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SPERIMENTAZIONE ANIMALE E PRINCIPIO DELLE 3R di Augusto Vitale - XXI Secolo (2010)
Sperimentazione animale e principio delle 3R
Con l’espressione sperimentazione animale s’intende l’utilizzo di animali a scopi
scientifici. In generale, la sperimentazione animale può essere di base oppure
applicata. Nel primo caso, la ricerca mira a comprendere le caratteristiche di
quel dato animale sotto osservazione, per poter ampliare lo spettro delle
nostre conoscenze in campo teorico. Per es., lo studio del canto di un
particolare uccello può servire a conoscere meglio i meccanismi evolutivi che
portano al manifestarsi di quel tipo specifico di comunicazione vocale. Nel
secondo caso, invece, l’animale è usato come modello, vale a dire come
mezzo per comprendere meglio una determinata caratteristica biologica di
un’altra specie, per lo più quella umana. Di solito, per sperimentazione
animale s’intende proprio questo secondo aspetto e gli animali sono
generalmente utilizzati per meglio conoscere l’origine di una serie di malattie
e disturbi che colpiscono la nostra specie, in modo da prevenirli e curarli.
Benché apparentemente distanti, i due tipi di ricerca sono invece essenziali
uno per l’altro: infatti, mediante la ricerca di base si possono acquisire
informazioni fondamentali per la sperimentazione applicata. L’esame, per
es., di come si sia evoluta nel corso del tempo una determinata capacità legata
alla sfera cognitiva, in specie differenti rispetto a quella umana, può fornire
chiavi interpretative importanti per lo studio di determinate patologie del
sistema nervoso degli uomini.
La sperimentazione animale applicata utilizza gli animali come modelli
sperimentali. Possiamo definire un modello animale come una condizione
che permette di studiare processi biologici e comportamentali fondamentali;
oppure, si può pensare al modello animale come alla possibilità di indurre
processi patologici che riproducano, almeno per certi aspetti, lo stesso
fenomeno patologico osservato negli umani, o in altre specie animali. Quindi
il più delle volte, quando si parla di sperimentazione animale, non ci si
riferisce a una particolare specie, ma a una specifica situazione, o quadro
patologico, creato in un animale particolarmente adatto per il tipo di ricerca
in oggetto.
Un’altra importante caratteristica del modello animale è che, spesso, si tratta
di un concetto relativo. Il modello animale raramente rappresenta l’insieme
di una particolare malattia, specialmente quelle più complesse: per es., non
esiste un modello animale per il morbo di Parkinson, ossia, al momento non
disponiamo di un modello animale nel quale riprodurre l’interazione tra i
diversi aspetti nervosi, fisiologici e psicologici che caratterizzano tale malattia
nella nostra specie. D’altro canto, differenti modelli animali possono fornire
informazioni molto importanti su alcuni aspetti e meccanismi di base del
morbo. Possiamo dire, in questo caso, che il modello animale della malattia
di Parkinson è la somma di una serie molto differenziata e ampia di diversi
modelli animali.
Giustificazione scientifica per la sperimentazione animale
Qual è la giustificazione scientifica all’uso dei modelli animali? Ha senso
ricavare informazioni utilizzando una specie animale diversa da quella alla
quale siamo interessati? La giustificazione scientifica all’uso di animali non
umani per studiare gli esseri umani ha il suo fondamento nella teoria
darwiniana dell’evoluzione. Secondo Charles Darwin, infatti, due specie
sono tanto più simili fra loro quanto minore è il tempo passato dall’esistenza
di un progenitore comune alle due specie in oggetto: per es., umani e primati
non umani sono più simili fra loro che umani e roditori. Infatti, è
riconosciuto che il progenitore comune a tutti i primati è vissuto circa tra
i 5 e i 6 milioni di anni fa, mentre quello comune a tutti i mammiferi si pensa
sia vissuto durante l’era del Triassico, tra i 250 e i 200 milioni di anni fa. Ne
consegue che tutti i primati, tra cui anche l’uomo, condividono più
caratteristiche comuni che l’uomo e tutte le altre specie di mammiferi.
Questa idea darwiniana della discendenza comune riguarda tutti gli aspetti
della biologia di un organismo, compreso (grazie alle intuizioni, tra gli altri,
dell’etologo Konrad Lorenz) il comportamento. Se adottiamo questa
prospettiva, sia teorica sia metodologica, possiamo legittimare sul piano
scientifico l’utilizzo di un animale non umano per comprendere meglio
alcuni aspetti della biologia dell’uomo.
La scelta del modello
Come possiamo scegliere il modello animale più adatto a una particolare
sperimentazione? Dipende strettamente dal tipo di problema che si sta
considerando: il modello deve essere valido nel senso che le caratteristiche
biologiche alle quali siamo interessati devono essere presenti e intatte. Non
è necessario, quindi, utilizzare sempre l’animale filogeneticamente più vicino
all’uomo, come la scimmia, per ottenere risultati applicabili alla specie
umana. Il mollusco marino Aplysia californica, per es., è stato studiato per
capire meglio gli aspetti molecolari coinvolti nei processi di apprendimento.
Ciò è stato possibile perché questo invertebrato presenta un sistema nervoso
molto semplice e facilmente osservabile. I risultati ottenuti da questo animale
sono stati molto importanti per lo studio di diverse patologie umane
caratterizzate da difficoltà di apprendimento.
Detto questo, a causa del limitato repertorio comportamentale e della
distanza filogenetica da Homo sapiens, l’Aplysia non è un animale molto utile
per ottenere modelli che, per es., aiutino a capire in generale aspetti
fisiologicamente complessi legati a particolari patologie umane. Modelli
molto più adatti in questo senso si possono ottenere ricorrendo ai roditori,
in particolare topi e ratti, che attualmente sono di gran lunga gli animali più
utilizzati nei laboratori di ricerca. In effetti, l’uso dei roditori in
sperimentazione porta con sé diversi vantaggi pratici: questi animali
richiedono relativamente poco spazio per essere adeguatamente ospitati nei
laboratori di ricerca, si riproducono con facilità ed è possibile lavorare su
ceppi geneticamente omogenei, in modo da limitare le fonti di variabilità
biologica.
Se però abbiamo bisogno di raccogliere informazioni utili a prevenire e
curare disturbi che riguardano nostri comportamenti complessi, come, per
es., afferrare un oggetto nello spazio, abbiamo bisogno di un modello
diverso. Quello più idoneo in tal caso è il primate non umano, ossia la
scimmia. Questi animali sono filogeneticamente assai vicini alla nostra specie
e presentano strutture del cervello simili alle nostre, specialmente per quanto
riguarda la corteccia cerebrale. Inoltre, le scimmie mostrano comportamenti
che, dal punto di vista della complessità, assomigliano molto ad alcuni aspetti
del comportamento umano. Afferrare un oggetto con destrezza è un
esempio di tali comportamenti.
È quindi necessario che a una particolare domanda scientifica, alla quale si
vuole rispondere mediante uno specifico esperimento, corrisponda il
modello animale appropriato, ossia quello in grado di fornire dati attendibili
e trasferibili alla specie umana.
Giustificazioni etiche per la sperimentazione animale
Per giudicare la validità di una particolare sperimentazione animale, l’unico
parametro che viene utilizzato è la validità scientifica del dato sperimentale?
In effetti, una delle più frequenti obiezioni alla pratica della sperimentazione
animale è che tale attività provoca dolore e sofferenza agli animali, per
ottenere risultati che non sono applicabili alla specie umana: il modello
animale, cioè, è troppo differente dall’umano per generare risultati validi.
Questa argomentazione è spesso accompagnata da esempi storici riguardanti
farmaci che si sono rivelati innocui sugli animali, ma letali negli umani (il
drammatico caso della talidomide è forse il più citato, quando invece questo
particolare caso indica la pericolosità di una sperimentazione animale non
sufficientemente rigorosa e accurata).
Se però si accetta l’argomentazione che il modello animale non funziona,
allora non rimane che sperimentare direttamente sugli umani per ottenere
una completa corrispondenza tra modello animale e specie in esame. Ma se
pensiamo alla sperimentazione umana, ci accorgiamo che l’attendibilità del
risultato non è l’unico parametro valutativo a nostra disposizione. Infatti,
non tutti sarebbero automaticamente disposti ad accettare tale tipo di
sperimentazione. Verrebbero immediatamente sollevati importanti problemi
etici: su quali individui sperimentare? Chi dovrebbe decidere su chi
sperimentare? Esistono quindi anche considerazioni etiche che in qualche
modo ci frenano, se pensiamo alla sperimentazione sugli umani come
alternativa a quella animale. Noi tendiamo ad attribuire agli altri umani
uno status morale uguale al nostro, e ciò rende molto problematico il
concetto di sperimentazione sull’uomo.
Se quindi parliamo di status morale, allora la domanda che segue è:
che status morale hanno gli animali? Questa è una domanda a nostro avviso
importante, perché il modo in cui noi pensiamo debbano essere trattati gli
animali deriva dallo status morale che noi attribuiamo loro. Possiamo dire che
in pratica, generalmente, gli animali vengono trattati con un certo rispetto.
Consideriamo, per es., gli animali da compagnia: diamo loro un nome,
pensiamo che abbiano una loro personalità, ne abbiamo cura, in qualche
modo rispettiamo la loro dignità. È come se gli animali, specialmente quelli
da compagnia, facessero già parte della nostra comunità morale, quindi
tendiamo a non causare loro sofferenza.
Ma gli animali da laboratorio? Tra coloro che argomentano a favore di una
rilevanza morale degli animali (perlomeno per quegli animali ai quali
potrebbe essere riconosciuta una qualche coscienza di dolore e sofferenza),
vi è una forte corrente di pensiero che afferma come la pratica della
sperimentazione animale sia moralmente inaccettabile, e quindi vada abolita.
Questo punto di vista però si scontra con la realtà di una pratica scientifica
largamente diffusa. Inoltre, generalmente non c’è consenso
sullo status morale degli animali, abbiamo bisogno di prevenzione e cure per
le malattie che affliggono il genere umano e, come già accennato, siamo
istintivamente prevenuti a considerare lecita la sperimentazione sugli esseri
umani. Per molti ricercatori, sperimentare sugli animali diventa quindi
un’alternativa accettabile, benché presenti un carico morale rilevante.
Detto questo, anche se giudichiamo moralmente accettabile l’utilizzo degli
animali nella sperimentazione biomedica, è necessario seguire due vie
parallele: continuare a ricercare attivamente alternative all’uso degli animali;
migliorare le condizioni sperimentali, in favore di una sempre maggiore cura
degli animali da laboratorio. Queste due necessità possono essere soddisfatte
applicando il principio delle 3R.
Il principio delle 3R
Nel 1959 due accademici britannici, Rex Burch e William Russell, membri
della Universities federation of animal welfare (UFAW), associazione tuttora
molto attiva nel campo del benessere animale, proposero un principio, o
modello, che i ricercatori dovrebbero adottare per attuare una forma di
sperimentazione animale più attenta al grado di sofferenza che tale pratica
scientifica causa nei soggetti sperimentali (Russell, Burch, The principles of
humane experimental technique, 1959).
Il principio delle 3R fa riferimento a tre fondamentali concetti: rimpiazzare
(replacement), ridurre (reduction) e rifinire (refinement). Quindi il ricercatore
dovrebbe inizialmente cercare, con il maggiore sforzo possibile, di
rimpiazzare, o sostituire, il proprio modello animale con un modello
alternativo; il secondo passo è quello di cercare di ridurre il più possibile il
numero di individui utilizzati in un certo protocollo sperimentale; infine, con
l’ultima R si intende l’operazione di rifinire, o migliorare, le condizioni
sperimentali alle quali sono sottoposti gli animali.
Rimpiazzare
Con questo concetto si vuole suggerire al ricercatore di indagare a fondo
sulle possibilità di sostituire il modello animale con metodologie alternative.
Nell’accezione originale del termine, quella proposta da Russell e Burch, si
intendeva l’utilizzo di materiale non senziente, al posto del modello animale.
I due autori descrissero una serie di metodi alternativi alla sperimentazione
animale basati su piante, microrganismi, sistemi chimici e fisici non viventi.
Attualmente, metodi alternativi al modello animale includono l’utilizzo di
volontari umani, modelli tridimensionali e sistemi di realtà virtuale.
Già Russell e Burch introdussero i concetti di rimpiazzo parziale (relative
replacement) e rimpiazzo completo (absolute replacement). Nel primo caso, ci si
riferisce agli esempi nei quali una specie animale viene sostituita da un’altra
specie caratterizzata da un sistema nervoso relativamente meno complesso
di quella originale, oppure, a quelli in cui in una particolare fase del
protocollo sperimentale, l’animale è stato sostituito da un modello non
senziente. Nel secondo caso, invece, il modello animale risulta
completamente eliminato dal protocollo sperimentale.
Queste definizioni suggeriscono che, in realtà, il concetto di rimpiazzo si
ricollega a due tipi di questioni. La prima è relativa a cosa viene esattamente
sostituito. Si tratta di una specifica metodologia che è parte dell’esperimento
in questione? Oppure, allargando la prospettiva, si tratta di sostituire un
particolare programma di ricerca che implica quegli specifici tipi di
esperimenti (come, per es., nel caso della proibizione di condurre test animali
per i controlli sui cosmetici)? La seconda si pone il problema di quali siano
le condizioni che devono essere rispettate nel caso dovessimo proporre
un’alternativa all’esperimento animale. Per es., l’esperimento alternativo
dovrebbe fornire lo stesso tipo di risultato del modello animale originale (che
potrebbe essere lo stesso tipo di informazioni relative all’innocuità di un
certo prodotto)? Oppure, ragionando in modo inverso, possiamo
riconsiderare il fine o i risultati attesi del progetto, in modo da poter applicare
il metodo alternativo all’uso di un modello animale?
Tali questioni dovrebbero essere trattate in combinazione. In ogni caso, le
prime considerazioni sull’utilizzo o meno di una tecnica alternativa all’uso di
un modello animale dovrebbero sempre riguardare la scientificità
dell’esperimento proposto originariamente e il suo specifico fine. Quindi,
all’interno di questo inquadramento generale, si potrebbe poi operare
un’analisi più fine rispetto ai diversi aspetti di quel particolare protocollo
sperimentale.
Ridurre
Il secondo passo riguarda la riduzione del numero di soggetti utilizzati in un
determinato protocollo sperimentale. Russell e Burch descrissero questo
concetto come una riduzione del numero degli animali utilizzati, tale da
ottenere comunque una quantità di dati numericamente significativi di
sufficiente precisione (Russell, Burch 1959). Mediante uno studio pilota, per
es., è possibile determinare quantitativamente gli effetti di una certa
manipolazione sperimentale, la facilità con la quale tali effetti possono essere
identificati e il grado di variazione estranea all’esperimento stesso ma che
può influenzare i risultati ottenuti. Tali informazioni possono quindi essere
utilizzate per calcolare con precisione il numero di soggetti sperimentali
necessari all’ottenimento di risultati significativi per quel dato protocollo
sperimentale. In questo tipo di approccio è di fondamentale importanza un
uso corretto della statistica: un accurato disegno sperimentale, in termini di
ampiezza del campione e potere del test statistico selezionato, è
fondamentale per determinare il numero minimo necessario di soggetti da
utilizzare.
Un altro modo per ridurre in linea generale il numero di soggetti sperimentali
usati da diversi laboratori dovrebbe, in teoria, essere quello di armonizzare il
più possibile, e a livello internazionale, i protocolli standard richiesti per i test
di tossicità. Ciò ridurrebbe sensibilmente la necessità di ripetere gli stessi test
in differenti Paesi, abbassando automaticamente il numero di animali
utilizzati in questa particolare pratica sperimentale.
Dalla descrizione del concetto di riduzione emerge che esso può essere
applicato non solo a livello del singolo esperimento, o di un particolare
progetto di ricerca, ma anche a livelli più generali, dove però tale applicazione
richiede uno sforzo diverso e a volte più complesso. A questo proposito, si
distinguono un livello intrasperimentale, uno sovrasperimentale e uno
extrasperimentale. Al primo livello, la riduzione riguarda il numero di animali
all’interno di ogni singolo esperimento. La possibilità di ridurre dipende dalla
domanda scientifica posta inizialmente e potrebbe variare da esperimento a
esperimento. In questo caso si può effettuare una riduzione migliorando il
disegno statistico, eseguendo studi pilota e, mediante un’analisi retrospettiva
di dati ottenuti in precedenza, calcolando il numero di soggetti strettamente
necessario. Va sottolineato che questa è un’analisi da condurre per ogni
singolo esperimento si voglia eseguire.
A livello sovrasperimentale la riduzione si attua cambiando il modo più
generale di fare ricerca: basti pensare, per es., a corsi di aggiornamento per il
personale addetto all’applicazione del principio delle 3R, ai metodi statistici
e ai vari tipi di disegni sperimentali. In tale livello rientrano anche l’azione
dei comitati etici, la possibilità di scambiarsi informazioni fra differenti
gruppi di ricerca, l’ottimizzazione dei programmi di riproduzione, la
possibilità di utilizzare i soggetti sperimentali come controlli di sé stessi.
Infine, a livello extrasperimentale la riduzione si ottiene mediante
un’evoluzione della pratica sperimentale, evoluzione che non era
originariamente relativa alla volontà di ridurre il numero di soggetti utilizzati.
Un esempio può essere l’armonizzazione delle regole nazionali sulla
sperimentazione animale tra Paesi europei, Stati Uniti e Giappone.
Rifinire
Questa azione inizia quando è stato compiuto ogni sforzo possibile per
trovare alternative al modello animale originariamente scelto e per ridurre il
numero di individui utilizzati in uno specifico disegno sperimentale. Russell
e Burch (1959) definiscono rifiniresemplicemente come la riduzione, a un
minimo assoluto, del disagio imposto agli animali usati nella
sperimentazione. Questa definizione, generalmente valida ancora oggi, ha
tuttavia subito una serie di successive modifiche come risultato dei progressi
compiuti nell’ultimo anno nell’ambito della scienza del benessere animale e
nel campo della filosofia morale, progressi che hanno informato e reso più
stimolante il dibattito sui diritti degli animali.
Come già accennato, il concetto di rifinire o migliorare le procedure
sperimentali si è modificato nel tempo. Una delle conclusioni di una recente
ricerca compiuta da un gruppo multidisciplinare di studiosi, al quale hanno
partecipato sia biologi sia filosofi
(http://www.inemm.cnr.it/animalsee/index.html), è stata la ridefinizione di
questo particolare concetto, includendo tutti gli aspetti che possono essere
interessati dall’applicazione di questa R: trasporto, stabulazione, tecniche
usate nelle procedure del protocollo sperimentale, eutanasia. Quello che però
appare particolarmente rilevante in questa proposta è l’accenno a un
necessario e attivo sforzo per il miglioramento dello stato di benessere
dell’animale sperimentale, al di là di una semplice minimizzazione dello stato
di malessere (Buchanan-Smith, Rennie, Vitale et al. 2005). L’uso del rinforzo
positivo, per es., è un buon modo per migliorare le procedure sperimentali.
In questo caso, infatti, agli animali è data l’opportunità di cooperare con le
procedure, mediante la somministrazione di premi, generalmente alimentari,
riducendo così i casi nei quali l’animale deve essere forzato a partecipare a
un certo protocollo sperimentale. In tal modo si può ottenere come risultato
l’offerta spontanea di un arto da parte di una scimmia per una certa
inoculazione, oppure lo spostamento volontario di un individuo da una
gabbia all’altra.
Bisogna però tenere presente che, in alcuni casi, il miglioramento delle
condizioni di vita di un animale sperimentale può contrastare con gli scopi
di una specifica ricerca. Si potrebbe pensare, per es., di migliorare le
condizioni di benessere di un determinato individuo offrendogli
regolarmente del cibo molto prelibato, soddisfacendo così i bisogni
alimentari di quell’animale. Tale scelta, però, potrebbe essere in conflitto con
le condizioni necessarie per un esperimento, peraltro ormai sempre meno
utilizzato, in cui la restrizione di cibo motiva l’animale a partecipare a un test
nel quale alla fine esiste una ricompensa in cibo.
Benessere animale e arricchimenti ambientali
Un giudizio sul grado di benessere degli animali da laboratorio e su come
questo possa essere influenzato da certe condizioni di cattività deve basarsi
su un’accurata conoscenza della specie animale coinvolta. In funzione della
specie animale e della sua normale organizzazione sociale, fattori ambientali
come, per es., dimensione della gabbia e sua struttura, luce (intensità,
lunghezza d’onda, fotoperiodo, frequenza), suoni, ventilazione ecc., sono
tanto importanti quanto la presenza o assenza di soggetti della stessa specie,
il loro sesso e la prevedibilità e controllabilità dell’ambiente. Esiste però un
certo rischio di antropomorfismo nel giudizio di importanza relativa per
questi fattori. Condizioni favorevoli al benessere umano non lo sono
necessariamente altrettanto per quello degli animali e ciò è egualmente valido
per una comparazione tra differenti specie animali e tra diversi gruppi di ogni
singola specie. Questo problema può essere affrontato misurando la
predilezione di un animale per certe condizioni ambientali con un test di
preferenza, durante il quale agli animali viene offerta una scelta tra varie
condizioni per il sistema di mantenimento, la lettiera, il cibo e così via.
Quando le scelte sono combinate con dettagliate osservazioni
comportamentali, si possono ottenere informazioni sull’importanza relativa
dei diversi fattori ambientali. Bisogna, in ogni caso, fare attenzione nel
momento in cui s’interpretano i risultati ottenuti in termini di benessere: la
scelta, infatti, può essere influenzata da precedenti esperienze, o un animale
può non essere in grado di giudicare quale opzione sia la migliore per il suo
benessere nel lungo termine.
In particolare, ciò può essere vero per la scelta degli arricchimenti ambientali
da fornire agli animali in cattività. Se intendiamo migliorare le condizioni
generali di benessere di un animale utilizzato in sperimentazione, uno dei
modi possibili è, per es., quello di provvedere all’allestimento di un ambiente
stimolante e vario. L’introduzione di arricchimenti ambientali può servire
indubbiamente a tale scopo. Generalmente per arricchimento ambientale, si
intende qualunque tipo di stimolazione, sia strutturale sia più prettamente
sociale, in grado di fare esprimere all’animale in cattività un repertorio
comportamentale più simile a quello dei suoi conspecifici in natura.
È opinione generale che le condizioni di vita degli animali in cattività siano
tanto migliori quanto più questi sono in grado di esprimere i comportamenti
osservati nei loro conspecifici in natura. Tuttavia, la validità di tale metodo
comparativo per la valutazione del benessere degli animali non è mai stata
completamente dimostrata. Inoltre, se pensiamo che una parte del repertorio
comportamentale di una specie può essere modificata in tempi relativamente
brevi, e se consideriamo la flessibilità comportamentale tipica dei mammiferi,
allora appare possibile che le necessità comportamentali di individui che da
molte generazioni vivono in un ambiente totalmente differente da quello
naturale siano diverse da quelle dei loro conspecifici selvatici. Pertanto è
sempre più diffusa l’opinione che fattori quali la storia dell’individuo e il
contesto a cui è abituato possano influenzare i suoi bisogni comportamentali
e che, quindi, sia necessario tenere conto di tali aspetti. Partendo da queste
considerazioni, sperimentalmente si possono studiare colonie di animali in
cattività appartenenti alla stessa specie, ma ospitati in ambienti molto diversi
tra loro, sia per storia della colonia sia per differenti scopi di ricerca. L’idea
è che applicare la stessa tecnica per migliorare la qualità della vita di questi
animali non sia corretto e che sia necessaria una sua taratura su ogni singola
situazione, affinché tale tecnica, di solito la presentazione di un particolare
arricchimento ambientale, possa rivelarsi realmente efficace.
Per quanto riguarda la procedura sperimentale, si può condurre una raccolta
preliminare di dati, al fine di ottenere una fotografia della condizione di
partenza. Successivamente le condizioni arricchite vengono proposte agli
animali. La presentazione degli arricchimenti può avvenire utilizzando due
diverse metodologie, ossia effettuando la presentazione di una singola
condizione arricchita oppure la presentazione di una scelta. La scelta viene
offerta perché dare agli animali questa possibilità è da molti ritenuta una
procedura migliore per garantire il loro benessere. I dati raccolti possono
essere di due tipi: comportamentali, ottenibili tramite osservazione diretta, e
biochimici, misurabili, per es., attraverso campioni di saliva in modo da
valutare il livello di ormoni in circolazione. I dati comportamentali
forniranno informazioni sull’uso/non uso degli arricchimenti, sul loro
diverso utilizzo e sull’eventuale grado di scelta espresso dalle specifiche
colonie di animali; dai dati biochimici ci si attendono differenti livelli
ormonali in risposta alle differenti condizioni.
Un ulteriore aspetto per valutare l’efficacia di un determinato arricchimento
si basa sulla misurazione del grado di motivazione di particolari individui a
usufruirne. Tale misurazione viene effettuata attraverso l’osservazione del
lavoro che l’individuo è disposto a fare per raggiungerlo (cfr. al riguardo G.
Mason, D. McFarland, J. Garner, A demanding task: using economic techniques to
assess animal priorities, «Animal behaviour», 1998, 55, 4, pp. 1071-75).
Vi sono vari tipi di arricchimenti ambientali. Quelli di tipo strutturale
possono essere oggetti mobili trasportabili. Arricchimenti di tipo sociale,
invece, sono quelli che hanno lo scopo di migliorare le condizioni sociali di
vita degli animali da laboratorio: per es., si possono variare il numero e la
composizione di un determinato gruppo di animali in cattività per meglio
soddisfare le naturali tendenze e inclinazioni sociali di una particolare specie.
Un tipo di arricchimento sociale è quello interspecifico e una sua possibile
forma è rappresentata dall’interazione essere umano-animale. Per quanto
riguarda i primati non umani, per es., si possono identificare due tipi di
interazione in cattività tra animali ed esseri umani. La prima si può
definire interazione umana strutturata, oggi sempre più diffusa nei protocolli
sperimentali che utilizzano scimmie di laboratorio: si tratta del rinforzo
positivo, al quale si è già accennato in questo scritto. Tale interazione è alla
base dei programmi di addestramento delle scimmie per ottenere la loro
collaborazione durante le procedure di routine di un laboratorio. Il secondo
tipo di interazione essere umano-animale è definibile come interazione umana
non strutturata, e fa riferimento al quotidiano rapporto che si viene a instaurare
tra gli animali e chi si prende cura di loro. Questo tipo di interazione è molto
importante perché, soprattutto nel caso dei primati non umani, gli animali
generalmente sono in grado di traslare il rapporto di fiducia, instauratosi con
un particolare essere umano, verso altri membri della stessa specie. Ciò vuol
dire che gli animali tenderanno a essere meno diffidenti in presenza degli
sperimentatori che li manipolano e ne osservano il comportamento,
fornendo dati di maggiore qualità scientifica.
Interazioni positive tra le 3R
Vi sono diversi casi nei quali l’uso di una delle tre R può avere un impatto
positivo su una o tutte e due le altre R: per es., l’introduzione di programmi
educativi e specie-specifici per personale addetto alla manutenzione degli
animali da laboratorio può portare a un miglioramento della cura di questi
ultimi e a una maggiore abilità nell’identificare problemi di benessere e quindi
anche problemi relativi a un particolare piano sperimentale. Questo
approccio porta a un miglioramento generale delle condizioni di benessere
degli animali da laboratorio. Inoltre ne deriva un decremento nella variabilità
dei risultati sperimentali dovuta agli effetti stressanti dell’esperimento stesso.
Occorre sottolineare che tale minore variabilità implica una diminuzione del
numero di soggetti sperimentali necessari per raggiungere una significatività
statistica. Quindi, in questo caso, contemporaneamente si sono migliorate le
condizioni di benessere degli animali durante la sperimentazione ed è stato
ridotto il numero di soggetti sperimentali necessari per ottenere dati
scientificamente credibili.
La sostituzione di animali dallo sviluppo neurofisiologico complesso con
invertebrati oppure organismi unicellulari è, come abbiamo visto, una
strategia di sostituzione parziale del modello animale. D’altra parte,
rappresenta anche una strategia di miglioramento delle tecniche sperimentali
per diminuire il grado di sofferenza, perché molto probabilmente un
invertebrato, o un organismo unicellulare, soffre meno rispetto a un
organismo relativamente più complesso.
L’armonizzazione internazionale dei protocolli sperimentali e delle regole
che riguardano i test di sicurezza per i farmaci rappresenta un’importante
strategia che può determinare una forte diminuzione dei singoli esperimenti
compiuti nei diversi Paesi. Da questo deriva automaticamente una riduzione
complessiva dei soggetti utilizzati in questi test. L’armonizzazione fra diversi
Paesi può però anche portare all’individuazione di test obsoleti e inutilmente
invasivi, che possono essere sostituiti da tecniche più avanzate che fanno uso
di materiale non senziente (rimpiazzo completo). Quindi, sostituzione e
riduzione del numero dei soggetti possono in questo caso avvenire
contemporaneamente.
Interazioni negative tra le 3R
Può succedere che le 3R entrino in conflitto fra loro. Nel caso si debbano
validare metodi alternativi, per es., vi è la necessità di comparare il metodo
alternativo proposto con la corrispondente e tradizionale versione in vivo di
tale tecnica. Ciò rappresenta un conflitto fra i concetti di rimpiazzo e
riduzione. D’altra parte, una simile situazione si pone anche quando è
necessario verificare la validità di alcune tecniche di miglioramento di un
dato protocollo sperimentale, con il fine di ridurre il grado di sofferenza
animale. In questo caso, entrano in conflitto i concetti di miglioramento della
procedura sperimentale e di riduzione del numero di soggetti sperimentali.
L’uso di metodi telemetrici a distanza, che vengono impiantati sottocute o
nella cavità viscerale dell’animale, permette di rilevare parametri fisiologici
utilizzando animali liberi di muoversi, e non limitati da cateteri permanenti,
o bloccati da misurazioni che prevedono l’immobilizzazione del soggetto
sperimentale. Questi metodi rappresentano, quindi, un miglioramento delle
condizioni sperimentali per l’animale utilizzato. Inoltre, poiché i dati ottenuti
risultano qualitativamente migliori, dato che gli animali sono meno stressati
dalla procedura sperimentale, esiste anche la possibilità di utilizzare un
numero minore di soggetti per ottenere dati di qualità, e quindi ridurre il
numero totale di soggetti utilizzati. D’altra parte, però, l’impianto di una
trasmittente, specialmente quando questa è posizionata nei visceri, richiede
un intervento chirurgico complicato e lungo, e può causare considerevole
dolore postoperatorio. Inoltre, soprattutto nel caso di piccoli roditori, il peso
della radiotrasmittente può comportare disagio fisiologico e fisico. Tutto ciò
è contrario al concetto di miglioramento delle condizioni sperimentali volto
alla diminuzione del grado di sofferenza inflitto agli animali. È stato poi
osservato che la presenza di un compagno può alleviare lo sconforto
postoperatorio. Questo significa che, se abbiamo a che fare, per es., con un
gruppo sociale di scimmie, si dovrebbe isolare un altro individuo dal resto
del gruppo e sottoporlo, anche se indirettamente, a una procedura
sperimentale, causando nuovamente un conflitto con il concetto di riduzione
dei soggetti sperimentali.
Quale R privilegiare?
Come abbiamo visto, possono sorgere dei conflitti tra le diverse R. In che
modo occorre regolarsi in questi casi? Uno dei problemi degli attuali modelli
di analisi etica di un particolare esperimento è che, sebbene le 3R siano prese
in considerazione, spesso lo sono in maniera indipendente una dall’altra. Per
questa ragione, sorgono frequentemente difficoltà decisionali quando
esistono conflitti tra rimpiazzo, riduzione e miglioramento del modello
animale. In generale, i comitati etici per l’analisi della sperimentazione
animale adottano decisioni di buonsenso, e di comune condivisione, il più
delle volte basate su un approccio utilitaristico al problema sotto esame.
Questo tipo di approccio prevede di massimizzare il bene per il maggior
numero di individui.
Ogni singola procedura, protocollo e ricerca sperimentale rappresenta un
caso a sé stante. In ogni singolo protocollo sperimentale possono sorgere dei
conflitti fra le differenti R e per questa ragione è necessario utilizzare
procedure per decidere a quale R dare maggiore peso. Purtroppo, nell’attuale
normativa sulla sperimentazione animale il principio delle 3R non è
esplicitamente menzionato, e quindi non è indicata una regola da seguire nel
caso di conflitto. Si può comunque ricordare che in alcune normative
nazionali come, per es., quelle dell’Home office britannico
(http://www.archive.official-
documents.co.uk/document/hoc/321/321.htm, 26 apr. 2010), viene data
più importanza al miglioramento delle procedure sperimentali che alla
riduzione del numero di soggetti sperimentali utilizzati. La ragione di questo
atteggiamento è che il grado di sofferenza provato da un singolo individuo
rappresenta il valore più importante del quale tenere conto; quindi,
provocare maggiore sofferenza a un numero minore di individui per non
aumentare il campione sperimentale non è accettabile. In ogni modo,
quando può essere ottenuta una riduzione considerevole del numero dei
soggetti sperimentali, creando un lieve aumento della sofferenza dei soggetti
utilizzati, allora la riduzione dei soggetti può essere accettata. Come si può
capire il raggiungimento di un equilibrio tra questi due fattori si basa molto
sul giudizio personale del ricercatore, però è importante che tali dilemmi
generati dall’applicazione del principio delle 3R siano discussi, e sia offerta
una qualche sorta di guida per poterli risolvere.
Analisi costi-benefici
La sperimentazione animale è una pratica scientifica che, come abbiamo
visto, coinvolge diversi fattori e competenze. La legittimità di una ricerca che
fa uso di modelli animali deriva dalla valutazione bilanciata di questi fattori.
Ci si può augurare che l’analisi dei diversi fattori sia preceduta o comunque
accompagnata da un’attenta disamina sulla possibile applicazione del
principio delle 3R.
I tre principali punti di vista da tenere in considerazione sono: la validità del
dato scientifico ottenibile; la trasferibilità di tale dato al genere umano; il
grado di sofferenza inflitto agli animali sperimentali (P. Bateson, When to
experiment on animals, «New scientist», 1986, 109, 1496, pp. 30-32). È
necessario che un ricercatore ricordi questi tre aspetti nel momento in cui è
pianificata una ricerca che fa uso di modelli animali.
I comitati etici sono il luogo ideale nel quale condurre un’analisi dei costi e
dei benefici per una particolare sperimentazione. Il risultato di tale analisi
può portare all’accettazione o alla bocciatura di una certa sperimentazione.
Si può considerare come esempio il modo di operare dei comitati etici
neerlandesi. La documentazione da questi richiesta prevede che i ricercatori
descrivano accuratamente il grado di sofferenza imposto agli animali in
laboratorio, distinguendolo in tre categorie: minore, moderato, elevato.
L’entità della sofferenza viene bilanciata in relazione a tre livelli di
importanza per la società e la scienza: minore, moderata, grande. Esempi di
tre tipi di sofferenza animale possono essere: fare un’iniezione (minore
sofferenza), isolare un individuo in una gabbia singola (moderata sofferenza),
procurare dolore prolungato (elevata sofferenza). Progetti che hanno un
minore livello di importanza per scienza e società generalmente sono
rifiutati, così come sono rifiutati progetti che, pur essendo di importanza
maggiore, causano un elevato grado di sofferenza. È importante anche che
il comitato possa valutare la qualità e gli scopi di un particolare esperimento,
insieme alle credenziali del ricercatore. Successivamente queste informazioni
vanno messe a confronto con il livello di sofferenza che verrà imposto
all’animale durante quella determinata ricerca. In pratica, il ricercatore deve
rispondere ad alcune domande, relative a una serie di aspetti della propria
ricerca, prima di sottoporre al comitato la richiesta di permesso per
procedere. Tali domande riguardano il livello di sofferenza cui verranno
sottoposti gli animali, il valore qualitativo della ricerca proposta, il suo
significato applicativo, le credenziali del gruppo di ricerca.
Il comitato etico dei Paesi Bassi chiede informazioni anche su altre
caratteristiche del protocollo sperimentale proposto quali, per es., la durata
espressa in giorni del grado di sofferenza imposto agli animali sperimentali,
le condizioni di mantenimento dei soggetti sperimentali, incluse la salute
fisica e psicologica, e la possibilità che sia soppresso il manifestarsi di
comportamenti specie-specifici. Il principio delle 3R viene chiamato in causa
nel momento in cui al ricercatore si domanda se ha esaminato con cura la
possibilità di una sostituzione del modello animale. Viene infatti richiesta una
specifica conoscenza di tecniche alternative all’uso dell’animale, quali
pubblicazioni dedicate sono state consultate a tale proposito e anche quali
data-base. Inoltre, e ciò è molto importante, viene specificamente chiesta una
giustificazione per il mancato uso di tali tecniche alternative. Riguardo al
concetto di riduzione del numero di soggetti sperimentali si richiede al
ricercatore se esistono ricerche simili in corso e se si prevede, o è già in atto,
una collaborazione con gruppi di ricerca che conducono studi simili. Tale
collaborazione potrebbe, in effetti, portare a una riduzione generale dei
soggetti sperimentali utilizzati.
Il principio delle 3R e la legislazione
Il principio delle 3R è alla base della legislazione europea dedicata alla
protezione degli animali utilizzati in sperimentazione. La
direttiva 1986/609/CEE
(http://ec.europa.eu/food/fs/aw/aw_legislation/scientific/86-609-
eec_it.pdf, 26 apr. 2010) e la Convenzione europea
ETS 123 del 18 marzo 1986(http://conventions.coe.int/Treaty/ita/Treatie
s/Html/123.htm, 26 apr. 2010) offrono le regole base per la protezione
degli animali sperimentali, ma in alcuni Stati, come Germania, Paesi Bassi e
Gran Bretagna, la normativa nazionale va oltre ciò che è suggerito dalla
legislazione europea. Una caratteristica centrale del principio delle 3R, per
es., è che, prima di dar luogo a qualunque tipo di esperimento che coinvolga
l’uso di modelli animali, bisogna procedere con un’accurata analisi dei costi
e dei benefici che tenga conto, da una parte, della sofferenza causata agli
animali sperimentali e, dall’altra, dei potenziali benefici che possono derivare
dalla sperimentazione in oggetto. Detto questo, una richiesta specifica di
condurre tale analisi costi-benefici è presente esplicitamente solo nella
legislazione dei tre Paesi sopra menzionati, nonostante questa idea sia
implicita nella direttiva europea.
Attualmente, il principio delle 3R è presente in maniera indiretta nella
normativa italiana riguardante la sperimentazione animale, rappresentata dal
d.l.
del 27 genn. 1992 n. 116(http://www.ministerosalute.it/imgs/C_17_norm
ativa_946_allegato.pdf; 26 apr. 2010), che costituisce un’adozione della
direttiva europea. Infatti, all’art. 4, 2° co., del d.l. si legge: «Quando non sia
possibile ai sensi del comma 1 evitare un esperimento, si deve documentare
alla autorità sanitaria competente la necessità del ricorso ad una specie
determinata e al tipo di esperimento; tra più esperimenti debbono
preferirsi: 1) quelli che richiedono il minor numero di animali; 2) quelli che
implicano l’impiego di animali con il più basso sviluppo neurologico; 3)
quelli che causano meno dolore, sofferenza, angoscia o danni durevoli; 4)
quelli che offrono maggiori probabilità di risultati soddisfacenti». La
direttiva 1986/609/CEE è attualmente in fase di revisione, ed esistono
elevate probabilità che il nuovo testo possa rendere ancora più esplicito il
riferimento al modello di Russell e Burch.
Conclusioni
Nel contesto di un complessivo miglioramento delle condizioni di vita degli
animali da laboratorio sono stati compiuti importanti passi in avanti negli
ultimi anni. Il principio delle 3R ha ispirato profondamente tali
miglioramenti. Alan M. Goldberg e Horst Spielmann, a questo proposito,
elencano cinque punti ritenuti principali: il riconoscimento dell’importanza,
come settore scientifico, della ricerca di alternative alla sperimentazione
animale e il rafforzarsi di un’importante corrente di pensiero, in questo
senso, nella comunità dei protezionisti; una globale e consistente riduzione
del numero di animali che vengono utilizzati in ricerca, in educazione e nelle
prove di tossicità; l’attenzione dedicata al miglioramento delle tecniche utili
a controllare la sofferenza imposta agli animali sperimentali; la creazione di
solidi criteri e processi di validazione, tanto in Europa quanto negli Stati
Uniti, volti all’implementazione di metodi alternativi, e lo sforzo verso una
generale armonizzazione di tali azioni; l’impegno dedicato a creare protocolli
di controllo di tossicità che risultino più efficaci, più predittivi e più attenti
al grado di sofferenza imposto agli animali sperimentali (Goldberg,
Spielmann, in Progress in the reduction, refinement and replacement of animal
experimentation, 2000).
Il principio delle 3R offre agli sperimentatori un inquadramento
metodologico nel quale la sofferenza, sia diretta sia indiretta, provocata dalla
ricerca sugli animali può essere ridotta, e nel quale i filosofi possono praticare
una logica analisi etica. L’applicazione di diverse metodologie per la
sostituzione dei modelli animali, il miglioramento delle tecniche e la
riduzione del numero dei soggetti utilizzati hanno un impatto positivo sulla
validità dei disegni sperimentali, la credibilità dei risultati e l’immagine
pubblica dell’esperimento che fa uso di animali. Detto ciò, l’apparente facilità
dell’applicazione del principio delle 3R si rivela problematica nel momento
in cui si manifestano possibili conflitti fra le singole R. In questo caso, se non
si ha la possibilità di usufruire di una legislazione che può risolvere il
conflitto, il singolo ricercatore deve affidarsi alla propria capacità di
individuare che tipo di conseguenza tale conflitto avrebbe sullo stato di
benessere degli animali sperimentali. Tale valutazione deve essere fatta caso
per caso, perché ogni protocollo sperimentale presenta le proprie specifiche
caratteristiche e porta con sé un potenziale carico di sofferenza animale. Se,
come sembra, il principio delle 3R sarà incorporato nella revisione della
direttiva 1986/609/CEE, ci si può augurare che vengano anche fornite delle
indicazioni sulle relative priorità di ciascuna delle 3R, al fine di migliorare la
loro applicazione.
Nonostante le difficoltà sopra accennate, negli anni a venire è molto
probabile che il principio delle 3R conserverà il suo grande valore, dal punto
di vista sia teorico sia applicativo.
Bibliografia
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