
politiche dei diritti umani, spingendo per una ulteriore e più
efficace istituzionalizzazione di un diritto cosmopolitico che
consenta l’intervento negli “affari interni” dello Stato-nazione,
protegga i suoi cittadini contro le violazioni dei diritti umani da
parte del loro stesso governo e persegua i funzionari che
commettono crimini nell’esercizio delle loro funzioni o nel
perseguimento dei loro affari. L’istituzionalizzazione del diritto
cosmopolitico non richiede l’istituzione di un governo mondiale
basato sul monopolio degli strumenti di violenza legittima da
parte di uno Stato globale».
J. Habermas, Legittimazione attraverso i diritti
umani (1997)
I diritti umani hanno il volto ancipite di Giano, simultaneamente
rivolto alla morale e al diritto. A prescindere dal loro contenuto
morale essi hanno la forma di diritti giuridici. Per un verso, non
diversamente dalle norme morali, essi si riferiscono a tutto ciò che ha
“volto umano”; per l’altro, essendo norme giuridiche, essi tutelano le
singole persone solo nella misura in cui appartengano a una
determinata comunità giuridica (di solito i cittadini dello stato-
nazione). Nasce così una tensione caratteristica tra il senso
universale dei diritti umani e le condizioni universali della loro
realizzazione. Essi devono (sollen) poter valere, illimitatamente, per
tutte le persone – sennonché: come è possibile realizzare ciò?
J. Habermas, Il concetto di dignità umana e
l’utopia realistica dei diritti umani (1997)
I diritti dell’uomo costituiscono un’utopia
realistica, in quanto non inducono a credere più
che tanto alle immagini di una felicità collettiva
dipinte dalle utopie sociali, ma ancorano il
traguardo ideale di una società giusta nelle
istituzioni degli Stati costituzionali stessi. Con
questa eccellente idea della giustizia una tensione
problematica s’infiltra per il vero nella realtà
politica e sociale.
T. Pogge, Cosmopolitismo e sovranità(1992)
Gli assunti fondamentali del cosmopolitismo morale:
In primo luogo, l’individualismo: l’interesse finale risiede negli esseri
umani, o persone, piuttosto che, ad esempio, nelle linee familiari, tribù,
comunità etniche, culturali, religiose, nazioni o Stati. Queste ultime
unità possono essere oggetto di interesse solo indirettamente, in virtù dei
loro singoli membri o cittadini. In secondo luogo, l’universalità: lo
status di unità ultima di attenzione si attribuisce egualmente a ogni
essere umano vivente, non soltanto ad alcuni sottoinsiemi, come gli
uomini, gli aristocratici, gli ariani, i bianchi o i musulmani. In terzo
luogo, la generalità: questo status speciale ha forza globale. Le persone
sono unità ultime di attenzione per tutti, non solo per i concittadini, i
correligionari o simili.
S. Benhabib, Another Cosmopolitanism (2006)
Le norme di giustizia cosmopolitiche (…) quali che siano le
circostanze della loro origine giuridica, vincolano gli individui in
quanto persone morali e giuridiche di una società civile mondiale.
Anche se le norme cosmopolitiche derivano da accordi simili a
trattati, quale può essere considerata la Carta dell’Onu per gli Stati
firmatari, la loro peculiarità è che dotano di diritti e titoli gli
individui, non gli Stati e i loro rappresentanti. Questo è il carattere
distintivo dei molti accordi sui diritti umani firmati dopo la seconda
guerra mondiale. Essi indicano un passaggio definitivo da un
modello di diritto internazionale basato su trattati tra gli Stati a un
diritto cosmopolitico inteso come diritto pubblico internazionale che
vincola e sottomette il volere degli Stati sovrani.
S. Benhabib, Another Cosmopolitanism (2006)
Le norme di giustizia cosmopolitiche (…) quali che siano le
circostanze della loro origine giuridica, vincolano gli individui in
quanto persone morali e giuridiche di una società civile mondiale.
Anche se le norme cosmopolitiche derivano da accordi simili a
trattati, quale può essere considerata la Carta dell’Onu per gli Stati
firmatari, la loro peculiarità è che dotano di diritti e titoli gli
individui, non gli Stati e i loro rappresentanti. Questo è il carattere
distintivo dei molti accordi sui diritti umani firmati dopo la seconda
guerra mondiale. Essi indicano un passaggio definitivo da un
modello di diritto internazionale basato su trattati tra gli Stati a un
diritto cosmopolitico inteso come diritto pubblico internazionale che
vincola e sottomette il volere degli Stati sovrani.
STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 22
II SEMESTRE
A.A. 2015-2016
Lo Strutturalismo
E’ un insieme di posizioni teoriche e
epistemologiche, sorto originariamente in ambito
linguistico (Saussure), sviluppatosi poi in campo
antropologico (Levi-Strauss), per poi
caratterizzare la psicoanalisi (Lacan), la filosofia
(Althusser), la critica letteraria (Barthes),
divenendo, di fatto, la «scienza degli insiemi
umani»
Lo Strutturalismo
Gli elementi caratterizzanti:
1) L’antisostanzialismo:
Lo strutturalismo afferma che la realtà è un
sistema di relazioni i cui termini componenti non
esistono di per se stessi ma solo in connessione
fra di loro. Da ciò la tesi del primato della
relazione sull’essere e l’importanza strategica
attribuita alla nozione di struttura;
Lo Strutturalismo
Gli elementi caratterizzanti:
2) L’anti-umanismo:Gli strutturalisti difendono il primato della struttura sull’uomo,
sostenendo che l’individuo non è il libero e consapevole artefice di se
medesimo, ma il risultato di strutture impersonali (o di “combinatorie
anonime”) che agiscono per lo più a livello inconscio, determinandone
rigidamente la condotta. Da ciò la teoria della “dissoluzione” dell’uomo
(Levi-Strauss) o della “morte dell’uomo” (Foucault) per opera della
struttura, prospettata come una sorta di macchina originaria che mette in
opera il soggetto (Lacan), ovvero il convincimento che non è possibile
conoscere qualcosa sugli uomini se non all’assoluta condizione di
ridurre in polvere il mito filosofico (teorico) dell’uomo”(Althusser).
Lo Strutturalismo
Gli elementi caratterizzanti:
3) L’anti-storicismo:Contro lo storicismo lo strutturalismo dichiara che la storia è un insieme
discontinuo di processi eterogenei governati da un sistema impersonale e a-
centrico di strutture, nei confronti delle quali l’uomo è sempre il
“costituito” e mai il “costituente”. Parallelamente, contro la considerazione
longitudinale delle cose (la realtà come divenire e progresso), lo
strutturalismo difende il primato di una considerazione trasversale (la realtà
come insieme relativamente costante o uniforme di relazioni). Da ciò la
tendenza a privilegiare, nello studio dei sistemi, il punto di vista sincronico
su quello diacronico e la propensione a considerare le vicende storiche
come qualcosa di superficiale e di secondario rispetto alla realtà nascosta e
primaria delle strutture.
Lo Strutturalismo
Gli elementi caratterizzanti:
4) L’anti-soggettivismo:
Lo strutturalismo sostiene che fare scienza
significa procedere al di là dell’empirico e del
vissuto, per porsi dal punto di vista assolutamente
oggettivo del sapere strutturale. Da ciò il progetto
di studiare l’uomo “dal di fuori” (Levi-Strauss) e
il ripudio dei dati immediati della coscienza come
via di accesso alla verità.
Lo Strutturalismo
Gli elementi caratterizzanti:
5) La struttura come sistema di trasformazioni
Le strutture non sono statiche, ma dotate di un certo
movimento prodotto dallo spostarsi di uno o più termini
da una collocazione all’altra. Ciò genera una
riorganizzazione della struttura e la possibilità di
ottenerla è data dal fatto che in ogni sistema di relazioni
strutturali c’è un’«articolazione senza oggetto», una
«casella vuota».
Lo Strutturalismo
Gli esiti: il decentramento del soggetto:
In una struttura non esistono ‘soggetti’, cioè elementi dotati di caratteri
sostanziali, unici e dati una volta per tutte, ma ‘posizioni’, cioè posti
definiti in maniera differenziale rispetto ad altri presenti nello stesso spazio.
L’individualità non è un proprium, ma una funzione che dipende dal posto
occupato in una serie e dalla natura della serie stessa. Si potrebbe parlare,
con Deleuze, di “individuazione”, cioè di attribuzione del carattere di
individualità o soggettività: “i posti in uno spazio puramente strutturale
sono primi in relazione alle cose e agli esseri reali che vengono a occuparli,
e primi anche in relazione ai ruoli e agli eventi sempre un po’ immaginari
che appaiono necessariamente quando essi sono occupati”.
Lo Strutturalismo
Gli esiti: il decentramento del senso
Lo strutturalismo fornisce a varie discipline una nuova metodologia
perché pone il principio che “il senso risulta sempre dalla
combinazione di elementi che non sono di per sé significanti” (G.
Deleuze). Il senso è sempre un effetto, è il risultato della
combinatoria dei posti in una struttura. Non bisogna quindi cercare
un senso nascosto, di origine teologica o antropologica, ma applicare
“un nuovo materialismo”, “un nuovo ateismo” e “un nuovo
antiumanesimo” (Deleuze) individuando le posizioni e le relazioni
che rendono possibili il soggetto e il senso.
Michel Foucault, L’archeologia del
sapere
Potrei definire la mia ricerca come «un’analisi di fatti
culturali che caratterizzano la nostra cultura e, in tal senso, si
tratterebbe di qualcosa come una etnologia della cultura a cui
apparteniamo. Infatti, cerco di situarmi all’esterno della
cultura a cui apparteniamo, di analizzarne le condizioni
formali, per farne, in una certa misura, la critica, non però
nel senso di ridurne i valori, ma per vedere come si sia potuta
effettivamente svolgere. Inoltre, analizzando le condizioni
stesse della nostra razionalità, metto in causa il nostro
linguaggio, il mio linguaggio, di cui analizzo come sia potuto
sorgere».
Michel Foucault, L’archeologia del
sapereQuesta prospettiva si trova davanti «tutto un campo d’indagine.
Un campo sterminato, ma definibile: è costituito infatti
dall’insieme di tutti gli enunciati effettivi (sia parlati che scritti),
nella loro dispersione di avvenimenti e nell’istanza propria a
ciascuno di loro. Prima di occuparsi, con piena certezza, di una
scienza, o di romanzi, o di discorsi politici, o dell’opera di un
autore oppure di un libro, il materiale che si deve trattare nella sua
originaria neutralità è costituito da tutta una folla di avvenimenti
nello spazio del discorso in generale. Si delinea in tal modo il
progetto di una descrizione pura degli avvenimenti discorsivi
come orizzonte per la ricerca delle unità che vi si formano».
Michel Foucault, L’archeologia del
sapere
Compito dell’analisi dei discorsi è quello di considerare
questi ultimi come «delle pratiche che formano
sistematicamente gli oggetti di cui parlano.
Indubbiamente i discorsi sono fatti di segni, ma fanno
molto di più che utilizzare questio segni per designare
delle cose. E’ questo di più che li rende irriducibili alla
langue e alla parole. E’ questo di più che bisogna
mettere in risalto e bisogno descrivere…» (p. 67).
Michel Foucault, L’archeologia del
sapere
Il «discorso» può essere definito: insieme degli
enunciati che appartengono a uno stesso sistema
di formazione; in questo modo potrò parlar di
discorso clinico, di discorso economico, di
discorso della storia naturale, di discorso
psichiatrico…
Le «regole» del discorso «definiscono» «il
regime degli oggetti»
Michel Foucault, L’archeologia del
sapere
L’archeologia, mostra che le le regole di
formazione di un discorso «si collocano non nella
“mentalità” e nella coscienza degli individui, ma
nel discorso stesso, conseguentemente, e secondo
una specie di anonimato uniforme, si impongono
a tutti gli individui che incominciano a parlare in
quel campo discorsivo» (p. 83).
Michel Foucault, L’ordine del discorso
Il soggetto è una figura del
discorso
Michel Foucault, L’archeologia del
sapereLa determinazione delle scelte teoriche realmente effettuate dipende anche
da un’altra istanza. Questa istanza si caratterizza anzitutto per mezzo della
funzione che deve esercitare il discorso studiato in un campo di pratiche
non discorsive. (…) Questa istanza comporta anche il regime e i processi di
appropriazione del discorso: infatti nella nostra società (e indubbiamente in
molte altre) la proprietà del discorso – intesa sia come diritto a parlare che
come competenza a capire; lecito ed immediato accesso al corpus di
enunciati già formulati e infine capacità ad investire questo discorso in
decisioni, istituzioni o pratiche – è praticamente riservata (e a volte anche
in modo regolamentare) a un determinato gruppo di individui… Infine
questa istanza si caratterizza mediante le possibili posizioni del desiderio in
rapporto al discorso: questo può essere infatti luogo di messa in scena
fantasmatica, elemento di simbolizzazione, forma del divieto, strumento di
soddisfazione derivata…
Michel Foucault, L’archeologia del
sapere
In ogni caso l’analisi di questa istanza deve mostrare
che né il rapporto del discorso col desiderio, né i
processi della sua appropriazione, né il suo ruolo tra
le pratiche non discorsive sono estrinseci alla sua
unità, alla sua caratterizzazione e alle leggi della sua
formazione. Non sono elementi perturbatori che
sovrapponendosi alla sua forma pura, neutra,
intemporale e silenziosa, la soffochino e facciano
parlare in sua vece un discorso travestito, ma sono
anzi elementi formatori.
Michel Foucault, La volontà di sapere
La genealogia del potere:
Con il termine potere mi sembra che si debba intendere
innanzitutto la molteplicità dei rapporti di forza immanenti al
campo in cui si esercitano e costitutivi della loro
organizzazione; il gioco che attraverso lotte e sconti
incessanti li trasforma, li rafforza, li inverte; gli appoggi che
questi rapporti di forza trovano gli uni negli altri, in modo da
formare una catena o un sistema, o, al contrario, le
differenze, le contraddizioni che li isolano gli uni dagli altri.
Michel Foucault, La volontà di sapere
La genealogia del potere:
In ogni punto del corpo sociale, tra un uomo e una
donna, nella famiglia, tra maestro ed allievo, tra colui
che sa e colui che non sa, passano delle relazioni di
potere che non sono la proiezione pura e semplice del
grande potere sovrano sopra gli individui; esse sono
piuttosto il terreno mobile e concreto su cui quello si
ancora, le condizioni necessarie affinché possa
funzionare.
Michel Foucault, La volontà di sapere
Il potere è ovunque «non perché avrebbe il
privilegio di raggruppare tutto sotto la sua
invincibile unità, ma perché si produce in ogni
istante, in ogni punto o piuttosto in ogni relazione
fra un punto ed un altro. Il potere è dappertutto;
non perché inglobi tutto ma perché viene da ogni
dove».
Michel Foucault, La volontà di sapereNon voglio dire che lo Stato non sia importante; quel che voglio dire è
che i rapporti di potere e di conseguenza l’analisi che se ne deve fare
deve andare al di là del quadro dello Stato. Deve farlo in due sensi:
innanzitutto perché lo Stato, anche colla sua onnipotenza, anche con i
suoi apparati, è ben lungi dal ricoprire tutto il campo reale dei rapporti
di potere; e poi perché lo Stato non può funzionare che sulla base di
relazioni di potere preesistenti. Lo Stato è sovrastrutturale in rapporto a
tutta una serie di reti di potere che passano attraverso i corpi, la
sessualità, la famiglia, gli atteggiamenti, i saperi, le tecniche, ecc. (…)
Questo metapotere con funzioni di interdizione non può realmente aver
presa e non può reggersi che nella misura in cui si radica in tutta una
serie di rapporti di potere che sono molteplici, indefiniti, e che sono la
base necessaria di queste grandi forme di potere negativo.
Michel Foucault, Sorvegliare e punire
La microfisica del potere:
L’ambito argomentativo dell’analisi del potere è costituito allora dalle
relazioni d’azione che «non sono univoche, ma definiscono
innumerevoli punti di scontro, focolai di instabilità di cui ciascuno
comporta rischi di conflitto, di lotte e di inversioni, almeno transitorie,
dei rapporti di forza. Il rovesciamento di questi “micropoteri” non
obbedisce dunque alla legge del tutto o niente, né è conseguito una volta
per tutte da un nuovo controllo degli apparati o sa un nuovo
funzionamento o da una distruzione delle istituzioni; in cambio, nessuno
dei suoi episodi localizzati può inscriversi nella storia, se non attraverso
gli effetti che induce su tutta le rete in cui è preso».
Michel Foucault, La volontà di sapere
L’Occidente ha conosciuto a partire dall’età classica una
trasformazione molto profonda di questi meccanismi di
potere. Il «prelievo» tende a non esserne più la forma
principale, ma solo un elemento fra gli altri che hanno
funzioni di incitazione, di rafforzamento, di controllo, di
sorveglianza, di maggiorazione e di organizzazione delle
forze che sottomette; un potere destinato a produrre delle
forze, a farle crescere e ad ordinarle piuttosto che a
bloccarle, a piegarle o a distruggerle
Michel Foucault, La volontà di sapere
Concretamente, questo potere sulla vita si è sviluppato in due
forme principali a partire dal XVII secolo; esse non sono
antitetiche, costituiscono piuttosto due poli di sviluppo legati da
tutto un fascio intermedio di relazioni. Uno dei poli, il primo
sembra ad essersi formato, è stato centrato sul corpo in quanto
macchina: il suo dressage, il potenziamento delle sue attitudini,
l’estorsione delle sue forze, la crescita parallela della sua utilità e
della sua docilità, la sua integrazione a sistemi di controllo efficaci
ed economici, tutto ciò è stato assicurato da meccanismi di potere
che caratterizzano le discipline: anatomo-politica del corpo
umano.
Michel Foucault, La volontà di sapere
Il secondo, che si è formato un po’ più tardi, verso la
metà del XVIII secolo, è centrato sul corpo-specie, sul
corpo attraversato dalla meccanica del vivente e che
serve da supporto ai processi biologici: la proliferazione,
la nascita e la mortalità, il livello di salute, la durata di
vita, la longevità con tutte le condizioni che possono
farla variare; la loro assunzione si opera attraverso tutta
una serie di interventi e di controlli regolatori: una bio-
politica della popolazione.
Michel Foucault, La volontà di sapere
«Non c’è (…), rispetto al potere, un luogo del grande Rifiuto (…) ma
esistono resistenze, e di svariati tipi: possibili, necessarie, improbabili,
spontanee, selvagge, solitarie, concertate, striscianti, violente,
irriducibili, pronte al compromesso, interessate o sacrificali; per
definizione non possono esistere che nel campo strategico delle
relazioni di potere. (…) Come la trama delle relazioni di potere finisce
per formare uno spesso tessuto che attraversa gli apparati e le istituzioni
senza localizzarsi esattamente in essi, così la dispersione dei punti di
resistenza attraversa le stratificazioni sociali e le unità individuali. Ed è
probabilmente la codificazione strategica di quei punti di resistenza che
rende possibile una rivoluzione, un po’ come lo Stato riposa
sull’integrazione istituzionale dei rapporti di potere».
Michel Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione (1977-78)
« Con la parola «governamentalità» intendo tre cose: primo, l’insieme di
istituzioni, procedure, analisi e riflessioni, calcoli e tattiche che permettono
di esercitare questa forma specifica e assai complessa di potere, che ha
nella popolazione il bersaglio principale, nell’economia politica la forma
privilegiata di sapere, e nei dispositivi di sicurezza lo strumento tecnico
essenziale. Secondo, (…) la tendenza, la linea di forza che, in tutto
l’Occidente e da lungo tempo, continua ad affermare la preminenza di
questo tipo di potere che chiamiamo governo su tutti gli altri – sovranità,
disciplina –, col conseguente sviluppo, da un lato di una serie di apparati
specifici di governo, e di una serie di saperi. Infine, per governamentalità
bisognerebbe intendere il processo, o piuttosto il risultato del processo,
mediante il quale lo stato di giustizia nel Medioevo, divenuto stato
amministrativo nel corso del XV e XVI secolo, si è trovato gradualmente
governamentalizzato.”».
STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO
Docente Prof. Scuccimarra
Lezione n. 23
II SEMESTRE
A.A. 2017-2018
Modelli di democrazia nel dibattito contemporaneo
Il modello «aggregativo»:
«E’ il principale modello liberale e considera la politica
come l’istituirsi di un compromesso tra diverse forze che
competono nella società. Gli individui sono ritratti come
esseri razionali, tesi alla massimizzazione dei loro
interessi, che agiscono nel mondo politico in un modo
fondamentalmente strumentale. Non è altro che l’idea
del mercato applicata alla politica» (C. Mouffe)
Modelli di democrazia nel dibattito contemporaneo
Modello «consensualistico»:
Si fonda sulla convinzione «che al di là delle loro estrinseche preferenze
personali, tutti i cittadini siano potenzialmente in grado di comprendere che
cos’è bene per sé e per gli altri; che, in determinate circostanze, attraverso i
mezzi del ragionamento pubblico, della discussione e dell’argomentazione
razionale essi siano in grado di raggiungere un fondato accordo su valori o
interessi comuni, in grado di colmare o quantomeno ridurre la distanza esistente
tra i loro originari orientamenti preferenziali; infine, che attraverso una pratica
di questo tipo esca nel complesso rafforzato anche lo spirito civico dei
partecipanti e la loro generale fiducia nelle «risorse della convivenza
democratica»» (D. Zolo)
Modelli di democrazia nel dibattito contemporaneo
John Rawls, A Theory of Justice, 1971:
- “Original Position” e “Veil of Ignorance”;
- I principi di giustizia:
Primo principio: ogni persona ha un eguale diritto al più ampio sistema totale di
eguali libertà fondamentali compatibilmente con un simile sistema di libertà per
tutti.
Secondo principio: le ineguaglianze economiche e sociali devono essere: a) per
il più grande beneficio dei meno avvantaggiati, compatibilmente con il
principio di giusto risparmio, e b) collegate a cariche e posizioni aperte a tutti in
condizioni di equa eguaglianza di opportunità.
Modelli di democrazia nel dibattito contemporaneo
John Rawls, Political Liberalism, 1993:
- Political, not metaphysical;
- Overlapping consensus (Consenso per intersezione);
- Public reason:
E’ pubblica in tre sensi: «come ragione dei cittadini in quanto tali è ragione del
pubblico; è soggetta al bene pubblico e alla giustizia fondamentale; è pubblica
nella natura e nel contenuto, che sono dati dagli ideali e principi espressi dalla
concezione che la società ha della giustizia politica, e viene pubblicamente
gestita su questa base».
Modelli di democrazia nel dibattito contemporaneo
Juergen Habermas, Fatti e norme, 1992:
Il fondamento razionale del processo democratico va individuato
non nei diritti universali dell’uomo, o nella sostanza etica d’una
comunità particolare, bensì in quelle regole di discorso e forme
argomentative che derivano il loro contenuto normativo dalla base
di validità dell’agire orientato all’intesa, dunque – in ultima
istanza – dalla struttura della comunicazione linguistica e
dall’ordinamento insostituibile di una socializzazione
comunicativa.
Modelli di democrazia nel dibattito contemporaneo
Juergen Habermas, Fatti e norme, 1992:
La concezione deliberativa della democrazia «punta sull’intersoggettività di
grado superiore caratterizzante i processi d’intesa che si compiono nelle
procedure democratiche oppure nella rete comunicativa delle sfere pubbliche
politiche. All’interno e all’esterno del complesso parlamentare – e dei suoi
corpi che sono programmati per deliberare – queste comunicazioni senza
soggetto formano arene in cui può prendere piede una formazione più o meno
razionale dell’opinione e della volontà circa materie rilevanti per l’intera società
e bisognose di disciplina. Il flusso di comunicazione che s’instaura tra pubblico
formarsi dell’opinione, decisioni elettorali istituzionalizzate e deliberazioni
legislative serve a garantire che la generazione d’influsso pubblicistico
[publizistisch] e di potere comunicativo si trasformi – attraverso la funzione
legislativa – in un potere amministrativamente esercitabile».
Modelli di democrazia nel dibattito contemporaneo
James Fishkin, The Voice of the People, 1995:
«Una grossa parte del problema di come riformare la democrazia
consiste nel come promuovere una deliberazione di massa – come
far partecipare la gente in condizioni in cui possa dedicarsi
seriamente e pienamente a riflettere sulla cosa pubblica. (…) In
certe condizioni, talvolta, una deliberazione di massa è possibile.
Quando ciò accade, la deliberazione è qualitativamente diversa da
gran parte delle deliberazioni provenienti dalle élite».
Modelli di democrazia nel dibattito contemporaneo
Il modello «conflittualistico»:
Alla concezione consensualistica manca «la percezione della
varietà, del particolarismo e della reciproca incompatibilità delle
aspettative sociali entro società non elementari».
La politica «coincide esattamente con la sfera agonistica dei
dissensi, dei conflitti e degli antagonismi che non possono essere
appianati per via argomentativa, e tanto meno alla stregua di
criteri universali di imparzialità o di giustizia distributiva» (D.
Zolo).
Modelli di democrazia nel dibattito contemporaneo
Chantal Mouffe, Sul politico, 2007:
La mia obiezione fondamentale è che rappresentare lo scopo della politica democratica in termini
di consenso e riconciliazione è non solo concettualmente errato, ma anche politicamente rischioso.
L’aspirazione a un mondo in cui la demarcazione noi/loro sia superata si basa su premesse false e
coloro che condividono questo modo di vedere rischiano di perdere di vista il vero compito di una
politica democratica. (…) Io sostengo che la fede nella possibilità di un consenso razionale
universale ha posto il pensiero democratico su una strada sbagliata. Il compito dei teorici e dei
politici democratici non dovrebbe essere quello di cercare di progettare istituzioni capaci di
conciliare, attraverso procedure che si vorrebbero “imparziali”, tutti gli interessi e i valori in
conflitto fra loro, ma quello di prospettare la creazione di una sfera pubblica di contesa, fortemente
“agonistica”, nella quale possano confrontarsi differenti progetti politici che aspirano all’egemonia.
Questa, nel mio modo di vedere, è la condizione sine qua non per un effettivo esercizio della
democrazia Si fa un gran parlare oggi di “dialogo” e di “deliberazione”, ma qual è il significato di
questo genere di termini in ambito politico, se non si dà alcuna scelta reale e se i partecipanti alla
discussione non possono decidere tra alternative chiaramente differenziate?
Modelli di democrazia nel dibattito contemporaneo
E. Balibar, L’Europa, l’America, la guerra (2003):
«Il “teorema di Machiavelli” si enuncerebbe così: quanto più le
lotte di classe (che costituiscono il fulcro o – sotto altri punti di
vista – il modello di tanti movimenti sociali) conducono la
“comunità” a un punto di rottura (o al margine della dissoluzione),
tanto più costringono il potere dello Stato (e delle classi
dominanti) all’invenzione istituzionale, cui attribuire una
competenza non solo “sociale” ma soprattutto politica. Ne risulta
tendenzialmente un regime di conflitto, instabile ovvero
pericoloso, ma senza il quale le crisi rilevanti non potrebbero
essere né riconosciute, né affrontate».
Modelli di democrazia nel dibattito contemporaneo
E. Balibar, La proposition de l’égaliberté (2011):Le alternative al processo di de-democratizzazione in atto «poggiano interamente sull’esistenza di
forme di resistenza, di solidarietà e di invenzioni collettive, di rivolte individuali, che
l’allargamento stesso dei metodi di governance neoliberale tendono a produrre. Prese insieme –
nella loro eterogeneità – esse disegnano o disegneranno i contorni di una nuova politica
«insurrezionale» e dunque esse permetteranno di immaginare nuove modalità di costituzione della
cittadinanza, in grado di combinare in modo inedito la spontaneità e l’istituzione, la partecipazione
e la rappresentanza. Soprattutto esse dovranno prendere atto del fatto che con la crisi della
cittadinanza sociale, seguita dall’estensione della «società del controllo» e più generalmente dei
fenomeni di de-democratizzazione nel quadro delle forme di razionalità o di governamentalità
neoliberale, la linearità immaginaria dei «progressi» della cittadinanza (o della sua
democratizzazione) è andata in frantumi: non solamente la rimessa in questione dei diritti sociali
esistenti de facto restringe il contenuto e il valore dei «diritti politici» acquisiti nel corso della
modernità, ma essa ha radicalmente rimesso in questione l’acquisizione dei «diritti civili» o dei
«diritti della persona», che sembravano irreversibili. E’ contemporaneamente in tutte le dimensioni
– senza ordine gerarchico o priorità strategiche - che si accentuano le antinimie della cittadinanza e
di conseguenza l’esigenza di alternative democratiche».
Modelli di democrazia nel dibattito contemporaneo
A. Negri, M. Hardt, Moltitudine (2004):La democrazia della moltitudine ha bisogno di una «nuova scienza», vale a dire
di un nuovo paradigma teorico capace di affrontare complessivamente questa
nuova situazione. Il primo e fondamentale punto all’ordine del giorno di questa
nuova scienza è la distruzione della sovranità per costruire la democrazia. In
tutte le sue forme, la sovranità intende il potere come il comando di uno solo,
minando così la possibilità di una democrazia piena e assoluta. Perché la
democrazia possa nascere, il progetto democratico deve oggi sfidare tutte le
forme di sovranità. In passato, la distruzione della sovranità era al centro della
concezione comunista e anarchica dell’abolizione dello stato. (…) Oggi la
moltitudine deve abolire la sovranità a livello globale. Questo è, a nostro parere,
il significato dello slogan «Un altro mondo è possibile», e cioè che la sovranità
e l’autorità devono essere distrutte…