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SOMMARIO
CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE .............................................................. 3
1. Un esperimento mentale .................................................................................... 3 2. Una diversa prospettiva ................................................................................... 11 3. Uno sguardo in avanti ..................................................................................... 19
CAPITOLO PRIMO ..................................................................................... 23
L’IMMAGINAZIONE E LE SUE FORME ........................................................ 23
1. L’immaginazione e le immagini mentali ......................................................... 23 2. Un’analisi concettuale ..................................................................................... 32 3. Immaginare ed assumere ................................................................................. 44 4. Esperienza e coinvolgimento .......................................................................... 52 5. Immaginazione e intuizione ............................................................................ 54 5. Uno schema riassuntivo .................................................................................. 60
CAPITOLO SECONDO ................................................................................ 62
L’IMMAGINAZIONE ASSOLUTA: UNA POSSIBILITÀ NUOVA ...................... 62
1. Una genealogia dell’immaginazione? ............................................................. 62 2. La narrazione immaginativa ............................................................................ 76 3. La neutralizzazione delle posizioni d’essere e di valore ................................. 87 4. Immaginazione narrativa e credenza ............................................................... 93 Annotazione. Il paradosso della finzione .......................................................... 105 5. La narrazione immaginativa: un esperimento mentale .................................. 105 6. La dimensione del gioco ............................................................................... 111 7. La modificazione ludica ................................................................................ 118
CAPITOLO TERZO ................................................................................... 126
L’IMMAGINAZIONE E GLI ASPETTI FIGURATIVI ...................................... 126
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1. Un elemento comune..................................................................................... 126 2. Gli aspetti figurativi ...................................................................................... 131 3. Gli aspetti figurativi e l’immaginazione situata ............................................ 140 4. Un mondo condiviso ..................................................................................... 147 5. L’immaginazione e il suo compito ................................................................ 152
CAPITOLO QUARTO ................................................................................ 159
L’IMMAGINAZIONE E IL NOSTRO MONDO ............................................... 159
1. Una finzione consolidata ............................................................................... 159 Annotazione. Riflessioni sulle marionette......................................................... 173 2. Figure di confine ........................................................................................... 173 3. Una prima ipotesi: l’immaginazione inconsapevole ..................................... 185 4. I riti e la funzione di cornice ......................................................................... 211 5. Un passo indietro .......................................................................................... 216 6. I fili di un intreccio ........................................................................................ 221
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CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE
1. Un esperimento mentale
Possiamo forse cominciare così, prendendo tra le mani un vecchio libro di
filosofia: il Trattato sulle sensazioni di Étienne Bonnot, abate di Condillac.
In questo libro, che non ha il fascino teorico dei grandi classici dell’empi-
rismo settecentesco e che appartiene a un passato divenuto ormai silen-
zioso per noi, vi è qualcosa che ci attira e che ci invita a riflettere. Si tratta
di un passo ben noto: Condillac ci invita ad immaginare una statua di
marmo, in tutto simile a noi, cui sia data per incanto la possibilità di acqui-
sire passo dopo p
asso le diverse forme della nostra sensibilità. Questo strano gioco ha un
fine prestabilito: deve consentire a noi, spettatori filosofi, di assistere alla
nascita in vitro di una mente umana in un corpo di marmo, per inscenare
così di fronte a nostri occhi di lettori le origini della conoscenza umana, le
forme prime della nostra vita d’esperienza che appartengono ad un passato
che non è più accessibile per noi1.
L’epilogo di questo racconto filosofico non è difficile da immaginare:
ogni nuova sensazione imprime un diverso movimento agli ingranaggi
della mente e la statua si trasforma così, sotto ai nostri occhi, in un soggetto
capace di vivere e di sentire. Il gioco, tuttavia, potrebbe continuare: po-
tremmo chiederci che cosa accadrebbe ad una statua che sappia percepire
e ricordare, che provi piacere e dolore, e forse anche collera o simpatia, ma
che non sia capace invece di immaginare, qualunque cosa di preciso questa
parola significhi. Noi siamo fatti così: sappiamo immaginare molte cose,
ma che cosa accadrebbe se all’improvviso non fossimo più capaci di ab-
bandonare il terreno della realtà e se ogni nostra esperienza fosse per que-
sto vincolata a ciò che c’è o è stato?
Non è facile rendersi conto di quali e quanto ramificate siano le conse-
guenze di questa strana sorta di cecità, ma alcune considerazioni si impon-
gono con una certa forza. Se fossimo affetti da una qualche forma di cecità
1 «A tale scopo immaginammo una statua organizzata internamente come noi e animata da uno spirito
privo d'ogni sorta d'idee. Supponemmo inoltre che l'esteriore tutto di marmo non le permettesse l'uso d'alcun senso e ci riserbammo la libertà di aprirli a piacer nostro alle diverse impressioni che possono
ricevere» (E. Bonnot de Condillac, Trattato delle sensazioni (1754), a cura di P. Salvucci, Laterza,
Roma Bari 1970, p. 6).
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immaginativa non saremmo più capaci di inventare racconti e di ascoltarli:
ci sarebbe ancora spazio per la cronaca, ma non sapremmo più dare un
senso qualunque al “c’era una volta …” che dischiude le porte dell’imma-
ginazione narrativa. Uno stesso ordine di considerazione varrebbe per
molti giochi ed in particolare per quelle forme ludiche che ci invitano ad
assumere ruoli e che, per esempio, ci chiedono di “far come se” una grossa
scatola di cartone fosse una casa in cui entrare o uscire a piacimento o un
ramo di un albero una spada con cui sfidare a duello un nemico. Forse non
tutti i giochi implicano l’esercizio dell’immaginazione – non è facile dire
se due cani che si azzuffano per gioco debbano davvero calcare per questo
il terreno dell’immaginazione – ma è certo che il gioco infantile è ricco di
fantasia e che i giochi di un bambino sarebbero semplicemente impensabili
se non vi fosse un libero esercizio dell’immaginazione. Ora, il raccontare
e il giocare sono forme che hanno un ruolo importante nella nostra vita e
di fatto nei racconti come nella dimensione ludica prende forma un amplia-
mento rilevante della nostra umana esperienza ed impariamo a reagire a
situazioni complesse che potrebbero accaderci e che è utile mettere in
scena, per comprenderle prima che facciano il loro ingresso nella vita reale.
Senza l’immaginazione la nostra vita sarebbe davvero molto diversa.
Non è tuttavia soltanto il gioco o la narrazione che sparirebbero se non
ci fosse più la libertà di immaginare: non potremmo nemmeno disporre il
reale sullo sfondo del possibile e “viverlo” come se lo esperissimo, come
invece facciamo quando cogliamo un evento che accade sotto ai nostri oc-
chi come una possibilità tra le altre. L’immaginazione è, tra le altre cose,
la facoltà del possibile, e questo significa che la dimensione immaginativa
è chiamata in causa dalla dimensione della progettualità: i progetti allu-
dono ad un altrimenti che deve potersi aprire un varco nella solidità del
reale. Ma forse il potere dell’immaginazione si spinge ancora più avanti:
forse dobbiamo immaginare qualcosa quando “vediamo” quali modifiche
si dovrebbero apportare ad un oggetto per utilizzarlo per un determinato
scopo e forse, in generale, ogni impiego creativo di un oggetto per un fine
che non sia immediatamente racchiuso nella sua datità percettiva chiede
l’impiego dell’immaginazione, cosa questa che ci costringerebbe a ricono-
scere che la nostra statua non deve necessariamente avere un volto umano,
poiché molti animali sanno fare un uso creativo degli oggetti che vedono.
Immaginare, tuttavia, non significa soltanto contrapporre al reale la di-
mensione della progettualità, ma anche dare spazio all’altrimenti nella
forma di una rete di situazioni emotive: nel rimorso il passato si fa avanti
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come qualcosa che avrebbe dovuto essere ma non è accaduto, nel timore
immotivato si fa avanti in modo minaccioso la possibilità che qualcosa nel
nostro presente muti, rivelando la sua e la nostra fragilità, e in questo porsi
di ciò che avrebbe dovuto essere o di ciò che potrebbe accadere accanto a
ciò che invece è stato l’immaginazione sembra dire la sua. Lo stesso accade
per la gelosia che in parte vive dei suoi racconti, per l’invidia che poggia
su una trasposizione analogica tra il tuo destino e il mio, ma anche per la
fiducia che poggia sulla capacità di pensare che il futuro non cambierà le
cose che ci sembrano ora importanti e per la speranza che si nutre della
convinzione che il futuro saprà invece cambiare molte cose. Desideri e de-
cisioni si legano nel loro possibile dipanarsi alla nostra capacità di figurarci
situazioni che non sono date, ma che potrebbero accadere e uno stesso or-
dine di considerazioni è chiamato in causa dalle regole che ci invitano ad
astenerci dal compiere determinate azioni: in fondo, se non ci sono soltanto
ordini che ci obbligano ad agire in un determinato modo, ma anche proibi-
zioni che ci vietano certe azioni future ciò almeno in parte accade perché
siamo animali che sanno immaginare e che non si fermano ad un compor-
tamento imposto, ma ne fingono altri, sia pure illegittimi.
Se poi non fossimo privi dell’immaginazione, non potremmo nemmeno
metterci nei panni degli altri e non sapremmo come giustificare le loro de-
cisioni e come prevedere i loro comportamenti. “Mi immagino bene come
tu debba sentirti” è un modo di dire che ha un posto importante nella nostra
vita e che non sembra possibile mettere a tacere senza per questo cancellare
una parte rilevante della nostra vita in comune. Quando camminiamo per
le strade di una periferia degradata ci immaginiamo come ci si debba sen-
tire a vivere in un posto così: non ci vuole molta fantasia, ma un po’ di
fantasia è necessaria. E ancora: i sentimenti e gli stati d’animo degli altri si
vedono, ma le cause si indovinano e se c’è una ragione per cui la metafora
della profondità si attaglia così bene alla descrizione della nostra vita di
relazioni è perché ci sembra che ci sia molto da immaginare al di là di ciò
che si mostra. Insomma: se non fossimo capaci di immaginare, la nostra
vita sarebbe singolarmente priva di spessore perché, per quanto possa sem-
brarci paradossale, le dimensioni della possibilità e dell’altrimenti, dell’as-
senza e della finzione appartengono al nostro mondo e sono ingredienti
essenziali della nostra vita reale. Per dirla in breve, una vita umana priva
di immaginazione non è forse possibile – e questo è il primo importante
risultato cui sembra condurci la nostra rivisitazione dell’esperimento men-
tale di Condillac.
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Un risultato prevedibile, non c’è dubbio, ma che non deve essere frain-
teso, quasi che di qui si possa trarre la conclusione che l’immaginazione
sia un ingrediente necessario, qualcosa che doveva esserci e che non poteva
mancare nel kit di costruzione di una statua qualsiasi. In fondo, non c’è
fatto che non si ammanti della luce della necessità quando lo si coglie come
condizione cui è vincolato il nostro presente. Doveva necessariamente ac-
cadere un’infinità di eventi maiuscoli e di vicende insignificanti perché ac-
cadesse un fatto da cui ci sembra impossibile prescindere – la nostra na-
scita, per esempio; così accade anche dell’immaginazione: ci sembra ne-
cessaria solo perché appartiene ad un quadro che non possiamo cambiare,
poiché ne facciamo parte.
Forse una creatura senza immaginazione non avrebbe più per noi il ca-
rattere dell’umanità, ma questo ancora non significa che nel cammino mol-
teplice e vario dell’evoluzione non siano sorte forme di vita prive di questa
facoltà e le libere considerazioni che abbiamo appena svolto non ci auto-
rizzano affatto a pensare che non vi siano altri strumenti e altre forme che
l’evoluzione delle specie ha selezionato per soddisfare in altro modo i bi-
sogni che la vita pone. L’immaginazione è una facoltà tra le altre e se noi
uomini possiamo avvalercene è ragionevole attendersi che vi siano motivi
di ordine biologico ed evolutivo che hanno fatto sì che animali come gli
uomini fossero capaci di affiancare allo scenario percettivo gli scenari della
fantasia. Siamo fatti così – questo è il punto, ma prenderne atto significa
insieme rendersi conto che avremmo potuto essere diversi e che la nostra
capacità di immaginare è una forma, biologicamente utile, per far fronte ad
un insieme di esigenze vitali cui tuttavia sarebbe stato possibile rispondere
diversamente. Le formiche e le api o i vermi – diceva Aristotele – non im-
maginano affatto e se accettiamo di farci guidare almeno qui dall’autorità
dell’ipse dixit, dobbiamo riconoscere che se la cavano egregiamente lo
stesso: su questo pianeta le formiche ci sono da almeno 140 milioni di anni
ed è molto probabile che continueranno ad esserci anche dopo di noi. È
andata così: gli uomini si sono adattati alle condizioni ambientali giocando
la carta della coscienza. La selezione naturale ha premiato, nel nostro caso,
la consapevolezza e la progettualità, e così siamo diventati soggetti consa-
pevoli, capaci di ricordare, di immaginare, di pensare, di preoccuparci per
il futuro e di imparare gli uni dagli altri e dalle circostanze della vita. La
consapevolezza e la razionalità sono diventate i nostri migliori artigli, ma
è opportuno rammentare che da un punto di vista evolutivo non è affatto
detto che questa sia la strategia vincente o che sia da ogni punto di vista la
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migliore: è solo la via che ha condotto sino a noi. Noi, tuttavia, non siamo
affatto il frutto maturo dell’evoluzione (un’espressione, questa, alla lettera
priva di senso) e non è improbabile che se mai in un futuro lontano un
abitante di un qualche lontano pianeta scenderà sulla nostra Terra, ad ac-
coglierlo non troverà le fanfare degli uomini, ma il tramestio sommesso
delle formiche.
Di qui la conclusione che possiamo trarre: forse una vita propriamente
umana che sia priva dell’immaginazione non è pensabile, ma ciò non toglie
che sia in fondo soltanto un caso che l’uomo abbia la capacità di immagi-
nare, proprio come è un caso che i gatti abbiano le vibrisse o che le vipere
siano velenose. È andata così, ma avrebbe potuto andare diversamente e se
ci disponiamo sul terreno di una riflessione naturalisticamente atteggiata
dobbiamo semplicemente riconoscere che l’immaginazione è un fatto, tra
gli altri.
Vi è tuttavia una seconda ragione che ci invita a guardare con sospetto
alle riflessioni che abbiamo proposto. Condillac ci invita a un gioco che
solo apparentemente ha un senso preciso: ci invita a pensare che si possa
aggiungere ad una statua ora l’olfatto, ora il tatto, ora la percezione visiva,
ma non sembra rendersi conto che “sentire”, “annusare” o “vedere” sono
verbi equivoci che significano una cosa per noi uomini, un’altra per le rane,
per le mosche o per i pesci. E non si tratta di differenze soltanto quantita-
tive: si tratta di differenze ben più rilevanti che ci costringono a constatare
che vi sono molti e diversi modi di trarre informazioni dall’ambiente che
ci circonda. Un discorso analogo vale anche per l’immaginazione: non è
tanto la relativa vaghezza di questo termine a rendere poco chiare le analisi
che abbiamo proposto, quanto la constatazione che l’immaginazione, come
ogni altra facoltà, ha una sua storia evolutiva ed esiste in forme diverse e
per gradi – per così dire. Così, se volessimo davvero descrivere il processo
che consente alla nostra statua di immaginare come noi immaginiamo, do-
vremmo percorrere un cammino intricato e tutt’altro che lineare: il cam-
mino che ha reso la mente capace di fare molte e diverse cose, in una forma
determinata.
Narrare questa storia, i cui contorni sono ancora in gran parte oscuri, è
un compito che mi supera e in cui non intendo affatto avventurarmi, ma se
fosse lecito imparare qualcosa dagli schizzi di una di biologia immaginaria
si potrebbe osservare che una prima radice dell’immaginazione ci ricon-
duce probabilmente alla struttura delle rappresentazioni e dei processi
mentali che scandiscono il nostro percepire e riconoscere gli oggetti. Sul
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tavolo vi è un libro e io lo vedo e lo colgo per quello che è – lo vedo come
un libro, appunto; perché ciò accada, tuttavia, è necessario che il materiale
sensibile sia in qualche modo elaborato e computato a livello cerebrale. In
un senso relativamente ovvio, non si vede affatto con gli occhi, ma con il
cervello perché è solo a livello cerebrale che i dati sensibili vengono com-
putati e trasformati in rappresentazioni mentali che ci parlano del mondo
esterno. Le molte immagini che si formano sulla retina non sono ancora
ciò che vediamo, ma solo informazioni che devono essere in vario modo
analizzate perché sia possibile creare una mappa del mondo circostante che
ci dica che là dove si disegnano discontinuità cromatiche vi sono oggetti
che si stagliano su uno sfondo o che il modificarsi secondo una regola di
queste aree cromatiche corrisponde ad una diversa relazione spaziale con
un determinato oggetto che, a sua volta, riconosciamo perché corrisponde
a un modello che abbiamo archiviato nella memoria. Per vedere un libro
sul tavolo dobbiamo dunque innanzitutto poterci formare rappresentazioni
mentali che ci consentano di raccogliere le informazioni in un “linguaggio”
che le renda apprezzabili nel loro contenuto di senso e che ci consenta da
un lato di attribuire ai dati sensibili il valore di una descrizione obiettiva e
dall’altro di ricondurre le rappresentazioni che hanno un oggetto per con-
tenuto ai pattern che abbiamo memorizzato e che ci consentono di ricono-
scere ciò che abbiamo davanti agli occhi. Se così stanno le cose, tuttavia,
non è sufficiente che i dati sensibili vengano raccolti in rappresentazioni
mentali: è anche necessario che su queste rappresentazioni si possa operare
in vario modo e che sia, per esempio, possibile “ruotarle” mentalmente, per
riconoscere che ciò che vediamo camminando sono gli stessi oggetti che
vedevamo poc’anzi, anche se colti da una prospettiva lievemente mutata.
Vedere significa dunque tutto questo: significa mettere in gioco rappre-
sentazioni e processi mentali che delineano una mappa del mondo che ci
consente di orientarci rispetto alle cose e insieme anche di disporre degli
strumenti necessari per mantenere la presa sul mondo quando ci muoviamo
o per sapere che cosa puoi vedere tu di quello che vedo ora io. Le informa-
zioni sensibili debbono essere dunque codificate e interpretate, e vi sono
rilevanti evidenze sperimentali – e su questo tema sono soprattutto i lavori
di Kosslyn che debbono essere rammentati – che il nostro cervello trascriva
le informazioni che riceve dai sensi in un formato prevalentemente pitto-
rico e non proposizionale: ci formiamo immagini delle cose e operiamo
con queste immagini in vario modo. Di qui sembra possibile muovere per
una formulare una prima ipotesi: è sufficiente che le rappresentazioni e i
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processi mentali che sono implicati nelle operazioni percettive divengano
liberamente disponibili per la mente perché sia possibile indicare da un lato
l’origine della nostra abilità nel visualizzare ciò che è assente e, dall’altro,
per comprendere che cosa potrebbe sorreggerci nella prassi immaginativa.
Per immaginare sono necessari schemi mentali – questo è il punto. Gli
schemi mentali sono necessari per ogni procedura immaginativa perché si
può delineare ciò che è soltanto possibile solo se ci si lascia guidare da un
insieme di mappe che ci consentono di fare del noto una guida per adden-
trarci nell’orizzonte incerto di ciò che non è accaduto. Un bambino afferra
un ramo e inscena un duello: sa che cos’è una spada e nel gioco può la-
sciarsi guidare da un’analogia che non deve per questo assumere la forma
di un ragionamento esplicito. Nel gioco il ramo diventa una spada, ma lo
diventa solo perché le spade hanno una forma che il bambino conosce bene
e che consente una proiezione analogica su un oggetto che in qualche mi-
sura somigli loro: un’estremità del ramo sarà l’elsa, un’altra sarà la punta,
e basterà agitare quel pezzo di legno perché nel gioco si insceni un duello.
Giocare, a sua volta, non significa soltanto usare un ramo come una spada,
ma vuol dire anche imparare a cimentarsi in un duello – ed imparare a farlo
senza correre il rischio di farsi del male. Possiamo cogliere in un ramo una
spada solo perché ne possediamo lo schema mentale, ma possiamo com-
prendere meglio che cosa significhi tirare di scherma agitando un ramo che
non può ferirci e che può essere brandito senza abbandonare lo spazio si-
curo del gioco.
Una seconda radice dell’immaginazione ci riconduce probabilmente al
terreno dei processi che accompagnano le forme varie del comportamento
motorio. Per poter agire è necessario fare affidamento su una mappatura
delle conseguenze dei nostri movimenti e di fatto le nostre azioni sono ac-
compagnate, sia pure inconsapevolmente, da modelli che simulano i nostri
movimenti, prevedendone l’esito. Forse è di qui che è sorta la nostra capa-
cità di rappresentarci le nostre azioni e di saperle imitare – una capacità
che è all’origine di molte forme in cui si esercita l’immaginazione umana,
ma che è all’opera anche nel mondo animale: due cani che si inseguono
per gioco sanno imitare la fuga e l’aggressione, la resa e la sfida, e sanno
farlo nello spazio sospeso del gioco. Certo, quando parliamo del gioco ne-
gli animali non possiamo semplicemente pensarlo nel calco delle forme
umane che danno un significato immediato a questo concetto. Che un cane
cerchi l’attenzione del padrone e la richieda talora imitando i gesti dell’ag-
gressione e della fuga è difficile non vederlo, ma non appena si cerca di
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descrivere a parole ciò che si osserva si ha l’impressione che il nostro vo-
cabolario non ci sorregga e che le parole che vorremmo impiegare siano,
per così dire, troppo pesanti ed impegnative e che debbano essere liberate
dalle molte promesse che ad esse si legano. Un cane imita i movimenti
della fuga per farsi inseguire da un compagno di giochi, ma questo impiego
metacomunicativo della mimesi ci consente davvero di dire che stiamo as-
sistendo ad una recita consapevole che un attore a quattro zampe mette in
scena per dire quel che desidera? Si dice che scimpanzé cresciuti a stretto
contatto con l’uomo mostrino forme di gioco simbolico: cullano bambole
di pezza e fingono di nutrirle, ma si tratta davvero di una dimostrazione del
fatto che uno scimpanzé gioca come un bambino? Non vi è dubbio che si
tratti di questioni empiriche molto complesse e sarebbe semplicemente un
errore pensare che il filosofo possa venirne a capo con un tratto di penna,
ma sottolineare queste differenze non può impedirci di cogliere che l’im-
maginazione ha una storia che almeno in parte si radica in un insieme di
abilità che sono sorte per caso e che sono state in parte selezionate per altri
fini. Se possiamo giocare e recitare e fingere è anche perché, per tutt’altre
ragioni, era opportuno che il nostro cervello sapesse affiancare alle nostre
azioni una simulazione dei nostri movimenti.
Una terza radice potrebbe infine ricondurci agli studi sulla creatività che
in diverse occasioni hanno sottolineato che il pensiero creativo si radica
almeno in parte nella storia evolutiva del nostro cervello e nella progressiva
espansione delle aeree corticali frontali e prefrontali. Il cervello non è il
frutto di un progetto unitario, ma si è formato nel tempo, aggiungendo parti
a parti, in un processo che ha consentito di attribuire alle strutture sottocor-
ticali almeno in parte una funzione nuova: le ha coinvolte nella produzione
analogica di soluzioni nuove, libere da un controllo immediato di natura
razionale. La creatività dipenderebbe dunque, almeno in parte, dal dialogo
continuo tra le strutture sottocorticali, cui è affidato il compito di produrre
liberamente variazioni, e la corteccia frontale, che le vaglierebbe e le sele-
zionerebbe. Come in una città antica, il sorgere di periferie ordinate attri-
buisce all’intreccio disordinato di strade del centro una funzione ed un fa-
scino nuovi, così l’immaginazione creativa sarebbe il frutto di un sovrap-
porsi di parti a parti, di un riutilizzo sapiente, ma casuale di funzioni diffe-
renti, per crearne una nuova e utile.
Certo, da questo breve saggio di biologia immaginaria vi è poco da im-
parare –questo è ovvio; e tuttavia, se può avere un senso avventurarsi su
questo terreno è solo perché provare a riflettere su questo tema ci aiuta a
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vedere meglio che se anche le cose non sono andate proprio così, debbono
essere comunque andate in un modo che per sommi capi gli assomiglia:
l’immaginazione è accaduta, così come è accaduto che le foglie diventas-
sero spine e che questa variazione casuale fosse utile alla pianta. Vista di
qui, dalla prospettiva di una possibile genesi evolutiva, l’immaginazione ci
appare come una strategia utile per sopravvivere, ma insieme come un fatto
che avrebbe potuto non accadere o accadere diversamente. Insomma: dob-
biamo trattare l’immaginazione proprio come tratteremmo altre capacità
che ineriscono alla vita animale come l’olfatto o il senso dell’equilibrio –
e ciò significa che dobbiamo chiederci dapprima da quali organi più ele-
mentari abbiano avuto origine le capacità di cui ci interessiamo, per poi
interrogarci sui vantaggi evolutivi che offrono alla specie che li possiede e
che sono probabilmente il motivo che ne ha determinato l’affermazione nel
contesto della selezione naturale. Rammentarlo è importante, ed è questo
l’unico scopo delle considerazioni che abbiamo proposto sin qui.
2. Una diversa prospettiva
In una delle sue osservazioni sulla filosofia della psicologia (Wittgenstein
1949: 192) Wittgenstein si domandava se fosse concepibile un mondo in
cui non fosse concepibile fingere un’emozione, e le considerazioni che ab-
biamo appena proposto potrebbero essere lette proprio così – come una
risposta affermativa a questa domanda. Le cose sono andate così, ed è per
questo che l’immaginazione è diventata in certe specie animali una strate-
gia vincente: è utile saper imitare e fingere certi comportamenti e non solo
per ingannare gli altri, così come è utile disporre il reale sullo sfondo del
possibile o sperimentare nel gioco i comportamenti e le emozioni che ren-
dono complessa la vita reale. L’immaginazione è una facoltà utile, ma non
è per questo necessaria: avremmo potuto farne a meno, proprio come gli
uccelli fanno a meno dei denti o i pesci sopravvivono anche senza gli arti-
gli. Siamo fatti così, ma avremmo potuto essere diversi e sarebbe stato op-
portuno essere privi di immaginazione se la nostra natura fosse stata di-
versa. Per la spiga di grano non sarebbe poi un grande vantaggio immagi-
nare la falce che la reciderà o fingere di essere matura prima del tempo:
l’immaginazione ha un significato biologico solo se sono presupposte
molte altre funzioni vitali e molte altre capacità psicologiche, senza le quali
immaginare qualcosa – se mai fosse possibile – sarebbe comunque del tutto
inutile. È andata così, appunto, ma ciò ora che ci sembra appartenere ne-
cessariamente alla nostra vita è di fatto solo un caso che si intreccia con
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un’infinità di altri casi, per formare un nodo che non ci sembra possibile
sciogliere solo perché sono i suoi lacci che tengono insieme la nostra vita.
Se dunque ci disponiamo in una prospettiva di stampo naturalistico, alla
domanda di Wittgenstein si può rispondere affermativamente senza troppe
esitazioni, additando quel tempo futuro in cui noi non ci saremo più, ma ci
saranno ancora le formiche.
Se ci disponiamo in una prospettiva naturalistica – questo è il punto. Ora,
non vi è dubbio che questa prospettiva di analisi sia del tutto legittima e
che sia anzi la sola che ci consente di rendere conto della natura fattuale di
questa facoltà così mutevole e varia. Che cosa sia l’immaginazione lo può
scoprire soltanto l’indagine empirica e naturalistica, ma questo non vuol
dire che non abbia un senso cercare di far luce descrittivamente sul signi-
ficato che a questa parola attribuiamo quando ci disponiamo all’interno
della nostra cultura e della nostra forma umana di vita. L’immaginazione
non è soltanto un fatto tra gli altri, ma è anche il titolo generale sotto cui
raccogliere una molteplicità di forme che appartengono all’universo del
nostro linguaggio e che disegnano l’orizzonte di senso entro il quale si di-
spiega la nostra esperienza e le forme del nostro comprendere.
Credo che vi siano due differenti ordini di considerazioni che ci spingono
a dir così. Il primo è il più ovvio e ci invita a rammentare che nella dimen-
sione biologica si innesta la dimensione culturale e che ciò che chiamiamo
immaginazione si trova comunque al di sopra del punto di innesto e si de-
termina nel suo senso anche a partire di qui – dalla trama articolata delle
nostre forme di vita. Certo, la dimensione culturale ha un fondamento na-
turale ed è senz’altro giusto, oltre che ovvio, riconoscere che siamo fatti
così per ragioni biologiche, ma il modo in cui siamo fatti non pronuncia
l’ultima parola sul senso che dobbiamo attribuire alla dimensione culturale
e umana della nostra prassi. Camminiamo perché abbiamo le gambe e per-
ché tre milioni di anni fa in una certa specie di australopitechi l’arco plan-
tare si è modificato, consentendo a quei nostri lontani progenitori un’anda-
tura eretta – probabilmente le cose sono andate proprio così, ma per cercare
di far luce sul significato che hanno espressioni come “passeggiare”, “mar-
ciare” o “girovagare” è necessario chiamare in causa qualcosa di diverso
dalla nostra storia biologico-evolutiva – è necessario descrivere un insieme
di regole e comportamenti che caratterizzano la prassi e la forma di vita
dell’uomo, anche se questo non vuol dire che queste forme non affondino
a loro volta le radici in fatti biologicamente rilevanti.
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Lo stesso accade per l’immaginazione: anche l’immaginazione è una fa-
coltà che ha radici biologiche che è importante mettere in luce, ma noi ce
ne avvaliamo in forme e contesti diversi che le danno un significato nuovo
che si manifesta nei molteplici modi in cui ne parliamo. Vi è una capacità
che ha un suo fondamento nella natura del nostro cervello: sappiamo farci
immagini di ciò che è assente e sappiamo simulare le nostre e le altrui espe-
rienze senza per questo farle diventare realmente operative nella nostra
vita. Sappiamo metterci nei panni degli altri e rivivere “offline” le loro cre-
denze e i loro desideri. Rammentare queste facoltà e la loro origine naturale
tuttavia non basta se si vuol dire quale senso e quale forma abbiano i de-
corsi immaginativi nella nostra esperienza: non basta, perché l’immagina-
zione non è solo un corredo della nostra vita animale, ma è anche il luogo
in cui si manifestano le regole e le forme della nostra cultura. Noi uomini
siamo animali che raccontano e il narrare ha senz’altro una funzione bio-
logica, ma sarebbe un inutile (e pericoloso) eccesso di zelo chiedersi se la
Divina commedia è biologicamente utile o dannosa, perché anche se lo
fosse non ci direbbe poi molto sulla natura di quel testo. Pretendere di vin-
colare ciò che l’immaginazione è diventata a ciò che l’immaginazione è
nel suo fondamento biologico significa immiserirla nel suo senso.
Vi è tuttavia una seconda ragione che ci invita a considerare che dell’im-
maginazione non si deve parlare soltanto da un punto di vista biologico: se
ci disponiamo all’interno della prospettiva che caratterizza la nostra forma
di vita e se non ci pensiamo per un attimo come una parte tra le altre del
mondo (cosa che comunque di fatto siamo), ma come il luogo a partire dal
quale il mondo si manifesta, dobbiamo riconoscere che la percezione, il
pensiero e, in generale, le forme della nostra esperienza sono il linguaggio
entro cui si disegna la realtà così come la conosciamo e la viviamo. In que-
sta prospettiva l’immaginazione non è qualcosa di cui parliamo e che ci
raffiguriamo, ma è uno strumento del raffigurare, un mezzo che ci consente
di dire molte cose: non appartiene dunque ai contenuti, ma alle forme at-
traverso le quali abbiamo un’esperienza del mondo. In questa prospettiva,
insomma, l’immaginazione è il titolo generale sotto cui raccogliamo una
famiglia ampia di significati e, insieme, una molteplicità di possibili fun-
zioni di senso.
Ci troviamo così nel cuor di un apparente paradosso. Siamo il frutto di
un processo evolutivo complesso, ma questo stesso processo ci consente di
accedere ad un sistema di ragioni e di significati in virtù dei quali il mondo
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è presente per noi come un titolo ampio di problemi che abbraccia eviden-
temente anche il nostro essere consapevoli che siamo il frutto di una evo-
luzione complessa che ci ha casualmente condotti ad avere un cervello fatto
così, che reagisce in modo determinato alle sollecitazioni che riceve. Siamo
questo fatto, ma il fatto che siamo ha reso possibile una dimensione nuova:
la dimensione che ci consente di comprendere e di conoscere molte cose e
tra queste molte cose circa l’operare del nostro cervello. Ci troviamo così
nelle maglie di un paradosso tutt’altro che nuovo: c’è un senso in cui la
nostra mente è un fatto tra gli altri – un fatto di cui si deve rendere conto,
sottolineando che le cose avrebbero potuto essere altrimenti, ma vi è un
diverso senso che ci costringe a riconoscere che non è affatto possibile ri-
condurre le forme del ragionamento e l’universo dei significati entro cui si
costituisce per noi l’immagine del nostro mondo ad un fatto tra gli altri, ad
una parte di quello stesso mondo che avrebbe potuto essere diversa.
Non è un paradosso nuovo, ma questo non significa che sia infondato o
che, per tentare di scioglierlo, ci si debba avventurare sul terreno malcerto
dell’io puro e dell’io empirico. Ci si può fermare prima di questi esiti così
incerti perché per sciogliere il nodo cui abbiamo alluso è sufficiente rico-
noscere che anche se la nostra esperienza è un accadimento tra gli altri che
in larga misura dipende dal nostro essere un fatto tra gli altri, ciò nonostante
assume una funzione diversa quando la consideriamo come lo spazio entro
il quale si costituisce per noi questo nostro mondo. In sé, il metro campione
custodito a Parigi è un pezzo di platino lungo all’incirca un metro: è un
oggetto che può essere misurato e che ha certe proprietà – tra queste una
certa limitata variabilità della sua lunghezza obiettiva, dovuta alla tempe-
ratura, per esempio. Se l’assumiamo invece come paradigma cui ancorare
la possibilità stessa del misurare, allora non potremo più dire che è lungo
un metro perché quell’oggetto smette di essere qualcosa di cui la misura-
zione ci parla e diviene un mezzo del misurare, uno strumento che ne rac-
chiude la regola e ne fissa le condizioni di possibilità. Lo stesso accade
all’immaginazione che è certo una capacità reale del nostro cervello e
quindi in questo senso un fatto tra gli altri, ma è anche una forma che ap-
partiene alla grammatica della nostra esperienza e che, come tale, rende
possibili e sensati una molteplicità di giochi linguistici.
Queste considerazioni mi sembrano evidenti in se stesse, eppure sem-
brano costringerci a sostenere che qualcosa – la nostra mente – sia un fatto,
ma non possa essere considerata così, come un fatto. Ora, che non sia pos-
sibile vincolare lo spazio logico delle ragioni allo spazio delle cause è una
15
constatazione da cui non mi sembra possibile sottrarsi. Che il nostro cer-
vello sia il frutto casuale di un’evoluzione biologica che l’ha condotto a
operare così e così è una tesi di una teoria logicamente strutturata che ab-
biamo ragione di ritenere vera, ma proprio per questo non possiamo vinco-
lare il rigore logico, la sensatezza, la plausibilità e l’evidenza di quella teo-
ria al fatto che così ci appare dato che il nostro cervello ha casualmente
questa forma perché altrimenti potrebbe accadere che questa proposizione
– la proposizione che asserisce che l’essere fatto così e così del nostro cer-
vello determina la natura dei nostri ragionamenti e la loro validità – ci ap-
paia prima o poi falsa per ragioni evolutive. Un giorno potrebbe accadere
che questo principio generalissimo ci appaia falso – anzi, per quel che mi
riguarda quel giorno è già giunto; tuttavia se pensiamo, in accordo con il
fraintendimento da cui vorrei liberarmi, che i principi logici siano detti veri
o falsi perché il nostro cervello è fatto in un certo modo, allora dovremmo
riconoscere che potrebbe accadere per ragioni evolutive che debba essere
considerato falso il principio secondo il quale i principi sono veri e credibili
per ragioni evolutive. Il nostro cervello è un fatto ed è un fatto che esso
funzioni così, ma non possiamo far valere questa verità ovvia sul terreno
logico perché ciò significa dimenticare la funzione nuova cui assolvono su
questo terreno le sue operazioni, proprio come non sarebbe legittimo dire
del metro campione di Parigi che è lungo all’incirca un metro, anche se è
semplicemente vero che quella barra di platino è proprio lunga così.
Ora, quello che vale per la logica, vale anche per le forme che caratteriz-
zano le procedure immaginative di cui ci avvaliamo: per raccontare una
favola e per comprenderla dobbiamo essere in grado di fare molte cose, ma
se gli uomini non avessero queste capacità verrebbe meno la presenza delle
finzioni narrative nel nostro mondo e nella nostra cultura, non la loro pos-
sibilità ideale e nemmeno la loro natura. Insomma: immaginiamo perché
siamo fatti così e il nostro avere proprio queste e non altre capacità intel-
lettuali è un fatto tra gli altri, ma questo non significa ancora che l’imma-
ginazione – nel suo porsi come una possibilità che appartiene all’universo
della sensatezza – possa essere considerata semplicemente un fatto tra gli
altri. Ragioniamo e immaginiamo e ricordiamo perché la ragione, la me-
moria e l’immaginazione sono strumenti utili per la sopravvivenza, ma non
possiamo per questo sostenere che ragione, memoria e immaginazione
siano soltanto forme del nostro adattamento biologico: sono anche i titoli
generali sotto cui raccogliere una molteplicità di contenuti che debbono
essere analizzati nel loro senso e nella loro forma.
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Di qui la prospettiva metodologica che caratterizza queste pagine. Non
intendo muovermi sul terreno generale di una filosofia della mente – questo
concetto che mi sembra in fondo ambiguo e come sospeso tra due prospet-
tive legittime – ma vorrei cercare invece di far luce da un punto di vista
descrittivo sulla natura degli oggetti che cerchiamo di immaginare e di cui
abbiamo esperienza. Non ci immergeremo dunque, d’ora in poi, in una ri-
flessione sul fatto, così rilevante dal punto di vista naturalistico, che l’uomo
è un animale che sa immaginare, ma cercheremo invece di descrivere qual
è la natura dei differenti prodotti immaginativi che appartengono all’uni-
verso sensato della nostra vitae come sono strutturate le molte cose che
immaginiamo. Il nostro obiettivo è questo anche se, per cercare di raggiun-
gerlo, non potremo non parlare degli atti immaginativi entro cui soltanto
prendono forma per noi gli oggetti dell’immaginazione.
Se ci poniamo in questa prospettiva teorica, la domanda di Wittgenstein
cui avevamo precedentemente alluso assume evidentemente un altro signi-
ficato. Ci invita a chiederci se non appartiene alla logica dell’espressione
delle emozioni la possibilità di simularle, ed una simile domanda ci invita
a pensare che l’immaginazione non è soltanto un fatto, come gli artigli e le
vibrisse, ma è anche il titolo generale sotto cui raccogliere una molteplicità
di possibilità ideali. I fatti ci sono e accadono, ma basta fare anche soltanto
un passo nello spazio logico delle ragioni perché certe mosse ci appaiano
nel loro essere idealmente possibili. Posso raccontare un fatto che è acca-
duto realmente, ma posso anche narrare una favola: è una possibilità ideale
le cui condizioni sono poste insieme al gioco linguistico che ci consente di
rendere conto di ciò che è accaduto. È una possibilità ideale che gli oggetti
nello spazio ludico siano caratterizzati dalle proprietà che vengono decise
nel gioco: nulla ci vieta di fare come se un ramo fosse una spada o uno
strofinaccio da cucina un manto regalo. Possiamo farlo, così come pos-
siamo immaginare un diverso corso degli eventi passati e futuri. Si tratta
di possibilità ideali che appartengono alla dimensione logica – quella di-
mensione entro la quale ci disponiamo non appena accettiamo di disporci
sul terreno di certi giochi linguistici2.
Sul senso di queste considerazioni è opportuno insistere un poco e per
farlo vorrei dispormi per un attimo sul terreno – vedi il caso! – di una fin-
zione. Immaginiamo che vi sia una strana tribù – una di quelle tribù che
esistono solo nei libri di filosofia e che chiameremo per comodità la tribù
2 Su questo punto si veda Lorenzen 1969.
17
degli assertivi – che parli e viva come noi, ma che non conosca l’uso della
negazione e che si limiti per questo a fare sempre e solo affermazioni in
positivo, descrivendo le cose così come stanno e mai come non sono. Gli
assertivi possono dunque affermare un’infinità di cose e non è difficile ren-
dersi conto che alcune delle proposizioni che possono enunciare avranno
in un determinato contesto il significato pragmatico di una negazione: così,
se immaginiamo di chiedere ad un assertivo se ho lasciato la mia penna sul
tavolo risponderà, se la penna non c’è, dicendo che vi è un libro ed un
foglio, per starsene poi beatamente in silenzio.
Non so dire quali e quante siano le limitazioni cui agli assertivi andreb-
bero incontro e non so nemmeno sin dove questo strano gioco possa essere
davvero perseguito, ma una cosa mi sembra ovvia: la negazione come
forma logica non sarebbe toccata nella sua natura e nel suo status teorico
dai vezzi di questi strani parlanti. Tutt’altro: la negazione resterebbe quello
che è – una possibilità ideale che non ha bisogno di qualcuno che se ne
avvalga per avere comunque un suo senso. Uno stesso discorso vale per le
forme dell’immaginazione. Io non so se esista una forma di cultura che non
conosca la dimensione del racconto e che non abbia esplorato le possibilità
che la finzione narrativa comporta, ma anche se (come credo) fosse possi-
bile affermare che ogni cultura umana conosce i rudimenti dell’arte del
narrare, ciò non toglie che potremmo a nostra volta immaginare che in una
qualche sperduta valle alpina vi sia una qualche tribù – la tribù delle verità
effettuali – che non conosca il fascino dell’inventare storie e del raccon-
tarle. Possiamo assumere in linea ipotetica che così stiamo le cose, ma que-
sto non ci permetterebbe ancora di negare che il terreno della finzione è e
resta una possibilità ideale anche per gli adepti di questa strana tribù, – una
possibilità inesplorata, forse, ma non per questo meno percorribile.
Ma che dire se improvvisamente – per un qualche strano accidente – di-
ventassimo tutti incapaci di raccontare storie o di fingere che le cose stiano
in un determinato modo nel gioco? Non dovremmo semplicemente soste-
nere che quelle possibilità ideali hanno smesso di essere tali? Certo, do-
vremmo riconoscerlo, ed è importante farlo perché ci consente di mettere
da canto un fraintendimento possibile. Il narrare è una possibilità ideale –
ci siamo espressi così, ma questo modo di esprimersi sembra gettare
un’ombra platonica sulla natura dei nostri discorsi, quasi che abbia un
senso pensare che vi sia un cielo sopra il cielo dove le possibilità ideali
attendono qualcuno che le pensi e che le viva e quasi che le molteplici
forme di senso che si legano a ciò che chiamiamo immaginazione siano
18
state da sempre ad aspettarci nella loro intatta natura di forme, prive di
qualsiasi legame con la dimensione quotidiana del nostro vivere. Non è
questo che penso. Se non fossero accadute molte cose, se nella nostra spe-
cie l’evoluzione non avesse preso proprio questa piega dei racconti non vi
sarebbe traccia, e non vi è dubbio che per comprendere il senso della prassi
narrativa è necessario proprio rammentare quello che siamo di fatto. Se i
racconti fossero possibilità ideali di un cielo iperuranio non ci interesse-
rebbero affatto. Dire tuttavia che sono possibilità ideali non significa que-
sto: vuol dire solo rammentare che se ci poniamo in quell’universo di senso
che di fatto è divenuto accessibile per noi, non possiamo più pensare che
si tratti di accidentalità, di meri eventi, così come non possiamo pensare
che la proprietà commutativa sia qualcosa che ha davvero a che fare con il
fatto che sul finire del cretaceo i primati abbiano cominciato a divergere
evolutivamente dagli altri mammiferi. Dire così non significa affermare
che la grammatica logica dell’addizione ci aspettasse impaziente nel cielo
delle idee e non significa nemmeno negare che la matematica sia sorta
dall’operare concreto con gli oggetti del nostro mondo e che sia sorta così
perché questo è il nostro mondo e questa la nostra vita: significa solo ram-
mentare che quel che di fatto è sorto non per questo ha necessariamente un
significato fattuale e non può quindi esser compreso costringendolo nello
spazio che compete a ciò che è soltanto un accadimento.
Se ci poniamo in questa prospettiva possiamo ripetere, attribuendole un
senso nuovo, una considerazione che avevamo proposto: un fatto ci sembra
necessario quando i suoi lacci formano il nodo che tiene insieme la nostra
vita. Certo, non posso immaginarmi privo di immaginazione, ma in questa
arguzia a buon mercato è tuttavia possibile scorgere un senso nuovo: è an-
data così, siamo animali che sanno immaginare, ma questo fatto (che
avrebbe potuto non accadere) ha assunto una funzione nuova: è divenuto
parte del dispositivo che ci consente di farci un’idea dei fatti. Non c’è nulla
di necessario in quello che siamo, ma quello che siamo assume una fun-
zione nuova non appena rammentiamo che è di qui che il mondo e noi
stessi diveniamo parte del discorso che li comprende. Così, prendere le di-
stanze dal tentativo di ricondurre l’immaginazione e i suoi prodotti alla
dimensione psicologico-fattuale del nostro esserci non vuol dire per questo
negare che la prospettiva che abbiamo sui nostri giochi linguistici sia co-
munque vincolata al nostro essere proprio così – come siamo. Tutt’altro:
la nostra presa sulla dimensione del senso è determinata dalla nostra natura
e dalla nostra vita. Tutto comincia da qui:
19
Non devi dimenticare che il gioco linguistico è, per così dire, qualcosa di impreve-
dibile. Voglio dire: non è fondato, non è ragionevole (o irragionevole). Sta lì – come
la nostra vita (Wittgenstein 1980, § 559).
Muoviamo di qui, dal mondo che è accessibile per noi. Comprenderlo si-
gnifica coglierlo come l’orizzonte entro cui siamo e viviamo, senza per
questo costringerci a confondere le ragioni con i fatti.
3. Uno sguardo in avanti
Parleremo dunque dell’immaginazione, e ne parleremo come di una forma
che appartiene alla dimensione umana della sensatezza. Cercheremo dap-
prima di far luce sulle diverse forme dell’immaginazione, distinguendone
il senso che hanno acquisito per noi, al di là della loro eventuale comune
origine fattuale. Ci troveremo così a privilegiare le distinzioni, al di là delle
ragioni che condurrebbero a vedere le linee di una genesi.
L’obiettivo di queste pagine, tuttavia, non consiste soltanto nel tracciare
qualche distinzione che ritengo importante per definire le differenti forme
dell’immaginazione. Vi è un altro obiettivo verso cui mirano: vorrebbero
cercare di far luce sulla presenza dell’immaginazione nella nostra vita quo-
tidiana. Il mondo così come lo esperiamo non è soltanto un mondo perce-
pito: è anche un mondo in cui ciò che è presente è vissuto sullo sfondo di
ciò che è soltanto possibile ed in cui anche il passato assume un senso sullo
sfondo di ciò che avrebbe potuto altrimenti accadere. La dimensione di ciò
che è reale acquista un senso per noi proprio perché si pone sullo sfondo
del possibile che è sempre in qualche modo tacitamente presente, ma che
talvolta ci si dà come un ingrediente proprio della nostra esperienza. Basta
che il più piccolo degli incidenti si faccia avanti – la piccola spina che non
riuscite a levarvi dal dito – perché si facciano avanti le mille regole della
prudenza che avete infranto e che ora siete costretti a richiamare alla mente,
tracciando – accanto al corso reale degli eventi – la trama fragile delle pos-
sibilità, che illustrano che cosa avrebbe potuto accadere se avessimo indos-
sato dei guanti da lavoro, se avessimo fatto attenzione, o se avessimo la-
sciato fare ad altri un lavoro per cui non siamo tagliati. Ciò che accade ci
si dà come una coperta sottile che copre ciò che resta sottile – lo copre
senza cancellarlo e vi sono molti punti in cui la tela si smaglia e le possi-
bilità diventano un ingrediente avvertibile della nostra esperienza. Il rim-
pianto di un gesto avventato ci costringe a immaginare un altrimenti pos-
sibile, e lo stesso accade quando ci troviamo di fronte ad una scelta, a un
divieto, a un dubbio che non si scioglie e a mille altre occasioni in cui le
20
maglie del reale si fanno tanto larghe da fare emergere lo sfondo di ciò che
è o era possibile.
Il mondo così come lo esperiamo non è solo un mondo percepito: è anche
un mondo immaginato, in vario modo e non è possibile tacitare l’immagi-
nazione senza per questo alterare in profondità il senso di ciò di cui ab-
biamo esperienza. Si tratta di un’affermazione che è, io credo, in larga mi-
sura ovvia, ma anche in questo caso, è necessario mettere canto un frain-
tendimento possibile. La tesi che l’immaginazione sia necessariamente
coinvolta nel processo percettivo e faccia quindi parte del contenuto im-
mediato della nostra percezione risale almeno a Hume che nelle pagine del
Trattato sulla natura umana ci invita a pensare all’immaginazione come
ad una facoltà supplente: la percezione ha lacune che debbono essere in
vario modo sanate e l’immaginazione è la materia sottile che pervade la
fibra discontinua del percepire. Possiamo riconoscere la legna che ave-
vamo lasciato nel camino nella cenere che ora vediamo solo perché l’im-
maginazione suggerisce le immagini di un decorso cui non abbiamo assi-
stito ed è ancora l’immaginazione che supplisce le percezioni mancanti e
che ci consente di attribuire un’esistenza continuata e indipendente ai fogli,
ai libri e al tavolo che solo saltuariamente imprimono nell’animo le sensa-
zioni corrispondenti. Ora, è difficile dire se per queste vecchie tesi
humeane non sia possibile in altra forma un’eco nel presente – ma non è
questo il punto. Dal modello humeano dobbiamo comunque tenerci disco-
sti perché ciò che vogliamo discutere non concerne la dinamica esplicativa
di fenomeni che restano, nel loro senso, percettivi: ci interessa invece sot-
tolineare che vi sono esperienze in cui la trama del mondo percepito e reale
si arricchisce di elementi che rimandano nel loro senso più proprio all’im-
maginazione nelle sue molteplici e differenti forme. Dire che l’immagina-
zione è un ingrediente del mondo della vita vuol dire sostenere che nel
mondo che esperiamo vi sono aspetti che non si dispongono affatto sulla
dimensione del reale, per quanto stretto sia il legame che li stringe alla
realtà delle cose di cui abbiamo esperienza.
Come abbiamo osservato, queste esperienze concernono in qualche mi-
sura la dimensione del possibile: sarebbe tuttavia un errore credere che le
cose stiano sempre e soltanto così. L’immaginazione non è soltanto la fa-
coltà del possibile, ma è all’opera anche nella finzione narrativa, nella fin-
zione ludica o, più in generale, nelle valorizzazioni immaginative che per-
vadono la realtà e la determinano nel suo senso. Proprio su quest’ultimo
punto dovremo in seguito soffermarci, perché è proprio qui che è possibile
21
scorgere il ruolo che l’immaginazione gioca nel trasformare questo mondo
nel nostro mondo – in un mondo che ci appartiene e cui apparteniamo.
Che cosa intendo dire esattamente con queste considerazioni che sem-
brano ridestare i ricordi di una metafisica che non ha dalla sua nemmeno il
fascino della novità dovremo cercare di chiarirlo in seguito; ora vorrei li-
mitarmi a osservare che il mondo è davvero in qualche misura nostro per
molte e diverse ragioni, ma innanzitutto perché è penetrato – e già sul ter-
reno dell’esperienza quotidiana – dai nostri concetti e dalle reti metaforiche
che li strutturano. Senza voler necessariamente prendere questa espres-
sione alla lettera, noi vediamo montagne e colline, golfi e insenature, laghi
e stagni e fiumi e non c’è oggetto nel mondo che non ci appaia insieme alla
parola che lo determina concettualmente. Dire che il mondo è il nostro
mondo significa dunque, in primo luogo, affermare che calza bene con i
nostri concetti, un po’ come accade con le scarpe che sentiamo davvero
nostre quando cedono un poco e smettono di stringerci in punta. Questo è
vero in generale per ogni oggetto e per ogni evento, ma lo è in modo par-
ticolare per gli artefatti. Il mondo è il nostro mondo, in secondo luogo,
perché molte delle cose che ci circondano hanno origine dalla prassi umana
o sono immediatamente riconducibili ai nostri bisogni: quando ci aggi-
riamo per casa è difficile trovare anche soltanto un oggetto che non sia un
artefatto o che non si trovi dov’è perché in qualche modo ci serve. Il mondo
è il nostro mondo anche per questo. Vi è poi una terza ragione su cui sof-
fermarsi: il modo in cui mappiamo concettualmente il reale non è soltanto
determinato dalla dimensione obiettiva di ciò di cui discorriamo, ma anche
dalla via che abbiamo seguito per articolare la rete dei nostri concetti che
è nostra anche perché rispecchia le inclinazioni, la cultura e la forma di vita
che ci caratterizzano. I concetti sono un Giano bifronte che parla degli og-
getti, ma che non per questo tace della natura di chi se ne avvale. Render-
sene conto significa tra le altre cose rammentare che i concetti ci appaiono
strutturati in una rete di rimandi metaforici che ci consentono di creare
connessioni di vara natura. Così possiamo trovarci ai piedi di una monta-
gna, nel punto in cui fiume sbocca nel mare, nel seno di un golfo, in un
braccio di terra o in un ramo di un fiume o afferrare un fiore per il gambo
o stupirci di avere un tronco come gli alberi. I concetti sono fatti così – si
richiamano gli uni con gli altri e ci consentono di mappare, proiettando su
terreni, nuovi reti già altrimenti predisposte, ma insieme ci parlano di noi,
proprio come un cacciavite non ci dice soltanto che è fatto per serrare le
viti, ma ci mostra nella forma della sua impugnatura come è fatta la mano
22
che lo stringe. Che in questo processo la dimensione obiettiva si leghi a
orientamenti culturali storicamente determinati è relativamente ovvio, così
come è in qualche misura evidente che la dimensione analogica che è
all’opera nella mappatura concettuale del nostro mondo non può essere in-
teramente scissa dall’operare dell’immaginazione. In quarto luogo, infine,
il mondo ci si dà come questo nostro mondo perché alla percezione del
mondo si affianca di continuo la sua valorizzazione immaginativa, il fatto
che l’immaginazione scorge nelle cose i semi di una narrazione possibile.
Li scorge, ed è questo il punto su cui dovremo riflettere, là dove l’imporsi
univoco di una concettualizzazione del mondo si impania e ad essa si so-
stituisce il bisogno di una comprensione diversa e collaborativa che non si
ferma a constatare che le cose stanno in un certo mondo, ma ci invita a
operare perché possano apparire secondo una luce determinata. Il mondo è
il nostro mondo perché l’immaginazione cuce gli strappi che si aprono
nella nostra comprensione del mondo, li cuce rispondendo a esigenze di-
verse e molteplici, che danno una risposta particolare ai nostri bisogni.
Dovremo soffermarci a lungo su questo punto e tuttavia il senso di queste
considerazioni può essere colto con facilità. Sappiamo che la natura è sol-
tanto natura, che suoni e colori sono soltanto suoni e colori, ed in un certo
senso questo sapere fa parte della dimensione fenomenologica della nostra
esperienza e non poggia su atteggiamenti culturali o filosofici presupposti.
Lo sappiamo, e tuttavia la nostra esperienza delle cose non si libera mai da
una scenografia consueta che ce la rende vicina, e che si manifesta nel
senso latente che non possiamo non riconoscere nelle cose che esperiamo,
anche se per altri versi siamo inclini a negare che le cose siano come ap-
paiono. Le proprietà che l’immaginazione scopre sono proprietà mirabili,
ed è per questo che il modo della loro socializzazione si discosta con tanta
nettezza da ciò che di consueto accade. Qualche volta per decidere come
stiano le cose è necessario chiedere aiuto agli altri: sentiamo un rumore
flebile e chiediamo ad altri di ascoltare con noi perché vogliamo esser si-
curi di avere udito bene. Nel caso delle proprietà immaginarie il discorso
muta di segno: le fantasie si raccontano ad altri non per controllarne la ve-
ridicità, ma perché si consolidino nell’immaginarle insieme. L’immagina-
zione non cerca testimoni, ma ha bisogno di proseliti.
Di questo aspetto mirabile del mondo vorremmo cercare di dire qualcosa
e insieme indicare le ragioni che legano tutto questo all’immaginazione e
alle sue forme.
23
CAPITOLO PRIMO
L’IMMAGINAZIONE E LE SUE FORME
1. L’immaginazione e le immagini mentali
Dobbiamo dunque cercare di orientarci un poco sulle forme dei prodotti
immaginativi e sulla trama di significati che si costituiscono per noi all’in-
terno della nostra vita, e per farlo sembra essere innanzitutto possibile la-
sciarsi guidare dal linguaggio che tra le altre cose veicola ed esprime le
forme del discorso immaginativo.
Dell’immaginazione parliamo in molti modi, e ne parliamo ora per in-
tendere la nostra capacità di visualizzare una scena o un oggetto che non è
semplicemente presente, ora per alludere alla nostra capacità di figurarci il
futuro, ma anche eventi diversi da quelli che si sono realizzati. L’immagi-
nazione è un modo per raffigurarsi il possibile, ma è anche l’energia sottile
che anima il gioco infantile o che è all’opera nella lettura di un racconto –
o almeno: noi usiamo la stessa parola per intendere tutte queste cose. Im-
magino un volto, immagino quello che farò domani, immagino che cosa
avrebbe potuto essere la mia vita se fossi nato in un’altra epoca o in un
altro luogo, immagino che il divano sia una nave travolta dalle onde e im-
magino un ceppo di legno da catasta che protesta quando la pialla di Gep-
petto gli fa il pizzicorino.
Tutte queste cose le immaginiamo, o appunto: diciamo di immaginarle,
ma anche se il linguaggio ci consente di muoverci a nostro agio e se nor-
malmente non sorgono equivoci quando parliamo di immaginazione, sem-
bra in ogni caso legittimo avanzare più di un sospetto sulla possibilità di
fondare una filosofia dell’immaginazione sulla vaghezza dei nostri usi lin-
guistici. Le occasioni che ci consentono di parlare di immaginazione sono
varie e molto diverse le une dalle altre e il nostro avvalerci di una stessa
parola per intendere cose apparentemente diverse non è ancora una garan-
zia del fatto che un nucleo di significato invariante accomuni quei diversi
impieghi. Tutt’altro: in un passo delle Ricerche filosofiche Wittgenstein
osserva che la robustezza di una corda dipende dall’attrito e quindi dalla
forza con cui sono state intrecciate le molte fibre che la compongono e non
dal fatto che vi sia un unico filo che per intero l’attraversi; così stanno le
cose anche per le nostre parole il cui uso risponde spesso ad un intreccio di
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molti e diversi possibili impieghi e non dal fatto che un’unica fibra li leghi
gli uni agli altri.
Di qui il cammino che credo sia opportuno percorrere: se le parole non
garantiscono di per se stesse l’unicità di un concetto che le attraversi da
parte a parte, potrebbe essere tuttavia utile cercare di rendere in primo
luogo evidente dove l’intreccio stringa in unico nodo fibre che hanno una
diversa natura.
Ora, vi sono molte vie per venire a capo di questo intreccio, ma un per-
corso che sembra possibile seguire ci conduce sul terreno delle analisi in-
trospettive: certe volte l’immaginazione sembra coincidere con il pensiero,
altre con il ricordo, altre con le fantasticherie, ma forse per distinguere que-
ste forme le une dalle altre è sufficiente descrivere le immagini mentali che
ci facciamo perché sembra ovvio sostenere da un lato che le immagini men-
tali accompagnino ogni forma di immaginazione e che dall’altro il loro va-
riare possa dirci qualcosa anche delle diverse forme cui alludiamo quando
impieghiamo quel termine. Immagini un volto o lo ricordi? Per rispondere,
prova a descrivere quel che ti sembra di vedere balenare di fonte agli occhi
della mente. Che qualcosa si dia e che io possa descrivere ciò che avverto
è indubbio: per quanto sia breve il tempo in cui riesco a tenerla ferma e
nitida, sono lo stesso egualmente certo che nella mia mente si affacci
un’immagine visiva che ha un contenuto determinato e che posso descri-
vere nelle forme e nei modi in cui descriverei una percezione. Vogliamo
immaginare un volto e quel volto lo “vediamo” davanti a noi, e tuttavia è
sufficiente esprimersi così per rendersi conto che siamo costretti ad apporre
le virgolette al verbo “vedere” e questo non soltanto perché di fatto non
vediamo proprio nulla, ma anche perché è necessario far luce su un insieme
di differenze che l’introspezione ci mostra e che rendono queste immagini
profondamente diverse dalle scene percettive o dalle raffigurazioni nel
senso consueto del termine.
Si tratta di una differenza ben nota di cui si è cercato di rendere conto
dicendo che un’immagine mentale è per sua natura sfocata, che i suoi con-
torni sono più labili e che il suo rendersi disponibile al nostro sguardo è,
per così dire, minacciato dal tempo. Le immagini mentali svaniscono e non
hanno il carattere di un possesso sicuro, di cui si possa disporre a piacere.
Le immagini mentali, tuttavia, non sono soltanto tremule, ma hanno in
sé qualcosa che ci lascia perplessi e ci stupisce perché anche se ci sembra
di vedere il volto che immaginiamo, non sappiamo poi dire esattamente
quali siano i tratti che gli appartengono ed abbiamo anzi l’impressione che
25
ad ogni nuova domanda si possa rispondere solo mettendo in questione il
carattere di raffigurazione delle immagini mentali. Un quadro che raffigura
un paesaggio tace molte cose: suscita un’impressione, ma non può appa-
gare sempre il desiderio dei dettagli: vediamo gli alberi, ma non le loro
foglie, scorgiamo figure di cacciatori, ma non i lineamenti dei loro volti, e
così di seguito. Certe cose, tuttavia, un quadro non può non rappresentarle:
se raffigura il cielo, non può non fissarne il colore e se ci mostra delle ro-
vine in primo piano, non può tacere la forma di quelle antiche architetture.
Nel caso delle immagini mentali la situazione è più complessa. Nella nostra
mente l’immagine del volto di una persona nota si apre un varco tra gli altri
pensieri, e noi vediamo quel volto – ma questo significa forse che sa-
premmo davvero dire se in quell’immagine è reso quasi visibile anche il
colore degli occhi o la lunghezza delle ciglia o la piega dei capelli? Le
immagini mentali sono fatte così – sono in sé lacunose e comunque non
tollerano di essere osservate a lungo nello stesso modo in cui è invece pos-
sibile osservare a lungo un oggetto concreto o un quadro che lo raffiguri.
La natura flebile e incerta delle immagini mentali è già di per sé una
buona ragione per dubitare che sia questa la via da seguire per venire a
capo del nostro problema. Basta tuttavia riflettere un poco per rendersi
conto che vi sono altri motivi che rendono questa via difficilmente percor-
ribile. Qualcuno pronuncia un nome e questa parola evoca in me un volto,
ma in certi contesti non avremmo davvero difficoltà a dire che lo immagino
proprio perché lo ricordo bene, e questo modo di esprimersi dovrebbe met-
terci sull’avviso di una difficoltà su cui è necessario riflettere: una stessa
immagine mentale sembra oscillare tra due significati diversi. Alla radice
di questa oscillazione vi è un fatto rilevante: la possibilità di richiamare
alla mente l’aspetto di un volto ha come sua premessa il nostro averlo già
percepito. Tu pronunci un nome e quel nome evoca in me un’immagine –
la evoca solo se conosco quella persona e la ricordo. Ma ciò è quanto dire
che le immagini, in quanto tali, sono immagini rammentate – almeno per
ciò che concerne gli elementi semplici che le compongono.
Riconoscere questa verità elementare, che è all’origine della relazione
che fin dalle prime pagine del Trattato sulla natura umana di Hume lega
le impressioni alle idee, non significa tuttavia sostenere che ogni immagine
mentale sia un ricordo. Tutt’altro: una stessa immagine mentale può appa-
rirci ora come un ricordo, ora come una forma di visualizzazione, ma la
constatazione che una stessa immagine mentale può assumere forme di-
verse non significa sostenere che non sapremmo dire quando abbiamo a
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che fare con lo scenario memorativo e quando invece ci disponiamo sul
terreno di una visualizzazione. Piccole sfumature di contesto possono de-
terminare il senso di ciò che l’immagine dice. Posso discorrere con un
amico degli anni del liceo e ad un tratto può farsi strada nei nostri discorsi
un nome e, insieme ad esso, un volto: ora ci ricordiamo di Pietro, proprio
com’era negli anni del liceo ed in questo caso il fatto che l’immagine men-
tale sia una traccia di una percezione ormai lontana è tutt’altro che irrile-
vante poiché il senso che attribuiamo a quell’immagine è tutto racchiuso
nel suo riproporci quel volto così come un tempo lo abbiamo visto. Un’im-
magine si fa strada nella mente ed esclamiamo: “Pietro! Me lo ricordo
bene” e se diciamo così è perché quel volto ci parla di un passato e ci dice
che così stavano le cose tempo addietro. È tuttavia sufficiente una diversa
scena perché quella stessa immagine assuma un senso nuovo: ora tu
esclami un nome – Pietro – e io mi rendo presente come posso il suo volto,
anche se non lo vedo da anni e sono consapevole che molti tratti del suo
viso saranno cambiati. Mi rendo presente il suo volto come posso, sulla
base di ciò che ho un tempo percepito, ma non me lo rendo presente per
questo come qualcosa che ho percepito un tempo – non lo rendo dunque
presente come se fosse un ricordo. Lo visualizzo, ecco tutto. Possiamo
trarre allora una prima conclusione: un’immagine mentale sostiene un ri-
cordo e non una mera visualizzazione se risponde alla domanda “quando?”,
collocando l’oggetto raffigurato sull’orizzonte, sia pure indeterminato, di
un passato che ci appartiene. Ed un ricordo non è affatto un’immagina-
zione, anche se talvolta gli usi linguistici sembrano trarci in inganno3.
Nel nostro tentativo di far luce sugli usi linguistici che chiamano ambi-
guamente in causa l’immaginazione vi è almeno un altro punto su cui è
opportuno soffermarsi in questo nostro tentativo metodico di confonderci
le idee. Qualche volta può capitare che si parli di immaginazione quando
abbiamo a che fare con la formulazione di un’ipotesi. Qualche volta nei
3 Su questo punto è opportuno insistere. L’empirismo settecentesco (e non solo quello
settecentesco) ha ritenuto possibile rendere conto della distinzione tra immaginazione e ri-
cordo, sottolineando esclusivamente la dimensione della vivacità del vissuto, anche se poi
una critica implicita alla percorribilità di questo criterio è già contenuta nel fatto che lad-
dove Hume ci invita a sostenere che il ricordo è più vivido di quanto non sia l’immagina-
zione, Condillac ci propina invece la regola opposta. Il punto su cui riflettere, tuttavia, è un
altro e ha una portata più ampia: ciò che qui si mostra con relativa chiarezza è che – per
dirla con Wittgenstein – un’immagine non contiene in sé la regola della sua applicazione e
che non basta quindi indicarne la vivacità per decidere quale sia il senso che le compete.
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libri di geometria c’è scritto così: “si immagini un triangolo rettangolo in
cui l’ipotenusa …”. Noi sappiamo bene che cosa ci si chiede, ma forse non
reagiremmo diversamente se leggessimo che dobbiamo assumere che vi
sia un triangolo rettangolo fatto così e così. Il libro ci chiede di immagi-
narlo, ma che cosa cambierebbe se ci chiedesse di pensarlo?
Una risposta sembra ovvia: se il libro chiede di immaginarsi quel trian-
golo è perché si deve contemplarne in qualche modo la figura. Ma se così
stanno le cose, non dobbiamo in questo caso fare affidamento proprio a
quelle immagini mentali che c’era sembrato opportuno lasciare da canto?
Cartesio ritiene che le sia proprio questa la via da seguire e nella Sesta
meditazione ci invita a distinguere pensiero ed immaginazione, fondandosi
sul criterio delle immagini mentali. Se qualcuno ci chiede di immaginare
un triangolo, dobbiamo farci un’immagine di quella figura, ma non ogni
pensiero concresce su un’immagine: possiamo pensare ad un chiliagono e
possiamo pensarlo in modo del tutto nitido, perché questo compito non ci
chiede altro, per essere esaudito, che di intendere quello che caratterizza
una figura geometrica che abbia esattamente mille lati.
Si tratta di una soluzione che sembra plausibile anche se ci costringe a
tornare sui nostri passi e a restituire alle immagini mentali una loro voce in
capitolo, ma come reagiremmo se qualcuno ci chiedesse di immaginare un
oggetto invisibile che, senza fare alcun rumore e senza dar di sé alcuna
traccia sensibile, penetrasse insensibilmente in uno spazio interamente
vuoto con l’incedere minaccioso di ciò che è inavvertibile? Diremmo che
non possiamo immaginare questa strana realtà perché non possiamo far-
cene un’immagine mentale? Ma se le cose stanno così, siamo forse costretti
a pensare il nulla della Storia infinita di Michael Ende? Non possiamo più
semplicemente immaginarlo? Ma allora si può davvero sostenere che
l’avere immagini mentali sia il discrimine che separa l’immaginazione dal
pensiero?
Non credo affatto che le cose stiano così, ma forse possiamo rendercene
conto anche volgendo per un attimo lo sguardo ad un diverso esempio.
Monto una mensola alla parete e qualcuno mi invita a riflettere su che cosa
potrebbe accadere se la mensola non reggesse il peso di cui intendo cari-
carla. E per invitarmi ad esaminare quest’ipotesi potrebbe esprimersi così:
potrebbe chiedermi di pensare – o di immaginare – che la mensola non
tenga, ma nessuno credo direbbe che in un caso, ma non nell’altro si fanno
strada nella nostra mente una serie di immagini. Nessuno credo direbbe
così e forse saremmo semplicemente d’accordo nel sostenere che quelle
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espressioni hanno proprio lo stesso significato e che – caso mai – avrebbe
senso distinguere tra due diversi scenari che sembrano però del tutto indi-
pendenti dal fatto che si facciano avanti immagini mentali: posso immagi-
nare che la mensola crolli come un’ipotesi che deve essere vagliata o posso
immaginare invece quel crollo come l’inizio di una piccola narrazione ed
in questo secondo caso forse la parola “immaginazione” ci sembrerà più
appropriata. Non limitarti ad assumere per ipotesi che la mensola non
regga, ma immagina che cosa potrebbe accadere: uno scricchiolio sinistro,
la mensola che si piega, i libri che cadono, un vaso che si rovescia e così
di seguito. Qui ha luogo una narrazione minimale, ma non sembra esservi
ragione per sostenere che ogni narrazione implichi immagini mentali, che
potrebbero essere invece presenti nella formulazione dell’ipotesi che ab-
biamo dianzi indicato: ipotizziamo che la mensola non tenga e ci raffigu-
riamo lo schema delle forze che agiscono sui tasselli. Insomma: il fatto di
avere immagini mentali non sembra essere la chiave di volta per risolvere
questo nostro problema.
Eppure si dirà che vi sono significati della parola “immaginare” che non
possono essere disgiunti dalla dimensione intuitiva. «Immaginati di entrare
nel tuo studio e di sederti alla scrivania» – qualcuno potrebbe farci questa
richiesta, e in questo caso sembrerebbe davvero impossibile negare che
siano le immagini mentali a dirci quel che accade. Certo, quando qualcuno
ci chiede di immaginare una scena come quella che abbiamo appena de-
scritto è facile che davanti alla mente si parino dinnanzi immagini diffe-
renti, ma che cosa accadrebbe se non accadesse nulla di simile? Ora mi
chiedi di immaginare il tuo tavolo e mi dici che ci sono libri e fogli in
disordine e una lampada accesa – e io mi immagino bene la scena, anche
se questo non significa che abbia costruito nella mente un modello visivo
di quel che mi hai detto. Mi sono fatto un’idea del tuo tavolo, senza per
questo avere nulla davanti agli occhi della mente, proprio come è proba-
bilmente accaduto a chi ora ha letto queste parole.
Si badi bene: non intendo affatto negare che immagini mentali vi siano e
in generale le considerazioni che propongo non possono né vogliono dire
nulla che concerna la dinamica reale delle nostre esperienze. Può darsi che
immagini mentali siano comunque presupposte ed in senso lato lo sono
senz’altro. Può darsi che, sia pure inconsapevolmente, ogni immaginazione
poggi su processi che infine ci riconducono a immagini mentali o a pro-
cessi di simulazione motoria, ma anche se così stessero le cose non per
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questo si può negare che possiamo comunque distinguere tra un immagi-
nare che ha una sua pienezza intuitiva ed un immaginare che sembra essere
invece privo di qualsiasi rimando alla dimensione fuggevole e vaga delle
immagini mentali. Il cappello di Raskòlnikov «era un cappello alto e ro-
tondo, alla Zimmerman, tutto liso, rossastro per l'usura, crivellato di buchi
e cosparso di macchie, senza più falde e ammaccato da un lato» – Dostoe-
vskij lo descrive così e noi comprendiamo perfettamente come stiano le
cose, ma davvero leggendo “vediamo” quel cappello con gli occhi della
mente? Ed è davvero opportuno farlo? Forse le cose non stanno affatto
così. Forse non è affatto un bene vedere, sia pure soltanto nella mente, un
simile cappello perché non è affatto detto che l’effetto visivo di un simile
cappello faccia tutt’uno con la sua descrizione linguistica. Non c’è una fo-
tografia che corrisponda ai primi versi della Sera del dì di festa, perché il
senso di questa descrizione è inseparabile dalla forma temporale della sin-
tassi linguistica, dal suono delle parole e dalla rete semantica dei rimandi
che ogni voce ridesta. Se mai, leggendo quei versi, si formasse in noi
un’immagine mentale di una sera d’estate con la luna piena, sarebbe op-
portuno fare uno sforzo per tacitarla. Può darsi che accada, ma per fortuna
non ce ne accorgiamo.
Forse di fronte a queste considerazioni di carattere generale si risponderà
che poggiano tutte su un terreno sbagliato e che per venire a capo delle
distinzioni che dobbiamo tracciare è necessario mutare interamente pro-
spettiva e rammentare che per venire a capo dei nostri problemi è necessa-
rio assumere un punto di vista puramente obiettivo e chiedersi che cosa
sono immaginazione e memoria in se stesse e non come ci appaiono
quando ci disponiamo sul terreno delle indagini fenomenologiche. In
fondo, un ricordo è un evento reale nel mondo e si può facilmente distin-
guerlo dai prodotti dell’immaginazione in virtù del nesso reale che lo lega
ad un evento accaduto nel passato – un evento che ha lasciato una traccia,
senza la quale la rimemorazione non potrebbe aver luogo. Il criterio per
decidere se ricordiamo qualcosa e non ci limitiamo a fantasticarla è un cri-
terio causale: un’esperienza è un ricordo se e solo se il contenuto che ci
propone deriva causalmente (secondo una concatenazione che andrebbe
comunque precisata) da un’esperienza che ha avuto luogo tempo addietro
e che in qualche modo si ripropone nel contenuto esperito. Che così stiano
le cose ce ne rendiamo conto se osserviamo che in fondo saremmo disposti
a riconoscere che un nostro lontano ricordo di infanzia è soltanto frutto di
fantasia se non fosse possibile sostenere che di quel lontano evento ci parla
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una traccia che troviamo impressa nella nostra mente. Ci sembra di ricor-
dare e ci sembra quasi di vedere la scena accaduta tanti anni addietro, ep-
pure siamo costretti a riconoscere che quel ricordo è frutto di mille racconti
che si sono infine consolidati in una fantasia che ci sembra di avere vissuto.
Non è importante quel che crediamo e quel che pensiamo di avere vissuto;
importanti sono le riflessioni cui siamo condotti quando ci interroghiamo
sugli eventi reali che animano la nostra mente.
Così stanno le cose per i ricordi, ma anche per l’immaginazione: anche
le fantasie sono vissuti reali che debbono essere indagati al di là dell’espe-
rienza che ne abbiamo. E così come vi sono ricordi che scopriamo essere
frutto dell’immaginazione, allo stesso modo potremmo imbatterci in fan-
tasticherie apparenti che in realtà sono ricordi. Credevamo di esserci im-
maginati una qualche scena della nostra infanzia e invece ora scopriamo
che si trattava di un ricordo, di cui paradossalmente non avevamo più me-
moria: credevamo di fantasticare e invece eravamo immersi in un’imma-
gine del nostro passato. E ciò è quanto dire che un ricordo non è un vissuto
che abbia una forma peculiare, ma è un’esperienza che ha un contenuto
peculiare e una particolare determinatezza causale.
Non facciamo che approfondire quest’ordine di considerazioni se osser-
viamo che, in questa luce, non avrebbe alcun senso parlare di ricordi falsi:
un ricordo è per sua essenza veridico poiché può dirsi tale sole se ciò che
narra è davvero accaduto nel passato ed è la causa del mio poterlo ora rivi-
vere. Un ricordo che non fosse conforme all’evento che l’ha causato non
sarebbe un ricordo, ma una fantasticheria. Alla stessa stregua, una fantasti-
cheria che fosse pienamente conforme ad un evento che abbiamo vissuto e
che dipendesse causalmente da esso non sarebbe una fantasticheria: sa-
rebbe un ricordo, anche se chi lo vive non lo pensa come un evento che
appartiene al passato e non crede che vi sia stato un tempo in cui è accaduto
ciò che ora occupa la sua mente.
Dovremmo appunto ragionare così, ma non credo che questa via meriti
di essere percorsa, almeno se ci si prefigge il compito di comprendere quale
sia la natura dell’immaginazione. Vi sono almeno tre differenti ragioni che
giustificano questo rifiuto. Si potrebbe infatti osservare, in primo luogo,
che è difficile anche solo pensare di separare ricordi e immaginazioni se-
condo il criterio che abbiamo indicato, perché non c’è ricordo che non sia
almeno in parte riletto alla luce del presente e delle narrazioni che ne ab-
biamo dato e non vi è fantasia che non cresca su ricordi di varia natura. Mi
ricordo bene di quando sono nati i miei figli, ma questo significa forse quel
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ricordo non cresca insieme alla mia vita e non si determini nel suo senso e
nella sua stessa forma con il passare degli anni e con il ripetersi delle oc-
casioni in cui lo richiamo alla mente? I ricordi non possono essere disgiunti
dalla loro narrazione e restano ricordi anche se vengono in parte corretti e
integrati dal presente che dà loro ascolto. Chi ricorda un evento non può
fare a meno di integrare ciò che è rimasto vivo nella sua mente, ma la storia
che narra ad altri o a se stesso resta un ricordo, perché si inserisce nell’oriz-
zonte del nostro passato e apre un varco che conduce al presente e che si
origina in tempo che è stato nostro. E ciò che vale per il ricordo, vale anche
per l’immaginazione. Forse Manzoni aveva conosciuto davvero una qual-
che Donna Prassede e forse un lettore può riderne soltanto se nella sua vita
ha conosciuto una persona fatta così, ma questo non rende quel personag-
gio una silloge di ricordi, così come non sono ricordi le nostre fantastiche-
rie, anche se si nutrono di eventi passati. Vi è poi, in secondo luogo, una
preoccupazione più generale che ci tiene lontani dall’avvalerci di un simile
criterio tutto esterno alla dimensione descrittiva dell’esperienza ed è il fatto
che di un simile criterio potremmo avvalerci solo facendo infine riferi-
mento ad altre esperienze, colte queste nella loro immediata valenza epi-
stemica. Ho bisogno di fidarmi dei ricordi per non fidarmi di un ricordo e
posso avvalermi di un criterio esterno alla dimensione della consapevo-
lezza solo se presuppongo criteri interni ad essa. Si tratta di una considera-
zione relativamente ovvia: posso scoprire che il contenuto della mia espe-
rienza è un ricordo e non una fantasticheria perché posso connetterlo ad un
evento lontano che è causa di questo mio esperire così, ma posso parlare di
un evento passato solo perché faccio affidamento su un insieme di ricordi
che debbo assumere come tali e cui debbo credere in ragione della loro
evidenza, se in generale voglio poter parlare sensatamente di un passato. E
ciò è quanto dire che non posso comprendere che cosa sia un ricordo sulla
base di un criterio che, per essere applicato, presuppone che io sappia già
distinguere quello che con il suo aiuto dovrei poter imparare a distinguere.
Vi è tuttavia una terza ragione che mi spinge a sostenere che non sia questa
la via da seguire. Può essere importante decidere se un certo evento appar-
tiene al passato e può darsi che uno dei criteri di cui ci si può avvalere per
deciderlo sia chiedere qual è la causa remota di ciò che ora esperiamo. Il
nostro obiettivo tuttavia è un altro: vogliamo far luce sulle diverse modalità
intenzionali che caratterizzano i differenti modi in cui immaginiamo o ri-
cordiamo un contenuto ed una differenza rilevante vi è tra il modo in cui
immagino un fatto e il ricordo che, all’improvviso, me lo rende presente.
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Ora finalmente me ne rendo conto: ciò che credevo di ricordare è soltanto
una fantasticheria, e rendersene conto significa cambiare qualcosa – vuol
dire cambiare l’atteggiamento intenzionale verso il contenuto di quel pre-
sunto ricordo: ora che me ne rendo conto la vicenda che esperivo come un
ricordo si fa avanti come un resoconto o addirittura come una fantastiche-
ria. Ciò che è mutato è appunto il modo in cui qualcosa è esperito ed inteso4
Credevamo di sapere molto bene che cosa volesse dire che immaginiamo
qualcosa, ma ora questo sapere sembra sfuggirci di mano. In un passo dei
suoi Dialoghi tra Hylas e Philonous Berkeley scriveva che i filosofi con le
loro argomentazioni sollevano nubi di dotta polvere e poi si lamentano che
non si riesca più a veder nulla con chiarezza. Berkeley se ne lamentava, ma
qualche volta si deve fare proprio così, per avvertire meglio il bisogno di
una chiarificazione concettuale. Ora, tuttavia, è giunto il momento di la-
sciare che la polvere si depositi, per cercare poi di dare ai nostri concetti
una forma che ci consenta di comprendere meglio il senso delle nostre pa-
role.
2. Un’analisi concettuale
Tra gli esempi che abbiamo discusso ce n’è uno da cui credo sia opportuno
partire perché può davvero insegnarci qualcosa. Qualcuno pronuncia un
nome di una persona che ci è nota e noi immaginiamo il suo volto. Ab-
biamo osservato poi che parleremo di ricordo se l’immagine si dispone
4 Un fatto questo su cui lo stesso Hume attira la nostra attenzione, anche se poi, come di
consueto, ritiene possibile venire a capo di differenze che concernono la grammatica filo-
sofica dei concetti nel linguaggio vago delle differenze di vivacità delle idee: «Accade
spesso che di due uomini che hanno preso parte a una stessa azione uno la ricordi molto
miglio dell’altro e duri grandissima fatica per farla ricordare al suo compagno. Invano gli
enumera minutamente le diverse circostanze, gli cita il tempo, il luogo, la compagnia, ciò
che è stato detto, ciò che è stato fatto: finché tocca per caso un particolare che fa rivivere
tutta la scena e dà all’amico la completa memoria dell’accaduto. Qui, la persona che ha
dimenticato, riceve da principio tutte le idee del discorso del compagno, con le stesse cir-
costanze di tempo e di luogo, benché le consideri mere finzioni dell’immaginazione. Ma,
appena accennato questo particolare che colpisce la sua memoria, queste stesse idee ap-
paiono sotto una luce nuova: sono sentite, si può dire, in modo diverso di prima. Senza che
nulla si alteri in esse all’infuori del modo di sentirle, diventano immediatamente idee di
memoria e suscitano l’assenso. Potendo, dunque, l’immaginazione rappresentare gli stessi
oggetti che la memoria, e distinguendosi queste facoltà soltanto per il diverso modo di sen-
tire le idee, vien fatto di chiedersi qual è la natura propria di questo modo di sentire. Ognuno,
credo, risponderà convenendo che le idee della memoria sono più forti e più vivaci di quelle
della fantasia» (Hume 19xx: 98).
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sotto l’egida di uno sguardo rivolto al passato, mentre saremo inclini a
parlare di immaginazione in una qualche accezione del termine quando
questa collocazione sullo sfondo temporale del passato non si dà.
Questa constatazione ci invita ad una riflessione ulteriore: vi sono espe-
rienze che collocano il proprio oggetto sullo scenario del passato, ma vi
sono atti che anticipano il futuro e che ce lo rendono presente come tale.
Guardo dalla finestra, vedo il cielo livido e mi aspetto il temporale inci-
piente e questa attesa, che di solito resta implicita e che spesso si rende
consapevole solo nello stupore che accompagna il diradarsi delle nuvole,
può manifestarsi esplicitamente e assumere la forma di una prefigurazione
dell’evento atteso, anche se questo ancora non significa che si pronunci a
mezza voce un qualche giudizio. Guardiamo il cielo e ci sembra di avver-
tire l’inquietudine lieve che accompagna l’attesa di un temporale estivo ed
una simile esperienza è per molti versi simile al ricordo: il pensiero del
temporale che ora occupa la nostra mente risponde alla domanda
“quando?” proprio come le immagini del ricordo, solo che vi risponde al-
ludendo ad un tempo futuro, ad un presente che non è ancora. Potremmo
forse esprimerci così: come vi sono ricordi del passato, vi sono anche ri-
cordi del futuro che rendono presente per noi quel che accadrà o che è
probabile che accada, senza tuttavia consentirci di accedervi in forma di-
retta. Non vediamo nel futuro, ma ce lo raffiguriamo e la veridicità delle
nostre anticipazioni verrà giudicata in seguito quando effettivamente ve-
dremo come stanno le cose.
Non ci sono tuttavia solo ricordi del passato e del futuro, poiché non vi
sono soltanto atti che si rapportano al proprio oggetto come qualcosa che è
stato o che sarà; vi sono anche – per quanto possa suonare strano – ricordi
del presente. Non tutte le forme di relazione intenzionale che si rapportano
ad un oggetto ponendolo come presente sono percezioni e non tutte danno
ciò di cui parlano nella pienezza del suo esserci; tutt’altro: vi sono atti che
si limitano a rendere presente ciò che manifestano senza tuttavia consen-
tirci di affermare che così stanno le cose. Bussano alla porta e tra me e me
una voce dice: sarà Luca. Per esserne certo, tuttavia, devo aprire la porta e
guardar bene, perché il mio rendermi presente qualcosa non ha in sé il ca-
rattere di una testimonianza che possa suffragare le mie credenze.
Queste considerazioni ci consentono di comprendere le ragioni che po-
trebbero sostenere una scelta terminologica che resta in sé così dubbia. Nel
ricordo qualcosa si dà originariamente – ed è l’idea del passato. Ciò che
ricordo tuttavia non è presente originariamente, ma si rende presente come
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qualcosa che è stato un tempo percepito e vissuto5. Chi ricorda non esperi-
sce nulla: il ricordo, in questo senso, è una forma di quasi esperienza perché
ha le forme di decorso che caratterizzano una percezione qualsiasi e
un’esperienza qualsiasi, ma non ci pone direttamente in contatto con qual-
cosa che c’è. Chi ricorda qualcosa non ha esperienza di qualcosa, anche se
si rende nuovamente presente ciò che ha un tempo percepito, e ciò è quanto
dire che il ricordo non è un atto in cui qualcosa si dà nella sua originarietà
e immediatezza, ma è una forma di esperienza (di quasi-esperienza) che ha
una sua necessaria mediazione. Il ricordo è ricordo di un’esperienza pas-
sata, di qualcosa che abbiamo un tempo percepito6. Ciò che ci ricordiamo
dunque non è per noi presente nella sua immediatezza, ma è dato in quanto
è stato percepito7. Che così stiano le cose lo si vede bene anche quando ci
si interroga sulla veridicità del ricordo. I ricordi possono ingannarci e per
saggiarne la veridicità cerchiamo di controllarne ora l’interna plausibilità,
ora la coerenza con cui si legano ad una qualche catena memorativa: un
ricordo ne ridesta un altro e come nei castelli di carte l’equilibrio sorge in
un gioco in cui ogni parte si sostiene a vicenda. Dei ricordi siamo ragione-
volmente sicuri e ce ne possiamo avvalere come di un’evidenza per sor-
reggere la pretesa di verità di una proposizione, eppure non è difficile ren-
dersi conto che il ricordo non contiene in sé una piena garanzia della sua
veridicità. Ci ricordiamo di aver visto così, ma la nostra certezza potrebbe
incrinarsi o potremmo, per qualche ragione, ritenerla insufficiente ed in
questo caso ravvivare il ricordo potrebbe non bastare perché nel ricordo la
cosa rammemorata non si fa avanti, ma si rende semplicemente presente
attraverso l’esperienza che ne abbiamo avuto. Il ricordo è esperienza di
un’esperienza e non ha quindi una presa diretta sul mondo: ci parla di qual-
cosa che è avvenuto nel passato, ma ce ne parla solo in quanto l’abbiamo
percepito così e così. Un ricordo può essere del tutto affidabile e raccontare
tuttavia qualcosa sulla cui verità è possibile dubitare: non posso dire di
ricordar male quando dico che l’atrio della mia scuola elementare era
5 Il concetto di presentificazione è tratto dalla fenomenologia husserliana. Husserl lo definisce così:
6 Va da sé che le riflessioni che stiamo proponendo concernono esclusivamente il ricordo e quindi la
memoria episodica. Le varie forme di memoria non appartengono, da un punto di vista descrittivo, ad
un unico genere, anche se è certamente opportuno discuterle insieme, se ci si pone sul terreno di un’ana-lisi psicologica e cognitiva.
7 Come abbiamo osservato, vi è tuttavia qualcosa di cui il ricordo è esperienza – ed è il carattere di
passato del passato, e di questo carattere non vi è altra esperienza se non il ricordo. Su questo punto tuttavia non possiamo qui soffermarci.
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grande e solenne, perché così probabilmente l’ho percepito, ma anche se
non ho nulla da rimproverare alla mia memoria non posso escludere che
quell’atrio sia diverso da come lo ricordo. Per decidere dovrei poter vedere
se le cose stanno così come le ricordo, dovrei poter gettare nuovamente lo
sguardo sulla realtà di cui ho memoria – e il rivolgere nuovamente lo
sguardo ad uno stesso stato di cose è una prassi razionale se si vuole sag-
giare la validità di una determinata credenza. Rinnovellare un ricordo, in-
vece, non rende più credibile il passato, proprio come una notizia non ci
sembra più vera quando compriamo due copie di uno stesso giornale.
Il ricordo in senso proprio ha una ragione per dire che così stavano le
cose ed anche se non ci consente di accedere a nuove prove dell’esser così
di ciò che è ricordato, ci permette egualmente di rammentare le ragioni per
cui avevamo un tempo ritenuto opportuno credervi. Il ricordo di ciò che è
passato è anche ricordo di una fiducia riposta, ma appunto: come stanno
le cose nelle altre forme di ricordo – nel ricordo in senso lato? Nel caso
delle anticipazioni le cose mutano: non abbiamo ancora percepito nulla
perché non è ancora accaduto nulla e quindi non sappiamo ancora se le
cose andranno come ci figuriamo che vadano. Nulla è ancora deciso, anche
se ci raffiguriamo così il corso degli eventi. Certo, anche i ricordi di futuro
sono forme che rendono presente il loro contenuto, ma in questo caso se
diciamo che un’anticipazione non ci dà l’evento anticipato nella sua origi-
narietà non intendiamo affermare che esso sia colto attraverso un’espe-
rienza che lo dà nella sua originarietà. Dire che le anticipazioni sono forme
che rendono presente qualcosa significa allora sostenere che ci danno il
loro contenuto nella forma di una coscienza di immagine: anticipare un
evento significa raffigurarselo come un evento che accadrà.
Si tratta di una differenza rilevante, ma ciò non toglie che anche i ricordi
di futuro, proprio perché comunque rendono presente qualcosa, abbiano
una loro pretesa di verità: ci raffiguriamo ciò che ci attendiamo, ma nel
senso di ogni simile raffigurazione è implicita la consapevolezza che il fu-
turo a suo tempo pronuncerà un verdetto su ciò che abbiamo pensato che
accada. Un’anticipazione può rivelarsi falsa proprio come falso può essere
un ricordo e ancor più del ricordo in senso proprio anche il nostro raffigu-
rarci il futuro non contiene in sé il metro della sua verificazione, ma ri-
manda ad una percezione che sola potrà in seguito decidere come stanno
le cose.
Uno stesso ordine di considerazioni vale anche per ciò che abbiamo chia-
mato ricordo di presente. Anche in questo caso abbiamo a che fare con un
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raffigurazione che avanza una pretesa di verità che non ha in sé il criterio
della sua verificazione. Anche in questo caso, il ricordo si fa plausibile
quanto più sa connettersi con l’orizzonte della presenza e sa integrarsi con
ciò che lo determina. Sento suonare alla porta e ho ragione di pensare che
sia proprio la persona che aspetto: l’ora è quella consueta, non attendo altre
persone e la scampanellata la riconosco bene. Per decidere tuttavia se così
stanno le cose non basta che io mi crogioli nel mio immaginare e nel mio
compiacermi della sua interna coerenza: è necessario che apra la porta e
guardi chi è.
Un tratto accomuna dunque queste forme del ricordo: si tratta, in gene-
rale, di atti presentificanti, di atti che rendono presente il loro oggetto,
senza tuttavia darlo direttamente, anche se questa caratteristica comune si
declina diversamente tra i ricordi in senso lato e il ricordo in senso proprio.
Ci ricordiamo – nel presente, nel passato, nel futuro – di qualcosa e ce ne
ricordiamo disponendolo in un orizzonte temporale determinato, ma anche
se i ricordi in ogni loro forma pretendono di essere veri, non hanno in sé il
metro cui è ancorata la loro definitiva validità. Proprio qui, tuttavia, si an-
nida il tratto che diversifica le differenti forme del ricordo e che rende dif-
ficilmente percorribile la proposta terminologica che abbiamo proposto. Il
ricordo in senso proprio si riferisce ad una percezione precedente e rac-
chiude in sé il rimando a ciò che è stato e vale come quindi di per sé come
una testimonianza che sorregge una credenza: credo e ho ragione di credere
che p perché ricordo che p. Nel caso del “ricordo” di presente e di futuro
le cose stanno diversamente: quando “ricordo” qualcosa nel presente o nel
futuro, avanzo un’ipotesi che chiede di essere confermata e che ha forse
ragioni per sorgere, ma non ne adduce di nuove. Non è un caso allora se di
queste forme improprie del ricordo parliamo talvolta come di forme imma-
ginative: sentiamo suonare alla porta e diciamo che immaginiamo chi sia,
così come potremmo dire, guardando il cielo livido, che ci immaginiamo
un bel temporale, mentre non potremmo dire che immaginiamo che ieri
abbia piovuto se ci ricordiamo dell’acquazzone che ci ha infradiciato. Non
possiamo farlo perché il ricordo non si limita a rappresentare ciò che è
stato, ma ci offre una ragione per credere: rende presente un evento attra-
verso un atto che lo presenta effettivamente – attraverso la percezione di
cui il ricordo è ricordo. Nelle forme del “ricordo” di presente e di futuro,
l’evento ricordato è reso presente solo in virtù di un atto che ci consente di
raffigurarcelo: ci facciamo un’idea di quel che accade o che accadrà. Ce ne
facciamo un’immagine, appunto.
37
Non facciamo che sviluppare queste considerazioni se osserviamo che
così stanno le cose anche quando immaginiamo un volto o un luogo che ci
sono noti. Che non si possa parlare di ricordo, neppure nell’accezione am-
pia di cui ci siamo momentaneamente avvalsi, lo abbiamo osservato:
quando qualcuno ci invita a raffigurarci mentalmente un luogo che cono-
sciamo facciamo evidentemente affidamento sulla nostra memoria, ma non
per questo lo collochiamo in un momento particolare del tempo. Una
mappa non dice sempre e necessariamente se quel che raffigura è, era o
sarà così, ed è per questo che i disegni che fungono da progetto di una casa
possono in seguito essere usati come un mappa che la descrive. Forse si
potrebbe obiettare che una mappa non dice che ora le cose stanno così,
anche se questo non toglie che possa invecchiare e diventare inservibile, se
l’oggetto di cui ci parla muta nel tempo. Su una mappa è possibile apporre
una data, come talvolta accade nelle fotografie: in questo caso, la mappa
dice che così stanno le cose in un certo istante del tempo obiettivo, ma non
colloca quell’istante rispetto all’ora in cui vivo. Le cose stanno così anche
per quegli atti che potremmo chiamare visualizzazioni: raffigurano un og-
getto ed eventualmente dicono il tempo obiettivo in cui si colloca l’evento
o la cosa raffigurata, ma non lo collocano nel tempo rispetto al mio pre-
sente8. Se trascuriamo questa differenza, tuttavia, le visualizzazioni sono
davvero simili ai ricordi di presente e di futuro: sono una forma di presen-
tificazione che ha un valore di verità, ma che non ci offre nessuna evidenza
nuova per affermare che le cose stano così come la visualizzazione ci dice.
Non dimostro la bontà di una mappa controllandola con un’altra mappa,
anche se ho una riprova indiretta della sua plausibilità.
Se ora riflettiamo su ciò che ci consente di parlare di immaginazione per
alludere alle forme improprie del ricordo e alle visualizzazioni, siamo im-
mediatamente ricondotti al carattere raffigurativo di questi atti. Quando di-
ciamo di immaginare bene chi sia alla porta, intendiamo dire soltanto che
non lo sappiamo con certezza, ma ci raffiguriamo egualmente chi possa
essere, così come non vediamo davvero il volto che immaginiamo, anche
se ce ne facciamo un’immagine. Di qui una prima proposta terminologica:
parleremo in questo caso di immaginazione figurale, per sottolineare ap-
punto che questo carattere – il carattere della raffigurazione – è ciò che
giustifica qui il nostro discorrere di immaginazione.
8 Dovremo in seguito osservare che le visualizzazioni hanno un tense – presentano ciò che raffigurano
ad una soggettività finzionale.
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Vi sono tuttavia altre forme dell’immaginazione che non sembrano chia-
mare in causa il momento della raffigurazione e che non sono né vere, né
false: è questo il caso delle diverse forme di immaginazione del possibile
– di quelle forme di immaginazione che si riferiscono a ciò che immagi-
nano ponendolo come una mera possibilità non realizzata. È questo il caso
dei progetti che delineano uno scenario nella sua possibilità e lo collocano
in un futuro più o meno prossimo. E un progetto non può dirsi vero o falso,
anche se gli eventi possono avverarlo. Può essere invece mal fatto: delinea
qualcosa che dovrebbe essere realmente e non solo logicamente possibile,
ma trascura troppe questioni di fatto e dipinge un futuro che non sarà. I
progetti possono perdersi in fantasticherie. Dovrei pensare a quello che
debbo fare domani, ma invece di immergermi in un progetto serio che
tenga conto del nesso che lega il futuro al presente e ai suoi impegni, la
mia mente si perde in una fantasticheria che muove da questo nostro mondo
per abbandonarlo e fingere così una possibilità – per fingerla in quanto
mera possibilità che non ci preoccupiamo di realizzare, ma in cui ci im-
mergiamo per gioco. Domani vado al mare – e quello che dapprima po-
trebbe sembrare un progetto diviene poi un sogno ad occhi aperti in cui
prende forma una trama possibile, di cui l’immaginazione non intende mo-
strarci la realizzabilità, ma solo fingere la presenza. E se un progetto può
essere ben fatto mal fatto, una fantasticheria è al di qua di questa possibilità
perché non pretende di confrontarsi con ciò che accadrà. Le fantasticherie
non sono vere o false, ma nemmeno coerenti con il mondo, anche se qual-
che volta, per caso, possono avverarsi.
Uno stesso ordine di considerazioni vale anche nel caso di quelle forme
dell’immaginazione in cui immaginiamo che la realtà abbia avuto un di-
verso corso e che il presente o il passato siano diversi da quello che sono o
che sono stati. Così, nel disappunto percepiamo il presente come insoddi-
sfacente e pensiamo a quello che avrebbe potuto accadere. Nel rimpianto,
invece, mi immagino un passato diverso da quello che è stato: non abbiamo
varcato quella porta e ora ce ne pentiamo, non abbiamo avuto il coraggio
di fare quel gesto e ora ne siamo dispiaciuti, ma nell’uno e nell’altro caso
ciò che immaginiamo non pretende di essere vero: immaginiamo una pos-
sibilità in quanto tale e la immaginiamo proprio così – come una mera pos-
sibilità che non pretende nulla, ma in cui possiamo immergerci e che ci
consente di dare al reale una veste diversa e nuova.
Ora, sottolineare che queste forme dell’immaginazione non avanzano
pretese di verità vuol dire anche rammentare che non hanno il carattere di
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atti che si riferiscano ad uno stato di cose del mondo per affermarne l’esi-
stenza. Tutt’altro: le figurazioni di cui discorriamo ci invitano a prendere
commiato dalla realtà e a disporre liberamente degli scenari del mondo per
fingere ciò che è soltanto possibile. Muoviamo dal mondo – da questo no-
stro mondo – per variarlo liberamente, proponendo così una narrazione che
ci racconta un diverso corso degli eventi, che non si è realizzato e che non
ci si prefigge di realizzare, ma che è immaginato nel suo essere una mera
possibilità.
Come abbiamo osservato, nel caso delle figurazioni del possibile non ci
riferiamo più al mondo come al giudice della verità delle nostre rappresen-
tazioni, ma ciò non toglie che del mondo qualcosa permanga: nel rim-
pianto, immagino un diverso corso degli eventi, ma quegli eventi concer-
nono me e la mia vita e si giocano nell’alveo di ciò che realmente l’ha
ospitata. Rimpiango di non averti ascoltato, e anche se di fatto immagino
quello che non è accaduto – il mio averti dato retta – pongo quest’ipotesi
controfattuale nel calco del nostro mondo: non ho dato retta proprio a te e
in quella circostanza che posso indicare perché è davvero accaduta. Uno
stesso discorso vale anche per le fantasticherie che pure muovono dal
mondo e raccontano che cosa potrebbe accadere a me o ad altri se solo si
realizzassero i desideri che le muovono. Chi fantastica si perde in sogni ad
occhi aperti, ma si perde sullo sfondo di questo mondo ed è per questo che
le fantasticherie possono lasciare l’amaro in bocca o far sorgere speranze
infondate: parlano pur sempre della nostra vita, mostrando possibilità che
non ci saranno o che non ci sono state. Del resto, che le diverse forme
dell’immaginazione del possibile siano legate al contesto del mondo si ma-
nifesta anche nel loro costringerci a pensare diversamente la realtà Il rim-
pianto, non si limita a mostrare che un altro corso degli eventi avrebbe
potuto accadere, ma proprio questo trasforma la realtà in contingenza, la
rivela per quello che è: una possibilità che si è realizzata, ma che non per
questo dimentica il suo essere soltanto possibile. Così stanno le cose anche
per le fantasticherie che ci insegnano a levare dal reale il velo che ne nega
l’alterabilità e a proiettarvi il pensiero del suo poter essere altrimenti. Il
controcanto immaginativo che ci invita a fingere una possibilità inattuale è
così la posizione esperita della contingenza – una contingenza che non è
affatto implicita nel tessuto percettivo che non ci mostra le cose nel loro
essere possibilità realizzate, ma nella loro semplice e diretta presenza.
Così stanno appunto le cose nelle forme dell’immaginazione del possi-
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bile, ma qualcosa muta radicalmente quando ci disponiamo sul terreno lu-
dico. Due bambini che giocano possono immaginare che il divano sia una
nave che solca l’oceano, ma nel senso di questa loro finzione non è soltanto
messa da canto ogni pretesa di verità, ma è anche in linea di principio
esclusa la possibilità che il gioco si avveri. Un gioco non può avverarsi
perché non si muove sul terreno del mondo e non pretende di occuparlo,
nemmeno a titolo di una sua possibilità. La prassi ludica è, in questo senso,
una prassi non posizionale: non pretende di dire come stanno le cose o di
modificarle realmente. Nel gioco il divano diventa una nave – è così che ci
esprimiamo, ma non dobbiamo farci ingannare dalle parole: un divenire
reale non vi è, e perché le modificazioni che il gioco impone al reale si
dissolvano è sufficiente aspettare che la parentesi del gioco si chiuda. Il
divano non diventa realmente una nave e la paroletta «è» che accompagna
la prassi istitutiva del gioco e che dice che cosa sono diventati nello spazio
ludico gli oggetti reali del nostro mondo non ha in questo caso un valore
posizionale, non asserisce una loro reale metamorfosi, ma fissa il ruolo che
essi assumono nel gioco e che nel gioco soltanto ha una sua consistenza. Il
gioco non lascia tracce, anche se nel gioco possono accadere incidenti di
varia natura che possono costringerci a ricadere in quella dimensione di
mondo da cui il gioco prende commiato e cui in senso proprio non appar-
tiene. Ed è in questo senso che si può sostenere che il gioco è una prassi
acontestuale.
Sul senso di quest’affermazione è opportuno soffermarsi un poco. Il
bambino che finge che il divano sia una nave non crede per questo di essere
su una nave: il gioco è una prassi immaginativa che trasforma sotto la sua
presa la realtà in una finzione consapevole. La trasforma appunto: il gioco
non dimentica il contesto in cui si muove e non trascura le proprietà reali
degli oggetti, ma le ammette nello spazio ludico mutandole, per dir così, di
segno. Nel soggiorno c’è un divano, ma si può fare come se fosse una nave
pirata: la sua forma lo consente, così come la morbidezza dei cuscini per-
mette di tuffarsi nei flutti senza farsi del male. Gli oggetti reali entrano nel
gioco, ma vi penetrano attraverso un’interpretazione ludica che ne deter-
mina il senso, anche se questo non significa che il gioco non sia guidato
nel suo realizzarsi proprio dalla falsariga delle proprietà reali dell’ambiente
che lo ospita. Il divano è davvero morbido e quindi invita a fare ciò che
chiunque farebbe con esso, ma nel gioco il piacere fisico che l’oggetto nella
sua determinatezza reale consente si colora di un’interpretazione ludica pe-
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culiare. L’oggetto guida il gioco, ma entra nel gioco solo in quanto si su-
bordina alle sue regole. Del resto, il gesto che modifica finzionalmente la
realtà si riverbera anche su chi si dispone nello spazio ludico: chi nel gioco
accetta di solcare il mare su una nave di cuscini non è il bambino che co-
nosciamo – non è insomma una persona reale con proprietà reali – ma è
l’io finzionale del gioco, è l’io che dice di sé che è un pirata, anche se
questo certo non vuol dire che il bambino non sappia come stanno davvero
le cose ed anche se una caduta rovinosa è più che sufficiente perché il
“come se” del gioco si dissolva. Nel gioco, dunque, si prende commiato
dalla realtà, ma in una forma molto più rilevante di quanto abbiamo visto
sin qui: il gioco non può avverarsi perché non rende presente un possibile
corso degli eventi che appartenga al nostro mondo, ma crea una trama lu-
dica che si sostituisce pro tempore al nostro mondo, senza per questo porsi
come una sua possibilità. Così, se improvvisamente per una qualche strana
ragione il divano diventasse realmente una nave e il bambino un pirata, non
per questo il gioco si sarebbe avverato: il gioco non mette in scena una
possibilità di questo mondo e non dice che il bambino che gioca potrebbe
diventare un pirata o potrebbe esserlo stato – dice che lo è, per gioco. Più
precisamente: il bambino che gioca non è affatto un pirata perché nel gioco
vi è un pirata che non è affatto un bambino – e tantomeno quel bambino
che lo mette in scena. Il bambino che gioca non è il pirata di cui nel gioco
recita la parte e non ne condivide le proprietà: quando vi è l’uno non vi è
l’altro, anche se l’uno dà vita all’altro e si trova realmente nello stesso
luogo che l’altro occupa solo finzionalmente. Così la coincidenza che si
rivela nell’impiego della paroletta “io” che introduce il gioco (“io ero il
pirata, il divano era la nave”) non deve trarci in inganno perché non asse-
risce una relazione di identità e non predica una proprietà reale dell’io che
si accinge a giocare, ma indica una correlazione tra l’io reale e l’io finzio-
nale, istituendo così la dimensione ludica. Non è un caso allora che, quando
si stipulano le parti del gioco, i bambini avvertano il bisogno di avvalersi
dell’imperfetto ludico: una forma verbale al passato consente infatti al
bambino di esprimere la scissione tra l’io reale che decide di giocare e l’io
finzionale che nel gioco assume un ruolo determinato secondo il modello
della differenza temporale tra l’io che ora ricorda e l’io di cui ci si ricorda
e che era presente alla situazione rammemorata. E ciò è quanto dire che un
gioco non può avverarsi perché le cose di cui ci parla non appartengono al
mondo reale, ma alla dimensione ludica: qualunque evento accada nel
mondo non può dunque far avverare un gioco, perché non può in linea di
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principio parlare degli stessi oggetti di cui il gioco narra.
Uno stesso ordine di considerazioni vale quando leggiamo un racconto o
una favola: Collodi non afferma che esiste nel mondo un uomo di nome
Geppetto che ha una parrucca gialla come la polenta e la sua non è una
testimonianza che ci parli di un qualche mondo di cui solo lui conosce l’ac-
cesso. Tutt’altro: Collodi ci invita a immaginare così Geppetto e ci dice
come dobbiamo creare quel personaggio e le vicende che il racconto ci
narra. Così, se anche ci fosse davvero un uomo che da un pezzo di legno
da catasta traesse un burattino vivo come Pinocchio ed anche se fosse suo
malgrado soprannominato Polendina, ciò nonostante la storia narrata da
Collodi non diventerebbe vera perché non parlerebbe affatto di quell’uomo
reale e di quel pezzo di legno reale.
Da queste considerazioni di natura descrittiva (su cui dovremo in seguito
tornare) possiamo trarre una seconda conclusione di carattere generale: alle
forme di esperienza che rendono meramente presenti i loro oggetti si deb-
bono affiancare le forme dell’immaginazione ludica e narrativa che non
hanno il carattere di presentificazioni, ma creano i propri “oggetti” – questa
parola presa in un’accezione che dovrà essere in seguito precisata.
Di qui la possibilità di tracciare un primo schema che renda conto in
qualche modo delle analisi descrittive che abbiamo condotto sin qui
(schema 1).
Non credo siano necessarie molte parole per spiegare questo schema che
di fatto non fa altro che disporre secondo un ordine visivo le distinzioni
che abbiamo tracciato nel corso delle nostre analisi. Su un punto, tuttavia,
è forse opportuno raccogliere qualche riflessione, ed è la distinzione ampia
ed una nozione stretta di immaginazione. In un certo senso, la parola “im-
maginazione” la usiamo così: per intendere quelle forme di quasi espe-
rienza che non poggiano direttamente su una percezione, anche se natural-
mente dalla percezione dipendono perché di qui traggono in vario modo i
loro contenuti. Vi è tuttavia una ragione più profonda che ci spinge ad usare
questa parola in queste circostanze: il visualizzare sembra essere una forma
debole della percezione visiva – una sorta di quasi-percezione, proprio
come la narrazione di una favola sembra essere la forma debole di una te-
stimonianza: il narratore sembra quasi parlare di una serie di eventi cui ha
assistito, ma le cose non stanno così. Uno stesso ordine di considerazioni
sembra valere per il gioco: due cani che giocano in un parco sembra quasi
che si azzuffino realmente, ma non accade nulla di serio perché le aggres-
sioni sono soltanto simulate. Così fanno anche i bambini: si inseguono per
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prendersi e per far prigionieri, ma la ruota dentata della prassi ludica non
fa presa sull’ingranaggio della realtà e l’una gira senza conseguenze per
l’altra. Forse la parola immaginazione la usiamo così – per sottolineare il
fatto che ha avuto luogo una modificazione peculiare che indebolisce il
senso di ciò cui si applica e che alle forme dell’esperienza che hanno
un’immediata presa sulla realtà affianca una serie di comportamenti sol-
tanto simulati. L’immaginazione è una sorta di frizione che sgancia i mo-
vimenti dal motore dalle ruote, la nostra esperienza da una presa diretta
con la vita.
Credo che le cose stiano almeno in parte così e tuttavia credo che lo
schema che abbiamo appena proposto ci consenta di essere un po’ più pre-
cisi e di vedere quali oscillazioni di senso sono racchiuse nel concetto di
simulazione. Una visualizzazione è una quasi percezione, ma non per que-
sto perde interamente la presa sul mondo: quando visualizzo qualcosa non
ho un argomento nuovo per credere che le cose stiano così come me le
rendo presenti, ma l’immagine che mi faccio del cortile del Filarete non è
per questo meno suscettibile di essere valutata per ciò che concerne la sua
verità. L’ingranaggio non gira a vuoto, ma avanza una pretesa di verità:
dice come stanno le cose, anche se non recluta nuovi argomenti per dire
che stanno così.
Qualcosa muta quando passiamo dalla dimensione degli atti presentifi-
canti alle finzioni ludiche e narrative: il gioco è prassi simulata e la narra-
zione è una testimonianza simulata, ma nell’uno e nell’altro caso si prende
interamente commiato dal mondo. Anche se è proprio qui davanti a me,
non vi è nessun luogo del mondo in cui ci sia davvero la nave pirata con
cui ora solco i mari ed anche se sono proprio io al timone, non è vero che
Paolo Spinicci abbia messo piede su quel vascello. E alla stessa stregua, un
racconto sembra una testimonianza che ci rende falsamente edotti sulle vi-
cende del nostro mondo o che ci illumina su ciò che è accaduto in un
mondo diverso dal nostro, ma non è così: Geppetto non è un falegname in
un mondo possibile, ma è solo il personaggio di una storia. Chi la narra,
non testimonia nulla: crea passo dopo passo una vicenda fantastica. In-
somma: qualcosa di rilevante muta quando passiamo dall’immaginazione
in senso lato all’immaginazione in senso pregnante, ed è per questo che il
nostro schema sottolinea questa duplice accezione del concetto di immagi-
nazione e indica una direzione che dalla realtà degli oggetti immaginativi
ci conduce passo dopo passo verso lo scenario che compete alla dimen-
sione immaginativa in senso pregnante. Certo, questa differenza di senso
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non ha un’eco univoca sul terreno degli usi linguistici, che restano comun-
que necessariamente vaghi, ma di questo fatto non dobbiamo preoccuparci
troppo. Se ci interessano le parole è solo perché ci interessano i concetti –
e una distinzione concettuale qui c’è, anche se il linguaggio quotidiano non
ha ritenuto opportuno segnarla in modo univoco. Se il linguaggio non ha
segnato il confine non c’è nulla di male: possiamo farlo noi.
3. Immaginare ed assumere
Il quadro che abbiamo appena delineato non è tuttavia sufficiente per ve-
nire a capo dei nostri problemi e basta volgere lo sguardo alla dotta polvere
che abbiamo sollevato nelle nostre battute introduttive per rammentare che
una delle difficoltà nelle quali ci eravamo imbattute concerneva il rapporto
con il pensiero. Un libro di geometria può chiederci di assumere che una
retta divida in due parti eguali un triangolo isoscele, ma che cosa cambie-
rebbe se ci chiedesse di immaginare questo stesso stato di cose? Cambia
davvero qualcosa? E se non cambia nulla, che cosa ci consente di usare
nello stesso senso parole che hanno di solito significati differenti?
Una via per tentare di venire a capo di questo problema ci invita a riflet-
tere su una differenza che attraversa le forme di esperienza su cui ci siamo
soffermati e che ha una sua eco sul terreno degli usi linguistici. Si parla di
immaginazione quando ci si raffigura mentalmente il cortile del Filarete o
che cosa accadrà domani, ma il nostro senso linguistico avrebbe qualcosa
da eccepire se tentassimo di ricondurre sotto il titolo generale dell’imma-
ginazione le descrizioni di oggetti presenti o di eventi futuri: una descri-
zione può chiederci di immaginare qualcosa, ma di per sé non implica l’im-
maginazione e non coincide con essa. Comprendere una descrizione non
significa visualizzare qualcosa e non ci sentiamo autorizzati a parlare di
immaginazione nel caso delle descrizioni, eppure – proprio come le visua-
lizzazioni – anche le descrizioni sono forme che rendono presente qual-
cosa, senza tuttavia darcelo nella sua presenza immediata. Ma allora che
cosa ci consente di parlare di immaginazione quando mi faccio un’imma-
gine cortile della mia università e che cosa ci vieta di farlo quando leggo
una descrizione? Dire che una visualizzazione ha, nella norma, a che fare
con immagini mentali non sembra sufficiente, perché non ogni descrizione
ne è priva. In fondo una mappa è un disegno che descrive un luogo – ma
non è per questo una visualizzazione. E viceversa: forse immagini incon-
sapevoli e schemi motori di varia natura accompagnano il mio ripercorrere
mentalmente la strada che da casa mi conduce sino al mare, ma perché il
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cammino si dispieghi di fronte a me e si orienti nelle forme di un sistema
di deissi che ha in me il suo centro non è necessario che le immagini si
affollino l’una dopo l’altra consapevolmente – è sufficiente che la descri-
zione si orienti rispetto a me e riproponga un cammino che potrebbe essere
descritto così: esco di casa e giro subito a sinistra e poi a destra, per prose-
guire diritto fino a quando dopo una piccola piazza vedo davanti a me il
mare. Se mi esprimo così, non descrivo una mappa, ma visualizzo – o im-
magino – un cammino, e questo anche se questo mio immaginare non con-
siste affatto nel consultare una molteplicità di immagini mentali.
Di qui si deve muovere, io credo, per venire a capo di questa distinzione
che non poggia sulla presenza o sull’assenza di immagini mentali, ma su
una caratteristica peculiare che appartiene all’immaginazione in tutte le sue
forme – una caratteristica che è assente nelle mappe e, in generale, nelle
forme del pensiero. Una descrizione verbale ha natura obiettiva: rappre-
senta l’oggetto senza collocarci rispetto ad esso. Lo stesso accade quando
guardiamo una mappa: vediamo un intreccio di strade e di luoghi, ma per
poterla usare siamo innanzitutto costretti ad orientarla rispetto a noi per-
ché la mappa non dice affatto dove siamo e non raffigura l’oggetto, collo-
candoci rispetto ad esso9.
Diversamente stanno le cose quando ci disponiamo sul terreno della vi-
sualizzazione: le visualizzazioni sono sempre e necessariamente orientate
rispetto all’io cui implicitamente la scena visualizzata si raccorda e non si
limitano a sostenere che qualcosa è fatto così e così, ma lo mostrano in una
sorta di quasi-esperienza che non può darci una ragione per sostenere che
le cose siano così come ce le raffiguriamo, ma che è tuttavia in grado di
riproporci gli oggetti o gli eventi in una forma che è almeno in parte simile
a quella che caratterizzerebbe una loro rinnovata percezione. Il cortile del
Filarete posso descriverlo e posso dirti molte cose che forse non riesci ora
9 Talvolta sulle mappe che servono d’aiuto al turista per orientarsi in una città poco nota vi è un con-
trassegno e una scritta che recita «voi siete qui!». Come ci si debba avvalere di un simile espediente lo sappiamo: l’informazione che ci viene data deve aiutarci ad applicare la mappa allo spazio che essa
descrive, ora che almeno un punto è stato individuato con chiarezza. Quel contrassegno indica dunque
nella mappa il luogo in cui siamo, ma questo non significa che la mappa rappresenti ciò che rappresenta collocandolo rispetto a noi. Tutt’altro: quell’indicazione non ci serve per indicare il luogo in cui di fatto
siamo realmente – sarebbe privo di senso dire a chi si è smarrito che si trova proprio qui, nel posto in
cui è poiché è difficile pensare che non lo sappia! – ma è utile perché ci dice qual è il posto che nella mappa corrisponde al luogo in cui ci si trova: quell’informazione è quanto ci serve per potere dapprima
orientare la mappa e per cercare poi di orientarsi nello spazio reale grazie ad essa. Il senso di una simile
prassi, tuttavia, è interamente determinato dal fatto che la mappa deve essere orientata rispetto al mondo e rispetto a noi, che del mondo siamo parte.
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a visualizzare. Potrei persino arricchire la mia descrizione con una serie di
fotografie che fungano da sostegno visibile di ciò che dico, ma ciò non
toglie che alla mia descrizione mancherebbe comunque qualcosa che la vi-
sualizzazione invece possiede: il suo rendermi presente quel cortile come
se lo stessi osservando. Quando visualizzo qualcosa ne ho una quasi-espe-
rienza – ma che cosa significa il dir così? Una prima risposta mira a far
luce sulle ragioni che ci spingono a parlare soltanto di una quasi esperienza,
non di un’esperienza effettiva: la visualizzazione è una percezione simulata
che non ha una presa diretta sul mondo. Le scene si susseguono nella mente
come se percepissi, ma non percepisco affatto ed è per questo che non
avrebbe senso contrapporre all’evidenza di una testimonianza diretta l’au-
torità delle visualizzazioni. Ma a questa prima ragione se ne affianca un’al-
tra: abbiamo dianzi osservato che una visualizzazione è diversa da una
mappa o da una descrizione perché dispone ciò che ci rende presente in
relazione all’io, ma non vi è dubbio che vi sia un senso in cui l’io non si
situa affatto rispetto a ciò che visualizza o che si raffigura. Immagino il
cammino che potrò tra qualche giorno percorrere, ma il sistema di deissi
che scandisce la mia immaginazione non coincide affatto con il sistema di
deissi che vale ora per me. La visualizzazione non situa realmente il mio
corpo rispetto alla scena visualizzata e si distingue quindi nettamente dalla
percezione che fissa il luogo dell’io in relazione agli oggetti che le si danno.
Rammentiamoci di quello che abbiamo detto intorno alle mappe: quando
oriento una carta stradale per applicarla a ciò che vedo, cerco innanzitutto
di capire dove sono io – e qui “io” significa propriamente il mio corpo
reale. Quando cammino il mio posto sulla mappa muta: la mappa non rende
presente lo spazio che descrive in relazione a me, ma nel suo impiego
debba correlarla al mio corpo reale. Nelle forme di visualizzazione le cose
non stanno così: lo spazio visualizzato si orienta rispetto ad un io – all’io
che è come se percepisse quelle scene. Proprio questo, avevamo osservato,
è ciò che accomuna la visualizzazione all’esperienza percettiva, ma al mo-
mento della somiglianza si deve affiancare la voce della differenza: non
sono io, come corpo reale, che mi situo rispetto allo spazio visualizzato,
ma è solo il mio controcanto finzionale ed è anche per questo che la visua-
lizzazione è solo una forma di quasi-esperienza.
Alla differenza tra io reale ed io finzionale fa da eco la diversità che com-
pete alle forme di quel situare. Nella percezione accade qualcosa: la mia
posizione reale determina la natura del decorso percettivo che varia al va-
riare del luogo da cui osservo le cose. Colgo il luogo in cui sono dal modo
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in cui le cose mi appaiono, ma il mio essere realmente il centro del mio
universo percettivo si manifesta nella dipendenza reale delle scene visive
dal mio osservare gli oggetti da qui, da un punto reale dello spazio che
posso variare solo se faccio qualcosa, se mi muovo nello spazio reale, muo-
vendo insieme al mio corpo il punto zero delle coordinate che ordinano il
mio spazio percettivo. La natura dei decorsi percettivi dipende dal punto
zero del soggetto percipiente, ed è per sottolineare il fatto che questa rela-
zione si dà nella mia esperienza come una relazione reale e causale insieme
che si può dire della percezione che è egocentrata, che appartiene alla strut-
tura reale del percepire il suo dipendere dal atto che il luogo del io deter-
mina il come delle apparizioni. Nel caso delle procedure immaginative le
cose stanno solo apparentemente così perché l’io finzionale rispetto a cui
si orientano le mie visualizzazioni non determina realmente la scena im-
maginativa; al contrario: è solo il modo in cui l’immaginazione si costitui-
sce – il differenziarsi delle sue parti secondo una molteplicità coerente di
rimandi deittici – a fissare il luogo in cui l’io finzionale si situa. Nel caso
delle forme immaginative non vi è dunque un nesso reale che subordini il
variare delle scene al luogo dell’io; al contrario, il qui dell’immaginazione
dipende dal modo in cui concretamente visualizziamo o immaginiamo una
certa scena, dal modo in cui è fenomenologicamente orientata. L’io finzio-
nale è un prodotto dell’immaginazione e dipende dalla forma di ciò che è
immaginato e ciò significa Dalla natura egocentrata della percezione si
deve dunque distinguere il carattere egotetico che caratterizza i processi
immaginativi: nel caso dell’immaginazione, l’io finzionale è situato e po-
sto nel suo qui dal modo in cui lo spazio è immaginato. Il cortile del Filarete
è come se fosse qui, di fronte a me che lo immagino, ma l’io di cui discorro
non è l’io della percezione, non è il suo corpo reale che è qui ed ora, ma è
un io finzionale che ottiene il suo luogo nello spazio visualizzato solo in
virtù del sistema deittico che a questo compete.
Uno stesso ordine di considerazioni vale per le altre forme dell’immagi-
nazione che sono tutte egotetiche e che si distinguono da congetture ed
ipotesi proprio in virtù del loro essere forme di quasi-esperienza. Posso
figurarmi ciò che accadrà domani, ma posso anche semplicemente conget-
turarlo. Domani potrebbe esserci il sole e potremmo andare al mare – que-
sta è la possibilità di cui discorriamo, ma se mi dispongo sul terreno delle
congetture sembra possibile sostenere soltanto questo: che in un determi-
nato giorno dell’anno – il giorno che segue ad oggi – potrebbe esserci il
sole e che potremmo fare una passeggiata sulla spiaggia. Diversamente
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stanno le cose se ci figuriamo quest’evento: se lo facciamo, ci immagi-
niamo davanti alla riva del mare in una giornata di sole cui siamo presenti,
sia pure soltanto finzionalmente. Anche in questo caso, dunque, sembra
farsi avanti una identica differenza: alla dimensione oggettiva della con-
gettura o di ciò che potremmo chiamare descrizione in senso lato fa eco il
carattere di quasi-esperienza delle forme immaginative che sono caratte-
rizzate così dal loro coinvolgerci.
Di qui le ragioni che ci spingono a parlare delle forme dell’immagina-
zione e del ricordo come forme che se non possono essere dette esperienze
in senso proprio sono comunque quasi esperienze. Quando immagino qual-
cosa sono comunque coinvolto nella situazione immaginativa che fingo e
ha senso parlare del mio ego finzionale come un io che appartiene ad una
determinata situazione emotiva che determina ciò che mi tocca e mi colpi-
sce e che orienta la scena immaginativa rispetto ad una soggettività che
diviene il metro ultimo della rilevanza emotiva e affettiva di ciò che ac-
cade. Certo, questo accade perché ciò che si dà nelle forme di una quasi
esperienza ha carattere egotetico e pone un io finzionale che appartiene
all’universo quasi-esperito, ma questo non significa necessariamente so-
stenere che ogni atto di quasi esperienza di fatto si scandisca in una sorta
di processo che ripete in altra forma il decorso percettivo. È possibile che
ciò accada, ma normalmente le cose non stanno affatto così: le immagina-
zioni e i ricordi sono lacunosi e non hanno mai o quasi mai la forma di una
recita in cui una percezione si ripete o si dipana finzionalmente. Se ne pos-
siamo parlare come di una sorta di esperienza è solo perché le quasi espe-
rienze mantengono la struttura egotetica: descriverle significa comunque
avvalersi di un linguaggio deittico che trae la sua sensatezza dal rimando
ad un ego che è posto da ciò che nella quasi esperienza si manifesta.
Dovremo ritornare su questo punto, ma ora possiamo dare una veste ge-
nerale a queste considerazioni e sostenere che vi sono forme calde e forme
fredde di rapportarsi ai fenomeni. Le forme calde hanno un carattere pecu-
liare: ci coinvolgono direttamente e insieme pongono l’io in una relazione
peculiare rispetto a ciò che mostrano – l’ego si trova (in un modo che deve
essere precisato) in relazione con ciò che viene immaginativamente propo-
sto. Le forme di quasi esperienza hanno dunque una loro situazione emo-
tiva10. Le forme fredde, invece, non hanno questo carattere; non sono forme
10 Il concetto di situazione emotiva trae evidentemente spunto dalle riflessioni heideggeriane. Va da sé
che in queste pagine intendiamo farne un uso meno impegnativo e, per così dire, libero dalle implica-zioni ontologiche che sono così rilevanti nelle analisi di Essere e tempo.
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di esperienza, anche se si connettono alle forme dell’esperire in vario
modo. Non trovo me nella mappa che osservo, anche se una mappa può
servire per “trovarsi” meglio nello spazio reale.
Possiamo tracciare allora un secondo schema:
Forme calde – egotetiche
quasi esperienze in senso lato
Descrizioni e assunzioni in senso lato
Forme fredde
Vi sono appunto forme fredde: vi sono eventi reali o possibili e vi sono
descrizioni e congetture che li riguardano. Posso supporre che domani ac-
cadranno determinate cose, ma l’evento che penso possa aver luogo è posto
nella sua obiettività: è questo evento che può accadere e il suo eventuale
concernere la mia persona è un fatto che può essere parte della mia conget-
tura, ma che non fa tutt’uno con la sua forma. Diversamente stanno le cose
per le forme calde: in questo caso, l’immaginazione si rivela necessaria-
mente legata alla soggettività, poiché ciò che immagino è posto come se
fosse il contenuto di una quasi esperienza che si dà come mia e che è quindi
orientata verso di me.
Si tratta di un punto su cui riflettere perché parlare di quasi esperienze
significa di fatto affermare che nel caso della visualizzazione e, più in ge-
nerale, degli atti immaginativi ha luogo una vera e propria scissione dell’io,
che assume una struttura duplice: da un lato vi è chi immagina e che, pro-
prio per questo, non appartiene alla scena immaginata, dall’altro vi è invece
la scena immaginata che, nel suo specifico orientamento deittico, postula
un ego immaginato, un io che vi si trova – nelle forme e nei modi che sono
dettati dall’immaginazione stessa.
Avremo modo di tornare su questi temi, ma le osservazioni che abbiamo
sin qui raccolto ci consentono tuttavia di formulare un’ipotesi di carattere
generale: sembra essere in linea di principio plausibile sostenere che chia-
miamo immaginazione in senso lato solo quelle forme di esperienza che da
un lato non valgono come criteri dell’esserci di qualcosa e che, dall’altro,
hanno la forma di quasi-esperienze e insieme implicano uno sdoppiamento
dell’io. All’io immaginante si affianca un io immaginato che è il luogo di
accessibilità dell’universo immaginativo e che, tuttavia, si dispone su un
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piano che è in linea di principio secondario rispetto al reale. Posso imma-
ginare il cortile del Filarete e porre così un ego finzionale che si rapporta
allo spazio visualizzato; per tacitare questo nuovo io è tuttavia sufficiente
desistere da quel gesto immaginativo, mentre non vi è modo di mettere a
tacere il mio io reale – almeno sin quando sono desto.
Abbiamo detto che questa scissione dell’io è una caratteristica necessaria
dei processi immaginativi, ma è opportuno rammentare che non è affatto
una condizione sufficiente. Proprio come nel caso delle varie forme
dell’immaginazione in senso ampio, anche il ricordo ci invita a disporci su
un duplice piano: vi è un io che vive nel presente e che si dispone sulla
scena reale, ma vi è insieme un io che appartiene al passato e rispetto a cui
si situano le vicende rammentate. Immaginare, tuttavia, non vuol dire ri-
cordare e se le teorie filosofiche che hanno cercato di cancellare o di ren-
dere inessenziale la differenza tra presentazione memorativa e immagina-
tiva vengono difficilmente a patti con la nostra consapevolezza linguistica
è per una ragione che ci è ormai nota: chiamiamo «immaginazione» solo
le forme calde di quasi esperienza di qualcosa che non pretendono di porsi
come un criterio della sua esistenza. Il ricordo, invece, ci offre un criterio
per affermare l’esistenza di qualcosa – un criterio che ha una sua evidenza
e che merita di essere ascoltato, anche se non è definitivo e se è comunque
subordinato al giudizio della percezione.
A partire di qui si può spiegare in che senso il mio assumere un certo
corso degli eventi sia diverso dall’immaginarlo: solo l’immaginazione e
non le assunzioni sono infatti forme di quasi esperienza e quindi solo l’im-
maginazione, ma non le assunzioni, implicano quello sdoppiamento dell’io
di cui abbiamo discusso sin qui. Vi è tuttavia una seconda differenza su cui
è opportuno riflettere e che è, di fatto, strettamente connessa con le consi-
derazioni che abbiamo sin qui proposto. Le assunzioni non sono forme di
quasi esperienza e quindi non ci coinvolgono. In fondo, se qualcuno si ri-
fiutasse di immaginare anche soltanto per un istante che sia giusto divorare
i bambini per risolvere il problema della povertà – come suggerisce di fare
Jonathan Swift in un suo breve scritto – potremmo forse reagire così: po-
tremmo chiedergli di rinunciare ad immaginare che così stiano le cose e
invitarlo ad assumere che questo sia un buon progetto. Le assunzioni non
costano nulla e in fondo per rifiutare a ragion veduta una tesi bisogna pur
sempre comprenderla nel suo contenuto effettivo e disporla a titolo di ipo-
tesi all’interno del sistema delle nostre credenze. Così, se tu mi dici che la
Terra è piatta io comprendo il senso di questa tua affermazione un po’ retrò
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perché so come dovrebbe essere il mondo se è vera e insieme perché riesco
a farmi un’idea di quali siano sono le credenze cui dovrei rinunciare per
poterla pensare vera. Ma se così stanno le cose, assumere per vera una certa
proposizione p significa in ultima istanza intenderla nel suo senso e com-
prenderla nel suo ruolo all’interno del sistema delle mie credenze, ma non
vuol dire affatto credere che sia vera o impegnarsi a sostenere che possa
integrarsi con ciò che ritengo giusto e valido. Le assunzioni non sembrano
implicare un coinvolgimento perché si limitano ad avanzare ipotesi, senza
per questo chiederci di disporci in un contesto finzionale in cui tali ipotesi
siano messe in scena e “vissute” nella loro presunta verità.
Di qui appunto il carattere non coinvolgente delle assunzioni, il loro po-
ter essere accolte senza dover pagare il prezzo di una loro condivisione, sia
pure soltanto fantasticata. Le assunzioni non ci costano nulla perché non ci
toccano: dobbiamo prendere atto di ciò che è contenuto in un’ipotesi, ma
non siamo costretti a prendere partito. L’immaginazione, invece, chiede di
pagare un biglietto: il nostro alter ego deve condividere un mondo che può
essere diverso dal nostro e pervaso da valori che facciamo talvolta fatica a
condividere11.
Vi è tuttavia un’ulteriore differenza che è opportuno mettere in luce an-
che se ci costringe ad una riflessione ulteriore. Le ipotesi, abbiamo osser-
vato, si riferiscono ad asserzioni come ad una modificazione possibile: si
assume qualcosa e la si assume appunto a titolo di ipotesi. Ma ciò è quanto
dire che assumere non vuol dire rapportarsi ad altro, ma modificare il ca-
rattere che spetta ad una proposizione che abbiamo formulato e pensato.
Insistere su questo punto è utile perché ci consente di comprendere la ra-
gione per la quale la modificazione che è chiamata in causa dalle assun-
zioni non è iterabile: data una proposizione, possiamo sempre aprire o
chiudere il circuito che le consente di avere una valenza assertiva, ma insi-
11 Questo termine deve essere preso nel suo significato più generale poiché la condivisione cui qui si
allude non implica il ritenere valido, ma il lasciarsi guidare da un certo insieme di regole che ci acco-
munano ai personaggi della finzione e che ci dispongono in un mondo di cui dobbiamo essere imma-
ginativamente parte. Così, il lettore dell’Iliade non deve necessariamente trovare giusta la mentalità guerriera degli eroi omerici, ma deve consentire che il suo alter ego fantasticato si lasci guidare
dall’universo di valori che permea quelle pagine. Si tratta di un compito che può diventare arduo, ma
il lettore sa che se vuole leggere quelle pagine e comprenderle nella loro pienezza fantastica non può schierarsi dalla parte di Tersite e deve ridere del suo corpo sgraziato. Un compito arduo che il testo
chiede oggi al nostro esercizio di un’immaginazione consapevole e che non può essere sostituito dal
gesto – che non costa sforzo alcuno – di assumere che vi sia un mondo in cui è lecito esigere il silenzio degli umili con l’autorità violenta di uno scettro brandito come un’arma.
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stere nel premere l’interruttore non ci consente di andare al di là dell’anti-
tesi tra due posizioni che si escludono reciprocamente. Potremmo forse
esprimerci così: l’espressione “assumo che p” può essere sempre ricon-
dotta a p, dove p è appunto un’assunzione posta come tale
Nel caso dell’immaginazione le cose mi sembra stiano diversamente e
questo proprio perché quando immagino qualcosa non mi limito a ruotare
un interruttore, modificando un’asserzione in un’ipotesi, ma dispongo me
(il mio alter ego immaginativo) sul terreno di una quasi esperienza che
dischiude per me un mondo. In questo mondo che l’immaginazione delinea
non vi è, tuttavia, l’io che esperisce e che, tra le altre cose, immagina; ne
segue che ogni immaginazione rimanda per sua essenza ad una prospettiva
esterna al suo contenuto: la prospettiva del soggetto reale che ascolta o che
crea il racconto, dichiarandosi insieme disposto ad immaginare. Ma ciò è
quanto dire che ogni atto immaginativo può divenire a sua volta oggetto di
un’immaginazione nuova che dispone il mondo immaginario e il soggetto
che lo finge all’interno di una nuova finzione, un po’ come talvolta accade
quando in un sogno sogniamo di sognare o in un ricordo ricordiamo di aver
ricordato. In altri termini: l’immaginazione non è una mera modificazione
che appartiene al carattere assertivo di una proposizione, ma è una famiglia
di atti intenzionali che ha il carattere della quasi esperienza e che è, proprio
per questo, apertamente iterabile, anche se si tratta di un’iterazione che è
sensata e percorribile solo nei suoi primi passi12.
4. Esperienza e coinvolgimento
Le considerazioni che abbiamo appena svolto ci hanno permesso di richia-
mare l’attenzione su un punto: l’immaginazione nelle sue varie declina-
zioni si caratterizza come una forma di quasi esperienza che mette in rela-
zione ciò che è immaginato con il soggetto che quasi esperisce. L’abbiamo
12 Le cose stanno così, io credo, e tuttavia basta disporsi sul terreno linguistico perché la chiarezza che
abbiamo raggiunto si dissipi nuovamente. In fondo non possiamo assumere che vi sia un mondo in cui
si assume che le cose stiano così e così? Non possiamo in altri termini assumere di assumere? Io credo
che non sia possibile a meno che non si intenda il verbo “assumere” come se fosse un sinonimo del verbo “immaginare”. Certo, se quando mi chiedi di assumere pretendi da me che io immagini me stesso
che avanza un’assunzione di un qualsiasi tipo, se cioè, mi chiedi di avere una quasi esperienza di me
che avanzo a titolo di ipotesi una certa proposizione, per vagliare quali per esempio possano essere le reazioni altrui, allora evidentemente ciò che si intende con “assumere” è divenuto identico a ciò che
intendiamo con “immaginare”. Non credo che la nostra sensibilità linguistica abbia qualcosa da obiet-
tare rispetto a questi possibili usi del verbo “assumere”, ma il nostro problema non è quello di fissare un uso per le nostre parole. Ci basta avere indicato la possibilità di una distinzione concettuale.
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già osservato: questo soggetto non è l’io che immagina, ma è esso stesso
parte dell’immaginazione ed è coinvolto nell’universo immaginativo nelle
forme e nei modi che l’immaginazione stessa determina. Il coinvolgimento
può essere esile e non andare al di là di una relazione quasi spaziale, come
accade quando mi rendo presente il cortile del Filarete, ma può assumere
un contenuto più ricco, come accade quando leggo un racconto o quando
gioco. Nell’uno e nell’altro caso il coinvolgimento assume una piega emo-
tiva rilevante e posso sentirmi ora commosso, ora spaventato da quello che
immagino. Un punto, tuttavia, deve essere rammentato: il coinvolgimento
è sempre determinato dalla natura del processo immaginativo. Posso sen-
tirmi coinvolto da una scena immaginativa come se la osservassi da un
luogo altro e inaccessibile, ma posso anche essere chiamato direttamente
in causa dalla vicenda immaginativa, come talvolta accade in certi spetta-
coli teatrali o in certi romanzi che si rivolgono esplicitamente la lettore.
Posso sentirmi contemporaneo agli eventi narrati, ma è anche possibile im-
maginare un coinvolgimento che si rapporta alla scena immaginata ponen-
dola in un lontano passato o in un futuro remoto, come accade in certe
opere di fantascienza. Posso essere vicino alla scena fantasticata o lontano
da essa, e lo spazio può veicolare una differenza del coinvolgimento emo-
tivo, come accade in molti quadri e in molte rappresentazioni cinematogra-
fiche. E ancora: posso immaginarmi coinvolto come spettatore o testimone,
ma anche nella forma di chi è reso partecipe di un evento che gli viene
narrato. Così, lo spettatore che assiste all'omicidio di Marion in Psycho non
vi partecipa come se fosse un testimone oculare – nel senso della scena
raffigurata vi è che nessuno l’abbia vista all’infuori dell’assassino e della
vittima – ma non per questo può fare a meno di rapportarsi visivamente
alla scena secondo un orientamento spaziale determinato egocentrica-
mente: l’assassino si avvicina per uccidere Marion e poi lascia la stanza
allontanandosi da chi guarda, e ogni gesto di Marion e di Norman ha un
orientamento che va al di là della dimensione contenutistica dell’evento e
allude anche alla prospettiva da cui è colto. Lo spettatore non è un testi-
mone, ma non può fare a meno di sentirsi coinvolto in una scena che è
orientata verso di lui: deve immaginare così quello che vede – come se
avvenisse qui, di fronte a lui, in uno spazio immaginativamente condiviso,
ed è per questo che basta un gesto perché il coinvolgimento muti di segno:
Marion, ferita a morte, cerca disperatamente un appiglio, ma la sua mano
che si protende nel vuoto per un attimo costringe lo spettatore a vestire i
panni del testimone che è rimasto nell’ombra, ma che ora viene chiamato
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ad assumere un ruolo e a rispondere ad una richiesta di aiuto. È solo un
attimo: il gesto rivela la sua vera intenzione e la richiesta di aiuto si perde
insieme alla forma di coinvolgimento che aveva evocato. Una modalità
complessa di coinvolgimento, che andrebbe ulteriormente descritta, ma
che è utile qui rammentare solo perché ci consente di ribadire che il coin-
volgimento immaginativo è tutt’altro che univoco e ha le forme dell’im-
maginazione che lo pone.
5. Immaginazione e intuizione
Forse le considerazioni che abbiamo proposto sin qui possono sembrarci
plausibili e tuttavia lasciano ancora aperto un problema che merita di essere
discusso. Sinora, infatti, non abbiamo detto proprio nulla del carattere in-
tuitivo dell’immaginazione e questa dimenticanza sembra tanto più grave
quanto più saldo sembra essere il legame tra ciò che chiamiamo in senso
lato immaginazione e la capacità di farsi immagini delle cose. Questo nesso
deve sussistere perché qualunque cosa sia l’immaginazione, deve in qual-
che modo dipendere dalle forme e dai modi in cui opera la nostra mente, e
sembra ragionevole sostenere che la capacità di crearsi immagini mentali
abbia una rilevante voce in capitolo quando si tratta di fingere qualcosa.
Verso una qualche valorizzazione di questo nesso ci spingono del resto
considerazioni di varia natura che sembrano ritrovare sul terreno descrit-
tivo gli indizi di ciò che sembra ragionevole supporre sul piano esplicativo:
innanzitutto la tesi secondo la quale l’immaginazione è la capacità di raf-
figurarsi ciò che è assente, ma anche le considerazioni che ci spingono a
pensare all’immaginazione come al terreno di incontro tra la determina-
tezza della percezione e l’astrattezza del pensiero. L’immaginazione è la
facoltà degli schematismi e per quanti dubbi si possano legare alle rifles-
sioni kantiane che vanno sotto questo titolo sarebbe un errore negare che
Kant abbia colto un problema importante: il pensiero, almeno nelle sue
forme elementari, è una procedura operativa che non può essere disgiunta
dall’immaginazione, dal suo concreto operare nella dimensione intuitiva,
per piegare la concretezza del dato al ruolo che esso deve assumere nelle
operazioni intellettuali in cui entra far parte. L’immaginazione è una fa-
coltà intuitiva – ma allora: possiamo davvero “dimenticarci” delle imma-
gini mentali e come pensare di venire a capo del concetto di immaginazione
senza disporsi su questo terreno?
Non possiamo dimenticarcene, ma è necessario procedere con calma per-
ché nella parola “intuizione” si intrecciano molti fili che, io credo, debbono
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essere tenuti ben distinti e che, almeno da un punto di vista descrittivo, non
possono essere stretti insieme nell’unico nodo delle immagini mentali.
Può senz’altro darsi che l’immaginazione dipenda dalla capacità di pro-
durre immagini mentali, ma il constatare che l’immaginazione si avvale di
continuo di schemi mentali non significa ancora avere colto una ragione
che ci consenta di sostenere che l’immaginazione sia una facoltà intuitiva
perché si muove sul terreno delle immagini, perché non soltanto implica,
ma è nel suo senso una facoltà che vive di raffigurazioni mentali.
Un esempio può aiutarci a chiarire il problema. Un tronco su un prato
diviene nel gioco un cavallo su cui galoppare; in questa possibilità vi è
senz’altro un insieme di connotazioni intuitive: su un tronco si può stare a
cavalcioni perché lo si può stringere tra le ginocchia ed è facile pensarlo
come un animale che corre in una direzione determinata, perché la sua
forma, così chiaramente orientata lungo un unico asse, ce lo consente. Non
solo: tutto questo è possibile – lo abbiamo già osservato – solo perché il
bambino possiede un insieme di schemi mentali e motorii che rimandano
alla prassi che deve essere immaginativamente inscenata. L’immagina-
zione presuppone un procedimento analogico: il bambino può cavalcare
quel tronco come se fosse un cavallo solo perché possiede gli schemi mo-
torii che rendono possibile inscenare quel comportamento. Qui l’immagi-
nazione è senz’altro intuitiva, ma questo non significa che gli schemi men-
tali che rendono possibile un simile gioco siano per questo presenti come
un contenuto tra gli altri nell’esperienza ludica. Il bambino che cavalca un
tronco non vede con gli occhi della mente un cavallo – e non le vede natu-
ralmente nemmeno con gli occhi reali. Non vede un cavallo, né si raffigura
un cavallo: scopre in un tronco una possibilità nuova: scopre che il tronco
può essere utilizzato così ed è proprio quest’uso a rendere intuitivamente
presenti una molteplicità di caratteristiche inattese in un semplice pezzo di
legno. Il bambino vede quello che vediamo noi che lo guardiamo giocare
e ha in mente quello che abbiamo in mente anche noi che assistiamo al suo
gioco, ma la sua prassi immaginativa (che non si perde nella norma nel
richiamare immagini di cavalli o di cavalcate) rende intuitive una molte-
plicità di cose: il tronco assume una direzione e guarda in avanti e assume
per questo un capo, una schiena e una coda, mentre la sua corteccia assume
una sensibilità immaginaria perché è su di essa che il bambino agisce per
lanciarsi al galoppo. Sul prato resta un tronco e non vi sono nella mente
immagini di cavalli che vengano passo dopo passo scrutate: il bambino
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vede quello che vediamo noi, ma la sua prassi consente di applicare imma-
ginativamente un concetto e di attuare una serie di riconoscimenti imma-
ginativi: se il bambino si mette a cavalcioni del tronco e raffigura con i suoi
gesti e i suoi movimenti l’atto del cavalcare, allora il tronco è un cavallo e
quella è la testa, quest’altra la schiena, e così via. Nel gioco, il tronco di-
venta un cavallo al galoppo, ma lo diviene all’interno di una prassi che
rende visibile, perché imita, un gesto che, a sua volta, ci consente di tentare
un riconoscimento che ne motiva immaginativamente altri. Li motiva im-
maginativamente e intuitivamente perché anche se continuiamo a vedere
un tronco, impariamo dai gesti e dai comportamenti del bambino come si
debba applicare la regola del gioco, senza dover fare riferimento ad una
spiegazione effettiva. La prassi mostra da sé come dobbiamo fare: per ca-
pire che cosa è nel gioco quel tronco non dobbiamo ragionare: dobbiamo
solo cercare di riconoscere ciò che i gesti infantili mimano. Non abbiamo
bisogno di pensare, ma solo di immaginare coerentemente con quanto si
raffigura davanti ai nostri occhi. Ma ciò è quanto dire che l’immaginazione
è in questo caso intuitiva solo perché rende manifesto un uso che, a sua
volta, ci indica intuitivamente come dobbiamo immaginare l’oggetto di cui
ci si avvale.
Vi è una seconda ragione per la quale credo si debba senz’altro affermare
che l’immaginazione è una facoltà intuitiva: l’immaginazione è una forma
di quasi esperienza che orienta l’universo immaginativo rispetto ad un io
finzionale, proprio come la percezione dispiega il suo mondo rispetto all’io
reale. Così, se immagino un cammino che si snoda tra salite e discese e che
ora piega a destra e ora a sinistra, queste parole assumono un senso perché
si dispiegano intuitivamente rispetto all’io finzionale che può intenderle
alla luce di un riferimento deittico. Non solo. Immaginare oggetti significa
anche rapportarli implicitamente ad un’unità di misura che si radica nel
nostro corpo e che determina il senso intuitivo di quelle grandezze, ed un
simile discorso vale evidentemente per ogni determinazione degli oggetti
immaginati che ha sempre una piega intuitiva perché si modella non sulla
dimensione di un’astratta obiettività, ma nelle forme di una concreta inte-
razione esperienziale. L’immaginazione è intuitiva, ma questo ancora una
volta non significa che ogni immaginazione consti di immagini mentali, né
che sia possibile venire a capo delle distinzioni concettuali che è necessario
tracciare alludendo alla presenza di immagini che accompagnano la prassi
immaginativa.
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Di qui, credo, la possibilità di trarre la conclusione cui queste considera-
zioni tendono. Sottolineare il carattere intuitivo dell’immaginazione signi-
fica molte cose, ma non vuol dire affatto affermare che l’essenza dei pro-
cessi immaginativi consista in un qualche analogon della sensibilità, in un
contenuto intuitivo di natura peculiare che attribuirebbe una sorta di pie-
nezza intuitiva agli atti immaginativi. Se quando si parla di intuitività si
intende qualcosa di simile alla ricchezza di connotazioni sensibili o quasi
sensibili, allora è il caso di osservare che l’intuitività ha gradi e li ha tanto
nella percezione quanto nell’immaginazione o nel ricordo. Posso ricordare
in modo intuitivo i viottoli mille volte percorsi di una città che conosco
bene: posso avere vivida di fronte alla mente l’immagine delle case, le pie-
tre sconnesse del selciato, il succedersi delle svolte e degli slarghi e posso
quasi avvertire l’odore di umidità che emana da quelle pietre, ma non sa-
rebbe meno un ricordo se semplicemente dicessi di ricordare quelle case e
quei viottoli e quell’odore denso di salsedine e se nel mio dire così non vi
fosse altro che una piena comprensione del significato di quelle parole. La
natura del ricordo non riposa nella natura intuitiva delle immagini che lo
accompagnano e questo per la buona ragione che posso ricordarmi di qual-
cosa senza essere espressamente consapevole di una qualsiasi immagine.
Del resto, anche nel caso della percezione l’intuitività così intesa ha
gradi. Vedo la mia mano di fronte a me, ma non posso avere sensibilmente
presente il dorso e il palmo: vedo la mano, ma solo un aspetto si dispiega
sensibilmente allo sguardo. Così, vedo che sul tavolo ci sono dei libri, an-
che se non ho sensibilmente presente quella parte del tavolo che mi con-
sente di dire che i libri poggiano su di esso. La pienezza sensibile ha gradi,
ma non sembra essere questo il criterio che ci consente di parlare di una
percezione. Non vedo superfici, ma oggetti e li vedo su uno sfondo, anche
se per dare a questa paroletta il significato percettivo che le compete devo
riconoscere che la percezione visiva eccede necessariamente l’ambito di
ciò che è sensibilmente dato.
L’intuitività ha gradi e forse, nel caso dell’immaginazione, non supera
mai una certa soglia: le immagini mentali che accompagnano talvolta il
nostro immaginare non sembrano avere la stessa chiarezza che compete
alle percezioni. Ma non è questo il punto: il punto è che, ancora una volta,
non sembra affatto necessario sostenere che tali immagini debbano effetti-
vamente sussistere per dire che abbiamo a che fare con un processo imma-
ginativo. «Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò
trasformato in un enorme insetto» – è così che si apre un racconto famoso
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di Kafka; questo racconto ci propone un compito immaginativo ben pre-
ciso: dobbiamo pensare ad un uomo che ha subito nottetempo una meta-
morfosi inquietante e che ora si risveglia nel suo letto, trasformato in un
insetto di cui passo dopo passo scopre la natura, in un processo che è in-
sieme la scoperta del suo nuovo corpo – la schiena arcuata e rigida, le molte
zampette esili, il ventre convesso, bruno, diviso da solchi profondi. Dob-
biamo immaginare tutto questo, ma per farlo non siamo affatto costretti a
delineare nella mente una scena che con tutta probabilità ci stupirebbe se
soltanto ci fosse data la possibilità di osservarla. Potrebbe stupirci, ma po-
trebbe anche, semplicemente, infastidirci perché l’avere davanti agli occhi
quella scena non è parte del compito che l’immaginazione ci propone e
anzi finirebbe con il rimuovere proprio ciò che determina la natura di ogni
metamorfosi: il suo essere un nodo inestricabile di proprietà contradditto-
rie. Gregor è un enorme insetto ma è anche e soprattutto un commesso
viaggiatore che si sveglia in ritardo, Dafne è una pianta di alloro, ma è
anche e soprattutto una giovane donna, ed è per questo che chi ha cercato
di rendere visibile quella metamorfosi antica si è visto costretto a raffigu-
rare solo in momento in cui la metamorfosi sta avendo luogo – quel mo-
mento su cui invece significativamente Kafka tace.
L’immaginazione è intuitiva e si fonda sulla nostra capacità di produrre
immagini e schemi mentali, ma non per questo consta di immagini – questa
è la conclusione cui mi sembra si possa giungere. Sottolinearlo è impor-
tante perché ci consente di cogliere come dietro al problema dell’intuitività
dell’immaginazione se ne nasconda un altro su cui dovremo tornare in se-
guito, ma su cui è già forse opportuno spendere qualche parola. Quale sia
questo problema è presto detto: l’immaginazione è un titolo generale sotto
cui si raccolgono molte cose diverse, ma per cercare di venirne a capo è
necessario distinguere con chiarezza ciò che l’immaginazione è come fa-
coltà della nostra mente da ciò che l’immaginazione è diventata nella no-
stra cultura. Sarebbe sciocco pensare che gli usi e le forme dell’immagina-
zione – la rete dei giochi linguistici che circoscrive il senso che attribuiamo
a questa parola – non abbia come sua condizione di possibilità il fatto che
la nostra mente è capace di fare certe cose. Possiamo esercitare le molte-
plici forme dell’immaginazione perché siamo capaci di produrre immagini
e schemi mentali: è relativamente ovvio che le cose stiano così. Sarebbe
tuttavia meschino pensare che l’immaginazione come complessa trama di
senso si risolva in una qualche facoltà della mente. L’immaginazione è nata
per ragione biologiche: in un animale come l’uomo è utile una mente che
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sappia rendere presente ciò che è assente. L’immaginazione è nata per que-
sto, ma si è affinata nel suo senso: abbiamo imparato a disporla in una serie
di giochi linguistici che hanno definito il suo senso al di là delle sue fun-
zioni biologiche. L’arte del raccontare e della narrazione fantastica presup-
pone la facoltà dell’immaginazione, ma sarebbe sbagliato cercare un fon-
damento biologico del narrare.
Per quanto possa sembrare paradossale, alla luce di simili tesi non vi è –
per quel che mi sembra di poter dire – una volontà effettiva di comprendere
l’uomo sul fondamento della dinamica biologico-evolutiva. Una prospet-
tiva evoluzionistica dovrebbe al contrario farci innanzitutto pensare al fatto
che i primati, che sono così vicini a noi per quel che concerne le capacità
intellettuali, sono ciò nonostante lontani dall’insieme delle pratiche che ca-
ratterizzano la nostra cultura. In realtà, il giusto richiamo a considerazioni
di carattere biologico nasconde una pretesa ingiustificata: la tesi secondo
la quale sarebbe possibile comprendere per intero le forme in cui si articola
la nostra forma umana di vita in un qualche modulo che si possa presup-
porre e che ci consenta di anticipare una volta per tutte che cosa sia l’im-
maginazione. Ma io non credo che questo sia vero e ritengo che ci sia una
storia dell’immaginazione, un suo procedere sul fondamento delle nostre
capacità biologicamente determinate. Così, quando dal gioco e dal rito è
sorto il teatro (ed è accaduto così da poco, così come da poco è nata la
finzione narrativa) non si è manifestata una possibilità che era già racchiusa
nelle sue forme e nella sua natura in una facoltà della mente, ma è sorta
una nuova forma dell’immaginazione e insieme ad essa un significato
nuovo che ha aperto possibilità nuove, così come nuove – anche se chiara-
mente connesse con le forme tradizionali dell’immaginare – sono le forme
immaginative che sono nate insieme al cinema o ai videogiochi: ciascuna
di esse sollecita in modo diverso le nostre capacità e ci costringe a nuove
forme dell’immaginazione. La pretesa di ancorare l’immaginazione ad una
facoltà che la conterrebbe e la giustificherebbe in toto non è innanzitutto
un nuovo capitolo di una filosofia naturalistica, né tanto meno un tentativo
di disporsi davvero sul terreno dell’indagine scientifica: è una forma di es-
senzialismo mascherato che ha, per di più, il difetto di cercare la sua giu-
stificazione non nel materiale che pretende di dominare, ma nelle analisi
psicologico-cognitive.
Nessuno prenderebbe sul serio il tentativo di definire che cosa sia la na-
tura dei numeri e quali le loro forme a partire da una qualche riflessione
sulla natura delle facoltà che ci consentono di contare e che sicuramente ci
60
differenziano da qualche animale, anche se non necessariamente da tutti.
Abbiamo imparato a contare perché potevamo farlo, ma non avrebbe senso
cercare in quella capacità la natura delle leggi dell’aritmetica, il concetto
di numero reale, la natura dei numeri trascendenti o la matematica dei tran-
sfiniti. Nessuno lo farebbe. E credo che sia opportuno non farlo nemmeno
quando si parla delle forme dell’immaginazione.
5. Uno schema riassuntivo
Nelle nostre considerazioni sull’immaginazione ci siamo lasciati guidare
da un’idea che potremmo riassumere così: ci sono molti e diversi usi del
termine “immaginazione” e vi sono ragioni che li giustificano. Le classifi-
cazioni, insomma, non sono vere in assoluto, ma sono un tentativo di fare
ordine cui se ne affiancano altri possibili. Sottolineare ora un significato
ampio della parola immaginazione, ora un significato più ristretto può in
altri termini creare qualche perplessità, ma è in fondo utile perché ci invita
a mostrare la rete di connessioni e di differenze entro cui si muovono i
nostri concetti. Se tuttavia lasciamo da canto il problema di giustificare gli
usi linguistici e cerchiamo di far ordine nel nostro vocabolario concettuale
ci accorgiamo che è possibile individuare una serie di caratteristiche gene-
rali che ci consentono di fissare lo spazio del concetto di immaginazione e
di articolare al suo interno le sue differenti forme. Quali siano questi tratti
generali è presto detto: sono le diverse antitesi su cui ci siamo soffermati
nelle nostre analisi e che ci hanno consentito di distinguere le forme della
presentificazione da quelle in cui l’oggetto è dato direttamente, gli atti caldi
da quelli freddi, le forme posizionali da quelle che posizionali non sono.
Queste tre antitesi individuano tre possibili direzioni di ordinamento delle
forme intenzionali e disegnano così gli assi che dischiudono lo spazio con-
cettuale entro il quale si situano percezioni, ricordi e naturalmente anche
l’immaginazione nelle sue diverse forme. Di qui un terzo schema su cui
soffermarsi.
Guardando questo schema possiamo dire, per esempio che la percezione
è un atto immediatamente offerente, di natura posizionale e che ha il carat-
tere di un’esperienza – che è una forma calda. Il ricordo condivide con la
percezione calore e posizionalità, ma è un atto meramente presentificante.
E l’immaginazione? In questo caso le forme dell’immaginazione ci ap-
paiono nel loro situarsi in quadranti differenti dello spazio che abbiamo
delineato. L’immaginazione in senso pregnante crea i propri oggetti e
quindi è un atto immediatamente offerente che ha il carattere di una quasi
61
esperienza – è una forma calda, dunque. Non è tuttavia un atto posizionale
e questo la situa in un quadrante interamente diverso da quello che la per-
cezione occupa. Quanto poi alla distinzione tra esperienze e quasi espe-
rienze non è difficile situarla: un’esperienza è una forma calda immediata-
mente offerente e posizionale, laddove le forme di quasi-esperienza ab-
bracciano le rimanenti forme calde.
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CAPITOLO SECONDO
L’IMMAGINAZIONE ASSOLUTA: UNA POSSIBILITÀ NUOVA
1. Una genealogia dell’immaginazione?
Le considerazioni che abbiamo condotto sin qui avevano un obiettivo di
carattere generale: volevano tracciare un ordine possibile tra i molti signi-
ficati della parola “immaginazione”, e non certo per far luce su una serie
di usi linguistici, ma per comprendere meglio la grammatica della nostra
esperienza e il posto che in essa spetta all’immaginazione nelle sue diverse
forme. Nel tracciare la mappa del concetto di immaginazione ci siamo fin
da principio imbattuti in una proprietà rilevante: le forme di quel concetto
potevano essere ordinate secondo il criterio della loro crescente diversità
dalla percezione e dal ricordo, un fatto questo che ha ci spinto a parlare
dapprima di immaginazione in senso lato e poi di immaginazione in senso
pregnante. Ora, avvalersi di questo criterio significa mostrare che di un
concetto specifico per l’immaginazione vi è un bisogno crescente: quando
immaginiamo facciamo molte diverse cose che occupano ciascuna un po-
sto nella grammatica della nostra esperienza, ma ciascuna di queste cose fa
un passo nella direzione che ci allontana dalla realtà. E tuttavia qualcosa di
realmente nuovo accade soltanto quando ci disponiamo sul terreno dell’im-
maginazione in senso pregnante e lasciamo che prendano forma finzioni
che creano i loro oggetti e che hanno preso definitivamente commiato da
questo nostro mondo. Se la percezione ci ancora agli ingranaggi del
mondo, il ricordo e ancor più l’immaginazione sono una sorta di frizione
che ci permette di cambiare il rapporto con la realtà stessa e che infine
sgancia i movimenti del motore dalle ruote dell’esperienza. In questo senso
l’immaginazione narrativa e ludica si rivelano davvero come l’esito di un
cammino che ci consente di abbandonare pro-tempore il nostro coinvolgi-
mento nel mondo reale, per lasciarci catturare da un universo meramente
finzionale.
Abbiamo imparato a fare così, a disporre i nostri giochi e i nostri racconti
in uno spazio che non appartiene più al contesto del nostro mondo, e che è
divenuto autonomo, anche se non per questo incapace di interpellarci. Ma
appunto: abbiamo imparato a farlo, e ciò che ora appartiene alle possibilità
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più proprie dell’immaginazione umana forse non è affatto di per sé conte-
nuto nel repertorio delle facoltà. Sappiamo immaginare e sappiamo rac-
contare favole perché siamo fatti così, ma non è affatto necessario pensare
che vi sia una facoltà specifica dell’immaginazione che abbia, nelle sue
corde, la capacità di fingere oggetti interamente nuovi, che non pretendono
di esistere, né di appartenere al contesto del mondo. Sappiamo contare per-
ché il nostro cervello ce lo consente, ma sarebbe curioso pensare che si
possa ricondurre la matematica nel suo complesso ad una qualche facoltà
che, per così dire, l’anticipi nella sua possibilità. Ci sono molte diavolerie
nella matematica che non appartengono certo alla nostra natura, e lo stesso
potrebbe valere anche per le forme dell’immaginazione, che si radicano
nelle nostre facoltà, ma non sono racchiuse in un angolo della nostra mente.
Così, prima di riflettere un poco sulla natura dell’immaginazione in senso
pregnante, è forse opportuno riflettere su ciò che forse ci ha condotto in
prossimità di essa. Dobbiamo, in altri termini, discutere di quelle forme
intermedie che ci hanno condotto ad ampliare lo spazio logico dell’imma-
ginazione e che, a partire dalla nostra capacità di farci immagini delle cose
e di ricordarle, ci consentono di fare cose nuove, senza per questo essere
poi molto diversi per natura da quelle grandi scimmie con le quali condi-
vidiamo, in un tempo non poi così remoto, un’origine comune. Si potrebbe
dire, in un certo senso, che dobbiamo tracciare un’ipotetica genealogia
dell’immaginazione nelle sue forme più proprie, ma a questo termine – così
carico di risonanze filosofiche e così impegnativo – vorrei dare un signifi-
cato minimale. In fondo, il nostro obiettivo è solo questo: dire che la sinossi
delle forme immaginative che abbiamo tracciato potrebbe essere letta an-
che così – come l’indicazione di una genesi ideale. Forse abbiamo impa-
rato a raccontare e a giocare così come giochiamo e se questo è accaduto,
è ragionevole pensare che sia accaduto a partire da un insieme di forme di
vita più semplici di quella che ora ci accomuna, da forme della prassi che
si radicano in un modo più o meno diretto in ciò che è nelle corde delle
nostre facoltà.
Abbiamo imparato a raccontare, ma alla narrazione come prassi che ci si
dispone sul terreno finzionale si deve anteporre, in linea di principio, la
narrazione dei ricordi e quindi degli eventi che ci sono accaduti. Sappiamo
richiamare alla mente ricordi episodici e questa capacità accomuna la no-
stra memoria a quella di molti animali: ricordarsi di ciò che è accaduto è
una condizione importante dell’apprendimento e non dobbiamo quindi stu-
pirci di ricordare quello che anche alcuni animali sanno rammentare.
64
Qualcosa di nuovo tuttavia accade quando i ricordi diventano racconto e
si fa avanti la prassi umana della loro condivisione. La narrazione dei ri-
cordi e degli eventi accaduti, la loro ripetizione nella forma di un racconto
che fissa l’evento narrato in un calco linguistico rappresentano il primo
passo verso l’acquisizione dell’atteggiamento narrativo e rispondono al-
meno in parte alle stesse esigenze: disporre gli eventi secondo un ordine
dominabile, scoprirne la sensatezza e insieme acquisire rispetto ad essi una
distanza che consente di riappropriarsi di ciò che è accaduto, senza lasciarsi
travolgere dalla sua carica emotiva. È ciò che accade a Ulisse quando il
racconto di Demodoco lo commuove dapprima e lo costringe poi a raccon-
tare il suo passato, a rivelare il suo nome e insieme a farsi una ragione di
quel che è accaduto, che può così finalmente tradursi in una vicenda con-
clusa, aprendo così la strada del ritorno.
La narrazione dei ricordi anticipa la narrazione finzionale, e non è un
caso che sia così: in fondo, il ricordo ha molti tratti che anticipano la strut-
tura della narrazione. Raccontare qualcosa – un evento reale – significa
innanzitutto questo: ripetere a qualcuno che cosa è accaduto. Si tratta di un
gesto semplice che ha tuttavia una sua prima rilevante conseguenza. Ogni
evento è concatenato agli altri in una trama che vincola ogni istante al mo-
mento che lo precede e a quello che segue: gli eventi appartengano alla
catena del tempo, e nel tempo gli istanti si dispongono in una serie che ad
ogni punto affianca un antecedente e un successore. La ripetizione recide
questa concatenazione di istanti e segna nel tempo un inizio e una fine –
l’inizio e la fine di quell’evento che viene nuovamente messo in scena nella
volontaria ripetizione della narrazione del ricordo.
Certo, avere un inizio e una fine nel tempo è una proprietà che spetta ad
ogni evento: le persone nascono e muoiono, proprio come inizia e finisce
un gesto o un’azione, e tuttavia l’istante iniziale e finale di un accadimento
non godono di uno status peculiare, poiché la loro natura di punti critici è
tale solo rispetto a ciò che delimitano, non rispetto alla serie temporale cui
appartengono e all’interno della quale occupano una posizione tra le altre.
Qui posizioni assolute non possono esserci: l’istante in cui si inaugura un
nuovo accadimento è anche sempre il limite ultimo di un passato che sva-
nisce, proprio come l’attimo in cui si chiuderà l’evento di cui discorriamo
è anche sempre l’inizio di qualcosa di nuovo che è indistricabilmente in-
trecciato con il vecchio. Non si può insomma parlare di un inizio e di una
fine assoluti e non si può parlarne perché ogni accadimento appartiene alla
concatenazione aperta degli eventi e del loro succedersi nell’unicità del
65
tempo.
Diversamente stanno le cose quando si fa avanti il fenomeno della ripe-
tizione nel ricordo. Nel continuum del flusso temporale la ripetizione rita-
glia infatti un segmento che nel suo essere ripetuto guadagna una sostan-
ziale indipendenza dalla serie cui pure apparteneva13. La ripetizione è una
forbice affilata: recide il duplice nesso che lega un segmento temporale ad
un prima e ad un poi e, liberandolo dalla sua appartenenza al continuum
della temporalità, gli attribuisce una peculiare chiusura. Prima e dopo il
colpo di forbice della ripetizione non vi è nulla di rilevante poiché la ripe-
tizione detta una trama di attese che si soddisfano interamente là dove
l’evento ripetuto si chiude, perché questa era la meta cui l’intero processo
tendeva.
Le ragioni di questo fatto non sono difficili da scorgere: ripetere un
evento significa spostarlo nel tempo e proporre quindi, come sue proprietà
caratteristiche, solo le proprietà della sua forma, e cioè quelle proprietà che
concernono la sua struttura, non la sua individualità. Ne segue che le fasi
in cui si scandisce l’unità di decorso dell’evento ripetuto non sono contras-
segnate dalla loro appartenenza all’unità del tempo del mondo, ma dalla
posizione che ciascuna di esse occupa rispetto ai punti salienti (l’inizio, la
fine, il climax) che sono propri della struttura formale e ripetibile
dell’evento stesso.
La ripetizione, tuttavia, non si limita a dare agli eventi un inizio ed una
fine assoluti, ma li svincola almeno in parte dai rapporti di dipendenza da-
gli altri eventi del mondo. Ogni azione è preceduta da accadimenti che la
motivano ed è a sua volta causa di altre azioni, che possono essere piena-
mente comprese nel loro senso solo se vengono colte sullo sfondo della
concatenazione reale degli eventi. Anche in questo caso la ripetizione agi-
sce come un rasoio che scioglie, rescindendoli, i nodi che stringono
l’evento alla realtà. E ciò è quanto dire: il gesto o l’azione che vengono
rammentati non possono guadagnare la loro sensatezza nell’instaurare un
rapporto con ciò che li precede o li segue, ma debbono piuttosto porsi come
unità relativamente chiuse rispetto all’esterno, come forme relativamente
indipendenti che debbono trovare in se stesse la loro comprensibilità e la
loro autonoma ragion d’essere. Nel ricordo, le scene che si legano
nell’unità di un evento ci appaiono alla luce del loro convergere verso una
meta: al succedersi degli eventi che rendono possibile anticipare almeno in
13 Che alla ripetizione spetti questa funzione lo si coglie bene sul terreno musicale: un tema ripetuto è
un’individualità autonoma che inizia e finisce nel continuum sonoro.
66
parte quel che accadrà, si sostituisce un processo retrogrado che guarda al
dipanarsi degli eventi dal punto di osservazione del loro esito. La ripeti-
zione ripete una forma e la rende concretamente presente e, insieme ad
essa, ancora il processo ad una regola che lo rende anticipabile proprio
perché il corso degli eventi è ancorato all’esito cui conducono. La falsa
necessità del ricordo ha qui la sua origine: quando ci disponiamo nella pro-
spettiva della meta i passi che hanno condotto ad essa ci appaiono in qual-
che modo necessari. È andata così, e questo sapere che è inseparabile dalla
natura del ricordo guida il corso degli eventi rammemorati e li strappa dal
pensiero della loro alterabilità. Le cose accadono nella vita e sono, nella
norma, fatti casuali che – come si dice – non conducono a nulla. Ho sentito
il treno che arrivava e mi sono precipitato giù dalle scale della metropoli-
tana e sono riuscito a salire; ma può accadere anche che abbia fatto i gradini
di corsa e abbia visto le porte chiudermisi in faccia – ma sappiamo bene
che in realtà non cambia proprio nulla: prenderemo il prossimo treno o ar-
riveremo a casa con due minuti di anticipo. Basta tuttavia disporsi nella
prospettiva dell’epilogo perché un evento insignificante si carichi di una
responsabilità inattesa: ogni istante diventa un bivio che conduce alla meta
e se pensi che a quella meta si dovesse giungere, ecco che ogni accadi-
mento, anche il più banale, sembra decidere delle sorti del mondo. La vita
di ciascuno di noi è fatta così: un incrocio di eventi che hanno cause na-
scoste, ma che ci sembrano del tutto casuali. Tutto questo lo sappiamo
bene, ma basta leggere questa successione di casi alla luce della prospettiva
retrograda del ricordo perché il caso ci appaia alla luce di un dover essere,
perché l’accidentalità di un percorso assuma le forme di una casualità ine-
vitabile: ciò che soltanto è accaduto diviene, se lo guardiamo nella prospet-
tiva di ciò che si è realizzato, il disegnarsi di un cammino impervio in cui
ogni possibilità è stata decisa, in cui ogni gesto è stato compiuto nell’unico
modo che poteva condurre alla meta. La morale del ricordo è che le cose
sono andate così e che dovevano andare così, non perché ogni altra solu-
zione fosse logicamente preclusa, ma perché le alternative erano scritte
tutte con l’inchiostro tenue della possibilità: nel ricordo e nella sua narra-
zione ci sembra che il passato assuma la forma del destino.
Non è un caso allora se la narrazione ha trovato nel concetto di destino
la sua applicazione più immediata alla vita. Edipo poteva restare a Corinto,
ma si reca a Tebe; Laio poteva lasciargli il passo, ma si comporta in modo
arrogante; la Sfinge poteva avere ragione di Edipo, ma si lascia sconfiggere
proprio come il servo che lo riconosce poteva parlare fin da principio e
67
allontanare con una parola un infinito dolore: nulla di questo accade e una
serie infinita di casi conduce la tragedia al suo epilogo. Non è così, tuttavia,
che quella tragedia ci parla: come lettori della storia tragica di Edipo non
vediamo il caso affiancarsi al caso, ma – disposti come siamo nella pro-
spettiva della fine – assistiamo all’imporsi di un destino: proprio perché le
cose sono andate così, Edipo doveva abbandonare la sua Corinto e doveva
realizzare in ogni sua scelta il dettato di un destino che gli si impone. Il
destino, del resto, non è altro che la successione dei casi, osservata dalla
prospettiva del porto cui la navigazione è infine approdata. Ed il destino è
in sé una forma immediata di narratività: il destino è un modo immaginoso
di guardare alla propria vita, per scoprire (o meglio: per credere di scoprire)
che c’era un senso – sia pure tragico – che la guidava. Ma se il destino è
un modo immaginoso di guardare alla vita è nel ricordo che il senso di
quest’immaginazione prende forma. Il ricordo ritrova nel passato il mio
destino e getta le basi di un’illusione da cui è difficile liberarsi: il credere
che vi sia un destino che ci appartiene, un senso personale nella trama, in
larga parte casuale, degli eventi in cui si scandisce il nostro tempo di vita.
Di qui anche il carattere consolatorio del ricordo, il suo mettermi in pace
con il passato: è andata così e non poteva che andare così. La chiusura del
ricordo e il suo sguardo retrogrado determinano anche la forma specifica
della distanza che separa l’io che ricorda dall’io che appartiene al ricordo
– una distanza che è insieme un ottundersi del vincolo di responsabilità che
ci lega a ciò che ricordiamo. Nella narrazione del ricordo, il passato si
chiude e ci si mostra nella sua duplice tendenziale inalterabilità: non pos-
siamo più farci niente e anche se in linea di principio avremmo potuto fare
altrimenti, il ricordo illumina soltanto la strada che ci ha condotto alla
meta e ci spinge a pensare che i nostri passi dovessero davvero seguire le
orme che hanno lasciato. La morale del ricordo è una morale almeno in
parte assolutoria: ci ripete che è andata così e nel suo ricalcare la strada
che ha condotto alla meta ci convince che ci fosse un corso degli eventi
rende così più lieve il peso della responsabilità. In questo attutirsi della
responsabilità prende forma la distanza del ricordo, il suo presentarci un
mondo che non è soltanto temporalmente chiuso, ma che è anche in qual-
che misura assolto, almeno per quel che riguarda il coinvolgimento di chi
racconta gli eventi che gli sono accaduti. Di qui la piega ironica che talvolta
attraversa la narrazione dei ricordi e che testimonia della distanza tra l’io
responsabile del suo presente e l’alter ego che appartiene al ricordo e di cui
non possiamo più condividere sino in fondo le preoccupazioni.
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Anche in questo i ricordi sono davvero simili alle finzioni narrative e ci
consentono di anticiparle, ma sarebbe un errore non cogliere che nelle fin-
zioni narrative accade qualcosa di nuovo. I ricordi ripetono un passato e lo
rendono in parte indipendente dal corso degli eventi, ma questo non toglie
che il presente getti egualmente la sua ombra su quello che è stato, mutan-
done il segno. Il ricordo non rescinde per intero i lacci che lo stringono al
presente, perché il passato di cui ci ricordiamo è pur sempre per sua natura
il passato di un presente e il presente non ha necessariamente reciso il nodo
che lo stringe al tempo che l’ha generato. Certi ricordi non si risolvono
perché il punto da cui osservano il passato ha un legame troppo vivo von
il presente e la vicenda che in essi si dipana è ancora aperta: il ricordo non
è sciolto dal presente e non può esserlo mai interamente perché è dal pre-
sente che ricordiamo. Ciò che ricordiamo appartiene al passato – ma quel
passato ci appartiene: il ricordo prepara e anticipa la finzione narrativa, ma
non la sostituisce.
Un discorso analogo vale anche per le fantasticherie: anche quest’arte da
perdigiorno ha un suo ruolo nel guidarci verso il terreno dell’immagina-
zione in senso pregnante. Che cosa siano le fantasticherie ci sembra di sa-
perlo bene, anche perché – per quanta fatica si faccia ad ammetterlo – pas-
siamo buona parte del nostro tempo lasciando che i nostri pensieri vaghino
sulle loro orme. Le fantasticherie sono piacevoli e ci fanno compagnia,
senza pretendere per sé tutta la nostra attenzione: fantastichiamo mentre
passeggiamo, quando siamo nel vagone della metropolitana, quando fac-
ciamo lavoretti poco impegnativi e qualche volta anche quando dovremmo
ascoltare una persona noiosa che ci riempie la testa di parole che non ci
interessano. Passiamo una parte considerevole della nostra giornata im-
mersi nelle nostre fantasticherie, e tuttavia non è facile far luce sulla gram-
matica di questo concetto. Un tratto ci colpisce: le fantasticherie sembrano
condividere con i sogni il loro sottrarsi alla dimensione delle decisioni e
della scelta. Qualche volta nelle fantasticherie ci immergiamo, ma altre
volte semplicemente ci troviamo immersi in un universo fantastico senza
nemmeno sapere quando la scena immaginativa ha saputo ritagliarsi la nic-
chia in cui ci ha passo dopo passo imprigionati. Del resto, anche quando le
fantasticherie si aprono un varco nei nostri pensieri con il nostro esplicito
consenso – come accade per esempio quando vogliamo immaginare che
sia giunto un momento molto atteso – è difficile mantenere poi la presa sul
decorso delle nostre fantasie ed anzi la possibilità stessa di fantasticare
sembra dipendere dal fatto che possiamo abbandonarci liberamente al
69
corso dei nostri pensieri.
Come abbiamo osservato, si è spesso voluto cogliere nel carattere elusivo
della fantasticheria un tratto che la accomuna alla dimensione onirica: pro-
prio come nei sogni, anche nelle fantasticherie il soggetto diviene lo spet-
tatore delle scene che nella sua mente si recitano. Bachelard del resto rite-
neva che proprio qui passasse il discrimine tra l’immaginazione poetica e
la fantasticheria che sembra non essere altro che «un po’ di materia not-
turna dimenticata nella limpidezza del giorno». Le fantasticherie sono ap-
punto sogni ad occhi aperti – ma le cose stanno davvero così? Io non credo
che quest’analogia possa essere seguita sino in fondo e una prima ragione
che ci spinge ad essere cauti è che le fantasticherie, ma non i sogni, sono
finzioni consapevoli anche se non per questo volontarie. Chi sogna, nella
norma, è perso in una vicenda che ritiene reale14; nelle fantasticherie, in-
vece, le cose stanno diversamente: possiamo perderci nelle sue molteplici
pieghe e possiamo “dimenticare” le preoccupazioni della vita desta, ma
non per questo dimentichiamo il carattere finzionale di ciò che fantasti-
chiamo. Ma ciò è quanto dire che le vicende fantasticate non si sovrappon-
gono, tacitandolo, all’universo reale, ma lo affiancano, invitandoci a di-
sporre le vicende che narrano in una scena nuova, che non pretende per sé
di essere creduta. Tutt’altro: laddove i sogni si danno solo quando nel
sonno la realtà si sottrae alla nostra presa, le fantasticherie invece irrom-
pono nella vita desta e si aprono un varco tra le cure della vita reale – si
aprono un varco, perché di fatto lo spazio delle fantasticherie si insinua nel
mondo reale che resta tuttavia presente come sfondo tacito che circonda lo
spazio immaginativo, determinandone così in profondità il senso. Il mondo
onirico è un nuovo mondo che rivela ad ogni risveglio la sua inconsistenza;
il mondo delle fantasticherie, invece, a rigore non è affatto un mondo poi-
ché non pretende per sé quell’unicità e quella onnicomprensività che è in-
scritta nel concetto stesso di mondo, nel suo porsi come una totalità che ci
abbraccia: le fantasticherie non aprono un mondo, ma una enclave, un ri-
fugio che è necessariamente consapevole della sua provvisorietà.
Di quest’ordine di considerazioni ci rendiamo conto se riflettiamo sul
nesso che lega le fantasticherie al desiderio. Questo nesso è, nella norma,
chiaramente percepibile, anche se non intendo con questo affermare che
14 E anche quando accade che ci si renda conto del fatto che stiamo sognando è evidente che non siamo
per ciò stesso divenuti pienamente consapevoli del carattere onirico delle nostre esperienze perché se
così fosse dovremmo sapere che anche la nostra consapevolezza che così stanno le cose è, a sua volta, soltanto sognata.
70
ogni fantasticheria sia di per se stessa realizzazione di un desiderio. Si tratta
di un nesso che, quando è presente, non può passare inosservato: le fanta-
sticherie inscenano un mondo che ci riguarda e in cui il corso degli eventi
è piegato alla legge dei nostri desideri. Le cose andranno come vogliamo,
le difficoltà verranno messe da canto, gli ostacoli si riveleranno meno ardui
di quanto temessimo – questo è quanto si mette in scena nelle fantastiche-
rie.
Le fantasticherie sbucano dalla nostra vita come manifestazioni appa-
ganti di un desiderio, ma questo non significa che nel fantasticare una
trama narrativa nella quale immagino di ottenere ciò che voglio si formi
una falsa credenza che pretende che sia già stato raggiunto ciò che soltanto
fingo di avere raggiunto. Fantastichiamo e nel nostro fantasticare gli osta-
coli del domani trovano una loro facile composizione e fingiamo un corso
degli eventi che risponde alla domanda del desiderio lo rende visibile nella
sua soddisfazione. Nelle fantasticherie insceniamo desideri appagati, ed è
proprio questa scena fantastica è per noi in qualche misura appagante – ma
perché? Non certo perché le fantasticherie ci ingannino: sappiamo già che
le cose non stanno così e del resto quando ci perdiamo in una fantastiche-
ria, facciamo tutto il possibile per non doverci ritrovare troppo presto nella
realtà che ci ripeterebbe ad alta voce quello che sommessamente già av-
vertiamo. Sappiamo che le fantasticherie non hanno presa sulla realtà e lo
sappiamo anche quando ci culliamo nel mondo immaginario cui ci permet-
tono momentaneamente di accedere.
Si può anzi osservare che le fantasticherie spesso nascono da progetti che
formuliamo insieme alla consapevolezza che vi rinunceremo; domani po-
tremmo andare al mare, ma invece di consultare le previsioni del tempo, di
fare le valigie e di controllare quanto ci manca per finire un lavoro, cion-
doliamo per casa, ci facciamo un caffè e intanto fantastichiamo del mare,
del sole caldo e del rumore delle onde. Tutte questo ci appaga, eppure – e
ce ne rendiamo ben conto proprio perché la fantasticheria sorge qui intrec-
ciandosi ad un progetto possibile – il corso fantasticato degli eventi che ci
raffiguriamo e in cui ci “perdiamo” è sito in un futuro alla cui realizzazione
non siamo più rivolti. Tutt’altro: spesso l’atteggiamento sognante della
fantasticheria ha una piega malinconica, perché in fondo sappiamo bene
che se ci perdiamo nelle pieghe di una rêverie che prende commiato dalla
realtà è proprio perché una voce ci dice che al mare non ci andremo affatto
e che quel progetto, come altri, è destinato a naufragare. Ne segue che le
fantasticherie immaginano un corso futuro degli eventi e che il soggetto
71
che vi si immerge è ben consapevole del fatto che un appagamento fanta-
stico dei desideri non è affatto un appagamento reale ed anzi talvolta pre-
lude ad un atteggiamento passivo che si accompagna alla loro rimozione –
ma allora perché dovremmo appagarci nel fingere appagati determinati de-
sideri?
Rispondere a questa domanda significa in primo luogo rammentare un
tratto caratteristico dei fenomeni immaginativi in quanto tali: il loro met-
tere capo ad una sorta di scissione dell’io. Nella fantasticheria mi accadono
molte cose, ma vi è un senso ovvio in cui queste cose non accadono affatto
a me: accadono alla mia controparte immaginativa. È lei che vede i suoi
desideri finalmente appagati e ne gioisce. Come abbiamo più volte osser-
vato, questo farsi avanti di un ego finzionale è un tratto caratteristico di
ogni forma dell’immaginazione, ma non è difficile scorgere come proprio
qui si faccia strada una peculiarità della fantasticheria, poiché nelle fanta-
sticherie l’io reale partecipa delle vicende dell’io fantasticato poiché desi-
deri che animano la fantasia sono i suoi desideri. L’io reale mette in scena
se stesso e si appaga nel vedere soddisfatti i suoi desideri.
Su questo punto è opportuno indugiare ancora un poco perché proprio
qui si fa avanti la specificità delle fantasticherie e si comprendono le ra-
gioni della posizione particolare che abbiamo assegnato loro nel nostro
schema. Le fantasticherie sono forme di trapasso tra l’immaginazione con-
testuale e l’immaginazione assoluta – questo è quanto lo schema che ab-
biamo proposto sostiene. Dobbiamo dunque cercare di rendere conto di
questo carattere intermedio del fantasticare.
Che le fantasticherie non assumano la forma di una mera raffigurazione
del possibile lo si comprende bene richiamando rapidamente l’orizzonte
progettuale da cui le fantasticherie possono prendere le mosse. Siamo
mossi da un desiderio e il desiderio implica una finzione del possibile: dob-
biamo immaginare una possibile alternativa al presente perché questa è la
condizione cui è vincolato l’agire e quindi anche la soddisfazione del desi-
derio da cui siamo mossi. In questo la dimensione progettuale è davvero
simile ai nostri sogni ad occhi aperti, e tuttavia non è difficile scorgere una
differenza rilevante: quando ci disponiamo seriamente nella dimensione
del progetto, immaginiamo una successione di eventi in quanto è mera-
mente possibile e la pensiamo in un futuro che racchiude in sé la consape-
volezza che non è affatto detto che così vadano le cose. Nella fantasticheria
invece la dimensione temporale si fa ambigua e ciò che sembra balzare in
primo piano è il presente fantasticato dell’appagamento – il suo accadere
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ora per l’ego finzionale che fa da controcanto all’ego reale nella dimen-
sione della rêverie. Al farsi avanti del tempo immaginato fa da controcanto
il dissolversi del nesso con il presente reale: nel progetto, la dimensione
futura della realizzazione del desiderio è in qualche modo determinata e
posta proprio dalla serietà della prassi che deve fare i conti con il presente.
Il desiderio manifesta una mancanza e il progetto dispone un cammino che
dal non esserci nel presente di ciò che si vorrebbe che fosse conduce ad
una realizzazione futura ed in questo cammino la distanza temporale tra il
futuro e il presente assume una misura e noi impariamo ad accettare il po-
sticiparsi dell’appagamento che fa tutt’uno con la realizzazione del deside-
rio. Nella fantasticheria, invece, il desiderio non si lega ad una prassi che
intenda far fronte al bisogno del presente e questo dispone la scena fanta-
sticata in un futuro vago e indeterminato: accadrà – in un futuro che non si
rapporta al presente, ma assume invece un piega qualitativa e si pone come
la cifra dell’irrealtà. Al domani del progetto che trae il suo senso dalla de-
terminabilità della distanza dal momento attuale fa così da controcanto il
domani della fantasticheria che in fondo non ci dice nulla di più di questo
– non oggi15.
Sottolineare la distanza che separa la fantasticheria dal progetto non si-
gnifica tuttavia confonderla con le forme dell’immaginazione assoluta e
per rendersene conto è sufficiente sottolineare il nesso che lega ogni fanta-
sticheria ad un elemento del mondo – l’io. La fantasticheria non rescinde
il legame con il mondo poiché ogni fantasticheria ci propone un racconto
che ci riguarda e che non può essere inteso nel suo senso se si rescinde
15 In un breve saggio sulla fantasticheria (che riprende le linee di una serie di lezioni che ho frequentato
nell’anno accademico 1979/80!) Giovanni Piana scrive così: «il desiderio può tingersi di immagina-zione e l’immaginazione di desiderio. Questo intreccio risulta chiaro mettendo in questione il problema
della temporalità. Sia in rapporto all’immaginazione che al desiderio potremmo parlare di una relativa
indeterminazione temporale. Se desideriamo che qualcosa accada e ci venisse posta la domanda intorno al quando nel tempo potremmo rispondere: di qui in avanti nel futuro. Naturalmente questo futuro è un
futuro reale, il punto del tempo che indichiamo indeterminatamente appartiene alla linea del tempo
oggettivo. Tuttavia si vede subito che questa indeterminazione, che è qualcosa di completamente di-verso dall'indeterminazione temporale dell'immaginazione, possa assumere i tratti di questa. Può acca-
dere che il futuro posto indeterminatamente nel desiderio, e possibilmente come un futuro prossimo,
diventi sempre più remoto: la realizzazione postulata dal desiderio tende allora ad allontanarsi sempre più nel tempo. Ed alla fine questo allontanarsi nel tempo assume sempre più i tratti di un allontanarsi dal
tempo. Così il futuro remoto del desiderio tende a diventare un futuro improprio, un futuro intemporale,
diventando piuttosto, come nel caso del passato lontano delle favole o del mito, un contrassegno dell’in-determinazione temporale che caratterizza gli scenari dell’immaginazione». Il saggio sulla fantastiche-
ria di Giovanni Piana (cui queste pagine devono molto) è pubblicato nell’archivio dei suoi scritti ed è
disponibile in rete a questo indirizzo: http://www.filosofia.unimi.it/piana/index.php/filosofia-dellim-maginazione/89-sulla-fantasticheria
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interamente il legame con il mondo e con il presente. Una fantasticheria
non è una favola perché non rescinde interamente il legame che la connette
al mondo e al presente; o se si vuole: è una favola che narra di me e che
proprio per questo non può fare a meno di rapportarsi al mondo reale, al
mondo in cui sono – per contrapporvisi.
Le fantasticherie sono fatte così: sorgono, certo, quando il legame con la
realtà si fa meno cogente e quando possiamo sentirci meno direttamente
coinvolti dalla rete dei compiti cui siamo chiamati a far fronte. Tuttavia
questo ottundersi della presenza del reale non si traduce in una sua radicale
messa da canto e questo perché la fantasticheria non può fare a meno di
proporre una vicenda che mi riguarda e che risponde, negandole, alle dif-
ficoltà del mio vivere. Il mondo reale si insinua dunque nella fantasticheria,
e in un duplice modo. In primo luogo, il mio perdermi in un sogno ad occhi
aperti non può rescindere il nesso che lega le mie finzioni alla mia vita e
alla rete dei miei desideri: la trama del mondo di cui io faccio parte non è
cancellata e dimenticata dall’esercizio di un’immaginazione che parla ne-
cessariamente di me. In secondo luogo, tuttavia, ogni concreto fantasticare
assume la forma di una risposta al presente, di una contrapposizione alla
realtà che esprime una chiara volontà di negarla – almeno immaginativa-
mente. In Tempi moderni, la fame che tormenta il vagabondo e la sua gio-
vane amica si trasforma in una fantasticheria di una vita diversa: la coppia
borghese che al mattino si saluta davanti al giardinetto di casa, ripetendo il
falso rituale della famiglia serena e felice, diviene lo spunto per un’imma-
ginazione utopica che proietta in un futuro già realizzato, ma non per que-
sto raggiungibile dal presente, lo stereotipo della vita felice. Si fa così
strada il sogno di un futuro diverso: una casa ricca e borghese, con tende e
poltrone e tovaglie pulite, ed una vita facile in cui il cibo sia sempre e co-
munque a portata di mano. Al mondo reale si sovrappone un mondo fanta-
stico che è chiamato a negarlo in forma utopica e che è a sua volta negato
dal corso reale degli eventi che assumono la forma minacciosa di un poli-
ziotto chiamato a rammentare allo spettatore che cosa di fatto si frapponga
tra la realtà del presente e la realizzazione dei sogni16. Possiamo forse espri-
merci così: nella fantasticheria si immagina un mondo felice, ma il mondo
che si immagina è proprio questo mondo e ciò fa sì che l’immaginazione
assuma il carattere di una negazione utopica della realtà, di un suo rifiuto,
16 La scena di Tempi moderni cui faccio riferimento è disponibile su youtube (minuti 3.40-6.10) all’in-
dirizzo http://www.youtube.com/watch?v=yPWhXWsc_Jw.
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in nome di un mondo che si può immaginare17.
Credo che queste considerazioni siano sufficienti per farci comprendere
la posizione peculiare che il concetto di fantasticheria occupa in seno al
concetto di immaginazione, ma forse – anche senza voler aprire qui un
tema che potrebbe essere sviluppato molto ampiamente – è il caso di ram-
mentare che le fantasticherie sembrano godere di una cattiva reputazione:
non vi è nulla di male nel dedicare tempo a leggere un romanzo o una fiaba,
ma chi indulge in fantasticherie sembra necessariamente vestire i panni del
perdigiorno. Dovresti agire e invece sogni ad occhi aperti, ma questo tuo
sognare non è soltanto colpevole perché ti distoglie dalla realtà, ma sembra
recare con sé un frutto avvelenato: più sogni una realtà che non c’è, più ti
fai nemico il mondo esistente che ti appare sempre meno ospitale e sempre
più lontano dalla norma che i tuoi desideri dettano. Nel rimprovero che ci
richiama al reale e che ci invita a varcare nuovamente la soglia che ci se-
para dalle pieghe sognanti della rêverie si fa avanti la consapevolezza del
carattere ambiguo delle fantasticherie – di questi sogni ad occhi aperti che
ci strappano alla realtà quel che tanto che basta per sentirsi appagati di un
sogno, ma che sono tuttavia ad essa sufficientemente ancorati da tacitare
l’urgenza dell’impegno e del progetto. Si tratta di un rimprovero che è in
qualche misura fondato, eppure è il caso di rammentare che nelle forme un
po’ trasognate della fantasticheria e nelle eco utopiche delle sue narrazioni
si fa avanti anche un atteggiamento positivo che ci consente di guadagnare
un rapporto nuovo rispetto al mondo e alla vita: l’atteggiamento di chi,
fantasticando il possibile, impara a non assolutizzare il presente e a non
soggiacere all’abitudine che ci invita a credere che soltanto ciò che c’è ha
davvero diritto di esistere. La fantasticheria è un progetto che si fa leggero
e impalpabile, ma che trae dalla sua leggerezza la capacità di non posarsi
troppo presto sulla realtà del presente, salvaguardando il diritto del possi-
bile ad un suo spazio protetto e difeso dalle argomentazioni della realtà.
Le fantasticherie hanno questa natura: ci consentono di allontanarci dalla
realtà cui apparteniamo, ma per farlo ci costringono a perderci in un sogno
ad occhi aperti che ha le forme di un progetto che ha smarrito la via del
17 Di questo carattere della fantasticheria, del suo essere sospesa tra immaginazione contestuale e im-
maginazione assoluta, ci rendiamo ben conto non appena riflettiamo sul carattere utopico delle fanta-
sticherie, sul loro proporsi come un progetto che si perde nel sogno o come un sogno che ha in sé una piega progettuale. Del resto, basta sfogliare le prime pagine dell’Utopia di Tommaso Moro per imbat-
tersi in un gioco di etimologie che ci consente di vedere nel cuore del concetto di fantasticheria: l’isola
in cui l’umanità ha saputo trovare una vita felice è sia un a topos – un luogo che non c’è, sia un eu topos – un luogo felice
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reale e che può trovarsi bene in una finzione del futuro solo inimicandosi
il presente. Proprio come il rimpianto si perde nella finzione di un passato
che, se fosse stato, avrebbe cambiato un presente di cui non si accettano le
fattezze, così le fantasticherie alludono ad un futuro che non si darà, per
mettere provvisoriamente da canto un presente che non si tollera. Ma è una
strategia di breve durata e che prepara un ritorno sgradevole: dalle fanta-
sticherie ci si sveglia e se di un risveglio si può parlare è proprio perché
esse non rescindono interamente il filo che le lega alla vita desta, al mondo
di cui sono una modificazione utopica. L’abbiamo già detto: le fantastiche-
rie non sono né vere, né false, ma possono avverarsi, come dimostra il fatto
che, nella norma, ci lamentiamo del fatto che non si avverino. Le finzioni
narrative e ludiche, invece, non possono avverarsi, perché non condividono
il terreno del mondo: non descrivono un possibile stato di cose nel mondo
e non lo affermano.
Di qui la differenza che separa le fantasticherie dalle forme dell’imma-
ginazione in senso pregnante e che consente una diversa forma di coinvol-
gimento immaginativo. Nelle fantasticherie ci rapportiamo ad un evento
che non accadrà ma potrebbe accadere, e proprio per questo il nostro fan-
tasticare racchiude insieme un verdetto di condanna del reale e il desiderio
di evaderne. Non pretendiamo che ci sia un futuro che realizzi le nostre
fantasticherie, ma non per questo rinunciamo a pensare all’universo fanta-
sticato in una qualche continuità con il presente: l’io che fantastica pre-
tende di ritrovarsi in un luogo che non c’è ed è proprio per questo che ci si
perde nelle fantasticherie e nel loro inscenare l’appagarsi di un desiderio
che rinuncia ad assumere le forme della volontà e del progetto. Fantasti-
cheria e realtà si negano l’una con l’altra proprio perché non rinunciano a
condividere uno stesso terreno: lasciarsi coinvolgere dall’una significa ri-
nunciare, sia pure pro tempore, all’altra e viceversa.
Nel caso del gioco e della narrazione finzionale le cose stanno diversa-
mente. Le forme dell’immaginazione in senso pregnante ci invitano a reci-
dere il nesso che ci costringe a contrapporre realtà e fantasticheria, e pos-
sono farlo perché non pongono le scene fantasticate in continuità con il
nostro mondo. Di qui la possibilità di una forma diversa di coinvolgimento:
nei giochi e nei racconti ci si immerge, senza perdersi perché la soggettività
che fantastica o gioca non è costretta a negare o rifiutare il mondo reale
quando è chiamata ad immergersi nell’esperienza ludica e finzionale. Il
bambino che gioca e il bambino nel gioco non si contendono il campo, e
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questo apre una possibilità nuova, sulla cui natura dobbiamo ora soffer-
marci, rinunciando a discorrere delle molte altre forme intermedie in cui
potremmo imbatterci se rivolgessimo l’attenzione al cammino che dalle
visualizzazioni ci conduce alle costruzioni fantastiche, passando per le
molteplici forme dell’adattamento del reale al metro dell’immaginazione.
2. La narrazione immaginativa
Le forme di transizione su cui ci siamo soffermati nel paragrafo che ci
siamo lasciati alle spalle ci hanno condotto in prossimità di una distinzione
su cui dobbiamo ora soffermarci – la distinzione tra le forme contestuali e
le forme acontestuali dell’immaginazione. Si tratta di una distinzione cui
abbiamo già accennato e su cui ora è opportuno riflettere, riprendendo il
filo delle nostre considerazioni che cercavano di aprire un varco che ci
conducesse alla nozione di narrazione immaginativa riflettendo su ciò che
accade quando raccontiamo a qualcuno un evento di cui siamo stati testi-
moni. L’evento è accaduto e ne parliamo come di qualcosa che ha una sua
realtà ed una sua definitezza al di là del nostro raccontarlo e questo fatto si
manifesta anche nella consapevolezza che ogni narrare decide insieme che
cosa è opportuno tacere: raccontiamo di una passeggiata al mare, di un
temporale, di come ci siamo bagnati, ma non ci soffermiamo su un’infinita
di cose che c’erano, ma che ci sembrano marginali o di cui semplicemente
ci capita di tacere.
Chi ascolta si trova in una posizione diversa: deve ricostruire quel che è
accaduto e ambientarlo in un qualche luogo del mondo e può farlo solo
perché le parole che ascolta passo dopo passo glielo consentono. Ciò che è
detto si arricchisce delle molteplici inferenze implicite che accompagnano
ogni comprensione linguistica, ma che sia stato taciuto qualcosa chi ascolta
lo sa bene ed è per questo che ritiene di avere comunque il diritto di chie-
dere che si dica qualcosa che si è taciuto perché anche il migliore dei rac-
conti è lacunoso se lo si confronta con la realtà. Anche per chi ascolta,
dunque, l’evento è al di là della narrazione ed è per questo che ha senso
non accontentarsi di ciò che viene raccontato ed è legittimo fare domande
o cercare di sincerarsi direttamente di come stanno le cose.
Vi è insomma una asimmetria tra il ruolo del narratore e il ruolo di chi
ascolta: chi narra ha rispetto ai fatti un accesso indipendente dalla narra-
zione stessa e non è quindi vincolato alla sua configurazione effettiva. Chi
ascolta, invece, è innanzitutto chiamato a rendersi conto dei fatti a partire
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dal racconto che gli viene proposto, ma può colmare l’asimmetria che ca-
ratterizza il suo ruolo liberandosene: almeno in linea di principio, infatti,
l’evento che la narrazione propone è indipendente dal racconto e può
quindi essere attinto da una diversa fonte.
Non facciamo che sviluppare queste considerazioni se osserviamo che
ogni racconto di un evento reale presuppone nell’ascoltatore una qualche
fiducia nella veridicità della narrazione che può essere ricavata ora dalla
convinzione che il narratore sia attendibile, ora dal fatto che la storia nar-
rata sembra coerente con lo stile complessivo della realtà. Ci si fida della
veridicità di una narrazione, ma è possibile decidere di non fidarsi e con-
trollare di persona come stanno le cose: i fatti esistono al di là della narra-
zione che li descrive e questo ci consente in linea di principio di confron-
tare una testimonianza con un’altra, un discorso con la nostra esperienza
dei fatti. In linea di principio, ma non sempre in linea di fatto: debbo fi-
darmi di quello che hai detto perché non mi è possibile controllarne la ve-
rità, e così accade con i ricordi che solo in linea di principio ci parlano di
eventi accessibili anche al di là della nostra memoria: di fatto, ben poche
cose del nostro passato sono accessibili se non così – come ricordi e quindi
come esperienze che racchiudono la ricchezza del reale in una datità che
non può più essere ulteriormente arricchita e sondata. Vorrei poterti dire di
più di ciò che mi è accaduto anni fa, ma non posso: mi ricordo soltanto
questo. Così, anche se è sensato pretendere di sapere di quell’evento lon-
tano qualcosa di più di quel che ne ricordo, di fatto la via per raggiungere
una conoscenza più dettagliata è preclusa: siamo costretti ad accettare i
ricordi per quello che sono – racconti che non coincidono con i fatti, ma
che ne sono l’unica via residua di accesso. E tuttavia, solo per questo pos-
siamo parlarne come di una via residua: perché in linea di principio altre
strade potevano condurre a quell’evento. Per dirla in breve: le testimo-
nianze e i ricordi sono racconti legati alla realtà, per quanto vario e com-
plesso possa essere il nodo che ad essa li tiene stretti.
I racconti dell’immaginazione, invece, sono racconti assoluti – nel senso
letterale del termine. Sono assoluti, perché impariamo a comprenderli nel
loro senso quando accettiamo che non sussista in linea di principio la pos-
sibilità di controllare ciò che narrano e recidiamo così il nesso che lega la
narrazione alla realtà. I racconti immaginativi sono fatti così: chi li narra,
propone una storia e insieme implicitamente rinuncia alla pretesa che essa
possa valere al di là dell’universo chiuso del racconto. Rinuncia insomma
ad attribuire alle sue parole la pretesa di parlare del mondo e invita chi lo
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ascolta a non interrogarsi sulla loro verità o falsità. Le favole e i racconti
possono essere coerenti, ma non possono essere veri: il gioco linguistico
che stipuliamo con il narratore e che attribuisce un senso alla narrazione
stessa ci rammenta che non possiamo andare al di là della finzione e che i
“fatti” di cui fiabe e racconti ci parlano non sono fatti per nulla poiché non
sono realtà di cui si possa discorrere autonomamente, ma costruzioni, fin-
zioni che sono accessibili solo ed unicamente a partire dalla narrazione
stessa. Il gioco linguistico della narrazione impone una regola nuova: ci
chiede, come di consueto, di cercare un senso nelle parole del racconto, ma
ci vieta poi di farne la rete per catturare gli oggetti e gli eventi del mondo.
L’immaginazione, nella sua forma più libera, si apre così con un divieto
che ha tuttavia le forme gentili di un invito a restare chiusi nell’universo
finzionale, rinunciando in linea di principio a cercare per gli eventi narrati
un’accessibilità che sia diversa dalla narrazione stessa. Se vogliamo im-
mergerci nel gioco della narrazione dobbiamo rinunciare a fare i guastafe-
ste e dobbiamo rinunciare a cercare i fatti narrati al di là della narrazione,
in un gioco che ci invita formalmente a confondere in un’unica amalgama
ciò che altrimenti abbiamo imparato a distinguere: la presentazione di qual-
cosa dalla sua esistenza indipendente. Nei racconti questa distinzione deve
smarrire il suo senso: ciò che racconti c’è perché lo racconti. Cavalli alati
non ce ne sono, ma se ti racconto che ne nascono, pochi per il vero, nei
monti Rifei devi accettarlo, anche se questo significa rinunciare in linea di
principio a cercare per l’ippogrifo di Astolfo un luogo diverso dalla fin-
zione narrativa dell’Orlando furioso. Ancora una volta: la libertà creativa
dell’immaginazione si paga con la rinuncia a cercare quel che si è creato al
di là delle forme immaginative che lo creano.
Le regole di un gioco linguistico sono ovvie, ma proprio per questo non
sono esplicitamente stipulate; comprenderle significa cercare di mettere in
luce una serie di caratteristiche che determinano il senso di quello che fac-
ciamo quando raccontiamo o ascoltiamo una narrazione immaginativa. Di
caratteristiche implicite che non ha senso rammentare se non quando si fa
filosofia. Eppure queste caratteristiche implicite le abbiamo imparate e
possiamo coglierle in una serie di risposte ovvie a domande che forse non
abbiamo mai formulato, ma che comunque ci hanno permesso di fissare
una nuova e diversa grammatica della narrazione – la grammatica delle
finzioni.
La prima domanda che dobbiamo porci concerne un ricordo di infanzia:
abbiamo tutti protestato quando chi ci raccontava una favola alterava anche
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di poco per noia o per trascurataggine la narrazione, modificando la suc-
cessione degli eventi o anche soltanto la caratterizzazione di un personag-
gio. Perché l’abbiamo fatto? Che cosa ci lega alla lettera di un racconto?
Certo, con gli anni si impara ad essere più tolleranti, ma questo non rende
quella protesta meno interessante e legittima, perché mette in luce una dif-
ferenza su cui è opportuno riflettere. Una testimonianza o un ricordo pos-
sono essere raccontati in vario modo e possono essere anche corretti in più
punti, perché hanno comunque un criterio esterno che fissala loro identità
e insieme la norma cui debbono ottemperare. Posso raccontare in modo
impreciso un ricordo e posso dovermi correggere, ma il ricordo resta lo
stesso perché parla di un fatto che sussiste al di là delle forme della sua
narrazione. Nel caso di una favola, invece, i contorni che ne fissano l’iden-
tità rivelano una fragilità inaspettata. Non posso correggere una favola per-
ché non c’è un mondo di cui essa mi parli, ma posso egualmente cambiarla;
ogni cambiamento, tuttavia, mette in questione la sua identità perché una
favola non ha altro metro per fissare la sua identità che se stessa. I racconti
immaginativi sono fatti così: puntano il dito verso se stessi e dicono che
questo è il mondo che narrano. Il bambino che protesta perché hai cambiato
qualcosa nel raccontarla chiede che si renda esplicita una regola del patto
narrativo: ti ricorda che cambiare una storia significa, a rigore, raccontarne
un’altra che coincide solo parzialmente con la prima. Omero avrebbe po-
tuto raccontare diversamente l’incontro con Eolo e avrebbe potuto far giun-
gere sani e salvi i compagni di Ulisse a Itaca, ma se così avesse fatto non
avrebbe corretto l’Odissea, rendendola più adeguata ad una vicenda indi-
pendente dalla narrazione, ma avrebbe semplicemente raccontato una sto-
ria diversa. Avrebbe fatto scomparire un mondo per crearne un altro, ed è
proprio questo che, nella norma, un bambino non vuole: il suo capriccio ti
ricorda che le favole sono racconti assoluti e che la loro identità è sospesa
nel gesto che la favola rivolge a se stessa dicendo: sono fatta così. Le favole
non possono cambiare troppo perché il criterio per decidere se ha senso
parlare di una variante non è il rimando ad un evento indipendente di cui
le singole narrazioni sarebbero differenti versioni, più o meno precise e più
o meno vere, ma è solo la loro parziale coincidenza, il loro esibire un nu-
cleo comune.
Qualche volta, leggendo un racconto, può capitare che ci si senta insod-
disfatti di come un personaggio è stato descritto. Si vorrebbe saperne di più
e proprio per questo ci si immagina qualcosa, ma lo si fa con la consape-
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volezza di sporgersi un poco al di là dei confini del racconto e di fare qual-
cosa che non è sempre lecito fare. Non possiamo domandarci ogni cosa e
non avrebbe senso chiedersi se il cacciatore che uccide il lupo di Cappuc-
cetto rosso aveva o non aveva un orologio al polso. Questa domanda ci
sembra fuori luogo, mentre ci sembra legittimo chiederci se era un ragazzo
o un uomo maturo, anche se la storia non dice nulla in proposito. Immagi-
nare significa anche imparare a non fare certe domande – ma perché? Ep-
pure se mai fosse esistito un cacciatore e se mai avesse salvato una bambina
dalle fauci di un lupo, avrebbe tanto senso chiedere se era giovane o vec-
chio o se aveva potuto constatare a che ora era accaduto il misfatto. Di qui
una seconda domanda che dobbiamo porci e che ci invita a riflettere su che
cosa voglia dire parlare di lacune in una finzione e che senso abbia cercare
di colmarle. Ora, nei racconti vi sono spesso lacune che si fanno talvolta
facilmente avvertibili, ma che cosa cambia quando ci muoviamo dalle te-
stimonianze alle finzioni e che cosa caratterizza il tentativo di soddisfare
la nostra curiosità nell’uno e nell’altro caso? Che vi siano lacune nelle no-
stre testimonianze è un fatto che non può essere negato e che qualche volta
si manifesta con chiarezza. Chi racconta un fatto accaduto, è libero di ta-
cere dei particolari o di indugiarvi, ma è comunque necessariamente selet-
tivo e non può in linea di principio esaurire la molteplicità degli aspetti che
caratterizzano un evento, e questo fatto può essere avvertito e può farci
percepire che manca qualcosa. Ma anche se questo non accade, anche se il
racconto non sollecita una curiosità insoddisfatta, una testimonianza può
dirsi egualmente lacunosa. Posso raccontare di una persona che ho incon-
trato tempo fa e posso dirti con esattezza che cosa mi ha detto e ripetere
nel dettaglio che cosa ha fatto, e il mio racconto può sembrarti del tutto
soddisfacente, ma ciò che ricordo e ancor più ciò che dico ha comunque
molte lacune. Le ha obiettivamente, perché il ricordo parla di una realtà
che sussiste al di là del mio narrarla e che è in linea di principio (ma non
necessariamente in linea di fatto) accessibile da altre esperienze. Le cose
stanno diversamente se ci si chiede di immaginare un racconto. Del lupo
della favola dei sette capretti sappiamo che ha la voce roca e le zampe nere.
Sappiamo anche che ha un grande appetito e un pessimo carattere, ma è lo
stesso difficile dire se la fiaba ha lacune e non vi è un criterio oggettivo per
deciderlo. Una favola ha lacune solo se ci sembra che le abbia, perché non
vi è un modello su cui misurare la narrazione, anche se è possibile che la
sua lettura faccia sorgere in noi curiosità, cui di fatto non risponde. Così,
non diremmo che la fiaba è lacunosa perché non ci dice la marca della
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pendola nella cui cassa si nasconde il più piccolo dei capretti, ma potrebbe
sembrarci lacunoso perché tace l’età del lupo che da quel che la storia narra
sembra essere una vecchia conoscenza di mamma capra, di cui i fratelli
Grimm, incuranti del galateo, si premurano di rivelare che è ormai anziana.
La favola suscita una curiosità, ma non la soddisfa; mal di poco: possiamo
sempre soddisfarla noi, decidendo liberamente come colmarla, così come
si aggiunge un altro pezzo di Lego ad una torre. Siamo liberi di farlo come
di non farlo, e possiamo decidere come vogliamo. In fondo, chi illustra una
storia è costretto a decidere molte cose, e può deciderle in tutta libertà: non
può sbagliare perché non c’è una realtà che giudichi del suo operato. Certo,
questo non toglie che si possa illustrare male un libro, perché ogni deci-
sione che prendiamo è vincolata al criterio della conformità immaginativa:
se qualcuno disegnasse un giovane lupo alla porta dei sette capretti scuo-
teremmo il capo perché l’astuzia e la malvagità crescono con gli anni. Non
vi è dubbio: il lupo non è un furfante di primo pelo perché la sa lunga e ha
la malvagità di chi si è abituato a non ascoltare la voce della coscienza, ma
non per altro: non perché sia vecchio davvero! Così, per quanto possa suo-
nare strano, le descrizioni che ci dicono com’è fatto il personaggio di un
racconto non sono affatto descrizioni: sono decisioni immaginative, che
costruiscono passo dopo passo un ruolo narrativo, una figura che c’è solo
nella misura in cui abbiamo deciso di immaginarla così.
Del resto, che la narrazione immaginativa decida liberamente ciò che al-
trimenti è definito dalla voce salda della realtà lo si scorge non appena ci
domandiamo, in terzo luogo, che cosa voglia dire parlare dell’identità dei
personaggi di un racconto. Anche in questo caso, le favole vengono incon-
tro al bambino che le ascolta e rispondono esemplarmente ai dubbi che
debbono essere tacitati se si vuole riposare nello spazio immaginativo. Si-
mili dubbi si farebbero avanti se ci fosse modo di stabilire un’identità tra i
personaggi di un racconto fantastico e le persone del mondo – se ci fosse
qualcosa che ci spingesse a pensare che Geppetto sia il nome di un fale-
gname che vive o è vissuto nel nostro mondo. Nelle fiabe questo dubbio è
messo fin da principio da parte perché la domanda che chiede se vi è qual-
cuno nel mondo di cui la fiaba ci parla è strozzata sul nascere dal fatto che
fin da principio ci imbattiamo in nomi che non ottemperano affatto ai cri-
teri delle descrizioni definite: nelle favole vi è un Re, un Paese lontano, un
vecchio mugnaio e i suoi tre figli, e ciascuno di questi nomi è un invito a
non chiedere altro, a non tentare nemmeno di pensare che abbia senso chie-
dersi chi sia quel re e dove si trovi quel paese lontano al di là di ciò che la
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favola narra. Questo significa tuttavia riconoscere che l’identità nei conte-
sti immaginativi è ben diversa dall’identità che si manifesta nel racconto
di un ricordo o di una testimonianza qualsiasi. Posso non ricordarmi bene
se la persona che ho incontrato ieri per strada è la stessa persona che ora
vedo nella folla, ma anche se potrei non disporre di un criterio per venire a
capo del mio problema, è certo che non si può decidere arbitrariamente
come stanno le cose. L’identità non è una questione che si possa decidere
liberamente perché dipende da ciò che in se stesso l’oggetto è: non dipende
da me e nemmeno da quel che ne so se Napoleone è o non è la stessa per-
sona che ha vinto a Jena e perso a Waterloo. Così accade per Napoleone
che è un personaggio reale, ma se qualcuno ci domandasse se il lupo della
storia dei sette capretti è lo stesso lupo di altre favole, forse non sapremmo
che cosa dire. Tuttavia, qualunque sia la risposta che riterremo opportuno
dare, si tratterà comunque di una decisione immaginativa. Possiamo deci-
dere che si tratta di due lupi diversi oppure possiamo pensare che un simile
caratteraccio sia un indizio da non trascurare e che si tratti dello stesso fur-
fante; decidere in un modo nell’altro, tuttavia, non significa altro che con-
tinuare la storia e immaginare il cammino che conduce da una favola all’al-
tra, unificando fantasticamente gli universi immaginativi di più favole in
un unico racconto che ha un solo o più lupi. Decidiamo così, ma se invece
decidessimo di rimanere chiusi nella trama della storia dei sette capretti
così come i fratelli Grimm l’hanno pensata, allora dovremmo semplice-
mente dire che quella domanda non è formulabile e che non esiste un ter-
reno comune che ci permetta di comprenderla. Del resto, che si tratti di una
domanda che ci lascia stupiti è difficile negarlo – ma qual è la ragione di
questo stupore?
Venire a capo di questa difficoltà significa porsi una quarta domanda cui
le fiabe rispondono esemplarmente prima ancora che qualcuno possa for-
mularla: la domanda che concerne la forma temporale della narrazione. A
guidarci verso la discussione di questo problema sono le considerazioni
che avevamo dedicato alle fantasticherie: i sogni ad occhi aperti – avevamo
osservato – sono caratterizzati da un loro peculiare aspetto temporale che
ci impedisce di ricondurli, senza fraintenderli, alla dimensione della pro-
gettualità. Un progetto è rivolto al futuro, ed in questo tratto si manifesta
con chiarezza il nesso che stringe la progettualità alla dimensione del desi-
derio e al suo alludere ad una mancanza che deve essere tolta. Anche le
fantasticherie, come sappiamo, hanno un loro peculiare rapporto con il de-
siderio e quindi anche con il futuro, e tuttavia il rimando alla temporalità
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che le caratterizza è particolare perché il futuro in cui la fantasticheria col-
loca l’universo immaginativo di cui ci narra non si misura con il presente
e non definisce la sua distanza dal punto ora nella delineazione della prassi
che deve condurci alla realizzazione di un obiettivo determinato, ma as-
sume invece una dimensione qualitativa: la fantasticheria si dispone nella
dimensione del futuro, solamente perché intende sottolineare la sua diffe-
renza radicale dalla realtà del presente. Il tempo della fantasticheria è un
domani che intende restar tale, ed in questa peculiare futuro intemporale
(che rammenta da vicino il passato intemporale delle narrazioni mitiche)
si intravede con relativa chiarezza la via che dall’immaginazione conte-
stuale conduce all’immaginazione acontestuale – all’immaginazione in
senso pregnante. Se abbandoniamo il terreno delle fantasticherie, se pren-
diamo commiato dall’antitesi ambigua con il reale che le caratterizza e se
ci disponiamo sul terreno della finzione narrativa, ci accorgiamo allora che
l’acontestualità temporale è un tratto distintivo dell’immaginazione in
senso pregnante. Rammentiamoci ancora una volta l’incipit di una favola:
le favole si narrano dicendo che c’era una volta un vecchio mugnaio, un
pezzo di legna da catasta o una spada conficcata nella roccia. Nessun ri-
cordo inizia così, nemmeno quei ricordi che ci sembrano pervasi da una
ineliminabile vaghezza: dire da vecchi che qualcosa è accaduta quando si
era giovani significa comunque collocare un evento nel tempo, ma asserire
che quell’evento è accaduto una volta non significa affatto rispondere alla
domanda “quando?”.
Non è un caso che le cose stiano così. Indicare un posto nel tempo signi-
fica affermare di qualcosa che esso appartiene alla trama obiettiva degli
eventi: vuol dire insomma riconoscere ad un oggetto un posto nel mondo
e ad un accadimento il suo carattere di realtà. Così stanno le cose quando
raccontiamo un evento reale che ci è accaduto: possiamo calcare le tinte e
alterare i contorni, ma se non vogliamo rinunciare fin da principio alla pos-
sibilità di essere creduti, dobbiamo necessariamente definire un tempo se
pur vago ed un luogo in cui collocare la nostra storia. Quando narriamo un
evento reale, le nostre parole debbono potersi riferire a qualcosa che accade
nel mondo: pronunciamo dei nomi e ci rendiamo disponibili ad indicare,
così facendo, quali sono gli oggetti cui ci riferiamo. Questa possibilità è
invece in linea di principio negata dalla narrazione immaginativa: l’incipit
delle favole, che recide esemplarmente ogni contestualizzazione temporale
dell’evento narrato e che ci impedisce di ancorare il tempo dalla favola al
tempo obiettivo, proprio come il suo invitarci a pensare ad un paese lontano
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di una lontananza che non può essere in linea di principio colmata, ci im-
pediscono di fatto di indicare il qui ed ora di ogni oggetto della narrazione.
Se non c’è un momento nella storia del mondo in cui collocare quel “c’era
una volta …” che apre la favola e se non c’è un modo per ricondurre l’as-
solutezza di quella lontananza ad un predicato relazionale che la ancori ad
un qui che la renda insieme misurabile, non c’è nemmeno il luogo in cui
poter cercare gli eventi che ci sono narrati.
Certo, le favole iniziano così – con un “c’era una volta …” che cancella
ogni collocazione temporale – ma, si dirà, questo non è affatto vero di ogni
racconto, e vi sono di fatto romanzi, novelle o film che hanno una data più
o meno definita che colloca le vicende narrate in un qualche luogo del
tempo. Così, sembra sensato dire che l’Iliade ci parla di un mondo più lon-
tano nel tempo di Guerra e pace e che 2001 Odissea nello spazio accade
in un anno che è relativamente vicino al nostro presente. Questo, appunto,
sembra ovvio. Si tratta di un’osservazione importante che tuttavia non
credo giustifichi la conseguenza che se ne vuol trarre. Certo, vi sono molti
prodotti immaginativi che si determinano anche rispetto al tempo e che
hanno una loro aura qualitativa che dipende dal luogo temporale che li ca-
ratterizza: i Promessi sposi parlano proprio della Lombardia del XVII se-
colo, non c’è dubbio e Guerra e pace della Russia negli anni delle guerre
napoleoniche. Se tuttavia riflettiamo sul senso di queste determinazioni
cronologiche ci accorgiamo che ad esse spetta una caratterizzazione quali-
tativa ineludibile che ne modifica in profondità il senso. Quando diciamo
una data, solitamente intendiamo fissare un punto nel tempo che non si
determina in relazione al presente, ma solo alla successione temporale di
cui è parte. Parlare del 2001 non significa parlare del passato, del presente
o del futuro, ma solo indicare un punto nella trama obiettiva del tempo; è
chiaro, tuttavia, che le cose non stanno così quando vediamo il film di Ku-
brick cui alludevamo: quel film parla di un presente che incombe sullo
spettatore e che ci è presentato come l’esito della nostra storia, la cui trama
è narrata nelle prime scene del film. Gli anni passano, ma quel film rac-
conta una storia che accade ora, anche se ci sembra meno credibile nei suoi
particolari e può sembrarci vecchia. Ma ciò è quanto dire che la colloca-
zione nel tempo dell’evento immaginario è soltanto apparente: nei contesti
immaginativi, le date fissano una relazione con il soggetto immaginante e
qualificano la scena narrativa, ma non la ancorano ad un punto obiettivo
del tempo. Del resto, quando sul palcoscenico si mette in scena più volte
la stessa commedia, non ha senso pensare che ci appaia giorno dopo giorno
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più vecchia, così come ci apparirebbe più vecchia la lettura di una stessa
notizia sullo stesso giornale. La ragione è ovvia: ciò che il giornale rac-
conta è (o dovrebbe essere) un evento accaduto realmente e gli eventi
hanno un luogo nel tempo e quel luogo si allontana ogni giorno dal nostro
presente, mentre le commedie accadono ogni volta da capo e narrano qual-
cosa che non è se non nel suo prendere corpo sul palcoscenico.
Vi è infine una regola che abbiamo tutti imparato a rispettare e che ci
impedisce di vestire i panni del guastafeste. C’era una volta un pezzo di
legno che avvertiva il pizzicorino della pialla, ma anche se il sale della
favola consiste proprio nello stupore che questo inizio ci suggerisce è un
fatto che non abbiamo diritto di chiedere come sia possibile che una simile
cosa accada. Non ci sono pezzi di legno fatti così? Bene, ora ci sono e
dunque non devi stupirti troppo se dopo poche pagine quel pezzo di legno,
trasformato in un burattino, infilerà la porta di casa e scapperà via.
C’è poi una quinta domanda che è difficile tacitare, ma a cui ogni rac-
conto immaginativo risponde solo in parte, riservandosi il diritto di non
dare una risposta effettiva – ed è la domanda su come sia possibile ciò che
si narra in un racconto immaginativo. Un tratto ci colpisce: quando ci di-
sponiamo sul terreno della testimonianza, la domanda sulla possibilità as-
sume un duplice senso. Una testimonianza ci sembra plausibile se è inter-
namente plausibile e se è coerente: chi l’ascolta non deve imbattersi in
qualcosa che sia esplicitamente contraddittorio o apertamente inaccetta-
bile. Ma per ogni testimonianza reale è possibile un criterio diverso: una
testimonianza è accettabile se la realtà che descrive è in se stessa coerente,
al di là dell’immagine che la narrazione traccia18.
Nel caso delle testimonianze, dunque, la coerenza della narrazione non
basta: è necessario che anche dal punto di vista obiettivo l’evento narrato
sia coerente. Anche in questo caso, le cose mutano quando ci disponiamo
sul terreno immaginativo. Qui la domanda sulla possibilità assume un ca-
rattere più tollerante, perché un racconto ..
Che cosa abbiamo imparato allora? Abbiamo imparato a sospendere la
valenza referenziale dei nomi. Ancora una volta, in quarto luogo, per com-
prendere bene il senso di queste considerazioni è opportuno coglierle sullo
18 Il primo criterio non implica il secondo: un resoconto può sembrarci accettabile, solo perché l’im-
magine che ci facciamo dei fatti esclude gli elementi che la renderebbero poco credibile. E viceversa.
Erodoto ritiene che non si possa credere che i fenici abbiano doppiato il capo di Buona Speranza perché
sostengono di avere visto a mezzogiorno il sole a settentrione: ciò che rende vera la loro testimonianza diviene così un criterio per rifiutarla.
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sfondo della narrazione memorativa. Quando ascoltiamo i ricordi di un
tempo che non ci appartiene, siamo costretti a rimanere sospesi sulle parole
che ci guidano verso un senso, senza tuttavia poter fare affidamento su una
comprensione effettiva del mondo cui alludono: capiamo, senza poter at-
tribuire ai nomi che ascoltiamo un referente definito. E tuttavia quei refe-
renti vi sono: non sappiamo figurarceli perché appartengono ad un’espe-
rienza che non ci appartiene, ma sono i frutti che la nostra rete deve poter
raccogliere, gli oggetti che soddisfano quei ricordi. Così, anche se com-
prendo quello che dici solo a partire dal suo senso, so che le tue parole si
riferiscono al mondo e alludono ad un insieme di stati di cose che possono
essere accertati indipendentemente da ciò che ora da te apprendo. Diversa-
mente stanno le cose nel caso di una favola o di una fiction: chi legge non
può fare altro che affidarsi al contenuto di senso delle parole che compon-
gono la storia, ma non può in alcun modo fare di quelle stesse parole un
uso, in senso proprio, referenziale. Pinocchio non è un nome proprio che
ci parli di qualcuno – di un qualche individuo nel mondo – ma è solo il
nome di un ruolo narrativo che prende forma nella storia e che può essere
indicato solo all’interno di quella. E ciò che è vero per i nomi propri, vale
evidentemente anche per ogni termine individuale: Geppetto porta a Pinoc-
chio tre pere, ma non è possibile indicare quei frutti se non nel racconto. I
frutti che Pinocchio impara a mangiare con torsoli e bucce e senza far
troppo lo schizzinoso non possono essere additati nel mondo reale: li si può
indicare soltanto nello spazio e nel tempo diegetico ed “esistono” solo
come ruoli narrativi. Ancora una volta: l’immaginazione ci pone di fronte
ad una narrazione assoluta e ciò è quanto dire che non possiamo usare le
parole che la compongono come frecce che additano, legandosi le une alle
altre, un oggetto.
Ce lo vieta la neutralizzazione delle posizioni d’essere che ci costringe a
fermarci all’interno della narrazione e a rinchiuderci nell’universo noema-
tico dei ruoli, lasciando fuori dall’uscio gli oggetti nella loro esistenza au-
tonoma e individuale. Neutralizzare le posizioni d’essere significa in fondo
questo: accettare di rinchiuderci nel racconto, mettendo fuori gioco ogni
posizione oggettuale – ogni pretesa che ci siano davvero gli oggetti di cui
il racconto narra. Così, se qualcuno mi chiedesse che cosa accade ai pochi
compagni di Ulisse che scampano dalla grotta del Ciclope, io non posso
che rispondere aprendo il XII canto dell’Odissea, perché è solo lì che i
compagni di Ulisse muoiono per aver mangiato le vacche care al dio Sole.
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Quel gesto fatale è compiuto solo in quel testo ed esiste solo in quel rac-
conto: che l’Odissea narri quella vicenda non è dunque una conferma del
suo essere accaduto, ma è la condizione cui è vincolato il suo accadere sui
generis. Aprire nuovamente il XII canto e rileggere quella vicenda non
vuol dire verificare l’esattezza della sua narrazione, proprio come non si
verifica la verità di una notizia comperando un’altra copia dello stesso gior-
nale: vuol dire invece consentire alla storia di mettersi nuovamente in
scena. Del resto, nel caso della narrazione fantastica, non si può davvero
fare di più di così. Un racconto immaginativo, infatti, non racconta un
evento, ma lo costruisce passo per passo, parola per parola. E al di là delle
parole, non c’è proprio nulla che si possa cercare e che possa sorreggere la
narrazione: in questo senso, dunque, si può sostenere che i racconti creano
l’evento che narrano.
3. La neutralizzazione delle posizioni d’essere e di valore
Tra gli argomenti che Berkeley ci propone per sostenere che non è possi-
bile cercare l’essere al di là del percipi, uno merita di essere rammentato:
per Berkeley, la convinzione che possa esistere una realtà non percepita
dipende da un’astrazione che non può essere condotta in porto poiché ci
chiede di separare gli oggetti dalle forme della loro manifestazione, la cosa
che percepiamo dal suo essere innanzitutto data a un soggetto nelle forme
della consapevolezza. Berkeley ragiona così: dimostrare che vale la tesi
che vincola l’esse al percipi significa dimostrare che non è possibile libe-
rare la nozione di oggettività dalle forme della sua manifestazione perché
le forme di manifestazione sono parte essenziale dell’oggetto che è, per sua
natura, una datità. L’elegante astrazione che dovrebbe separare una volta
per tutte le cose dal loro essere oggetti per una coscienza non è attuabile,
perché non è possibile indicare negli oggetti qualcosa che non coincida con
le forme del loro essere coscienti per l’io che li percepisce.
Questo ragionamento antico che contiene in nuce la forma di ogni argo-
mento idealistico non ci si aiuta a comprendere la relazione che lega l’espe-
rienza ai suoi oggetti, ma ci consente di imparare qualcosa sul nesso che
lega le finzioni all’immaginazione e ce ne rendiamo conto non appena os-
serviamo che, nel caso delle finzioni, non sembra essere possibile separare
la struttura del fatto narrato dalle forme della narrazione.
Verso questa conclusione sembra condurci, in primo luogo, una consta-
tazione ovvia che ha una sua eco immediata sul terreno della filosofia ber-
keleyana. Per Berkeley, l’esperienza è in linea di principio sita al di qua
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della possibilità dell’errore in senso proprio19: il principio che vincola
l’esse al percipi rende priva di senso la domanda circa la verità o la falsità
di una percezione perché vera o falsa può essere un’acquisizione di ordine
conoscitivo, non la presenza di un oggetto. Uno stesso discorso vale per un
racconto finzionale: un racconto può esser scritto male e può sembrarci
insulso o poco credibile, ma non avrebbe senso dire che è falso o che i
personaggi sono mal descritti per la buona ragione che non sono descritti
affatto, ma creati insieme alle parole della finzione.
Si deve poi rammentare, in secondo luogo, che i racconti finzionali hanno
un inizio e una fine assoluti, proprio come un inizio e una fine ha la prassi
della narrazione finzionale. Se racconto un evento che mi è accaduto, non
posso fare a meno di fissare un punto di avvio ed una conclusione della
mia narrazione, ma l’evento narrato ha un’origine nel tempo che si spinge
al di là dell’incipit della narrazione e ha conseguenze che conducono oltre
il momento del suo necessario chiudersi: l’evento narrato appartiene al
tempo oggettivo del mondo e ogni istante di tempo rimanda di là da sé a
ciò che lo precede e lo segue. Una favola o un racconto finzionale, invece,
inizia e finisce con la narrazione che lo pone e chiedere che cosa è accaduto
prima della notte in cui Gregor si è trasformato in un mostruoso insetto o
che ne è stato di sua sorella Grete dopo quel matrimonio che i genitori
vagheggiano per lei nelle ultime righe de La metamorfosi vorrebbe dire
soltanto pretendere di ascoltare un nuovo e diverso racconto che cambie-
rebbe interamente il senso del primo20.
In terzo luogo, quando ci ricordiamo di un fatto e lo raccontiamo, deci-
diamo che cosa è opportuno dire e che cosa è opportuno tacere, ma questo
non toglie che ogni racconto di un evento sia più o meno lacunoso e che
potrebbe essere integrato, accostandosi di più alla verità dell’evento acca-
duto. Le cose non stanno così nel caso delle finzioni. Odisseo si ferma un
anno da Circe, ma Omero non ritiene di doverci dire nulla più di questo:
19 Vi è, certo, la possibilità che l’esperienza ci inganni da un punto di vista pragmatico: l’esperienza
visiva del remo che appare spezzato nell’acqua, guida male la mano che deve afferrarlo, ma in sé – nel
loro valore obiettivo – la percezione visiva del remo spezzato e la percezione tattile che la segue sono
altrettanto indubitabili.
20 «Una magnifica sera un non meno magnifico usciere, Ivàn Dmitric' Cerviakòv, era seduto nella
seconda fila di poltrone e seguiva col binocolo Le campane di Corneville" Guardava e si sentiva al
colmo della beatitudine. Ma a un tratto... Nei racconti spesso s'incontra questo “a un tratto”. Gli autori han ragione: la vita è così piena d'imprevisti! Ma a un tratto il suo viso fece una smorfia, gli occhi si
stralunarono, il respiro gli si fermò... egli scostò dagli occhi il binocolo, si china e... eccì!!! Aveva
starnutito, come vedete» – così scrive Cechov nella Morte di un impiegato, ed è appena il caso di osservare che non è sensato chiedere davvero che cosa sia accaduto nei giorni passati.
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«e là tutti i giorni, fino al compirsi di un anno / sedevamo, a goderci carni
infinite e buon vino» sinché i compagni lo persuadono finalmente a destarsi
dal torpore e a rammentare la casa paterna. Certo, è difficile immaginare
un anno così – un anno seduti a tavola, accompagnati dal corso dei mesi e
delle stagioni e dei giorni che si accorciano e poi di nuovo si allungano, ma
è esattamente questo quello che dobbiamo fare e immaginare qualcosa
d’altro – una passeggiata, una battuta di caccia o la lettura di un buon libro
– vorrebbe dire semplicemente sbagliarsi. Circe è il dominio della vita ani-
male sulla forma umana del vivere, ed è per questo che da lei gli anni pas-
sano così. Dire di più vorrebbe dire raccontare una storia diversa.
Eppure, si dirà, anche i racconti hanno lacune che debbono essere inte-
grate. Spesso si argomenta così: se in un racconto qualcuno, che abbiamo
lasciato a Londra, si trova improvvisamente a New York, si deve presu-
mere che abbia preso un aereo e che abbia attraversato l’oceano. Il racconto
forse tace che così stanno le cose, ma il lettore deve colmare la lacuna, così
come deve pensare che in quel mondo valgano le leggi di natura, anche se
nulla nel racconto ci costringe a ricordarle. «Se ora è a New York, deve
aver preso l’aereo – non può aver attraversato d’un balzo l’Atlantico» –
questo è quello che direbbe il lettore. Le lacune della narrazione, talvolta,
vanno colmate e questo, si dirà, è un chiaro segno del fatto che lacune vi
sono e che non è dunque vero che l’evento narrato non eccede la sua nar-
razione ed è quindi inseparabile da essa. Lo si è spesso sottolineato, e tut-
tavia, credo che le cose non stiano così e che si debba distinguere l’inte-
grazione di un racconto che si fonda sull’evento narrato dalle integrazioni
che sono determinate dallo sfondo di ogni narrazione. Se ti dico che questa
mattina ero a Pesaro e ora sono a Milano, hai ragione di pensare che abbia
preso un treno: deve essere proprio andata così. A ben guardare, tuttavia,
non hai soltanto diritto di pensarlo, ma puoi anche chiedermi come sono
arrivato e l’unica risposta che posso darti dipende da come sono andate
realmente le cose. Nel caso di un racconto di finzione, invece, le integra-
zioni non rimandano alla realtà di un evento che le fondi, ma alla coopera-
zione del lettore che deve continuare il gioco che l’immaginazione dell’au-
tore gli propone secondo le regole che la narrazione suggerisce. In un rac-
conto realistico, se un personaggio che era Londra si trova il giorno dopo
a New York, è necessario supporre che abbia preso un aereo. Dobbiamo
immaginare così. In un racconto diverso, tuttavia, le cose potrebbero an-
dare diversamente: «Profondamente assorto nei miei pensieri guardavo ap-
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pena dove mettevo i piedi... Dopo nemmeno duecento passi notai di es-
sermi smarrito, perché mi trovavo in un annoso bosco di abeti che nessuna
accetta doveva aver violato. Feci ancora qualche passo e fui circondato da
squallide rocce nevose sulle quali attecchivano soltanto muschi e sassifra-
ghe. Spirava un'aria gelida e il bosco di abeti era sparito. Dopo altri pochi
passi sentii intorno a me una quiete mortale, il ghiaccio si dilatava in
un’estensione enorme e una spessa nebbia ristagnava nell’aria; il sole fiam-
meggiava sanguigno al margine estremo dell'orizzonte e faceva un freddo
insopportabile... Seguendo la costa vidi ancora rocce, paesi, boschi di be-
tulle e di abeti: dopo un paio di minuti di corsa il caldo divenne insoppor-
tabile, scrutai ancora intorno e scorsi gelsi in fiore e colture di riso. Mi
adagiai all'ombra e detti un'occhiata all'orologio: non era passato nemmeno
un quarto d'ora da quando ero uscito dal villaggio! Credetti di sognare...»
– chi parla così è Peter Schlemihl, che ancora non sa di avere indossato gli
stivali delle sette leghe. Non si stupisce invece il lettore che è ormai prepa-
rato alle mille diavolerie (è proprio il caso di dirlo) di quel bellissimo rac-
conto e proprio per questo comprende che gli stivali da poco comperati
debbano essere la causa di quei passi prodigiosi. Il racconto lascia provvi-
soriamente aperta una lacuna che il lettore integra sulla base del progetto
immaginativo della narrazione. Del resto che cosa sia una lacuna e che cosa
non lo sia lo si determina in un racconto solo in virtù del progetto immagi-
nativo del racconto. Nel legno che Mastro Cilegia regala a Geppetto è ri-
masto imprigionato uno spiritello insolente che prenderà le forme di un
burattino. Che il suo corpo provi freddo e fame anche se è fatto di legno
Collodi ce lo dice fin dalle prime pagine del suo libro, invitando il lettore
ad un gioco immaginativo che ripercorre la ricetta fantastica delle meta-
morfosi e che proprio per questo si lascia guidare da una regola ancipite.
Questa regola sorregge le integrazioni cui il lettore è chiamato: ora dovrà
immaginare Pinocchio come un corpo vivo che ha fame, ora come una ma-
rionetta che può essere bruciata per cuocere le pietanze di Mangiafoco. In
nessun caso, tuttavia, al lettore si chiederà di immaginare quel che non è
chiesto dalla favola: Pinocchio ha fame, ma la sua fame vorace non ha bi-
sogno di uno stomaco; e ha freddo, ma non ha per questo sangue caldo che
circoli nelle sue vene. Collodi non lo dice, ma questa non è lacuna, perché
l’immaginazione non è chiamata a colmarla. Di qui, in quarto luogo, la
conclusione cui dobbiamo giungere: un racconto di finzione ha lacune, ma
le lacune rimandano al progetto immaginativo che il racconto stesso pro-
pone e non sono affatto determinate da un qualche raffronto con una realtà
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che stia al di là della narrazione stessa. Ma ciò è quanto dire che le lacune
immaginative sono lacune per l’immaginazione. Certo, per condurre in
porto il gioco immaginativo che è chiamato in causa da Pinocchio devo
avere un’esperienza del mondo: devo sapere che cos’è una marionetta e
che cos’è un bambino. Devo sapere come è fatto un pezzo di legno e che
cosa prova un corpo vivo, ma questo sapere che fa da sfondo alla mia com-
prensione di quel racconto non entra nel gioco immaginativo se non pie-
gandosi alle regole del gioco che la narrazione ci propone. Anche in questo
caso, dunque, l’evento narrato non è separabile dalla narrazione, ma sorge
con essa.
Non facciamo altro che sviluppare queste stesse considerazioni se osser-
viamo, in quinto luogo, che nel caso delle narrazioni immaginative non ha
senso parlare di quella peculiare asimmetria tra narratore e ascoltatore cui
avevamo dianzi alluso. Certo, chi narra la storia la sa già ed è quindi in
una posizione di vantaggio rispetto a chi l’ascolta, ma ciò non significa che
il narratore sappia prima della storia stessa come sono andate le cose che
narra. Tutt’altro: il narratore sa la storia (è così che si dice) e questo pro-
priamente significa che è soltanto la storia che decide degli eventi che in
essa si narrano. In fondo, il narratore è soltanto un ascoltatore che ha già
ascoltato la storia narrarsi e che sa per questo come va a finire; più di questo
non può sapere, anche se ne è l’autore: che Ulisse riceva da Eolo l’otre dei
venti avversi e che i compagni, giunti in prossimità di Itaca, lo aprano con-
vinti che contenga un tesoro è un fatto solo nella storia che l’Odissea narra
e non vi è altro luogo che lo racchiude e altra fonte che possa renderlo
accessibile. Così, se mai vi è stato un poeta di nome Omero, è un fatto che
di quella vicenda è stato il primo ascoltatore: il grande privilegio che la sua
creatività gli ha concesso è stato quello di ascoltare prima di ogni altro le
molte vicende di Ulisse e di sapere per primo come sarebbero andate a
finire. Di ascoltarle e, insieme, di decidere: chi narra per primo una storia
è libero di scegliere molte cose, ma questa libertà in fondo non è altro che
il diritto di scegliere quale storia raccontare.
La mancanza di un’asimmetria tra narratore e ascoltatore ha del resto un
suo risvolto etico su cui è opportuno riflettere, seppur brevemente. Chi
ascolta un racconto di una vicenda reale deve infine valutarlo a partire dai
criteri che gli appartengono e che ritiene in generale validi. Così, per
quanto sia opportuno rammentare che un fatto deve essere giudicato te-
nendo conto dell’universo culturale cui appartiene, dobbiamo infine far va-
lere l’assolutismo morale di Passepartout – il servitore del Giro del mondo
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in ottanta giorni di Jules Verne che, senza pensarci troppo, decide di sal-
vare la vedova indiana dal rogo su cui verrà bruciato il marito. I racconti
di fatti reali non racchiudono in sé il metro di giudizio che deve infine va-
lutarli, anche se è giusto cercare di comprendere ad un primo livello i fatti
alla luce dell’universo culturale cui appartengono. Diversamente stanno le
cose nel caso dei racconti di finzioni. Ogni finzione porta con sé il metro
di giudizio che le si addice. Tersite, il più brutto tra i greci, si lamenta di
Agamennone e della sua smodata voglia di ricompense, e non ha forse tutti
i torti a ricordare che le guerre sono un affare per i potenti e una disgrazia
per i popoli. E tuttavia, con buona pace di Concetto Marchesi, per leggere
l’Iliade dobbiamo mettere da canto queste preoccupazioni: dobbiamo im-
maginare una vicenda insieme al metro che la giudica. Un racconto ci pro-
pone un esperimento immaginativo: ci chiede di immaginare un mondo
con i suoi valori e con la sua morale, mettendo per un poco da canto le
nostre convinzioni e le nostre certezze. Qualche volta non riusciamo a con-
durre in porto l’esperimento che ci viene richiesto e ricadiamo dall’imma-
ginazione alla realtà. Dobbiamo immaginare che Tersite la gobba se la sia
andata a cercare insieme alla punizione che giustamente lo raggiunge –
dobbiamo immaginare così, ma qualche volta l’immaginazione cede il po-
sto ad un pensiero orientato al reale e allora la vicenda di Tersite ci appare
alla luce delle infinite ingiustizie che i potenti hanno esercitato contro chi
metteva in dubbio il loro diritto al sopruso. Qualche volta è difficile rima-
nere sul terreno dell’immaginazione – ed è forse questo cui a suo modo
allude il dibattito sulla “resistenza immaginativa”. E tuttavia, parlare di una
difficoltà a rimanere sul terreno immaginativo non significa affatto allu-
dere ad un qualche nesso che stringerebbe l’universo finzionale al sistema
dei valori e dei principi morali che governano la nostra vita reale. Tutt’al-
tro: quando il sistema dei valori reali si scontra con il metro di giudizio che
l’immaginazione ci chiede pro tempore di far nostro abbiamo già abban-
donato il terreno immaginativo e siamo ricaduti nostro malgrado sul ter-
reno della realtà. Non è difficile giocare il gioco che l’Iliade ci propone: è
difficile continuare a giocarlo quando siamo chiamati a riflettere sulla di-
versità tra quel gioco ed il nostro. Ma dire così non significa asserire che
l’immaginazione è vincolata al nostro giudizio sul mondo; al contrario: si-
gnifica rammentare che ogni immaginazione è libera e reca con sé il pro-
prio metro di giudizio, ma che la nostra adesione ad un insieme di principi
e di valori porta con sé una necessaria memoria del mondo che ci impedisce
di abbandonarlo.
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4. Immaginazione narrativa e credenza
Le considerazioni che abbiamo tracciato sin qui delineano un quadro coe-
rente e ci invitano a pensare alle finzioni come universi chiusi e aconte-
stuali che ospitano quasi-oggetti, ruoli che non godono di un’effettiva in-
dividualità, perché le condizioni della loro individuazione non rimandano
ad un qui e ora reali, ma sono solo apparentemente soddisfatte nel contesto
della narrazione. Gregor si sveglia ora, dopo una notte inquieta, nella sua
stanza e deve rendersi conto ora di quello che è avvenuto nella notte – si
sveglia in un luogo e in un tempo che sembrano dargli un’individualità che
si rivela illusoria non appena ci rendiamo che un racconto è una forma che
può essere liberamente ripetuta e che non ancora le proprie deissi a punti
obiettivi dello spazio e del tempo. L’attimo in cui Gregor si sveglia è ora,
ma lo è ogni volta in cui leggiamo il racconto perché la deissi è apparente
e non fissa un luogo nel tempo obiettivo, ma solo una relazione rispetto al
lettore.
Abbiamo detto così e tuttavia questo quadro coerente sembra poggiare
su un terreno fragile perché in fondo la tesi secondo la quale la narrazione
assoluta non farebbe un uso referenziale del linguaggio può apparirci una
tesi infondata. In fondo, perché non dire più semplicemente che le finzioni
sono semplicemente false, anche se il patto narrativo che ad esse ci lega ci
vieta di lasciarci persuadere che le cose stiano davvero così. In fondo, il
narratore potrebbe semplicemente avvertirci che quel che dirà non è vero,
per invitarci ad ascoltarlo, senza lasciarci ingannare. Qualche volta accade
così: ascoltiamo qualcuno che ci racconta del suo passato e non sappiamo
bene se credergli e anzi non gli crediamo affatto, ma capiamo che l’unica
ragione che lo spinge a mentire è il fascino del racconto. Quella sera non è
in realtà accaduto nulla di rilevante, ma perché dovrei rinunciare ad ascol-
tare una storia divertente, se sono certo che non me ne verrà alcun danno
visto che non prendo seriamente quello che dici e non mi lascio ingannare
da una menzogna che non si cura di celarsi perché di fatto non intende
ingannare nessuno? Potremmo interpretare così tutti gli indizi che ci hanno
portato alla tesi che abbiamo dianzi formulato: come segni evidenti del
fatto che le falsità che raccontiamo non pretendono di ingannarci. Parliamo
di un pezzo di legno che si anima di vita propria, ma alziamo subito dopo
le spalle quando si tratterebbe di dire dove e come questo è accaduto e
quando, un po’ come si dice che non ci si rammenta più quali fossero gli
amici che erano presenti con noi quando c’è capitata quella buffa vicenda
94
che ha il torto di non essere affatto accaduta. Del resto, se tu mi chiedessi
se Pinocchio e Geppetto sono mai esistiti, ti risponderei di no, come fa-
rebbe qualsiasi persona di buon senso. Un uomo che si sia svegliato da una
notte inquieta trasformato in un insetto mostruoso non è mai esistito: que-
sto lo sappiamo bene. Ma allora perché non dire semplicemente che La
metamorfosi di Kafka racconta a rigore un insieme di falsità che possono
essere accettate solo perché, leggendole, non crediamo affatto che sia ac-
caduto quel che si dice sia accaduto?
Certo, quando abbiamo ritenuto possibile sostenere che le finzioni sono
racconti assoluti avevamo osservato che da un lato non è affatto chiaro che
cosa voglia dire che un racconto come La morte di Ivan Il’ic racconta una
storia che non è accaduta e, dall’altro, che in generale quando abbiamo a
che fare con le forme dell’immaginazione in senso pregnante non si può
tanto dire che ciò che caratterizza gli “oggetti” dell’immaginazione non è
il fatto che non li si trova, ma che non lo si cerca nella realtà, ma non credo
che nessuna di queste osservazioni contraddica davvero la tesi secondo la
quale le finzioni sono affermazioni prive di fondamento. Non sappiamo se
davvero non è accaduto in qualche città della Russia che un uomo di nome
Ivan Il’ic si sia un giorno fatto male ad un fianco sistemando una tenda e
che sia infine morto per colpa di questo ridicolo incidente domestico. È
molto improbabile che le cose siano andate così, ma non possiamo esclu-
derlo e in fondo Pirandello nella seconda edizione de Il fu Mattia Pascal
fa notare ai critici che avevano accusato il suo romanzo di essere troppo
inverosimile che un simile fatto era davvero accaduto perché la realtà
spesso è più assurda di ogni finzione. Così non possiamo escludere che sia
accaduto ciò che Tolstoj e Pirandello ci raccontano, ma questo non toglie
che possiamo egualmente considerare che quei racconti siano in se stessi
un insieme di asserzioni infondate, cui non dobbiamo credere. Forse non
possiamo dire che quei racconti siano falsi, ma non per questo dobbiamo
pensare che siano privi di un valore referenziale: affermano che sono ac-
cadute certe cose e lo fanno senza alcun fondamento. Può darsi che Mattia
Pascal sia esistito davvero, ma non abbiamo alcuna ragione per crederlo, e
molte per pensare il contrario. Quanto alla seconda considerazione propo-
sta possiamo semplicemente accettarla senza problemi: in fondo, chi
ascolta un racconto pensando che si tratti di una bugia inoffensiva e mani-
festa non soltanto non trova quel che vien detto nella realtà, ma non lo cerca
nemmeno. Sa che quell’evento così bizzarro non è mai accaduto e non
cerca di sincerarsene: sa già che nel mondo non troverebbe nulla di eguale,
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ma proprio per questo non perde tempo a cercare. Una finzione racconta
una storia cui non crediamo e che non ci chiede la fatica di controllare se
sia vera o falsa, anche se abbiamo tutte le ragioni per pensare che sia falsa.
Possiamo davvero ragionare così? Certo, vi è un senso in cui non cre-
diamo affatto alle finzioni che leggiamo e ci sembra evidente che vi sia una
prospettiva in cui esse debbano essere semplicemente ritenute false: nel
mondo reale non ci sono lupi che parlino e che inghiottano le loro prede
vive in un solo boccone. Questo è certo, e tuttavia proprio qui si fa avanti
una difficoltà cui si deve tentare di dare una risposta. Non crediamo alle
favole e ai racconti di finzione, ma questa constatazione così ovvia sembra
possibile pronunciarla solo nel momento in cui guardiamo al contenuto
della finzione con gli occhi disincantati di chi ha smesso di immaginare. E
anche questo è chiaro: non posso leggere un racconto e insieme vestire i
panni del guastafeste che di continuo mi ripete che quel che leggo non è
affatto vero. So che una favola non mi parla affatto del mondo reale e non
credo realmente che esistano e talvolta che possano esistere i personaggi
che animano i mondi della finzione, ma quando mi immergo nel racconto
vi è un senso in cui l’incredulità si affianca al suo contrario poiché non
possiamo non temere per la sorte di Gregor perché ci aspettiamo che acca-
dano le cose che di fatto accadranno. Crediamo molte cose nella storia an-
che se non crediamo affatto alla storia– questo è il punto.
Una prima ipotesi sembra invitarci a sciogliere questa sorta di contraddi-
zione disponendola in una successione temporale: è la via che Coleridge
suggerisce quando propone di intendere l’atteggiamento del lettore come
una momentanea sospensione dell’incredulità, come una dimenticanza pro
tempore del carattere finzionale del racconto. Non è facile comprendere
come questo possa accadere. Non posso decidere di credere o di non cre-
dere, perché il credere e il non credere non sono atteggiamenti di cui possa
liberamente disporre: non posso smettere volontariamente di credere che
questa sia la mia mano, ma non posso costringermi a credere, sia pure per
poco, che Giacomino abbia raggiunto le nuvole arrampicandosi sui rami di
una pianta di fagiolo. Non posso deciderlo, nemmeno per ottemperare ad
un patto con il narratore, ma potrebbe tuttavia accadere che quel patto mi
disponesse all’ascolto o alla lettura e che la narrazione mi catturasse, fino
a farmi dimenticare che, al di là della finzione in cui mi immergo, vi è un
mondo reale che continua ad esistere. Un’ipotesi apparentemente plausi-
bile che sembra spiegare certi comportamenti di lettura che sono chiara-
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mente finalizzati a tacitare la presenza del mondo esterno: ci si mette co-
modi per tacitare le voci del corpo e si chiude la porta per lasciarsi il rumore
del mondo alle spalle. Nei teatri la luce si spegne e resta, illuminata, sol-
tanto la scena. Il mondo reale viene così sospinto al di là dello spazio della
finzione, ma questo significa davvero che sia possibile dimenticarlo? Per
molti versi, questa richiesta sembra eccessiva: non posso dimenticarmi del
fatto che la storia progredisce solo perché assecondo il suo svolgersi gi-
rando a tempo le pagine del mio libro e qualche volta, quando la curiosità
si impossessa di noi, può accadere che si vada a sbirciare nelle ultime pa-
gine perché non abbiamo mai dimenticato che il mondo della narrazione è
racchiuso nell’oggetto reale che abbiamo tra le mani. E del resto: se dav-
vero si trattasse di dimenticare che ciò che leggiamo ha un carattere finzio-
nale, come potremmo rendere conto del carattere così apertamente lettera-
rio delle finzioni? Le favole non parlano il linguaggio consueto della realtà,
ma usano ripetizioni e formule che rammentano al lettore ad ogni passo
che ciò che stanno leggendo è un’opera letteraria e così accade anche nelle
opere teatrali, in cui raramente la recitazione vuole essere pienamente rea-
listica. Ci ricordiamo bene che si tratta di una finzione; non abbiamo di-
menticato nulla, ma anche se per un caso questo fosse accaduto, la forma
della letterarietà (che non è affatto una colpa da cui un buon narratore do-
vrebbe emendarsi) ce lo rammenterebbe passo dopo passo. Del resto, si
possono dimenticare molte cose, ma non è davvero possibile dimenticare
lo stile consueto della realtà: non possiamo dimenticarci che dopo una notte
inquieta non ci si può svegliare trasformati in un gigantesco insetto. Non
possiamo leggere La metamorfosi e dimenticarci che si tratta di un rac-
conto; e non dobbiamo nemmeno farlo: per coglierne il senso, dobbiamo
poterlo leggere mantenendo quel distacco che ci consente di stringere in un
unico nodo l’assurdità dell’evento all’atteggiamento pacato e quotidiano
con cui ci si fa una ragione di questa stranezza. Dobbiamo leggerlo come
un racconto cui si crede – come a un racconto: questo è il punto.
Di qui la necessità di vagliare una seconda ipotesi che non ci chiede di
dimenticare quello che la struttura di ogni racconto di continuo ci ricorda,
ma che ci invita a distinguere il credere dal far finta di credere. Non cre-
diamo a ciò che La metamorfosi ci racconta, ma quando ci immergiamo
nella storia facciamo finta di crederci e questa dualità insita nelle forme del
“credere” deve consentirci di venire a capo della contraddizione di cui di-
scorrevamo. Non crediamo, ma facciamo finta di credere, e tuttavia basta
riflettere un poco per rendersi conto che i problemi restano ancora insoluti:
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non è chiaro infatti che cosa possa voler dire che fingiamo di credere ad un
racconto. L’abbiamo già osservato: il credere o il non credere non sono
atteggiamenti che siano in nostro possesso. Non posso decidere di dubitare
o di non credere a ciò cui semplicemente, ed è per questo che Cartesio nella
Prima meditazione ha bisogno di cercare argomenti che giustifichino il suo
dubbio metodico. Far finta di credere non potrà significare allora impe-
gnarsi in un gesto volontaristico che ci spingerebbe a credere ciò cui non
crediamo affatto. Di qui una diversa ipotesi che cerca di far luce sul senso
di quest’espressione a partire da espressioni simili. Se ci si chiedesse che
cosa significa fingere di dormire, noi sapremmo come rispondere, così
come sapremmo dire quali comportamenti dovremmo inscenare per ren-
dere quella finzione credibile. Ora si possono fingere situazioni e stati
d’animo: posso fingere di avere fame o di essere inquieto e posso fingere
di essere triste o di essere preoccupato. Più difficile sembra invece fingere
di credere, perché non vi è qualcosa che facciamo propriamente quando
crediamo qualcosa, e tuttavia potremmo dire che qualsiasi finzione insce-
niamo, insceniamo anche il nostro fingere di credere alla situazione che
recitiamo. Così, se fingo di suonare il violino, fingo anche di credere che
vi sia un violino in una mano e un archetto nell’altra e se fingo di essere
preoccupato, fingerò anche di credere che vi sia qualcosa che motiva quello
stato d’animo. Fingere di credere vorrebbe dire allora comportarsi come se
si credesse: dare da credere a sé agli altri che le cose stiano diversamente
da quello che in realtà riteniamo.
Quando ascoltiamo una favola fingiamo dunque di credere che il lupo
possa davvero essere così astuto come si narra, proprio così come nel gioco
il bambino finge che il divano sia una nave: nell’uno e nell’altro caso im-
maginare vorrebbe dire comportarsi come se fosse vero ciò che sappiamo
non essere vero. Ma le cose possono davvero stare così? Possiamo davvero
pensare che ascoltare una storia possa voler dire “recitare” un certo com-
portamento?
In un certo senso, una simile spiegazione sembra chiedere ora troppo, ora
troppo poco. Sembra innanzitutto pretendere troppo perché ci invita a pen-
sare che lo spettatore debba recitare le sue reazioni al contenuto della fiaba,
ma nessuno finge di prendere lo schioppo per difendersi dal lupo e nessuno,
leggendo, si comporta come se davvero ci fossero le molte cose che una
storia racconta. Se c’è una recita, il suo copione sembra essere molto meno
ricco di quel che potrebbe. Ma sembra, soprattutto, pretendere troppo poco,
98
perché non ci sembra affatto di far finta di soffrire quando leggiamo il de-
stino di Adelchi e un bambino non recita la paura prima e la soddisfazione
poi quando qualcuno gli legge la storia dei sette capretti.
Venire a capo di queste considerazioni significa rammentare che non
ogni recita assume necessariamente le forme di un mero fingere, privo di
una partecipazione effettiva. Certo, posso mettere in scena la tristezza sem-
plicemente ripetendone il comportamento esteriore, ma quando giochiamo
o leggiamo un racconto le cose non stanno affatto così perché a fondamento
del nostro fingere vi è una situazione complessa che orienta in una dire-
zione determinata le nostre sensazioni e le nostre esperienze. Non pos-
siamo credere che vi sia un lupo e che abbia davvero sterminato sette ca-
prette, ma per avvertire un brivido dietro la schiena non c’è bisogno di
credere: le sensazioni sono più semplici delle emozioni e non chiedono
altro che una causa per essere scatenate. Così, se per provare un’emozione
è necessario che le sensazioni si leghino al nostro credere che le cose stiano
come debbono stare per motivarle, per provare una sensazione di angoscia
è sufficiente che certe scene si impongano alla nostra attenzione: ci basta
pensare che i denti del lupo si chiudano sul corpo di un cucciolo per sentire
un brivido dietro la schiena. Il bambino non crede che ci sia un lupo, ma la
scena che deve rappresentarsi lo mette egualmente a disagio e la sensazione
che prova può divenire nell’ascolto il fondamento di una quasi-emozione:
ciò che prova può adattarsi alla recita che deve condurre a termine, perché
si attaglia bene al tipo di emozione che la narrazione richiede. Come un
bastone offre un pretesto per mettere in scena un duello a colpi di sciabola,
così la sensazione di disagio attribuisce alla recita che il lettore deve insce-
nare la giusta partecipazione emotiva e, per così dire, la serietà dovuta.
Leggere un racconto non significa compiere un esercizio di falsa coscienza
e fingere quel che non si prova: significherebbe invece intendere quel che
si prova alla luce della narrazione, proprio come si intendono alla luce del
gioco gli oggetti che l’azione ludica incontra.
Siamo giunti così a formulare un’ipotesi che sembra percorribile. L’im-
maginazione è un far finta di credere ad una determinata situazione che è
sostenuto nella sua serietà dal fatto che avvertiamo le stesse emozioni, sep-
pure modificate di segno, che proveremmo se quella stessa situazione fosse
reale. Le quasi emozioni divengono così il fondamento della serietà imma-
ginativa – ma basta? Certo, se proviamo una sorta di dolore quando Ivan
comprende quello che lo aspetta e se abbiamo quasi paura per i sette ca-
pretti questo sembra attribuire al nostro gioco immaginativo un carattere di
99
serietà, ma possiamo per questo dire che crediamo (o che quasi-crediamo)
nei racconti? Possiamo rendere conto del fatto che, nel gioco come nella
lettura, l’universo immaginativo si pone, pro tempore, come un mondo che
ci coinvolge e di cui ci sentiamo parte solo rammentando che ci è possibile
intendere quel che avvertiamo come fondamento di un gioco che finge il
nostro provare certe emozioni?
Che non sia possibile tentare di venire a capo del nostro “credere” nelle
finzioni seguendo una via analoga a quella che abbiamo percorso per le
quasi-emozioni sembra relativamente ovvio, perché il credere non ha da un
lato sensazioni peculiari che lo accompagnino e perché, dall’altro, non è
uno stato d’animo. Il mio sistema di credenze mi accompagna in ogni mia
azione, ma sarebbe privo di senso sostenere che vi sia un vissuto che abbia
ogni mia convinzione. Credo che Auckland sia una città della Nuova Ze-
landa, ma crederlo non significa vivere una qualche sensazione particolare
e del resto vi sono molte credenze che mi accompagnano nella mia prassi
quotidiana senza che abbia alcuna ragione per richiamarle alla mente.
L’unico sostegno che possiamo cercare per il nostro “credere” nell’uni-
verso immaginativo ci riconduce in questa prospettiva al gioco delle quasi
emozioni: credere in una storia significa solo rammentare che il nostro fin-
gere di credere è pervaso da una serietà di fondo, poiché siamo in qualche
modo coinvolti da ciò che immaginiamo.
Io credo che queste considerazioni colgano in parte nel segno, ma che al
contempo rivelino che vi è qualcosa di radicalmente sbagliato nella pro-
spettiva generale che le caratterizza. Rammentiamo quale fosse il nostro
problema: volevamo sciogliere la contraddizione che sembra caratterizzare
il nostro rapporto con i contenuti dell’immaginazione cui in un qualche
senso ci sembra di “credere”, ma cui tuttavia non crediamo affatto e c’era
sembrato possibile venirne a capo attraverso la tesi secondo la quale im-
maginare significa impegnarsi in un gioco di finzione. Ora, fingere di cre-
dere ad un universo immaginativo significa fare qualcosa che sembra es-
sere necessariamente consapevole: se immaginare significa dare a credere
a sé e agli altri che le cose stiano in un certo modo non posso non rendermi
conto che sto appunto facendo finta di credere. Far finta di credere che le
cose stiano in un certo modo, tuttavia, implica che si sia consapevoli che
non crediamo che le cose stiano realmente in quel modo, perché non posso
far finta di credere ciò in cui realmente credo, così come non posso far finta
di essere nato nel 1958 se sono nato nel 1958. Se così stanno le cose, tut-
tavia, far finta di credere che il lupo abbia ingoiato in un boccone i sei
100
capretti vuol dire allo stesso tempo essere consapevoli di non credere che
vi sia un lupo che ha divorato quei capretti. Ne segue che il mio fingere di
credere al contenuto di un racconto fa tutt’uno con il mio prendere co-
scienza che non credo affatto al contenuto di quel racconto. Di qui, tuttavia,
la difficoltà di cui discorrevamo: se ci poniamo in questa prospettiva, im-
maginare qualcosa vorrebbe sempre e necessariamente dire ricordarsi che
qualcosa non esiste affatto. E ciò è quanto dire: il nostro immaginare la vi-
cenda del lupo e dei sette capretti farebbe tutt’uno con il nostro sapere che è
falsa e che, dunque, è soltanto per finta che crediamo a ciò che ci si rac-
conta. L’immaginazione, in questa prospettiva, è tutta qui – nella parola
“soltanto” che ci insegna quale sia il senso dei prodotti immaginativi: è
soltanto un film, è soltanto un racconto, è soltanto un gioco. Ora, vi è un
senso in cui questo è senz’altro vero: chi immagina un racconto, non pre-
tende che sia vero ciò che esso narra. E tuttavia, stranamente, di questo
avverbio non sentiamo nella norma il bisogno se non quando qualcosa
sfugge al nostro controllo. Mentre leggo una favola ad un bambino, mi
accorgo che la vicenda narrata lo rattrista e lo spaventa e allora – per ripa-
rare al misfatto – lo consolo e gli dico che è soltanto una favola: così fa-
cendo, tuttavia, lo invito ad abbandonare per un attimo la prospettiva
dell’immaginazione nella quale si è calato in modo troppo vivido. Il bam-
bino non ha dimenticato che si tratta di una favola – e come potrebbe altri-
menti credere a lupi che parlano e che mangiano capretti in un solo boc-
cone? – ma si è immerso troppo nell’immaginazione e si lascia dominare
dalla finzione che ascolta, proprio come accade talvolta a noi adulti: la pa-
rola “soltanto” richiama lui e noi dall’immaginazione alla realtà nella quale
comunque siamo e ci invita a fare un lungo respiro prima di iniziare even-
tualmente a fantasticare di nuovo. Ma se così stanno le cose, se devo de-
scrivere il mio rapportarmi al contenuto di un racconto o di una finzione
alla luce di ciò che la paroletta “soltanto” mi insegna, allora devo ricono-
scere che al terreno immaginativo non riesco propriamente ad accedere,
perché nel momento in cui mi propongo di fingere e di considerare quindi
soltanto finzioni le vicende del lupo e dei sette capretti ho di fatto già ab-
bandonato il terreno immaginativo e mi sono tranquillizzato nella realtà,
cui nuovamente accedo nel momento stesso in cui mi costringo a calcare il
terreno delle credenze. Pensare l’immaginazione come un fingere di cre-
dere significa allora coglierla da un punto di vista che non appartiene allo
spazio dell’immaginazione e che ci costringe a pensarla alla luce della di-
stanza che la separa dal nostro essere come di consueto coinvolti nella
101
realtà cui apparteniamo. Ne segue che la stessa serietà dell’immaginare di
cui abbiamo dianzi discusso e che c’era sembrata così caratteristica del no-
stro rapporto con i prodotti dell’immaginazione deve essere in qualche
modo indebolita: posso far finta di credere che il lupo abbia divorato i ca-
pretti solo ripetendomi a bassa voce che è soltanto un racconto e che se
fingo di credere è solo perché in realtà non credo. Ma ciò è quanto dire che
il riconoscimento, in sé ovvio, che il racconto non si dispone sul terreno
della realtà porta con sé, nella prospettiva che abbiamo delineato, una vera
e propria negazione delle ragioni che dovrebbero consentirci di viverlo.
Una conferma di queste considerazioni ci si offre, del resto, non appena
riflettiamo un poco sulla possibilità di tranquillizzare chi si è lasciato
troppo prendere dall’immaginazione. Leggo un racconto e mi lascio pren-
dere da una commozione eccessiva, che cerco di tacitare ripetendomi che
si stratta soltanto di una finzione. Agisco così per guadagnare una posi-
zione nuova rispetto alla narrazione – ma come potrei ottenere un qualche
risultato se questa fosse la prospettiva da cui solitamente guardiamo ai con-
tenuti di finzione? Che un racconto sia soltanto un racconto non può essere
la massima che ci guida nella lettura perché questo è l’atteggiamento che
assumiamo solo quando guardiamo al contenuto della finzione dal punto
di vista della realtà. Qualcosa deve mutare quando mi lascio tranquillizzare
e tuttavia, sarebbe sbagliato dire che la massima della tranquillizzazione ci
insegna davvero qualcosa di nuovo: se posso ripetermi da solo che si tratta
di un racconto è perché lo so bene e perché, per quanto possa suonare
strano, non me ne sono affatto dimenticato. Devo credere nel racconto,
senza credere al racconto e devo poter sapere che le cose stanno così
Per sciogliere questo nodo è necessario innanzitutto distinguere due dif-
ferenti concetti che si confondono nel verbo “credere”. Vi è un’accezione
propria del verbo “credere”: in questo caso della parola “credere” ci avva-
liamo per sostenere che abbiamo ragioni di pensare che un certo stato di
cose sussista e sia proprio così come ci si dà. Abbiamo ragioni per credere
che il libro sia sul tavolo, e questo significa che non siamo semplicemente
entrati nello studio e che abbiamo visto quel che non potevamo non vedere,
ma che l’abbiamo propriamente constato: abbiamo rivolto esplicitamente
lo sguardo in una direzione determinata e abbiamo cercato in quel che ve-
devamo una risposta ad una domanda. Abbiamo usato la vista come uno
strumento per rispondere ad una domanda, come un criterio per sciogliere
un dubbio. Ci siamo avvalsi così di quel che vedevamo, ma la vista può
fungere come un criterio se e solo se le constatazioni che ci consente di
102
compiere si muovono sul terreno di un mondo che è comunque immedia-
tamente percepito e che deve essere presupposto nella sua normalità perché
una qualche percezione possa valere come una constatazione e quindi
come una risposta ad una domanda che verte sull’esserci e sull’esser così
di qualcosa. Posso dire che il libro è sul tavolo non soltanto perché posso
constatare che le cose stanno così, ma anche perché la mia constatazione
poggia su molte percezioni che constatazioni non sono e che non chiedono
di essere controllate per potersi porre come il terreno su cui poggiamo:
controllo che ci sia il libro volgendo lo sguardo là dove è il tavolo, ma non
dubito che il luogo che il mio sguardo raggiunge sia quello che cerco e cui
giungo dopo aver percorso un breve cammino in un ambiente familiare che
mi è noto e di cui sono certo, ma che non mi è dato come oggetto di una
constatazione, ma è presente come il mondo cui la mia percezione mi con-
sente di accedere. Un dubbio ed una risposta ad un dubbio presuppongono
molte certezze21 e ciò è quanto dire credere ad un determinato stato di cose
solo se possiamo rendere tema di una constatazione qualcosa che ci si dà
nell’esperienza e che appartiene come tale al nostro mondo. Per credere
che le cose stiano così e così dobbiamo già avere avuto esperienza della
loro immediata presenza, del loro essere parte di un mondo che mi si dà in
un rapporto che è prima della dimensione del constatare e che, come tale,
non cade sotto il significato proprio della credenza.
Non crediamo di avere un mondo cui apparteniamo e tuttavia sarebbe
davvero un errore sostenere che non ne siamo già certi. Prima di credere
che le cose stiano così e così, siamo già coinvolti in una situazione che
determina le nostre emozioni e che costituisce l’orizzonte delle nostre
preoccupazioni. Così, anche se non abbiamo ragioni per dire che vi sono
un’infinità di cose che tuttavia fanno parte del nostro mondo, ne siamo
egualmente certi perché prima di avere ragioni che ci convincano, ci muo-
viamo già sul terreno della certezza, di una credenza originaria che non ha
nulla che parli in suo favore, se non l’evidenza che accompagna ogni per-
cezione e che costituisce il terreno su cui poggia ogni altra nostra convin-
zione. Potremmo parlare a questo proposito di una diversa accezione del
credere, di una credenza in senso improprio, che coincide con l’orizzonte
di ciò che si manifesta percettivamente. Ora, il terreno delle nostre certezze
– delle nostre credenze in senso lato – è sensibile alle ragioni e si lascia
plasmare dalle credenze in senso proprio. Ciò che vengo a sapere del
21 Wittgenstein
103
mondo può costringermi a correggere l’immagine che me ne ero fatto: pen-
savo di aver visto il tuo libro sul mio tavolo, ma ora che ho guardato con
attenzione devo ricredermi. Il mondo che si manifesta percettivamente è
dunque da un lato il terreno su cui le credenze si fondano e, dall’altro, il
luogo di un processo di correzione e di riconfigurazione. Ne segue che il
mio coinvolgimento emotivo nel mondo è determinato in primo luogo da
ciò che nella mia esperienza si manifesta, ma anche, in secondo luogo, da
ciò che vengo a sapere, dalle constatazioni che faccio e che mi costringono
a correggere l’immagine della realtà cui appartengo. Le credenze in senso
proprio retroagiscono così sulle credenze in senso lato e ciò che vale per il
presente, vale anche per il passato e per il futuro: anche nelle diverse forme
di quasi esperienza si manifesta un mondo che detta le forme del coinvol-
gimento emotivo, ed anche per i mondi che il ricordo e la progettualità
dischiudono è possibile una correzione alla luce di quello che vengo a sa-
pere e che ho ragione di credere. Mi ricordo così e per questo sono a disa-
gio, ma se solo potessi mostrare che il sospetto di avere agito male fosse
frutto di un ricordo impreciso sarei tranquillo ed è anche per questo che
parliamo delle nostre preoccupazioni agli amici – perché speriamo che, vi-
sto da una diversa prospettiva, lo stesso fatto riveli un volto meno inquie-
tante. Possiamo lasciarci convincere che le cose stiano diversamente e
siamo autorizzati a farlo perché ciò che nell’esperienza si manifesta può
essere corretto alla luce di credenze giustificate. Il credere in senso proprio
si lega così al credere nella sua accezione lata, e lo corregge.
Di qui, da questa possibilità delle credenze di retroagire sulla nostra ade-
sione preteoretica al mondo deriva il carattere di quasi credenza della no-
stra situazione emotiva. Non abbiamo ragioni per credere al mondo che
nell’esperienza ci si manifesta, ma poiché questo nostro mondo si plasma
e si corregge alla luce delle nostre credenze è possibile trovare una conti-
nuità tra la dimensione teoretica e la dimensione preteoretica, tra le cre-
denze in senso proprio e la credenza originaria.
Diversamente stanno le cose quando ci disponiamo sul terreno dell’im-
maginazione in senso proprio. Anche l’immaginazione è una forma di
quasi esperienza e ci dispone in un mondo di cui ci sentiamo parte e in cui
siamo coinvolti emotivamente, almeno sin quando prestiamo ascolto alla
finzione che lo dischiude. Immaginare significa dunque, in questo, senso
“credere” all’universo finzionale, ma proprio qui è il punto in cui la diffe-
renza si fa manifesta. L’esperienza percettiva rende manifesto un mondo
di cui ci sentiamo parte, ma se in questo caso possiamo parlare di credenza
104
originaria ciò accade perché il terreno delle credenze giustificate sorge sul
terreno delle certezze percettive e ad esso ritorna, correggendole. Nel caso
dell’immaginazione, invece, disporsi sul terreno della credenze vuol dire
in linea di principio abbandonare l’universo finzionale e tacitare con una
domanda sbagliata il nostro coinvolgimento in ciò che il racconto narra. E
non è un caso che sia così. Qualunque sia la risposta che ci sembra di dover
dare alla domanda che verte sull’esistenza o la non esistenza di ciò di cui
una finzione narra, l’universo immaginativo è comunque già chiuso perché
ponendoci quella domanda abbiamo di fatto trasformato i quasi oggetti che
lo abitano in descrizioni di cui ci si chiede se siano o non siano soddisfatte
dal mondo reale. Se mi chiedi se Tersite aveva davvero la testa a pera non
sei soltanto costretto (e non a caso) a volgere al passato una domanda cui
l’immaginazione risponderebbe al presente, ma hai già varcato l’universo
finzionale, ponendoti un interrogativo che stravolge il senso della finzione:
hai trasformato un personaggio che appartiene ad un universo immagina-
tivo in una descrizione cui con tutta probabilità non corrisponde nulla nel
mondo. Una simile domanda si può fare, ma è fastidiosa: qualunque sia la
risposta, il mondo dell’Iliade si è già chiuso e siamo tornati al nostro
mondo, passando tuttavia dalla porta di servizio di una domanda oziosa. Il
Tersite di cui l’Iliade parla non è mai esistito, proprio come non sono mai
esistiti lupi che inghiottono capretti in un solo boccone. Certo, possiamo
chiederci se un racconto è anche l’eco di una storia reale, e proprio questo
varrebbe nel caso dell’Iliade, ma la curiosità dello storico che si interroga
sul nostro mondo e si chiede se un testo abbia anche un valore documentale
non può essere l’abito del lettore che immagina, leggendo una storia: l’im-
maginazione non tollera queste domande da guastafeste perché è suffi-
ciente porle per fraintendere il senso di quel che è narrato. Se non è mai
esistito nel mondo un personaggio come Tersite, allora ciò che abbiamo
letto ci appare alla luce di questa domanda come una falsità che non pos-
siamo prendere sul serio e che non può in nessun modo turbarci; se invece
scoprissimo che un simile uomo è davvero vissuto o se ci disponessimo
nell’atteggiamento , allora non sarebbe possibile dare alle pagine che ne
narrano la vicenda il senso che Omero attribuisce loro, ma dovremmo pren-
derne le difese e disprezzare Ulisse che lo percuote. Se un evento è real-
mente accaduto, non ha senso giudicarlo secondo la morale di chi lo narra:
ciò che appartiene al nostro mondo deve essere giudicato e valutato se-
condo le regole che noi riteniamo valide. Ma se questo è vero, domandarsi
105
se Tersite aveva davvero la testa a pera non significa solo porre una do-
manda fastidiosa da guastafeste; vuol dire anche formulare una domanda
che è nella norma sbagliata perché ci invita a dimenticare il carattere non
referenziale delle finzioni e a coglierle come se fossero descrizioni (di
norma) false del nostro mondo.
Se invece mettiamo da parte la tesi secondo la quale le finzioni sono de-
scrizioni false, anche se innocenti, del mondo, e riconosciamo che esse
creano il loro mondo e, insieme ad esso, l’orizzonte dei valori che lo per-
vade, allora possiamo da un lato comprendere perché le finzioni portano
con sé il giudizio sui loro personaggi, ma anche dall’altro come possa com-
porsi il problema da cui abbiamo preso le mosse. Le finzioni ci coinvol-
gono: l’immaginazione è una forma di quasi esperienza e in essa si mani-
festa un mondo in cui siamo emotivamente situati. Le finzioni, tuttavia,
parlano un linguaggio non referenziale e questo esclude in linea di princi-
pio che sia possibile trasformare la serietà della nostra adesione al mondo
immaginativo in una credenza in senso proprio: i personaggi di un racconto
non “esistono” al di fuori della narrazione e non è quindi possibile trovare
altrove ragioni che giustifichino la loro esistenza effettiva. Non possiamo
credere a ciò che le finzioni ci raccontano perché si può credere soltanto a
ciò che ha un’esistenza effettiva e che sussiste al di là della manifestazione
che lo pone. L’impossibilità di credere ai contenuti di una finzione non si
traduce tuttavia nel nostro credere che non esistano; tutt’altro: nel caso
della dimensione immaginativa, è la possibilità stessa di credere che deve
essere messa da canto. Ma ciò significa che possiamo – in un’accezione
impropria del termine – “credere” nella storia, senza crederci affatto: è suf-
ficiente lasciarsi coinvolgere da essa e farsi guidare dalla natura dei suoi
oggetti che, per il loro essere accessibili solo nella manifestazione che li
pone, non possono essere propriamente creduti.
Annotazione. Il paradosso della finzione
5. La narrazione immaginativa: un esperimento mentale
Nelle nostre considerazioni sulla natura delle finzioni, ci siamo lasciati gui-
dare da un modello che doveva consentirci di segnare delle differenze: ab-
biamo più volte confrontato i racconti dell’immaginazione con le narra-
zioni della memoria, suggerendo insieme un possibile cammino che da
queste conduce a quelli e che ci consente di comprendere ora per conti-
nuità, ora per contrasto, molte cose concernenti la forma delle finzioni. Si
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tratta di un cammino percorribile, ma non è certo l’unica via che avremmo
potuto seguire: vi infatti un nesso altrettanto evidente che lega l’immagi-
nazione narrativa alla dimensione della possibilità e quindi alle forme
dell’esperienza in cui la trama della realtà si fa più sottile e si avverte dietro
di essa il gioco di intrecci della possibilità. Anche qui affondano le radici
delle finzioni: nel loro espandere possibilità che la vita propone e subito
richiude – nell’espanderle, svincolandole dal contesto dell’esperienza reale
e dal loro stesso porsi come possibili forme di decorso della realtà. Ci
siamo già soffermati su questo tema e non credo sia opportuno percorrerli
nuovamente, per mostrare che anche di qui si può seguire un cammino che
conduce alla meta cui siamo giunti. E tuttavia, vi è almeno una ragione che
ci invita a ricordare la dimensione della possibilità, ed è che essa ci invita
a riflettere su un tratto che appartiene alla natura dell’immaginazione nar-
rativa e che ne mette in luce non tanto la forma, quanto la funzione e il
significato: il suo porsi come un esperimento mentale, come un gioco che
ci permette di saggiare la vita e il mondo, rimanendo al di qua del loro
accadere reale e possibile. In questo senso un racconto è davvero una sag-
gia sperimentazione: ci consente di partecipare ad una vita che non c’è,
per comprenderne il senso, senza tuttavia addentrarci davvero in vicende
che potrebbero non soltanto coinvolgerci, ma travolgerci. Lucrezio rite-
neva che la filosofia fosse lo scoglio ben saldo che ci consentiva di guar-
dare al naufragio lontano senza dover temere la violenza dei flutti, ed è
certo una bella immagine, anche se è lecito sollevare un dubbio sulla ina-
movibilità di quelle rocce. La promessa delle finzioni, tuttavia, è ancora
più impegnativa: proprio come Prospero, le finzioni scatenano tempeste
dominate, in cui possiamo gettarci, abbandonando lo scoglio, perché si
tratta appunto di burrasche create dalla magia dell’immaginazione. Non
contempliamo dalla riva il naufragio, ma possiamo parteciparvi, e parteci-
pare significa innanzitutto prendere parte emotivamente ad una vicenda
che non è reale e che non ci minaccia affatto, ma che ciò nonostante ci
turba e ci coinvolge.
Sarebbe sbagliato, io credo, non cogliere il carattere prevalentemente co-
gnitivo delle emozioni che le finzioni scatenano in noi. Se è così importante
per noi raccontare e ascoltare storie non è certo perché la vita reale non ci
dia ragione di provare dolori e gioie e nemmeno perché i racconti ci con-
sentano di compiacerci della nostra sensibilità, senza esporci al rischio
della serietà delle emozioni: favole e racconti non sono un repertorio di
emozioni più rumorose per evadere dal basso continuo della quotidianità.
107
E non sono nemmeno un mezzo per risvegliare sensazioni ed emozioni già
note, quasi che un racconto non potesse fare altro che farci riconoscere quel
che già sappiamo. Tocco questa corda e tu sentirai una sensazione che ri-
condurrai ad una qualche esperienza emotiva che già possiedi – io non lo
credo. Certo, i racconti si possono usare anche così e si può usare così an-
che una canzone o un quadro – come uno strumento per variare le emo-
zioni della giornata e per smuovere la soggettività dall’alveo in cui è rima-
sta imprigionata per troppo tempo la sua vita emotiva, ma la strana idea
che la letteratura e la musica e la pittura siano la piuma per solleticare ad
arte la chimica dei nostri sentimenti ha il torto di pensare che questo sia il
loro unico impiego o anche soltanto l’impiego più appropriato. Non si rac-
conta una favola ad un bambino per farlo spaventare (o almeno: non si
dovrebbe), ma perché le emozioni che prova immergendosi in una situa-
zione che non deve vivere, ma può rivivere immaginativamente, sono lo
strumento che gli consente di comprendere e di pensare il senso di espe-
rienze che non ha fatto, ma che potrebbe fare, sia pure in altra forma, per-
ché appartengo comunque alla vita. In questo senso i racconti ci insegnano
molte cose e non sono prevalentemente uno strumento per ridestare in noi
passioni ed emozioni. Non vogliamo provare il dolore di Antigone (e per-
ché mai dovremmo?), ma quel dolore ci insegna molte cose, perché è il
viatico per capire davvero che cosa significa trovarsi in una situazione in
cui ogni scelta è sbagliata. Non vogliamo provare dolore, ma vogliamo ca-
pire perché è utile e bello: l’immaginazione, poi, ci consente di farlo, pa-
gando un prezzo tanto contenuto quanto necessario per condurre in porto
l’esperimento che si vuole compiere.
Sottolineare che le finzioni sono esperimenti significa allora sostenere
che hanno una funzione cognitiva che può passare in secondo piano solo
quando i racconti hanno poco da dirci. Un racconto ci insegna a capire
qualcosa che non abbiamo – ancora? – vissuto, e ci insegna a farlo, fissando
insieme la prospettiva da cui dovremmo poterlo giudicare e comprendere.
Così facendo, ci emoziona, ma le emozioni sono il mezzo necessario per
condurre in porto l’esperimento che l’immaginazione conduce per noi, per
insegnarci qualcosa. Ed è questo che separa innanzitutto i racconti dalle
assunzioni: non è sufficiente assumere che accada quel che potrebbe acca-
dere se fossimo dei giganti o degli esseri minuscoli per comprendere dav-
vero che cosa voglia dire questa duplice iperbole della grandezza, perché
le assunzioni non chiedono un coinvolgimento emotivo e non ci consen-
tono di comprendere, vivendone le emozioni, lo spessore effettivo di simili
108
circostanze. Un racconto fa di più: finge il paese di Lilliput e di Brobding-
nag e ci invita a comprendere e sentire, al di qua della vita, i problemi della
vita, vivendoli, sia pure immaginativamente.
Asserire che i racconti sono esperimenti mentali non significa, tuttavia,
attribuire all’immaginazione una funzione propriamente conoscitiva, e su
questo fatto è forse opportuno spendere una parola. Un racconto è una fin-
zione e, come tale, non sperimenta davvero nulla: ci invita solo a percorrere
un cammino secondo le regole che l’immaginazione stessa propone e
l’esperimento può dirsi riuscito se possiamo percorrerlo, trovandolo per-
suasivo. Se leggi la vicenda di Gregor Samsa, puoi comprendere che cosa
significhi vivere l’esperienza di un corpo che si sottrae lentamente alla vita
per diventare il guscio che la imprigiona, ma questa comprensione è vin-
colata all’insieme di norme che esplicitamente e implicitamente il racconto
ti invita ad assumere perché sono la prospettiva da cui quel fatto è narrato
e descritto. Se la pensi così, questa vicenda è esemplare – è questo ciò che
i racconti ci dicono, ed è questo ciò che gli esperimenti immaginativi ci
insegnano: ci dicono come possiamo immaginare che sia la vita e ci inse-
gnano a comprenderla meglio.
Di questa funzione sperimentale dell’immaginazione narrativa ci si può
del resto rendere conto seguendo un diverso cammino che ci aiuta a com-
prendere la sua specificità immaginativa. Quando leggiamo una favola fin-
giamo una vicenda possibile, ma può talvolta accadere che ciò che leg-
giamo e fingiamo ci inviti a pensare e ci spinga a leggere la nostra vita e la
nostra esperienza alla luce di ciò che la storia ci insegna. «Mutato nomine
de te fabula narratur» – i racconti parlano di noi e ci insegnano molte cose,
se siamo disposti a continuare l’esperimento immaginativo che ci suggeri-
scono di mettere in atto, mutandolo questa volta di segno: i racconti ci in-
vitano anche a pensare in una forma determinata ciò che ci accade e a di-
sporre gli eventi reali e le persone in cui ci imbattiamo nei ruoli narrativi
che un racconto ci offre, per tentare poi di comprendere quelli attraverso
questi. Quando leggiamo La metamorfosi di Kafka possiamo immergerci
nella vicenda narrata e vivere il senso che in essa prende forma – possiamo
cioè immergerci in un esperimento mentale che ci invita a sentire e a pen-
sare ciò che il racconto ci chiede direttamente e indirettamente di sentire e
pensare – ma possiamo anche intenderla come un calco immaginativo en-
tro cui disporre la realtà, come un modello che ci consente di comprendere
meglio quello che accade a chi si ammala di una malattia che non lascia
speranza di guarigione e si ritrova improvvisamente in un corpo che decide
109
per lui e in una prossimità con la morte che lo allontana dagli altri – da chi
appartiene alla consuetudine tranquilla del vivere22. Leggere un racconto
vuol dire allora scoprire che vi è una sorta di metessi immaginativa del
reale poiché la realtà si spiega e ci appare in un senso nuovo non appena
cerchiamo di immaginarla e raccontarla alla luce di ciò che l’immagina-
zione poetica e narrativa ci insegna23. In questo senso, gli esperimenti im-
maginativi racchiudono in sé una proposta e una promessa: ci propongono
un modo di guardare le cose e di intenderle e ci garantiscono, nel racconto,
la sua percorribilità.
Nel prendere parte a questo duplice esperimento immaginativo, il lettore
è chiamato ad un esercizio complesso. Deve imparare a immaginare mondi
diversi dal suo e questo significa soprattutto che deve accettare le regole
morali e gli stili di vita che li guidano e li sorreggono, perché parte
dell’esperimento consiste proprio in questo: nel comprendere e sentire una
vita diversa dalla nostra, nel sentirla e comprenderla senza doverla per que-
sto accettare e vivere realmente. È un esercizio complesso: non è facile
liberarsi della propria prospettiva e sicuramente non è facile se ci si chiede
di farlo sul serio. L’immaginazione, tuttavia, ci convince a tentare l’az-
zardo, perché ci rassicura rammentandone la provvisorietà: puoi accettare
di non biasimare Ulisse che percuote Tersite solo perché è stanco della
guerra, ma puoi farlo perché sai che stai sperimentando qualcosa che non
avrà conseguenze, ma che ti consente di vedere come appaiono di lì il
mondo e la vita. Proprio in questo, dunque, è sita l’utilità degli esperimenti
immaginativi: ci consentono di ampliare il nostro orizzonte di vita, senza
sobbarcarci i rischi del vivere. Ci permettono in tutta serietà di accedere a
mondi che non hanno la durezza e l’effettività del reale, ma questo non
22 Naturalmente questo non significa affatto sostenere che la nostra possibilità di partecipare emotiva-
mente ad un racconto passi per la constatazione che vi sono, nel mondo, situazioni simili a quelle narrate. Una simile tesi non è soltanto falsante rispetto alla natura del nostro coinvolgimento emotivo
nei confronti dei racconti di finzione – non soffriamo per una persona nota che, come Palinuro, manca
per poco il fine che si era prefisso – ma deve essere rifiutata perché ci invita a pensare all’immagina-
zione narrativa come ad una prassi che non ci insegna nulla e che è capace soltanto di rammentare
situazioni reali che abbiamo altrimenti vissuto. Non proviamo malinconia nel leggere del timoniere di
Enea che cade in mare poco prima di giungere alla terra dei latini perché sappiamo bene che cosa voglia dire non raggiungere la meta sperata e perché conosciamo persone a cui è andata così, ma impariamo
a comprendere meglio che cosa accada quando, prossimi alla meta, ci lasciamo prendere dalla stan-
chezza e manchiamo un successo che era ormai a portata di mano
23 Il mare l’ho visto molte volte la sera e mi è capitato infinite volte di sentirmi catturato dallo spetta-
colo ripetuto delle onde e della risacca, ma se mi ricordo di Omero e di uno dei suoi versi ho l’impres-
sione di capire di più e di sapere meglio il motivo di quella sensazione: ciò che ci colpisce è proprio che il mare non è mai stanco, che il suo respiro è così infinitamente più ampio e duraturo del nostro.
110
significa ancora che ci garantiscano che l’esperimento può essere davvero
condotto in porto. L’immaginazione è acontestuale, ma ogni racconto cre-
sce su un insieme di presupposti che non possono essere esplicitati, ma che
per così dire sorgono immediatamente dalla nostra vita. Prima del ban-
chetto finale che costerà ai pretendenti la vita, Penelope cade in un sonno
profondo: Ulisse non chiede di svegliarla e non le rivela quello che ha in
animo di fare – e oggi ci sembra che questo sia una scelta a dir poco inde-
licata. Omero non dice nulla, ma ci sembra chiaro che per molti versi sia
convinto che era meglio che la saggia Penelope se ne stesse lassù, nelle sue
stanze, a dormire. Non lo dice, perché è ovvio che sia così, per un greco
vissuto quasi tremila anni fa. I racconti sono acontestuali, ma non lo sono
gli uomini che li narrano.
“Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quello che dice Marco Polo
quando gli descrive le città visitate nelle sue ambascerie” – è così che si
aprono Le città invisibili di Calvino, con una riflessione che è insieme
un’allegoria sottile dell’immaginazione narrativa e delle sue funzioni. Ku-
blai Kan ha rinunciato a conoscere il suo vasto impero, ma i racconti di
Marco lo guidano di città in città, restituendogli la mappa di un mondo di
cui vorrebbe afferrare la cifra mutevole. Kublai non abbandona la sua reg-
gia e forse i racconti di Marco non sono nulla più che “i pensieri che ven-
gono a chi prende il fresco la sera seduto sulla soglia di casa”, ma nel gioco
della narrazione e dell’ascolto prende egualmente forma un atlante del
mondo, una mappa dell’impero tracciata da un disegno così sottile da
“sfuggire al morso delle termiti”. Per comprendere la mappa di città che
restano comunque invisibili e che vivono solo nei racconti di Marco, Ku-
blai è costretto a cercare di capire i gesti e i segni di un narratore che non
parla la sua lingua e che gli narra di città che chiedono di essere comprese
nella loro rarefatta natura. Kublai deve immaginare una città dopo l’altra
e, per ciascuna di esse, la forma astratta di una vita possibile che si dispiega
in quelle strade e in quelle piazze; per farlo deve abbandonare immagina-
tivamente il “qui” cui è ancorato: la sua reggia cui di fatto appartiene la sua
vita. L’immaginazione è fatta così: ci consente una sospensione tempora-
nea del nostro presente – ce lo consente se ci impegniamo in un esperi-
mento immaginativo che chiede serietà e impegno. E tuttavia, per quanto
sia libera ed acontestuale, l’immaginazione cresce su un insieme di presup-
posti che non possono essere interamente messi da parte. Ogni racconto
poggia su una rete di presupposti che non possiamo interamente tacitare ed
111
ogni finzione non può dirci per intero quel che dobbiamo immaginare. Ac-
cade così anche a Marco, che non può descrivere la mappa dell’impero di
Kublai senza dare per dare per scontata la forma e il ricordo di una prima
città. Per Marco è Venezia, per ciascuno di noi è la nostra vita.
6. La dimensione del gioco
Dopo aver discusso della forma narrativa dell’immaginazione dobbiamo
cercare di far luce, sia pure sommariamente, sulla dimensione del gioco.
Che anche in questo caso sia possibile indicare la via di una genesi è ovvio:
il gioco ricco di immaginazione che crea intorno a sé un universo ludico
affonda le sue radici nel gioco come sospensione della effettualità della
prassi. Gli animali senza dubbio giocano, se per gioco si intende soprattutto
questo: la capacità di mettere off-line certi comportamenti e di inscenare il
rituale della caccia e della fuga, dell’aggressione e della lotta, senza per
questo agire realmente. Due cani su un prato fingono di aggredirsi e di
fuggire e fingono di mordersi e di azzannarsi: giocano, e il loro gioco con-
siste appunto nel sottrarre dai loro comportamenti la dimensione dell’ef-
fettività. Qualcosa di nuovo, tuttavia, accade quando il gioco diviene una
finzione in senso proprio e la prassi ludica non si limita a inscenare com-
portamenti che vengono privati della loro consueta effettualità, ma si arric-
chisce di una componente creativa: nel gioco, si crea un mondo ludico,
dove gli oggetti e le persone stesse vengono modificati di segno e di natura
e valgono come momenti interni al gioco, alla storia che in esso si dipana.
Non abbiamo più due bambini e un divano nel soggiorno di casa, ma una
serie di ruoli che vengono in parte definiti dall’attribuzione iniziale che
apre la prassi ludica (“noi eravamo due pirati, questa era la nave..”), in
parte chiariti dalla narrazione verbale che accompagna il gioco (“adesso
saltavamo sull’isola poltrona”), in parte infine determinati implicitamente
dalla prassi ludica che assimila al gioco gli oggetti di cui si avvale: pollice
e indice possono diventare per un attimo una pistola, il gesto di scoccare
una freccia crea un arco, un libro diventa uno scudo.
È difficile dire se questa forma di gioco ricca di immaginazione sia ca-
ratteristica del gioco umano o se sia già all’opera nel comportamento di un
gatto che rincorre e afferra un gomitolo. È difficile dirlo, ma non è questo
il nostro obiettivo: non ci interessa decidere se si può applicare in un caso
determinato una distinzione concettuale che riteniamo rilevante; ci inte-
ressa invece tracciare quella distinzione e mostrare che uno dei suoi termini
112
ha il suo paradigma nel gioco infantile. In questo caso gli oggetti non sol-
tanto consentono un certo comportamento privo di effettualità (come forse
accade al gomitolo quando il gatto ci gioca), ma assumono una realtà fin-
zionale che è determinata dalla prassi ludica. In questo caso, si inscena un
racconto e possiamo immaginare il mondo secondo la narrazione che li-
beramente si dipana nel gioco. Si tratta di un punto che è importante sotto-
lineare: la distinzione che abbiamo a suo tempo tracciato tra le forme
dell’immaginazione narrativa che crea un mondo finzionale e la prassi lu-
dica che adatta il mondo ad un disegno immaginario non deve renderci
ciechi di fronte alla continuità che attraversa le forme dell’immaginazione
in senso proprio. Può darsi che la narrazione immaginativa e la prassi lu-
dica abbiano radici diverse e può darsi che siano differenti i bisogni cui
inizialmente rispondono, ma quando il gioco assume un carattere esplici-
tamente immaginativo, di fatto si lega ad una narrazione, sia pure mini-
male. La prassi ludica si fa immaginativa perché inscena un racconto e un
racconto non può liberarsi interamente da una qualche componente di
drammatizzazione, poiché i racconti vivono nella lettura che ne viene fatta
e non sono già tutti racchiusi nel testo che li fissa ad un copione che chiede
di essere recitato. Ci troviamo così di fronte ad una distinzione che segna
in realtà i poli di una opposizione che conosce stadi intermedi: il racconto
è un gioco che si libera, il gioco un racconto che si inscena e vi sono rac-
conti che si teatralizzano e giochi che accordano al linguaggio uno spazio
rilevante24.
Certo, questo davvero non significa che ogni racconto possa trasformarsi
felicemente in una recita, ma una conclusione è tuttavia possibile trarla:
proprio perché consta di ruoli, ogni narrazione può assumere una forma
24 Del resto, che un racconto possa inscenarsi è un fatto in sé ovvio. Ogni storia può in linea di principio
essere messa in scena perché è da un lato ripetibile e perché, dall’altro, consta di ruoli, articolati in una trama. Recitare significa del resto proprio questo: ripetere, e si può recitare perché ciò che si narra non
è un accadimento che abbia un suo posto nel tempo del mondo, ma è la forma di un accadimento, una
connessione di ruoli che non ha un’individualità, perché non parla di qualcosa o di qualcuno. I racconti si possono recitare e di fatto si danno sempre in una qualche esemplificazione attuale, o come po-
tremmo senz’altro esprimerci: in un’esecuzione determinata. Chi legge un racconto deve comunque
recitarlo, e può farlo solo se decide come intonare mentalmente o realmente la voce dei personaggi. Si è soliti riconoscere che la lettura silenziosa sia un fatto relativamente moderno e che Agostino non la
concepisse ancora come una possibilità effettiva, ma comunque stiano le cose da un punto di vista
storico, non si può non riconoscere che anche la lettura silenziosa è costretta a decidere toni e pause, perché toni e pause e accentuazioni di varia natura appartengono al senso delle cose che diciamo e
pensiamo. Ma ciò è quanto dire che vi è una dimensione performativa del racconto. Chi legge collabora
al copione, scegliendo la voce e intonando le parti e lo fa sia che davvero pronunci le parole che legge, sia che si limiti a farle risuonare nella mente.
113
teatrale – può essere recitata per uno spettatore di fronte al quale persone,
cose e luoghi assumono una consistenza immaginativa. Il racconto è un
gioco che si libera, ma che non si è mai interamente liberato dalla prassi
ludica, perché ogni racconto è per sua natura recitato nell’atto della lettura.
Lungo questo cammino il racconto si fa teatro e qualcosa evidentemente
muta: quando ci disponiamo sul terreno della rappresentazione teatrale non
abbiamo più soltanto una storia che si costruisce parola dopo parola nella
narrazione, ma una prassi che trascina sul terreno immaginativo la scena
che abbiamo di fronte a noi. Gli attori sono persone reali e reale è la scena
e gli oggetti che sul palcoscenico si utilizzano, ma tutto ciò cui si applica
il copione viene di per se stesso trascinato nell’universo immaginativo:
persone e cose diventano “persone-e-cose-nella-recita” e ciò significa che
non ha davvero più senso interrogarsi sulla loro realtà e sulle loro reali
determinazioni. Il bicchiere di troppo che rende irascibile il protagonista
può essere fin da principio vuoto e, in generale, qualsiasi cosa può essere
sostituita da una che abbia la stessa apparenza scenica, poiché conta sol-
tanto questo. Agli oggetti reali possono sostituirsi così gli oggetti di scena,
ai paesaggi e alle case che fanno da sfondo all’azione le quinte teatrali.
Ora, non vi è dubbio che qualcosa di simile accada anche sul terreno del
gioco: per giocare ai pirati un bambino non ha bisogno di spade reali e di
navi, ma si accontenta di giocattoli o di oggetti che possano sostenere la
sua prassi ludica che è comunque di per sé capace di trasformare lo spazio
reale in cui opera in uno spazio immaginario, in un luogo racchiuso entro
cui valgono le regole del gioco ed è sospeso (nei limiti del possibile) il
dettato della realtà. Il teatro sembra dunque condurci di per sé sul terreno
del gioco e tuttavia, se non si vuole correre il rischio di attribuire ad una
somiglianza rilevante il valore di un’identità compiuta, è necessario fer-
marsi un attimo e riflettere per cercare di tracciare la linea che separa l’una
dall’altra la prassi ludica da quella teatrale.
Una prima distinzione sembra imporsi a chiunque abbia osservato la li-
bertà un poco sconclusionata dei giochi infantili: i bambini che fanno del
divano una nave e decidono di giocare ai pirati non hanno un copione che
guidi le loro mosse e il loro gioco si determina senza una regola apparente,
in un continuo succedersi di invenzioni, dettate ora dalla libera fantasia dei
giocatori, ora dagli oggetti nei quali casualmente ci si imbatte e che con-
sentono all’immaginazione un insieme di mosse nuove e in parte inattese,
ma facilmente comprensibili nel loro senso. Il gioco è fatto così: è libero e
cresce senza una regola che lo attraversi da parte a parte, anche se la scelta
114
dei personaggi e la natura del luogo determinano un insieme di mosse re-
lativamente ovvie – chi gioca fingendo che il divano sia una nave non può
esimersi dal navigare in un mare in tempesta e se la sua è una nave pirata
dovrà tentare qualche arrembaggio e nascondere prima o poi da qualche
parte un tesoro. Diversamente stanno le cose quando ci poniamo sul ver-
sante della prassi teatrale: in questo caso non ci si può accontentare di spar-
tirsi i ruoli, ma sembra necessario avere una parte da recitare e forse lo
spettatore non sarebbe contento se la recita procedesse liberamente, la-
sciandosi guidare da un intreccio di luoghi comuni e di fantasie del mo-
mento, suscitate dal desiderio di usare un qualche strano oggetto trovato
per caso.
Si tratta di una constatazione ovvia e tuttavia non c’è bisogno di essere
esperti nella storia del teatro per sapere che le cose non sono così semplici
e che il copione non è una condizione necessaria della teatralità: il teatro è
molto più vecchio dei testi teatrali e basta ricordarsi della commedia
dell’arte per vedere all’opera rappresentazioni teatrali prive di un copione
e lasciate nel loro sviluppo al gioco libero dell’improvvisazione, sia pure
guidata e sorretta dal fatto che ci si è familiarizzati da un lato con la natura
dei personaggi, dall’altro con i gusti del pubblico. Il copione, dunque, non
è necessario e vi sono spettacoli che non l’hanno; potrebbero averlo tutta-
via, laddove il gioco, che pure può avere qualcosa di simile a un canovac-
cio, sembra essere incapace di sottomettersi interamente a una simile re-
gola. Certo, all’origine di questo fatto vi è anche la natura e la finalità del
gioco e, soprattutto, la mutevolezza degli interessi infantili, ma ciò non to-
glie che vi sia un’ulteriore ragione su cui riflettere e che ci pone di fronte
a ciò che distingue il gioco dalla dimensione teatrale: solo il teatro, ma non
il gioco ha uno spettatore ed è per questo che solo il teatro, ma non il gioco,
può avere un copione.
Avere un copione implica una passività: significa dover assistere alla vi-
cenda che viene messa in scena senza potervi partecipare. La scena si recita
per me ed anche se talvolta accade che sia invitato per un attimo a parteci-
pare come pubblico-attore allo svolgersi dello spettacolo, resta comunque
vero che anche in questo caso io sono essenzialmente chiamato a guardare
e ad assistere a qualcosa che si recita per me attraverso me, sia pure in una
minima parte. Ma ciò è quanto dire che lo spettacolo teatrale non si limita
a mettere in scena una vicenda, ma – proprio perché lo fa per qualcuno –
la narra: proprio come il lettore, anche lo spettatore è il destinatario di una
narrazione ed è, come tale, chiamato ad assistere a una vicenda che gli si
115
consegna nella sua relativa chiusura.
Il punto è qui: il gioco non ha la forma della narrazione e non può avere
un copione; il teatro invece può averlo e non è un caso che abbia cercato
di difendere questa sua peculiarità in vario modo, ma soprattutto distin-
guendo con sempre maggiore chiarezza il luogo della scena dal luogo dello
spettatore. La recita deve aver luogo a teatro, ma un teatro è innanzitutto
questo: un palcoscenico e una platea. La sua forma architettonica deve dun-
que consentire la distinzione di fondo su cui poggia la sua specificità: il
suo essere qualcosa che siamo semplicemente chiamati a guardare25.
La storia del teatro può essere almeno in parte letta alla luce di questa
distinzione originaria. Se il teatro deve essere una messa in scena che non
rinuncia alla forma della narrazione, allora diviene ben chiaro perché nel
corso dei secoli la cesura tra palcoscenico e platea si sia fatta via via più
manifesta e chiara: l’arco di scena, il sipario, la luce che illumina solo il
palcoscenico, la riduzione dello spettacolo teatrale ai sensi della distanza a
scapito della dimensione della tattilità – tutto questo deve apparirci come
un segno evidente del tentativo di dare allo spazio teatrale e alla rappresen-
tazione la forma che meglio si attaglia alla distinzione su cui ci siamo sin
qui soffermati.
Su questo tema ci sarebbero davvero molte cose da dire; a noi tuttavia
ora interessa invece mettere da canto la dimensione teatrale e il suo disporsi
sul confine che lega l’immaginazione narrativa all’immaginazione ludica,
per affrontare finalmente la dimensione del gioco – di quella forma di gioco
in cui si assumono ruoli e si costruiscono storie. Dalle considerazioni che
abbiamo appena proposto è possibile trarre una prima provvisoria defini-
zione: i giochi di finzione sono recite prive di uno spettatore e sono proprio
per questo storie che si dipanano senza per questo assumere la forma di
una narrazione. Qualcosa nel gioco si narra – l’arrembaggio ad una nave,
la scoperta del tesoro, il suo nascondiglio – ma la narrazione non si rivolge
a qualcuno: la storia si costruisce nel gioco, ma non è rivolta a un lettore o
a uno spettatore e non vi è un narratore che si faccia garante della sua com-
pletezza. Il gioco si smette, senza che sia davvero finito.
Alla provvisorietà del gioco e alla sua vaghezza corrisponde tuttavia la
sua capacità di trascinarci all’interno del suo spazio e di coinvolgerci negli
eventi che si vengono mettendo in scena. Il gioco di finzione è un teatro
che ci coinvolge come attori e che cancella la distinzione tra scena e platea:
25 La parola “teatro” ha proprio quest’origine – viene dal verbo greco θεάομαι che voleva dire appunto
guardare, contemplare.
116
chi gioca non può semplicemente assistere alla vicenda ludica, ma deve
parteciparvi. Al teatro come arte della distanza che fissa un luogo dello
spettatore fa così da controcanto il gioco che non ha queste barriere e che
vive nell’azione concreta e nel contatto: nel gioco di finzione dobbiamo
fare molte cose e lo spettatore è sempre anche attore e non può limitarsi a
vedere e ad ascoltare, ma deve anche agire quando il gioco lo chiede. Certo,
in qualche misura il gioco si avvale anche di parole e spesso è introdotto
da una narrazione minima, ma una volta che i ruoli siano stati assegnati e,
insieme ad essi, una trama minimale, il gioco inizia davvero e comincia
con un fare che è coerente con quelle originarie assunzioni. Ora non basta
più raccontare, ma dobbiamo agire e ciò ci chiede di trasformare immagi-
nativamente gli oggetti che ci circondano e i gesti che facciamo in un pro-
getto nuovo che sia coerente con ciò che dobbiamo mettere in scena: la
vicenda della sopravvivenza al naufragio.
Che così stiano le cose è difficile negarlo e tuttavia sembra sufficiente
sottolineare questo punto perché si faccia avanti una possibile obiezione
che potremmo formulare così: in fondo, si potrebbe argomentare, la distin-
zione tra la scena teatrale e la platea non fa altro che ripetere in altra forma
la chiusura della cornice, e la cornice da Simmel a Ortega y Gasset è sem-
pre stata intesa proprio così – come una sorta di discrimine tra la realtà e
l’immaginazione, tra lo spazio reale e il luogo della rappresentazione. Di
qui la conclusione che sembra necessario trarre: se il gioco rinuncia a porre
una cornice e se di fatto abolisce la distanza tra lo spettatore e l’attore non
rinuncia per questo a situarsi sul piano immaginativo? Non dovremmo in
altri termini riconoscere che la prassi ludica non rinuncia soltanto alla
forma narrativa, ma anche alla sua appartenenza alla dimensione dell’im-
maginazione?
Credo che a questa domanda si debba rispondere negativamente e che le
ragioni per le quali è necessario rispondere così si manifestino non appena
riflettiamo sulla natura spaziale e temporale del gioco. Certo, la prassi lu-
dica non si muove nello spazio chiuso del palcoscenico e non ha una cor-
nice che la separi dallo spazio reale, ma ciò non toglie che il gioco mani-
festi egualmente una sua caratteristica acontestualità.
Il gioco è acontestuale per ciò che concerne il tempo: il gioco ha un inizio
e una fine assoluti e non ha evidentemente alcun senso cercare di connet-
tere al tempo del gioco ciò che è prima del suo inizio e ciò che segue alla
sua fine. Ciò che è prima del gioco non conta, così come non conta il gioco
non appena è terminato: il tronco nel giardino torna ad essere ciò che è –
117
un pezzo di legno, e del suo essere stato una nave non resta più traccia.
Così, non è un caso se l’inizio e la fine del gioco sono talvolta contrasse-
gnati da clausole rituali che soddisfano il bisogno di sottolineare una cesura
che è comunque presente: per iniziare il gioco, ci si avvale talvolta di conte
e di filastrocche che hanno tra le altre cose la funzione di affidare alla sorte
il compito di definire i ruoli del gioco, escludendo così fin da principio la
possibilità che a determinare il futuro del gioco possa essere il presente
nella sua realtà e nella trama concreta delle cause e delle motivazioni. Le
conte, il lancio dei dadi, le filastrocche che accompagnano la scelta cieca
dei ruoli da parte di un giocatore sono così il bisturi che recide la realtà del
gioco dalla realtà del mondo.
Alla separatezza che caratterizza il tempo del gioco fa eco la sua separa-
tezza spaziale. Certo, il gioco non si situa in un palcoscenico che lo separi
dallo spazio dello spettatore, ma ciò non toglie che la prassi ludica ritagli
egualmente un suo spazio i cui confini non hanno la nettezza di una cor-
nice, ma non sono per questo meno chiaramente avvertibili. Lo spazio del
gioco c’è sin dove si spinge la prassi ludica e per quanto non vi sia un
confine evidente da varcare, un bambino sa bene che ciò che vale nello
spazio del gioco cessa di valere quando ci si allontana da esso.
Sottolineare il carattere immaginativo della prassi ludica è importante
anche perché ci consente di prendere le distanze dalle molte tesi che ten-
dono a interpretare il gioco alla luce dell’incapacità del bambino di distin-
guere la realtà dalla finzione, il desiderio da ciò che è meramente dato. Ora,
vi sono molte ragioni per credere che le cose non stiano affatto così: il
bambino sa che ciò che vale sul piano del gioco non ha rilevanza sul terreno
della realtà e non confonde ciò che è vero e reale con ciò che si costruisce
passo dopo passo nel gioco. Che così stiano le cose mi sembra evidente da
un punto di vista empirico: il bambino sa bene che i giochi finiscono e la
sua disponibilità a trasformare immaginativamente il reale non si traduce
nel rifiuto della realtà e delle sue regole che sono del resto ben presenti
anche nel gioco e sfruttate, nei limiti del possibile, in una chiave ludica.
Per quanto a malincuore e in modo tutt’altro che spontaneo, il bambino
mette a posto i suoi giochi e non ritiene che ci sia nulla di male a rinchiu-
dere nel cassetto i playmobil cui ha attribuito sino a pochi istanti prima
un’esistenza autonoma. Nel gioco questi pupazzi sono personaggi di una
storia e vivono di una loro vita autonoma e avventurosa: appena il gioco
finisce, tuttavia, possono essere rinchiusi in un cassetto perché in fondo
sono soltanto pezzi di plastica.
118
Le cose stanno così e non credo che vi siano in questo differenze rilevanti
tra un bambino e un adulto, e tuttavia su un punto è necessario riflettere. Il
bambino sa bene che ciò che vale nel gioco non ha cittadinanza nella vita
reale e tuttavia il gioco è una prassi che modifica immaginativamente la
situazione cui di fatto appartiene. La modifica per un intervallo finito di
tempo e in un luogo circoscritto – su questo ci siamo già soffermati, ma ciò
non toglie che la prassi ludica abbia comunque una sua eco nel mondo.
L’immaginazione ludica scopre una strada e la rende praticabile: mostra
come sia possibile trasformare una scatola di cartone in un castello, un
ramo sgrossato in una spada, un vecchio lenzuolo tagliato qua e là in un
manto regale. Il gioco finisce, ma l’oggetto resta e rimane come un eco
della sua plasmabilità immaginativa: il cartone, il legno e il vecchio len-
zuolo sono soltanto cose non appena il gioco si chiude, ma la prassi ludica
ha aperto una via che rimane visibilmente percorribile e che risuona
nell’oggetto come una promessa della sua possibilità di essere impiegato
di nuovo e per quello stesso scopo in giochi futuri. La scatola di cartone
diventa un giocattolo e ciò significa che racchiude in sé una funzione
nuova: l’oggetto suggerisce un gioco e, insieme, ne garantisce concreta-
mente la possibilità. Il giocattolo è un oggetto ancipite: c’è, come gli og-
getti reali nel mondo, ma appartiene alla dimensione immaginativa: lo si
usa davvero solo quando smette di essere una cosa del mondo. Ma ciò è
quanto dire che il giocattolo trasforma la prassi ludica in un comporta-
mento adeguato e richiesto e ne attesta visibilmente la possibilità anche
quando il gioco è finito. Un giocattolo ci dice come dobbiamo giocare, ma
ci dice anche che la situazione immaginativa che il gioco ha creato non
scompare interamente al finire di gioco, ma resta come inviluppata nei gio-
cattoli che ci consentono di ridestarla non appena li prendiamo nuovamente
tra le mani e li usiamo così come ci chiedono di essere usati. I giocattoli
sono oggetti particolari che vivono sulla soglia tra la realtà e l’immagina-
zione. Sono oggetti reali che si possono riporre nei cassetti, ma sono in-
sieme promesse di un’immaginazione possibile e depositari di giochi che
sanno riattivare. Lo sono, naturalmente, solo perché l’immaginazione ha
fatto presa su di loro.
7. La modificazione ludica
Le considerazioni su cui ci siamo appena soffermati ci hanno permesso di
constatare il gioco è una prassi che modifica immaginativamente la situa-
zione cui di fatto appartiene e ora dobbiamo cercare di essere un poco più
119
precisi e questo significa innanzitutto chiedersi quale forma di modifica-
zione possa attuarsi nel gioco.
Una prima constatazione è relativamente ovvia: la prassi ludica modifica
gli oggetti che ci circondano, ma non si tratta di una modificazione reale.
Certo, per poter giocare siamo talvolta costretti ad adattare gli oggetti ai
bisogni che il gioco fa sorgere: di un ramo voglio fare una spada e per
questo lo ripulisco dalle foglie e dai ramoscelli laterali, per dare al bastone
la forma approssimativa di una sciabola. Così facendo, tuttavia, non mi
dispongo ancora sul terreno del gioco che è in linea di principio indipen-
dente da questi gesti che preparano la prassi ludica, senza tuttavia farne
parte. Da una parte, dunque, vi sono le azioni reali che compiamo per poter
giocare, dall’altra vi è il gioco con le sue modificazioni immaginative.
Del resto, che la modificazione ludica non sia una modificazione reale lo
si vede non appena smettiamo di giocare. Basta che il gioco finisca e il
ramo cessa di essere una spada: i mutamenti reali restano, ma la modifica-
zione ludica viene meno e con essa scompare anche la spada che c’è solo
finché giochiamo. Non basta smettere di scrivere perché la pagina torni ad
essere bianca, ma basta smettere di giocare perché gli oggetti tornino quel
che erano prima che la prassi ludica se ne impossessasse. E ciò è quanto
dire che la modificazione ludica non incide sulla sostanza reale degli og-
getti di cui si avvale, ma solo sulla relazione che li rende presenti per noi.
L’oggetto reale c’è e permane nella sua intatta materialità, ma il gioco
mette tra parentesi la sua natura e rinchiude l’oggetto nello spazio di ma-
nifestazione che la prassi ludica circoscrive: abbiamo così, di fronte a noi,
l’oggetto in quanto è parte del gioco, non l’oggetto in se stesso. Giocare
significherebbe allora proiettare sugli oggetti una molteplicità di ruoli lu-
dici che ci impedirebbero di tener conto delle proprietà che gli oggetti
hanno al di là del gioco.
Credo che questa tesi sia in ultima istanza condivisibile, ma lascia adito
ad un fraintendimento che deve essere messo da canto. Nel gioco, gli og-
getti hanno un ruolo ludico che definisce la loro natura, e tuttavia basta
osservare due bambini che giocano per rendersi conto che il gioco scopre
negli oggetti proprietà sempre nuove, che imprimono alla prassi ludica una
piega inattesa. Si gioca con gli occhi bene aperti: nel gioco, il divano di-
venta una nave, ma poi la morbidezza dei cuscini invita a tuffarsi e la nave
si fa mare, per poi assumere significati via via differenti che sono suggeriti
dalla natura stessa dell’oggetto che non può essere proprio per questo di-
120
menticata. Il gioco si intreccia così con la scoperta dei materiali e ne dram-
matizza, per così dire, le proprietà notevoli. Quando da bambini si gioca
con l’acqua, si gioca proprio così: si teatralizza la liquidità dell’acqua, la
sua trasparenza, la sua capacità di aggirare gli ostacoli. Si gioca così, sco-
prendo ogni volta proprietà nuove, ma nel gioco l’acqua entra di volta in
volta con un significato ludico particolare. In altri termini: il gioco scopre
appigli nella realtà – su questo non ci sono dubbi, ma nel gioco gli oggetti
entrano solo assoggettandosi alle sue leggi, per quanto vaghe, indefinite e
mutevoli esse siano. Il gioco tiene gli occhi bene aperti, ma ciò che trova è
scoperto in vista di un possibile ruolo ludico.
Forse, di fronte a queste considerazioni, la nostra prima reazione sarà
quella di osservare che ciò accade nella prassi ludica sembra avere un’eco in
molte e diverse situazioni che non sono riconducibili all’immaginazione o al
gioco. Gli esempi sono a portata di mano. Abbiamo bisogno di aprire un
barattolo e proprio per questo volgiamo lo sguardo cercando ciò che po-
trebbe servirci allo scopo: basta che questo nuovo interesse si faccia avanti,
perché molte delle cose che prima avevamo osservato si facciano avanti
con un aspetto nuovo che sembra rispondere alla domanda che lo sguardo
ora pone ai suoi oggetti. Lo sguardo scorge molte cose e le classifica im-
plicitamente: vi sono oggetti adatti e inadatti per lo scopo che ci prefig-
giamo e questa classificazione si sostituisce implicitamente a quelle che
normalmente ci guidano. Ho in tasca una moneta e mi accorgo che sembra
fatta apposta per il fine che mi prefiggo: il suo valore cessa di essere per
un attimo quello consueto che la Banca centrale europea ha stabilito e di-
viene tutt’altro – è il valore di una leva che mi consente di aprire un barat-
tolo di vernice. Tra poco, quando il barattolo sarà stato finalmente aperto,
la moneta acquisterà di nuovo il suo consueto valore, e questo sembra strin-
gere una qualche analogia con l’orizzonte del gioco. Gli interessi pratici
proiettano sulle cose una domanda che è viva solo finché vivo è l’interesse
che la determina: al suo venir meno, viene meno anche la luce che avvol-
geva le cose e che dava loro una tonalità peculiare. Un cibo è invitante fino
a che ho fame; dopo pranzo cessa di esserlo e i dolci che vedo nella vetrina
di un pasticcere possono sembrarmi ora belli da vedere, ora troppo colorati,
ora persino sgradevoli e nauseanti. Ecco dunque l’analogia con la dimen-
sione ludica: proprio come la moneta che abbiamo usato come leva riac-
quista il suo consueto valore non appena il coperchio si apre così, allo
stesso modo, il ramo è una spada soltanto finché siamo immersi nel gioco.
Appena il gioco finisce la spada scompare e il ramo torna ad essere padrone
121
della scena.
Che vi sia un’analogia è indubbio, ma al momento della somiglianza si
deve affiancare la constatazione della differenza. La moneta che riponiamo
in tasca dopo averla usata per aprire un barattolo non ci appare più come
una leva, ma ciò non toglie che lo sia ancora: posso usarla così perché è
fatta così, perché – tra le molteplici caratteristiche che la determinano per
quello che è – ha anche quelle proprietà che le consentono di essere usata
come una leva. Cerco una leva per aprire un barattolo e la trovo in questa
moneta perché una moneta è una cosa che ha certe proprietà reali, – questo
è il punto. L’interesse pratico che mi anima cerca qualcosa negli oggetti
che mi circondano e si placa quando crede di aver trovato ciò che gli
serve26.
Nel caso del gioco le cose stanno diversamente, poiché l’oggetto si de-
termina in ciò che “è” in virtù dell’agire ludico: nel gioco il bastone è una
spada perché lo uso così, non perché è così o perché ha proprietà che mi
consentono di usarlo con successo in quel modo. Il gioco non trova una
spada nel ramo, ma fa del ramo una spada perché finge di usarlo come una
spada.
Ritorniamo al nostro esempio. Se per minacciare realmente un nemico
voglio usare un bastone come se fosse una spada, scoprirò ciò che lo rende
in parte adatto e in parte inadatto allo scopo: la prassi reale è in questo caso
una forma di conoscenza perché nel suo agire con un oggetto x per ottenere
un certo scopo y, mette alla prova l’utilizzabilità concreta di x per y e sco-
pre così se x ha le proprietà che lo rendono adatto ad essere impiegato per
ottenere y.
Le cose stanno appunto così: non basta brandire ad arte un bastone e non
è sufficiente usarlo elegantemente per tirare di scherma per avere in mano
una spada – questo è ovvio. Ma se così stanno le cose e se è la prassi che
decide se ciò di cui si avvale è davvero lo strumento che le serve, allora si
deve riconoscere che all’azione che si muove sul terreno della realtà non
compete soltanto una certa forma di effettuazione, ma anche una sua effi-
cacia reale. Questi due momenti debbono essere legati l’uno all’altro an-
che soltanto per poter dire che abbia luogo l’agire di cui discorriamo. Per
dire di qualcuno che sta battendo un chiodo non basta che brandisca un
26 Del resto, talvolta accade proprio così: crediamo di aver trovato ciò che ci serve, ma appena lo
mettiamo alla prova ci accorgiamo che le cose non stanno così e che ci siamo sbagliati. Non abbiamo
trovato affatto ciò che ci serve e a dirlo è il fatto che il nostro agire fallisce il bersaglio: il coperchio è saldamente fissato nella sua sede e ci serve una leva più lunga di una moneta.
122
martello e che lo usi come si deve: è necessario che il martello sia di ferro
e non di carta e che i suoi gesti possano avere una qualche efficacia. Un
martello è un martello se batte i chiodi quando lo uso come si deve –
quando l’agire che se ne avvale si esplica secondo una certa forma di ef-
fettuazione.
Così appunto stanno le cose, quando ci disponiamo sul terreno della
realtà; nel caso della prassi ludica, invece, le cose sono ben diverse perché
in questo caso il problema dell’efficacia reale è semplicemente messo da
parte. E non è un caso che le cose stiano così: le azioni del gioco non si
dispongono sul terreno obiettivo del mondo e ciò fa sì che a definire l’og-
getto nel suo valore di gioco non sia la voce della realtà e dell’efficacia
reale, ma solo la forma di effettuazione della prassi. Nel gioco le cose sono
in quanto sono giocate così: perché un oggetto sia pesante nel gioco è suf-
ficiente sollevarlo nella forma di effettuazione del “sorreggere a fatica”,
perché una bottiglia sia piena basta che si possa prenderla con il giusto
sforzo, fare il gesto di versare qualcosa con cura nel bicchiere – ed è irrile-
vante che alla fine di questa strana cerimonia il bicchiere sia vuoto come
prima. La bottiglia è piena (dal punto di vista ludico) perché ne abbiamo
appena versato parte del contenuto – altra riprova del suo essere immagi-
nativamente piena non c’è perché l’oggetto non si rivela nella sua natura
nella relazione che lega la prassi alla realtà, ma si definisce nel suo valore
di gioco esclusivamente nella prassi ludica. Per potersi riempire il bic-
chiere, la bottiglia deve essere piena; per poter fingere che lo sia è suffi-
ciente giocare a versarne il vino nei bicchieri: il vino non deve necessaria-
mente esserci, ma deve apparire nel gioco – deve potersi mettere in scena,
dunque.
Di qui la seconda conclusione che possiamo trarre. La dinamica degli
interessi scopre nelle cose la risposta ai nostri bisogni momentanei; così
facendo, tuttavia, mette in luce anche le proprietà reali degli oggetti di cui
si avvale: nella prassi gli oggetti si rivelano per quello che sono e ciò si-
gnifica che è possibile sbagliarsi. La prassi emette il suo verdetto e rivela
il mio errore e, insieme, mostra che l’oggetto è diverso da quel che credevo.
La prassi ludica non ha quest’autorità: qui il verbo «essere» non è di casa
e per rendersene conto è sufficiente osservare che non può accadere che
ciò cui nella prassi ludica attribuisco un determinato valore si riveli nel
gioco diverso da ciò che credevamo. Se brandisco un bastone come se fosse
una spada non può accadere che ciò che ho tra le mani non sia nel gioco
123
una spada, perché «spada», nel gioco, è qualsiasi oggetto che si può bran-
dire così. Ma se non è possibile che sia falso che ciò che brandisco così e
così nel gioco sia una spada, allora non può nemmeno essere vero che lo
sia: la possibilità che si riveli vero nel gioco che qualcosa è una spada ha
come prezzo il riconoscimento della possibilità che si riveli falso che così
stanno le cose. Proprio questa possibilità, tuttavia, è esclusa: dobbiamo al-
lora conseguentemente rinunciare anche all’altra che le è correlata. Il gioco
non può consentirci di dire che questa è davvero una spada, così come non
può permetterci di affermare che non lo è: l’isolamento metodico che il
gioco impone alla sua prassi, il suo radicale rifiuto di commisurare la forma
di effettuazione dell’agire al metro della realtà, sottrae al gioco il diritto di
pronunciarsi sulla verità e sulla falsità del “mondo” che ci presenta.
Tutto questo sembra plausibile, eppure non dobbiamo riconoscere che
talvolta, giocando, ci accorgiamo che il ramo che abbiamo brandito non è
affatto adatto per farne una spada, e se diciamo così non stiamo insieme
dicendo che non è adatto perché ha certe proprietà reali che rendono im-
possibile usarlo per quegli scopi ludici per cui l’avevamo scelto? Può ac-
cadere che il ramo che ho scelto come spada si spezzi al primo attacco o
che il castello di cuscini e coperte crolli miseramente e in questi casi non
dovremmo riconoscere appunto che la prassi ludica mette alla prova gli
oggetti e ne mette in luce le proprietà reali? Certo dovremmo riconoscerlo
ed è importante farlo, perché nel gioco si imparano molte cose, ma non è
difficile rendersi conto che in questo nostro essere costretti a prendere atto
della realtà non si fa avanti una negazione nel gioco del valore ludico degli
oggetti, ma solo una breve interruzione del gioco che ci costringe a ram-
mentare o a scoprire quale sia la realtà delle cose al di là della parentesi
ludica. Così, chi nel gioco, guardando sconsolato il suo ramoscello piegarsi
ad ogni alito di vento, ad un tratto esclamasse «Questa non è affatto una
spada» non starebbe proponendo una constatazione fattuale che ci invita a
prendere atto della falsità di una qualche credenza che ci sorregge nel gioco
e non starebbe riconoscendo che la prassi ludica dimostra che quell’oggetto
non è una spada: tutt’altro: chi dicesse così ci inviterebbe soltanto a smet-
tere per un attimo di giocare, per poi rendersi conto da questo nuovo punto
di vista – il punto di vista della realtà – di come stanno realmente le cose.
Di qui la conclusione cui alludevamo: disporsi sul terreno della prassi lu-
dica non vuol dire modificare realmente le cose, ma nemmeno conoscere
ciò che le caratterizza o credere che siano adeguate al ruolo che intendiamo
attribuire loro. Il gioco non ha simili pretese: si accontenta di attribuire agli
124
oggetti un ruolo ludico che non ci dice nulla sulla loro realtà effettiva, ma
determina il modo in cui essi appaiono nel gioco, anche se questo non
esclude affatto che giocando si imparino molte cose27. Le si imparano per-
ché per poter giocare dobbiamo fare molte cose, e possiamo farle solo
usando gli oggetti che ci circondano.
A partire di qui si può meglio comprendere che cosa si intende quando
si afferma che il gioco è sotto l’egida del fare come se. Quest’espressione
non allude ad una forma di falsa coscienza: chi gioca non finge di credere
che il ramo che brandisce nel pugno sia davvero una spada e non vive nel
gioco la falsa coscienza di chi crede che non lo sia. Certo, il bambino sa
bene che ciò che ha in mano è soltanto un bastone, ma non vi è alcun biso-
gno di porre questa credenza all’origine della prassi ludica: quando gioca,
il bambino non prende posizione sull’esser così degli oggetti, ma sempli-
cemente li usa e mette in scena la narrazione viva di una vicenda che non
ha altro luogo di accessibilità che non sia il gioco stesso. Chi gioca non ha
bisogno di credere proprio a nulla perché il gioco non pretende di parlare
delle cose del mondo, non ha la pretesa di muoversi sul terreno dell’essere,
ma si accontenta della dimensione dell’apparire: il gioco si mette in scena
e “c’è” solo nel racconto che ci propone.
Ci siamo già soffermati su questo punto: credere che qualcosa sia, e sia
così, significa in generale confidare che sia possibile accertare come stanno
le cose al di là del loro manifestarsi in un’esperienza data. Posso credere
che domani pioverà perché posso additare una possibile esperienza – di-
versa dal mio pensarla ora – che dimostrerà vera questa mia asserzione. Se
non fosse in linea di principio possibile farlo, se ciò di cui parlo “esistesse”
solo nel mio parlarne ora e nel mio parlarne così, allora non avrebbe senso
fare appello alla dimensione della credenza: si può credere qualcosa solo
se ha senso fare appello ad un criterio indipendente che ci consenta di va-
gliare la verità di ciò che crediamo. Si può credere solo a ciò che può essere
vero o falso e possono essere vere e false solo proposizioni che rimandano
ad un metro indipendente da esse che ci consenta di verificarle o falsifi-
carle. Nel caso del gioco (e dell’immaginazione in genere) le cose non
27 La parola «apparente» non deve essere fraintesa. Se diciamo che nel gioco il bastone ha il senso
apparente di una spada non vogliamo asserire che non è una spada anche se ne ha la parvenza: vogliamo
dire invece che nel gioco abbiamo tacitato ogni considerazione concernente l’essere reale degli oggetti il cui valore ludico è determinato soltanto dal modo in cui si manifestano nel gioco, dal loro apparirci
così all’interno della prassi ludica. Nel gioco, ci rinchiudiamo volontariamente nella dimensione
dell’apparenza ludica e lasciamo che a decidere del come degli oggetti sia esclusivamente il modo del loro apparir così: ogni altra considerazione deve essere dunque messa da parte.
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stanno così perché ciò che in esse prende forma si manifesta e «c’è» sol-
tanto in esse. Nel gioco il bastone è una spada, ma ciò che caratterizza la
prassi ludica è il suo rinchiuderci all’interno della narrazione che ci pro-
pone: la spada “c’è”, ma il suo “esserci” è tutto racchiuso in un agire che
si trattiene al di qua del reale e che determina il senso e la natura dei propri
oggetti solo in virtù della sua forma, non in ragione del suo rapportarsi al
reale. Ci imbattiamo così, ancora una volta, nella natura sospesa dell’im-
maginazione: così come la narrazione immaginativa ci costringe a rinchiu-
dere le storie che ci propone nella trama noematica dei significati, così la
prassi ludica ci costringe a comprendere il senso degli oggetti con cui opera
disponendoci all’interno dei ruoli che il gioco crea e definisce.
Il gioco ci si mostra così come una nuova, differente forma di neutraliz-
zazione delle posizioni d’essere. Nel gioco, prendiamo commiato dalla
realtà delle cose e ci disponiamo in una prassi che non si confronta con la
realtà delle cose, cui concede di far parte del gioco solo a prezzo del loro
calarsi interamente nel ruolo che la narrazione ludica assegna. E tuttavia,
per quanto il gioco ci inviti a disporre gli oggetti nel calco che egli stesso
crea, è opportuno riconoscere ancora una volta che la prassi ludica avviene
comunque nel mondo e che anche se il nostro agire non si misura con la
realtà, avviene comunque in essa e deve in ogni caso rapportarsi alle sue
regole. Nel gioco non posso fare quello che voglio: anche se le mie azioni
valgono solo per la loro forma e anche se non costringo alla riprova del
reale le assunzioni ludiche che sorreggono il gioco, resta egualmente vero
che ogni mio agire deve stringere un patto con la realtà, anche soltanto per
poterla lasciare fuori dall’uscio. Proprio come Don Chisciotte decide di
rinunciare a saggiare la resistenza del suo elmo fatto di legno, colla e car-
tone, così l’immaginazione ludica deve rinunciare a molte cose e non può
fare a meno di intrecciare il gioco al racconto, la prassi di valorizzazione
ludica alla finzione narrativa. Il divano è una nave, ma dobbiamo raccon-
tare i suoi viaggi e soltanto dopo averli narrati possiamo fingere di trovarci
in un posto diverso da quello in cui eravamo partiti. Il castello di cuscini è
un riparo invincibile, ma dobbiamo raccontare a parole gli assedi che ha
subito, perché basta poco a farlo crollare. Il gioco è immerso nel mondo e
ne subisce necessariamente i contraccolpi: i ramoscelli, nei duelli, si pie-
gano e si rompono, i grandi macigni di carta si muovono al vento e il ca-
stello di cuscini cade troppo spesso per non rammentarci con la sua fragilità
la solidità del reale.
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CAPITOLO TERZO
L’IMMAGINAZIONE E GLI ASPETTI FIGURATIVI
1. Un elemento comune
Nel nostro tentativo di mostrare la natura dell’immaginazione in senso pre-
gnante, ci siamo soffermati soprattutto sulle forme che, per così dire, se-
gnano gli estremi del metro che la misura: la narrazione e il gioco. Ci era-
vamo espressi così: il racconto è un gioco che si libera, il gioco un racconto
che si inscena, e ora a partire di qui vorremmo chiederci se non ha senso
cercare al di sotto di queste polarità un elemento comune che appartenga
allo spazio dell’immaginazione in senso pregnante in ogni sua forma.
Tentare di rispondere a questa domanda significa mostrare che il cam-
mino dal basso e il cammino dall’alto conducono ad uno stesso luogo con-
cettuale. Vi è in primo luogo un cammino dal basso che muove dal gioco
che è innanzitutto una prassi concreta. Il gioco è una prassi corporea, un
agire libero che nasce come libero dispendio delle energie e che consente
al bambino e ai cuccioli di molti animali di riprodurre in uno spazio pro-
tetto alcune attività che la vita chiederà loro. Lo si vede bene guardando i
cuccioli, ma anche il gioco infantile ha le forme di un libero disporre del
proprio corpo e delle proprie energie: si gioca saltando, correndo, facendo
capriole e c’è un’eccitazione ludica che accompagna anche i giochi più
tranquilli e che è una delle cifre più autentiche del gioco. Il gioco nasce di
qui e tuttavia, lo abbiamo osservato, vi è una specificità immaginativa del
gioco che si fa avanti quando la libertà dei movimenti e il libero dispendio
delle energie si legano ad una cellula narrativa elementare, ad un accenno
minimo ad una narrazione possibile. In molti giochi ci si accontenta di que-
sto: il bambino stende le braccia e corre, piegandosi ora da un lato e ora
dall’altro, e basta questo gesto, accompagnato forse dalla voce che ripete
il rumore di un motore rombante perché una cellula narrativa elementare si
faccia avanti: il gioco racconta che c’era una volta un aeroplano, anche se
questa storia non sembra andare al di là del suo narrarci di un volo fatto
proprio così. Un racconto in senso proprio non c’è: la storia dell’aeroplano
che il gioco inscena non ha un inizio né una fine e non c’è qualcuno cui si
narri ciò che il gioco mette in scena – questo è chiaro. In questo senso,
parlare di un cellula narrativa elementare non deve trarci in inganno: il
127
gioco, specialmente nelle sue forme più semplici, non può essere accostato
alla narrazione perché non ne condivide la struttura e perché davvero non
sapremmo come rispondere se qualcuno ci chiedesse che cosa intende nar-
rare un bambino quando stende le braccia come fossero le ali di un aero-
plano. In un senso anche troppo ovvio, quel bambino non intende raccon-
tare nulla, e tuttavia il suo gesto apre uno spazio narrativo minimale: crea
una scena immaginativa e un ruolo finzionale e con questo predispone la
cellula minimale di una narrazione che diverrebbe ora possibile, se solo .
Giungiamo alla stessa meta se seguiamo il cammino che procede
dall’alto verso il basso: possiamo muovere dal terreno narrativo ed impo-
verire sempre di più la trama della storia che raccontiamo – possiamo pri-
varla di una trama e semplificarla sino al punto in cui ci resta soltanto l’in-
cipit della storia e l’indicazione di un ruolo finzionale, caratterizzato sol-
tanto dal suo occorrere in una scena che è posta insieme all’oggetto finzio-
nale: «c’era una volta un aeroplano…». Una storia potrebbe iniziare così,
ma certo questo non sarebbe più un racconto; e nemmeno un gioco, natu-
ralmente: è tuttavia quell’elemento comune ad essi che abbiamo proposto
di chiamare cellula narrativa elementare. Un tratto la caratterizza: rappre-
senta l’unità minima richiesta perché ci si possa disporre sul terreno imma-
ginativo in senso pregnante. Alludono ad un ruolo e ad una scena immagi-
nativa, ma non ci dicono altro: sono, appunto, una narrazione all’inizio, il
suo primo passo.
Abbiamo parlato di un elemento comune tra narrazione e prassi ludica, e
tuttavia la forma in cui questo elemento comune si fa avanti nell’uno e
nell’altro caso racchiude una differenza su cui è opportuno indugiare un
poco. Se ci disponiamo sul terreno narrativo in senso proprio, parlare di
una cellula narrativa elementare significherà soltanto alludere alla finzione
di una scena immaginativa iniziale che potrebbe essere poi sviluppata in
una narrazione più ampia. Diversamente stanno le cose nel caso della prassi
ludica: qui la prassi immaginativa si muove comunque su un terreno già
dato e il suo operare consiste nell’attribuire a qualcosa una forma immagi-
nativa, nel raccontarlo in una direzione determinata. Il bambino stende le
braccia e corre e in questo gesto è racchiuso un diverso modo di sentire il
proprio corpo che ora sembra bilanciarsi sull’aria e trovare in essa un so-
stegno. È una sensazione che non può essere presa alla lettera: il corpo non
poggia certo sulle braccia aperte, ma tanto basta perché l’immaginazione
prenda il sopravvento e la corsa diventi un volo sospeso sulle ali spiegate.
Il gioco prende forma e nel suo primo gesto crea un’immagine che poi in
128
vario modo dispiega, narrandola: nel suo articolarsi e nel suo farsi più ricca,
l’immaginazione ludica dipana un’immagine e la fa risuonare, arricchen-
dola di ciò che il gioco mette in scena. Gli esempi possono essere moltipli-
cati. Entriamo nel bosco e le radici degli alberi suggeriscono strane forme;
le vediamo disegnarsi incerte, ma minacciose, e le scopriamo nel loro con-
tinuare nei tronchi e nei rami degli alberi. Tutto questo appartiene al terreno
dell’esperienza percettiva, ma ci predispone all’immaginazione: nel gioco,
tronchi e radici possono diventare creature maligne da cui tenersi lontano
o di cui rammentare la presenza per trasformare una passeggiata con i ge-
nitori in una rischiosa esplorazione. Ciò che nel gioco prende forma è ap-
punto una narrazione elementare: nella prassi ludica la forma del tronco si
racconta in una forma determinata che le attribuisce un dinamismo latente
e che orienta in una direzione determinata una realtà percettivamente in-
stabile. La forma tormentata del tronco, i segni visibili della fatica del suo
essere cresciuto così, la somiglianza con certi gesti espressivi che abbiamo
imparato a conoscere sui volti umani sono tratti che appartengono diretta-
mente alla nostra esperienza percettiva; nel gioco, tuttavia, diventano qual-
cosa d’altro: prendono così immaginativamente forma i lineamenti di una
potenza oscura, le forme di un corpo legnoso in cui è rimasta imprigionata
una vita minacciosa e sofferente. Nel gioco si fa avanti una cellula narrativa
elementare che ha le sue radici nell’esperienza e che si articola passo dopo
passo secondo le pieghe che la prassi ludica concretamente assume. Un’im-
magine prende forma nel gioco: l’immagine del corpo prigione, di una vita
altra e difficile da comprendere perché da tempo imbrigliata in una scorza
dura che la rende insensibile agli eventi e in membra rigide che gli impe-
discono apparentemente di muoversi.
Certo, ciò che accade nella prassi ludica accade anche sul terreno della
narrazione assoluta, e proprio questa stessa cellula narrativa ha trovato una
sua espressione nelle fantasie dantesche di Pier delle Vigne o negli alberi
animati di tante favole. Spesso i racconti nascono di qui: dal dipanarsi nar-
rativo del senso di un’immagine. In fondo, le vicende di Gregor Samsa
raccontano in una direzione determinata il disagio di una scena percettiva
che è pronta a trasformarsi in un’immagine – un insetto rovesciato sul
dorso che agita le sue esili zampe impotenti. Nel gioco tuttavia questo
nesso appare con maggiore evidenza: la prassi ludica è una prassi modifi-
cante che nasce dall’esperienza perché opera nell’esperienza, piegandola
narrativamente alle esigenze del gioco. Si tratta di una constatazione im-
portante perché ci permette di scorgere nelle pieghe della nozione ludica
129
di narrazione elementare una forma dell’immaginazione di cui non ab-
biamo ancora discusso, ma che ha un’importanza centrale – l’immagina-
zione che crea immagini o, come potremmo anche dire, immaginazione
immaginosa. In un certo senso l’immaginazione nasce di qui, da questa
situazione originaria: qualcosa di percettivamente instabile diviene il nu-
cleo vivo di una narrazione elementare, di una narrazione statu nascenti
che prende forma nella prassi ludica e che trasforma il dato percettivo in
una scena immaginosa – in un’immagine appunto. Su un tronco caduto si
può stare a cavalcioni e questa possibilità ludica racconta in una direzione
determinata lo spaesamento visivo che si lega alla percezione di un tronco
adagiato sull’erba: il gioco produce un’immagine – il tronco è una canoa
che fende le acque in un viaggio insolito per chi è sempre stato radicato al
suolo – e ne rende possibili altre perché il prato diventerà un lago, i cespu-
gli isole, e così via. Nel gioco, la realtà assume una veste immaginosa e
prendono forma immagini di varia natura – narrazioni elementari statu na-
scenti che si definiscono e si articolano nel corso del gioco.
Rammentare il nesso che lega l’immaginazione immaginosa alla prassi
ludica non significa tuttavia sostenere che le immagini appartengano ne-
cessariamente all’orizzonte del gioco. Può darsi che le prime immagini sor-
gano per il bambino insieme alla prassi ludica e si intreccino ad essa, ma
non è necessario che ciò accada e soprattutto è possibile svincolare le im-
magini dai moventi del gioco e dai desideri che lo animano. In un certo
senso i desideri del gioco sono prima dell’immaginazione ludica: il bam-
bino vuole arrampicarsi o starsene tranquillamente seduto, vuole azzuffarsi
o provare il brivido di una paura controllata e allora cercherà nelle cose che
lo circondano gli oggetti che gli consentono di dare al reale la veste imma-
ginosa che si addice al gioco in cui vuole immergersi. Un ramo è innanzi-
tutto una spada, ma può diventare anche la bacchetta di un direttore di or-
chestra o, piantato nella sabbia, la cloche di un aeroplano, a decidere di una
cosa o dell’altra è solo la scelta del gioco che trova poi nelle cose quello
che cerca. L’immaginazione ludica asseconda i desideri del gioco ed anche
se la natura degli oggetti determina sempre in qualche modo la possibilità
della modificazione ludica, il desiderio di giocare a un gioco piuttosto che
a un altro determina più di ogni altra cosa l’immagine che nel gioco prende
forma.
L’immaginazione ludica è dunque un’immaginazione asservita ai desi-
deri del gioco – ma le cose stanno sempre così? L’immaginazione ha sem-
pre la forma di una prassi esplicitamente rivolto ad uno scopo? Quando
130
immaginiamo e, immaginando, diamo vita ad immagini, siamo sempre gui-
dati da un desiderio esterno all’immaginazione, che la sorregga e la indi-
rizzi?
Vi è un senso in cui a questa domanda si può senz’altro rispondere nega-
tivamente, perché almeno questo è chiaro: non sempre l’immaginazione è
parte di una prassi volontaria e non sempre è asservita un fare più ampio
intende raggiungere. Certo, l’immaginazione ludica risponde agli interessi
del gioco: il bambino vuole azzuffarsi, e questo desiderio determina il
modo in cui l’immaginazione valorizza gli oggetti in cui si imbatte: il gioco
è una prassi volontaria e sorretta da interessi e l’immaginazione ludica
deve nella norma piegarsi agli scopi ai desideri di chi gioca. Anche la nar-
razione è una prassi volontaria ed anche il narrare può prefiggersi una mol-
teplicità di scopi: vi sono racconti che cercano di commuoverci, storie
d’amore che vorrebbero farci sognare, film che si prefiggono di terroriz-
zare lo spettatore e non vi è dubbio che in questi ed altri casi l’immagina-
zione è piegata ai desideri cui la narrazione intende far fronte e che questo
avrebbe una sua eco nell’indirizzare e nel piegare le immagini in una dire-
zione determinata. Ma appunto: non è sempre così, perché non ogni forma
dell’immaginazione è parte di una prassi. Talvolta nell’immaginazione ci
troviamo immersi senza averlo voluto, e non avrebbe senso in questo caso
chiedersi quale sia il fine per cui immaginiamo così, perché in un simile
caso l’immaginare non ha affatto la forma di una prassi che si prefigga un
obiettivo determinato. Qualche volta raccontiamo per commuovere, spesso
giochiamo per saltare e correre, ma accade anche che si immagini senza un
motivo. Non sempre immaginiamo per uno scopo: spesso semplicemente
ci accade di fantasticare e molte volte questo assume la forma di un vagare
tra immagini che prendono forma autonomamente o che rammentiamo
semplicemente perché calzano con la situazione che ci è dato di vivere. In
un certo senso, le immagini sono dietro l’angolo della percezione: guar-
diamo le onde del mare che arrivano a riva e ci sembra di capire davvero
Omero che dice che il mare non è mai stanco, perché ci sembra che non vi
sia altro modo di raccontare quelle onde se non pensarle come il respiro
lungo di un animale instancabile.
Di qui due questioni distinte che ci consentono di gettare una luce un
poco più definita sulla natura di quella forma di narrazione elementare che
si manifesta nella creazione delle immagini. In primo luogo dobbiamo
chiederci che cosa ci spinga ad immaginare in quei casi in cui l’immagina-
zione sorge senza per questo dover obbedire ad uno scopo che le venga
131
imposto. In secondo luogo, poi, dobbiamo domandarci se dalla constata-
zione che vi sono forme dell’immaginazione che non sono asservite ad un
fine si può dedurre l’esistenza di un’immaginazione pura, di un immagi-
nare che non soltanto non si subordini ad un qualche scopo, ma che sorga
da sé, obbedendo esclusivamente alle sue ragioni. Due domande complesse
cui dobbiamo tentare di dare una risposta.
2. Gli aspetti figurativi
Poniamoci innanzitutto la prima domanda: che cosa ci spinge ad immagi-
nare quando l’immaginazione non è asservita ad una qualche prassi orien-
tata ad uno scopo che determini esso stesso la ragione del nostro fantasti-
care? Che cosa ci trascina sul terreno immaginativo anche quando non ab-
biamo un compito che intendiamo assegnare all’immaginazione?
A questa domanda, io credo, si possa rispondere soltanto così: debbono
esserci oggetti e situazioni concrete che per la loro stessa natura ci invitino
sul terreno immaginativo, che siano cioè caratterizzate dal loro manife-
starsi in una forma tale da spingerci insensibilmente verso l’immagina-
zione che è chiamata a dire la sua solo perché non è possibile attribuire
stabilmente alla scena percepita il senso che pure sembra spettarle dal
punto di vista fenomenico. Se ci accade di vagare tra immagini è perché
l’immaginazione affonda le sue radici nella nostra esperienza delle cose.
Sul senso di queste considerazioni dobbiamo soffermarci un poco, per
cercare di chiarirle passo per passo. Si deve innanzitutto comprendere che
senso abbia parlare di oggetti che ci appaiono caratterizzati da un insieme
di proprietà che, per altri versi, non possiamo attribuire loro. Guardo il tra-
monto e ne vivo la malinconia, ma allo stesso tempo non posso non co-
gliere che si tratta di un accadimento naturale tra gli altri, di un evento cui
in senso proprio il predicato della malinconia non può spettare. Il tramonto
è malinconico perché ci appare così, ma non lo è realmente, e l’esperienza
che ne abbiamo è tale da non consentirci di attribuire effettivamente uno
stato d’animo all’accadimento cui assistiamo. Ascolto le prime battute
della Primavera di Vivaldi e ne colgo la serenità e la gioia – una gioia che
esperisco in quei suoni, ma che non può essere di quei suoni; guardo la
radice contorta di un albero e la vedo nel suo aspetto minaccioso e tormen-
tato che tuttavia non dice realmente qualcosa di quel legno. Il tronco si
manifesta così sul terreno percettivo, ma ciò non toglie che io lo colga
come una cosa tra le altre, come una realtà materiale cui non è possibile
attribuire cattive intenzioni o un’esistenza difficile, e questo mi impedisce
132
di attribuire al come di quella manifestazione un significato reale. Il tronco
non è minaccioso, ma mette egualmente in scena una minaccia, la raffigura.
Di qui la prima tesi che abbiamo sostenuto. Chiamo aspetti figurativi di
un oggetto quelle caratteristiche che lo rendono particolarmente adatto ad
essere il punto di avvio di un processo immaginativo – di una narrazione
elementare – e ritengo che, in generale, si possa parlare di aspetti figurativi
quando qualcosa – un oggetto, una situazione, uno stato di cose – rende
presente un aspetto che non gli può essere realmente attribuito. La ragione
per cui ne parlo come di aspetti figurativi non è difficile da cogliere. In
fondo una raffigurazione è proprio questo: un sostrato materiale che è real-
mente caratterizzato da una discontinuità cromatica che tuttavia si manife-
sta a chi l’osserva nella forma di una profondità apparente – una profondità
che non può essere attribuita realmente alla tela o al pannello, ma che si
manifesta egualmente alla percezione. La vediamo, ma non possiamo nem-
meno tentare di percepirla in altro modo, perché ciò che cade sotto i nostri
occhi ci dice che si tratta di una profondità apparente e che ciò che c’è è
una qualche superficie colorata.
Ora, in un dipinto, la tela esibisce un aspetto figurativo in senso proprio,
ma è possibile anche un uso traslato: quando diciamo che il nero è tetro
non vogliamo dire che sia realmente di questo umore, ma intendiamo af-
fermare che ci appare così, come se inscenasse per noi che l’osserviamo
una peculiare atmosfera emotiva. Il nero ha questo aspetto figurativo: ma-
nifesta una proprietà peculiare che non possiamo propriamente attribuirgli.
E ciò significa: non avrebbe senso avanzare molte delle richieste che nor-
malmente sono legittimate da una simile attribuzione e che ci consentono
di asserire con ragione che una simile proprietà esiste davvero. Un soffitto
nero è tetro, ma non avrebbe senso chiedere il motivo di un simile umore,
né domandarsi che cosa si potrebbe fare per alleviarlo. E non avrebbe senso
nemmeno domandarsi se di pessimo umore lo sia davvero o voglia per
qualche ragione apparirci così, e non perché i soffitti tetri siano particolar-
mente sinceri, ma perché quando diciamo che sono tetri non affermiamo
affatto che abbiano o possano avere un umore qualsivoglia. Il nero è tetro,
così come una brezza è gentile: ci appaiono così, ma non alcun senso sag-
giare ulteriormente l’effettività di un simile manifestarsi. Una brezza ha
l’aspetto della gentilezza perché accarezza le cose e smuove dolcemente la
chioma degli alberi, ma questo gioco di apparenze non basta per essere
davvero gentili. Può essere gentile un gesto, perché i gesti rimandano ad
un comportamento soggettivo e si legano ad un contesto di ragioni e di
133
motivazioni che li pongono in uno spazio di predicazioni possibili cui la
gentilezza evidentemente appartiene. Un gesto può essere gentile o non
esserlo e può anche sembrarci a prima vista gentile, ma essere in realtà
mosso da altre motivazioni: può volerci ingannare ed essere falsamente
premuroso. In tutti questi casi, tuttavia, la gentilezza resta un predicato ri-
spetto al quale determinare la natura di quel gesto, e questo perché un gesto
appartiene ad uno spazio logico che è caratterizzato da predicati di tale na-
tura. Non così stanno le cose per un semplice movimento che non può es-
sere gentile perché la gentilezza non appartiene all’ambito delle sue sin-
tassi possibili.
Possiamo forse esprimerci così: una proprietà p è un aspetto figurativo
di un oggetto x se il tentativo di affermare alla lettera che p(x) conduce ad
un errore categoriale, ad una predicazione che non appartiene in linea di
principio allo spazio logico cui il soggetto appartiene. Una brezza non può
essere gentile; eppure ci appare così e ne parliamo così; ne segue che, in
questo caso dire, che la brezza è gentile non significa predicare una pro-
prietà in senso proprio: vuol dire invece attribuirgli un aspetto figurativo,
e gli aspetti figurativi non indicano proprietà degli oggetti, ma del modo in
cui ci appaiono. Possiamo allora affermare che gli aspetti figurativi sono
proprietà terziarie degli oggetti, forme che non dicono ciò che l’oggetto è
in se stesso, ma che ci parlano del modo in cui è presente per noi.
È tuttavia sufficiente dare una veste più chiara a questo concetto perché
si facciano avanti una serie di dubbi sulla sua legittimità. Guardi questo
soffitto nero e lo trovi tetro, e per questo sostieni che l’essere tetro sia in
questo caso una proprietà terziaria che non pretende di dire nulla della na-
tura di un oggetto o di un colore, ma solo del modo in cui ci appare. Una
proprietà terziaria come l’appetibilità di un cibo o la comodità di una sedia
– eppure una spiegazione più semplice sembra essere a portata di mano:
perché non dire che il nero è tetro solo perché a quel colore si è legato nel
tempo un impiego particolare – il nero è il colore del lutto. Un’idea si lega
all’altra e ne diventa il segno, e non è forse vero che una parola sembra
difficilmente separabile dal significato che le si è nel tempo legato? Che si
debba ragionare così, del resto, non lo si vede anche dal fatto che vi è una
qualche relatività culturale in queste affermazioni. A noi il nero sembra
tetro, ma possiamo ben immaginare che vi siano persone cui non appare
così: potrebbero trovarlo freddo, apprezzare il suo aspetto aristocratico, il
suo contegno così lontano dal chiacchiericcio dei colori, e potremmo anche
immaginare che ci siano uomini che appartengano a culture in cui i colori
134
non hanno la capacità di suscitare alcuna impressione particolare e che,
proprio per questo, reagiscano con stupore alle nostre scelte cromatiche.
Le convenzioni crescono nel tempo e diventano una seconda natura: impa-
riamo a trovare certi colori tetri e altri allegri perché si usano nella nostra
cultura, e impariamo a sentire discordanti certi accordi, malinconiche certe
successioni di suoni perché esistono certe pratiche compositive che hanno
creato una predisposizione all’ascolto che non è tuttavia contenuta affatto
nella natura dei suoni. In un suo libro – Le sorgenti della musica – Kurt
Sachs racconta l’aneddoto di un musicista popolare albanese che, udita la
Nona sinfonia di Beethoven, la giudica senza appello troppo semplice, an-
che se in fondo bella. Ecco la prova che un’abitudine di ascolto determina
interamente ciò che sentiamo – verrebbe da dire, perché nessuno di noi,
cresciuti nella nostra cultura musicale, si stupirebbe della semplicità rit-
mica di quella sinfonia e si lascerebbe colpire piuttosto dalla complessità
della struttura melodica e dalla sua profonda bellezza. Solo chi è cresciuto
nella nostra cultura può apprezzare queste forme di bellezza, proprio come
per noi è preclusa – una volta per tutte – la bellezza dei canti esquimesi,
delle musiche africane, delle armonie indiane. Per afferrarle, avremmo do-
vuto crescere in quei mondi, imparare le loro lingue, vivere le loro vite – e
rinunciare alla nostra e quindi anche alla nostra musica. Non è andata così:
non abbiamo acquisito quello stile percettivo che ci avrebbe consentito di
impadronirci della musica esquimese, rinunciando alla nostra. Non si può
essere diversi da quel che siamo diventati28.
Come reagire a queste considerazioni? In primo luogo, io credo, ram-
mentando che non è del tutto chiaro che cosa ci suggeriscono. Dicono che
non possiamo apprezzare musiche diversa la nostra, ma è difficile dire che
cosa si intenda quando si parla della nostra musica. In fondo sentiamo Vi-
valdi e Stravinsky, Bach e Beethoven, Palestrina e i Pink Floyd, e tante
altre cose. Le sentiamo, e ci sembra di capirle, e quando non ci ritroviamo,
non malediciamo le nostre origini, ma ascoltiamo di nuovo e con più atten-
zione il brano che ci ha lasciato perplessi. Insomma: anche se non vi è
dubbio che vi siano convenzioni di ascolto e che l’appartenenza ad una
comunità musicale e ad un modo di vivere abbiano un peso, questo non
significa ancora che si possa parlare di una nostra musica, come se
quest’espressione alludesse ad insieme definito di regole e come se tutto
28 L’esempio di Sachs è discusso da Giovanni Piana nella sua Filosofia della musica, Guerini, Milano
199, pp. 38-45 – un libro da cui queste pagine hanno tratto ben più che un semplice spunto espositivo.
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dipendesse da un qualche modo di illuminare soggettivamente un insieme
di materiali inerti. Ascoltiamo molte cose diverse e ci appaiono diverse,
per non dire contrastanti, anche se questo non significa che, ascoltandole,
qualcosa muti in noi e nella nostra forma di vita. Non c’è bisogno di aver
vissuto nella Roma del Cinquecento per ascoltare un madrigale di Palestina
e avvertirne la dolcezza, ma se l’avvertiamo, questo non significa che ci
siamo per questo privati della possibilità di ascoltare ed intendere musiche
molto diverse da questa. Non siamo chiusi in un unico orizzonte d’ascolto.
Su questo punto dovremo tornare tra breve, e tuttavia riconoscere che è
possibile cogliere una pluralità di aspetti figurativi in una stessa scena per-
cettiva non significa riconoscere per altra via che si tratta di mere conven-
zioni? Forse non siamo chiusi in un unico orizzonte culturale, forse è op-
portuno non credere che le convenzioni determinino una seconda natura da
cui sarebbe impossibile spogliarsi, ma se possiamo davvero trovare tetro o
aristocratico, autoritario o sobrio lo stesso colore non dobbiamo ricono-
scere egualmente che gli aspetti figurativi non esistono affatto, ma vi sono
soltanto le molteplici convenzioni di cui possiamo liberamente disporre?
Non credo che nemmeno questa conclusione sia legittima perché non è
affatto detto, in primo luogo, che il nostro rapportarci alla molteplicità de-
gli aspetti che fanno presa su un’unica scena percettiva sia riconducibile al
gioco delle convenzioni. Una convenzione si stipula ed è difficile pensare
che vi sia qualcuno che non sia capace di compiere una mossa così sem-
plice. Per convenzione, il nero è il colore del lutto; potremmo tuttavia sti-
pulare una convenzione ben diversa: un fiocco nero alla porta potrebbe an-
nunciare che è nato un bambino. Le convenzioni possono stupirci, ma non
è difficile stipularle. Sembra proporci invece un compito difficile chi ci
dice che coglie nel nero un tratto gioioso e che trova riposante ed appagata
una settima diminuita: ci propone un compito complesso perché non ci
chiede di stipulare una convenzione, ma di percepire qualcosa che può es-
sere difficile o addirittura impossibile cogliere. Per fare di un colore il se-
gno del lutto dobbiamo accordarci su un certo stile di comportamento; per
cogliervi un aspetto tetro dobbiamo invece guardare con attenzione, pro-
prio come accade quando qualcuno ci invita a scorgere in lontananza una
persona che crede di avere visto. Dobbiamo guardare con attenzione, e non
è affatto detto che basti, perché qualche volta anche se guardiamo attenta-
mente non vediamo affatto quel che vorremmo, perché ci sfugge o sempli-
cemente perché non c’è. Non riesco a vedere il nero come gioioso, ma
posso senz’altro convenire che stia per la gioia, e se è possibile riuscire in
136
questo e fallire in quello, allora si deve riconoscere che si tratta di due
compiti molto diversi. Affidarsi alle convenzioni per venire a capo dei
nessi figurativi non sembra dunque una strategia percorribile.
Non solo. Una convenzione può sembrarci più o meno praticabile, ma
sembra essere fuori di luogo cercare di convincere qualcuno che sia giusta
questa convenzione piuttosto che un’altra. Non posso cercare di convin-
certi che «lion» sia meno adatta di «Löwe» per indicare un leone, e se
tentassi di farlo intenderei con tutta probabilità richiamarmi a ciò che in
quelle parole non è convenzionale – all’immagine sonora che le caratte-
rizza e che può essere più o meno adatta ad accompagnare il pensiero di
quell’animale. Nel caso di quelli che abbiamo chiamato aspetti figurativi,
invece, le cose stanno proprio così: se qualcuno trovasse superficiale e fe-
stoso l’adagio del primo concerto brandeburghese di Bach, ci sentiremmo
in dovere di contraddirlo. Per farlo, non avremmo argomenti cogenti, ma
faremmo egualmente il possibile per richiamare la sua attenzione sui punti
che per noi giustificano un tutt’altro giudizio. Affiancheremmo all’ascolto
le parole, per rendere più persuasiva la nostra posizione e forse ogni tanto
daremmo alla nostra protesta una forma enfatica, come se chi ci ascolta
stesse negando l’evidenza e si rifiutasse di ascoltare quello che chiunque
sentirebbe al suo posto. Certo, parlare con un tono persuasivo ed enfatico
non è di per sé un buon argomento, ma è la spia di un fatto che merita di
essere sottolineato: in quel «ma possibile che tu non senta!» che dà voce
alla convinzione che non si voglia sentir così per partito preso, si fa avanti
la convinzione che gli aspetti figurativi siano proprietà intuitive che pos-
siamo imparare a scorgere grazie all’aiuto degli altri, ma che debbono in
definitiva essere percepite.
Nelle pagine della Critica della facoltà del giudizio, Kant sostiene che
del bello non si può disputare, ma si può cionondimeno discutere, e il senso
di queste considerazioni riposa sul carattere intuitivo della bellezza. La bel-
lezza non è il frutto di un’argomentazione e quindi non si può dedurre che
un ornamento sia bello o che lo sia un disegno, ma si può egualmente aiu-
tare qualcuno a scorgere ciò che non è riuscito ad afferrare – si può discu-
tere, per guidarlo a cogliere quel che non ha colto.
Non è facile comprendere sino in fondo il senso di questa bella distin-
zione kantiana, ma io credo che nel nostro contesto questa sua afferma-
zione abbia un senso che meriti di essere approfondito. Proprio come la
bellezza per Kant, anche le proprietà figurative sono proprietà intuitive:
coglierle significa dunque vederle, sentirle, toccarle o, più in generale,
137
averne esperienza. Per farlo, tuttavia, può essere necessario orientare la no-
stra prassi percettiva in una direzione determinata: può essere necessario
guardare o ascoltare in un certo modo, per riuscire a vedere o a sentire ciò
che comunque può essere visto o sentito29. La percezione, si diceva una
volta, appartiene alla dimensione della recettività: è un fatto passivo che si
impone al soggetto percipiente, il quale non può fare altro che percepire
quello che gli si offre. Non posso decidere di vedere o di sentire quello che
voglio: ora sento il fischio di un treno che parte la sera e non posso fare a
meno di sentirlo, così come non posso fare a meno di avvertire la malinco-
nia di quel commiato. Anche la percezione degli aspetti figurativi è per sua
natura qualcosa che non dipende da noi, ma ciò non toglie che sia possibile
orientare la prassi percettiva in un modo determinato per riuscire a cogliere
ciò che comunque si poteva cogliere. Così, posso vedere lugubre il nero,
ma (e l’abbiamo dianzi osservato) posso anche imparare a scorgerne altri
aspetti: posso trovare nitida e un po’ autoritaria la sicurezza con cui il nero
separa ciò che ha il suo colore dallo sfondo, ma posso imparare anche a
cogliere la freddezza del nero, il suo aristocratico contegno che non solle-
cita il nostro sguardo con un colore particolare. Non posso dimostrarti che
il nero ha un tratto autoritario, ma posso cercare di mostrarti come e che
cosa devi guardare per vederlo. Non posso disputare, ma posso discorrere
– questo diceva Kant.
Due premesse sono necessarie per comprendere appieno queste conside-
razioni. La prima ci invita a sciogliere un dubbio. Può capitare, scriveva
Carneade, di confondere una corda con un serpente e può accadere che
guardando con maggiore attenzione ci si renda conto dell’errore. Una volta
che l’inganno è stato dissipato, tuttavia, non possiamo fare altro che vedere
una corda: in quel pezzo di canapa non riusciamo più a vedere qualcosa
che striscia e ci chiediamo come sia stato possibile confondere cose tanto
diverse. La percezione è intollerante e ha cattiva memoria: ciò che ora per-
cepiamo sbarra per sempre la porta a quel che credevamo di percepire. Così
29 Questa distinzione può essere ulteriormente approfondita, osservando in primo luogo che posso im-
parare a guardare qualcosa e che, correlativamente, è possibile anche insegnare a qualcuno a guardare in un certo modo: posso volgere gli occhi nella direzione che tu mi indichi e posso guardare come tu
mi chiedi. Non posso invece imparare a vedere: che io veda questo o quello è un fatto che accade se vi
sono le condizioni per le quali può accadere. Puoi insegnarmi come devo guardare quella nuvola e posso obbedirti passo dopo passo, ma questo non basta ancora perché io riesca a vedere quello che mi
chiedi. Il vedere è un verbo che indica un accadimento e tutti abbiamo qualche volta dovuto constatare
che non riusciamo sempre a vedere quel che pure si può vedere in un disegno. Ci si dice di guardare così e noi obbediamo, ma non per questo necessariamente vediamo quel che ci era stato promesso
138
stanno le cose per la percezione – almeno così stanno nella norma, ma se
rivolgiamo la nostra attenzione agli aspetti figurativi siamo costretti a os-
servare che qui le cose sono assai meno rigide. Se il nero mi sembra tetro,
non per questo debbo rinunciare a vederne anche la piega autoritaria o a
coglierne la freddezza: qui la regola dell’intolleranza non sembra appli-
carsi. E se le cose stanno così, non dovremmo sostenere forse che gli aspetti
figurativi non sono datità intuitive? Non dovremmo cogliere in questa li-
bertà che ci consente di interpretare in un modo o nell’altro gli stessi ma-
teriali percettivi un segno del fatto che non ci muoviamo sul terreno per-
cettivo, ma su un diverso terreno – sul piano delle convenzioni o delle in-
terpretazioni? Venire a capo di queste difficoltà significa, io credo, ram-
mentare la natura degli aspetti figurativi, il loro essere proprietà terziarie
che non riguardano le cose come sono in se stesse, ma il modo del loro
apparire. Ora, una moneta ha un’unica forma, ma può apparirci in molte e
diverse forme, a seconda della posizione che occupa rispetto a noi. Uno
stesso discorso vale per gli aspetti figurativi: uno stesso colore non può
avere proprietà contrastanti, ma può apparire in molti e diversi modi. Non
siamo disposti a dire che il nero ci sembra scuro – una simile affermazione
suonerebbe ironica o semplicemente priva di senso – ma possiamo senz’al-
tro dire che a noi il nero sembra lugubre, anche se ad altri sembra invece
freddo, elegante, deciso o aristocratico. Qui la parola «sembra» è di casa,
ma non certo per avanzare un dubbio e nemmeno per tacitare l’evidenza
percettiva che accompagna l’afferramento degli aspetti figurativi. Tutt’al-
tro: se di questa parola ci avvaliamo è per proprio per sottolineare la natura
percettiva di queste esperienze e, insieme, il loro carattere essenzialmente
prospettico.
È questa la seconda premessa cui alludevamo: gli aspetti figurativi sono
datità intuitive, ma la possibilità di afferrarli riposa sulla nostra capacità di
assumere la giusta prospettiva – quella prospettiva che sola li dischiude.
Riconoscere il carattere prospettico degli aspetti figurativi non significa
dunque sottolineare soltanto la possibilità che uno stesso oggetto riveli
aspetti contrastanti, ma vuol dire anche porre l’accento sul nesso che lega
il loro afferramento alla dimensione degli orientamenti soggettivi che sor-
reggono la prassi percettiva.
A partire di qui il senso delle considerazioni kantiane sembra chiarirsi
ulteriormente. Gli aspetti figurativi hanno natura intuitiva, ma per afferrarli
è necessario, talvolta, discutere, e discutere significa persuadere e indiriz-
zare, senza per questo pretendere di argomentare, perché l’ultima parola
139
spetta a una percezione senza parole. «Prova a guardare così il bianco:
come se fosse innanzitutto silenzioso» – è questo quello che Kandinsky ci
dice, e non è affatto detto che sia questo il modo in cui innanzitutto il
bianco ci colpisce. Paul Klee è di un altro avviso: del bianco ci dice che è
innanzitutto privo di vita. Non così Melville che nel suo Moby Dick dedica
un capitolo al bianco che gli appare tanto disumano quanto metafisica-
mente vero, proprio perché svela l’essenza incolore del cosmo, il suo essere
misteriosamente bianco al di là ogni colorata illusione:
E’ forse perché con la sua indefinitezza, adombra i vuoti e le immensità disumane
dell’universo e, in tal modo, ci colpisce alle spalle con il pensiero dell’annulla-
mento, quando contempliamo le bianche profondità della Via Lattea? O è forse per-
ché, nella sua essenza, il bianco non è tanto un colore quanto l’assenza visibile del
colore e, al tempo stesso, la fusione di tutti i colori; è forse per questi motivi che c’è
una così muta vacuità, piena di significato, in un vasto paesaggio nevoso – un inco-
lore onnicolore d’ateismo dal quale rifuggiamo? e quando consideriamo quell’altra
teoria degli scienziati, secondo la quale ogni diversa tinta terrena – ogni imponente
o aggraziata coloritura – i dolci riflessi dei cieli e dei boschi al tramonto […] e i
velluti dorati delle farfalle, e le guance di farfalla delle giovanette, non sarebbero
altro se non inganni sottili, non veramente inerenti alle sostanze, ma deposti su di
esse dall’esterno, così che ogni cosa la natura che abbiamo deificata dipinge né più
né meno che una prostituta, i cui allettamenti non fanno altro che nascondere l’in-
timo corrompimento; e quando, procedendo oltre, consideriamo che il mistico co-
smetico il quale produce ciascuna tinta, il grande principio della luce, rimane pe-
rennemente bianco e incolore in sé, e che, ove operasse senza tramiti sulla materia,
toccherebbe ogni oggetto, persino i tulipani e le rose, con la sua tinta senza colore
– quando consideriamo tutto questo, l’universo ammorbato sembra disteso sotto i
nostri occhi come un lebbroso; e come il viaggiatore ostinato in Lapponia, che ri-
fiuta di portare occhiali colorati e coloranti, allo stesso modo il povero infedele
perde la luce degli occhi fissando il monumentale sudario bianco che avvolge ogni
aspetto del mondo che lo circonda. E di tutte queste cose la balena albina era il
simbolo. Vi stupisce dunque la caccia accanita? (H. Melville, Moby Dick, cap.
XLII).
Tra questi molteplici modi di riferirsi al bianco per scoprirne la nascosta
espressività non avrebbe senso chiedersi quale sia quello vero. L’abbiamo
osservato: non possiamo argomentare nulla, ma questo non significa che
non sia possibile discutere, perché anche se infine qualcosa deve colpirci
nella sua datità percettiva – anche se infine dobbiamo riuscire a scorgere
nel bianco ciò che lo fa apparire silenzioso, privo di vita o disumano – ciò
non toglie che possa essere necessario, per riuscirci, ascoltare le parole di
chi sa guidarci verso quell’esperienza. Possiamo discuterne, perché qual-
che volta è necessario lasciarsi guidare verso una scoperta che è possibile
solo se accettiamo di disporci in una prospettiva di ascolto dei fenomeni
140
che è diversa dalla nostra e che ci parla attraverso le voci di un mondo che
è profondamente differente dal nostro. Faccio fatica a cercare nel bianco
ciò che Melville vi scorge, perché per me il bianco ha la forma serena e
ricca di promesse delle cose all’inizio: è la tovaglia bianca che si stende sul
tavolo prima del pranzo. Ma anche se talvolta facciamo fatica, possiamo
egualmente lasciarci persuadere, nella certezza che comunque non per-
diamo nulla del nostro se accettiamo di guardare con gli occhi degli altri.
«Prova a guardare così!» è insomma la prima mossa di un nuovo gioco che
non esclude altri giochi; tutt’altro: ci insegna a capire come gli aspetti fi-
gurativi che cogliamo nelle cose ci parlino anche della prospettiva da cui
le abbiamo guardate. Ci insegna che sono a portata di mano possibilità dif-
ferenti, se abbiamo la pazienza e la voglia di accettare altri giochi che ci
invitano ad assumere altre e diverse prospettive.
3. Gli aspetti figurativi e l’immaginazione situata
Nelle considerazioni che abbiamo appena svolto abbiamo cercato di far
luce sulla natura degli aspetti figurativi e sul loro carattere prospettico. Pro-
prio su questo punto, tuttavia, siamo rimasti ancora troppo nel vago: ci
siamo affidati ad un’immagine – l’immagine del variare degli aspetti al
mutare del punto di vista – che non può essere presa alla lettera e che con-
tiene un riferimento univoco alla spazialità che non può essere mantenuto.
Per riuscire a cogliere la malinconia del tramonto che tu mi mostri dob-
biamo probabilmente condividere alcuni tratti che appartengono alla nostra
natura di animali diurni, non un determinato punto di vista prospettico: se
non riuscissi a cogliere la malinconia del tramonto non avrebbe alcun senso
chiedermi di spostarmi un poco a destra o a sinistra o di piegare il capo.
Certo, può accadere che gli aspetti figurativi si colgano meglio da un
determinato punto di vista – un tronco può sembrarci minaccioso solo se
lo guardiamo da una prospettiva particolare – ma nella norma le cose non
stanno così, e per rendersene conto è forse opportuno soffermarsi su ciò
che accade quando cerchiamo di condividere con qualcuno la percezione
di un qualche aspetto figurativo. In questi casi parliamo per condurre chi
ci ascolta alla meta, ma per farlo non ci limitiamo a dire dove deve fissare
lo sguardo, come faremmo se dovesse trovare un volume in un grande scaf-
fale, ma ci diffondiamo in descrizioni cariche di elementi immaginativi che
hanno, come loro obiettivo, il compito di disporci appunto nella giusta pro-
spettiva, in quel peculiare ordine di idee e di pensieri che rende compren-
141
sibile un'immagine. Non abbiamo argomenti, ma possiamo trovare le pa-
role che motivano immaginativamente la prospettiva che dischiude
l’aspetto figurativo che abbiamo colto e che vorremmo che altri cogliesse.
Questo può avvenire in molti modi. Può accadere accostando immagine
ad immagine, in un gioco coerente che trascina l’interprete passo dopo
passo in un ordine di pensieri che si legano gli uni agli altri, in una costel-
lazione di immagini che fanno eco le une alle altre, facendoci infine sentire
la voce che da esse promana. La sera del dì di festa è pervasa da un pen-
siero che ha le tinte cupe di una metafisica dell’esserci: ci ricorda che la
natura e il mondo permangono in un quieto ed eterno presente senza me-
moria ed attesa e che questa eternità silenziosa racchiude in sé un verdetto
di condanna del tempo umano, del suo affaticarsi nella pretesa del ricordo
e della speranza. Tutto ci conduce verso questo pensiero, in un gioco di
immagini che sottolineano questa frattura. Da una parte vi è la dolcezza
appagata e il silenzio, la vastità serena e diafana degli spazi, dischiusa dalla
luce della Luna che si diffonde al di là dei rifugi e delle fatiche degli uo-
mini, rendendo visibilmente presente l’infinità della natura; dall’altra vi è
il tempo umano che ci appare nelle forme evanescenti di un fragore non
più percepibile, di voci che si spengono e che infine si perdono, poiché
«tutto posa il mondo» . Così, alla lontananza serena di interminati spazi e
ai sovrumani silenzi di un presente senza tempo fa eco – in un contrappo-
sizione sottile tra la temporalità dell’udito e l’atemporalità della vista – la
lontananza che si crea nel perdersi del canto dello zappatore che si allon-
tana lungo il sentiero – questa metafora così immediata della vita che ci
appare qui come un breve condividere nel tempo uno spazio che esiste in-
finto ed eterno in se stesso. Un’immagine si lega alle altre e l’una getta luce
sull’altra, delineando così un paesaggio immaginativo coerente che indi-
rettamente indica i pensieri che lo attraversano, rivelandoci quale sia la
prospettiva che ci consente di penetrare in quell’universo immaginativo.
Ma è possibile anche un diverso cammino. Possiamo penetrare in un’im-
magine, approfondendola, ed è così che fa Poe quando in un suo racconto
– La botte di Amontillado – ci costringe a comprendere l’orrore di una ven-
detta covata a lungo nell’oscurità dell’anima, invitandoci dapprima a se-
guire il cammino di Fortunato e Montresor in una lunga sequenza di stanze
che si aprono e si chiudono l’una nell’altra, per scendere poi in una cantina
che si rivela essere poi una catacomba in cui sono seppelliti gli avi di Mon-
tresor. In fondo alla catacomba, chiusa in una botte, vi è il vino prezioso,
che Fortunato non assaggerà, verrà murato vivo in un antro delle grotte per
142
vendetta dall’amico. Qui un’unica immagine si ripete, passo dopo passo,
ampliandosi e approfondendosi, guidando il lettore verso la meta.
Le forme sono varie, ma ciò che accade ripete un copione unico. La nar-
razione immaginativa rende conto degli aspetti figurativi, li illumina e li
rende più ricchi e, allo stesso tempo, offre immaginativamente un intreccio
di ragioni che sembra condurci ad essi. In fondo, è questo che Melville fa
nelle pagine su cui ci siamo dianzi soffermati: ci racconta quali sono i mo-
tivi che sembrano giustificare quell’aspetto della bianchezza che lo turba –
e non vi è dubbio che questi motivi appartengano alla dimensione imma-
ginativa. Così accade in Melville, ma così accade anche nelle pagine di
Kandinsky e di Klee che ci invitano a scorgere il carattere del bianco, mol-
tiplicando le immagini, in un gioco che ha, tra le altre cose, la funzione di
metterci passo dopo passo nella posizione migliore per cogliere una pro-
prietà figurativa, una possibilità espressiva che comunque appartiene a
quel colore e che possiamo cogliere in esso.
Credo che queste considerazioni possano essere generalizzate e che ci
consentano di gettare un ultimo raggio di luce sulla tesi kantiana intorno a
cui ragioniamo. Si può discorrere delle proprietà figurative, perché pos-
siamo cercare di condurre chi ci ascolta a guadagnare la giusta prospettiva
sulle cose – quella che dischiude ciò che noi stessi abbiamo colto. Per farlo,
tuttavia, dobbiamo disporci sul terreno dell'immaginazione: dobbiamo si-
tuare chi ci ascolta rispetto a ciò che deve esperire e possiamo farlo solo
espandendo immaginativamente l’aspetto figurativo che ci ha colpito, po-
nendolo in un contesto di motivazioni immaginative che lo dispiegano e
che lo rendono immediatamente comprensibile. «Guardalo così il bianco,
come se fosse quello che resta visibile quando liberiamo il mondo dalla
rete delle apparenze soggettive e delle forme umane della percezione.
Guardalo come se fosse il colore che le cose hanno prima di colorarsi per
noi» – è questo che Melville ci dice e si tratta evidentemente di giochi im-
maginativi, ed è questo che, secondo Kivy, fa il critico quando ci invita ad
ascoltare un brano musicale, intendendolo alla luce di una narrazione mi-
nimale, di una narrazione senza racconto che istituisce un gioco di do-
mande e risposte, di motivazioni e di reazioni tra le molteplici risonanze
espressive che cogliamo passo dopo passo nello sviluppo di una sonata30.
30 «Il punto a cui voglio arrivare è il seguente. Così come durante la lettura di un romanzo noi pensiamo
a ciò che stiamo leggendo, formuliamo ipotesi su ciò che accadrà in seguito, abbiamo aspettative –
alcune delle quali verranno frustrate, mentre altre invece si avvereranno – e così via, allo stesso modo
ci comportiamo anche nell’ascoltare seriamente, con concentrazione, la musica assoluta. Le opere mu-sicali hanno “trame”: ovviamente non trame con personaggi in azione; ma piuttosto trame puramente
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Possiamo allora trarre la conclusione verso cui convergono le nostre ana-
lisi: gli aspetti figurativi hanno natura prospettica e si colgono solo se li
osserviamo dalla giusta prospettiva. Porsi nella giusta prospettiva, tuttavia,
non significa in questo caso assumere un luogo nello spazio tra gli altri, ma
vuol dire invece condividere alcuni tratti rilevanti della natura, dei pensieri,
degli atteggiamenti e della forma di vita di chi riesce a scorgere in una
situazione data un insieme di aspetti figurativi. L’abbiamo già osservato: il
tramonto è malinconico per noi uomini, ma non lo sarebbe forse se fossimo
animali notturni, e inscena il chiudersi dello spettacolo del mondo solo per
un animale prevalentemente visivo come noi siamo e per un soggetto che
condivida con noi molti altri pensieri che spaziano dalla consapevolezza
del tempo al suo essere per noi limitato e tuttavia scandito nell’avvicen-
darsi dei giorni. Trovare la giusta prospettiva significa appunto condividere
molte cose con chi di fatto a quella prospettiva appartiene.
Di qui il primo compito dell’immaginazione: nella rete di motivazione
che l’immaginazione stende intorno agli aspetti figurativi, nel suo raccon-
tarli in vario modo, dispiegandone il senso e ampliandone la risonanza, si
determina insieme la prospettiva che consente a ciascuno di noi di rivol-
gere la sua attenzione al mondo per trovarvi ciò che altri vi ha esperito. Se
vogliamo fissare le coordinate di quel punto di vista da cui qualcosa ci si è
manifestato così come si è manifestato non abbiamo altro mezzo che porci
sul terreno dell’immaginazione, per dispiegare gli aspetti figurativi che ab-
biamo colto in una narrazione elementare che consenta di afferrarli meglio.
Posso spiegarti come devi ascoltare una successione di suoni per coglierne
gli aspetti figurativi, ma per farlo non posso fare altro che proporti una serie
di immagini: debbo chiederti di disporre la scena percettiva in una narra-
zione elementare che renda perspicua quella possibilità di ascolto che si è
realizzata per me. Chiedendoti di immaginare, ti mostro come devi cercare
di percepire ciò che mi ha colpito in un determinato modo e, insieme, ti
svelo qual è la prospettiva che mi appartiene – quella da cui si percepiscono
proprio queste proprietà figurative.
Si può dire che, in questo senso, l’immaginazione ci situa, ma può farlo
solo perché è essa stessa a sua volta situata. Può dire dove siamo perché,
musicali; eventi sonori che accadono, come aveva sostenuto Hanslick, con una “logica” o un “senso” musicale che producono una connessione. Quando seguiamo queste trame, facciamo quasi la stessa
cosa di quando seguiamo la narrativa di finzione. Giochiamo con esse al gioco della domanda e rispo-
sta» (P. Kivy, Filosofia della musica, Einaudi, Torino 200x, p. ).
144
nel suo dar vita alle immagini, è guidata e sorretta da pensieri e da prese di
posizione che ci appartengono e ci caratterizzano culturalmente e storica-
mente.
Siamo così tornati in prossimità del secondo quesito cui intendevamo
dare risposta: dobbiamo in altri chiederci se l’immaginazione immaginosa
obbedisca davvero esclusivamente alle sue ragioni – se vi sia, in altri ter-
mini, un’immaginazione pura. A questa domanda possiamo ora dare una
risposta negativa. Le immagini sorgono dagli aspetti figurativi, ma non
coincidono con essi: ne sono piuttosto una libera espansione, una narra-
zione elementare che apre in una direzione determinata la scena percettiva.
In una direzione determinata, questo è il punto: le immagini nascono dagli
aspetti figurativi, ma non sono contenute in essi e di fatto sorgono quando
ciò che esperiamo è disposto in un orizzonte narrativo più ampio, in una
catena di motivazioni immaginative e di pensieri che da un lato ci consen-
tono di articolare l’esperienza che abbiamo, dall’altro la piegano verso un
significato più ricco.
Non è un caso che ciò accada. Di per sé, un volto corrucciato e un com-
portamento inquieto non dicono ancora molto: parlano invece con chia-
rezza quando ci appaiono sullo sfondo di un contesto di azioni e di accadi-
menti che motivano quei gesti e quelle espressioni. Uno stesso volto in-
quieto ed una stessa gestualità possono accompagnare vicende diverse ed
esprimere differenti forme della preoccupazione. Il gioco dei gesti e delle
espressioni non ha la finezza di grana delle emozioni che pure veicola, ma
questo significa che comprendere un’espressione o intendere un gesto non
significa soltanto osservarlo con attenzione, ma coglierlo nel suo apparte-
nere ad un contesto più ampio, che tra le altre cose specifica in una dire-
zione determinata il senso che deve essere attribuito a piccole sfumature
altrimenti irrilevanti. So che sei preoccupato per una notizia che tarda ad
arrivare e per questo vedo che la tua inquietudine ti tiene inchiodato vicino
al telefono e ti nega ogni comportamento che potrebbe distoglierti dall’ar-
rivo della notizia sperata. Si è preoccupati in molti modi e sarebbe sba-
gliato, io credo, ritenere che a mutare sia soltanto l’oggetto delle nostre
cure: ciò che mi preoccupa determina la natura della mia inquietudine ed è
diverso crucciarsi per una notizia che non arriva o per la malattia di un
malato, per un lavoro che si deve finire per tempo o in generale per il fu-
turo, per un pericolo imminente o per una sventura lontana nel tempo.
Emozioni e sentimenti sono molto più che stati d’animo e il loro senso si
dischiude solo nel loro essere parti di un contesto più ampio.
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Del resto, il percorso che compiamo per comprendere meglio un gesto o
un atteggiamento espressivo è lo stesso che dobbiamo percorrere per va-
gliare se la persona che ci sta di fronte prova davvero le emozioni che
esprime, e la sicurezza di giudizio che così facendo acquisiamo è tale da
non lasciarsi smuovere troppo nemmeno dalle proteste di chi vive gli stati
d’animo che crediamo di cogliere. Fa parte della natura dei nostri giochi
linguistici la possibilità di attribuire ad altri, e persino a noi stessi, uno stato
emotivo al di là del suo essere consapevole in un vissuto determinato: ca-
pisco di essere inquieto perché non riesco a stare seduto a lavorare, perché
guardo troppo spesso l’orologio o perché non tollero qualche piccolo fasti-
dio che mi capita o perché mi arrabbio per nulla. Capisco di essere inquieto
come può capirlo chi mi osserva dall’esterno, e me ne rendo conto anche
se il vissuto dell’inquietudine resta sopito e non si fa strada sulla scena
della coscienza.
Uno stesso discorso vale per gli aspetti figurativi che si arricchiscono nel
loro senso e si consolidano nella loro stessa manifestatività quanto più
l’immaginazione li narra e li dispone in un contesto che consente loro di
dispiegarsi nel loro senso. Non possiamo non cogliere il carattere un poco
inquietante che accompagna il nostro calarci in un pozzo o anche, sempli-
cemente, il nostro discendere gradino dopo gradino, la scala che ci conduce
verso la cantina e che ci spinge dalla luce verso l’oscurità. Proviamo disa-
gio, ma questa atmosfera indefinita che accompagna il nostro scendere
verso un luogo buio e nascosto si arricchisce di senso non appena la nar-
riamo in una forma determinata – non appena cerchiamo di motivarla im-
maginativamente. Un motivo reale di quel disagio non c’è, perché non vi
sono motivi reali di proprietà irreali; e tuttavia proprio l’assenza di una
giustificazione reale ci consente di immergerci nell’immaginazione e di
cercare su questo terreno una ragione immaginativa di quel disagio. Questo
processo può assumere la forma di un’immaginazione mascherata: scen-
diamo le scale che portano in cantina e qualcuno ci domanda inquieto se
laggiù non vi siano ragni e scarafaggi o topi – se non vi sia cioè una ragione
reale per un disagio di cui non si conoscono le ragioni. Ma può assumere
anche la forma di un’immaginazione consapevole che si lascia guidare dai
pensieri che ci animano e che orientano la nostra percezione di quegli
aspetti figurativi.
La discesa verso un luogo nascosto che si apre sotto la terra che dovrebbe
sorreggerci è inquietante, ma per dare a questo disagio una voce definita
possiamo pensarla alla luce di un’immaginazione coerente dello spazio e
146
della luce, così come fa Dante nella costruzione immaginativa del suo In-
ferno. Qui la discesa agli inferi appare sempre più chiaramente nella forma
di uno sprofondare che si dispiega e si arricchisce di senso nella sua con-
nessione immaginativa con la pesantezza del peccato, con il suo trascinarci
verso il basso, in una caduta che sembra inarrestabile e che è degradante
per chi la vive. Ma il peccato non è solo un greve indice delle nostre bas-
sezze: è anche una macchia che rende torbida la nostra coscienza che di-
viene proprio per questo nera come il peccato. Così, accanto al progressivo
discendere di Dante si disegnano le immagini dei dannati che sprofondano
nel male e nella sua oscurità: nel fango livido di Ciacco, negli di avelli di
Farinata e Cavalcante, nelle tombe a testa in giù “come pal commessi”,
nella ghiaccia “mettendo i denti in nota di cicogna”, giù giù fino allo spro-
fondare metafisico nelle bocche di Lucifero, che tormentano i dannati “a
guisa di maciulla”. Alla pesantezza e all’oscurità del male fa eco il cam-
mino faticoso di Dante che scende per sentieri incerti, per scale e pertugi,
fino ad esser costretto ad assaporare l’angoscia del sottrarsi della terra di
sotto ai piedi, in quella lenta caduta o in quella fredda immersione cui
Dante è costretto quando deve discendere sino a Malebolge sulle spallacce
di Gerione, la fiera dalla coda aguzza. Infine, accompagnato dal rumore
sordo che le acque del Letè, appesantite dai peccati che hanno dilavato,
fanno cadendo verso le acque infernali del Cocito, Dante risale dall’oscu-
rità alla luce, dal buio gelido di Giudecca alla notte stellata che lo accoglie
ai piedi del Purgatorio. In fondo, si potrebbe leggere così questo cammino:
come un modo grandioso di rendere immaginativamente ragione di un
aspetto della nostra esperienza dello spazio – di renderne ragione, tuttavia,
alla luce di una molteplicità di pensieri e di credenze, che rendono quel
nostro sentire parte di un mondo che siamo chiamati a condividere e che
accoglie nel suo esserci le nostre convinzioni più profonde e le nostre esi-
genze etiche, estetiche e religiose.
Di qui, dai pensieri che ci animano e dalle forme di vita in cui siamo
immersi, prendono forma le narrazioni elementari di cui discorriamo. Le
immagini non nascono dal nulla, e non sono nemmeno l’eco passiva degli
aspetti figurativi di cui abbiamo esperienza: sono il modo in cui, a partire
dalla nostra vita, raccontiamo gli aspetti figurativi della nostra esperienza.
Anche quando l’immaginazione non è asservita ad un fine non per questo
è un’immaginazione pura.
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4. Un mondo condiviso
Le considerazioni che abbiamo appena proposto avevano un fine ben pre-
ciso: volevano mostrare come le immagini si radichino non soltanto nella
nostra esperienza, ma dipendano anche dalla natura dei nostri pensieri,
dalla situazione particolare che ci è propria. Le immagini sono, in questo
senso, prospettiche in un duplice senso: la loro narrazione dipende da pen-
sieri e forme di vita, ma allo stesso tempo si radica in aspetti figurativi che
sono, come sappiamo, essi stessi prospettici.
Di qui il compito che le immagini propongono a chi cerca di compren-
derle. Le immagini ci propongono innanzitutto una sorta di esperimento
immaginativo: ci invitano a cercare di cogliere un certo aspetto figurativo
alla luce di una narrazione elementare. Le foglie, quando sono secche, ca-
dono e quando cadono sono fragili; anche il loro cadere, tuttavia, ci appare
alla luce di una leggerezza priva di vita: il cadere delle foglie è un “cader
fragile”. Se vogliamo comprendere quest’immagine, tuttavia, non pos-
siamo limitarci a ciò che vediamo e a vario titolo esperiamo, ma dobbiamo
cercare di leggerla alla luce della narrazione immaginativa che ne fa Pa-
scoli. «Puoi intendere così il cadere fragile delle foglie: come se in quel
cadere si mettesse in scena per noi la precarietà di tutte le cose, la loro
natura fragile e sospesa» – è questo l’esperimento immaginativo che l’im-
magine ci propone.
Le immagini non dicono come stanno le cose: il cadere delle foglie non
è fragile – un’immagine non contiene un giudizio in senso proprio, e non
pretende di essere né vera, né falsa. Quando diciamo che il cadere delle
foglie è fragile non intendiamo affermare un fatto; rammentarlo significa
solo sottolineare per altra via che le immagini appartengono alla dimen-
sione dell’immaginazione in senso pregnante e non si pongono quindi sul
terreno dell’essere31. Le immagini non constatano come è fatto il mondo,
ma non dicono nemmeno in una forma allegorica quello che potrebbe es-
sere altrimenti detto alla lettera: non ci invitano a rammentare qualcosa che
sappiamo bene, ma che preferiamo non dire in un linguaggio piano e cioè
che la vita passa in fretta e che non c’è cosa che non abbia in sé le stigmate
della finitezza.
Su questo punto si deve insistere. Un’immagine non è un’allegoria: non
è una veste letteraria che si aggiunga ad un significato che potrebbe essere
31 Su questo punto si veda Piana 1979: .
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altrimenti detto. Crederlo vorrebbe dire fraintendere la natura delle imma-
gini e privarle della loro autonoma sensatezza. E tuttavia dire così non si-
gnifica affermare che vi sia un qualche significato peculiare, altrimenti
inaccessibile alle parole e alla ragione, che le immagini saprebbero miste-
riosamente veicolare. Dire che le immagini non hanno un significato che
si possa dire a parole non significa affermare che sono capaci di dire l’inef-
fabile: vuol dire invece richiamare l’attenzione sul fatto che le immagini
non dicono, ma chiedono qualcosa: ci invitano a cogliere un aspetto figu-
rativo alla luce di una narrazione particolare. Il cadere delle foglie a no-
vembre non è fragile – non può esserlo e l’immagine non può suggerire
quello che non si può dire alla lettera, né essere il viatico di un senso inef-
fabile. Il «cader fragile» delle foglie novembrine non è la cifra dell’indici-
bile, ma un invito a disporre quel lento cadere privo di vita in un contesto
immaginativo dominato dai pensieri della precarietà e della disillusione,
del silenzio e del vuoto, del freddo e della mancanza di vita – dai pensieri,
insomma, che attraversano i versi di quella poesia di Pascoli.
Ora, sottolineare la dimensione prospettica delle immagini significa an-
che comprendere la dimensione pragmatica dell’esperimento che le imma-
gini ci invitano a compiere. Un’immagine non ci propone soltanto un certo
modo di raccontare il mondo: ci invita anche a disporci nella prospettiva
che rende accessibile l’immagine stessa e che insieme rende pienamente
esperibile e determinato nel suo senso un qualche aspetto figurativo. Tor-
niamo al nostro esempio. L’immagine ci chiede di immaginare il cadere
fragile delle foglie alla luce dell’universo di pensieri e di decisioni che
orientano il progetto immaginativo di quella poesia. Ora, non è affatto detto
che questi pensieri e queste decisioni ci appartengano; tutt’altro: possiamo
anche esserne lontani come nella norma accade a chi ha letto quella poesia
quando era poco più di un bambino. Di qui l’esperimento che siamo chia-
mati a compiere: dobbiamo provare a pensare così e dobbiamo tentare di
acclimatarci all’universo di valori che si fanno avanti in quella narrazione
elementare perché questo è il prezzo che deve essere pagato se vogliamo
penetrare nel senso dell’immagine che, a sua volta, è lo strumento che pos-
sediamo per tentare di impadronirci dei pensieri che ci consentono di com-
prenderla.
Da questa circolarità non possiamo liberarci, ma dobbiamo invece sotto-
lineare che in essa si esprime una dimensione importante dell’immagina-
zione. Le immagini presuppongono una qualche comunanza: le compren-
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diamo solo se condividiamo qualcosa con chi le propone. A questo presup-
posto fa tuttavia da contrappunto la constatazione che le immagini sono a
loro volta veicolo di un accomunamento: l’immagine ci propone una nar-
razione elementare che possiamo far nostra solo se accettiamo di lasciarci
guidare dai pensieri che hanno condotto sino ad essa – solo se ci poniamo
dunque nella prospettiva di chi l’ha colta.
Nelle pagine della Critica della facoltà del giudizio Kant sottolineava
che l’esperienza del bello implica idealmente una comunità (§ 21), poiché
ci consente di scoprire che tutti ci rapportiamo in un identico modo alle
nostre facoltà. L’accomunamento di cui qui parliamo è meno ambizioso:
ci dice soltanto che un’immagine dispiegata è insieme un’immagine che ci
parla di un mondo condiviso. L’immagine propone un esperimento: il no-
stro condurlo in porto è un segno che un accomunamento vi è stato. Se
sappiamo fare quello che l’immagine chiede, possiamo assaporare insieme
il piacere di una condivisione: abbiamo saputo intendere un aspetto del
mondo alla luce di un progetto immaginativo che non ci apparteneva e che
affondava le sue radici in una forma di vita che non era necessariamente
identica alla nostra. Comprendere un’immagine significa allora condivi-
dere una narrazione immaginativa: vuol dire trovare il modo per farla no-
stra, acquisendo una prospettiva sul mondo che ci viene in qualche modo
suggerita dall’immagine stessa. Così, se i racconti si raccontano volentieri
non è solo perché non abbiamo altro modo per guidare l’immaginazione di
chi ci ascolta verso la meta che è dettata dalla comprensione dell’imma-
gine, ma è anche perché il raccontare è per sua natura una forma di acco-
munamento che crea una comunità sorretta esclusivamente dal sentimento
della condivisione.
Il presente ci chiama ad un accomunamento che è almeno in parte dettato
dalle cose stesse che chiedono per loro natura una cooperazione, ma è dif-
ficile che una comunità si fondi esclusivamente sul vincolo della realtà e
della sua urgenza. Si vive insieme perché il presente lo chiede, ma spesso
le comunità hanno bisogno di ancorare il loro insieme al rituale dei ricordi,
al gioco corale delle narrazioni memorative e alla celebrazione delle feste
che tengono insieme un gruppo e che, proprio per questo, chiedono di non
essere dimenticate. Non puoi dimenticarti dei compleanni e degli anniver-
sari dei tuoi familiari, perché anche su queste cose si misura e si rafforza
la solidità di un gruppo di amici o di una famiglia. Può capitare che ci si
dimentichi, ma in questi casi qualcuno potrebbe rimproverarci perché non
avremmo dovuto dimenticarcene, e di fatto ci sentiamo colpevoli di un
150
torto che non avremmo dovuto commettere. Vi è dunque un’etica del ri-
cordo che pretende da noi che non si dimentichino certe date o certi gesti
perché su di essi poggia quel comune riconoscimento che tiene insieme le
persone in un gruppo. Non vi è tuttavia soltanto un’etica del ricordo, ma vi
è anche qualcosa di simile ad un’etica dell’immaginazione: se vogliamo
trovarci bene insieme agli altri dobbiamo cercare di condividere una mol-
teplicità di narrazioni immaginative ed è anche per questo che sentiamo
così vivo il bisogno di raccontare e di condividere le immagini che sen-
tiamo nostre. L’immaginazione ha una piega corale, e le preoccupazioni
kantiane sul tema della comunicabilità del bello alludono in fondo a questo
problema: puntano l’indice sul fatto che immaginare è un fatto individuale
che vuole diventare collettivo e condiviso. È per questo che l’immagina-
zione si fa corale e rituale insieme, invitandoci a ripetere ciclicamente le
sue narrazioni per scandire la nostra vita. Le feste del calendario sono rac-
conti condivisi del tempo dell’anno, e lo sono anche i mille rituali che ac-
compagnano la nostra vita e che si caricano di valenze immaginative: per
ogni data importante della vita ci sono rituali che si ripetono e che è neces-
sario ripetere, perché sono dettati da un’etica dell’immaginazione che ci
chiede un accomunamento.
Tuttavia, che l’immaginazione abbia una funzione di accomunamento è
un fatto che merita di essere sottolineato non soltanto perché vi è un piacere
che accompagna il sentirsi uniti dall’appartenenza ad una narrazione co-
munitaria, ma anche perché nell’accomunamento immaginativo prende
forma un mondo condiviso. L’accomunamento è accomunamento rispetto
ad un mondo che l’immaginazione ci insegna a cogliere alla luce delle no-
stre convinzioni e dei nostri valori, della nostra sensibilità e delle nostre
emozioni, dei nostri desideri e delle nostre paure. La realtà, invece, è in
linea di principio indipendente dalle nostre esigenze e dalla nostra vita: il
mondo non è il nostro mondo, e questa pretesa che deve essere appunto
negata in linea generale ha tuttavia una sua validità che non si situa sul
terreno della metafisica, ma nella constatazione ovvia che il mondo così
come lo conosciamo dipende innanzitutto dalla nostra sensibilità e dal
modo in cui lo comprendiamo e in cui cerchiamo di renderne conto. Ci
muoviamo in un mondo che è innanzitutto presente per noi nelle forme che
dipendono dalla nostra natura sensibile: gli oggetti per noi hanno colori e
sapori e ci appaiono grandi o piccoli in relazione al nostro corpo o alla
prassi che vi si relaziona. Il mondo è innanzitutto il mondo della vita e si
articola in eventi che consideriamo rilevanti o irrilevanti, in cose che ci
151
sembrano utili o dannose, piacevoli o disgustose o semplicemente indiffe-
renti. Il mondo è così come lo vediamo e ne abbiamo esperienza, anche se
questo non significa che non sia un mondo che ha una sua indipendenza da
noi che lo esperiamo o che non sia possibile correggere le nostre esperienze
alla luce dell’esperienza stessa: il remo è integro, anche se ci appare spez-
zato quando lo immergiamo nell’acqua e l’erba è verde, anche se di notte
non riusciamo a distinguerne il colore. Il mondo della nostra esperienza
non è un sogno privato: è questo nostro mondo che si ritaglia nella nostra
esperienza, alla luce della forma stabile del nostro esperire.
Il mondo è dunque innanzitutto questo mondo che esperiamo e che ha
una sua tendenziale obbiettività, e tuttavia già sul terreno della nostra espe-
rienza quotidiana la dimensione dell’obiettività sembra costringerci a rico-
noscere che le cose non sono così come ci appaiono in un senso più com-
plesso del termine. Il tramonto non è malinconico, il nero non è lugubre, lo
spazio non ha direzioni privilegiate, i suoni non sono carichi di affettività
e il cadere delle foglie non è affatto fragile – tutto questo lo sappiamo, e
non possiamo dimenticarcene perché ciascuna di queste tesi racchiude, se
la prendiamo alla lettera, un vero e proprio errore categoriale. Eppure, se il
mondo ci appare non soltanto come qualcosa che è, sia pure nelle forme
determinate dalla nostra presa sensibile sul mondo, ma come l’universo
sensato della nostra vita e come un campo di esperienze che ci insegnano
un’infinità di cose sulla nostra vita, ciò accade perché l’immaginazione ci
viene incontro e ci propone un insieme di narrazioni che ci consentono di
ritrovarci nelle cose, di dispiegare quel senso che troviamo in esse, anche
se non possiamo a rigore pensare che loro appartenga. La via verso il basso
non è diversa dalla via verso l’alto – e non c’è bisogno di Eraclito per com-
prenderlo. Lo sappiamo da sempre, e tuttavia ci basta sollevare la pietra
che copre un formicaio per sentire che là sotto brulica una vita inquietante
che non ci aspetteremmo di trovare in cima alle nuvole, e che il significato
di questa elementare poetica dello spazio si è arricchita e articolata proprio
nel gioco molteplice di esperienze di natura percettiva che tuttavia si con-
solidano sul terreno immaginativo.
Il punto è qui: il mondo reale è un mondo obiettivo che dobbiamo pensare
nella sua indipendenza dalla soggettività, ma il mondo in cui ci troviamo
vivendo è innanzitutto il mondo così come si dischiude alla nostra sogget-
tività percipiente, ma è poi anche il mondo in cui cerchiamo di ritrovarci,
narrandolo ogni volta daccapo, un mondo che si fa nostro e che si conso-
lida sul terreno immaginativo. Di qui ancora una volta l’importanza
152
dell’accomunamento immaginativo. Un mondo nostro può prendere forma
nell’immaginazione solo se l’immaginazione è condivisa, solo se la narra-
zione individuale si apre ad una narrazione collettiva e la narrazione col-
lettiva si piega ad una forma rituale, per quanto debole sia il significato
che vogliamo dare a questa parola. Le immagini più salde e irrinunciabili
sono quelle immagini che si sono ritagliate un posto nelle nostre consuetu-
dini, nei comportamenti condivisi, nel linguaggio, nelle forme che abbiamo
dato alla nostra vita.
Tutti noi sappiamo che il tempo ha una struttura lineare e irreversibile e
che ogni istante è il successore del suo antecedente – si tratta di verità pic-
cole che non hanno bisogno di teorie per essere apprese perché sono rac-
chiuse in mille esperienze che le presuppongono e che possono assumere
un senso emblematico. Sappiamo che ciò che è accaduto è accaduto una
volta per tutte e non si può tornare indietro; sappiamo che il futuro dipende
almeno in parte dal passato e che non esiste nel tempo un inizio assoluto,
perché ogni istante è in qualche misura già vecchio poiché il presente è
comunque il futuro di un passato. Lo sappiamo, e tuttavia il rito del calen-
dario e il suo proporci una narrazione del tempo che ci accomuna ci invita
a pensare tutt’altro e a immaginare l’anno passato finisca davvero e ne inizi
uno nuovo. Immaginiamo così perché ne sentiamo il bisogno e questa nar-
razione corale propone un’immagine del tempo che si consolida nei riti
degli auguri e delle bottiglie stappate con fragore, per mettere in scena il
nostro desiderio di un taglio netto, di una cesura che sia piena di nuove
promesse. L’etica dell’immaginazione rivela così il suo carattere di impe-
rativo ipotetico: ci chiede di immaginare insieme agli altri per attribuire
solidità ad una costruzione immaginativa, ad un abito che si sovrappone al
mondo obiettivo e che non chiede di essere creduto, ma egualmente pre-
tende di essere ritrovato, anno dopo anno, come qualcosa che ha la sorda
ripetitività delle cose che sono.
5. L’immaginazione e il suo compito
L’immaginazione, scriveva Hume, è una facoltà libera, e libera in partico-
lar modo sembra essere l’immaginazione in senso pregnante poiché non si
muove sul terreno della realtà e non è costretta a condividerne i vincoli. E
tuttavia, per quanto sia libera, anche l’immaginazione in senso pregnante
ha un compito cui deve assolvere e che non può essere delegato ad altri.
L’abbiamo osservato: il mondo ci appare innanzitutto come questo nostro
153
mondo che si costituisce per noi nelle forme della nostra esperienza per-
cettiva e che si manifesta come una realtà ricca di senso, e comunque de-
terminata dalle forme e dai modi del nostro esserci. Ci appaiono afferrabili
gli oggetti che hanno una dimensione adatta alle nostre mani, leggeri gli
oggetti che non mettono alla prova le nostre forze, gelidi i venti che raf-
freddano il nostro corpo e in generale le cose sono percepite in ragione di
una misura che ha nel nostro corpo un criterio rilevante. Uno stesso di-
scorso vale per molte delle proprietà che le cose rivelano alla percezione:
alcune cose le percepiamo come cibi, altre pericoli, altre ancora (ma non
tutte) come oggetti che si possono utilizzare in vario modo e che sono come
tali orientate rispetto ad una prassi possibile. Anche il carattere degli eventi
si orienta rispetto al nostro esserci di persone. Alcuni eventi li esperiamo
così: come se avessero cause, altri come se avessero motivi. Non mi chiedo
che motivo abbia la trave per cedere sotto il peso di un carico eccessivo,
ma nel mondo che ci appartiene vi sono motivi che spiegano il gesto di un
persona o il comportamento di un animale. La nostra esperienza del mondo
è fatta così: non ci sono soltanto accadimenti, ma gesti, azioni, comporta-
menti.
Alla natura sensibile del mondo che percepiamo e al suo orientarsi ri-
spetto alle forme del nostro corpo e alla rete dei nostri bisogni, fa eco il
suo carattere espressivo. L’esperienza, in questo senso, non è affatto muta,
ma ci parla in molti modi: forme, colori, e suoni hanno una loro valenza
espressiva che accompagna la loro percezione e vi è una poetica dello spa-
zio, dei materiali, degli accadimenti che appartiene senz’altro alle forme
del nostro essere nel mondo che è essa pure indisgiungibile da quello che
vediamo e sentiamo. Un discorso analogo vale per le atmosfere che perva-
dono gli spazi della nostra vita: certe stanze sono anguste, un soffitto cupo
opprimente, un viottolo di campagna può farci sentire soli e nelle strade
antiche di una città si può percepire un senso di condivisione serena. Le
atmosfere ci sono e le percepiamo così come si percepiscono gli infiniti
aspetti figurativi che pervadono le cose e gli spazi della nostra esperienza
quotidiana.
Certo, fa parte del senso complessivo della realtà così come la esperiamo
la consapevolezza che il mondo è in se stesso una realtà obiettiva e che non
è possibile pensarlo realmente nelle forme e nei modi in cui si manifesta
sensibilmente ed emotivamente nella nostra esperienza. La realtà non è
come la percepiamo: il gioco delle luci ci insegna già sul terreno dell’espe-
rienza quotidiana che le cose non hanno un colore, ma solo una capacità di
154
reagire in vario modo alla luce e questa consapevolezza che si fa strada
insieme alla comprensione dei nessi reali tra le cose del mondo ci insegna
che il nostro mondo percettivo si perde ai margini e ha confini incerti, an-
che se questo non ci costringe ad abbandonarlo o a considerare insensate
le proprietà che lo caratterizzano.
Ancora più netto sembra essere il verdetto sulla dimensione espressiva
ed emozionale che caratterizza il mondo così come lo esperiamo. Fa parte
del senso complessivo della nostra esperienza del mondo la constatazione
che i tramonti non sono malinconici, le colline non sono dolci, l’atmosfera
di una giornata piovosa non è uggiosa e che il mare è davvero soltanto
questo – tanta, davvero tanta, acqua salata. Una stanza buia è malinconica,
ma non lo è realmente ed è per questo che se vogliamo renderla più vivibile
non cerchiamo di consolarla poiché non è realmente triste, ma la modifi-
chiamo nelle sue proprietà reali: la ridipingiamo di bianco, apriamo una
finestra, leviamo o spostiamo i mobili che l’arredano, e così via perché non
ci appaia più come prima ci si mostrava.
Si tratta di cose che abbiamo sempre saputo e che, in qualche misura,
sappiamo sempre meglio: una comprensione scientifica della natura ci co-
stringe infatti a prendere commiato dalle mille forme in cui nascostamente
il nostro mondo cerca di penetrare nel mondo obiettivo. Sul terreno del
mondo della distinguiamo già vita tra ragioni e cause, ma qualche volta è
difficile non rinunciare a cercare un motivo, anche là dove in realtà non ve
ne sono. Quando accade qualcosa che ci riguarda da vicino è difficile non
cercare motivi inesistenti: la catena della bicicletta che esce dagli ingra-
naggi nel giorno in cui si ha fretta per un appuntamento importante ha
cause reali di cui non dubitiamo, ma ci sembra anche parte di una congiura
ordita dal Caso e qualche volta ci lamentiamo del destino quando un evento
inatteso si inserisce senza ragione nella nostra vita, spingendoci a pensare
che ciò che è accaduto per caso fosse stato riservato proprio per noi.
Nella norma, sappiamo distinguere il nostro mondo dal mondo obiettivo,
ma questo non toglie che sia talvolta necessario riflettere e che le scienze
della natura ci abbiano molto aiutato a farlo. Non è facile guardare il mondo
senza guardarlo dalla prospettiva che ci appartiene, ma è utile ed impor-
tante farlo. Per dirla con Bachelard:
l’oggettività scientifica è possibile solo se si è rotto con l’oggetto immediato, se si
è rifiutata la seduzione della prima scelta, se si sono arrestati e contraddetti i pensieri
che nascono dalla prima osservazione. Ogni oggettività, debitamente verificata,
smentisce il primo contatto con l’oggetto. Essa deve all’inizio criticare ogni cosa
[...]. Ben lungi dallo stupirsi, il pensiero oggettivo deve ironizzare (G. Bachelard,
155
Psicoanalisi del fuoco, Dedalo, Bari 1973, p. 125)
Non siamo fin da principio razionali: per esserlo siamo qualche volta co-
stretti a «prenderci gioco della prima persona” (Psicoanalisi del fuoco, op.
cit., 126) che è, in effetti, talvolta risibile. Qualche volta ci piace pensare
che la realtà risponda alle nostre inclinazioni e che ci sia un nesso profondo
tra i modi in cui il nostro mondo si dipinge per noi e la realtà obiettiva. Ci
piace pensarlo, ma non è affatto detto che sia così. Spesso è soltanto ridi-
colo crederlo, e i nessi che l’astrologia ha colto tra certi periodi dell’anno
e il carattere degli uomini nati sotto quei segni è una prova del fatto che
non è poi così difficile riconoscere che ironizzare è senz’altro opportuno.
Dobbiamo ridere della prima persona, ma questo non significa che sia
possibile rinunciare interamente e una volta per tutte a ciò che per noi si-
gnificano le cose prima di porci il problema della loro natura obiettiva. È
ridicolo pretendere che la realtà si adatti all’immagine che si disegna sul
terreno percettivo, ma non è molto più saggio pretendere di piegare il no-
stro mondo al dettato della realtà obiettiva.
«L’erba non è verde, i mattoni non sono rossi – un irlandese non può
credere a queste “verità”» – così scriveva Berkeley nel suo diario, ed anche
se non è certo possibile concordare con le ragioni che lo spingevano a dire
così, c’è qualcosa di molto vero in quest’osservazione. I colori apparten-
gono solo al mondo così come lo percepiamo e non hanno un loro posto
nella realtà obiettiva, ma se parliamo dell’erba e dei prati – se parliamo di
queste realtà familiari che appartengono al nostro mondo – non c’è ragione
per dire che non sono verdi: di quale altro colore potrebbero essere? L’erba
non ha una riflettanza, anche se ce l’hanno ovviamente gli elementi chimici
di cui è composta. L’erba, invece, è verde.
Un discorso analogo vale anche per le realtà che a noi sembrano cariche
di significato: anche in questo non vi è ragione per costringersi sempre e
ovunque ad un linguaggio obiettivistico. Non siamo costretti a parlare sem-
pre così: il mare è davvero soltanto questo – tanta acqua salata – ma non
dobbiamo sentirci più intelligenti o più sinceri se pronunciamo questa mas-
sima sconsolata la sera di fronte alle onde che giungono lente alla riva. Se
diciamo così è solo perché vogliamo fare i guastafeste.
Credo che queste considerazioni siano relativamente ovvie, e tuttavia vi
è un punto che merita una riflessione ulteriore. Che i colori non siano pro-
prietà reali delle cose è una verità che impariamo col tempo, ma sappiamo
da sempre che il tramonto non è malinconico e che una giornata di pioggia
156
non è uggiosa. Lo sappiamo, eppure non possiamo sottrarci a quest’im-
pressione che si sviluppa e si arricchisce solo sul terreno immaginativo. La
differenza è qui: non abbiamo bisogno di immaginare nulla per sostenere
l’immagine sensibile del mondo, ma abbiamo bisogno di immaginare per
consolidare ed articolare la dimensione espressiva delle cose o per esten-
dere il gioco della motivazione al di là dei confini che gli spettano. Il
mondo ci si presenta ricco di espressività, ma spetta all’immaginazione il
compito di dipanare questa trama di senso.
Anche su questo punto Bachelard ha qualcosa da dirci: riconoscere che
il reale nella sua obiettività può essere compreso solo quando ci si dispone
sul terreno delle scienze non significa dimenticare che c’è un universo di
senso che coincide con il nostro originario rapporto con le cose, ma vuol
dire al contrario rammentare che c’è un compito specifico per l’immagina-
zione. Così, se anche la filosofia deve riconoscere che non vi è spazio per
la razionalità al di là dell’ambito delle scienze e dell’indagine epistemolo-
gica, deve egualmente riconoscere che il mondo così come ci è dato nel
nostro rapporto vivo con le cose merita comunque di essere indagato. Di
qui, per Bachelard, lo spazio per una filosofia dell’immaginazione che de-
linei sia pure in tono minore le forme di un’antropologia filosofica o addi-
rittura di una metafisica concreta. Di metafisica Bachelard parla, per il
vero, soltanto nelle battute conclusive della Poetica dello spazio: lo spunto
gli è offerto da una poesia di Rilke che celebra l’immagine di un albero che
è cresciuto in ogni direzione e che proprio per questo oppone la certezza
della sua pienezza sferica agli eventi capricciosi della vita nella sua mobile
imperfezione. Un passo isolato la cui rilevanza sembra essere però sottoli-
neata dal fatto che proprio a queste parole Bachelard affida il compito di
concludere il suo bel libro più bello sull’immaginazione – la Poetica dello
spazio, appunto:
se potessi mai accumulare in un grande complesso immagini molteplici, mutevoli,
che comunque illustrino la permanenza dell’essere, l’albero rilkiano aprirebbe un
denso capitolo di metafisica concreta (Bachelard 2011: 275).
Forse non è il caso di lasciarsi tentare da queste scelte terminologiche, che
nella forma garbata di un’immagine – la metafisica come un album che si
lascia sfogliare in pace, la sera, al riparo delle mura domestiche – ci invita
a riproporre un termine così carico di suggestioni filosofiche, ma il pro-
blema comunque permane32. E con il problema resta anche il compito che
32 Scrive Piana nel suo Saggio su Bachelard: «In un certo senso, se adottassimo lo schema elementare
157
all’immaginazione deve essere attribuito: nel gioco e nell’immaginazione
narrativa, ma soprattutto nelle immagini prende forma un mondo che ci
appartiene perché è plasmato alla luce dei nostri pensieri e delle nostre
esigenze. L’immaginazione ci consente di accedere al nostro mondo, ma
non per questo lo crea perché ogni narrazione prende lo spunto dalle cose
e dalla loro figuratività: è un mondo che ci appartiene, ma è pur sempre
qualcosa che troviamo, per quanto ricca e significativa sia la dimensione
immaginativa che ci consente di appropriarcene. Così l’immaginazione ci
appare come una prassi che ci consente di ritrovare nel mondo obiettivo il
nostro mondo, di ritrovarlo senza per questo dover credere che sia reale.
In fondo, il segreto dell’immaginazione è proprio qui: ciò che ci propone
non ha bisogno di essere disposto sul terreno della realtà e non chiede di
essere creduto, anche se è capace di coinvolgerci nel suo mondo. Non ab-
biamo bisogno di credere che il cadere delle foglie sia fragile per sentire
che questo è il mondo cui apparteniamo e che ci appartiene. L’immagina-
zione non ci costringe a credere e non si cura della realtà: il suo operare nel
mondo per costruire e consolidare il nostro mondo non ha una pretesa
obiettiva, come non l’ha il nostro mondo la cui irrealtà è manifesta. Un
mondo irreale che scopriamo nella sua irrealtà quanto più impariamo, per
dirla con Bachelard, a ridere della prima persona, ma un mondo non per
questo falso, perché è nel nostro mondo che impariamo a costruire i nostri
pensieri e ad articolare le nostre emozioni. Non c’è bisogno di scomodare
proposto dal neopositivismo secondo cui si avrebbe la filosofia come epistemologia e poi nient’altro
che la filosofia come metafisica, non ci sarebbe da dubitare che secondo Bachelard la filosofia deve
essere anche metafisica. Una simile affermazione dovrebbe poi essere seguita da tutte le attenuazioni del caso; anzitutto l’attenuazione che riferisce questo termine entro una dimensione filosofico-antro-
pologica; quindi l’attenuazione di questa dimensione in direzione di un rifiuto di una teoria filosofica
vera e propria; infine l’attenuazione estrema consistente nel ricondurre tutto ciò ad una pura e semplice inclinazione che assume la tematica dell’immaginazione. La congiunzione di questi termini – metafi-
sica e immaginazione – non rimanda peraltro, in Bachelard, ad una tendenza sempre rinascente ad
attribuire all’immaginazione una sorta di vocazione metafisica, una sorta, cioè, di predisposizione ad
accedere ad un campo di realtà profonda e ignota, che resta in linea di principio inaccessibile agli
strumenti e ai metodi della ragione, ma è orientata se mai nella direzione opposta. Ogni discorso che
pretenda di mostrarsi come esplorazione di una realtà situata oltre la superficie delle cose acquista interesse proprio in quanto viene considerato come espressione dell’immaginazione stessa. Idea certa-
mente non nuova; anzi, molto vecchia, dal momento che qualunque polemica antimetafisica ha sempre
sottolineato, con maggiore o minore sarcasmo, l’immaginarietà delle costruzioni metafisico-specula-tive. Ma questa vecchia idea assume in Bachelard una singolare trasformazione. Il punto della que-
stione sta non tanto nell’esibire la relazione con l’immaginazione del discorso orientato metafisica-
mente, ma nel segnalare il suo interesse quando ci accingiamo a considerarlo così» (Piana 1985: ).
158
la metafisica per questo, nemmeno nelle forme pacate di un album, ma an-
che se non è un compito metafisico, è un lavoro serio che ha una sua ragion
d’essere e di cui abbiamo bisogno, da sempre.
159
CAPITOLO QUARTO
L’IMMAGINAZIONE E IL NOSTRO MONDO
1. Una finzione consolidata
Il mondo reale è un mondo obiettivo che dobbiamo pensare nella sua indi-
pendenza dall’io, ma a questo mondo obiettivo fa da controcanto il nostro
mondo che ci appare alla luce del nostro percepire e del nostro esperire, ma
che si costruisce anche in virtù di un’immaginazione che si radica nei con-
tenuti e nelle forme dell’esperienza, ma va al di là di essi, plasmandoli alla
luce dei nostri pensieri e delle nostre esigenze. Su questo punto ci siamo
soffermati relativamente a lungo nelle riflessioni conclusive del terzo ca-
pitolo che erano volte a mostrare come il mondo che sembra rispondere
alle nostre esigenze di senso e che ci appare alla luce delle nostre esigenze
e dei nostri orientamenti culturali ed esistenziali fosse il mondo in cui cer-
chiamo di ritrovarci, narrandolo ogni volta da capo, alla luce di quello che
siamo e pensiamo. Anche l’immaginazione assoluta ha un compito – que-
sto era quanto volevamo mostrare.
Basta tuttavia ripercorrere quelle considerazioni perché si faccia avanti
un’obiezione che sembra difficile tacitare e che ha le forme antiche del
nesso che stringe la finzione all’illusione e che scopre nella consapevo-
lezza dell’una la fragilità dell’altra. L’immaginazione risponde al bisogno
di un mondo nostro in cui ritrovarci e il suo modo di far fronte a questa
richiesta consiste nel proporci una narrazione delle cose che è tuttavia li-
bera dal vincolo della realtà. Non possiamo realmente credere che il mare
non sia mai stanco e non è vero che le sue onde giungano da molto lontano,
ma ci sembra bello pensare che così stiano le cose e l’immaginazione tesse
per questo le sue finzioni e costruisce per noi un’immagine ricca di senso
che ci piace abitare. L’immaginazione finge un mondo in cui indugiamo
volentieri pur senza credervi, ma questo non significa in fondo riconoscere
che questo nostro mondo costruito a fatica dall’immaginazione è un’illu-
sione in cui ci piace immergerci, ma che di fatto si dissolve necessaria-
mente insieme alla consapevolezza della sua origine? Non dovremmo in
altri termini riconoscere che il gesto creativo dell’immaginazione presup-
pone un atteggiamento di garbata ipocrisia o di irragionevole smemora-
160
tezza? Forse c’è stato un tempo in cui l’immaginazione era capace di im-
brigliare la nostra consapevolezza e forse l’infanzia è il luogo di un’ade-
sione irrazionale al mondo da cui tuttavia ci siamo liberati crescendo, e
questo sembra costringerci a riconoscere che quel nostro mondo di cui di-
scorriamo deve essere necessariamente declinato al passato e relegato nelle
vicende remote di un’infanzia immobile che non ci appartiene più.
Di un’infanzia immobile ci parla, ancora una volta, Bachelard che ci in-
vita a cercare nell’immaginazione le tracce di un’adesione irrazionale al
mondo, di una sua originaria comprensione, dettata non dalle esigenze del
conoscere, ma dal bisogno di riconoscersi. In fondo, l’immagine dell’al-
bum cui abbiamo dianzi alluso ci porge anche in questo caso la chiave per
intendere il senso delle analisi di Bachelard. In un album si raccolgono le
fotografie del passato e si fissano, proprio per questo i ricordi di un tempo
che non è più: gli album si sfogliano per ritrovare e per ritrovarsi, anche se
la gioia di rivedere si affianca alla malinconia che si esprime nella consa-
pevolezza che non si può più vedere ciò che in quelle pagine ci si mostra.
Lo stesso accade quando l’immaginazione assolve il suo compito: la me-
tafisica concreta, che prende forma nelle nostre rêverie, appartiene ad un
passato che si è ormai chiuso e cui ci sembra di poter accedere solo quando
ci perdiamo nei nostri sogni e dimentichiamo pro tempore ciò che abbiamo
imparato a credere e che determina concretamente la nostra vita. L’ab-
biamo osservato: per Bachelard non siamo fin da principio soggetti razio-
nali, ma dobbiamo sforzarci di diventarlo e questo significa che quanto più
ci inoltriamo sul terreno della conoscenza, tanto più dobbiamo imparare a
sorridere delle nostre originarie convinzioni. Capita ovviamente così: i no-
stri errori ci appaiono risibili una volta abbandonati, ma il punto su cui
Bachelard intende richiamare la nostra attenzione è meno ovvio. Se vol-
giamo lo sguardo al passato della riflessione scientifica e ci addentriamo
nella teoria degli elementi che domina incontrastata la fisica antica non
troviamo soltanto all’opera una scienza che si muove tra esperimenti dubbi
e ragioni incerte, ma ci imbattiamo anche in un immaginare coerente che
non intende affatto venire a capo della realtà obiettiva delle cose, ma vuole
piuttosto radicarci nel mondo e ritrovare nelle presunte radici della materia
la favola antica del nostro originario aderire al mondo.
Gli errori nella scienza non sono sempre errori scientifici, ma si radicano
talvolta nell’immaginazione. Sono, questi, errori difficili da sradicare: non
se ne viene a capo ripetendo gli esperimenti e saggiando la bontà degli
argomenti, ma liberandoci da motivazioni profonde che ci parlano delle
161
nostre pulsioni e delle nostre emozioni e del loro riconoscersi immaginati-
vamente nel mondo. L’epistemologo non deve dunque soltanto controllare
la struttura logica delle teorie e la validità delle osservazioni, ma deve im-
pegnarsi in una sorta di psicoanalisi del pensiero obiettivo, per liberarlo dai
complessi immaginativi che impediscono allo scienziato di abbandonare il
terreno del nostro originario rapporto con le cose per disporsi finalmente
sul terreno conoscitivo.
Ora, gli errori da cui l’epistemologo si sforza di emendare il pensiero
scientifico devono tuttavia valere, per il filosofo dell’immaginazione,
come fossili che testimoniano di una comunanza che si è smarrita nel
tempo: abbiamo creduto cose false, ma gli errori di un tempo ci guidano
tuttavia verso la radice delle immagini cui ancora oggi siamo naturalmente
legati. Intrecciati agli argomenti di una cattiva scienza ritroviamo così i fili
che debbono essere seguiti da un’antropologia filosofica che mostri qual è
la forma del nostro originario vivere nel mondo. Le prime pagine dell’al-
bum di metafisica concreta di cui discorriamo racchiude le tentazioni im-
maginative di un pensiero scientifico che non aveva ancora trovato la via
verso l’obiettività33.
Dell’importanza crescente che per Bachelard questo compito riveste è
facile convincersi, e uno sguardo alla sua produzione teorica ci mostra da
un lato il peso crescente che negli anni assumono le sue ricerche di filosofia
dell’immaginazione, dall’altro il loro progressivo emanciparsi dalla pro-
spettiva epistemologica da cui traggono origine. Questo nesso diviene via
via più esile e viene interamente reciso nelle sue ultime opere: la Poetica
dello spazio e la Poetica della rêverie hanno messo da canto il problema
di una psicoanalisi del sapere scientifico e si preoccupano esclusivamente
di mostrare come una filosofia dell’immaginazione possa occupare lo spa-
zio teorico delle filosofie dell’esistenzialismo, senza per questo doverne
ereditare per intero il peso ontologico e le derive irrazionalistiche. All’im-
maginazione spetta il compito di mostrare le forme del nostro esserci nel
33 Nel ragionare così, Bachelard ha torto e ragione insieme. Ha torto, io credo, nel credere che la ri-
flessione scientifica sorga soltanto nella modernità e sbaglia nel ritenere che il ruolo dell’immagina-
zione nella scienza sia soltanto negativo. La conoscenza cresce in molti modi e l’immaginazione ha molte forme e non è vero che tutte ci ancorino ad un accordo emotivo, ma non cognitivo con il reale.
Su questo punto dovremo tornare in seguito: ora è opportuno invece sottolineare che vi è un senso in
cui Bachelard ha ragione. La fisica aristotelica non è un capitolo superato della stessa dottrina di cui la fisica newtoniana è espressione. Per Aristotele, una buona soluzione dei problemi fisici risponde a
interrogativi che non coincidono pienamente con quelli cui Galileo o Newton intendevano rispondere.
La storia della scienza non è soltanto storie delle teorie, ma è anche storia del senso che deve essere attribuito al concetto di scienza.
162
mondo (o le forme del nostro mondo), e tuttavia quanto più ci si immerge
nelle pagine di Bachelard, tanto più sembra necessario riconoscere che l’in-
fanzia immobile dell’immaginazione è comunque passata da tempo e che
l’età adulta della ragione è ormai definitivamente iniziata.
Certo, ci basta pronunciare la parola “acqua” (per prendere il tema di uno
dei suoi libri più felici) perché si facciano avanti mille immagini e perché
si raccolga una vera e propria geografia dell’immaginazione che ruota in-
torno a questo mobile elemento. L’acqua è innanzitutto una materia che
riflette e che consente una reduplicazione dei fenomeni. L’acqua è sotto il
segno di Narciso, e la sua capacità di rispecchiamento stringe l’acqua ai
fenomeni della visione. Nell’acqua calma dei laghi il mondo si rispecchia
e sembra prendere coscienza di sé: l’acqua – come diceva Paul Claudel –
è lo sguardo della terra e deve essere innanzitutto colta in questa suo appa-
rente consentire alle cose di prendere atto della loro bellezza. Ma l’acqua
non è soltanto superficie che rispecchia e raffigura la bellezza del mondo,
ma si manifesta anche nella forma della profondità in cui le cose si dile-
guano e lentamente sprofondano. L’acqua inghiotte le cose e le cancella –
le dissolve in sé. L’acqua silenziosa del lago diviene così un’acqua dor-
miente, un acqua che ha assunto le forme stabili della morte che impariamo
a conoscere nella sua veste acquorea: come un lento sprofondare in una
materia senza forma e confini. L’acqua racchiude in sé il fondamento del
complesso di Caronte: nell’acqua che non ha strade e che cancella le orme
del ostro passaggio ci si perde e la morte è un viaggio di dissoluzione, un
ritorno all’informe. È il rito antico del Todtenbaum: in molte e diverse cul-
ture, si scavava un sarcofago in un grande tronco e poi si abbandonava il
cadavere alla corrente lenta del fiume. In questa sepoltura acquorea, il
morto viene restituito all’unità indistinta – ad una sorta di vita uterina che
stringe in un unico nodo i valori di nascita e di morte che si legano all’ac-
qua dei fiumi. Di questa dualità di nascita e morte parlano anche le infinite
leggende che raccontano di bambini abbandonati in ceste lungo il corso di
un fiume, costretti a ripercorrere a ritroso il cammino che conduce dalle
acque della gestazione ad luminis oras, per usare l’immagine di Lucrezio.
Nei racconti di un abbandono che ha le forme di una sepoltura acquorea e
di una restituzione alla nascita si celebra così una possibilità nuova: il bam-
bino, che è salvato dalle acque, diviene il predestinato che ha sconfitto la
morte e sarà per questo un fondatore di città, un salvatore di popoli, un eroe
cosmogonico.
163
Al complesso di Caronte fa eco il complesso di Ofelia come immagine
della dissoluzione della vita nella materia informe dell’acqua, come abban-
dono e rinuncia alla propria viva e differenziata individualità. L’acqua, tut-
tavia, non è solo immagine della morte e della dissoluzione: è anche im-
magine della purificazione e della rinascita. Alle acque profonde in cui la
vita si dissolve fa da contrappunto l’immagine della fontana della giovi-
nezza che cancella i segni della vecchiaia e l’acqua dei riti di purificazione
e di oblio. L’acqua scorre e porta via con sé i segni del passato e i ricordi
tormentosi: purifica e ringiovanisce perché scioglie i segni del passato e le
sue tracce.
Potremmo indugiare ancora su questa geografia immaginativa dell’acqua
e potremmo seguire Bachelard nel suo album di metafisica concreta dei
materiali, ma queste poche considerazioni ci bastano per rammentare che
per noi queste immagini sono ormai soltanto immagini e che non ci è più
possibile attribuire una consistenza reale a ciò che le immagine ci porge.
Questo non vuol dire che l’immaginazione debba tacere – tutt’altro, ma che
nel suo discorrere ci parla al passato, sia pure soltanto al passato privato di
ciascuno di noi, al tempo in cui le nostre esperienze ci legavano al mondo,
piuttosto che farcelo conoscere. Così, se ci poniamo nella prospettiva di
Bachelard dobbiamo semplicemente riconoscere che il nostro mondo di
fatto non c’è più, se non quando ci riposiamo e per un attimo chiudiamo la
porta della realtà che abbiamo imparato ad aprire e dimentichiamo, o fin-
giamo di dimenticare, quel che abbiamo appreso. Il nostro mondo c’era, e
le immagini poetiche su cui Bachelard si sofferma ce lo ripropongono, sia
pure con una piega memorialistica. La metafisica è finita in un album, che
ci piaccia o no.
Bachelard ragiona così, e non è certo un ragionamento nuovo, perché le
sue considerazioni ci riconducono insensibilmente verso un discorso mille
volte sentito: verso il tema del disincanto del mondo. Non si tratta certo di
un tema nuovo, ma lamentarsi della sua scarsa originalità non significa che
ce ne si possa liberare con una scrollata di spalle. In fondo, in qualche mi-
sura, è semplicemente vero che la conoscenza del mondo obiettivo sembra
costringerci a mettere da canto il nostro mondo, a riconoscerne almeno in
parte il carattere illusorio, ed è vero che la modernità porta con sé il rico-
noscimento che non vi è altra realtà se non quella che le scienze descrivono
e per cui ci offrono ragioni che ci sembrano vincolanti. Un disincanto del
164
mondo c’è, e bisogna semplicemente prenderne atto, senza troppi rim-
pianti, ma allo stesso tempo è necessario cercare di comprendere bene per-
ché vi è un tale disincanto e che cosa propriamente comporti.
Così, riconoscere che non è priva di una qualche giustificazione la con-
vinzione diffusa che la modernità porti con sé un restringersi dell’universo
immaginativo, tuttavia, non significa ancora sostenere che Bachelard (e
con lui molti altri filosofi) abbia ragione nel sostenere che l’immaginazione
assoluta e le immagini che ne scaturiscono sono fossili che ci parlano di un
tempo passato, vestigia del nostro contatto originario con le cose, di quella
relazione che le lega a noi e che ci consente di riconoscerci nel nostro
mondo. Tutt’altro: io credo che questa tesi sia falsa e che non ci consenta
di comprendere in che misura e sino a che punto uno sguardo rischiarato
sull’obiettività porti con sé se non il venire meno, l’ottundersi della pre-
senza del nostro mondo.
Su un punto Bachelard ha torto: Bachelard ritiene che l’immaginazione
nel suo complesso sia una facoltà irrazionale, sorda alle sollecitazioni in-
tellettuali e alla curiosità che ci sorregge nella nostra esplorazione e com-
prensione del mondo. L’immaginazione, per Bachelard, è una facoltà
dell’originario: parla del nostro rapporto immediato con il mondo ed è per
questo che ha tutto da perdere da ogni commistione con i pensieri e le ri-
flessioni che ci muovono sul terreno della quotidianità. Un’immaginazione
colta o anche soltanto intrecciata a questioni e domande che stiano di là da
essa è, in fondo, un’immaginazione che ha smarrito la via: anche se l’arte
è un «innesto nella natura» (ivi, p. 17) e si avvale delle forme dell’espres-
sività, il suo contenuto ci radica al di qua del nostro essere di persone edu-
cate in una civiltà e in una cultura, nelle sue tradizioni e nei suoi problemi.
Se ci si pone in questa prospettiva è fin da principio evidente che per
un’immaginazione scientifica o tecnologica non possa esservi spazio, an-
che se questo non significa ancora che non ci sia interesse per il pensiero
creativo. Scienza e tecnica chiedono grandi capacità creative non c’è dub-
bio, ma Bachelard è convinto che l’immaginazione non abbia in fondo
molto o nulla a che spartire con quelle forme di pensiero intuitivo di natura
analogica e controfattuale che ci guidano nella soluzione di problemi teo-
rici o nella soluzione pratica di un compito inatteso. L’immaginazione per
Bachelard è un’altra cosa: è la facoltà delle immagini poetiche, e immagini
di questa sorta non hanno cittadinanza nel pensiero scientifico o tecnolo-
gico – questo è il punto.
165
Non credo che sia opportuno tracciare un discrimine così netto tra l’im-
maginazione ludica che trasforma un ramo in una spada, l’immaginazione
tecnologica che vi coglie uno strumento di offesa e l’immaginazione poe-
tica che nei rami protesi potrebbe cogliere la sfida che l’albero lancia ai
venti che lo scuotono. In fondo, qualcosa di comune c’è, ma anche se ci
lasciamo convincere dell’opportunità di accentuare le differenze (che pure
vi sono) tra queste forme dell’immaginazione, resta una questione che ri-
veste, a mio giudizio, un’importanza centrale. Per Bachelard (e per chi ra-
giona come lui), l’immaginazione ci riconduce al nostro originario rap-
porto con le cose: è, in questo senso, una facoltà primordiale che ci con-
sente di comprendere che cosa eravamo, prima di essere diventati quel che
siamo diventati. Ma è dubbio che le cose stiano così. L’immaginazione
non parla al passato. Tutt’altro: se le considerazioni che abbiamo dianzi
proposto sono corrette, a guidarla sono
i pensieri che ci muovono ora, nel pre-
sente. Il cielo stellato e una falce di
luna possono richiamare alla mente le
sensazioni antiche della nostra apparte-
nenza ad un cosmo che decide di noi e
del nostro destino, ma questa litografia
di Daumier non ci parla del rapporto
originario dell’uomo con il cosmo, ma
al contrario ci invita a sorridere con un
po’di malinconia di quel che ci è acca-
duto nel tempo, del nostro essere di-
ventati animali domestici e un po’ ridi-
coli che, dal riparo sicuro di un bal-
cone, si perdono nella contemplazione
di un cielo che sembra essersi dimenti-
cato di loro. È una fantasia moderna
che cresce su una riflessione filosofica tagliente: ci mostra quanto poco si
adatti alle nostre berrette da notte il pensiero dell’universo infinito e del
suo mistero. Lo avvertiamo ancora e spalanchiamo le persiane per guardare
e meravigliarci, ma questo ci rende in fondo soltanto più buffi.
Bachelard sbaglia nel credere che l’immaginazione non ci parli al pre-
sente e non sia intrecciata ai nostri pensieri. Ma sbaglia anche perché sem-
bra credere che nel suo far presa sulle forme dello spazio e della materia,
166
l’immaginazione non ci aiuti in qualche modo a comprenderle. L’immagi-
nazione non ha di mira una comprensione obiettiva della natura delle cose,
ma questo non significa che immaginando non si mettano alla prova i nostri
concetti e non ci si costringa a far luce su ciò che resta per molti versi
oscuro. Rammentiamoci degli esempi che abbiamo appena discusso. Ba-
chelard ci parla delle immagini dell’acqua, ma è difficile non cogliere come
l’immaginazione si affatichi su questa materia proprio in virtù della sua
peculiarità percettiva e della sua resistenza ad essere compresa sul fonda-
mento della rete dei nostri concetti intuitivi.
Su questo punto è opportuno riflettere un poco. L’acqua non è divenuta
per caso un capitolo dell’immaginazione materiale, ma è per molte e di-
verse ragioni un ingrediente importante della nostra prassi ludica. L’acqua
è una materia mirabile, come mirabili sono l’aria e il fuoco, le ombre e i
riflessi: sono fenomeni mirabili perché sembrano sfuggire alla rete della
nostra concettualizzazione e sono creature ibride perché sembrano posse-
dere qualità contrastanti. L’aria è evanescente eppure c’è e può mancarci:
è eterea, eppure può travolgerci con la sua forza. Le ombre non sono nulla
eppure ci seguono e disegnano una caricatura cupa e deformata delle cose
– una caricatura effimera e pronta a dissolversi oppure a stagliarsi con mag-
giore nettezza quando il sole è alto nel cielo. Uno stesso discorso vale per
l’acqua. Anche l’acqua è una creatura ibrida, ed anche l’acqua ci invita
proprio per questo al gioco: le sue proprietà contrastanti sono il fonda-
mento di una molteplicità di aspetti figurativi che sembrano chiedere
all’immaginazione di dire la sua. L’acqua qualcosa che inghiottiamo e che
a sua volta ci inghiotte, che troviamo nelle profondità della terra e che ri-
cade dal cielo. È in alto ed è in basso, e scorre ed è ferma: è placida e ci
travolge. L’acqua si ritira nell’unità di ogni singola goccia quando si rac-
coglie sulle foglie, ma le gocce si dissolvono l’una a contatto dell’altra in
un’unità nuova. Insomma: l’acqua si comporta in molti modiche ci stupi-
scono.
Alle vicende dell’acqua fa eco la sua stessa natura – o più propriamente:
la sua natura percepita ed esperita sensibilmente. «Acqua» è un termine
massa e questo ricordo di scuola ci invita a riflettere sul fatto che l’acqua è
una materia che non è imprigionata nelle cose, come di solito accade: l’ac-
qua è informe e acquista la forma di ciò che momentaneamente la contiene.
La natura fluida dell’acqua si manifesta del resto anche nella forma in cui
essa occupa lo spazio. Una goccia d’acqua è sul tavolo e un fiume scorre
nel suo letto, ma quando ci immergiamo nel mare, l’acqua ci appare come
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uno spazio materializzato, come res extensa. L’acqua non è una cosa e non
sembra misurabile con il metro consueto che impieghiamo con gli oggetti.
A questa peculiarità dell’acqua che ci impedisce di tenere insieme, come
di consueto, la grammatica della materia e la grammatica degli oggetti si
affianca la sua natura di liquido trasparente. L’acqua si avverte al tatto,
anche se non impedisce il movimento della mano che vi si immerge, ma si
nega alla vista, ed è forse anche per questo che i bicchieri sono di vetro:
una trasparenza richiama l’altra. Se a questo si aggiunge il fatto che l’acqua
evapora e svanisce nell’aria, ma poi gela e diviene a tutti gli effetti un og-
getto, si comprende bene perché di questo liquido l’immaginazione ludica
doveva impossessarsi. Il bambino, che gioca con l’acqua e che immagina
a partire da essa, mette allo stesso tempo alla prova la grammatica dei suoi
concetti e impara a chiarirla e a renderla più perspicua. L’immaginazione
non ha di mira la conoscenza obiettiva, ma non è per questo un ostacolo
alla riflessione: è parte della nostra prassi e della nostra esperienza e il suo
operare mette in scena a suo modo le proprietà degli oggetti di cui si avvale
e ci consente di acquisire un maggiore confidenza con le cose. L’immagi-
nazione dei materiali di cui Bachelard ci parla non è soltanto il luogo in cui
impariamo a riconoscerci nel mondo, facendo torto alla sua natura reale,
ma è anche una forma in cui approfondiamo la nostra conoscenza delle
cose. L’immaginazione è una forma di curiosità e sorge là dove qualcosa
ci stupisce e non sembra piegarsi alla rete dei nostri concetti intuitivi: le
immagini non ci fanno soltanto pensare, ma sorgono anche là dove siamo
costretti a farlo. Sono una voce, tra le altre, del nostro muoverci tra i feno-
meni, per impadronircene meglio.
L’immaginazione è una voce tra le altre della nostra esperienza, e tuttavia
questo non deve farci dimenticare quale sia il piano su cui propriamente si
muove. L’immaginazione non pretende di fissare le cose come sono real-
mente: le immagini dell’acqua che abbiamo dianzi raccolto non ci consen-
tono di comprendere che cosa obiettivamente sia l’acqua, ma non sono
nemmeno i fossili che testimoniano di una pretesa e quindi anche di un
errore. Le immagini non ci raccontano quel che credevamo, semplicemente
perché non ci chiedono – né ci chiedevano – di credere che ciò che in esse
prende forma sia la realtà obiettiva. L’immaginazione non ci illude perché
non pretende di asserire alcunché, ma ciò è quanto dire che l’immagina-
zione assoluta non sorge su un terreno che prima o poi sarà occupato dal
sapere scientifico. Anche su questo punto è opportuno insistere: l’immagi-
nazione ha un fondamento materiale, ma non nasce dalle cose in se stesse
168
e dagli oggetti nella loro realtà: sorge dai loro aspetti figurativi. Ne segue
che il radicamento dell’immaginazione nel mondo e il suo consentirci di
ritrovarci nelle cose che ci circondano non rimanda alla dimensione
dell’obiettività, ma si gioca sul terreno delle apparenze. Il mondo che ci
sembra nostro è il mondo della nostra vita, non il mondo che abbiamo ra-
gione di pensare che sussista obiettivamente.
Di qui una seconda conclusione che mi sembra possibile trarre. L’imma-
ginazione non parla al passato, ma non è nemmeno necessariamente con-
nessa al concetto di illusione. L’immaginazione non si dispone sul terreno
della realtà nemmeno quando pretende di costruire il nostro mondo – il
mondo che ci appare nostro, ma che non si pone come obiettivamente
reale. Non immaginiamo un mondo che si contrapponga alle ragioni della
scienza e non abbiamo per questo alcun motivo per guardare con sospetto
alle immagini perché esse non sono la testimonianza di un errore e di una
falsa credenza. Il nostro mondo non c’è, ma questo non significa che ci sia
stato un tempo in cui abbiamo creduto che così fosse: vuol dire solo che è
così che l’immaginazione ci consente di farci apparire le cose.
Ribadire che l’immaginazione non tesse le reti di un’illusione di cui sa-
remmo vittime non significa tuttavia affermare che essa sia un gioco che si
perde in finzioni irrilevanti, ed è questa la terza conclusione che sembra
possibile trarre di qui. Abbiamo detto per quale ragione sembrerebbe pos-
sibile sostenere una simile tesi: se, immaginando, siamo consapevoli che il
gli scenari che prendono forma per noi non meritano di essere creduti, non
dovremmo semplicemente sostenere che l’immaginazione assoluta si perde
in trastulli cui non è possibile affidare una qualche funzione effettiva? Per
rispondere a questa domanda sembrerebbe sufficiente, di primo acchito,
osservare che le immagini e le finzioni narrative non sono semplicemente
giochi perché di fatto ci danno da pensare. Chi legge la Metamorfosi di
Kafka non deve soltanto immaginare una strana storia in cui l’assurdo si
lega ad una normalità anche troppo normale senza alcuno stridente fastidio,
ma deve anche pensare a molte cose perché a tutte le nostre vite molto
normali capiterà prima o poi di sentirsi prigionieri di un corpo che muore
e che decide per noi qual è il rapporto che noi stessi e gli altri assumeremo
rispetto alla nostra vita. Leggere quel racconto significa anche pensare tutte
queste cose che, si converrà, non hanno la tenue lievità dei giochi.
Se le finzioni sono giochi, si dovrà riconoscere che possono egualmente
essere impegnativi e, talvolta, anche cupi. Eppure queste considerazioni
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non bastano per venire a capo del nostro problema, perché sembra oppor-
tuno osservare, in primo luogo, che ad essere serio è il pensiero e non la
finzione: la favola è piacevole, intrigante, o divertente, ma è comunque una
mera finzione, anche se ci invita a pensare a qualcosa che ha un suo peso.
Sembra poi necessario riconoscere, in secondo luogo, che i pensieri cui
siamo sospinti possono essere liberati dalla finzione che li ha occasionati:
in fondo, ciascuno di noi può riflettere sul fatto che verrà un momento in
cui la sua vita sarà imprigionata in un corpo che si ammala e che appare
minaccioso e inquietante a chi ci è vicino, ma per farlo non è costretto a
pensare che prima o poi diventerà uno scarafaggio. Mutato nomine, de te
fabula narratur è una massima che si attaglia alla morale di un racconto,
non alla sua vicenda immaginativa. I prodotti immaginativi ci fanno pen-
sare mutato nomine – e questo sembra invitarci a riconoscere che è possi-
bile (e forse opportuno) liberarsi di queste mentite spoglie.
Non credo che queste considerazioni debbano essere condivise. Certo, i
prodotti dell’immaginazione ci danno da pensare, ma questo non significa
affatto che questo pensare consti di pensieri che si aggiungono ad una fin-
zione che ha il solo scopo di condurci insensibilmente ad essi. Lo abbiamo
osservato: racconti e immagini ci invitano ad un esperimento immaginativo
complesso. Ci costringono a immaginare un mondo che ci coinvolge: non
ci fanno riflettere su temi cui avremmo potuto giungere per altra via, ma ci
costringono ad approfondire un certo atteggiamento emotivo ed intellet-
tuale rispetto al mondo e alla vita. L’immaginazione ci dà da pensare, ma
non dobbiamo credere che questo significhi che guardare un quadro o leg-
gere un racconto o ascoltare un concerto sia davvero la stessa cosa che
parlarne, subito dopo, cercando di trovare le parole per quei pensieri che
ora possiamo formulare come se si trattasse di massime di carattere gene-
rale. L’immaginazione ci dà da pensare, ma non nella forma di una medi-
tazione distaccata, anche se è possibile che questo in seguito accada: pos-
siamo ripensare a quello che abbiamo letto, visto o sentito, ma il punto è
che mentre leggiamo, vediamo e sentiamo siamo in un qualche modo coin-
volti e il nostro pensare ha la forma di una consapevolezza che affianca ed
approfondisce un’esperienza viva. L’immaginazione non ci dà da pensare
su qualcosa, ma ci fa “vivere”, pensando, qualcosa: ci consente un coin-
volgimento emotivo ed intellettuale in una situazione che dobbiamo imma-
ginare e che promette di approfondire per questa via la nostra esperienza
di vita. È in questo modo che immagini e narrazioni ci insegnano qualcosa:
mettendoci di fronte a un mondo in cui accadono vicende che cerchiamo
170
di comprendere nel loro apparente accadere. Un’immagine o un racconto
ci invitano ad un esperimento: ci chiedono di vivere così quel che “accade”,
di viverlo secondo le forme del coinvolgimento che la narrazione ci
chiede34. Così facendo, ci insegnano qualcosa e ci consentono di approfon-
dire la nostra esperienza di vita. Per farlo, debbono fingere un mondo: la
nostra esperienza di vita è infatti inestricabilmente connessa con le vicende
che ci accadono e con il mondo che le ospita. Posso invitarti a riflettere in
generale su molti problemi e posso farlo nelle forme astratte della rifles-
sione teorica, ma se voglio che tu penetri in quegli stessi problemi, viven-
done la dinamica affettiva e comprendendoli nella loro concretezza, non
posso fare altro che inscenarli. Gli esperimenti immaginativi servono a
questo: ci consentono di articolare e approfondire la nostra esperienza di
vita e insieme ci consentono di costruire il nostro mondo, approfondendone
il senso.
Un punto deve essere ancora sottolineato: l’immaginazione ci consente
di approfondire la nostra immagine del mondo, non di conoscere la sua
realtà effettiva. La conoscenza si gioca sul terreno dell’obiettività: riguarda
il mondo così come esso è. L’immaginazione su questa terreno è muta: non
pretende di dirci come stanno le cose, ma si limita a dar forma alla nostra
vita nel mondo e al mondo così come ci appare nella nostra esperienza e
nella nostra vita. L’immaginazione parla di noi, della nostra vita e del
mondo come lo viviamo, ma proprio per questo può insegnarci ad appro-
fondirne il senso non a conoscerlo effettivamente. Così, quando diciamo di
un racconto o di un’immagine che è proprio vera, non vogliamo affatto
sostenere che ora sappiamo qualcosa che prima non sapevamo. Tutt’altro:
vogliamo dire che quel racconto o quell’immagine ci fanno vedere meglio
quello che sapevamo già. In un passo delle Ricerche filosofiche Wittgen-
stein osservava che alle pareti non si appendono formule di fisica o di chi-
mica, ma quadri o proverbi o poesie. E la ragione è chiara: le une ci dicono
come è fatto il mondo, le seconde ci aiutano ad approfondire la nostra vita
ed è utile per questo scriverle come un monito che ci ripeta quale debba
essere il nostro stile di comportamento.
Sottolineare che l’immaginazione ci suggerisce una molteplicità di espe-
rimenti da cui possiamo imparare ad approfondire la nostra via e la nostra
immagine del mondo non è ancora sufficiente. Vi è infatti ancora un punto
34 È in questa luce che le forme del coinvolgimento andrebbero ulteriormente indagate e distinte poiché
è evidente che anche le modalità che legano all’immaginazioni i pensieri che la muovono dipendono a loro volta dalla trama delle forme possibili di coinvolgimento.
171
su cui riflettere per comprendere per quale ragione i prodotti dell’immagi-
nazione non siano un mero gioco anche se non pretendono che si creda a
ciò che inscenano per noi. Quale sia questo punto è presto detto: come ab-
biamo osservato, l’immaginazione crea i propri oggetti che non “esistono”
se non nell’universo improprio dell’immaginazione. E tuttavia, anche se
l’immaginazione assoluta non pretende di essere creduta nelle sue finzioni
sorge comunque a partire dalla nostra esperienza del mondo ed è, prima
ancora di porsi come una funzione creativa, una capacità di ascolto. L’im-
maginazione non sorge dal nulla, ma si radica nella nostra esperienza delle
cose e non può essere separata da esse. Lo si è ripetuto mille volte: l’im-
maginazione, in fondo, non crea, ma mescola le carte che l’esperienza le
porge. Un ippogrifo è una creatura fantastica, ma la ricetta è semplice: oc-
corre un corpo di cavallo e una testa di grifone. L’immaginazione non crea,
ma mescola – questo è quanto Hume ci insegna. Ma non è questo il punto.
Dire che l’immaginazione presuppone una capacità di ascolto dell’espe-
rienza vuol dire altro: significa sostenere che per immaginare è necessario
innanzitutto approfondire la nostra esperienza sensibile delle cose e co-
glierne le potenzialità figurative. La ricetta dell’ippogrifo è un po’ più com-
plicata: chiede che ci si sia stupiti della velocità di un cavallo al galoppo,
della sfida vittoriosa che la corsa lancia all’aria che la ostacola, della libertà
che il cavalcare concede e che tutti questi pensieri si siano stretti nell’im-
maginare la corsa come un volo. I cavalli volano come il vento, e quest’im-
magine consueta ha generato (sui monti Rifei, naturalmente) i primi ippo-
grifi. Le immagini sorgono dal mondo, ma chiedono un’esperienza attenta
– un ascolto, appunto35. Così, anche se in un senso ovvio si può dire che
35 Lo dice bene Piana quando, in un suo bel saggio sulla composizione musicale, ci invita a cogliere la
prassi compositiva alla luce di un attento ascolto delle dinamiche dei materiali sonori che racchiudono
nella loro interna strutturazione un campo di alternative possibili che il musicista deve innanzitutto ascoltare per poter poi decidere. Scrive Piana: «Potremmo arrivare a dire: affermare che vi è una feno-
menologia dei materiali significa, tra le altre cose, affermare che, a loro modo, i materiali hanno già
preso le loro decisioni. […] In certo senso non dobbiamo fidarci troppo dall’accentuazione in senso attivistico che la parola «comporre» ha in se stessa, o più precisamente non dobbiamo ritenere che
questa accentuazione copra la sua intera area di senso. Forse potremmo rappresentarci il compositore
anzitutto come un grande ascoltatore, come qualcuno che ode suoni a tal punto che li ode anche quando non ci sono, un visionario dei suoni, se così si può dire. Questo grande ascoltatore ascolta,
intanto, le decisioni dei suoni. Ma dire questo non basta: nello stesso tempo, deve essere rivalutato, in
un contrasto solo apparente, proprio il momento soggettivo della scelta, secondo un ordine di conside-razioni che ripropone inevitabilmente in modo nuovo il tema della sua dimensione storica. Una simile
rivalutazione comincia dall’osservazione che le peculiarità e le differenze tra i suoni, le differenze nei
rapporti di intervallo e nelle forme di ordinamento scalare, le differenze tra consonanza e dissonanza, ed anche naturalmente ancora prima, le differenze timbriche con le loro latenze espressive, e così via,
172
l’immaginazione è una facoltà creativa, in un differente senso si deve rico-
noscere che la prassi immaginativa muove dalla nostra esperienza delle
cose e dipende da essa. Prima di poter creare il nostro mondo, l’immagina-
zione deve in qualche misura scoprirlo: deve dare ascolto agli aspetti figu-
rativi che animano e rendono complessa la nostra esperienza delle cose e
deve sforzarsi di cogliere e di animare ciò che ci è dato in una direzione di
senso condivisa. È questo che rende il nostro mondo non reale, ma solido;
non obiettivo, ma intersoggettivamente condiviso. Così, riconoscere che
l’immaginazione scopre e insieme crea i propri oggetti vuol dire compren-
dere in che senso l’universo immaginativo cui mette capo ha una sua soli-
dità, anche se non pretende di essere creduto e non si pone sul terreno
obiettivo della realtà, anche se sorge dal mondo che esperiamo e lo articola
in vario modo. Del resto, e l’abbiamo dianzi osservato, le immagini si con-
dividono e ciò fa sì che il nostro mondo abbia la natura salda di ciò che è
accomunato. Non crediamo alle nostre immagini e non crediamo alle no-
stre favole, ma le raccontiamo ad alta voce e nella condivisione impariamo
ad attribuire loro un carattere duraturo ed una solidità che va al di là del
nostro attuale immaginare, del nostro narrarli e viverli in un’immagina-
zione momentanea. Accade così a molte cose e vicende del mondo quel
che accade ai giocattoli: divengono forme solidificate dell’immaginazione.
Ci basta vederle e ascoltarle, perché le immagini di cui disponiamo e di cui
la nostra cultura è permeata si facciano vive nuovamente e ci consentano
di leggere quel che ci è dato alla luce di un progetto immaginativo imme-
diatamente disponibile. Le immagini si ripetono e si cerca di impararle pro-
prio per questo: sono, tra le altre cose, le istruzioni che ci sorreggono nel
nostro gioco e che, proprio per questo, ci aiutano a consolidare l’universo
immaginativo cui apparteniamo. Non è un caso allora se l’immaginazione
tende a farsi rituale, se le feste ci invitano ad immaginazioni condivise nella
forma e nel tempo e se impariamo fin da piccoli a seguire certi calchi im-
maginativi: le immagini stereotipate sono i mattoni che ci aiutano a co-
struire l’universo immaginativo che ci appartiene e cui apparteniamo.
Credo che le considerazioni che abbiamo proposto ci consentano di com-
prendere in che senso l’immaginazione non è soltanto un gioco e che cosa
sono in grado soltanto di delineare puri ambiti di possibilità, e precisamente ambiti di possibilità alter-
native che determinano il campo entro cui possono esplicarsi le decisioni compositive. Non c’è deci-sione, non c’è scelta se non entro un campo di decisioni e di scelte possibili» (G. Piana, “Fenomenolo-
gia dei materiali e campo delle decisioni. Riflessioni sull'arte del comporre” in AAVV, Il canto di
Seikilos. Scritti in onore di Dino Formaggio, Guerini, Milano, 1995, p. 50).
173
voglia dire affermare che il nostro mondo, e la ricca trama di aspetti imma-
ginativi che lo caratterizzano, è tutt’altro che un’illusione passeggera e un
gioco da cui sarebbe facile liberarsi.
Per dare al mondo immaginativo una presenza stabile e duratura non è
necessario credere che le cose stiano così come l’immaginazione le inscena
o contrapporle a quello che l’esperienza e il ragionamento ci insegnano.
Non è necessario, perché l’immaginazione parla di noi e ce ne parla attra-
verso il nostro mondo – attraverso il mondo che articola e concresce su ciò
che esperiamo e viviamo. Il mare è davvero tanta acqua salata, ma nella
norma non è questo che determina il nostro rapporto con quella realtà: l’im-
maginazione del mare non dipende dal fatto che ci sono circa 50 elementi
chimici disciolti nelle acque oceaniche o da una comprensione effettiva di
che cosa sia il movimento delle onde.
E tuttavia, l’abbiamo osservato, il disincanto del mondo non è solo il ti-
tolo generale cui ricondurre astiose querimonie di cui è saggio e sano di-
sinteressarsi. È anche un fatto, di cui è difficile non rendersi conto e che è
connesso con il farsi strada di una più ricca comprensione del mondo obiet-
tivo. E se così stanno le cose, allora è necessario riconoscere che deve es-
sere pensabile un modo di edificare il nostro mondo che pretende di non
essere soltanto immaginativo.
Annotazione. Riflessioni sulle marionette
2. Figure di confine
Torniamo al punto cui siamo appena giunti. La nostra prima premessa era:
l’immaginazione non pretende di costruire per noi un mondo obiettivo, ma
dà forma al nostro mondo della vita, disponendosi comunque sul piano non
di ciò che abbiamo ragione di pensare che sia, ma sul piano delle appa-
renze, sorrette immaginativamente. A questa premessa se ne aggiunge
un’altra: è un fatto che il peso crescente della comprensione obiettiva del
mondo sembra portare con sé un disincanto del mondo. Di qui la conclu-
sione cui eravamo giunti: se ciò accade, è necessario pensare che non sia
solo l’immaginazione ad essere chiamata in causa nel processo di costitu-
zione del nostro mondo, ma anche un qualche momento che chiami in
causa la dimensione del credere. Debbono esistere cioè forme della nostra
cultura in cui l’immaginazione si lega alla credenza e pretende per sé un
compito nuovo: quello di parlarci di una realtà altra, qualunque cosa que-
sto voglia dire. Siamo così sospinti a interrogarci sulle figure di confine
174
dell’immaginazione, su quelle forme della nostra cultura e della nostra vita
che stringono un forte legame con le procedure immaginative, ma non pos-
sono essere senz’altro ricondotte per intero all’immaginazione.
Sulla natura di queste figure di confine è necessario riflettere un poco.
Pensiamo per esempio alla dimensione del magico: chi affida la propria
salute ad un guaritore e ritiene che sia possibile liberarsi di una malattia
sottoponendosi ad un qualche rituale magico, sembra credere (in un senso
ovvio del termine) alla magia e alla sua capacità di agire concretamente nel
mondo. Di agire, certo, in un modo particolare: lo sciamano non sembra
impegnarsi in azioni particolari che abbiano un obiettivo pratico che di-
pende da esse, ma sembra piuttosto recitare una parte, fatta di gesti elo-
quenti e teatrali, privi di un’immediata efficacia pratica. Lo sciamano si
comporta così, e anche se davvero non si vede come i suoi gesti possano
raggiungere lo scopo che si prefiggono, pure sembra innegabile che il ma-
lato sia disposto a credere alla loro efficacia. E alla magia si possono af-
fiancare, in questo caso, le convinzioni religiose. Il fedele prega per otte-
nere ciò che gli sta a cuore e ritiene che vi sia un dio che ha creato il mondo,
ma anche se ritiene che nulla possa giustificare il miracolo che pure in
qualche misura si attende e anche se converrebbe che non sia in fondo com-
prensibile il sorgere dal mondo dal nulla, sembra egualmente credere che
così stiano le cose. Anche in questo caso è difficile negare che non si debba
parlare di un credere: il fedele crede che le cose stiano così, qualunque sia
il significato esatto che deve essere dato alle sue parole. Crede a un dio
creatore e crede ai miracoli, anche se sa che nulla di ciò che altrimenti crede
può giustificarli. Si tratta di credenze particolari, certo – ma perché par-
larne come di figure di confine? Che cosa ci autorizza ad intendere queste
manifestazioni della nostra cultura come forme che implicano in qualche
modo l’immaginazione?
Per rispondere a questa domanda sono necessarie due considerazioni pre-
liminari. La prima è di carattere generale e dev’essere soltanto rammentata
perché è più volte comparsa in queste pagine: io non credo che l’immagi-
nazione sia il titolo generale sotto cui raccogliere le operazioni di una qual-
che facoltà che appartenga alla mente umana. Le cose non sono così sem-
plici. Certo, una qualche facoltà di richiamare alla mente qualcosa che non
è presente e che, tuttavia, non appartiene al nostro passato deve esistere e
può darsi che consista propriamente nella capacità di produrre immagini
mentali, qualunque cosa di preciso questo significhi. L’immaginazione,
tuttavia, è divenuta molte cose diverse e se ci chiediamo se abbia un suo
175
peso nelle credenze magiche e religiose, di fatto ci chiediamo soltanto que-
sto: se nelle credenze religiose e magiche vi sia un atteggiamento rispetto
ai temi della religione e della magia che sia in qualche modo riconducibile
a quell’atteggiamento in senso ampio narrativo che abbiamo colto come la
proprietà specifica dell’immaginazione in senso pregnante.
La seconda considerazioni su cui è opportuno soffermarsi concerne la
natura della domanda che intendiamoci porci. Non si tratta di una questione
psicologica: non vogliamo chiederci se chi crede nel racconto biblico del
paradiso terrestre o nelle arti dello sciamano abbia gli stessi vissuti che
provano coloro che credono al fatto che Cesare varcò il Rubicone il 10
gennaio del 49 a. C. o che il paracetamolo è un antipiretico. Ma non è nem-
meno una questione empirica: non ci chiediamo se tra coloro che credono
ai racconti della Bibbia vi sia qualcuno (o anche più di qualcuno) che vi
creda nello stesso modo in cui altri credono ai racconti degli storici. La
domanda che ci poniamo ha natura fenomenologico-concettuale: ci chie-
diamo se, in generale, il credere al racconto biblico della creazione di
Adamo ed Eva e della colpa da loro commessa implichi concettualmente
le stesse credenze e le stesse conseguenze che si legano al fatto di credere
ad un evento tra gli altri. Si tratta di una domanda che non chiama in causa
la nostra reazione fattuale ai miti e ai racconti religiosi o ai (presunti) eventi
magici e miracolosi cui talvolta si crede, poiché verte sul significato che
attribuiamo a quei racconti e a quegli eventi – un significato che si rivela
nella grammatica degli atti e dei comportamenti ad essi rivolti.
Se ci poniamo così questa domanda – se ci chiediamo in altri termini se,
in se stessi, i racconti biblici e le guarigioni dello sciamano siano almeno
in parte compresi ed intesi alla luce di ciò che ci insegna il concetto di
narrazione immaginativa – allora la risposta che si deve dare è, io credo,
affermativa. L’immaginazione è chiamata in causa dalle credenze magiche
e religiose: per quanto siano irriducibili a favole o a recite di natura teatrale,
i miti e le pratiche dello sciamano chiedono di essere almeno in parte intese
alla luce di ciò che l’immaginazione ci insegna.
Le ragioni per sostenere una simile tesi ci riconducono innanzitutto al
fatto che se si può parlare di credenze magiche e religiose, lo si può fare
soltanto a patto di riconoscere che si tratta di credenze sui generis. In un
certo senso, chi crede alla magia e ai racconti biblici vi crede in un modo
che sembra tenere conto della loro componente immaginativa. Vi sono al-
meno quattro diverse considerazioni che ci conducono verso questa tesi.
176
1. La prima è la più ovvia e ci riconduce al carattere insulare delle cre-
denze magiche e religiose. Le credenze sono normalmente caratterizzate
da quello che si potrebbe chiamare l’olismo delle credenze. Se credo ad
una proposizione p debbo avere delle ragioni per p, ma insieme debbo
ritenere che p sia coerente con il sistema complessivo delle mie credenze:
non posso credere alle leggi della fisica e insieme credere che il Barone
di Munchausen abbia potuto emergere dagli abissi tirandosi per il codino
della parrucca. Le credenze sono fatte così: si appoggiano le une alle altre
e si sostengono o si escludono vicendevolmente. Così appunto stanno le
cose, ma credenze magiche e religiose sembrano sfuggire a questa regola.
Chi crede nella magia, crede che sia talvolta vero ciò che di solito ritiene
non soltanto improbabile, ma addirittura impossibile. Per fare una magia
occorre compiere qualcosa che non si può normalmente fare – non basta
levarsi il cappello per essere un mago, ma è necessario cavarne almeno un
coniglio. E ciò che vale per la magia vale per i miracoli: credere ai miracoli
significa credere ad un evento incredibile perché un miracolo è tale solo se
si riferisce a qualcosa che accade infrangendo l’ordine consueto della na-
tura. L’olismo delle credenze sembra in questo caso del tutto fuori luogo;
anzi, sembra essere vero il contrario: possiamo credere a un evento magico
o religioso se e solo se abbiamo ragione di pensare che non collimi con il
sistema delle nostre convinzioni e che accada scardinando in un punto e in
un attimo irrepetibile l’ordine della natura. Chi crede alla magia o ritiene
che possano darsi miracoli, non cerca il loro posto nella natura e non
pensa che sia necessario ricomprenderla nelle sue regole e nelle su con-
suetudini dopo che misteriosamente le sue maglie si sono allentate per
consentire che accadesse un evento inatteso, ma crede che vi sia una realtà
altra – un’irruzione del sacro e del magico nella realtà quotidiana, un
evento altro che non può trovare posto tra ciò che di consueto accade. È
per questo che la magia e i miracoli chiedono un esecutore particolare: un
evento è magico o miracoloso solo se non può essere prodotto da chiun-
que e solo se non è un evento banalmente ripetibile.
2. I miracoli e le magie sono eventi inspiegabili. Sarebbe tuttavia sba-
gliato pensare che questo dipenda da un limite delle nostre conoscenze:
qualcosa è un miracolo o una magia solo se non possiamo addurre alcuna
spiegazione per il suo esserci. Una magia spiegata è un gioco di prestigio,
un miracolo che abbia una giustificazione fisica è un evento complesso e
inatteso che non ha in sé nulla di miracoloso. Ma ciò è quanto dire che
177
miracoli e magie non sono soltanto eventi per cui non abbiamo una spiega-
zione, ma che l’assenza di una spiegazione è costitutiva del loro stesso es-
serci. Possiamo credere ai miracoli e alla magia solo se non abbiamo alcuna
ragione che li giustifichi, ma solo motivi che rendano conto dello scopo
che ci si prefigge con il loro accadere36. In fondo Pascal ha ragione a stiz-
zirsi di fronte alle perplessità di chi non crede alla transustanziazione: se si
accetta di credere in dio non si può poi storcere la bocca se non abbiamo
giustificazioni che ci consentano di credere a ciò che ha un carattere mira-
coloso. Non abbiamo giustificazioni e ragioni per credere, ma miracoli e
magie additano una diversa forma di evidenza che pretende di catturare la
nostra fiducia: il loro essersi esemplarmente manifestati. Le magie e i mi-
racoli non avvengono di nascosto, non possono essere inferiti: in questo
caso l’esse sembra presupporre il percipi. I miracoli e le magie sono dav-
vero mirabilia: cose che debbono essere viste con stupore e che possono
essere credute solo perché si ritiene di averle viste. Normalmente le cose
non stanno così: non ci basta vedere per credere e può capitare di non poter
credere ai propri occhi. E soprattutto: gli accadimenti, per essere, non hanno
bisogno di manifestarsi. Miracoli e magie, invece, debbono necessaria-
mente coinvolgerci come spettatori: il loro accadere è indisgiungibile dal
loro mettersi in scena.
3. Le nostre credenze sono, nella norma, suscettibili di essere falsificate.
Se attribuisco un evento a una causa – la pioggia che cade alle nuvole nere
che oscurano il cielo – subordinerò la mia credenza al gioco delle possibili
falsificazioni. Se la pioggia cadesse anche quando il cielo è sereno, dovrei
riconoscere di essermi sbagliato: sarei costretto a constatare che le nuvole
(quel tipo di nuvole) non sono una condizione necessaria della pioggia. E
così come le esperienze contrarie sembrano dissolvere le nostre credenze,
così le conferme empiriche sembrano consolidarle. Nel caso della magia e
dei miracoli le cose non stanno così. Lo sciamano danza e mette così in
scena la guarigione del malato – che tuttavia non per questo guarisce. Le
malattie hanno (vedi il caso!) una loro ostinata sordità ai rituali e di questo
36 Certo, la magia non rinuncia ad una qualche teorizzazione e il mago non può prendere interamente
commiato dal sapiente: di qui la possibilità di scrivere trattati di magia e di qui anche la pretesa di dare
conto degli eventi magici e di ricomprenderli nell’ordine della natura. Del resto nel Cinquecento è
storicamente rilevante il nesso che lega la magia alla riflessione naturalistica e la riflessione naturali-stica alla scienza, e questo mostra quanto siano schematiche queste considerazioni. E tuttavia ogni
trattato di magia sembra infine ricondurci ai segreti impenetrabili della natura, ad una vena profonda
della vita naturale che non si situa sul piano della realtà consueta delle cose e che allude ad un ordine diverso, ad una realtà altra.
178
non potevano non accorgersi uomini come noi che vedevano necessaria-
mente il fallimento dei loro sforzi e assistevano comunque alla morte dei
loro cari. Lo sciamano ha inscenato i suoi balli, ma la magia promessa
non c’è stata – non è proprio accaduto nulla di più di quello che a ragione
si dovrebbe riconoscere di avere visto. Eppure, ostinata come la malattia,
anche la credenza nei rituali magici permane: l’insuccesso del rituale ma-
gico non sembra intaccare la fiducia di chi vi si affida e sembra comunque
possibile sostenere che la colpa è da imputarsi ad altro – a un errore nella
cerimonia, a una forza avversa, al destino. Miracoli e magie non cercano
una conferma empirica che ne dimostri la possibilità e la realtà: si accon-
tentano di una testimonianza esemplare che le attesti, a dispetto di ogni
ragionevolezza. In un certo senso, il contrasto tra le ragioni che ci condu-
cono a negare che le cose siano andate proprio così e ciò che invece pre-
tende un’esperienza vissuta apparentemente inemendabile fa parte del sa-
cro e del magico. Non si può credere ad un miracolo perché tutto parla
contro di esso, ma si deve crederci perché qualcuno testimonia di avervi
assistito – perché le ragioni per non credere debbono essere messe a tacere
da una testimonianza esemplare, da un’esperienza vissuta, anche se irri-
petibile e lontana37. Non ci sono argomenti che possano far credere ad una
magia o a un miracolo, ma sembra possibile credervi perché la magia e il
sacro sembrano essere presenti e sono capaci di coinvolgerci. Lo scia-
mano non può dare conferme empiriche del suo operato ma, comunque
vadano le cose, può garantire almeno questo: che chi spera nella guari-
gione del malato avvertirà la presenza del magico, sia pure solo durante
il rituale. La presenza della magia e del sacro, anche se non ancora la sua
efficacia, è garantita dal mettersi in scena del rituale e dal suo coinvolgere
gli spettatori che vi assistono.
4. Non facciamo che sviluppare queste considerazioni se osserviamo
che miracoli e magie non sono probabili, ma (in un certo senso del ter-
mine) nemmeno improbabili – perché sono unici e irripetibili. Stanno al
di là del gioco delle conferme e delle delusioni e quindi anche al di là del
loro calcolo. Lo sciamano promette ma non prevede la guarigione e non
dice quanto sia probabile; da parte sua il malato non sembra ritenere che
37 Non è sufficiente che le reliquie ci siano: è necessario vederle. Ora, vedere un pezzo di stoffa non è
una conferma empirica maggiore di quanto non lo sia sapere che quel pezzo di stoffa c’è e che è legato
ad un evento miracoloso, ma solo l’esperienza garantisce il coinvolgimento e ricrea quella sensazione di presenza che sembra giustificare il credere al di là delle ragioni che lo rendono implausibile.
179
i riti magici cui si affida siano meritevoli di fiducia in ragione della pro-
babilità del loro successo. Un evento è probabile o improbabile nel corso
della natura, ma le magie e i miracoli non vi appartengono e per questo
non sono valutati alla luce di ciò che normalmente determina la nostra
credenza. Alle pareti delle chiese si appendevano un tempo gli ex voto,
ma suonerebbe stranamente irriverente indicare anche la percentuale di
successo delle preghiere o stilare una piccola classifica sull’affidabilità
dei santi. Suonerebbe irriverente perché cancellerebbe il carattere di sa-
cralità dei miracoli o l’aura magica delle guarigioni dello sciamano. Ci
vogliono alte percentuali di successo per credere nell’efficacia scientifica
di una cura; per credere ad una magia o a un miracolo è sufficiente invece
sentirsi coinvolti dal sacro e dal magico: si deve partecipare ad una sua
(presunta) manifestazione. Ora, per avere ragioni di credere ad un evento
non è sufficiente averne esperienza (e tantomeno credere di averne espe-
rienza): è necessario che ciò che si crede abbia un’esistenza che possa
essere altrimenti accertata. Credo di averti incontrato vicino a casa perché
ti ho visto, perché abiti qui vicino, perché ti conosco bene e perché so che
a quell’ora di quel giorno eri proprio lì nei paraggi. Si crede ad una cosa,
credendone molte e sul fondamento di molti e diversi accadimenti. Non
così stanno le cose per le credenze miracolose. I discepoli che ricono-
scono Gesù in Emmaus hanno tutte le ragioni per non credere di averlo
incontrato, eppure lo riconoscono, sia pure soltanto quando sono esem-
plarmente chiamati ad assistere alla dimensione sacrale del pane spezzato.
5. Si può essere razionali o irrazionali nei propri comportamenti, ma le
credenze sembrano essere per loro natura tendenzialmente razionali: ob-
bediscono al gioco delle ragioni perché ne dipendono e perché se ne nu-
trono. In questo senso le credenze sono indipendenti dalle nostre decisioni
e dai nostri capricci: non posso credere a quello che voglio e non posso
continuare a credere alla realtà di un fatto se ho ragioni cogenti che mi
mostrano che ciò che credo non è vero. Certo, può talvolta accadere che
si cerchi di chiudere gli occhi sulle ragioni che ci costringono a mutare
opinione, ma nella norma il sistema delle credenze si ancora ai fatti e da
essi dipende. Nel caso delle credenze magiche o religiose le cose non
sembrano stare così. Religione e magia sembrano chiedere una profes-
sione di fede: in questo caso, il credere non ci appare come un tratto che
accompagna l’evidenza obiettiva di ciò cui si crede, ma come un atteg-
giamento soggettivo che non ci parla tanto dell’evidenza dell’oggetto,
quanto del carattere della soggettività, di una sua decisione. Chi professa
180
di credere in un dio o nel potere di uno sciamano ci dice qualcosa su di
sé: ci dice appunto di essere un credente. Satana decide di tentare Giobbe
perché Giobbe è un uomo dalla fede incrollabile che non abbandonerà il
suo dio nemmeno quando le prove cui verrà sottoposto sembreranno dar-
gli ogni ragione per farlo: a reggere la sua professione di fede non è l’evi-
denza, ma una decisione presa, una scelta fatta una volta per tutte. Si po-
trebbe forse dire così: prima di ogni altra cosa, il racconto di Giobbe è
una descrizione precisa di che cosa voglia dire credere in dio e di quali
siano le caratteristiche che distinguono una simile credenza dalle forme
consuete del credere. Perché questo è chiaro: un Giobbe che credesse ad
un fatto al di là di ogni evidenza empirica non sarebbe un modello da
imitare, ma uno sciocco da deridere.
Queste considerazioni ci spingono a sostenere che le credenze magiche
e religiose sono appunto credenze sui generis. Non sembrano dipendere da
giustificazioni di ordine cognitivo e non cercano prove che ci consentano
di verificarle o di falsificarle. Chi crede nei rituali di guarigione dello scia-
mano si affida ad essi, al di là di ogni ragione per credere. Decide di com-
portarsi così – come un credente che spera che la malattia presti ascolto
alle intimazioni dello sciamano. Si lascia coinvolgere dallo spettacolo che
si inscena per lui e si dichiara disposto a parteciparvi. E in fondo la stessa
cosa sembra fare il credente: la sua professione di fede è una decisione
presa che lo vincola ad un certo modo di rapportarsi alle cose ed al mondo.
Il credente si dichiara disponibile a credere e così facendo si lascia coin-
volgere da ciò che la religione gli chiede.
Nelle forme peculiari che il credere assume nella dimensione magica e
religiosa non sembra difficile scorgere una serie di tratti che rimandano
all’universo immaginativo. All’immaginazione sembra ricondurci innan-
zitutto il carattere insulare delle credenze magiche e religiose. Nelle favole
accettiamo che i lupi parlino e che un cavallo di legno possa nascondere
nel suo grembo molti e molti uomini armati anche se l’una cosa e l’altra si
scontrano con ciò che altrimenti riteniamo plausibile; accade così anche
nel mondo magico e nell’universo religioso: una ciocca di capelli sottratta
all’amata servirà per piegarne la volontà anche se questo non significa che,
al di fuori del contesto magico, una simile fiducia appaia fondata anche a
chi ai maghi di tanto in tanto si affida e tutti sanno che dalla morte non si
può fare ritorno, ma ciò nonostante si crede al vangelo che narra della
morte e resurrezione di Lazzaro. Più precisamente: lo storia di Lazzaro è
181
un miracolo che crede di essere creduto proprio perché nessuno può risor-
gere dalla morte e perché quel che accade a Lazzaro non mette in questione
la credenza generale che concerne l’irreversibilità della cessazione delle
funzioni biologiche di un organismo vivente. Tutt’altro: ciò che accade a
Lazzaro non ci costringe a dubitare dell’irreversibilità della morte, proprio
come la vicenda di Cappuccetto rosso non ci costringe a credere alla lo-
quacità dei lupi. Il lupo della favola è loquace perché è fatato; Lazzaro
sconfigge la morte perché Gesù compie un miracolo. Non dobbiamo cam-
biare le nostre concezioni naturali né nell’uno, né nell’altro caso. E tutta-
via, vi è un punto in cui immaginazione e pensiero magico e religioso si
diversificano e su cui dovremo in seguito ritornare: chi crede che Lazzaro
abbia potuto risorgere non cambia idea sul corso della natura, ma cambia
almeno in parte idea sulla natura, poiché è invitato a riconoscere che il
corso naturale degli eventi non è l’unica forza in gioco.
Il nesso con l’immaginazione sembra essere, in secondo luogo, implicato
anche dal fatto che le credenze magiche e religiose non sembrano disposte
ad ascoltare di buon grado gli argomenti che le rendono poco plausibili e
non sembrano interessate a verifiche empiriche. Così facendo, tuttavia, la
coscienza magica e religiosa si comporta in modo simile ad un lettore che
si lascia coinvolgere dalle finzioni in cui si immerge, senza doverle per
questo vagliare empiricamente. Dobbiamo credere che l’acqua abbia rico-
perto le terre e che sia giunta sino alle vette del monte Ararat, ma non pos-
siamo fare domande per verificare se le cose stiano davvero così, e lo stesso
vale per le gesta dello sciamano: che siano magia i gesti che compie e non
soltanto i passi codificati di uno strano balletto è qualcosa cui si deve cre-
dere perché accettiamo di partecipare alla messa in scena che si recita per
noi, non perché vi sia una qualche prova della loro efficacia. Il disinteresse
per la dimensione della verificazione si spinge del resto sino a tollerare il
suo contrario. Oggi è difficile pensare che sia possibile credere al racconto
del peccato originale eppure quel racconto sembra per altri versi vero: in-
segna molte cose che pretendono di essere vere, in una forma che è solo in
parte dissimile da ciò che vale per un racconto di finzione.
Infine, in terzo luogo, sembra possibile accostare le credenze magico-
religiose alla sfera immaginativa perché anche in questo caso la dimen-
sione del coinvolgimento sembra chiamare una decisione di carattere di
decisione personale. Il bambino che comincia a giocare fa sottovoce una
promessa: accetta le regole del gioco e non farà il guastafeste. Non dirà che
il divano è un divano e non rammenterà ai compagni di gioco che il mare
182
è un tappeto che conosce bene. Non dirà queste cose, perché se vuole gio-
care deve accettare di lasciarsi coinvolgere dal mondo ludico, a dispetto
dell’evidenza delle cose e della loro palese realtà. Per giocare, è necessaria
una fede incrollabile: occorre rimanere bene ancorati all’universo ludico
ed è necessario neutralizzare le mille spine della realtà che sono capaci di
far esplodere la bolla che l’immaginazione ha creato. Qualcosa di simile è
richiesto anche a chi crede nella magia o nei miracoli: deve sforzarsi di
credere e mettere da canto le cautele dello spirito critico. Il peggior nemico
della magia è la consapevolezza ironica: se non ci si lascia coinvolgere dal
gioco oscuro che il mago apparecchia per noi, i suoi gesti appariranno
come una mimica sforzata e le sue parole come ciarlataneria. Uno stesso
discorso per i gesti della liturgia religiosa che assumono un senso solo se
si accetta di credere, mettendo provvisoriamente da canto il sistema delle
certezze che accompagnano il nostro consueto rapporto con la realtà e con
il mondo. Per tacitare l’atteggiamento ironico, tuttavia, è necessario so-
spendere pro tempore la memoria della vita quotidiana: per credere alla
realtà altra della magia e della religione dobbiamo per un poco mettere da
canto le certezze della nostra vita. Il feticcio che lo stregone trafigge non è
il nemico – se lo fosse sarebbe già nelle sue mani; trafiggerlo non significa
ferire il nemico: terminato il rito, il guerriero deve armarsi per difendersi
da chi potrebbe nuocere alla tribù. Tutto questo è chiaro; eppure il rito in-
scena un desiderio e insieme promette un risultato: lo promette solo se ci
si libera per un attimo dalle credenze e dalle convinzioni quotidiane.
Non facciamo che approfondire queste considerazioni se osserviamo che
questa forma sui generis del credere si lega anche ad una peculiare modi-
ficazione dell’oggetto della credenza. Chi crede al racconto biblico del di-
luvio e dell’arca crede in fondo soltanto a questo: crede alla malvagità degli
uomini e, insieme, all’indissolubilità del patto che li lega a dio. Non si in-
teressa al fatto in quanto tale e non chiede come possano avere vissuto in
una barca tanti animali per tanti giorni. Non vuole sapere altro e non gli
interessa altro. Chi crede ai racconti biblici ci si affida come si affida ad
una favola, che non deve essere messa in discussione se non si vuole smar-
rirne il senso. Ancora una volta, è opportuno rammentare quello che scri-
veva Pascal: se accetti di porti sul piano delle credenze religiose, non ti è
lecito poi fare domande oziose su quanta acqua debba essere caduta dal
cielo per coprire persino le montagne più alte e lasciare frammenti dell’arca
quasi in cima al monte Ararat e su che cosa abbiano mangiato leoni e bu-
fali, gazzelle ed elefanti per tanti giorni, chiusi su una barca di 300 cubiti
183
di lunghezza. Chi legge la Bibbia può disinteressarsi di tutte queste do-
mande, perché l’unica cosa che ha un peso è il racconto e il suo farci riflet-
tere. Così, se ci sembra vera la storia di Noè è solo perché è profondamente
vera: perché dice qualcosa su cui siamo chiamati a riflettere, non un fatto
che dovremmo poter accertare38. Considerazioni analoghe sembrano valere
anche per i miracoli e per le magie: lo sciamano recita i gesti che debbono
convincere la malattia ad abbandonare il corpo del malato e si comporta in
un modo che sembra essere ragionevole se lo intendiamo alla luce del rito.
Si tratta di gesti codificati: lo sciamano getta del fumo sul corpo del malato
come si farebbe nella tana di un animale che si vuole mettere in fuga oppure
finge di risucchiare del veleno che poi sputa. Si comporta così, seguendo
una serie di gesti che sono resi sensati da ciò che nel rituale si narra, ma
che non possono essere presi alla lettera tutti insieme: nessuno di essi è
giustificato da una sua concreta operatività pratica e non avrebbe senso
cercare di comprenderlo al di fuori della narrazione rituale che sola gli at-
tribuisce un senso. Proprio come nella favola il lupo parla e per questo può
ingannare Cappuccetto rosso, così nel rituale la malattia è ora un demone
da stanare, ora un veleno che deve essere tolto dal corpo del malato come
si leverebbe il pungiglione di un’ape dalla puntura.
Infine, se analizziamo i racconti mitologici delle varie religioni, ci im-
battiamo in una serie rilevante di aspetti concordanti. In moltissime culture
si parla di un antico diluvio e di terre sommerse dalle acque. Da un punto
di vista fattuale potrebbero tutte parlare di uno stesso evento – l’acqua sale
e ricopre le terre e l’umanità è costretta a riprendere daccapo il suo cam-
mino – ma è apparentemente privo di senso chiedersi se il diluvio di cui
narra la Bibbia è lo stesso di cui scrive Ovidio nelle Metamorfosi e se il
mito mesopotamico racconta, sia pure in altro modo, la stessa vicenda di
cui ci parla un antico mito thai. È privo di senso, perché rispondere affer-
mativamente non significherebbe riconoscere un identico evento alla base
di tante storie, ma fondere insieme religioni e miti diversi: creare un unico
mondo mitico di cui ci parlano. Ora il mondo mitico di Deucalione e Pirra
è diverso da quello di Noè ed entrambi sono diversi da quello mesopota-
mico di Utanapishtim ed è per questo che non sembra possibile dire che ci
parlano dello stesso diluvio, proprio come sembra possibile escludere che
la strega malvagia di un racconto sia la stessa strega che si pente in un altro.
38 A dispetto del fatto che ancora oggi c’è chi si ostina non soltanto a cercare – come l’astronauta
americano James Irwin – ma addirittura a trovare l’arca di Noè sulle cime dell’Ararat, una montagna che supera i 5000 metri di altezza.
184
Il punto è qui: proprio come le favole, i “fatti” mitici hanno un criterio di
identità che sembra essere intradiegetico. Chi rifiuta di accettare che il di-
luvio di Noè sia lo stesso diluvio di Deucalione e Pirra non lo fa immer-
gendosi in un’indagine empirica; non cerca di scoprire come stiano real-
mente i fatti al di là dei racconti, ma decide che non è possibile un’inter-
pretazione che ci consenta di accomunare prospettive così diverse. Alla
stessa stregua, chi ritenesse possibile leggere quei racconti come se narras-
sero uno stesso evento, lo farebbe interpretandoli alla luce di una narra-
zione comune o semplicemente intendendoli come allegorie di uno stesso
problema – per Hegel il tradimento della natura nei confronti dell’uomo,
per esempio. Certo, potremmo leggere i miti che ci parlano del diluvio
come tracce di un evento reale accaduto in un passato molto remoto, e vi è
chi ha cercato di trovare un fondamento reale alla storia del diluvio (del
nostro diluvio): forse le acque del Mediterraneo alla fine della glaciazione
hanno infine varcato il Bosforo ampliando il bacino del mar Nero, forse
invece è stato un terremoto in Anatolia che ha creato lo stesso effetto, forse
un meteorite caduto nel golfo persico. Forse. Ma se anche fosse andata
così, sarebbe davvero questo il fatto di cui la Bibbia o l’epopea di Gilga-
mesh ci parlano? Non credo che nessuno sarebbe disposto a dirlo, e la ra-
gione sarebbe ancora una volta da cercare nella peculiare debolezza del
concetto di identità narrativa. Se su un vecchio giornale ceco leggessimo
che in una qualche casa di Praga, nel secolo scorso, un commesso viaggia-
tore dopo una notte inquieta, si fosse davvero risvegliato nel corpo di un
gigantesco insetto, non dovremmo per questo rallegrarci di avere final-
mente scoperto chi era Gregor Samsa e non potremmo imparare proprio
nulla di nuovo sulla vicenda che Kafka ci narra, perché non avremmo ra-
gione di credere che il fatto narrato da La metamorfosi sia davvero lo stesso
che quel giornale riporta. Certo, anche in questo caso l’assimilazione non
è completa. In fondo, la bibbia pretende davvero che un diluvio vi sia stato,
anche se poi chi legge il testo biblico non sembra disposto a imparare dalla
realtà nulla di nuovo su quel memorabile evento – che sia il frutto di un
meteorite o che abbia piovuto un po’ meno di quanto si narri, per esempio.
Credo che queste considerazioni ci consentano di comprendere in che
senso si possa parlare di una componente immaginativa nella religione e
nella magia. Ma sino a che punto è possibile spingersi in questa direzione?
Possiamo davvero pensare di venire a capo di queste forme della nostra
cultura intendendole esclusivamente alla luce dell’immaginazione, anche
se ogni volta che abbiamo indicato le ragioni per un accostamento ci è
185
sembrato necessario indicare poi una qualche differenza?
Ora il tentativo di dare a questa domanda una risposta affermativa sembra
poggiare su una tesi di carattere generale che potremmo formulare così: riti
e miti sono innanzitutto manifestazioni espressive ed è questo che li acco-
sta alla dimensione immaginativa. Potremmo forse dire così: il pensiero
magico-religioso è il frutto di un’immaginazione inconsapevole. Nelle sue
narrazioni prende forma un mondo che ha la stessa natura delle finzioni,
ma che non abbiamo ancora imparato a cogliere nel suo statuto finzionale.
Crediamo al pensiero mitico-magico perché non abbiamo ancora imparato
a comprendere nella loro natura i frutti di un’immaginazione che ci domina
e che crea, senza che ce ne avvediamo, una realtà apparente. È una tesi su
cui vale la pena di riflettere e cui Cassirer dà una veste ricca e plausibile
nella sua Filosofia delle forme simboliche.
3. Una prima ipotesi: l’immaginazione inconsapevole
Nel paragrafo precedente abbiamo sollevato una serie di interrogativi e ora
vogliamo cercare di approfondirli e di svilupparli nel loro senso, riflettendo
su un testo filosofico che ha avuto una fortuna considerevole nella filosofia
novecentesca: la Filosofia delle forme simboliche (1923-1929) di Ernst
Cassirer (1874-1945). Su Cassirer e sul peso che questo filosofo ha avuto
sulla filosofia novecentesca e in modo particolare sulla cultura italiana vi
sarebbero molte cose da dire, ma dovremo qui rinunciare ancora una volta
ai vantaggi di un’introduzione storica di ampio respiro per volgere diretta-
mente lo sguardo al nostro problema e cioè al modo in cui Cassirer affronta
il problema del mito.
Di questo problema per Cassirer si deve discorrere all’interno di una pro-
spettiva di ampio respiro teorico che cerca di ricondurre il quadro generale
di una filosofia della cultura nell’alveo di una riflessione di stampo tra-
scendentale: il linguaggio, il mito e le diverse forme del conoscere do-
vranno apparirci allora come manifestazioni della vita dello spirito, come
forme relativamente autonome e indipendenti in cui si manifesta la fun-
zione ordinatrice della soggettività e la sua capacità di attribuire un senso
ai materiali informi dell’esperienza sensibile. Comprendere la natura del
linguaggio, del mito o del conoscere vorrà dire allora riprendere, sia pure
con una qualche libertà, il sistema kantiano delle funzioni a priori della
soggettività, per intenderle ora come forme di ordinamento e come principi
razionali che guidano la soggettività nella costruzione dei diversi ambiti in
cui si scandisce la vita dello spirito.
186
È in questa luce che per Cassirer diviene centrale la nozione di simbolo
che deve essere tuttavia compresa mettendo fin da principio da canto la tesi
secondo la quale i simboli altro non sono che mezzi per comunicare un
pensiero già dato. Il simbolo, per Cassirer, non è questo; è piuttosto la
forma in cui di volta in volta si manifesta il risultato cui conduce lo sforzo
soggettivo di illuminare razionalmente il dato, di comprenderlo sul fonda-
mento delle funzioni a priori della soggettività. Cassirer scrive così:
il simbolo non è un mezzo che ci consenta di comunicare il pensiero, ma è il risul-
tato cui di volta in volta giunge, in un processo infinito, la riconduzione del dato
alla norma che lo comprende e lo illumina (E. Cassirer, Filosofia delle forme sim-
boliche, a cura di E. Arnauld, La Nuova Italia, Firenze 1966, vol. II, p. 24).
Un processo infinito: Cassirer lo dice apertamente ed è forse questa la
prima delle ragioni che lo spingono a ricondurre il processo di compren-
sione e di significazione soggettiva del dato sotto l’egida del concetto di
simbolo. I simboli rimandano al di là di se stessi e non possono essere intesi
se non come forme entro le quali si cerca di comprendere e di portare a
manifestazione una totalità che tuttavia ci sfugge. Così accade nelle diverse
forme in cui si articola la vita dello spirito: nel suo tentativo di compren-
dere il dato, la ragione non può mai giungere ad una meta che la soddisfi
pienamente e la Filosofia delle forme simboliche è chiaramente attraversata
dal pathos idealistico dell’infinitezza dei compiti dello spirito e dalla cer-
tezza che ogni risultato altro non sia che un momento di stasi all’interno di
un processo aperto e infinito. In questo processo, tuttavia, non assistiamo
soltanto al progressivo rischiararsi del dato, ma anche ad una sorta di au-
tocomprensione della soggettività che passo dopo passo si libera dell’opa-
cità dei materiali che cerca di comprendere e sempre più chiaramente trova
se stessa in ciò che ordina e razionalmente interpreta. La Filosofia delle
forme simboliche non è dunque solo la narrazione di un compito infinito –
il compito infinito della comprensione, ma è anche una nuova riproposi-
zione del romanzo di formazione della soggettività: nel suo penetrare i ma-
teriali sensibili con le sue regole, il soggetto comprende sempre meglio la
sua natura e scopre sempre più chiaramente la regola del suo operare. Nel
linguaggio, nel mito, nella conoscenza assistiamo così ad un processo che
ha un’identica struttura: passo dopo passo, lo spirito si libera dall’oscurità
che lo rende cieco a se stesso e il suo faticoso cammino si fa sempre più
leggero e luminoso. Il simbolo si fa così sempre più manifesto alla co-
scienza che lo pone.
187
Del resto, sottolineare che ci muoviamo sempre e comunque nella di-
mensione di una simbolicità che ci impedisce di considerare definitiva una
qualsiasi acquisizione dello spirito significa anche richiamare alla mente il
tema stesso di ogni filosofia trascendentale: la tesi secondo la quale il con-
cetto di oggettività non può essere presupposto, ma si costruisce passo
dopo passo come il frutto di una sintesi soggettiva, di un processo di su-
bordinazione dei dati amorfi alla regola dell’intelletto, ai suoi principi ca-
tegoriali. Ora, anche questa tesi, così strettamente connessa alla prospettiva
kantiana della rivoluzione copernicana, si esprime in modo esemplare –
per Cassirer – nella nozione di simbolo. Il concetto di simbolo è un con-
cetto che ha una sua chiara piega linguistica e nel linguaggio le parole
hanno il significato che loro propriamente compete solo in virtù della loro
appartenenza all’orizzonte unitario della lingua. Che cosa significhi un sim-
bolo non lo si può comprendere se non ci si dispone all’interno del linguag-
gio e se non ci si pone in una prospettiva funzionale che spieghi la natura
di ogni parte riconducendola al ruolo che occupa nella totalità dell’uni-
verso di senso cui appartiene:
ogni singolo atto che pone una parte – scrive Cassirer – implica che si ponga il tutto,
non secondo il suo contenuto, ma secondo la sua struttura (E. Cassirer, Filosofia
delle forme simboliche, I, p. 43).
È una tesi kantiana: non si dà esperienza se non nel sistema, presupposto a
priori, delle forme trascendentali della soggettività. E ciò è quanto dire che
ogni contenuto della nostra esperienza è sempre parte di un sistema di rap-
presentazione, di una prospettiva interpretativa che lo attraversa e che gli
consente di rappresentarsi nello spazio logico della soggettività. Di per sé
il dato sensibile non può avere un posto nella coscienza: esperirlo significa
allora necessariamente rappresentarlo all’interno di un sistema di regole –
vuol dire insomma farne un simbolo che appartenga ad un sistema teorico
più ampio, ad una forma simbolica appunto.
Di qui, da queste considerazioni di carattere generale, si può muovere per
trarre una conclusione che si dispone ancora una volta nell’alveo della fi-
losofia kantiana. Parlare di coscienza simbolica e di simbolo vuol dire in-
fatti – per Cassirer – sottolineare in forma nuova una concezione generale
dell’oggettività: l’oggetto non è il dato nella sua opacità empirica e non è
nemmeno una realtà metafisica assoluta, ma è ciò che si costruisce nel pro-
cesso della simbolizzazione. L’oggettività, che nel simbolo si costruisce e
si manifesta, ha così la forma nota del fenomeno kantiano:
L’essere positivo dell’oggetto empirico viene raggiunto, per così dire, mediante una
188
duplice negazione: da un lato mediante il suo distinguersi dall’ ‘assoluto’, e dall’al-
tro lato mediante il suo distinguersi dall’apparenza sensibile. Esso è oggetto del
‘fenomeno’, ma questo non è apparenza, infatti è fondato in leggi necessarie della
conoscenza, è un phaenomenon bene fundatum. Ancora una volta risulta che il con-
cetto generale di oggettività, come pure le sue singole realizzazioni concrete, nel
modo in cui si configura nella sfera del pensiero teoretico, poggia completamente
su di un atto progressivo di distinzione degli elementi d’esperienza, su di un lavoro
critico dello spirito, in cui sempre più l’accidentale viene distinto dall’essenziale,
ciò che è mutevole da ciò che è permanente, ciò che è contingente da ciò che è
necessario. E non vi è alcuna fase della coscienza empirica, per quanto ‘primitiva’
e irriflessa, in cui questo suo carattere fondamentale già non si riconosca chiara-
mente. Certamente negli studi di gnoseologia spesso si ammette quale comincia-
mento di ogni conoscenza empirica uno stadio della pura immediatezza, del sem-
plice dato, in cui le impressioni dovrebbero essere accolte nel loro semplice carat-
tere sensibile, ed essere ‘vissute’ senza che già fosse stata intrapresa in esse alcun
genere di attività formale, di elaborazione da parte del pensiero. In questo stadio
tutti i dati si troverebbero ancora, per così dire, disposti su di un piano, con un unico
carattere ancora indistinto e confuso di pura e semplice ‘esistenza’. Ma qui troppo
facilmente si dimentica che il supposto stadio puramente ‘ingenuo’ della coscienza
empirica non è esso stesso un dato di fatto, bensì una costruzione teorica; si dimen-
tica che esso non è altro che un concetto-limite creato dalla riflessione gnoseolo-
gico-critica. Anche dove la coscienza sensibile non si è ancora svolta in modo da
diventare la coscienza conoscitiva della scienza astratta, essa contiene già implici-
tamente quelle distinzioni e classificazioni che nella coscienza scientifica si presen-
tano in forma logica ed esplicita (ivi, II, pp. 50-51).
Si tratta di una constatazione importante. Per Cassirer, porsi sul terreno
delle forme simboliche vuol dire prendere atto del carattere costruttivo
dell’esperienza e mettere da parte come infondata ogni pretesa di stampo
assolutistico. Il filosofo che riconosce la funzione simbolica dell’esperire
deve insieme liberarsi del mito del dato e riconoscere che nell’esperienza
non vi è nulla di “semplicemente presente”. Ogni esperienza è interpreta-
zione: questa è la tesi che siamo invitati ad abbracciare.
Quest’ordine di considerazioni fanno da sfondo alla riflessione che Cas-
sirer dedica al pensiero mitico. Un punto deve essere fin da principio chia-
rito: se il mito è una forma simbolica tra le altre, studiarlo e comprenderlo
vorrà dire cercare di capire in che modo la coscienza mitica imprime una
sua forma ai materiali sensibili e in che modo li interpreta e li comprende.
E ciò è quanto dire: il mito non deve essere giudicato e compreso sempli-
cemente come un errore, ma come una manifestazione dello spirito in cui
si fa avanti un certo modo di rapportarsi alla nostra esperienza e di pen-
sarla: nel mito – e poi più chiaramente nel pensiero religioso e nell’arte –
si fa avanti per Cassirer una tendenza generale dello spirito, il suo attribuire
189
un valore ed una funzione espressiva al mondo che ci circonda.
Riconoscere al pensiero mitico una funzione peculiare – nel mito la realtà
si rivela carica di valore – vuol dire in primo luogo prendere le distanze
dalle interpretazioni positivistiche del mito che caratterizzano per esempio
l’opera antropologica di Tylor o di Frazer. Che cosa si il mito per l’autore
de Il ramo d’oro lo si comprende con chiarezza: per Frazer, il mito è in-
nanzitutto una falsa teoria e comprenderlo significa in ultima analisi inten-
derlo come un tentativo radicalmente falso di comprendere il mondo. Il
pensiero mitico si prefigge insomma gli stessi obiettivi della riflessione
scientifica, ma a differenza dello scienziato il pensiero primitivo si lascia
guidare da vaghe analogie ed è privo di mentalità empirica. E se i miti sono
false teorie e appartengono alla preistoria del sapere scientifico, i riti ma-
gici sono la manifestazione primitiva della tecnica: insomma, lo sciamano
è un medico scadente e se si comporta diversamente dai nostri medici, ciò
accade soltanto perché fonda la sua prassi su una teoria drammaticamente
falsa.
Per Cassirer, il filosofo della mitologia deve innanzitutto liberarsi da que-
sta prospettiva di carattere generale e deve rifiutarsi di cogliere nei miti un
cumulo di errori. Frazer sbaglia e il suo errore riposa, per Cassirer, nella
convinzione che il pensiero mitico abbia innanzitutto una valenza conosci-
tiva. I miti non sono teorie e la magia non è una tecnica priva di fondamento
oggettivo; rendersene conto, tuttavia, significa chiedersi quale sia la pro-
spettiva peculiare del pensiero mitico e quale il senso che esso attribuisce
ai fenomeni. Analizzare e comprendere il mito come una forma simbolica
vorrà dire allora interrogarsi sulla natura interpretativa del mito o – più
propriamente – chiedersi quale sia l’orientamento complessivo del sistema
concettuale entro il quale i materiali sensibili si dispongono per essere
esperiti dalla coscienza mitica.
È tuttavia sufficiente porsi questa domanda perché si faccia avanti una
difficoltà inattesa. Nel nostro rapidissimo tentativo di far luce sulla natura
del concetto cassireriano di simbolo ci siamo soffermati soprattutto su un
punto: abbiamo osservato come la prospettiva delle forme simboliche fa-
cesse tutt’uno con la tesi, di chiara ascendenza kantiana, secondo la quale
l’esperienza non è mai mera ricezione di dati, ma è sempre interpretazione
dei materiali sensibili che possono accedere alla coscienza solo se si pon-
gono come elementi di un sistema, come momenti che acquistano un senso
solo perché si dispongono in un sistema di rappresentazione concettuale
190
che attribuisce loro un significato di cui sarebbero altrimenti privi. Per ac-
cedere allo spazio logico e spirituale della soggettività, il dato deve vestire
le forme a priori della soggettività – deve dunque farsi simbolo e derivare
il suo senso dall’appartenenza ad una determinata forma simbolica. Questa
tesi riveste un’importanza centrale nella riflessione di Cassirer e tuttavia
basta addentrarsi nelle pagine dedicate alla coscienza mitica per imbattersi
in riflessioni che sembrano inconciliabili con essa.
Alla radice di questa difficoltà vi è innanzitutto il carattere eminente-
mente passivo del pensiero mitico. Conoscere significa vagliare il mate-
riale empirico e determinare il valore obiettivo di ogni singolo esperienza:
la conoscenza come forma simbolica implica dunque una soggettività che
si erge al di sopra del materiale esperito, per dargli forma e per vagliarne
l’obiettività. Nel caso del pensiero mitico, la soggettività non sembra af-
fatto emergere al di sopra della propria esperienza sensibile ed anzi ciò che
almeno apparentemente la caratterizza è il suo essere una coscienza affa-
scinata che si lascia pervadere dal contenuto che percettivamente le si im-
pone. Alla coscienza conoscitivamente atteggiata che si eleva sul suo con-
tenuto fa così eco la coscienza mitica che è pervasa da ciò che esperisce e
che vive nello stupore ciò che le si impone:
Il mito – scrive Cassirer – si attiene esclusivamente alla presenza del suo oggetto,
all’intensità con cui questo, in un determinato momento, afferra la coscienza e se
ne rende padrone (ivi, II, p. 52).
Possiamo anzi spingerci un passo in avanti e osservare che la coscienza
mitica non possiede quei tratti che in generale sembrano essere caratteri-
stici di una forma simbolica poiché non sembra in grado di vagliare i propri
contenuti, di giudicarli:
Nel mito la coscienza è rinchiusa come in alcunché di semplicemente esistente; non
possiede né la tendenza, né la possibilità di correggere e criticare ciò che è dato qui
ed ora, di limitarlo nella sua oggettività misurandolo mediante qualcosa di non dato,
mediante qualcosa di passato o di futuro. Ma se questa indiretta misura viene a
mancare, se tutto l’essere, tutta la ‘verità’ e realtà si risolve nella semplice presenza
del contenuto, tutto ciò che in genere si presenta si concentra in un unico piano.
Non vi sono qui gradi diversi di realtà, non vi sono gradi reciprocamente distinti di
certezza oggettiva. All’immagine della realtà, che in tal modo sorge, manca quindi,
per così dire, la terza dimensione, il distacco tra il primo piano e lo sfondo (ivi, II,
p. 53).
Allo spirito che nelle sue forme consuete sembra vestire necessariamente i
panni della mediazione e della coscienza critica si contrappone così il pen-
191
siero mitico che appare interamente sotto l’egida dell’immediatezza. La co-
scienza mitica non è soltanto una coscienza affascinata; è, anche, una co-
scienza posseduta dal proprio oggetto: la coscienza mitica
vive nell’impressione immediata, alla quale si abbandona senza ‘metterla a con-
fronto’ con altro. Per essa l’impressione non è qualcosa di relativo, ma di assoluto;
non è ‘in virtù’ di altro e non dipende da altro, ma si afferma e si convalida con la
semplice intensità della sua esistenza, con la violenza con cui si impone alla co-
scienza. Mentre il pensiero mantiene un atteggiamento di ricerca, di problematicità,
di dubbio e di critica di fronte a ciò che come suo ‘oggetto’ gli si presenta con la
pretesa dell’oggettività e della necessità, mentre si contrappone ad esso con le sue
proprie norme, la coscienza mitica non conosce una contrapposizione di tal genere.
Essa ‘ha’ l’oggetto solo in quanto viene sopraffatta da esso; non lo possiede per
averlo progressivamente costruito per sé, ma semplicemente viene da esso posse-
duta. Qui non domina la volontà di cogliere l’oggetto, di abbracciarlo cioè col pen-
siero e di ordinarlo in un complesso di ragioni determinanti e di conseguenze, ma
vi è soltanto la semplice impressione suscitata da esso (ivi, II, p. 108).
Sarebbe tuttavia un errore credere che il pensiero mitico non sia una forma
simbolica e che nella coscienza mitica non maturi una specifica visuale sul
mondo e non si costituisca un nuovo orizzonte di senso. La coscienza mi-
tica ha anch’essa una sua specifica visuale e un suo peculiare modo di or-
ganizzare i materiali su cui si esercita – un modo che è strettamente con-
nesso con quel suo essere una coscienza affascinata e sopraffatta su cui ci
siamo dianzi soffermati:
Ma proprio quest’intensità, questa forza immediata con cui l’oggetto mitico è pre-
sente alla coscienza, lo pone al di fuori della semplice serie di ciò che è sempre
uniforme e si ripete in modo uguale. Invece di essere costretto nello schema di una
regola, di una legge necessaria, ogni oggetto, in quanto invade e penetra la co-
scienza mitica, appare come qualcosa che ha affinità soltanto con se stesso, come
qualcosa d’incomparabile e di proprio. Esso vive, per così dire, in un’atmosfera
individuale; è un fatto unico, che può esser colto soro questa sua singolarità, in
questo suo diretto hic et nunc. E tuttavia d’altro lato i contenuti della coscienza
mitica non si risolvono meramente in singoli elementi slegati, ma domina anche in
essi un universale, seppure di specie e di origine molto diverse dall’universale del
concetto logico. Infatti proprio per questo loro carattere speciale tutti i contenuti
che appartengono alla coscienza mitica si raccolgono nuovamente in un tutto: essi
formano un regno in se stesso chiuso; possiedono in certo qual modo un accento
comune, in virtù del quale si distinguono dalla serie dei soliti fatti della comune
esistenza empirica. Questo aspetto di stranezza, questo carattere di “eccezionalità”
è essenziale a ogni contenuto della coscienza mitica come tale; ciò si può osservare
dai gradi più bassi ai gradi più alti, dalla visione magica del mondo, che intende
l’incantesimo ancora in senso pratico e quindi semi-tecnico, fino alle più pure ma-
nifestazioni della religione, in cui ogni miracolo si risolve in definitiva nell’unico
192
miracolo dello stesso spirito religioso. E sempre questo particolare tendere alla “tra-
scendenza” che collega fra loro tutti i contenuti della coscienza mitica e della co-
scienza religiosa. Essi contengono tutti, nella loro semplice esistenza e nella loro
situazione immediata, una rivelazione, la quale però, appunto perché tale, ha ancora
la natura del segreto; e proprio questa compenetrazione, questa rivelazione, che al
tempo stesso manifesta e nasconde, imprime al contenuto mitico-religioso il suo
carattere fondamentale, cioè il carattere del “sacro” (ivi, II, pp. 108-109).
Proprio perché la coscienza mitica si lascia dominare e sopraffare dal suo
oggetto, proprio per questo può liberarlo dalla trama del quotidiano e in-
tenderlo come qualcosa di eccezionale e quindi come il luogo di una sorta
di epifania.
Di qui la specificità del pensiero mitico, che in questa prospettiva ci ap-
pare come quella peculiare forma simbolica all’interno della quale la realtà
si ordina sotto un’antitesi fondamentale – l’antitesi tra sacro e profano. Al
conoscere che dispone e ordina i materiali sensibili, vagliandoli alla luce
del criterio del vero e del falso fa eco il pensiero mitico in virtù del quale i
materiali sensibili si raccolgono secondo le categorie del sacro e del pro-
fano, di ciò che ha valore e di ciò che ne è privo:
Ogni dato dell’esistenza, per quanto ordinario esso sia, può acquistare il carattere
proprio del sacro, non appena si venga a trovare sotto la specifica visuale mitico-
religiosa, non appena – invece di rimaner legato all’usuale cerchia dell’accadere e
dell’operare – attiri e susciti con particolare forza da qualche lato l’interesse mitico.
Il carattere del “sacro” non è quindi fin da principio limitato a determinati oggetti e
gruppi di oggetti, ma ogni dato, per quanto “indifferente” esso sia, può improvvi-
samente partecipare di questo carattere. Non una determinata natura oggettiva, ma
un determinato riferimento ideale è ciò che viene da esso indicato. Anche il mito
quindi comincia a introdurre determinate differenze nell’essere indistinto e “indif-
ferente”, a distinguerlo in determinate sfere significative. Anch’esso rivela la sua
facoltà di conferire forma e significato, interrompendo l’uniformità e l’omogeneità
dei contenuti della coscienza, introducendo in quest’uniformità determinate distin-
zioni di “valore”. Siccome ogni essere, ogni accadere viene proiettato nell’antitesi
fondamentale di “sacro” e di “profano”, acquista in questa proiezione un nuovo
significato che esso non “ha” fin da principio, ma che gli deriva soltanto da questa
forma di riflessione, da questa “luce” sotto la quale il mito lo pone (ivi, II, p. 110).
Possiamo allora trarre la conclusione cui miravano queste nostre prime
considerazioni. Per Cassirer il mito è una forma simbolica che si manifesta
nel suo scandire i materiali dell’esperienza secondo un’antitesi fondamen-
tale – l’antitesi tra ciò che valore e ciò che non lo ha, tra il sacro e il profano.
In questo suo scindere l’universo della nostra esperienza secondo il criterio
del valore e della sacralità, il pensiero mitico non fa altro che plasmare il
proprio oggetto alla luce di ciò che di primo acchito sembra essere il suo
193
limite: il pensiero mitico subisce l’azione dei propri oggetti e si lascia per-
vadere da ciò di cui ha esperienza. Proprio per questo, tuttavia, la coscienza
mitica manifesta una particolare adesione ai propri contenuti: li coglie nella
loro assolutezza e nella loro irriducibilità alla trama consueta del quoti-
diano. Nel suo lasciarsi travolgere da ciò che esperisce, la coscienza mitica
trova così il fondamento della sua funzione simbolizzante: il pensiero mi-
tico diviene così coscienza del sacro in opposizione al profano e coglie
nell’individuale il luogo di un’epifania.
Sul significato di quest’antitesi dobbiamo ora soffermarci un poco per
cercare di comprendere meglio che cosa Cassirer abbia in mente. Un primo
punto è ben chiaro: quando nella Filosofia delle forme simboliche si parla
del sacro non si intende riferirsi fin da principio all’orizzonte codificato
delle religioni, ma ad una certa modalità dell’esperire che è caratterizzata
dal fatto che ciò che appare sotto il crisma della sacralità è vissuto come
eccezionale, come un oggetto o un evento che si distingue dal trascorrere
indifferente e anodino delle nostre esperienze proprio perché ci colpisce
profondamente e ci turba.
Si tratta di un punto su cui è necessario insistere. L’esperienza, nella sua
quotidianità, è caratterizzata da una sostanziale omogeneità che è ulterior-
mente accentuata dal farsi avanti della dimensione conoscitiva che tende a
prendere commiato dalla particolarità delle esperienze, per subordinarle ad
una identica regola concettuale. Non così nell’esperienza del sacro: il sacro
si fa avanti solo quando ci lasciamo colpire dall’individualità di ciò che espe-
riamo e ci lasciamo affascinare e dall’irriducibilità di ciò che si dà alla no-
stra coscienza. Alla dimensione del profano che ci appare così caratteriz-
zata come una zona grigia ed emotivamente tiepida fa così da contrappunto
l’esperienza del sacro che è sempre calda o gelida e che ci mette di fronte
a qualcosa di mirabile – ad un mysterium tremendum o fascinosum che
scuote la nostra coscienza e ne prende possesso.
Che cosa propriamente ciò significhi non è difficile comprenderlo non
appena ci disponiamo sul terreno degli esempi e riflettiamo in modo parti-
colare sulla natura della nostra esperienza della spazialità e della tempora-
lità. Una prima considerazione sembra essere relativamente ovvia: se vo-
gliamo scorgere l’operare sacralizzante del mito relativamente allo spazio
e al tempo, dovremo in primo luogo mettere canto le forme obiettive dello
spazio e del tempo come forme di ordinamento del reale. Da queste forme
dobbiamo prendere commiato perché la loro omogeneità è insieme la cifra
che cancella ogni eccezionalità dell’evento e che ci costringe a pensarlo
194
sotto l’egida di ciò che è soltanto profano. Di qui il cammino che il pensiero
mitico-religioso deve seguire: aprirsi un varco verso l’esperienza del sacro
significa negare l’omogeneità dello spazio e tacitare la voce che ci co-
stringe a pensare ad ogni nostra esperienza come un’esperienza indivi-
duale, legata ad un tempo e ad un luogo, tra gli altri. Per il pensiero del
sacro, lo spazio come forma omogenea deve essere messo da canto e al suo
posto – nota Mircea Eliade in considerazioni che sono per molti versi affini
a quelle di Cassirer – deve farsi avanti l’immagine del luogo abitato, il suo
porsi come centro del mondo:
nel momento in cui il sacro si manifesta attraverso una qualsiasi ierofania, non sol-
tanto viene interrotta l’omogeneità dello spazio, ma avviene contemporaneamente la
rivelazione di una realtà assoluta, in opposizione alla non-realtà dell’immensa distesa
che la circonda. La manifestazione del sacro fonda ontologicamente il mondo. Nella
distesa omogenea e infinita, senza punti di riferimento, né alcuna possibilità di orien-
tamento, la ierofania rivela un punto fisso assoluto, un “centro”. Ciò dimostra in quale
misura la scoperta, cioè la rivelazione del luogo sacro, ha un valore esistenziale per
l’uomo religioso: nulla può avere inizio, nulla può “realizzarsi” senza la premessa di
un orientamento ed ogni orientamento implica l’acquisizione di un punto fisso. Per
questo motivo l’uomo religioso fa di tutto per porsi al “centro del mondo”. Per vivere
nel mondo bisogna fondarlo, e nessun mondo può nascere nel caos dell’omogeneità
e relatività dello spazio profano. La scoperta, o proiezione di un “punto fisso” ─ il
Centro ─ equivale alla creazione del mondo. […]. Per l’esperienza profana, invece,
lo spazio è omogeneo e neutro: non vi è alcuna rottura che stabilisca differenziazioni
qualitative tra le varie parti della massa che lo formano. Lo spazio geometrico può
essere delimitato e sezionato in una qualsiasi direzione, ma la sua struttura vera e
propria non può dar luogo a nessuna differenziazione qualitativa, né ad alcun orien-
tamento […]. L’esperienza profana conserva l’omogeneità, quindi la relatività dello
spazio. Ogni vero orientamento scompare poiché il “punto fisso” non gode più di uno
statuto ontologico: appare e scompare a seconda delle necessità quotidiane (Il sacro
e il profano, (1964), trad. it., a cura di E Fadini, Bollati, Torino 2001, pp. 19-21).
Il sacro chiede che lo spazio omogeneo sia tacitato e di fatto ogni evento
che sembra avere per noi un significato profondo viene fatto coincidere da
Eliade con una frattura della omogeneità dello spazio, con il darsi di un cen-
tro che pone fine alla relatività dei luoghi e, quindi, all’accidentalità indivi-
duale degli accadimenti. Il bisogno d’essere del sacro si traduce così in una
negazione della relatività dello spazio e in un’assolutizzazione della nozione
di luogo.
Molti sono gli esempi che potrebbero essere proposti per rendere conto
di queste considerazioni di carattere generale. Le chiese e i templi occu-
pano un posto nello spazio, ma la mera relatività dei luoghi è, per così dire,
tolta dalla vicenda narrata che si lega alla loro edificazione. Si tratta di un
195
fatto ben noto che si fa avanti nelle molte leggende che accompagnano la
decisione del luogo su cui edificare una nuova chiesa. Gli edifici sacri sor-
gono là dove è accaduto un evento particolare che segna una discontinuità
nella continuità amorfa dello spazio e che consente di attribuire ad un mo-
tivo imperscrutabile una scelta che in realtà non ha ragioni che sappiano
liberarla dal gioco della relatività e dell’arbitrio. Così, non è un caso se le
chiese sorgono dove ha avuto luogo un’epifania del divino: l’apparizione
di un santo, un evento miracoloso, o un ordine ricevuto in sogno dalla voce
di dio sono alcune tra le molte forme di cui il pensiero mitico si avvale per
attribuire ad un luogo tra gli altri quella esemplarità che altrimenti non po-
trebbe spettargli. Un luogo sacro deve essere costruito proprio qui, così
come proprio qui – nel cuore noto della nostra città – c’è la nostra casa. E
ancora: ogni fondazione di una città è insieme accompagnata da un insieme
di leggende che rendono meno visibile la relatività del suo luogo la cui
scelta deve essere affidata ad un qualche evento oscuro che la liberi dalle
pieghe soggettive del nostro arbitrio. Così leggiamo che la capitale del per-
fetto sovrano cinese si trova proprio nel luogo indicato dal Sole nel giorno
del solstizio di primavera e che il tempio di Gerusalemme è fabbricato sulla
roccia che funge da ombelico del mondo, sulla pietra angolare da cui dio
ha preso le mosse nell’opera della creazione.
Di qui il significato che spetta al viaggio che ci costringe ad abbandonare
il centro del mondo per avventurarci negli spazi in cui la sensatezza del
luogo si perde. Al cosmo ordinato che si dispiega in prossimità del luogo
in cui siamo fa eco il venir meno della forma quanto più ci addentriamo
nelle regioni remote dello spazio, quasi che l’essere lontani dal centro sia
una proprietà reale dei luoghi cui dopo un lungo viaggiare si giunge. E del
resto il viaggio ai confini del mondo è per il pensiero mitico un viaggio
destinato a condurci al di là della norma: al di là delle colonne d’Ercole
abitano i mostri marini che segnano visibilmente il confine tra il cosmo
abitabile e il caos.
Alle riflessioni sullo spazio si possono affiancare poi quelle sul tempo.
Anche l’omogeneità del tempo deve essere tacitata e questo proprio perché
la successione continua degli eventi ci costringe a coglierli nella loro reci-
proca dipendenza – una dipendenza che ne cancella l’assolutezza e ne ot-
tunde l’eccezionalità. Di qui la peculiarità del tempo mitico, che sembra
incentrarsi sull’origine e sulla fine e che ci vieta di intendere l’eccezionalità
del passato e del futuro alla luce della regola della successione che ci con-
sente di pensare a ciò che è lontano nella forma relativa che da ciò che è
196
vicino ci conduce al vicino del vicino, e così di seguito. Al tempo colto
come regola della successione fa così eco il tempo qualitativo del pensiero
mitico:
Se la storia risolve l’essere nella serie continua del divenire, in cui non vi è per esso
alcun momento particolarmente distinto e in cui invece ogni momento rinvia sem-
pre a un momento anteriore, cosicché il regresso verso il passato diventa un regres-
sus in infinitum, il mito, al contrario, compie sì un taglio netto tra ciò che è e ciò
che è stato, tra presente e passato, ma si arresta in quest’ultimo, una volta che lo ha
raggiunto, come in qualcosa di permanente che non presenta più problemi. Per esso
il tempo non assume la forma di una semplice relazione in cui i momenti del pre-
sente, del passato e del futuro si spostino e si convertano gli uni negli altri; bensì un
rigido confine separa il presente empirico dall’origine mitica, conferendo loro un
«carattere» proprio non permutabile (E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche,
op. cit., II, pp. 152-153).
Ancora una volta le pagine di Eliade ci consentono di esemplificare in
modo ricco e appropriato queste considerazioni di Cassirer. Gli esempi che
Eliade ci offre sono molteplici e ci invitano a riflettere sulla dualità di piani
che attraversa la concezione dell’essere nel pensiero arcaico. Nella cosmo-
logia iranica, così si legge, ogni fenomeno terrestre ha il suo controcanto
in un fenomeno celeste e ogni cosa e ogni concetto si presentano sotto un
aspetto duplice: l’aspetto terreno del gêtîk e l’aspetto celeste e archetipico
del mênôk. E dal punto di vista cosmogonico il mondo mênôk è prima del
mondo terreno e lo giustifica: il nostro mondo è un’immagine del mondo
celeste e può divenir vero solo nella misura in cui sa ripeterlo e sa proporsi
come una sua ripetizione. E ciò che è vero per la cultura iranica è vero
anche per la cultura ebraica: alla Gerusalemme terrena corrisponde una
Gerusalemme celeste, e la seconda è la misura della prima, la norma na-
scosta cui commisurarla e cui ricondurre la sua ragion d’essere. E ancora:
le città babilonesi avevano i loro archetipi nelle costellazioni, perché solo
così la comunità degli uomini poteva fondarsi in un’anticipazione celeste,
in un archetipo capace di giustificarla. Gli uomini fondano le città e le edi-
ficano, ma le loro gesta non aggiungono nulla di nuovo al mondo e proprio
per questo non si deve temere che ciò che è stato fatto possa un giorno
dissolversi: Sippar, Ninive e Assur attraverseranno i secoli, perché gli uo-
mini, costruendole, non hanno fatto altro che ripetere la mappa dei cieli e
dare forma terrena alla comunità celeste delle stelle che si affiancano nelle
costellazioni del cancro, dell’orsa maggiore, di Arturo.
Non vi è dubbio, per Eliade, che sia proprio in questa luce che deve essere
inteso il significato del ripetersi rituale del mito cosmologico in circostanze
197
peculiari come la fondazione di una città o la costruzione di un villaggio o
di un tempio. In quel luogo si vivrà, e l’accidentalità di questo fatto e del
suo accadere qui piuttosto che altrove deve essere tolta dal rimando ad un
archetipo celeste, ad una fondazione originaria che mostri come ciò che gli
uomini fanno è già stato fatto ed è inscritto nel linguaggio eterno della
creazione. Così, quando si costruisce una casa in India, ricorda Eliade, si
ripete il gesto cosmogonico dell’uccisione del serpente: il caos originario
deve essere nuovamente sconfitto, perché la casa deve diventare cosmo e
il gesto dell’abitare deve porsi sotto l’egida del primo inquilino – il dio
creatore che fa ordine nel caos del mondo, per abitarlo. E se l’abitare ha un
suo modello archetipo nella creazione, anche il lavoro e il riposo si giusti-
ficano alla luce della creazione. La tradizione iranica ricorda che Ohrmazd
impiega un anno per creare il cosmo e che dedica cinque giorni alla chiu-
sura di ogni mese per riposarsi del lavoro compiuto – un modello cui gli
uomini dovevano richiamarsi per giustificare il loro necessario alternare
fatica e riposo, lavoro e festa:
l’uomo non fa che ripetere l’atto della creazione, il suo calendario religioso comme-
mora nello spazio di un anno tutte le fasi cosmogoniche che vi sono state ab origine.
Infatti l’anno sacro riprende incessantemente la creazione, l’uomo diviene contem-
poraneo della cosmogonia e dell’antropogonia perché il rituale lo proietta all’epoca
mitica dell’inizio […]. Anche il sabato giudaico cristiano è ancora una imitatio dei
(M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, a cura di G. Cantoni, Borla, Roma 1999, p.
31).
Eliade si sofferma poi su una molteplicità di riti e di narrazioni che hanno
il compito di proiettare le gesta degli uomini e la loro stessa vita su uno
sfondo archetipico che la giustifichi al di là dell’accidentalità delle scelte e
della fattualità empirica della nostra umana natura. Gli uomini debbono
nutrirsi, nascono e muoiono, si uniscono sessualmente e generano, e queste
datità della vita umana debbono apparire alla luce di un modello cosmico
che le giustifichi. Il nostro umano cibarci ripropone il cibarsi di un cibo
divino, e la simbologia cristiana del pane e del vino ne sono una chiara eco.
Nella cultura indiana, il matrimonio si pone sotto l’egida di una ierogamia:
il matrimonio è celebrato dalla formula «io sono il cielo, tu sei la terra»,
Didone celebra la sua unione con Enea in una tempesta39 – e gli esempi
39 «Interea magno misceri murmure caelum/ incipit, insequitur commixta grandine nimbus, / et Tyrii
comites passim et Troiana iuventus / Dardaniusque nepos Veneris diversa per agros /tecta metu petiere;
ruunt de montibus amnes. / speluncam Dido dux et Troianus eandem / deveniunt. prima et Tellus et
pronuba Iuno / dant signum; fulsere ignes et conscius aether / conubiis summoque ulularunt vertice Nymphae. / ille dies primus leti primusque malorum / causa fuit; neque enim specie famave movetur /
198
potrebbero essere facilmente moltiplicati.
Il nostro tentativo di esporre le linee generali della filosofia del mito in
Cassirer non può dirsi tuttavia ancora concluso e per una ragione impor-
tante: non ci siamo infatti ancora soffermati sulla tesi del simbolismo im-
plicito. Si tratta di una delle tesi che maggiormente caratterizzano la posi-
zione di Cassirer e che con più coerenza derivano dal suo tentativo di strin-
gere in un unico nodo l’immediatezza del pensiero mitico e il suo essere
ciò nonostante una forma simbolica.
Di questa apparente contraddizione è necessario farsi carico e ciò signi-
fica, per Cassirer, riconoscere che il pensiero mitico è un’attività simbolica,
ma non per questo è consapevole del suo muoversi sul terreno del simbo-
lismo. Il mito e i rituali magici si muovono sul terreno delle immagini sim-
boliche, ma non ne sono consapevoli; tutt’altro: ciò che caratterizza la co-
scienza mitica è il suo confondere la dimensione simbolica con la dimen-
sione reale, i riti e i miti con le cose stesse. Rammentiamo le nostre consi-
derazioni relative ai riti di guarigione: lo sciamano mette in scena la guari-
gione e si dispone quindi sul piano delle rappresentazioni simboliche. Il
senso del suo agire, tuttavia, sembra voler propriamente rimuovere questa
consapevolezza: lo sciamano non si presenta come un attore e la sua recita
non può essere intesa sino in fondo come tale, perché il malato non vuole
soltanto fingere di guarire.
Si può parlare a questo proposito di simbolismo implicito per sostenere
che la specificità della coscienza mitica consiste propriamente in questo:
nel suo operare sul piano simbolico senza tuttavia esserne affatto consape-
vole. Scrive Piana:
Ciò significa: il pensiero mitico è in sé un pensiero simbolico, ma trae la propria
specificità proprio dal fatto che in esso non si produce la consapevolezza del sim-
bolismo in quanto simbolismo. Questa tesi si presenta già nella introduzione
dell’opera e ricorre ovunque nel suo corso. Cassirer non si stanca di ripetere che per
il primitivo il simbolizzante ed il simbolizzato fanno tutt’uno, che qui manca la
coscienza di una precisa discriminazione. Le «immagini» che sono presenti nei
comportamenti mitici non sono mai coscienti in quanto immagini, ma fanno corpo
con la cosa stessa (G. Piana, L’immaginazione sacra. Saggio su Ernst Cassirer, in
La notte dei lampi, Guerini Milano 1988, p. 28, ora in internet all’indirizzo web
http://www.filosofia.unimi.it/piana/cassirer/cassidx.htm)
Rammentare questo fatto è importante per molte e diverse ragioni.
nec iam furtivum Dido meditatur amorem: / coniugium vocat, hoc praetexit nomine culpam» (Virgilio, Eneide, lib. IV, vv. 160-168).
199
È importante in primo luogo perché ci consente di collocare il mito all’in-
terno di una più generale filosofia dello spirito: il mito come forma di sim-
bolismo implicito sembra infatti necessariamente alludere ad uno sviluppo
e a una genesi ideale. Il simbolismo implicito deve divenire esplicito e ciò
significa che è necessario porre il pensiero mitico all’interno di un mecca-
nismo di sapore hegeliano, di una triade che sancisca il cammino che deve
condurre dalle profondità inconsapevoli del mito alla simbolicità dichiarata
dell’arte, passando attraverso quella negazione del visibile che è caratteri-
stica della religione40:
Il mito vede sempre nell’immagine anche un elemento di realtà sostanziale, una
parte dello stesso mondo delle cose, la quale ha rispetto a questo facoltà uguali o
maggiori. Il pensiero religioso muovendo da questa prima visione magica aspira a
una sempre più pura spiritualizzazione. Eppure si vede sempre condotto a un punto
in cui la questione del suo significato e della sua verità si converte nella questione
della realtà dei suoi oggetti, e in cui bruscamente sorge dinanzi ad esso il problema
dell’esistenza. Solo la coscienza estetica lascia davvero dietro di sé questo pro-
blema. Siccome essa fin da principio si abbandona alla pura ‘contemplazione’, sic-
come perfeziona la forma del contemplare a differenza di tutte le forme dell’agire
e in contrasto con esse, le immagini che in questo atteggiamento della coscienza
vengono abbozzate, acquistano per la prima volta un significato puramente imma-
nente. Rispetto alla realtà empirico-oggettiva delle cose esse si presentano come
“apparenza”: ma questa apparenza ha la sua propria verità, perché possiede le sue
proprie leggi. Nel ritorno a queste leggi sorge al tempo stesso una nuova libertà
della coscienza: l’immagine ora non reagisce più sullo spirito come qualcosa di
indipendente e di oggettivo, ma è diventata per esso l’espressione pura della propria
forza creatrice. (E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, op. cit., II, pp. 362-
363).
Ma è importante anche, in secondo luogo, perché la tematica del simboli-
smo implicito ci consente di comprendere finalmente in che modo Cassirer
affronta il problema che ci sta a cuore – il problema della credenza nei riti
e nei miti. Per Cassirer il simbolismo implicito ha innanzitutto una fun-
zione ovvia: possiamo parlare del sacro e possiamo pensare che sia una
realtà nella quale ci imbattiamo e che ci domina solo perché non siamo
consapevoli del fatto che il carattere della sacralità è il risultato cui conduce
un atteggiamento soggettivo, da cui solo dipende la scissione tra ciò che ci
appare carico di valore e ciò che invece appartiene alla quotidianità e al
profano. Sottolineare questo punto, tuttavia, significa anche rammentare
40 Scrive ancora Piana: «Il parlare di simbolismo implicito rimanda subito alla possibilità di una espli-
citazione – l’inconsapevolezza del rapporto ad una graduale presa di coscienza, che dovrà anche ne-
cessariamente rappresentare il superamento dialettico di quella fase dell’esperienza culturale dell’uma-nità che caratterizziamo come esperienza mitica» (G. Piana, La notte dei lampi, op. cit., p. 29).
200
che il sacro ci appare come qualcosa di indipendente da noi, come il risul-
tato di una simbolizzazione implicita, appunto. Di qui la conclusione cui
tendono le nostre considerazioni: la condizione cui è vincolata la possibi-
lità di imbattersi nel sacro e di coglierlo come qualcosa che ci domina è
evidentemente la stessa che ci spinge a credere nei riti e nei miti. Solo per-
ché nel pensiero non distinguiamo l’attività simbolica dal suo risultato –
solo perché dunque il simbolismo resta implicito – è possibile credere nei
miti e nei rituali magico-mitici.
Si tratta di una constatazione importante, anche perché ci fa comprendere
quale sia la mossa che Cassirer deve compiere. Se il sacro riposa nella sua
natura sul simbolismo implicito, dobbiamo chiederci che cosa lo rende pro-
priamente possibile e quali sono le forme in cui concretamente si attua.
Rispondere a questa duplice domanda significa, per Cassirer, fare appello
innanzitutto ad una determinata immagine della mentalità primitiva che è
a sua volta giustificata da un’interpretazione letterale dei riti magici. Nei riti
magici accadono strane cose che, se prese alla lettera, sembrano parlare di
una radicale illogicità della mentalità primitiva ed è proprio questa originaria
confusione di pensiero che per Cassirer caratterizza il pensiero mitico. Al-
meno in questo, Frazer aveva ragione: i miti e la ritualità magica sono – per
Cassirer – forme di pensiero e, come tali, manifestano una loro radicale illo-
gicità. Il primitivo può credere nei suoi riti perché il simbolismo resta impli-
cito, ma il simbolismo può essere implicito perché la mentalità primitiva è
confusa e priva di acume critico – ne è talmente priva da confondere sempre
e metodicamente il simbolo con il simbolizzato, l’immagine con la cosa.
Rammentiamo la natura dei riti di guarigione: vi è innanzitutto la malattia e
vi è il desiderio di guarirla. Di qui il rito: lo sciamano desidera guarire il
malato e il desiderio si traduce in una recita in cui la malattia è colta come
un corpo estraneo – una pietra, un demone, un animale – che deve essere
allontanato dal malato. Il rito mima quest’allontanamento e inscena i gesti
con cui lo sciamano cerca di persuadere con le buone o con le cattive la
malattia a fuggire lontano dal corpo del paziente. Un rito, dunque, ma per
la mentalità primitiva – conclude Cassirer – non vi è alcuna differenza tra
la rappresentazione e la cosa e così può accadere che la recita in cui lo
sciamano mette in scena la guarigione si traduca nella certezza che la ma-
lattia sia stata effettivamente debellata.
Per la mentalità primitiva non c’è differenza tra la rappresentazione e la
cosa – il punto è tutto qui. La confusione originaria entro la quale il pen-
siero mitico si muove sembra essere interamente riconducibile a questa
201
mancata distinzione. Così, in un passo del testo di Cassirer leggiamo che
nome e personalità si fondono in una cosa sola (ivi, II, p. 60) e poco più
avanti si osserva che
Nei riti di consacrazione virile e in altre simili usanze di iniziazione l’uomo riceve
un nuovo nome perché è un nuovo essere che egli acquista in quel momento (ivi,
II, pp. 60-61).
Che così stiano le cose per Cassirer è indiscutibile e in queste sue pagine è
evidente lo sforzo di mettere innanzitutto da canto come inadeguato ogni
tentativo di spiegazione metaforica dei riti. Parlare di simbolismo impli-
cito, del resto, significa proprio questo: sostenere che ciò che noi tende-
remmo a interpretare come una metafora ricca di senso e come un simbolo
è invece, per il pensiero primitivo, una verità incontestabile, una certezza
su cui si può immediatamente convenire. Tutti proviamo un certo fastidio
nel sentire storpiare il nostro nome, ma per il primitivo questo fastidio va
ben più in là di una proiezione immaginativa: per il pensiero mitico il nome
coincide con la cosa e il nomignolo deve apparire come una vera e propria
aggressione. La falsa identificazione di nome e cosa si manifesta del resto
anche quando dal segno linguistico muoviamo al segno iconico. Il mito
non distingue tra immagine e cosa e il rituale magico opera spesso così –
arrecando all’immagine ciò che si vorrebbe accadesse alla persona ritratta:
Come il nome proprio di un uomo, così anche la sua immagine è un alter ego: ciò
che accade ad essa, accade all’uomo medesimo. Così nel campo della rappresenta-
zione magica, incantesimi di immagini e incantesimi di cose non sono mai distinti
in modo netto. L’incantesimo, come può usare quale mezzo una determinata parte
del corpo umano, per es. unghie e capelli, può con lo stesso risultato scegliere l’im-
magine quale punto di partenza. Se l’immagine del nemico viene trafitta con spilli
o frecce, ciò per azione magica si ripercuote direttamente sul nemico. E come si
attribuisce all’immagine questa funzione passiva, così le va attribuita anche una
completa e attiva capacità di operare; una capacità di operare del tutto uguale a
quella dell’oggetto stesso. Un’immagine dell’oggetto modellata in cera è l’equiva-
lente dell’oggetto in essa rappresentato e produce gli stessi effetti. La stessa parte
che si attribuisce all’immagine tocca specialmente anche all’ombra di un uomo.
Anche questa è una parte realmente vulnerabile di lui; ciò che viene fatto all’ombra
viene fatto all’uomo stesso. È proibito camminare sull’ombra di un uomo, perché
così facendo si provoca nell’uomo una malattia. Di certi popoli primitivi si racconta
che quando vedono un arcobaleno tremano, perché lo ritengono una rete che è stata
tesa da un potente stregone per catturare la loro ombra (ivi, II, pp. 62-63).
Nel suo tentativo di circoscrivere le forme in cui si manifesta la confusione
originaria entro la quale si dibatte il pensiero mitico, Cassirer si sofferma
poi sulla sfera delle relazioni causali e, infine, sulla tendenza a stringere in
202
una falsa identificazione tutto ciò che ha una qualche relazione con l’og-
getto stesso. Il pensiero mitico è fatto così – confonde tutto ciò che accosta
in modo vivido:
Se la conoscenza può collegare gli elementi solo in quanto li distingue gli uni dagli
altri in un solo e medesimo atto critico fondamentale, il mito invece ammassa in-
sieme tutto ciò che tocca, per così dire in un’unità indistinta. I rapporti che esso
stabilisce sono di tal natura che i termini che vengono a farne parte, non solo si
vengono a trovare in un reciproco rapporto ideale, ma sono addirittura identici fra
loro e diventano una sola e medesima cosa. […]. Se il pensiero scientifico cerca di
collegare elementi chiaramente distinti, il pensiero mitico fa in definitiva coincidere
ciò che unisce. (ivi, II, p. 93).
Si tratta di una tesi impegnativa che in fondo ci invita a sostenere che il
pensiero mitico si lascia trascinare dalla dinamica delle associazioni di
idee, in una forma che lo rende incapace di tracciare alcuna solida distin-
zione. La parte viene confusa con il tutto, il simile con il simile, ciò che
solitamente le si accompagna con la cosa stessa e in questo dissolversi di
ogni distinzione chiara ed in questo perdersi delle regole del mondo obiet-
tivo nei capricci delle associazioni immaginative, Cassirer vede la specifi-
cità del pensiero mitico e insieme la possibilità di prendere davvero alla
lettera gli strani riti che lo occupano. Così Cassirer ci assicura che per il
pensiero primitivo non vi è distinzione, ma anzi «perfetta connessione […]
fra tutto ciò che, in base ad analogie puramente esteriori (vicinanza spa-
ziale, appartenenza a uno stesso gruppo di oggetti), viene considerato “af-
fine” (ivi, II, p. 76) e che questa tesi è chiaramente implicata dalla natura
dei rituali che animano le culture primitive. Per il pensiero primitivo
lasciare gli avanzi di un pasto o le ossa di animali, di cui si sia mangiata la carne, è
estremamente pericoloso, poiché tutto ciò che viene compiuto su questi avanzi per
opera di ostili atti magici, viene subito anche dal cibo nel corpo, e quindi da chi lo
ha mangiato. I capelli tagliati di un uomo, le sue unghie o i suoi escrementi debbono
venir nascosti sotto terra oppure esser distrutti col fuoco affinché non cadano nelle
mani di uno stregone nemico. Presso certe tribù di Indiani lo sputo di un nemico, se
si riesce ad averlo, viene chiuso in una patata che viene messa ad affumicarsi: a
misura che questa si secca al fumo, anche le forze del nemico si dileguano con essa
(ivi, II, p. 76).
Non è difficile comprendere come all’origine delle riflessioni che Cassirer
ci invita a condividere vi sia una tesi che abbiamo già formulato: per Cas-
sirer i miti e i riti debbono essere presi alla lettera.
Ora, per molti versi questa tesi sembra dubbia. Per farmi uno scherzo, mi
chiami con un nomignolo che mi infastidisce o storpi ad arte il mio co-
203
gnome (ed è abbastanza facile): la cosa mi innervosisce, ma debbo per que-
sto sostenere che non distinguo il nome dalla persona? L’innamorato bacia
il ritratto dell’amata – la confonde con la fotografia che ha tra le mani? Un
vecchio orologio mi ricorda una persona che è morta e lo guardo con ma-
linconia – lo confondo con lei? A tutte queste domande sembra necessario
rispondere di no – è ovvio. Così come è ovvio che i nostri riti possono
essere condivisi senza per questo immergersi nelle strane equazioni che,
per Cassirer, contraddistinguono il pensiero mitico. Pensiamo al rito di sfo-
gliare i vecchi album di fotografie; si tratta di un rito importante e molte di
quelle foto significano molto per noi e ci fanno pensare a molte cose che
riteniamo importante ricordare insieme ad altre persone. Se qualcuno sfo-
gliasse malamente quelle pagine lo rimprovereremmo e reagiremmo male
se qualcuno strappasse volontariamente una fotografia o mostrasse anche
soltanto di non averne alcuna cura: se però poi tu mi chiedessi se reagisco
così perché confondo l’immagine con ciò che raffigura, ti guarderei a mia
volta stupito perché non è affatto chiaro come sia possibile confondere per-
sone che si conoscono bene con dei piccoli ritagli di carta colorata. Una
simile confusione per noi è impossibile, ma per il pensiero primitivo? Pos-
siamo pensare che i primitivi confondessero le ombre con le persone e il
nome con la cosa? Si può davvero credere che il mondo, così come la co-
scienza mitica lo esperisce, sia così improbabile e così diverso dal nostro?
Insomma, il pensiero primitivo come Cassirer lo disegna è davvero un pen-
siero selvaggio – un po’ troppo selvaggio, vien quasi da dire. E viene da
chiedersi come sia possibile che i nostri antenati siano riusciti a sopravvi-
vere, nonostante la loro intelligenza e la loro immaginazione.
Non vi è dubbio che Cassirer si renda ben conto di questi problemi, ma
ritiene che non sia possibile venirne a capo sostenendo che anche per gli
antichi i riti avevano una valenza simbolica. Non è possibile farlo perché
nei riti magici e nei miti gli antichi credevano. Il punto è tutto qui: il malato
si affida allo sciamano e crede che le sue danze e le sue formule magiche
sappiano scacciare la malattia e convincerla ad abbandonare il suo corpo.
Ma se crede questo e se si affida ad un’arte tanto dubbia, deve credere a
molte altre cose: deve pensare che la malattia abbia orecchie per ascoltare
lo sciamano e deve confondere la rappresentazione della guarigione con il
suo avere luogo. Una credenza implica l’altra e se c’è una deve esserci
anche l’altra.
«Ma se puoi credere a questo, a che cos’altro credi?» – qualche volta
reagiamo così, quando rimaniamo perplessi nel constatare che qualcuno
204
ritiene plausibile una tesi che per noi è del tutto inconcepibile. Cassirer ci
invita in fondo a fare la stessa cosa. Se qualcuno crede di poter colpire un
nemico distruggendo una sua immagine, allora deve credere molte altre
cose: un errore di questa natura si spiega soltanto se ne ha altri alle spalle.
Il pensiero primitivo deve così farsi carico di quelle improbabili equazioni
che sono per Cassirer il tratto che contraddistingue «il carattere della co-
scienza mitica dell’oggetto» – come recita il titolo del primo capitolo del
secondo volume della Filosofia delle forme simboliche. E se ci si pone in
questa luce, la tesi del simbolismo implicito deve apparirci come un’ovvia
conseguenza delle cose che abbiamo detto sin qui. Il pensiero primitivo
non può, per Cassirer, assumere le forme conclamate della pazzia e un fi-
losofo trascendentale non può certo ritenere che la ragione sorga ad un
certo momento della storia dell’uomo. I primitivi, dunque, non hanno
un’altra logica, ma sono vittime della vivacità del loro esperire e del loro
immaginare. Nei riti e nel mito è la logica dell’immaginazione che si ma-
nifesta – una logica che conosciamo bene anche noi, uomini civili, ma il
primitivo ascolta le voci della propria coscienza senza saperle discriminare
e discernere. Come noi usa metafore e metonimie, ma non se ne rende
conto. Si avvale di simboli, ma lo dimentica. Immagina, ma non sa di im-
maginare – il suo è appunto un simbolismo implicito.
Cassirer ragiona così, ma è opportuno riflettere un per saggiare la validità
delle sue argomentazioni, al di là del fascino che sanno esercitare sul let-
tore. Un primo quesito concerne il punto da cui muovono le analisi che
Cassirer ci propone: da quella distinzione tra sacro e profano che, a suo
avviso, costituisce l’antitesi fondamentale del pensiero mitico, la distin-
zione che attraversa per intero i contenuti della sua esperienza. Su questo
punto per Cassirer non vi sono dubbi:
ogni essere, ogni accadere viene proiettato nell’antitesi fondamentale di “sacro” e
di “profano” e acquista in questa proiezione un nuovo significato che esso non “ha”
fin da principio, ma che gli deriva soltanto da questa forma di riflessione, da questa
“luce” sotto la quale il mito lo pone (ivi, II, p. 110).
Da una parte vi è il sacro, dall’altra il profano e questa distinzione riguarda
ogni possibile contenuto e attraversa per intero la nostra esperienza,
quando l’osserviamo attraverso le lenti della coscienza mitica. Cassirer
dice così – ma a ben guardare è dubbio che le cose stiano in questo modo.
Una prima constatazione sembra essere relativamente ovvia. Ciò che è pro-
fano può dirsi così soltanto in relazione con il sacro; dire che qualcosa non
merita di essere detto sacro, tuttavia, non significa eo ipso asserire che sia
205
profano. Normalmente non ci esprimiamo affatto così e per due differenti
ragioni.
La prima è che non sembra poi vero che la coscienza mitica possa esten-
dere i suoi responsi alla totalità degli oggetti. Se mi faccio un caffè, non
faccio di nulla di sacro: questo è ovvio. Ma non faccio nemmeno nulla di
profano: mi faccio soltanto un caffè, ecco tutto. Il caffè appartiene alla mia
quotidianità e non ha alcun senso chiedersi in che relazione stia con il sacro
perché con il sacro non stringe alcuna peculiare relazione e quindi nem-
meno con il profano. Ma ciò è quanto dire che l’antitesi fondamentale del
pensiero mitico non può essere semplicemente intesa come se attraversasse
per intero il nostro mondo. La coscienza mitica (se davvero vi è qualcosa
che è designato da questo nome) non è una forma di esperienza che ab-
bracci ogni e qualsiasi oggetto. La distinzione tra sacro e profano è una
distinzione importante, ma non è omnipervasiva: si staglia infatti sulla no-
stra quotidianità che è comunque presupposta.
Siamo ricondotti così alla seconda ragione cui alludevamo. Si può parlare
del profano solo se ci si mette nella prospettiva del sacro; questa prospet-
tiva, tuttavia, sembra essere tutt’altro che necessaria: non sempre i feno-
meni ci appaiono alla luce della categoria del sacro. Tutt’altro: normal-
mente ci muoviamo su un terreno che non è toccato dall’antitesi fondamen-
tale su cui Cassirer ci invita a riflettere. Prima di apparirci profani, gli og-
getti e gli eventi di cui abbiamo esperienza ci si danno nella loro familiarità
e quotidianità – questo è il punto.
Ora, sostenere che le cose sono – prima che profane – semplicemente
quotidiane sembra essere un’osservazione ragionevole, ma non molto si-
gnificativa. Le cose mutano (e la questione acquista un significato rile-
vante) se ci chiediamo se non si possa sostenere che l’antitesi sacro-pro-
fano presuppone la quotidianità e in generale la normalità del nostro mondo
della vita. Abbiamo già visto che per Cassirer le cose non stanno così. A
suo avviso, sacro e profano sono categorie originarie che non hanno come
presupposto il nostro mondo della vita e la trama delle sue regole. Il sacro
e il profano non dipendono da altro se non dall’operare della nostra co-
scienza: il pensiero mitico proietta sui materiali sensibili questa sua radi-
cale antitesi e non vi è nulla che non possa apparirci ora sacro, ora profano.
La ragione ci è nota: il sacro non è un caratteristica degli oggetti o dei
materiali esperiti, così come lo sono il colore o la pesantezza, ma è piutto-
sto l’eco dell’atteggiamento soggettivo che accompagna la loro esperienza.
206
Vi è percezione del sacro quando la coscienza si sente sopraffatta ed affa-
scinata; al contrario, il profano si dà tutte le volte in cui la coscienza non
si lascia dominare dal materiale esperito che, proprio per questo, gli appare
privo di quel crisma di eccezionalità che sembra essere la cifra peculiare
del sacro. Scrive Cassirer:
Ogni dato dell’esistenza, per quanto ordinario esso sia, può acquistare il carattere
proprio del sacro, non appena si venga a trovare sotto la specifica visuale mitico-
religiosa, non appena – invece di rimaner legato all’usuale cerchia dell’accadere e
dell’operare – attiri e susciti con particolare forza da qualche lato l’interesse mitico.
Il carattere del “sacro” non è quindi fin da principio limitato a determinati oggetti e
gruppi di oggetti, ma ogni dato, per quanto “indifferente” esso sia, può improvvi-
samente partecipare di questo carattere. Non una determinata natura oggettiva, ma
un determinato riferimento ideale è ciò che viene da esso indicato. Anche il mito
quindi comincia a introdurre determinate differenze nell’essere indistinto e “indif-
ferente”, a distinguerlo in determinate sfere significative. Anch’esso rivela la sua
facoltà di conferire forma e significato, interrompendo l’uniformità e l’omogeneità
dei contenuti della coscienza, introducendo in quest’uniformità determinate distin-
zioni di “valore” (ivi, II, p. 110).
Cassirer dice così e ci invita a pensare che la chiave di volta della sacralità
riposi interamente in un atteggiamento soggettivo di affascinato stupore, ma
non è affatto chiaro per quale ragione un qualsiasi contenuto possa determi-
nare una simile reazione della soggettività. Il sacro si manifesta quando la
coscienza mitica si lascia sopraffare e dominare dal dato – perché ciò talvolta
accada e talvolta non accada il testo però non lo dice. Cassirer, come ab-
biamo osservato, sottolinea in più punti il carattere di eccezionalità del sacro,
ma questo tratto così peculiare sembra essere ambiguamente sospeso tra la
sfera delle cause e la sfera degli effetti. L’eccezionalità ci appare innanzi-
tutto come un effetto: proprio perché la coscienza si lascia dominare e as-
solutizza il proprio contenuto, proprio per questo ciò che esperisce ci ap-
pare come sacro ed eccezionale insieme. Ne segue che il sacro, il magico
o l’eccezionale altro non sono che i diversi accenti in cui una stessa nozione
si manifesta.
Al linguaggio che tende ad interpretare il carattere di eccezionalità come
un effetto dell’atteggiamento che la soggettività assume fa da contrappunto
la prospettiva delle cause che tende invece ad ancorare la reazione sogget-
tiva ad una specificità dell’oggetto percepito e basta guardare gli esempi
che Cassirer ci propone per rendersi conto che la coscienza mitica si lascia
dominare e affascinare solo da ciò che si dà come uno scarto dalla norma
– da ciò che è in se stesso eccezionale prima di ogni valutazione soggettiva.
207
E come potrebbe essere altrimenti? Come potrebbe la coscienza mitica la-
sciarsi sopraffare da qualsiasi cosa e da qualsiasi circostanza?
Pensiamo alle forme in cui si manifesta l’esperienza mitica dello spazio.
A questo tema Cassirer dedica pagine molto belle che ci invitano a cogliere
come, per il pensiero mitico, lo spazio assuma innanzitutto un valore in
quanto viene ad orientarsi secondo la direzione del sorgere e del tramontare
del Sole e secondo i valori della vicinanza e della lontananza dal luogo in
cui siamo e abitiamo. Lo spazio si fa sacro per questo: perché impariamo a
contrapporre alla trama omogenea della spazialità un insieme di punti e di
direttrici che hanno una loro eccezionalità. Ora, il pensiero primitivo è do-
minato dalla centralità della vita e non può non cogliere nel Sole uno dei
fondamenti intorno a cui ruota l’esistenza umana. Di qui la peculiare arti-
colazione dello spazio che il pensiero mitico viene delineando: nella strut-
tura omogenea dei possibili orientamenti, il pensiero mitico sancisce la
centralità del tragitto che il Sole compie nel cielo e organizza lo spazio
accordando a quell’orientamento un valore mitico.
Ma se le cose stanno così, allora anche in questo caso si deve riconoscere
che la condizione prima del sacro è l’eccezionalità: qualcosa deve sem-
brarci irriducibile alla norma degli eventi per poter “affascinare la co-
scienza e sopraffarla” – per dirla con le immagini di cui Cassirer si avvale.
Ne segue che la possibilità di essere colpiti da un evento e di coglierne
l’eccezionalità e la sacralità implica per contrasto la percezione di una
norma: il mondo del quotidiano con la sua trama regolare di eventi e con
la sua medietà è dunque necessariamente presupposto dalla coscienza del
sacro. Prima del sacro e del profano, prima della coscienza mitica e del suo
strutturare la nostra esperienza, rilevando gli aspetti carichi di valore vi è
già il mondo della vita che fa da norma e che fissa il criterio rispetto al
quale soltanto è possibile misurare l’eccezionalità di ciò che pretende per
sé un’attenzione peculiare.
Su questo punto del resto già soffermati, quando abbiamo discusso della
categoria del magico. Un evento magico o miracoloso è un evento che ac-
cade nonostante le leggi della natura e che può essere spiegato soltanto
accettando che per un attimo vi siano state altre regole capaci di influenzare
il corso delle cose: la volontà di un mago, il disegno provvidenziale di un
dio, l’astuzia di un demone. Così, non parleremo affatto di una magia se
un calice di cristallo cade a terra e si rompe e nemmeno se stranamente
restasse integro perché ciò che è improbabile può talvolta accadere, ma
diremmo che qualcosa di magico è accaduto se, in seguito a un gesto o a
208
una parola pronunciata da un mago, quel calice cadesse a terra e rimbal-
zasse sul pavimento per tornare sul tavolo da cui l’avevamo fatto sbadata-
mente cadere. Ma se le cose stanno così, se la categoria del magico abbrac-
cia quella categoria di eventi per cui non abbiamo una spiegazione natu-
rale, allora si deve riconoscere che per poter parlare del magico debbo
avere già ben chiara la trama delle normali relazioni causali. Le magie,
proprio come i miracoli, hanno bisogno di una norma stabilita – ne hanno
bisogno per poterla momentaneamente infrangere.
Riconoscere che la magia ha come suo presupposto la convinzione che il
mondo sia retto da una trama ordinata di relazioni causali non vuol dire
soltanto prendere le distanze dalla tesi dell’originarietà dell’antitesi sacro-
profano, ma vuol dire anche comprendere che la tesi della confusione ori-
ginaria della mentalità primitiva è lungi dall’essere plausibile. Per Cassirer,
il pensiero primitivo è un pensiero che si aggira tra vaghe analogie e che si
lascia trarre in inganno dalle associazioni di idee sino al punto di confon-
dere ciò che è davvero possibile confondere solo nelle pagine di una filo-
sofia idealistica: il selvaggio confonde il nome con le cose, l’uomo con la
sua ombra, la realtà con l’immagine, un evento con ciò che gli è in qualche
modo strettamente connesso. Che le cose tuttavia non stiano così è un fatto
che dovrebbe ora sembrarci del tutto ovvio: se il magico e il sacro presup-
pongono la struttura normale della nostra esperienza e del mondo, allora
non possiamo porre alla radice del pensiero primitivo quei fraintendimenti
che Cassirer ritiene invece necessario e ovvio porvi. Per quanto possa sem-
brare paradossale, la possibilità di agire magicamente sulla malattia con-
vincendola ad abbandonare il corpo del paziente ha come suo presupposto
la certezza che normalmente non sia affatto sufficiente intimare ad un do-
lore di andarsene per essere esauditi nei nostri desideri. Tutt’altro: il ma-
lato sa bene che normalmente non si può convincere la malattia ad andar-
sene perché le malattie sono cose che capitano e non persone che ci ascol-
tano. Il malato lo sa bene, ed è per questo che per convincere la malattia
ad andarsene ritiene di potersi affidare soltanto alla magia: solo un mago
può farsi ascoltare da qualcosa che non ha orecchie e che non parla la nostra
lingua.
Certo, si potrebbe forse insistere sul fatto che il pensiero primitivo si
muove sul terreno del simbolismo implicito e che non ha affatto bisogno
di presupporre esplicitamente ciò che è richiesto dall’applicazione del con-
cetto di magia o di sacralità. Il malato desidera guarire e il suo desiderio lo
rende certo del fatto che la danza che viene fatta davanti ai suoi occhi lo
209
guarirà, proprio come potrebbe fare una buona aspirina. Crede nella magia,
ma forse non crede affatto che sia magia – non ha bisogno di riconoscerla
come tale per credervi e non deve quindi coglierla nel suo senso sullo
sfondo della trama normale del mondo.
Si potrebbe forse ragionare così, ma non vi è dubbio che non è questo
l’atteggiamento che sorregge il pensiero primitivo nel suo affidarsi alla ri-
tualità magica. Il malato che pretende di guarire – e che non sa come altri-
menti curarsi – si affida a uno sciamano, a una persona che è ritenuta ec-
cezionale perché eccezionale in due diverse accezioni del termine è
l’evento che deve accadere: è eccezionale perché ne va della sua vita ed è
eccezionale perché la guarigione deve essere ottenuta per mezzo di un agire
che non si ferma alle condizioni concrete cui sono normalmente vincolate
le nostre azioni. Quella che deve essere compiuta è una magia perché solo
dalla magia si può attendere la soluzione di un compito che supera le ca-
pacità pratiche di una società data.
Del resto, il carattere magico dell’operare dello sciamano si manifesta
anche nel carattere apertamente rituale del suo operato. Lo sciamano non
agisce realmente, ma mette in scena le sue azioni: recita la lotta contro gli
spiriti maligni e finge di scacciarli dal corpo malato. Finge di trovare la
pietra che è entrata nel corpo del malato e recita i gesti che sarebbero ne-
cessari a rimuoverla. Le sue azioni hanno la forma fenomenologica del
come se e i componenti della tribù che assistono al rito di guarigione non
possono non rendersene conto: vedono che ciò che lo sciamano finge di
trovare non c’è e non possono ingannarsi sulla natura mimica dei gesti che
si dispiegano di fronte al loro sguardo.
Lo vedono o, più propriamente, debbono vederlo, perché la possibilità di
attribuire ai gesti dello sciamano una valenza magica fa tutt’uno con l’esi-
genza di disporli su un terreno che non è quello della consueta operatività.
Così, non è un caso se per compiere un rito sacro è necessario uno sciamano
o un sacerdote e sono necessarie maschere e paramenti sacri e luoghi cul-
tuali: di tutto questo armamentario vi è bisogno perché la prassi magica deve
potersi contraddistinguere dall’agire reale perché solo in questa sua diffe-
renza sembra aprirsi lo spazio che rende possibile la sua operatività non na-
turale. Il selvaggio sa bene di non poter fare nulla per far piovere: la pioggia
non dipende realmente dalle sue azioni. Potrebbe tuttavia dipenderne ma-
gicamente; di qui la necessità di optare per una prassi rituale: la pioggia
può essere ottenuta danzando, perché nella danza si esprime un agire sim-
bolico che non si dispone affatto sul piano di una concreta operatività, ma
210
sul terreno del magico. Si parla al cielo in una lingua che forse potrebbe
comprendere, sperando poi che abbia voglia di ascoltare.
Non facciamo che trarre una conseguenza diretta delle considerazioni
che abbiamo appena proposto se osserviamo che, a dispetto di ciò che Cas-
sirer ritiene, non è affatto possibile prendere alla lettera i riti e che in ge-
nerale ogni tentativo di cancellare dal rituale la presenza di un momento
apertamente simbolico conduce ad una sostanziale negazione del suo
senso. Il rito è necessariamente e consapevolmente simbolico perché deve
porsi appunto come un rito magico che pretende per sé un’operatività che
non si dipana sul terreno reale. Ma ciò è quanto dire che la tesi del simbo-
lismo implicito, cui nella sua filosofia della mitologia Cassirer attribuisce
un’importanza tanto rilevante, è di fatto insostenibile: disporre la dimen-
sione della ritualità sul piano di un simbolismo inconsapevole vorrebbe
dire infatti cancellare la pretesa del rito di disporsi su un terreno altro – il
terreno del magico, appunto. Il rito deve avere una forma particolare perché
la sua efficacia deve essere particolare; i suoi gesti debbono appartenere
alla dimensione ludica della recita perché la loro efficacia non può essere
l’efficacia pratica dell’agire reale: disporsi sul terreno del simbolismo im-
plicito e cancellare quindi la consapevolezza del carattere rituale delle ope-
razioni magiche vorrebbe dire cancellarne non soltanto il senso e la speci-
ficità, ma anche la ragione in base alla quale soltanto possono essere cre-
dute e ritenute efficaci.
Del resto che quanto si chiede allo sciamano e allo stregone non possa
collocarsi sul terreno reale della prassi e debba essere colto come qualcosa
che appartiene ad un diverso registro dell’operatività lo si comprende non
appena si osserva che l’effettuazione della prassi magica non esclude af-
fatto, ma anzi spesso implica un impegno concreto che non può essere la-
sciato da canto. La cerimonia magica che lo sciamano inscena quando tra-
figge l’immagine del nemico con spine non impedisce affatto ai membri
della tribù di armarsi per proprio conto: l’agire magico non nega la legitti-
mità delle azioni reali, ma spesso anzi la implica perché è evidente che la
dimensione empirica dell’agire non può essere trascurata perché è da essa
che dipende fattualmente il risultato che si vuole ottenere. I rituali che pro-
mettono una caccia abbondante non bastano per catturare la selvaggina ed
è per questo che si costruiscono archi e frecce e ci si addestra nel loro uso;
il superstizioso che, per scaramanzia, indossa lo stesso vestito ogni volta
che deve fare un esame non si accontenta di questo gesto, ma sa che deve
anche studiare. Una cosa non esclude l’altra e ognuna va fatta perché è a
211
suo modo utile – così sembra ragionare chi si affida ai rituali.
Insomma: anche se il rituale magico presenta il desiderio già realizzato –
la selvaggina catturata e uccisa, il nemico colpito a morte, la malattia de-
bellata – non per questo il primitivo rinuncia ad agire, mostrando che è da
un lato pienamente consapevole del carattere simbolico della prassi rituale
e che, dall’altro, non è affatto vittima degli strani fraintendimenti che Cas-
sirer gli imputa. Il malato vede che lo sciamano recita la guarigione e non
confonde ciò che vede con ciò che spera; lo stregone che uccide in effigie
il nemico sa bene che è ancora in vita e per questo si arma insieme con i
guerrieri della tribù; lo sposo indiano che, ripetendo la formula della iero-
gamia, dice alla sposa «Io sono il cielo e tu sei la terra» sa bene che le cose
in un senso ovvio del termine non stanno affatto così e che questo suo sa-
pere è parte integrante del senso profondo della sua affermazione.
Di qui la conclusione cui le nostre riflessioni miravano: Cassirer sbaglia
nell’attribuire al pensiero primitivo le false equazioni che derivano dal
prendere alla lettera i rituali magico-mitici e sbaglia nel ritenere che sia
possibile venire a capo del problema della credenza nei riti e nei miti di-
sponendosi sul terreno aperto dalla tesi del simbolismo implicito. Non si
può pensare che il pensiero primitivo si costruisca un’immagine tanto falsa
del mondo e non lo si può pensare perché se così fosse, non potrebbe nem-
meno rapportarsi alla dimensione magico-mitica attribuendole il senso che
pure le compete. Una stessa considerazione vale anche per la tesi del sim-
bolismo implicito che non può non apparirci in questa luce come frutto di
un fraintendimento di cui occorre liberarsi perché di fatto preclude la com-
prensione del senso del rituale e anche del livello su cui si situa la sua pre-
sunta operatività.
Cassirer sbaglia, ma questo ancora non significa che si possa già dare
una risposta al quesito che nelle sue pagine trova una risposta: come è pos-
sibile che si creda ai riti magici e ai miti anche se si è consapevoli del loro
carattere rituale e immaginativo? A questa domanda dobbiamo ancora cer-
care di rispondere.
4. I riti e la funzione di cornice
Le considerazioni che abbiamo appena svolto intendevano mostrare quali
fossero, a mio avviso, le ragioni per prendere le distanze dalla filosofia
della mitologia di Cassirer. Queste critiche vertevano in fondo su un unico
punto: volevano mostrare come non sia vero che il disporsi sul terreno della
ritualità magica abbia come suo correlato la negazione del sistema delle
212
credenze che normalmente sostengono la nostra prassi. Le cose non stanno
così: chi trafigge un fantoccio per ferire un nemico non confonde l’imma-
gine con la cosa e sa bene di avere tra le mani un ritratto e non un uomo in
carne ed ossa. Tutto questo lo sa bene ed è per questo che crede che ci sia
bisogno della magia per ottenere il fine che si prefigge. Per colpire il ne-
mico quando il nemico c’è occorre un arco e una mira sicura; per colpirlo
quando è assente c’è bisogno di un mago e di qualcos’altro – di un’imma-
gine, di un pupazzo o anche soltanto di un oggetto che appartenga alla vit-
tima designata.
Tutto questo è ben chiaro per la coscienza primitiva che è dunque molto
meno primitiva di quel che Cassirer pretende: su questo tema ci siamo già
soffermati. Non abbiamo invece ancora riflettuto su come sia tuttavia pos-
sibile che possano convivere in un’unica persona credenze così diverse
come quelle che sottendono la prassi magica e quelle che ci guidano taci-
tamente nella vita di tutti i giorni. Che un problema vi sia è difficile ne-
garlo: se quanto abbiamo detto sin qui è plausibile, il malato si aspetta
qualcosa da una prassi da cui solitamente non si attenderebbe proprio nulla.
Crede che si possa ottenere qualcosa di importante per la sua vita attraverso
gesti e formule che non sembrano in linea di principio accedere al terreno
concreto dell’operatività. Per dirla con un paradosso: chi crede alla magia
crede a quello cui normalmente si vieta di credere. Ed è questo paradosso
che dobbiamo tentare di risolvere.
Ora, un primo modo per venire a capo di questo problema – e per pren-
dere le distanze dal modo in cui Cassirer procede – consiste nel sottolineare
esplicitamente che la prassi rituale è caratterizzata nel suo complesso da un
insieme di procedure di segregazione che la separano nettamente dall’oriz-
zonte consueto del vivere e che le consentono di tacitare, senza per questo
dover negare, le credenze che appartengono comunque alla dimensione del
mondo della vita41.
Che la prassi rituale abbia tra i suoi momenti costitutivi la posizione di
una molteplicità di procedure di segregazione che ci aiutano a distinguerla
dal corso normale degli eventi è difficilmente negabile. Lo sciamano in-
dossa maschere che lo rendono irriconoscibile, il sacerdote veste abiti da
41 Il guerriero si affida alle arti dello sciamano e crede che i suoi gesti e le sue formule magiche possano
consentirgli di sconfiggere il nemico, ma non per questo smette di credere che per ferire un uomo è
necessario colpirlo e che risultati reali seguono ad azioni reali: ai riti si crede, ma le credenze rituali si
sovrappongono silenziosamente alle certezze del mondo della vita che continuano a farsi valere come una sorta di basso continuo che accompagna ogni agire e ogni ulteriore riflessione.
213
cerimonia che lo distinguono da ogni altra persona normale, e i gesti
dell’uno e dell’altro sono vincolati ad un cerimoniale che ci impedisce di
confonderli con i gesti consueti. I gesti magici hanno la consistenza pecu-
liare dei gesti teatrali: sono da un lato esemplari, dall’altro privi di una
concreta efficacia. Un discorso analogo vale per il linguaggio: lo sciamano
affida a formule i suoi tentativi di persuadere (per esempio) la malattia ad
abbandonare il malato e in generale i rituali magici sono caratterizzati
dall’impiego di parole che sono solo in parte riconducibili al linguaggio
quotidiano. La ragione di questo modo di procedere è chiara: la prassi ri-
tuale deve porre tra sé e il mondo una cesura che consenta di separare le
credenze che ci accompagnano nel mondo della vita dalle credenze cui
dobbiamo assoggettarci per penetrare nell’universo rituale.
Non facciamo altro che approfondire quest’ordine di considerazioni se
constatiamo le molte analogie che legano la dimensione rituale alla dimen-
sione teatrale. In fondo i rituali magici sembrano per molti versi simili alla
dimensione della teatralità: lo sciamano mette in scena il desiderio di gua-
rigione, i suoi gesti hanno la dimensione teatrale di un agire soltanto insce-
nato, le parole ripetono un copione e proprio come a teatro i rituali magici
si aprono una nicchia spaziale e temporale all’interno del continuum del
mondo. Una differenza essenziale, tuttavia, permane: quando guardiamo
uno spettacolo teatrale siamo immersi nella vicenda narrata, la prendiamo
sul serio e ci facciamo coinvolgere da ciò che per noi si recita, ma non per
questo crediamo che la vicenda narrata abbia realmente luogo. Nel caso
della magia, invece, alla messa in scena teatrale fa da contrappunto la con-
vinzione che ciò che si recita davanti ai nostri occhi abbia comunque un’ef-
ficacia e possa essere creduto. Lo sciamano recita, ma il rito di guarigione
che inscena deve avere comunque un effetto reale: dalla messa in scena
della guarigione ci si attende che curi qualcosa di più che una malattia sol-
tanto recitata – questo è chiaro. Così, laddove la distinzione teatrale tra
scena e platea sostiene la finzione e protegge il carattere immaginativo
della recita dalle pretese della realtà, nel caso della prassi magica le ma-
schere, il cerimoniale e la studiata drammaticità dei gesti sono chiamati a
distinguere l’orizzonte normale del nostro agire e delle nostre convinzioni
dall’eccezionalità delle credenze che competono al rito. E in questo se-
condo caso la possibilità di tracciare una cesura è molto più problematica.
L’arco di scena distingue due mondi che non hanno nulla in comune: sul
palcoscenico si recita una vicenda che “è” solo nella narrazione che ci
viene proposta e che non chiede di essere in alcun modo creduta. Ma ciò è
214
quanto dire che la cornice teatrale ha soltanto il compito di dire con chia-
rezza dove corre il confine che separa la realtà, che deve essere creduta,
dalla narrazione che non pretende di esserlo. Diversamente stanno le cose
nel caso dei rituali magici: qui la cornice distingue due differenti sistemi di
credenze che tuttavia si rivolgono ad uno stesso mondo e ad una stessa
famiglia di eventi. In questo caso, dunque, non è affatto ovvio che le pro-
cedure di segregazione possano davvero separare ciò che in qualche modo
distinguono.
Cerchiamo di riflettere più approfonditamente su questo tema. Il rito trac-
cia intorno a sé una cornice, ma non è chiaro come questo possa bastare
per impedire alle credenze di confrontarsi e di entrare in conflitto. Pro-
viamo a chiederci come stiano le cose quando, per esempio, ad essere chia-
mati in causa sono credenze che si riferiscono ad uno stesso campo ogget-
tuale, ma che pure tendono a rimanere separate le une dalle altre, senza che
si avverta necessariamente il bisogno di confrontarle e di armonizzarle.
Pensiamo per esempio alle cornici che sorgono in virtù di interessi teorici
che ci impediscono – per il tempo in cui ci facciamo guidare da essi – di
condividere il linguaggio quotidiano e che ci costringono all’interno di un
sistema codificato di credenze. Così stanno le cose per il sistema articolato
di credenze che siamo chiamati a condividere quando ci impegniamo sul
terreno della ricerca scientifica. Se mi dispongo nella cornice cognitiva
della fisica teorica, la distinzione tra spazio e tempo che normalmente trac-
ciamo (e con essa infinite altre distinzioni) dovrà necessariamente appa-
rirmi ingenua e, in ultima analisi, improponibile; ciò non toglie tuttavia che
anche il fisico più scrupoloso non si atterrà affatto ai precetti teorici che la
fisica gli insegna e della cui verità è pienamente convinto quando, termi-
nato il lavoro, farà ritorno a casa e parlerà con i suoi familiari o con gli
amici. Come fisici teorici sappiamo bene quanto sia inappropriato il lin-
guaggio del senso comune, ma nella vita di tutti i giorni chiudiamo volen-
tieri un occhio su quelle inesattezze e abbiamo molte buone ragioni per
farlo. Anche se, misurato con il metro della verità scientifica, il linguaggio
quotidiano si rivela inesatto, non per questo avvertiamo il bisogno di aprire
un varco nella cornice che circoscrive le verità delle scienze e che ci impe-
disce di farle valere al di là dell’ambito dell’indagine scientifica, nella
prassi consueta di tutti i giorni. Vi sono dunque cornici che hanno una va-
lenza cognitiva – o almeno questo è quanto sembra risultare da queste con-
siderazioni. Di qui il passo che siamo invitati a compiere: dobbiamo chie-
215
derci se possiamo venire a capo della cesura che separa le credenze magi-
che dalle credenze della quotidianità a partire da considerazioni analoghe
a quelle nelle quali ci siamo imbattuti discutendo della cornice che separa
le credenze scientifiche dalle credenze del mondo della vita.
Non è difficile rendersi conto che nei due casi di cui discorriamo la so-
miglianza è soltanto parziale. Lo scienziato sa bene che non ha senso far
valere le verità obiettive della fisica nella quotidianità del discorso e vede
bene quali sono le ragioni che consigliano di mantenere distinti il mondo
della vita e il mondo della scienza, ma questo non toglie che vi sia una
risposta univoca alla domanda concernente la verità di quelle credenze:
vere sono le credenze nel mondo così come le scienze lo delineano e di
fatto il cammino che conduce dal mondo della nostra esperienza al mondo
della realtà obiettiva delle scienze è appunto tracciato dalla necessità di
ancorare le nostre credenze ad un sistema sempre più solido e articolato di
ragioni. Le verità del mondo della vita possono essere irrinunciabili ed è
plausibile sostenere che non sia possibile fare a meno del linguaggio del
senso comune, ma ciò non toglie che sappiamo bene (o che dovremmo sa-
per bene) che la verità appartiene al campo delle scienze e che non abbiamo
ragioni per sostenere che il mondo sia così come lo percepiamo e non così
come la scienza ci insegna a pensarlo.
Le cose stanno diversamente nel caso della cornice che circoscrive la
prassi magica: in questo caso il discrimine non separa due differenti livelli
di credenze che sono comunque già ordinate gerarchicamente, ma corre tra
credenze che appartengono a due ordini di “verità” inconciliabili. Se qual-
cuno pensa che abbia un senso trafiggere un’immagine per colpire la per-
sona raffigurata non crede ad un ordine di verità che si collochi su di un
livello più alto o più basso del sistema di verità che dominano l’orizzonte
del mondo della vita: crede semplicemente ad un insieme di tesi che sono
apertamente inconciliabili con ciò cui normalmente crede. Così, se è rela-
tivamente facile comprendere come mai si possa chiudere un occhio sulla
provvisorietà delle verità del mondo della vita e come possa una cornice
circoscrivere le verità della scienza, sconsigliandoci di farle valere anche
sul terreno della quotidianità, è più complesso capire che cosa possa tenere
separati due universi inconciliabili del credere come quello che si esprime
nella magia e quello che ci sostiene quotidianamente nella nostra prassi.
Dobbiamo dunque cercare una via differente per tentare di dare una ri-
sposta al nostro problema – una via che ci costringe a fare un passo indietro
per interrogarci su quali siano i comportamenti da cui la prassi magica trae
216
origine.
5. Un passo indietro
Nel paragrafo precedente ci siamo convinti della necessità di compiere un
passo indietro: per poter meglio rispondere al problema che ci siamo posti
è forse opportuno mettere da canto il problema della credenza e riflettere
su una serie di comportamenti in cui il momento della credenza è del tutto
assente, ma è invece presente il momento della ritualizzazione e in una
forma e in un modo che rammenta da vicino i rituali magici.
Quali siano queste situazioni e questi comportamenti non è difficile mo-
strarlo. Qualche volta capita anche a noi, uomini disincantati del XXI se-
colo, di incrudelire con una penna sulla fotografia di una persona che ci è
sgradita: ci divertiamo a farlo e forse proviamo nel farlo un gusto maligno.
Gesti simili si fanno e li abbiamo fatti tutti qualche volta nella vita, ma se
qualcuno ora ci chiedesse che cosa credevamo di fare quando abbiamo
fatto qualche sgorbio su di una fotografia, non sapremmo proprio come
rispondere. Non credevamo proprio nulla: l’abbiamo fatto e basta. E men-
tre lo facevamo, eravamo contenti di farlo: ecco tutto. Qualche volta chi è
innamorato sente il bisogno di stringere a sé qualcosa che appartiene alla
persona che ama, ed anche se queste cose è meglio farle di nascosto, se
qualcuno le osservasse non avrebbe dubbi sul significato che in esse si
esprime: gesti simili esprimono un desiderio e mettono in scena la sua rea-
lizzazione. Dicono che si vorrebbe abbracciare qualcuno – anche se quella
persona ora non c’è e lo dicono a chiare lettere, anche se nella forma di un
gesto rituale che si avvale di un simbolismo tanto esplicito, quanto ovvio.
Di gesti rituali come quello che abbiamo appena descritto ve ne sono
un’infinità. Il bambino si fa male e viene per questo inscenata dai genitori
la punizione esemplare dello spigolo che è colpevole di avere causato il
bernoccolo che già si intravede: è uno strano gioco che distrae per un at-
timo il bambino dal suo dolore, ma voler leggere dietro a questo strano
rituale una qualche credenza sarebbe del tutto ridicolo. Ci arrabbiamo e
diamo per questo un pugno sullo stipite della porta. Non serve a molto;
anzi: non serva proprio a nulla, eppure lo facciamo lo stesso. Ma allora
perché lo facciamo? Perché insceniamo questa ed altre inutili rappresenta-
zioni? Rispondere è tutt’altro che difficile: questi gesti, nella loro enfasi
teatrale, mettono in scena un desiderio realizzato e nel farli proviamo pro-
prio per questo piacere. Si tratta di gesti che hanno un valore espressivo e
che dicono qualcosa che vorremmo: il pugno sullo stipite della porta dice
217
che cosa faremmo al destino che ci ha fatto innervosire, la punizione dello
stipite rammenta la massima minimale che recita che chi la fa deve poi
aspettarsela, il bacio alla fotografia dell’amata anticipa ciò che l’innamo-
rato vorrebbe fare.
Ai gesti espressivi che mettono in scena un desiderio e la sua realizza-
zione si affiancano i gesti celebrativi che sottolineano enfaticamente l’im-
portanza che qualcosa ha per noi. L’estate verrà comunque e indipenden-
temente da noi – questo lo sappiamo bene, ma la prima sera in cui è possi-
bile cenare all’aperto ha per me (per noi?) un valore celebrativo e vale la
pena di sopportare l’aria fredda della sera per dire ad alta voce che l’estate
è arrivata, quasi che il dirlo rendesse impossibile al corso delle stagioni di
tornare sui propri passi. Possiamo spingerci un passo in avanti ed osservare
che anche la dimensione del sacrifico rituale ha una sua versione domestica
che non sembra implicare alcuna reale credenza – come dimostrano le fon-
tane delle città d’arte, in cui stranamente si sente il bisogno di gettare una
moneta, quasi che questo minuscolo sacrificio potesse giustificare una
qualche deroga al destino e garantirci il ritorno in un luogo che ci è pia-
ciuto.
Sulla natura di questi gesti sembra difficile avanzare dubbi di sorta: si
tratta di recite che in linea appartengono alla dimensione immaginativa e
procedono di fatto secondo le regole dell’immaginazione ludica. Vi è una
fotografia e ad essa ci rapportiamo come se fosse presente la persona raffi-
gurata, vi è lo spigolo contro cui un bambino ha picchiato la testa e vi è il
gesto che lo punisce – e nell’uno e nell’altro caso vi è un fare come se che
rivela la dimensione immaginativa entro la quale ci si muove. Certo, tal-
volta all’origine di questi strani gesti possono esservi comportamenti istin-
tivi, ma quanto più li includiamo nella nostra prassi consapevole e volon-
taria, tanto più diviene evidente il loro porsi come momenti dell’immagi-
nazione ludica: quei gesti sono recite che possono coinvolgerci e cui pos-
siamo attribuire un peso, ma non perché vi si creda, ma solo perché toccano
eventi che in qualche modo ci coinvolgono e sono importanti per noi.
Di qui, da questi gesti che hanno una loro spiccata valenza espressiva e
che mettono in scena il nostro rapporto con vicende che ci stanno a cuore,
si deve muovere per comprendere la sfera della ritualità magica – questa
almeno è la tesi che Wittgenstein ci invita a sostenere nelle sue Note sul
“Ramo d’oro” di Frazer:
Se sono furioso per una qualche ragione, mi può capitare di colpire la terra o un
albero con il mio bastone, ecc. Così facendo però non credo che la colpa sia della
218
terra o che colpirla possa servire a qualcosa. «Sfogo la mia collera ». E tutti i riti
sono di questa specie. Queste azioni si possono chiamare azioni istintive. — E una
spiegazione storica che per esempio affermasse che in tempi passati io o i miei an-
tenati abbiamo creduto che colpire la terra serva a qualcosa sarebbe un imbroglio,
perché queste sono ipotesi superflue, che non spiegano niente. Ciò che importa è la
somiglianza dell’atto con un atto di punizione, ma più di questa somiglianza non si
può constatare (L. Wittgenstein, Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, a cura di S. De
Waal, Adelphi, Milano 1975, p. 34).
Alla radice di queste considerazioni vi è innanzitutto una tesi di carattere
polemico: proprio come Cassirer, anche Wittgenstein intende prendere le
distanze dalla prospettiva di Frazer secondo la quale i riti magici e i miti in
fondo non sono altro che false teorie42. Questa tesi deve essere appunto
messa da parte, ma questo – per Wittgenstein – non significa affatto di-
sporsi sul terreno del simbolismo implicito e supporre nella mentalità pri-
mitiva una molteplicità di strani ragionamenti. Tutt’altro: per Wittgenstein
il mito deve essere compreso proprio muovendo dalla famiglia dei com-
portamenti espressivi e celebrativi che abbiamo rammentato poc’anzi e
questo ci spinge da un alto a riconoscere il carattere apertamente simbolico
della prassi rituale43, dall’altro a non trarre conseguenze particolari sul ter-
reno della credenza dalle forme del rito.
Su questo punto del resto le analisi di Wittgenstein insistono in modo
particolare. Se cerchiamo di interpretare i riti come se fossero teorie – se li
interpretiamo cioè come Frazer li interpreta – ci sembrerà di avere a che
fare con un cumulo di sciocchezze:
È davvero strano che tutte queste usanze finiscano per esser presentate, per così dire,
come sciocchezze. Ma non sarà mai plausibile che gli uomini facciano tutto questo
per mera sciocchezza. […] Può darsi (oggi avviene spesso) che l’uomo abbandoni
un’usanza quando abbia scoperto un errore su cui quest’usanza poggiava. Ma
questo capita appunto solo là dov’è sufficiente far notare a qualcuno il suo errore
perché desista dal suo modo di agire. Questo però non è il caso quando si tratta
dei costumi religiosi di un popolo e proprio perciò non si tratta di un errore (ivi,
p. 19).
I riti non esprimono opinioni e quindi nemmeno credenze: non ha dunque
alcun senso valutarli con il metro del linguaggio fattuale e non si può pen-
sarli come se fossero teorie. Se fossero teorie, sarebbero teorie insensate 44
42 Scrive Wittgenstein: «Il modo in cui Frazer rappresenta le concezioni magiche e religiose degli
uomini è insoddisfacente perché le fa apparire come errori» (ivi, p. 17).
43 «La magia poggia sempre sull’idea del simbolismo e del linguaggio» (ivi, p. 22).
44 «Se per adottare un bambino la madre lo dovesse far passare attraverso i suoi vestiti, sarebbe folle
219
– questo è ovvio. Ma proprio perché sono così apertamente insensate ed è
impossibile credervi – per noi come per chiunque altro – si deve ricono-
scere che non sono teorie e che in esse non si esprimono affatto opinioni.
Si può dire di più: se guardiamo attentamente il comportamento dei primi-
tivi ci accorgiamo che sembra essere sorretto da principi molto diversi da
quelli che dovremmo attenderci se prendessimo alla lettera il contenuto dei
miti e dei riti. A guardar bene, sembra anzi che il primitivo in fondo non
creda affatto ai riti che inscena:
Leggo, fra molti esempi analoghi, di un re della pioggia in Africa cui la gente si
rivolge con suppliche quando si avvicina il periodo delle piogge. Ma questo vuol
dire che essi in fondo non credono che egli sia in grado di far piovere, perché altri-
menti si rivolgerebbero a lui nei periodi secchi dell’anno, quando la terra è « un
deserto arido e bruciato ». Se infatti si suppone che abbiano istituito questa carica
di re della pioggia » per mera stupidità, è però chiaro che avevano già sperimentato
in precedenza che la pioggia inizia a marzo e allora avrebbero fatto funzionare il re
per il resto dell’anno. Oppure: di mattina, quando stai per sorgere il sole, gli uomini
celebrano riti dell’alba — ma non di notte, quando molto semplicemente accendono
lampade (ivi, pp. 33-34).
il medesimo selvaggio che trafigge l’immagine del nemico apparentemente per uc-
ciderlo costruisce realmente la propria capanna di legno e fabbrica frecce letali, non
in effigie (ivi, p. 22).
E ancora:
Frazer rappresenta le cose come se questi popoli avessero una concezione assolutamente falsa
(anzi folle) del corso della natura, mentre essi danno solo una strana interpretazione dei feno-
meni. Cioè, se mettessero per iscritto la loro conoscenza della natura, essa non si di-
stinguerebbe in modo fondamentale dalla nostra. Solo la loro magia è diversa (ivi, p.
37).
Ma se i riti non esprimono credenze e se non è lecito pensarli alla luce di
una prospettiva di stampo cognitivo, allora dobbiamo pensare che in essi
trovi una diretta manifestazione un insieme di comportamenti che non
hanno la funzione di descrivere il mondo, ma di celebrarlo in ciò che è per
noi importante. Nei miti e nei riti non si manifestano credenze, ma questo
non significa che i rituali non siano seri o che non abbiano un significato
per noi. Tutt’altro; nei riti si celebra ciò che è importante per la nostra vita:
Non deve essere stata una ragione da poco, anzi non può essere stata neppure una
ragione, quella per cui certe razze umane hanno adorato la quercia, ma semplicemente il fatto
credere che qui si tratti di un errore e che essa ritenga di aver partorito il bambino» (ivi, p. 22).
220
che quelle razze e la quercia erano unite in una comunità di vita, e perciò si trovavano
vicine non per scelta, ma per essere cresciute insieme, come il cane e la pulce. (Se
le pulci sviluppassero un rito, riguarderebbe il cane) (ivi, p. 34).
Non deve essere stata una ragione – scrive Wittgenstein, ed anche questo
fatto ci invita a pensare. Nei riti non si esprimono teorie e nemmeno si
compiono gesti di cui si possa rendere ragione: semplicemente si agisce in
conformità con i propri bisogni e con i propri desideri. Prima di pensare e
prima di immergersi nel gioco del rendere ragioni si fanno tante cose a cui
non rinunciamo nemmeno noi, uomini civilizzati.
Il passo indietro che Wittgenstein ci invita a compiere ci appare così con
relativa chiarezza. Vi sono alcuni comportamenti che ci appartengono e
che non possiamo motivare in altro modo se non additando il loro legame
con certi desideri e certi bisogni che ci toccano da vicino. Questi compor-
tamenti non rimandano a ragioni che li sorreggano, non delineano implici-
tamente un insieme di opinioni che ci guidino e non implicano un insieme
di credenze che ci sentiremmo di condividere apertamente se qualcuno ci
chiedesse di farlo. Puniamo lo spigolo che ha fatto del male a un bambino
perché ci fa piacere farlo o addirittura perché ci sembra “giusto” farlo, ma
non crediamo affatto che questo nostro gesto sia giustificato razionalmente
o che lo spigolo se lo meritasse o che d’ora in poi si guarderà bene dal fare
del male a chicchessia. In fondo, non pensiamo nemmeno di fare ciò che
facciamo: possiamo agire così – come se punissimo lo spigolo – ma se ci
soffermiamo a pensare quello che facciamo, bene ci sembra semplicemente
impossibile continuare a farlo. Nonostante le apparenze, non crediamo di
punire nessuno, tanto meno uno spigolo, e non ci proponiamo nulla: sem-
plicemente agiamo e mettiamo in scena un comportamento che tradisce
molte cose di noi. Lo stesso fa l’innamorato quando bacia il ritratto
dell’amata e lo stesso il selvaggio quando trafigge di chiodi il pupazzo del
suo nemico: agisce senza credere e mette in scena un comportamento che
non ha ragioni dalla sua e che non contiene una qualche teoria implicita sul
mondo, ma appartiene egualmente alla sua forma di vita. Quel comporta-
mento appartiene al suo mondo e ci dice che cosa in quel mondo gli sembra
importante – ecco tutto. Da una concezione del mito e dei riti magici in-
centrata sul problema della credenza siamo tornati così ad un insieme di
comportamenti che non implicano il credere – ed è da questi comporta-
menti che Wittgenstein ci invita a prendere le mosse per comprendere i riti
e i miti delle culture primitive.
221
Come dobbiamo reagire di fronte a questo passo indietro che Wittgen-
stein ci suggerisce di fare? Io credo che ci sia molto da imparare e che
semplicemente non sia possibile tacitare come irrilevante il nesso che lega
i nostri comportamenti rituali ai rituali magici che si codificano nella su-
perstizione e nel mito. Questo nesso c’è ed è centrale, ma ciò non toglie
che io non ritenga che sia davvero possibile mettere interamente da parte
il problema della credenza. Questo problema in qualche modo sussiste e
non credo che sia possibile liberarsene così – mostrando che c’è un nesso
che lega i rituali magici ai comportamenti espressivi. Il passo indietro che
Wittgenstein compie ci insegna molte cose, ma non possiamo fermarci alla
constatazione del carattere espressivo e celebrativo dei rituali magici: dob-
biamo fare anche un passo in avanti per capire che cosa si aggiunga ad essi
e che cosa faccia sì che in qualche strano modo immaginazione e credenza
si stringano in un nodo.
6. I fili di un intreccio
Dobbiamo ora cercare di raccogliere i fili che abbiamo cercato sin qui di
seguire e che, credo, siano parte dell’intreccio complesso di quelle forme
della nostra umana cultura che danno vita alla dimensione del sacro e del
magico45. Il primo filo che dobbiamo cercare di tenere ben saldo tra le mani
è quello che abbiamo appena cercato di dipanare e che abbiamo visto le-
gare la nostra coscienza rischiarata alle forme più arcaiche della coscienza
magica e religiosa. Una persona cara si ammala e non si può più aiutarla;
il pensiero che non ci sia più nulla da fare è intollerabile, per noi e anche
per lui, naturalmente. Si vorrebbe una guarigione, ma non c’è modo per
trasformare il desiderio in volontà perché non vi è spazio per una prassi
reale che sia capace di ottenere un simile fine. Non si può volere quello che
è impossibile fare, ma lo si può desiderare e il desiderio può assumere le
forme di una fantasticheria o di una messa in scena che può assumere le
forme del nostro pacato ragionare su quel che accadrà dopo la guarigione
o nell’amplificazione rituale del successo momentaneo delle cure. All’ori-
gine c’è questo: un rituale che ci consente di mettere in scena un desiderio
45 I fili sono vari, e sarebbe sbagliato pensare che il sacro sia il frutto di una facoltà peculiare o sia un
frutto, tra gli altri, della nostra immaginazione. Vi è una facoltà del ricordo e vi è un insieme di facoltà percettive, ma non c’è una facoltà del sacro, né un qualche errore nell’architettura dell’immaginazione
che ci abbia condotti ad avere un universo sacrale. È ridicolo pensarlo, così come è ridicolo chiedersi
se vi è un qualche sistema predisposto per pensare i numeri immaginari o la fisica quantistica.
222
condiviso – il desiderio di una guarigione per cui non sembra più possibile
una cura effettiva. Lo stesso accade quando, per consolare un bambino che
si è fatto male, sgridiamo e puniamo lo spigolo che su cui ha urtato. Il
bernoccolo verrà e il male c’è – non si può fare altro che aspettare che passi
e riconoscere contro voglia che cose del genere capitano. Non ci si può far
nulla, ma si può qualcosa che assomiglia molto al nulla: si può mettere in
scena la punizione esemplare dello spigolo, che deve essere considerato il
colpevole di una sofferenza ingiustificata. Il bambino ha subito un torto e
l’immaginazione mette in scena una punizione esemplare, dopo aver creato
teatralmente un colpevole: nel rito, lo spigolo deve recitare una parte e per
questo lo si deve appellare in vario modo, per renderlo immaginativamente
adatto a recitare la parte del possibile artefice di un crimine.
Che si tratti di immaginazione lo sappiamo bene. Lo spigolo non è affatto
maligno: a rigore, parlare di spigoli maligni significa commettere un errore
categoriale, così come è un errore categoriale il pensare che le malattie
possano ascoltare le nostre richieste o piegarsi a minacce e ordini. Non
basta tuttavia saperlo: è necessario anche poterlo esperire. Il genitore che
punisce lo spigolo deve mettere alla prova le sue abilità teatrali: deve reci-
tare una punizione e deve guidare la mano del bambino che ripete quel
gesto perché la punizione deve essere soltanto simbolica. E lo stesso vale
per la guarigione promessa: anche senza bisogno di disporci sul terreno
della magia, ci sono gesti e comportamenti che, quando siamo malati, ri-
petiamo con una convinzione scenica che ci avverte che l’immaginazione
sta recitando la sua parte. Suffumigi e bevande calde non servono a molto,
ma ci sottoponiamo a queste cure antiche con esibita serietà perché ci met-
tono l’anima in pace e valgono come un avvertimento alla malattia: non
abbiamo intenzione di ospitarla a lungo e non sapremmo davvero che
cos’altro fare per farglielo capire più chiaramente. Abbiamo fatto persino
i suffumigi: se il raffreddore non decide ancora di andarsene, proprio non
sapremmo come fare per dirgli che è un ospite sgradito.
Non c’è bisogno di credere alla magia per comportarsi così e non c’è
bisogno di voler educare all’oscurantismo e alla superstizione un bambino
innocente per picchiare lo spigolo su cui si è ferito. Questi gesti non hanno
dichiaratamente alcuna efficacia pratica, ma hanno egualmente in se stessi
la loro ricompensa. Di per sé non promettono nulla, ma facendoli ci sen-
tiamo appagati. Rispondono a un bisogno, anche se vi rispondono solo sul
terreno immaginativo su cui visibilmente si dispiegano: i gesti e le voci che
li accompagnano hanno il piglio teatrale delle recite e non hanno la serietà
223
di un agire concreto. Non siamo chiamati a credere e non possiamo non
vedere la natura degli spettacoli cui assistiamo: si tratta di recite che non
pretendono di disporsi sul terreno delle cause e degli effetti e che non vo-
gliono impegnarsi davvero nel mondo. Se davvero volessimo fare qual-
cosa, smusseremmo lo spigolo, senza fare tanti teatrini.
A questo primo filo se ne intreccia, tuttavia, un secondo che riusciamo
ad afferrare quando ci interroghiamo su un fatto che potrebbe facilmente
passare inosservato. Se il bambino colpisce accidentalmente uno spigolo,
insceniamo la punizione esemplare di cui abbiamo discusso sin qui – ma
che cosa diremmo se quell’incidente fosse la conclusione di un gioco az-
zardato, ripetuto mille volte contro i nostri ammonimenti e puntualmente
finito in pianti e lacrime? Gli diremmo, io credo, che se l’è cercata e questa
volta non ci sentiremmo affatto di punire lo spigolo o di ritenerlo colpe-
vole. Posso maledire il treno che mi fa arrivare in ritardo alla meta, ma non
posso maledirlo se parte in orario e lo perdo per colpa mia. In questo caso,
l’immaginazione deve tacere e questo dovrebbe apparirci strano perché a
rigore il treno è innocente nell’uno e nell’altro caso caso, proprio come lo
è lo spigolo, a dispetto della sua fama sinistra. A rigore, siamo tanto poco
autorizzati a maledire un treno quando arriva in ritardo di quanto non lo
siamo quando parte in orario lasciandoci in stazione: questo dovrebbe es-
sere chiaro. E tuttavia una differenza permane. Se il treno parte in orario e
lo perdo perché mi sono attardato a fare mille cose che avrei dovuto non
fare, so bene a chi devo dare la colpa del fastidio che provo. Se invece il
treno ritarda, mi sento legittimato a lamentarmi del torto subito e mi sembra
di avere diritto di maledire la sorte e le ferrovie.
Alla radice di questo duplice comportamento vi è un ordine di conside-
razioni su cui siamo chiamati a riflettere. Non posso chiedere per quale
motivo l’acqua evapora: in questo caso non possiamo cercare le ragioni che
motivino una simile decisione, perché una decisione che debba essere mo-
tivata semplicemente non vi è: vi è solo un accadimento che ha cause, ma
che non ha ragioni che appartengono allo spazio logico delle motivazioni.
Al contrario, posso chiedere per quale motivo sei uscito di corsa di casa:
se hai deciso di fare così, ci deve pur essere stata una ragione. Per gli ac-
cadimenti ci sono soltanto cause: questo è un fatto che sorregge la nostra
immagine del mondo e che determina la grammatica elementare della no-
stra esperienza. Gli eventi hanno cause; il gioco delle motivazioni, invece,
si attaglia bene all’universo delle persone e ci consente di comprendere
anche ciò che con le persone ha a che fare. Certo, spesso le cose che ci
224
accadono hanno un motivo, oltre che una causa. Se ti sei fatto male facendo
un gioco azzardato e se hai desistito dal farlo solo quando era ormai troppo
tardi c’è un motivo per il tuo bernoccolo: sei stato imprudente e non puoi
che lamentarti con te stesso, anche se questo non toglie che il dolore che
provi sia un evento che ha una causa e che non ha bisogno d’altro per esi-
stere. Gli eventi accadono per una causa, ma senza un motivo; quando ci
accadono, tuttavia, alla causa che li determina si può affiancare la ricerca
di un motivo. O più precisamente: può esservi un motivo che spiega perché
accadano proprio a noi quelle cose.
Siamo ora in grado di prendere tra le mani il filo di cui discorrevamo. Gli
accadimenti hanno cause, non motivi. Gli eventi, tuttavia, non accadono
semplicemente, ma talvolta ci riguardano e questa sembra rendere lecita la
domanda che chiede per quale motivo gli accadimenti del mondo possono
dire la loro sulla nostra vita. Rispondere a questa domanda significa tal-
volta, ma solo talvolta, chiamare in causa l’immaginazione. Il bambino si
fa male contro lo spigolo perché il suo gioco è azzardato: non c’è bisogno
di immaginare proprio nulla per trovare un colpevole e per spiegare quel
che è successo. Doveva capitare ed è capitato. L’immaginazione, invece, è
chiamata in causa quando non c’è un motivo che appartenga all’ordine
delle cose, ma non rinunciamo per questo ad interrogarci sulla ragione per
la quale noi ora soffriamo. Avrebbe potuto non capitare quello che è capi-
tato; è stata solo una circostanza sfortunata quella per cui ora ci teniamo la
testa dal male, ma questo non ci basta: ci sembra di avere il diritto di chie-
dere perché è accaduto e perché proprio a noi. La messa in scena ci offre
una risposta additando un colpevole: lo spigolo in persona. Non abbiamo
un motivo per il nostro dolore, ma possiamo immaginarlo e così facendo
possiamo indugiare nel pensiero di avere subito un torto. Il bambino pic-
chia la testa sullo spigolo e il genitore lo consola sgridando e percuotendo
esemplarmente il tavolo che è causa di quel bernoccolo. Così facendo si
sforza di consolarlo; se tuttavia riesce nel suo intento non è perché il bam-
bino creda (o debba credere) che il tavolo sia colpevole e possa espiare le
sue colpe, soffrendo. Il motivo della consolazione è un altro: quello strano
rituale lo consola solo perché gli consente di continuare a comportarsi
come se avesse subito un torto e come se meritasse per questo di essere
compatito.
Ma ciò è quanto dire che la messa in scena che ci spinge a punire lo
spigolo per le sue (presunte) colpe non ha soltanto una funzione consola-
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toria, ma ci consente anche di continuare a pensare che ciò che ci è acca-
duto abbia un motivo e non sia soltanto un mero accadimento. In quello
strano rito si perpetua la convinzione che le cose che ci accadono abbiano
una ragione.
Su questo punto è opportuno indugiare un poco. Non tutto quello che ci
accade sembra avere un motivo e non è, in linea di principio, affatto neces-
sario che lo abbia. La nostra vita è un evento nel mondo obiettivo e non è
possibile escludere che ci accadano cose che hanno solo cause e non ra-
gioni. Se qualcosa mi urta e perdo l’equilibrio cado come cadrebbe qua-
lunque altro oggetto: sono appunto un corpo nel mondo obiettivo. Ricono-
scere che così stanno le cose, tuttavia, non significa ancora negare che il
nostro mondo della vita sia in linea di principio irriducibile alla dimensione
degli accadimenti. In fondo, se si può parlare di persone e non soltanto di
cose e se non si ritiene che sia sufficiente sempre e comunque indicare le
cause di un evento è perché si pensa che vi sia uno spazio autonomo per il
gioco delle motivazioni. Gli eventi hanno cause, ma gli accadimenti che ci
riguardano potrebbero anche avere motivazioni e rispondere quindi a ra-
gioni che non sono di ordine causale. È insensato chiedere per quale motivo
l’acqua evapora e poi cade come pioggia dal cielo perché l’acqua non è in
generale una cosa che accada in accordo con determinati motivi, ma posso
chiedere perché capita proprio a me di dover subire i danni della siccità o
di un’inondazione. Questa domanda non è insensata: la mia vita risponde
a motivi, e quindi non è insensato chiedere per quale ragione devo soffrire.
Riconoscere che non è insensato, tuttavia, non significa ancora dire che
vi sia necessariamente una risposta. Qualche volta l’ordine dei motivi è
immediatamente percepibile: uno stesso fenomeno si spiega causalmente
nel rimando ad una serie di accadimenti e si dispiega motivazionalmente,
nel rimando ad un insieme di ragioni che possono appartenere alla situa-
zione così come noi la esperiamo nella sua immediatezza. Sei triste perché
nel tuo corpo sono accadute determinate reazioni chimiche e fisiologiche
che impareremo sempre più chiaramente a descrivere, ma sei triste anche
perché la situazione in cui ti trovi è malinconica, come percepirebbe chiun-
que si trovasse al tuo posto. Talvolta, invece, le motivazioni possono sfug-
girci e chiederci un’indagine più approfondita: non so perché sei triste, ma
ci sarà un motivo – qualche volta ci esprimiamo così, assumendo che un
motivo debba esservi comunque.
Si tratta di un’ipotesi che sorge naturalmente e che non sembra di primo
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acchito particolarmente impegnativa. Dal punto di vista causale ragio-
niamo così: se dopo anni all’improvviso il chiodo cede e il quadro cade
una causa vi sarà, anche se non ne abbiamo direttamente esperienza. Se
all’improvviso diventi triste, un motivo vi sarà – ma è vero? Siamo costretti
a pensare che ci sia un motivo per ogni evento che concerne direttamente
la nostra vita d’esperienza? Possiamo chiamare questa ipotesi che ci invita
a pensare che vi sia sempre un motivo per ogni nostro stato d’animo l’ipo-
tesi della chiusura motivazionale dell’io. Non credo che sia un’ipotesi vera,
ma non è un’ipotesi grammaticalmente assurda e vi è chi l’ha sostenuta: la
psicoanalisi, per esempio. A questa ipotesi ne possiamo tuttavia affiancare
un’altra che sembra proporci una generalizzazione simile a quella che ab-
biamo appena vagliato. Qualche volta ci si ammala e le malattie sono ac-
cadimenti tra gli altri: hanno cause che possono essere indagate, ma non
hanno necessariamente motivi che dipendano da me o da altri e che si ma-
nifestino nella trama di un’esperienza possibile. Qualche volta ci si ammala
per imprudenza, qualche volta ci si ammala e basta e tuttavia il fatto che la
malattia accada proprio a me è qualcosa che si intreccia strettamente con
la mia vita e con il suo essere un centro di motivazioni. Di qui il farsi avanti
di una domanda – perché proprio a me? – che si lega ad un’ipotesi che,
come abbiamo osservato, non è grammaticalmente priva di senso: l’ipotesi
che per ciò che concerne la mia vita si possa sempre interrogarsi sui motivi,
perché tutto ciò che mi accade deve essere più che un accadimento.
Un accadimento ha cause perché un fatto tra gli altri, ma può avere motivi
se può essere connesso ad un qualche comportamento soggettivo. Una si-
mile ipotesi equivale a pensare che ciò che mi accade abbia sì una causa
palese, ma che possa anche essere interpretabile come parte di un agire che
mi riguarda. Che lo spigolo mi faccia male se lo urto è un fatto tra gli altri
e ha, in quanto tale, solo ed unicamente cause; che ora soffra è invece qual-
cosa che mi riguarda e che potrebbe avere motivi. Li può avere se posso
pensare che il fatto che quel dolore procura debba essere inteso anche come
frutto di un agire – se posso pensare insomma che la mia vita non sia sol-
tanto un accadimento, ma sia qualcosa che mi è dato.
Si tratta di un’ipotesi elementare che è in fondo alla base tanto del pen-
siero religioso, quanto del pensiero magico e della superstizione. È un’ipo-
tesi che ci chiede di cercare una ragione per le cose che ci accadono e che
pretende che essa vi sia, sempre e comunque, e che non risponda soltanto
o prevalentemente alla domanda fattuale concernente il come dell’acca-
dere, ma che ci dica la sua ragion d’essere e il suo motivo. Se la vita di
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Giobbe diviene improvvisamente un’indicibile successione di tragedie un
motivo ci deve essere – è perché Dio ha concesso a Satana di mettere alla
prova quell’uomo così retto; se i casi sfortunati si inanellano gli uni agli
altri è perché qualcuno ci ha fatto il malocchio, e c’è chi crede che i movi-
menti delle costellazioni e dei pianeti, che debbono apparirci alla luce di
curiose personificazioni, scrivano il copione che dobbiamo recitare, con-
sentendoci di pensare che ogni evento che ci accade fosse più che causal-
mente dovuto.
Non è un’ipotesi che scardini l’ordine della natura che è comunque anzi
necessariamente presupposto. Non dice che gli eventi non abbiano cause,
ma ci invita anche a considerare ciò che ci accade – e soltanto ciò che ci
accade – alla luce di un diverso ordine di spiegazione: ci chiede di pensare
agli accadimenti che ci riguardano alla luce della logica della motiva-
zione46. Per farlo, ci suggerisce di pensare agli eventi che ci accadono non
soltanto come eventi, ma anche come il frutto di un agire: le malattie acca-
dono – sono eventi tra gli altri, ma proprio perché riguardano la mia vita o
la vita delle persone che mi sono vicine sono invitato a pensarle come se
fossero insieme il frutto di una decisione ostile, di una prova cui sono sot-
tomesso da un dio, di una punizione che devo aver meritato. Se così accade,
deve esserci un motivo, e se il motivo rimanda ad un agire che non si
muove sul terreno manifesto della nostra quotidiana esperienza, allora do-
vrà trattarsi di una ragione che ci costringe a riconoscere che accanto alla
realtà e ai suoi nessi consueti è necessario porre una diversa realtà ed un
diverso ordine di connessioni. La pioggia che cade da un cielo grigio di
nuvole ha cause banali che appartengono a questo mondo, così come vi
appartiene l’attrito o la forza di gravità; la pioggia che pone fine al contagio
rimanda a tutt’altro cielo e riempie misteriosamente di buon umore anche
chi non sa, come Renzo, quale significato essa avrà.
Di qui il terzo filo che dobbiamo intrecciare. L’ipotesi che abbiamo for-
mulato è un’ipotesi che ci invita a pensare agli eventi che ci accadono come
se fossero il frutto di un agire che ha motivi. Pensare così, tuttavia, significa
pensare agli accadimenti della nostra vita come se fossero sensibili alla
logica del chiedere per avere. Se ha senso domandare per quale motivo
46 È questo un tratto rilevante del pensiero magico-religioso: ci sono motivi per comprendere solo gli
accadimenti che ci riguardano, direttamente o indirettamente. La tempesta che travolge la nave ha un motivo: è una punizione per una colpa o una prova per saggiare il coraggio di un eroe. Una tempesta
che sconvolgesse oceani non solcati da creature umane non avrebbe motivi, ma continuerebbe ad avere
cause: c’è bisogno di Poseidone per sconvolgere il mare su cui la zattera di Odisseo naviga, ma basta il vento per agitare le onde di un mare senza eroi e senza uomini.
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debbo ora soffrire e se la risposta è nella decisione che sorregge quel fare
da cui dipende quel che mi accade, allora ha senso anche chiedere che que-
sto torto venga sanato o agire a nostra volta per fronteggiare le decisioni
ostili di una potenza maligna o di un nemico. Un simile agire ed un simile
chiedere, tuttavia, non possono disporsi sul terreno concreto dell’operati-
vità reale. Se la malattia è il frutto dell’agire nascosto di una potenza ostile,
lo sciamano dovrà, per curarla, disporsi sul piano di una diversa operati-
vità. Non potrà agire causalmente, ma dovrà persuadere la malattia ad an-
darsene: dovrà trovare la via per opporre motivo a motivo, e questo signi-
fica che la cura dovrà assumere la forma di una richiesta. La cura dello
sciamano assomiglia in questo alle preghiere: chiede e agisce per convin-
cere, minacciando se necessario.
Siamo giunti così al quarto e ultimo filo che dobbiamo intrecciare – un
filo che ci mostra per altra via quale sia la centralità della dimensione ri-
tuale da cui abbiamo preso le mosse. Ci sentiamo stanchi e sentiamo che
sta arrivando un po’ di raffreddore e forse anche qualche linea di febbre, e
allora reagiamo platealmente: ci sciacquiamo la faccia con l’acqua gelata,
ci prepariamo un caffè con un gesto programmatico e forse ci pettiniamo
persino per recitare il nostro incondizionato rifiuto della piccola sciatteria
dell’essere malati. Sappiamo bene che questi gesti studiati non servono
proprio a nulla, se non a dire ad altra voce che il virus che ci assedia non
avrà vita facile, qualunque cosa significhi una dichiarazione di guerra fatta
ad una macromolecola. E tuttavia qualcosa cambia se riguardiamo a questo
gesto iniziale alla luce delle considerazioni che abbiamo appena svolto. In
fondo, all’origine di quel nostro gettarci un po’ d’acqua gelata sul viso c’è
una protesta ridicola: ci sembra di poter protestare perché questo accade
proprio adesso e proprio a noi, ed è questo desiderio di rivolta che il nostro
comportamento immaginativo mette esemplarmente in scena. Ora, non si
può protestare contro le cose e contro gli accadimenti, e non ce la si può
prendere nemmeno contro gli astri e le stelle se li si considera, come la-
mentava Don Ferrante, «come capocchie di spilli ficcati in un guancia-
lino». Per farlo a ragion veduta (sit venia verbo), è necessario farsi guidare
dall’ipotesi che abbiamo dianzi formulato: dobbiamo pensare che le cose
che ci accadono abbiamo un motivo e siano il frutto di una decisione che
qualcuno o qualcosa ha preso per noi. Dobbiamo credere che la vita ci sia
mandata e che le cose che ci accadono siano volute per noi.
Si tratta, io penso, di un’ipotesi ben poco plausibile, ma non è questo il
punto. Di quell’ipotesi ci interessa ora il fatto che essa ci invita a guardare
229
gli strani rituali che abbiamo dianzi descritto sotto una diversa luce: ci in-
vita a pensare che si possa davvero protestare per quello che ci accade per
caso e che si possa davvero chiedere che non accada. Ci in vita a pensarlo
perché il contenuto di quell’ipotesi è che sia possibile porsi di fronte al
corso degli eventi che ci riguardano come se si trattasse del frutto di un
agire rivolto a noi – come se si potesse guardare al mondo obiettivo degli
eventi alla luce di una prospettiva che lo personalizza e che ci consente di
leggere nei fatti che ci accadono il messaggio che ci rivolgono. Ma ciò è
quanto dire che il contenuto dell’ipotesi che abbiamo formulato ci consente
di leggere i gesti recitati dei nostri rituali espressivi come se fossero parte
di un dialogo che ha una sua consistenza reale, anche se può trovarla sol-
tanto ampliando il concetto di realtà al di là dello spazio della natura.
In questa premessa ipotetica è dunque racchiusa la ragione che trasforma
i gesti esibiti di una recita senza scopo in liturgia. Lo sciamano intima alla
malattia di andarsene, soffia fumo sulla tana del morbo e risucchia il veleno
che si annida nel corpo del malato, ma quei gesti esibiti e spettacolari pos-
sono diventare parte di una liturgia: il loro essere privi di un’operatività
reale diviene la condizione che consente loro di guadagnare una operatività
soprannaturale. Così, il malato che si affida alle cure dello sciamano non
crede alla possibilità di una guarigione reale, ma sembra ciò nonostante
poter sperare in una guarigione miracolosa. Se gli accadimenti salienti
della nostra vita debbono essere pensati alla luce di un’ipotesi che li ricon-
duce ad una volontà che li decide per noi, se in generale gli eventi non
rispondono soltanto all’ordine delle cause e non sono soltanto natura ma –
in quanto eventi che ci accadono – rispondono alla logica della motiva-
zione e hanno in se stesi un significato personale, allora non deve sembrarci
strano che il guerriero si armi di tutto punto per colpire il nemico che pure
è già stato trafitto in effigie: quel gesto magico consente di credere ad un
diverso ordine di efficacia pratica – l’ordine sovrannaturale del miracoloso
– ma non nega per questo la necessità di un agire concreto. Qualche volta
si prega persino per ritrovare le chiavi di casa47, ma non per questo si smette
di cercarle: ciò che la preghiera consente è solo di poter pensare, quando
finalmente le si ritrova (se le si ritrova), che alla causa reale del successo
di quel cercare – il nostro aver guardato con più attenzione in un luogo o il
47 Quando si smarrisce qualcosa, la tradizione dei responsori suggeriva di ripetere per tredici volte
senza interruzione una preghiera particolare – il Sequeri (che è poi una storpiatura di «si quaeris mira-cula...») – che veniva rivolta a Sant’Antonio.
230
nostro esserci rammentati di gesto dimenticato – si affianchi una causa so-
vrannaturale: qualcuno o qualcosa ha messo a tacere la potenza ostile che
tramava contro di noi e ha restituito alla nostra vita il corso che speravamo,
anche se questo non toglie affatto che le chiavi si ritrovino proprio dove le
abbiamo lasciate e dove ci siamo infine ricordati di andare a guardare.
I riti espressivi divengono così riti magici e religiosi in virtù di un’ipotesi
che li muta di senso; sarebbe tuttavia sbagliato credere che questa ipotesi
si leghi ad un corpo estraneo in cui semplicemente si imbatte per caso. Le
cose non stanno così, e per una duplice ragione. Per comprenderla, tor-
niamo ancora una volta al nostra esempio. Il bambino picchia la testa e il
genitore lo consola, punendo esemplarmente lo spigolo. È un gesto che non
pretende di essere creduto, ma che prepara immaginativamente il terreno
per una credenza. Il genitore che punisce lo spigolo per quel che ha fatto ci
invita ad una personificazione: trasforma immaginativamente un evento
che ha soltanto cause in un gesto malevolo, compiuto da una potenza
oscura che si annida nel legno del tavolo. L’immaginazione rituale prepara
così l’universo di oggetti e di relazioni su cui poggia l’ipotesi del pensiero
magico-religioso. Ma vi è di più: il rito non soltanto predispone il terreno,
ma rende l’ipotesi che lo interpreta se non vera, almeno concretamente pre-
sente, poiché consente a chi si lascia coinvolgere dalla dimensione imma-
ginativa di vivere in accordo con il suo dettato. Lo sciamano si affatica sul
corpo del malato e lotta contro la malattia che, proprio per questo, appare
come una potenza ostile, come un nemico da sconfiggere in una battaglia.
Il rito fa così apparire ciò che l’ipotesi ci invita a credere. Che il pane di-
venti il corpo di Cristo lo si deve credere, ma il rito ci coinvolge e rende
presente la sacralità del sacramento nella natura dei gesti del sacerdote e
nella coralità della risposta dei fedeli. Non ci si inginocchia davanti a un
pezzo di pane e non si adora un calice di vino, ma proprio per questo com-
piere questi gesti significa rendere presente ciò che si vuole credere. Ma se
così stanno le cose, allora si può comprendere quale sia il rapporto effettivo
che lega il rito alla dimensione della credenza. Il rito ha una valenza teatrale
e immaginativa: chi vi assiste non può non rendersene conto e ciò significa
anche che non può credere alla lettera a quello che vede. Ogni rito e ogni
liturgia hanno nei loro gesti una piega ludica che non può essere messa da
canto e trascurata. Non si crede ai riti; si crede grazie ad essi: non sono
oggetto, ma veicolo della fede, perché consentono di rendere presente per
noi nel suo senso e nella sua concreta manifestatività ciò che l’ipotesi che
sorregge il pensiero magico-religioso ci invita a supporre. Nel rito, la realtà
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altra di cui la religione e la magia ci parlano si fa manifesta, sia pure sol-
tanto in una teatralizzazione che, come tale, non può essere interamente
messa da canto e dimenticata. L’immaginazione ludica diviene così il vei-
colo di una credenza, la forma che ci consente di vivere immaginativa-
mente quello che si vuole credere.
7. Credere ad un’ipotesi
Credere ad un’ipotesi di carattere generale come quella che abbiamo dianzi
formulato significa credere a qualcosa di ben diverso da un fatto. Ai fatti
crediamo perché possiamo vedere che si danno effettivamente, per quanti
problemi queste considerazioni così banali possano sollevare. Se credo che
ci sia ancora pane nella madia e voglio decidere se quel che credo merita
di essere creduto è sufficiente che guardi nella madia e veda se vi è ancora
pane. Così accade per ogni credenza che abbia per oggetto un fatto, e per
quanti problemi possano sorgere quando ci disponiamo sul terreno com-
plesso di un’indagine epistemologica, sarebbe eccessivo dire che una si-
mile prassi implichi per forza di cose una qualche teoria. Quando guardo
nella madia per vedere se c’è il pane non ho bisogno di teorie. Certo, ho
bisogno del linguaggio perché le credenze, nella loro veste più propria,
sono formulate linguisticamente, ma anche se è vero che così stanno le
cose, non si deve per questo dimenticare da un lato che le credenze in senso
stretto poggiano comunque su certezze di ordine prelinguistico e, dall’al-
tro, non si deve enfatizzare troppo il ruolo del linguaggio. In fondo, quando
controllo se c’è il pane nella madia faccio qualcosa di simile a quello che
fa il gatto quando controlla se ci sono croccantini nella scodella: guardo
bene per potermi rassicurare e per sapere come devo comportarmi in un
futuro immediato.
Diversamente stanno le cose quando abbiamo a che fare con un’ipotesi
di carattere generale che ci invita a pensare ciò che accade alla luce di una
determinata famiglia di concetti e sullo sfondo di una rete di cause e di
motivazioni. Davanti a noi vi è una serie di fatti che constatiamo: vi è un
uomo malato davanti a cui un altro uomo gesticola in vario modo. Questi
fatti debbono tuttavia essere letti alla luce di un’ipotesi generale: l’uomo è
uno sciamano, i suoi gesti sono una cura magica, le sue urla minacce volte
a stanare la potenza oscura che fa soffrire il malato. È questo cui deve cre-
dere il malato se vuole poter sperare di guarire, ma è evidente che la pos-
sibilità di verificare una simile ipotesi è tutt’altro che ovvia. In questo caso
non basta guardare meglio: l’unica cosa che possiamo fare è decidere se
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l’ipotesi regge alla prova dei fatti, ma si tratta comunque di una questione
complessa che non si risolve con uno sguardo più attento e che non può
essere risolta con un tratto di penna. Accade così anche con le teorie scien-
tifiche: un’oscurità teorica non le dissolve e un’anomalia non basta per fal-
sificarle. Tutt’altro: parte del lavoro di uno scienziato consiste nello sforzo
di reinterpretare i fatti recalcitranti in una forma che li renda tollerabili ri-
spetto al quadro concettuale che è chiamato a renderne conto. Per fugare i
dubbi (in parte del tutto giustificati) che minavano i fondamenti del calcolo
infinitesimale, D’Alembert invitava i matematici ad andare avanti senza
farsi scrupoli eccessivi e senza farsi paralizzare dalle incertezze, sicuro che
la fede prima o poi sarebbe arrivata. E aveva ragione: le teorie non possono
farsi fermare da qualche risultato recalcitrante o da qualche anomalia irri-
solta e debbono chiudere un occhio sulle oscurità teoriche su cui non sanno
far luce. Credere in un’ipotesi di carattere generale è, in qualche misura,
un atto di fede, una scommessa che si vuole vincere, ma che non è mai del
tutto già vinta. L’ideale leibniziano di una comunità di saggi che in perfetta
armonia, deposti lo spirito di parte e l’animosità, si affidi alla massima ra-
zionale del «Calculemus!» per venire a capo di ogni questione teorica non
è di casa nemmeno sul terreno scientifico. Alle ipotesi scientifiche si crede,
sperando di avere ragione e cercando di avere ragione, ma senza avere ga-
ranzie effettive di essere già dalla parte della ragione. Anche sulle teorie
scientifiche il sole sorge pian piano e tramonta lentamente: non basta un
esperimento cruciale per mettere tutti a tacere e per far sorgere e tramontare
una teoria. Ci vuole tempo perché ogni esperimento cruciale è per la parte
avversa solo un problema su cui riflettere, non un verdetto definitivo.
Così stanno le cose per ciò che concerne le teorie scientifiche48 – e non
sembra che le credenze magico-religiose abbiano un destino molto diverso.
In fondo, si potrebbe argomentare, Giobbe ha ragione: non si può rinun-
ciare alla propria fede in un dio giusto e buono solo perché la vita presenta
d’un tratto infinite anomalie. Il malato che si affida allo sciamano può spe-
rare di guarire anche se non è capitato così ai suoi amici: c’è molto da fare
prima che un esperimento contrario possa essere preso come prova della
falsità di un’ipotesi. E anche chi ha smarrito le chiavi può convincersi che
il Sequeri sia una buona strategia, perché anche se ha ripetuto con cura
tredici volte la stessa orazione, sa di non averla sempre pronunciata con
animo puro. Le ipotesi generali sono restie a vincolare il loro destino a un
48 Pressappoco così: si tratta di problemi molto complessi e sono lontanissimo dal credere che le con-
siderazioni proposte siano davvero soddisfacenti.
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singolo caso individuale e fa parte della strategia di chi crede ad un’ipotesi
il cercare di venire a capo in qualche modo delle difficoltà marginali in cui
una credenza generale si imbatte.
Certo, anche sulle credenze religiose e magiche il sole cala a poco a poco
se mutano le convinzioni e le forme di vita su cui quelle credenze poggiano.
Le danze dello sciamano diventano folklore quando si comprende che un
antibiotico è più efficace di mille rituali e che vi sia un dio che agita i mari
e che scuote la terra nei terremoti è un’immagine che si allontana dal nostro
mondo quando impariamo le cause reali dei terremoti e delle onde nel
mare. Qualche volta andando avanti, la fede viene; qualche volta, invece,
se ne va: è successo con il calorico, e succede (per fortuna) anche con i
guaritori cui ormai si affidano in pochi e solo per cercare di guarire da quei
piccoli disturbi che non vale la pena di curare, perché sono cose da poco o
da quelle malattie temibili per le quali non vi è al momento alcuna cura che
sia davvero efficace49. Le credenze si perdono pian piano e qualche volta
si perdono solo perché non riusciamo più a condividere un certo modo di
pensare e di ragionare. È difficile credere in un Dio Padre che crea gli ani-
mali e poi l’uomo perché sappiamo troppe cose sull’evoluzione della vita,
perché non riusciamo più a condividere l’antropocentrismo orgoglioso che
esalta l’unicità della nostra specie e perché non crediamo più che la pater-
nità meriti tutte queste maiuscole. La trottola cade perché gira sempre più
piano e reagisce sempre più debolmente alle forze che vogliono farla ca-
dere; così accade anche alle credenze: si raffreddano e si fanno più fragili
sin quando finalmente cedono o tacciono definitivamente. Il disincanto del
mondo ha qui le sue radici: se l’immagine scientifica del mondo si fa sem-
pre più persuasiva, sembra necessario riconoscere che la plausibilità di una
comprensione magica e mitica del mondo deve venire meno, proprio come
deve venire gradualmente meno la fiducia nella teoria aristotelica della gra-
vitazione quando la fisica newtoniana ci mostra che i moti sublunari e i
moti celesti obbediscono ad una stessa legge. Insomma, credenze scienti-
fiche e credenze religiose si comporterebbero così, grosso modo, nella
stessa maniera e non ci sarebbe affatto bisogno di rammentarsi dell’imma-
ginazione per venire a capo delle stranezze delle credenze magiche e reli-
giose: in realtà è il credere che non è affatto così lineare e razionale come
stranamente ci piace invece dipingerlo.
Le cose stanno davvero così? Si può davvero sostenere che l’ipotesi di
49 Si va così dall’omeopata quando ci si sente affaticati e dal guaritore quando si ha una malattia che
non può essere in alcun modo curata.
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cui discorriamo è un’ipotesi tra le altre e che non vi è alcuna peculiarità
delle credenze magiche e religiose? Io credo di no, e per due differenti
ragioni che in realtà ci costringono a riflettere sulla particolarità dell’ipo-
tesi generale di cui discorriamo.
Vediamo innanzitutto la prima ragione. Per smettere di credere ad una
teoria scientifica un fatto recalcitrante non basta – lo abbiamo appena detto,
e tuttavia da un lato quel fatto rimane come un problema che deve essere
spiegato, dall’altro il valore del rapporto tra conferme e disconferme non
può comunque diventare troppo esiguo. E non a caso: una credenza scien-
tifica è una credenza di carattere cognitivo ed è, come tale, in primo luogo
determinata dalla realtà dei fatti che resta comunque il giudice unico della
sua veridicità e della sua stessa plausibilità. Per credere che vi sia un nesso
tra la pioggia e le nuvole nere che solcano il cielo non deve accadere –
salvo qualche rara eccezione, di cui si dovrà comunque rendere conto – che
piova e che vi sia il cielo sereno. Per credere in una qualche superstizione,
invece, basta una conferma che ci colpisca in profondità nell’animo e non
sono sufficienti mille smentite per farci cambiare idea: le superstizioni,
come i miracoli, vivono di eccezionalità e non c’è calcolo che scoraggi il
fedele dal pronunciare tra sé e sé tredici volte i versi del Sequeri per ritro-
vare ciò che ha smarrito e se mai gli è capitato di ritrovare così il suo mazzo
di chiavi questa circostanza fortuita varrà come una prova inconfutabile
che un miracolo è possibile e che la porta che conduce dai fatti della natura
a motivazioni che stanno al di là di essa è aperta e percorribile. Insomma,
il fedele crede al di là di ogni calcolo, perché il suo credere non si misura
sui fatti, ma sembra piuttosto fare corpo con un’esigenza di carattere esi-
stenziale che si manifesta in alcune esperienze esemplari e che sembra
avere nel credere una garanzia della sua possibilità. Se c’è una disgrazia
che ci colpisce deve esserci un colpevole che l’ha perpetrata: è il gatto nero
che ci ha tagliato la strada e che, in virtù di un’immagine il cui senso è
facile da dipanare, ha gettato improvvisamente la sua ombra cupa sul no-
stro destino, mettendosi di traverso tra noi e il nostro futuro cammino. Alle
superstizioni si crede non perché siano confermate dai fatti, ma perché
l’ipotesi che le sorregge ci consente di pensare agli eventi alla luce di
un’esigenza profondamente radicata in noi: abbiamo bisogno di credere
che i fatti che ci accadono appartengano ad un disegno che è stato pensato
per noi e che appartiene alla nostra vita. Crediamo non perché vi sia un
qualche sostegno fattuale, ma perché il credere sorregge il nostro tentativo
di attribuire agli eventi che ci accadono un motivo che li spiega e che ci
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consente non soltanto di prevederli, ma anche – in un certo senso – di
meritarli.
Di qui la seconda ragione di cui discorrevamo. L’abbiamo osservato:
l’affermarsi della mentalità e del sapere scientifico non sono senza conse-
guenze per l’ipotesi che sorregge la mentalità magico-religiosa, ma questo
non significa ancora che vi sia davvero una comunanza di piani tra queste
forme diverse della cultura umana. Il racconto biblico della creazione non
è un trattato fantasioso di fisica e la creazione degli animali e dell’uomo
non risponde alla stessa domanda cui risponde la biologia darwiniana. Il
problema di Darwin è un problema conoscitivo: Darwin si domanda come
sia potuto accadere che le forme del vivere si siano diversificate, adattan-
dosi in modo mirabile alle condizioni casuali del vivere e la sua risposta è
in una teoria che può essere accettata solo perché dimostra di potersi fon-
dare su una miriade di conferme empiriche. Il racconto biblico della crea-
zione ha un altro scopo: ci invita a pensare che se vi è vita nel mondo e ha
questa forma è perché dio l’ha voluto e perché ha voluto che essa fosse così
com’è, perché ogni cosa creata non ha soltanto una causa, ma ha innanzi-
tutto un motivo. Così, se vi è un disincanto del mondo e se il farsi strada
dell’immagine scientifica del mondo incrina la credibilità dell’ipotesi ma-
gico-religiosa, ciò accade non perché l’una e l’altra abbiano di mira uno
stesso obiettivo di natura conoscitiva, ma perché il farsi avanti di una spie-
gazione puramente naturale rende superflua, anche se non necessariamente
falsa, una spiegazione sovrannaturale. In fondo, noi ragioniamo così: se
potessimo prevedere interamente i gesti di chi ci sta di fronte in base ad
una regola meccanica, penseremmo di avere a che fare con un automa, e
non con una persona. Lo stesso accade con il corso degli eventi: sembra
più facile supporre che vi sia un progetto che attraversa gli accadimenti che
ci riguardano se non sappiamo spiegarli causalmente – se il loro accadere
ci appare inspiegabile. La teoria darwiniana non rende insensato il pensiero
che attraversa il racconto biblico della creazione e non lo contraddice – dio
potrebbe avere realizzato il suo disegno proprio così, nel gioco apparente
dei casi – ma lo rende ciò nonostante inutile. Possiamo credere alla crea-
zione delle specie e dell’uomo, ma non c’è più per noi uomini del presente
un mistero che apra nella dimensione fattuale della natura un varco che ci
consenta di muovere dai fatti per spiegarli alla luce di un diverso ordine di
preoccupazioni; tutt’altro: abbiamo già una spiegazione che ci consente di
pensare come un fatto puramente naturale ciò che ci si sforzava di inten-
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dere in altro modo. Il pensiero che attraversa il racconto biblico della crea-
zione non risponde alla stessa domanda cui risponde la teoria darwiniana,
ma per potersi porre come risposte entrambe hanno bisogno che vi sia una
domanda e che qualcosa ci appaia enigmatico. Una soluzione naturalistica
non tacita gli interrogativi cui le narrazioni mitiche intendono dare risposta,
ma le rende tuttavia superflue perché cancella il bisogno di una spiegazione
e così facendo toglie le condizioni della loro applicabilità al reale.
Il disincanto del mondo nasce di qui: possiamo immaginare ancora che
il mondo accada per noi, ma questa fantasia non riesce più a trovare un
varco nella realtà e a porsi come un’ipotesi che sembra richiesta dalla com-
plessità delle cose. Chi pensava ai terremoti come se fossero l’espressione
della collera di Poseidone enosigeo non intendeva spiegarli naturalistica-
mente, ma cercava un racconto che sapesse giustificare la morte e la distru-
zione. Cercava un racconto e poteva sforzarsi di pensare che fosse vero
perché i terremoti erano comunque inspiegabili: l’ignoranza delle cause
poteva così aprire un varco ad un presunto sapere delle ragioni.
Di qui, da queste considerazioni di carattere generale, è possibile trarre
una conclusione rilevante circa la natura dell’ipotesi di cui discorriamo.
L’ipotesi magico-religiosa non è un’ipotesi che pretenda di assolvere ad
una funzione conoscitiva. Non vuole spiegarci come è fatto obiettivamente
il mondo ed è per questo che nei miti i dettagli contano poco e ci colpiscono
più per il loro senso profondo che per la determinatezza della loro narra-
zione. Il racconto biblico della creazione lascia un’infinità di problemi
aperti ed è risibile se lo pensiamo come una spiegazione effettiva dei fatti
– questo l’abbiamo già osservato. I miti non vogliono dire com’è fatto il
mondo, ma vogliono insegnarci a pensarlo così: come una realtà fatta per
noi, come una successione di eventi che, nella misura in cui ci riguarda, ha
un senso. Credere all’ipotesi che sorregge il pensiero magico e religioso
non significa allora impegnarsi in primo luogo nella determinazione di una
serie di fatti, ma scommettere sulla possibilità di un esperimento esisten-
ziale che appare tanto più percorribile quanto più ci sembra di poterlo fon-
dare su una realtà in cui possiamo credere, anche se non si dispiega sul
terreno dei fatti. Quale sia il contenuto di questo esperimento lo sappiamo:
ci dichiariamo disposti a vivere come se gli eventi che ci riguardano fos-
sero il frutto di una decisione pensata per noi e insieme scommettiamo che
questa possibilità sia garantita da un ordine sovrannaturale delle cose cui è
lecito credere.
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Non è difficile cogliere nell’esperimento esistenziale di cui discorriamo
un tratto che ci riconduce ancora una volta in prossimità della dimensione
immaginativa: il malato che accetta di credere allo sciamano e alla sua fu-
tura guarigione si dichiara innanzitutto disponibile a vivere secondo una
massima generale – la massima che lo rassicura del fatto che la sua malattia
non è soltanto un accadimento tra gli altri, ma è parte di una vicenda che
lo riguarda e che è stata voluta per lui da una qualche oscura potenza che
può essere persuasa a desistere dal suo agire malvagio. Il malato accetta di
lasciarsi coinvolgere da un esperimento esistenziale che non può non ricor-
darci da vicino gli esperimenti immaginativi cui ci chiama l’immagina-
zione ludica o narrativa. In fondo il malato fa proprio questo: prende sul
serio il rito e ci spera, finché ne ha memoria. Si lascia rassicurare dallo
sciamano finché ne vede i gesti e li ricorda. Poi, quando il rito si chiude e
se ne smarrisce l’impressione vivida, lo spazio racchiuso della magia si
chiude e la malattia rimane e resta la necessità reale di fronteggiarla, come
resta il nemico che pure è stato ucciso in effigie, trafiggendo il feticcio che
lo impersonava.
Eppure una differenza c’è, e non è difficile coglierla ora. Un mito è un
racconto che ci invita a immaginare secondo una prospettiva determinata
un aspetto della nostra vita e dello scenario che la ospita. Ci insegna a im-
maginare il mondo per farlo nostro: ci suggerisce, per esempio, di pensare
che la vita breve degli uomini abbia origine da una colpa o che i terremoti
siano manifestazioni di collera di un dio bizzoso come Poseidone. Ma ci
invita anche a pensare che sia vero non tanto il racconto nei suoi dettagli,
che sono in qualche misura irrilevanti, ma l’ipotesi che sorregge in gene-
rale quella narrazione. Deve essere vero che i terremoti sono le manifesta-
zioni di una collera che si deve poter placare e che la nostra vita breve
dipende da una colpa perché se non si può credere che le cose stiano così,
si è costretti a riconoscere che il nostro mondo non è affatto nostro e che
non abbiamo alcun diritto di pensare che sia semplicemente vero quello
che per varie ragioni sentiamo il bisogno di raccontarci. Ma ciò è quanto
dire che l’ipotesi di cui discorriamo e che sorregge in vario modo religione
e mito, superstizione e magia, ha un obiettivo ben preciso: si pone come un
tentativo di ancorare il mondo come teatro della nostra vita al di là della
nostra stessa vita, in una realtà che supera la realtà stessa. La nostra vita è
fatta così: diamo naturalmente importanza alle vicende che ci accadono e
alle diverse situazioni cui apparteniamo, e nelle forme diverse di una ritua-
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lità condivisa o anche individuale costruiamo immaginativamente un no-
stro mondo, la cui solidità tuttavia non può andare in linea di principio al
di là della nostra cultura e della nostra esistenza. Per poterlo fare il nostro
mondo dovrebbe essere una realtà obiettiva – ed è proprio questo che l’ipo-
tesi magico-religiosa ci invita a credere.
A torto, io credo.
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