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1 SOMMARIO CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE .............................................................. 3 1. Un esperimento mentale .................................................................................... 3 2. Una diversa prospettiva ................................................................................... 11 3. Uno sguardo in avanti ..................................................................................... 19 CAPITOLO PRIMO ..................................................................................... 23 L’IMMAGINAZIONE E LE SUE FORME........................................................ 23 1. L’immaginazione e le immagini mentali ......................................................... 23 2. Un’analisi concettuale ..................................................................................... 32 3. Immaginare ed assumere ................................................................................. 44 4. Esperienza e coinvolgimento .......................................................................... 52 5. Immaginazione e intuizione ............................................................................ 54 5. Uno schema riassuntivo .................................................................................. 60 CAPITOLO SECONDO ................................................................................ 62 L’IMMAGINAZIONE ASSOLUTA: UNA POSSIBILITÀ NUOVA ...................... 62 1. Una genealogia dell’immaginazione? ............................................................. 62 2. La narrazione immaginativa ............................................................................ 76 3. La neutralizzazione delle posizioni d’essere e di valore ................................. 87 4. Immaginazione narrativa e credenza ............................................................... 93 Annotazione. Il paradosso della finzione .......................................................... 105 5. La narrazione immaginativa: un esperimento mentale .................................. 105 6. La dimensione del gioco ............................................................................... 111 7. La modificazione ludica ................................................................................ 118 CAPITOLO TERZO ................................................................................... 126 L’IMMAGINAZIONE E GLI ASPETTI FIGURATIVI ...................................... 126

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SOMMARIO

CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE .............................................................. 3

1. Un esperimento mentale .................................................................................... 3 2. Una diversa prospettiva ................................................................................... 11 3. Uno sguardo in avanti ..................................................................................... 19

CAPITOLO PRIMO ..................................................................................... 23

L’IMMAGINAZIONE E LE SUE FORME ........................................................ 23

1. L’immaginazione e le immagini mentali ......................................................... 23 2. Un’analisi concettuale ..................................................................................... 32 3. Immaginare ed assumere ................................................................................. 44 4. Esperienza e coinvolgimento .......................................................................... 52 5. Immaginazione e intuizione ............................................................................ 54 5. Uno schema riassuntivo .................................................................................. 60

CAPITOLO SECONDO ................................................................................ 62

L’IMMAGINAZIONE ASSOLUTA: UNA POSSIBILITÀ NUOVA ...................... 62

1. Una genealogia dell’immaginazione? ............................................................. 62 2. La narrazione immaginativa ............................................................................ 76 3. La neutralizzazione delle posizioni d’essere e di valore ................................. 87 4. Immaginazione narrativa e credenza ............................................................... 93 Annotazione. Il paradosso della finzione .......................................................... 105 5. La narrazione immaginativa: un esperimento mentale .................................. 105 6. La dimensione del gioco ............................................................................... 111 7. La modificazione ludica ................................................................................ 118

CAPITOLO TERZO ................................................................................... 126

L’IMMAGINAZIONE E GLI ASPETTI FIGURATIVI ...................................... 126

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1. Un elemento comune..................................................................................... 126 2. Gli aspetti figurativi ...................................................................................... 131 3. Gli aspetti figurativi e l’immaginazione situata ............................................ 140 4. Un mondo condiviso ..................................................................................... 147 5. L’immaginazione e il suo compito ................................................................ 152

CAPITOLO QUARTO ................................................................................ 159

L’IMMAGINAZIONE E IL NOSTRO MONDO ............................................... 159

1. Una finzione consolidata ............................................................................... 159 Annotazione. Riflessioni sulle marionette......................................................... 173 2. Figure di confine ........................................................................................... 173 3. Una prima ipotesi: l’immaginazione inconsapevole ..................................... 185 4. I riti e la funzione di cornice ......................................................................... 211 5. Un passo indietro .......................................................................................... 216 6. I fili di un intreccio ........................................................................................ 221

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CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE

1. Un esperimento mentale

Possiamo forse cominciare così, prendendo tra le mani un vecchio libro di

filosofia: il Trattato sulle sensazioni di Étienne Bonnot, abate di Condillac.

In questo libro, che non ha il fascino teorico dei grandi classici dell’empi-

rismo settecentesco e che appartiene a un passato divenuto ormai silen-

zioso per noi, vi è qualcosa che ci attira e che ci invita a riflettere. Si tratta

di un passo ben noto: Condillac ci invita ad immaginare una statua di

marmo, in tutto simile a noi, cui sia data per incanto la possibilità di acqui-

sire passo dopo p

asso le diverse forme della nostra sensibilità. Questo strano gioco ha un

fine prestabilito: deve consentire a noi, spettatori filosofi, di assistere alla

nascita in vitro di una mente umana in un corpo di marmo, per inscenare

così di fronte a nostri occhi di lettori le origini della conoscenza umana, le

forme prime della nostra vita d’esperienza che appartengono ad un passato

che non è più accessibile per noi1.

L’epilogo di questo racconto filosofico non è difficile da immaginare:

ogni nuova sensazione imprime un diverso movimento agli ingranaggi

della mente e la statua si trasforma così, sotto ai nostri occhi, in un soggetto

capace di vivere e di sentire. Il gioco, tuttavia, potrebbe continuare: po-

tremmo chiederci che cosa accadrebbe ad una statua che sappia percepire

e ricordare, che provi piacere e dolore, e forse anche collera o simpatia, ma

che non sia capace invece di immaginare, qualunque cosa di preciso questa

parola significhi. Noi siamo fatti così: sappiamo immaginare molte cose,

ma che cosa accadrebbe se all’improvviso non fossimo più capaci di ab-

bandonare il terreno della realtà e se ogni nostra esperienza fosse per que-

sto vincolata a ciò che c’è o è stato?

Non è facile rendersi conto di quali e quanto ramificate siano le conse-

guenze di questa strana sorta di cecità, ma alcune considerazioni si impon-

gono con una certa forza. Se fossimo affetti da una qualche forma di cecità

1 «A tale scopo immaginammo una statua organizzata internamente come noi e animata da uno spirito

privo d'ogni sorta d'idee. Supponemmo inoltre che l'esteriore tutto di marmo non le permettesse l'uso d'alcun senso e ci riserbammo la libertà di aprirli a piacer nostro alle diverse impressioni che possono

ricevere» (E. Bonnot de Condillac, Trattato delle sensazioni (1754), a cura di P. Salvucci, Laterza,

Roma Bari 1970, p. 6).

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immaginativa non saremmo più capaci di inventare racconti e di ascoltarli:

ci sarebbe ancora spazio per la cronaca, ma non sapremmo più dare un

senso qualunque al “c’era una volta …” che dischiude le porte dell’imma-

ginazione narrativa. Uno stesso ordine di considerazione varrebbe per

molti giochi ed in particolare per quelle forme ludiche che ci invitano ad

assumere ruoli e che, per esempio, ci chiedono di “far come se” una grossa

scatola di cartone fosse una casa in cui entrare o uscire a piacimento o un

ramo di un albero una spada con cui sfidare a duello un nemico. Forse non

tutti i giochi implicano l’esercizio dell’immaginazione – non è facile dire

se due cani che si azzuffano per gioco debbano davvero calcare per questo

il terreno dell’immaginazione – ma è certo che il gioco infantile è ricco di

fantasia e che i giochi di un bambino sarebbero semplicemente impensabili

se non vi fosse un libero esercizio dell’immaginazione. Ora, il raccontare

e il giocare sono forme che hanno un ruolo importante nella nostra vita e

di fatto nei racconti come nella dimensione ludica prende forma un amplia-

mento rilevante della nostra umana esperienza ed impariamo a reagire a

situazioni complesse che potrebbero accaderci e che è utile mettere in

scena, per comprenderle prima che facciano il loro ingresso nella vita reale.

Senza l’immaginazione la nostra vita sarebbe davvero molto diversa.

Non è tuttavia soltanto il gioco o la narrazione che sparirebbero se non

ci fosse più la libertà di immaginare: non potremmo nemmeno disporre il

reale sullo sfondo del possibile e “viverlo” come se lo esperissimo, come

invece facciamo quando cogliamo un evento che accade sotto ai nostri oc-

chi come una possibilità tra le altre. L’immaginazione è, tra le altre cose,

la facoltà del possibile, e questo significa che la dimensione immaginativa

è chiamata in causa dalla dimensione della progettualità: i progetti allu-

dono ad un altrimenti che deve potersi aprire un varco nella solidità del

reale. Ma forse il potere dell’immaginazione si spinge ancora più avanti:

forse dobbiamo immaginare qualcosa quando “vediamo” quali modifiche

si dovrebbero apportare ad un oggetto per utilizzarlo per un determinato

scopo e forse, in generale, ogni impiego creativo di un oggetto per un fine

che non sia immediatamente racchiuso nella sua datità percettiva chiede

l’impiego dell’immaginazione, cosa questa che ci costringerebbe a ricono-

scere che la nostra statua non deve necessariamente avere un volto umano,

poiché molti animali sanno fare un uso creativo degli oggetti che vedono.

Immaginare, tuttavia, non significa soltanto contrapporre al reale la di-

mensione della progettualità, ma anche dare spazio all’altrimenti nella

forma di una rete di situazioni emotive: nel rimorso il passato si fa avanti

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come qualcosa che avrebbe dovuto essere ma non è accaduto, nel timore

immotivato si fa avanti in modo minaccioso la possibilità che qualcosa nel

nostro presente muti, rivelando la sua e la nostra fragilità, e in questo porsi

di ciò che avrebbe dovuto essere o di ciò che potrebbe accadere accanto a

ciò che invece è stato l’immaginazione sembra dire la sua. Lo stesso accade

per la gelosia che in parte vive dei suoi racconti, per l’invidia che poggia

su una trasposizione analogica tra il tuo destino e il mio, ma anche per la

fiducia che poggia sulla capacità di pensare che il futuro non cambierà le

cose che ci sembrano ora importanti e per la speranza che si nutre della

convinzione che il futuro saprà invece cambiare molte cose. Desideri e de-

cisioni si legano nel loro possibile dipanarsi alla nostra capacità di figurarci

situazioni che non sono date, ma che potrebbero accadere e uno stesso or-

dine di considerazioni è chiamato in causa dalle regole che ci invitano ad

astenerci dal compiere determinate azioni: in fondo, se non ci sono soltanto

ordini che ci obbligano ad agire in un determinato modo, ma anche proibi-

zioni che ci vietano certe azioni future ciò almeno in parte accade perché

siamo animali che sanno immaginare e che non si fermano ad un compor-

tamento imposto, ma ne fingono altri, sia pure illegittimi.

Se poi non fossimo privi dell’immaginazione, non potremmo nemmeno

metterci nei panni degli altri e non sapremmo come giustificare le loro de-

cisioni e come prevedere i loro comportamenti. “Mi immagino bene come

tu debba sentirti” è un modo di dire che ha un posto importante nella nostra

vita e che non sembra possibile mettere a tacere senza per questo cancellare

una parte rilevante della nostra vita in comune. Quando camminiamo per

le strade di una periferia degradata ci immaginiamo come ci si debba sen-

tire a vivere in un posto così: non ci vuole molta fantasia, ma un po’ di

fantasia è necessaria. E ancora: i sentimenti e gli stati d’animo degli altri si

vedono, ma le cause si indovinano e se c’è una ragione per cui la metafora

della profondità si attaglia così bene alla descrizione della nostra vita di

relazioni è perché ci sembra che ci sia molto da immaginare al di là di ciò

che si mostra. Insomma: se non fossimo capaci di immaginare, la nostra

vita sarebbe singolarmente priva di spessore perché, per quanto possa sem-

brarci paradossale, le dimensioni della possibilità e dell’altrimenti, dell’as-

senza e della finzione appartengono al nostro mondo e sono ingredienti

essenziali della nostra vita reale. Per dirla in breve, una vita umana priva

di immaginazione non è forse possibile – e questo è il primo importante

risultato cui sembra condurci la nostra rivisitazione dell’esperimento men-

tale di Condillac.

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Un risultato prevedibile, non c’è dubbio, ma che non deve essere frain-

teso, quasi che di qui si possa trarre la conclusione che l’immaginazione

sia un ingrediente necessario, qualcosa che doveva esserci e che non poteva

mancare nel kit di costruzione di una statua qualsiasi. In fondo, non c’è

fatto che non si ammanti della luce della necessità quando lo si coglie come

condizione cui è vincolato il nostro presente. Doveva necessariamente ac-

cadere un’infinità di eventi maiuscoli e di vicende insignificanti perché ac-

cadesse un fatto da cui ci sembra impossibile prescindere – la nostra na-

scita, per esempio; così accade anche dell’immaginazione: ci sembra ne-

cessaria solo perché appartiene ad un quadro che non possiamo cambiare,

poiché ne facciamo parte.

Forse una creatura senza immaginazione non avrebbe più per noi il ca-

rattere dell’umanità, ma questo ancora non significa che nel cammino mol-

teplice e vario dell’evoluzione non siano sorte forme di vita prive di questa

facoltà e le libere considerazioni che abbiamo appena svolto non ci auto-

rizzano affatto a pensare che non vi siano altri strumenti e altre forme che

l’evoluzione delle specie ha selezionato per soddisfare in altro modo i bi-

sogni che la vita pone. L’immaginazione è una facoltà tra le altre e se noi

uomini possiamo avvalercene è ragionevole attendersi che vi siano motivi

di ordine biologico ed evolutivo che hanno fatto sì che animali come gli

uomini fossero capaci di affiancare allo scenario percettivo gli scenari della

fantasia. Siamo fatti così – questo è il punto, ma prenderne atto significa

insieme rendersi conto che avremmo potuto essere diversi e che la nostra

capacità di immaginare è una forma, biologicamente utile, per far fronte ad

un insieme di esigenze vitali cui tuttavia sarebbe stato possibile rispondere

diversamente. Le formiche e le api o i vermi – diceva Aristotele – non im-

maginano affatto e se accettiamo di farci guidare almeno qui dall’autorità

dell’ipse dixit, dobbiamo riconoscere che se la cavano egregiamente lo

stesso: su questo pianeta le formiche ci sono da almeno 140 milioni di anni

ed è molto probabile che continueranno ad esserci anche dopo di noi. È

andata così: gli uomini si sono adattati alle condizioni ambientali giocando

la carta della coscienza. La selezione naturale ha premiato, nel nostro caso,

la consapevolezza e la progettualità, e così siamo diventati soggetti consa-

pevoli, capaci di ricordare, di immaginare, di pensare, di preoccuparci per

il futuro e di imparare gli uni dagli altri e dalle circostanze della vita. La

consapevolezza e la razionalità sono diventate i nostri migliori artigli, ma

è opportuno rammentare che da un punto di vista evolutivo non è affatto

detto che questa sia la strategia vincente o che sia da ogni punto di vista la

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migliore: è solo la via che ha condotto sino a noi. Noi, tuttavia, non siamo

affatto il frutto maturo dell’evoluzione (un’espressione, questa, alla lettera

priva di senso) e non è improbabile che se mai in un futuro lontano un

abitante di un qualche lontano pianeta scenderà sulla nostra Terra, ad ac-

coglierlo non troverà le fanfare degli uomini, ma il tramestio sommesso

delle formiche.

Di qui la conclusione che possiamo trarre: forse una vita propriamente

umana che sia priva dell’immaginazione non è pensabile, ma ciò non toglie

che sia in fondo soltanto un caso che l’uomo abbia la capacità di immagi-

nare, proprio come è un caso che i gatti abbiano le vibrisse o che le vipere

siano velenose. È andata così, ma avrebbe potuto andare diversamente e se

ci disponiamo sul terreno di una riflessione naturalisticamente atteggiata

dobbiamo semplicemente riconoscere che l’immaginazione è un fatto, tra

gli altri.

Vi è tuttavia una seconda ragione che ci invita a guardare con sospetto

alle riflessioni che abbiamo proposto. Condillac ci invita a un gioco che

solo apparentemente ha un senso preciso: ci invita a pensare che si possa

aggiungere ad una statua ora l’olfatto, ora il tatto, ora la percezione visiva,

ma non sembra rendersi conto che “sentire”, “annusare” o “vedere” sono

verbi equivoci che significano una cosa per noi uomini, un’altra per le rane,

per le mosche o per i pesci. E non si tratta di differenze soltanto quantita-

tive: si tratta di differenze ben più rilevanti che ci costringono a constatare

che vi sono molti e diversi modi di trarre informazioni dall’ambiente che

ci circonda. Un discorso analogo vale anche per l’immaginazione: non è

tanto la relativa vaghezza di questo termine a rendere poco chiare le analisi

che abbiamo proposto, quanto la constatazione che l’immaginazione, come

ogni altra facoltà, ha una sua storia evolutiva ed esiste in forme diverse e

per gradi – per così dire. Così, se volessimo davvero descrivere il processo

che consente alla nostra statua di immaginare come noi immaginiamo, do-

vremmo percorrere un cammino intricato e tutt’altro che lineare: il cam-

mino che ha reso la mente capace di fare molte e diverse cose, in una forma

determinata.

Narrare questa storia, i cui contorni sono ancora in gran parte oscuri, è

un compito che mi supera e in cui non intendo affatto avventurarmi, ma se

fosse lecito imparare qualcosa dagli schizzi di una di biologia immaginaria

si potrebbe osservare che una prima radice dell’immaginazione ci ricon-

duce probabilmente alla struttura delle rappresentazioni e dei processi

mentali che scandiscono il nostro percepire e riconoscere gli oggetti. Sul

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tavolo vi è un libro e io lo vedo e lo colgo per quello che è – lo vedo come

un libro, appunto; perché ciò accada, tuttavia, è necessario che il materiale

sensibile sia in qualche modo elaborato e computato a livello cerebrale. In

un senso relativamente ovvio, non si vede affatto con gli occhi, ma con il

cervello perché è solo a livello cerebrale che i dati sensibili vengono com-

putati e trasformati in rappresentazioni mentali che ci parlano del mondo

esterno. Le molte immagini che si formano sulla retina non sono ancora

ciò che vediamo, ma solo informazioni che devono essere in vario modo

analizzate perché sia possibile creare una mappa del mondo circostante che

ci dica che là dove si disegnano discontinuità cromatiche vi sono oggetti

che si stagliano su uno sfondo o che il modificarsi secondo una regola di

queste aree cromatiche corrisponde ad una diversa relazione spaziale con

un determinato oggetto che, a sua volta, riconosciamo perché corrisponde

a un modello che abbiamo archiviato nella memoria. Per vedere un libro

sul tavolo dobbiamo dunque innanzitutto poterci formare rappresentazioni

mentali che ci consentano di raccogliere le informazioni in un “linguaggio”

che le renda apprezzabili nel loro contenuto di senso e che ci consenta da

un lato di attribuire ai dati sensibili il valore di una descrizione obiettiva e

dall’altro di ricondurre le rappresentazioni che hanno un oggetto per con-

tenuto ai pattern che abbiamo memorizzato e che ci consentono di ricono-

scere ciò che abbiamo davanti agli occhi. Se così stanno le cose, tuttavia,

non è sufficiente che i dati sensibili vengano raccolti in rappresentazioni

mentali: è anche necessario che su queste rappresentazioni si possa operare

in vario modo e che sia, per esempio, possibile “ruotarle” mentalmente, per

riconoscere che ciò che vediamo camminando sono gli stessi oggetti che

vedevamo poc’anzi, anche se colti da una prospettiva lievemente mutata.

Vedere significa dunque tutto questo: significa mettere in gioco rappre-

sentazioni e processi mentali che delineano una mappa del mondo che ci

consente di orientarci rispetto alle cose e insieme anche di disporre degli

strumenti necessari per mantenere la presa sul mondo quando ci muoviamo

o per sapere che cosa puoi vedere tu di quello che vedo ora io. Le informa-

zioni sensibili debbono essere dunque codificate e interpretate, e vi sono

rilevanti evidenze sperimentali – e su questo tema sono soprattutto i lavori

di Kosslyn che debbono essere rammentati – che il nostro cervello trascriva

le informazioni che riceve dai sensi in un formato prevalentemente pitto-

rico e non proposizionale: ci formiamo immagini delle cose e operiamo

con queste immagini in vario modo. Di qui sembra possibile muovere per

una formulare una prima ipotesi: è sufficiente che le rappresentazioni e i

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processi mentali che sono implicati nelle operazioni percettive divengano

liberamente disponibili per la mente perché sia possibile indicare da un lato

l’origine della nostra abilità nel visualizzare ciò che è assente e, dall’altro,

per comprendere che cosa potrebbe sorreggerci nella prassi immaginativa.

Per immaginare sono necessari schemi mentali – questo è il punto. Gli

schemi mentali sono necessari per ogni procedura immaginativa perché si

può delineare ciò che è soltanto possibile solo se ci si lascia guidare da un

insieme di mappe che ci consentono di fare del noto una guida per adden-

trarci nell’orizzonte incerto di ciò che non è accaduto. Un bambino afferra

un ramo e inscena un duello: sa che cos’è una spada e nel gioco può la-

sciarsi guidare da un’analogia che non deve per questo assumere la forma

di un ragionamento esplicito. Nel gioco il ramo diventa una spada, ma lo

diventa solo perché le spade hanno una forma che il bambino conosce bene

e che consente una proiezione analogica su un oggetto che in qualche mi-

sura somigli loro: un’estremità del ramo sarà l’elsa, un’altra sarà la punta,

e basterà agitare quel pezzo di legno perché nel gioco si insceni un duello.

Giocare, a sua volta, non significa soltanto usare un ramo come una spada,

ma vuol dire anche imparare a cimentarsi in un duello – ed imparare a farlo

senza correre il rischio di farsi del male. Possiamo cogliere in un ramo una

spada solo perché ne possediamo lo schema mentale, ma possiamo com-

prendere meglio che cosa significhi tirare di scherma agitando un ramo che

non può ferirci e che può essere brandito senza abbandonare lo spazio si-

curo del gioco.

Una seconda radice dell’immaginazione ci riconduce probabilmente al

terreno dei processi che accompagnano le forme varie del comportamento

motorio. Per poter agire è necessario fare affidamento su una mappatura

delle conseguenze dei nostri movimenti e di fatto le nostre azioni sono ac-

compagnate, sia pure inconsapevolmente, da modelli che simulano i nostri

movimenti, prevedendone l’esito. Forse è di qui che è sorta la nostra capa-

cità di rappresentarci le nostre azioni e di saperle imitare – una capacità

che è all’origine di molte forme in cui si esercita l’immaginazione umana,

ma che è all’opera anche nel mondo animale: due cani che si inseguono

per gioco sanno imitare la fuga e l’aggressione, la resa e la sfida, e sanno

farlo nello spazio sospeso del gioco. Certo, quando parliamo del gioco ne-

gli animali non possiamo semplicemente pensarlo nel calco delle forme

umane che danno un significato immediato a questo concetto. Che un cane

cerchi l’attenzione del padrone e la richieda talora imitando i gesti dell’ag-

gressione e della fuga è difficile non vederlo, ma non appena si cerca di

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descrivere a parole ciò che si osserva si ha l’impressione che il nostro vo-

cabolario non ci sorregga e che le parole che vorremmo impiegare siano,

per così dire, troppo pesanti ed impegnative e che debbano essere liberate

dalle molte promesse che ad esse si legano. Un cane imita i movimenti

della fuga per farsi inseguire da un compagno di giochi, ma questo impiego

metacomunicativo della mimesi ci consente davvero di dire che stiamo as-

sistendo ad una recita consapevole che un attore a quattro zampe mette in

scena per dire quel che desidera? Si dice che scimpanzé cresciuti a stretto

contatto con l’uomo mostrino forme di gioco simbolico: cullano bambole

di pezza e fingono di nutrirle, ma si tratta davvero di una dimostrazione del

fatto che uno scimpanzé gioca come un bambino? Non vi è dubbio che si

tratti di questioni empiriche molto complesse e sarebbe semplicemente un

errore pensare che il filosofo possa venirne a capo con un tratto di penna,

ma sottolineare queste differenze non può impedirci di cogliere che l’im-

maginazione ha una storia che almeno in parte si radica in un insieme di

abilità che sono sorte per caso e che sono state in parte selezionate per altri

fini. Se possiamo giocare e recitare e fingere è anche perché, per tutt’altre

ragioni, era opportuno che il nostro cervello sapesse affiancare alle nostre

azioni una simulazione dei nostri movimenti.

Una terza radice potrebbe infine ricondurci agli studi sulla creatività che

in diverse occasioni hanno sottolineato che il pensiero creativo si radica

almeno in parte nella storia evolutiva del nostro cervello e nella progressiva

espansione delle aeree corticali frontali e prefrontali. Il cervello non è il

frutto di un progetto unitario, ma si è formato nel tempo, aggiungendo parti

a parti, in un processo che ha consentito di attribuire alle strutture sottocor-

ticali almeno in parte una funzione nuova: le ha coinvolte nella produzione

analogica di soluzioni nuove, libere da un controllo immediato di natura

razionale. La creatività dipenderebbe dunque, almeno in parte, dal dialogo

continuo tra le strutture sottocorticali, cui è affidato il compito di produrre

liberamente variazioni, e la corteccia frontale, che le vaglierebbe e le sele-

zionerebbe. Come in una città antica, il sorgere di periferie ordinate attri-

buisce all’intreccio disordinato di strade del centro una funzione ed un fa-

scino nuovi, così l’immaginazione creativa sarebbe il frutto di un sovrap-

porsi di parti a parti, di un riutilizzo sapiente, ma casuale di funzioni diffe-

renti, per crearne una nuova e utile.

Certo, da questo breve saggio di biologia immaginaria vi è poco da im-

parare –questo è ovvio; e tuttavia, se può avere un senso avventurarsi su

questo terreno è solo perché provare a riflettere su questo tema ci aiuta a

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vedere meglio che se anche le cose non sono andate proprio così, debbono

essere comunque andate in un modo che per sommi capi gli assomiglia:

l’immaginazione è accaduta, così come è accaduto che le foglie diventas-

sero spine e che questa variazione casuale fosse utile alla pianta. Vista di

qui, dalla prospettiva di una possibile genesi evolutiva, l’immaginazione ci

appare come una strategia utile per sopravvivere, ma insieme come un fatto

che avrebbe potuto non accadere o accadere diversamente. Insomma: dob-

biamo trattare l’immaginazione proprio come tratteremmo altre capacità

che ineriscono alla vita animale come l’olfatto o il senso dell’equilibrio –

e ciò significa che dobbiamo chiederci dapprima da quali organi più ele-

mentari abbiano avuto origine le capacità di cui ci interessiamo, per poi

interrogarci sui vantaggi evolutivi che offrono alla specie che li possiede e

che sono probabilmente il motivo che ne ha determinato l’affermazione nel

contesto della selezione naturale. Rammentarlo è importante, ed è questo

l’unico scopo delle considerazioni che abbiamo proposto sin qui.

2. Una diversa prospettiva

In una delle sue osservazioni sulla filosofia della psicologia (Wittgenstein

1949: 192) Wittgenstein si domandava se fosse concepibile un mondo in

cui non fosse concepibile fingere un’emozione, e le considerazioni che ab-

biamo appena proposto potrebbero essere lette proprio così – come una

risposta affermativa a questa domanda. Le cose sono andate così, ed è per

questo che l’immaginazione è diventata in certe specie animali una strate-

gia vincente: è utile saper imitare e fingere certi comportamenti e non solo

per ingannare gli altri, così come è utile disporre il reale sullo sfondo del

possibile o sperimentare nel gioco i comportamenti e le emozioni che ren-

dono complessa la vita reale. L’immaginazione è una facoltà utile, ma non

è per questo necessaria: avremmo potuto farne a meno, proprio come gli

uccelli fanno a meno dei denti o i pesci sopravvivono anche senza gli arti-

gli. Siamo fatti così, ma avremmo potuto essere diversi e sarebbe stato op-

portuno essere privi di immaginazione se la nostra natura fosse stata di-

versa. Per la spiga di grano non sarebbe poi un grande vantaggio immagi-

nare la falce che la reciderà o fingere di essere matura prima del tempo:

l’immaginazione ha un significato biologico solo se sono presupposte

molte altre funzioni vitali e molte altre capacità psicologiche, senza le quali

immaginare qualcosa – se mai fosse possibile – sarebbe comunque del tutto

inutile. È andata così, appunto, ma ciò ora che ci sembra appartenere ne-

cessariamente alla nostra vita è di fatto solo un caso che si intreccia con

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un’infinità di altri casi, per formare un nodo che non ci sembra possibile

sciogliere solo perché sono i suoi lacci che tengono insieme la nostra vita.

Se dunque ci disponiamo in una prospettiva di stampo naturalistico, alla

domanda di Wittgenstein si può rispondere affermativamente senza troppe

esitazioni, additando quel tempo futuro in cui noi non ci saremo più, ma ci

saranno ancora le formiche.

Se ci disponiamo in una prospettiva naturalistica – questo è il punto. Ora,

non vi è dubbio che questa prospettiva di analisi sia del tutto legittima e

che sia anzi la sola che ci consente di rendere conto della natura fattuale di

questa facoltà così mutevole e varia. Che cosa sia l’immaginazione lo può

scoprire soltanto l’indagine empirica e naturalistica, ma questo non vuol

dire che non abbia un senso cercare di far luce descrittivamente sul signi-

ficato che a questa parola attribuiamo quando ci disponiamo all’interno

della nostra cultura e della nostra forma umana di vita. L’immaginazione

non è soltanto un fatto tra gli altri, ma è anche il titolo generale sotto cui

raccogliere una molteplicità di forme che appartengono all’universo del

nostro linguaggio e che disegnano l’orizzonte di senso entro il quale si di-

spiega la nostra esperienza e le forme del nostro comprendere.

Credo che vi siano due differenti ordini di considerazioni che ci spingono

a dir così. Il primo è il più ovvio e ci invita a rammentare che nella dimen-

sione biologica si innesta la dimensione culturale e che ciò che chiamiamo

immaginazione si trova comunque al di sopra del punto di innesto e si de-

termina nel suo senso anche a partire di qui – dalla trama articolata delle

nostre forme di vita. Certo, la dimensione culturale ha un fondamento na-

turale ed è senz’altro giusto, oltre che ovvio, riconoscere che siamo fatti

così per ragioni biologiche, ma il modo in cui siamo fatti non pronuncia

l’ultima parola sul senso che dobbiamo attribuire alla dimensione culturale

e umana della nostra prassi. Camminiamo perché abbiamo le gambe e per-

ché tre milioni di anni fa in una certa specie di australopitechi l’arco plan-

tare si è modificato, consentendo a quei nostri lontani progenitori un’anda-

tura eretta – probabilmente le cose sono andate proprio così, ma per cercare

di far luce sul significato che hanno espressioni come “passeggiare”, “mar-

ciare” o “girovagare” è necessario chiamare in causa qualcosa di diverso

dalla nostra storia biologico-evolutiva – è necessario descrivere un insieme

di regole e comportamenti che caratterizzano la prassi e la forma di vita

dell’uomo, anche se questo non vuol dire che queste forme non affondino

a loro volta le radici in fatti biologicamente rilevanti.

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Lo stesso accade per l’immaginazione: anche l’immaginazione è una fa-

coltà che ha radici biologiche che è importante mettere in luce, ma noi ce

ne avvaliamo in forme e contesti diversi che le danno un significato nuovo

che si manifesta nei molteplici modi in cui ne parliamo. Vi è una capacità

che ha un suo fondamento nella natura del nostro cervello: sappiamo farci

immagini di ciò che è assente e sappiamo simulare le nostre e le altrui espe-

rienze senza per questo farle diventare realmente operative nella nostra

vita. Sappiamo metterci nei panni degli altri e rivivere “offline” le loro cre-

denze e i loro desideri. Rammentare queste facoltà e la loro origine naturale

tuttavia non basta se si vuol dire quale senso e quale forma abbiano i de-

corsi immaginativi nella nostra esperienza: non basta, perché l’immagina-

zione non è solo un corredo della nostra vita animale, ma è anche il luogo

in cui si manifestano le regole e le forme della nostra cultura. Noi uomini

siamo animali che raccontano e il narrare ha senz’altro una funzione bio-

logica, ma sarebbe un inutile (e pericoloso) eccesso di zelo chiedersi se la

Divina commedia è biologicamente utile o dannosa, perché anche se lo

fosse non ci direbbe poi molto sulla natura di quel testo. Pretendere di vin-

colare ciò che l’immaginazione è diventata a ciò che l’immaginazione è

nel suo fondamento biologico significa immiserirla nel suo senso.

Vi è tuttavia una seconda ragione che ci invita a considerare che dell’im-

maginazione non si deve parlare soltanto da un punto di vista biologico: se

ci disponiamo all’interno della prospettiva che caratterizza la nostra forma

di vita e se non ci pensiamo per un attimo come una parte tra le altre del

mondo (cosa che comunque di fatto siamo), ma come il luogo a partire dal

quale il mondo si manifesta, dobbiamo riconoscere che la percezione, il

pensiero e, in generale, le forme della nostra esperienza sono il linguaggio

entro cui si disegna la realtà così come la conosciamo e la viviamo. In que-

sta prospettiva l’immaginazione non è qualcosa di cui parliamo e che ci

raffiguriamo, ma è uno strumento del raffigurare, un mezzo che ci consente

di dire molte cose: non appartiene dunque ai contenuti, ma alle forme at-

traverso le quali abbiamo un’esperienza del mondo. In questa prospettiva,

insomma, l’immaginazione è il titolo generale sotto cui raccogliamo una

famiglia ampia di significati e, insieme, una molteplicità di possibili fun-

zioni di senso.

Ci troviamo così nel cuor di un apparente paradosso. Siamo il frutto di

un processo evolutivo complesso, ma questo stesso processo ci consente di

accedere ad un sistema di ragioni e di significati in virtù dei quali il mondo

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è presente per noi come un titolo ampio di problemi che abbraccia eviden-

temente anche il nostro essere consapevoli che siamo il frutto di una evo-

luzione complessa che ci ha casualmente condotti ad avere un cervello fatto

così, che reagisce in modo determinato alle sollecitazioni che riceve. Siamo

questo fatto, ma il fatto che siamo ha reso possibile una dimensione nuova:

la dimensione che ci consente di comprendere e di conoscere molte cose e

tra queste molte cose circa l’operare del nostro cervello. Ci troviamo così

nelle maglie di un paradosso tutt’altro che nuovo: c’è un senso in cui la

nostra mente è un fatto tra gli altri – un fatto di cui si deve rendere conto,

sottolineando che le cose avrebbero potuto essere altrimenti, ma vi è un

diverso senso che ci costringe a riconoscere che non è affatto possibile ri-

condurre le forme del ragionamento e l’universo dei significati entro cui si

costituisce per noi l’immagine del nostro mondo ad un fatto tra gli altri, ad

una parte di quello stesso mondo che avrebbe potuto essere diversa.

Non è un paradosso nuovo, ma questo non significa che sia infondato o

che, per tentare di scioglierlo, ci si debba avventurare sul terreno malcerto

dell’io puro e dell’io empirico. Ci si può fermare prima di questi esiti così

incerti perché per sciogliere il nodo cui abbiamo alluso è sufficiente rico-

noscere che anche se la nostra esperienza è un accadimento tra gli altri che

in larga misura dipende dal nostro essere un fatto tra gli altri, ciò nonostante

assume una funzione diversa quando la consideriamo come lo spazio entro

il quale si costituisce per noi questo nostro mondo. In sé, il metro campione

custodito a Parigi è un pezzo di platino lungo all’incirca un metro: è un

oggetto che può essere misurato e che ha certe proprietà – tra queste una

certa limitata variabilità della sua lunghezza obiettiva, dovuta alla tempe-

ratura, per esempio. Se l’assumiamo invece come paradigma cui ancorare

la possibilità stessa del misurare, allora non potremo più dire che è lungo

un metro perché quell’oggetto smette di essere qualcosa di cui la misura-

zione ci parla e diviene un mezzo del misurare, uno strumento che ne rac-

chiude la regola e ne fissa le condizioni di possibilità. Lo stesso accade

all’immaginazione che è certo una capacità reale del nostro cervello e

quindi in questo senso un fatto tra gli altri, ma è anche una forma che ap-

partiene alla grammatica della nostra esperienza e che, come tale, rende

possibili e sensati una molteplicità di giochi linguistici.

Queste considerazioni mi sembrano evidenti in se stesse, eppure sem-

brano costringerci a sostenere che qualcosa – la nostra mente – sia un fatto,

ma non possa essere considerata così, come un fatto. Ora, che non sia pos-

sibile vincolare lo spazio logico delle ragioni allo spazio delle cause è una

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constatazione da cui non mi sembra possibile sottrarsi. Che il nostro cer-

vello sia il frutto casuale di un’evoluzione biologica che l’ha condotto a

operare così e così è una tesi di una teoria logicamente strutturata che ab-

biamo ragione di ritenere vera, ma proprio per questo non possiamo vinco-

lare il rigore logico, la sensatezza, la plausibilità e l’evidenza di quella teo-

ria al fatto che così ci appare dato che il nostro cervello ha casualmente

questa forma perché altrimenti potrebbe accadere che questa proposizione

– la proposizione che asserisce che l’essere fatto così e così del nostro cer-

vello determina la natura dei nostri ragionamenti e la loro validità – ci ap-

paia prima o poi falsa per ragioni evolutive. Un giorno potrebbe accadere

che questo principio generalissimo ci appaia falso – anzi, per quel che mi

riguarda quel giorno è già giunto; tuttavia se pensiamo, in accordo con il

fraintendimento da cui vorrei liberarmi, che i principi logici siano detti veri

o falsi perché il nostro cervello è fatto in un certo modo, allora dovremmo

riconoscere che potrebbe accadere per ragioni evolutive che debba essere

considerato falso il principio secondo il quale i principi sono veri e credibili

per ragioni evolutive. Il nostro cervello è un fatto ed è un fatto che esso

funzioni così, ma non possiamo far valere questa verità ovvia sul terreno

logico perché ciò significa dimenticare la funzione nuova cui assolvono su

questo terreno le sue operazioni, proprio come non sarebbe legittimo dire

del metro campione di Parigi che è lungo all’incirca un metro, anche se è

semplicemente vero che quella barra di platino è proprio lunga così.

Ora, quello che vale per la logica, vale anche per le forme che caratteriz-

zano le procedure immaginative di cui ci avvaliamo: per raccontare una

favola e per comprenderla dobbiamo essere in grado di fare molte cose, ma

se gli uomini non avessero queste capacità verrebbe meno la presenza delle

finzioni narrative nel nostro mondo e nella nostra cultura, non la loro pos-

sibilità ideale e nemmeno la loro natura. Insomma: immaginiamo perché

siamo fatti così e il nostro avere proprio queste e non altre capacità intel-

lettuali è un fatto tra gli altri, ma questo non significa ancora che l’imma-

ginazione – nel suo porsi come una possibilità che appartiene all’universo

della sensatezza – possa essere considerata semplicemente un fatto tra gli

altri. Ragioniamo e immaginiamo e ricordiamo perché la ragione, la me-

moria e l’immaginazione sono strumenti utili per la sopravvivenza, ma non

possiamo per questo sostenere che ragione, memoria e immaginazione

siano soltanto forme del nostro adattamento biologico: sono anche i titoli

generali sotto cui raccogliere una molteplicità di contenuti che debbono

essere analizzati nel loro senso e nella loro forma.

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Di qui la prospettiva metodologica che caratterizza queste pagine. Non

intendo muovermi sul terreno generale di una filosofia della mente – questo

concetto che mi sembra in fondo ambiguo e come sospeso tra due prospet-

tive legittime – ma vorrei cercare invece di far luce da un punto di vista

descrittivo sulla natura degli oggetti che cerchiamo di immaginare e di cui

abbiamo esperienza. Non ci immergeremo dunque, d’ora in poi, in una ri-

flessione sul fatto, così rilevante dal punto di vista naturalistico, che l’uomo

è un animale che sa immaginare, ma cercheremo invece di descrivere qual

è la natura dei differenti prodotti immaginativi che appartengono all’uni-

verso sensato della nostra vitae come sono strutturate le molte cose che

immaginiamo. Il nostro obiettivo è questo anche se, per cercare di raggiun-

gerlo, non potremo non parlare degli atti immaginativi entro cui soltanto

prendono forma per noi gli oggetti dell’immaginazione.

Se ci poniamo in questa prospettiva teorica, la domanda di Wittgenstein

cui avevamo precedentemente alluso assume evidentemente un altro signi-

ficato. Ci invita a chiederci se non appartiene alla logica dell’espressione

delle emozioni la possibilità di simularle, ed una simile domanda ci invita

a pensare che l’immaginazione non è soltanto un fatto, come gli artigli e le

vibrisse, ma è anche il titolo generale sotto cui raccogliere una molteplicità

di possibilità ideali. I fatti ci sono e accadono, ma basta fare anche soltanto

un passo nello spazio logico delle ragioni perché certe mosse ci appaiano

nel loro essere idealmente possibili. Posso raccontare un fatto che è acca-

duto realmente, ma posso anche narrare una favola: è una possibilità ideale

le cui condizioni sono poste insieme al gioco linguistico che ci consente di

rendere conto di ciò che è accaduto. È una possibilità ideale che gli oggetti

nello spazio ludico siano caratterizzati dalle proprietà che vengono decise

nel gioco: nulla ci vieta di fare come se un ramo fosse una spada o uno

strofinaccio da cucina un manto regalo. Possiamo farlo, così come pos-

siamo immaginare un diverso corso degli eventi passati e futuri. Si tratta

di possibilità ideali che appartengono alla dimensione logica – quella di-

mensione entro la quale ci disponiamo non appena accettiamo di disporci

sul terreno di certi giochi linguistici2.

Sul senso di queste considerazioni è opportuno insistere un poco e per

farlo vorrei dispormi per un attimo sul terreno – vedi il caso! – di una fin-

zione. Immaginiamo che vi sia una strana tribù – una di quelle tribù che

esistono solo nei libri di filosofia e che chiameremo per comodità la tribù

2 Su questo punto si veda Lorenzen 1969.

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degli assertivi – che parli e viva come noi, ma che non conosca l’uso della

negazione e che si limiti per questo a fare sempre e solo affermazioni in

positivo, descrivendo le cose così come stanno e mai come non sono. Gli

assertivi possono dunque affermare un’infinità di cose e non è difficile ren-

dersi conto che alcune delle proposizioni che possono enunciare avranno

in un determinato contesto il significato pragmatico di una negazione: così,

se immaginiamo di chiedere ad un assertivo se ho lasciato la mia penna sul

tavolo risponderà, se la penna non c’è, dicendo che vi è un libro ed un

foglio, per starsene poi beatamente in silenzio.

Non so dire quali e quante siano le limitazioni cui agli assertivi andreb-

bero incontro e non so nemmeno sin dove questo strano gioco possa essere

davvero perseguito, ma una cosa mi sembra ovvia: la negazione come

forma logica non sarebbe toccata nella sua natura e nel suo status teorico

dai vezzi di questi strani parlanti. Tutt’altro: la negazione resterebbe quello

che è – una possibilità ideale che non ha bisogno di qualcuno che se ne

avvalga per avere comunque un suo senso. Uno stesso discorso vale per le

forme dell’immaginazione. Io non so se esista una forma di cultura che non

conosca la dimensione del racconto e che non abbia esplorato le possibilità

che la finzione narrativa comporta, ma anche se (come credo) fosse possi-

bile affermare che ogni cultura umana conosce i rudimenti dell’arte del

narrare, ciò non toglie che potremmo a nostra volta immaginare che in una

qualche sperduta valle alpina vi sia una qualche tribù – la tribù delle verità

effettuali – che non conosca il fascino dell’inventare storie e del raccon-

tarle. Possiamo assumere in linea ipotetica che così stiamo le cose, ma que-

sto non ci permetterebbe ancora di negare che il terreno della finzione è e

resta una possibilità ideale anche per gli adepti di questa strana tribù, – una

possibilità inesplorata, forse, ma non per questo meno percorribile.

Ma che dire se improvvisamente – per un qualche strano accidente – di-

ventassimo tutti incapaci di raccontare storie o di fingere che le cose stiano

in un determinato modo nel gioco? Non dovremmo semplicemente soste-

nere che quelle possibilità ideali hanno smesso di essere tali? Certo, do-

vremmo riconoscerlo, ed è importante farlo perché ci consente di mettere

da canto un fraintendimento possibile. Il narrare è una possibilità ideale –

ci siamo espressi così, ma questo modo di esprimersi sembra gettare

un’ombra platonica sulla natura dei nostri discorsi, quasi che abbia un

senso pensare che vi sia un cielo sopra il cielo dove le possibilità ideali

attendono qualcuno che le pensi e che le viva e quasi che le molteplici

forme di senso che si legano a ciò che chiamiamo immaginazione siano

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state da sempre ad aspettarci nella loro intatta natura di forme, prive di

qualsiasi legame con la dimensione quotidiana del nostro vivere. Non è

questo che penso. Se non fossero accadute molte cose, se nella nostra spe-

cie l’evoluzione non avesse preso proprio questa piega dei racconti non vi

sarebbe traccia, e non vi è dubbio che per comprendere il senso della prassi

narrativa è necessario proprio rammentare quello che siamo di fatto. Se i

racconti fossero possibilità ideali di un cielo iperuranio non ci interesse-

rebbero affatto. Dire tuttavia che sono possibilità ideali non significa que-

sto: vuol dire solo rammentare che se ci poniamo in quell’universo di senso

che di fatto è divenuto accessibile per noi, non possiamo più pensare che

si tratti di accidentalità, di meri eventi, così come non possiamo pensare

che la proprietà commutativa sia qualcosa che ha davvero a che fare con il

fatto che sul finire del cretaceo i primati abbiano cominciato a divergere

evolutivamente dagli altri mammiferi. Dire così non significa affermare

che la grammatica logica dell’addizione ci aspettasse impaziente nel cielo

delle idee e non significa nemmeno negare che la matematica sia sorta

dall’operare concreto con gli oggetti del nostro mondo e che sia sorta così

perché questo è il nostro mondo e questa la nostra vita: significa solo ram-

mentare che quel che di fatto è sorto non per questo ha necessariamente un

significato fattuale e non può quindi esser compreso costringendolo nello

spazio che compete a ciò che è soltanto un accadimento.

Se ci poniamo in questa prospettiva possiamo ripetere, attribuendole un

senso nuovo, una considerazione che avevamo proposto: un fatto ci sembra

necessario quando i suoi lacci formano il nodo che tiene insieme la nostra

vita. Certo, non posso immaginarmi privo di immaginazione, ma in questa

arguzia a buon mercato è tuttavia possibile scorgere un senso nuovo: è an-

data così, siamo animali che sanno immaginare, ma questo fatto (che

avrebbe potuto non accadere) ha assunto una funzione nuova: è divenuto

parte del dispositivo che ci consente di farci un’idea dei fatti. Non c’è nulla

di necessario in quello che siamo, ma quello che siamo assume una fun-

zione nuova non appena rammentiamo che è di qui che il mondo e noi

stessi diveniamo parte del discorso che li comprende. Così, prendere le di-

stanze dal tentativo di ricondurre l’immaginazione e i suoi prodotti alla

dimensione psicologico-fattuale del nostro esserci non vuol dire per questo

negare che la prospettiva che abbiamo sui nostri giochi linguistici sia co-

munque vincolata al nostro essere proprio così – come siamo. Tutt’altro:

la nostra presa sulla dimensione del senso è determinata dalla nostra natura

e dalla nostra vita. Tutto comincia da qui:

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Non devi dimenticare che il gioco linguistico è, per così dire, qualcosa di impreve-

dibile. Voglio dire: non è fondato, non è ragionevole (o irragionevole). Sta lì – come

la nostra vita (Wittgenstein 1980, § 559).

Muoviamo di qui, dal mondo che è accessibile per noi. Comprenderlo si-

gnifica coglierlo come l’orizzonte entro cui siamo e viviamo, senza per

questo costringerci a confondere le ragioni con i fatti.

3. Uno sguardo in avanti

Parleremo dunque dell’immaginazione, e ne parleremo come di una forma

che appartiene alla dimensione umana della sensatezza. Cercheremo dap-

prima di far luce sulle diverse forme dell’immaginazione, distinguendone

il senso che hanno acquisito per noi, al di là della loro eventuale comune

origine fattuale. Ci troveremo così a privilegiare le distinzioni, al di là delle

ragioni che condurrebbero a vedere le linee di una genesi.

L’obiettivo di queste pagine, tuttavia, non consiste soltanto nel tracciare

qualche distinzione che ritengo importante per definire le differenti forme

dell’immaginazione. Vi è un altro obiettivo verso cui mirano: vorrebbero

cercare di far luce sulla presenza dell’immaginazione nella nostra vita quo-

tidiana. Il mondo così come lo esperiamo non è soltanto un mondo perce-

pito: è anche un mondo in cui ciò che è presente è vissuto sullo sfondo di

ciò che è soltanto possibile ed in cui anche il passato assume un senso sullo

sfondo di ciò che avrebbe potuto altrimenti accadere. La dimensione di ciò

che è reale acquista un senso per noi proprio perché si pone sullo sfondo

del possibile che è sempre in qualche modo tacitamente presente, ma che

talvolta ci si dà come un ingrediente proprio della nostra esperienza. Basta

che il più piccolo degli incidenti si faccia avanti – la piccola spina che non

riuscite a levarvi dal dito – perché si facciano avanti le mille regole della

prudenza che avete infranto e che ora siete costretti a richiamare alla mente,

tracciando – accanto al corso reale degli eventi – la trama fragile delle pos-

sibilità, che illustrano che cosa avrebbe potuto accadere se avessimo indos-

sato dei guanti da lavoro, se avessimo fatto attenzione, o se avessimo la-

sciato fare ad altri un lavoro per cui non siamo tagliati. Ciò che accade ci

si dà come una coperta sottile che copre ciò che resta sottile – lo copre

senza cancellarlo e vi sono molti punti in cui la tela si smaglia e le possi-

bilità diventano un ingrediente avvertibile della nostra esperienza. Il rim-

pianto di un gesto avventato ci costringe a immaginare un altrimenti pos-

sibile, e lo stesso accade quando ci troviamo di fronte ad una scelta, a un

divieto, a un dubbio che non si scioglie e a mille altre occasioni in cui le

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maglie del reale si fanno tanto larghe da fare emergere lo sfondo di ciò che

è o era possibile.

Il mondo così come lo esperiamo non è solo un mondo percepito: è anche

un mondo immaginato, in vario modo e non è possibile tacitare l’immagi-

nazione senza per questo alterare in profondità il senso di ciò di cui ab-

biamo esperienza. Si tratta di un’affermazione che è, io credo, in larga mi-

sura ovvia, ma anche in questo caso, è necessario mettere canto un frain-

tendimento possibile. La tesi che l’immaginazione sia necessariamente

coinvolta nel processo percettivo e faccia quindi parte del contenuto im-

mediato della nostra percezione risale almeno a Hume che nelle pagine del

Trattato sulla natura umana ci invita a pensare all’immaginazione come

ad una facoltà supplente: la percezione ha lacune che debbono essere in

vario modo sanate e l’immaginazione è la materia sottile che pervade la

fibra discontinua del percepire. Possiamo riconoscere la legna che ave-

vamo lasciato nel camino nella cenere che ora vediamo solo perché l’im-

maginazione suggerisce le immagini di un decorso cui non abbiamo assi-

stito ed è ancora l’immaginazione che supplisce le percezioni mancanti e

che ci consente di attribuire un’esistenza continuata e indipendente ai fogli,

ai libri e al tavolo che solo saltuariamente imprimono nell’animo le sensa-

zioni corrispondenti. Ora, è difficile dire se per queste vecchie tesi

humeane non sia possibile in altra forma un’eco nel presente – ma non è

questo il punto. Dal modello humeano dobbiamo comunque tenerci disco-

sti perché ciò che vogliamo discutere non concerne la dinamica esplicativa

di fenomeni che restano, nel loro senso, percettivi: ci interessa invece sot-

tolineare che vi sono esperienze in cui la trama del mondo percepito e reale

si arricchisce di elementi che rimandano nel loro senso più proprio all’im-

maginazione nelle sue molteplici e differenti forme. Dire che l’immagina-

zione è un ingrediente del mondo della vita vuol dire sostenere che nel

mondo che esperiamo vi sono aspetti che non si dispongono affatto sulla

dimensione del reale, per quanto stretto sia il legame che li stringe alla

realtà delle cose di cui abbiamo esperienza.

Come abbiamo osservato, queste esperienze concernono in qualche mi-

sura la dimensione del possibile: sarebbe tuttavia un errore credere che le

cose stiano sempre e soltanto così. L’immaginazione non è soltanto la fa-

coltà del possibile, ma è all’opera anche nella finzione narrativa, nella fin-

zione ludica o, più in generale, nelle valorizzazioni immaginative che per-

vadono la realtà e la determinano nel suo senso. Proprio su quest’ultimo

punto dovremo in seguito soffermarci, perché è proprio qui che è possibile

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scorgere il ruolo che l’immaginazione gioca nel trasformare questo mondo

nel nostro mondo – in un mondo che ci appartiene e cui apparteniamo.

Che cosa intendo dire esattamente con queste considerazioni che sem-

brano ridestare i ricordi di una metafisica che non ha dalla sua nemmeno il

fascino della novità dovremo cercare di chiarirlo in seguito; ora vorrei li-

mitarmi a osservare che il mondo è davvero in qualche misura nostro per

molte e diverse ragioni, ma innanzitutto perché è penetrato – e già sul ter-

reno dell’esperienza quotidiana – dai nostri concetti e dalle reti metaforiche

che li strutturano. Senza voler necessariamente prendere questa espres-

sione alla lettera, noi vediamo montagne e colline, golfi e insenature, laghi

e stagni e fiumi e non c’è oggetto nel mondo che non ci appaia insieme alla

parola che lo determina concettualmente. Dire che il mondo è il nostro

mondo significa dunque, in primo luogo, affermare che calza bene con i

nostri concetti, un po’ come accade con le scarpe che sentiamo davvero

nostre quando cedono un poco e smettono di stringerci in punta. Questo è

vero in generale per ogni oggetto e per ogni evento, ma lo è in modo par-

ticolare per gli artefatti. Il mondo è il nostro mondo, in secondo luogo,

perché molte delle cose che ci circondano hanno origine dalla prassi umana

o sono immediatamente riconducibili ai nostri bisogni: quando ci aggi-

riamo per casa è difficile trovare anche soltanto un oggetto che non sia un

artefatto o che non si trovi dov’è perché in qualche modo ci serve. Il mondo

è il nostro mondo anche per questo. Vi è poi una terza ragione su cui sof-

fermarsi: il modo in cui mappiamo concettualmente il reale non è soltanto

determinato dalla dimensione obiettiva di ciò di cui discorriamo, ma anche

dalla via che abbiamo seguito per articolare la rete dei nostri concetti che

è nostra anche perché rispecchia le inclinazioni, la cultura e la forma di vita

che ci caratterizzano. I concetti sono un Giano bifronte che parla degli og-

getti, ma che non per questo tace della natura di chi se ne avvale. Render-

sene conto significa tra le altre cose rammentare che i concetti ci appaiono

strutturati in una rete di rimandi metaforici che ci consentono di creare

connessioni di vara natura. Così possiamo trovarci ai piedi di una monta-

gna, nel punto in cui fiume sbocca nel mare, nel seno di un golfo, in un

braccio di terra o in un ramo di un fiume o afferrare un fiore per il gambo

o stupirci di avere un tronco come gli alberi. I concetti sono fatti così – si

richiamano gli uni con gli altri e ci consentono di mappare, proiettando su

terreni, nuovi reti già altrimenti predisposte, ma insieme ci parlano di noi,

proprio come un cacciavite non ci dice soltanto che è fatto per serrare le

viti, ma ci mostra nella forma della sua impugnatura come è fatta la mano

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che lo stringe. Che in questo processo la dimensione obiettiva si leghi a

orientamenti culturali storicamente determinati è relativamente ovvio, così

come è in qualche misura evidente che la dimensione analogica che è

all’opera nella mappatura concettuale del nostro mondo non può essere in-

teramente scissa dall’operare dell’immaginazione. In quarto luogo, infine,

il mondo ci si dà come questo nostro mondo perché alla percezione del

mondo si affianca di continuo la sua valorizzazione immaginativa, il fatto

che l’immaginazione scorge nelle cose i semi di una narrazione possibile.

Li scorge, ed è questo il punto su cui dovremo riflettere, là dove l’imporsi

univoco di una concettualizzazione del mondo si impania e ad essa si so-

stituisce il bisogno di una comprensione diversa e collaborativa che non si

ferma a constatare che le cose stanno in un certo mondo, ma ci invita a

operare perché possano apparire secondo una luce determinata. Il mondo è

il nostro mondo perché l’immaginazione cuce gli strappi che si aprono

nella nostra comprensione del mondo, li cuce rispondendo a esigenze di-

verse e molteplici, che danno una risposta particolare ai nostri bisogni.

Dovremo soffermarci a lungo su questo punto e tuttavia il senso di queste

considerazioni può essere colto con facilità. Sappiamo che la natura è sol-

tanto natura, che suoni e colori sono soltanto suoni e colori, ed in un certo

senso questo sapere fa parte della dimensione fenomenologica della nostra

esperienza e non poggia su atteggiamenti culturali o filosofici presupposti.

Lo sappiamo, e tuttavia la nostra esperienza delle cose non si libera mai da

una scenografia consueta che ce la rende vicina, e che si manifesta nel

senso latente che non possiamo non riconoscere nelle cose che esperiamo,

anche se per altri versi siamo inclini a negare che le cose siano come ap-

paiono. Le proprietà che l’immaginazione scopre sono proprietà mirabili,

ed è per questo che il modo della loro socializzazione si discosta con tanta

nettezza da ciò che di consueto accade. Qualche volta per decidere come

stiano le cose è necessario chiedere aiuto agli altri: sentiamo un rumore

flebile e chiediamo ad altri di ascoltare con noi perché vogliamo esser si-

curi di avere udito bene. Nel caso delle proprietà immaginarie il discorso

muta di segno: le fantasie si raccontano ad altri non per controllarne la ve-

ridicità, ma perché si consolidino nell’immaginarle insieme. L’immagina-

zione non cerca testimoni, ma ha bisogno di proseliti.

Di questo aspetto mirabile del mondo vorremmo cercare di dire qualcosa

e insieme indicare le ragioni che legano tutto questo all’immaginazione e

alle sue forme.

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CAPITOLO PRIMO

L’IMMAGINAZIONE E LE SUE FORME

1. L’immaginazione e le immagini mentali

Dobbiamo dunque cercare di orientarci un poco sulle forme dei prodotti

immaginativi e sulla trama di significati che si costituiscono per noi all’in-

terno della nostra vita, e per farlo sembra essere innanzitutto possibile la-

sciarsi guidare dal linguaggio che tra le altre cose veicola ed esprime le

forme del discorso immaginativo.

Dell’immaginazione parliamo in molti modi, e ne parliamo ora per in-

tendere la nostra capacità di visualizzare una scena o un oggetto che non è

semplicemente presente, ora per alludere alla nostra capacità di figurarci il

futuro, ma anche eventi diversi da quelli che si sono realizzati. L’immagi-

nazione è un modo per raffigurarsi il possibile, ma è anche l’energia sottile

che anima il gioco infantile o che è all’opera nella lettura di un racconto –

o almeno: noi usiamo la stessa parola per intendere tutte queste cose. Im-

magino un volto, immagino quello che farò domani, immagino che cosa

avrebbe potuto essere la mia vita se fossi nato in un’altra epoca o in un

altro luogo, immagino che il divano sia una nave travolta dalle onde e im-

magino un ceppo di legno da catasta che protesta quando la pialla di Gep-

petto gli fa il pizzicorino.

Tutte queste cose le immaginiamo, o appunto: diciamo di immaginarle,

ma anche se il linguaggio ci consente di muoverci a nostro agio e se nor-

malmente non sorgono equivoci quando parliamo di immaginazione, sem-

bra in ogni caso legittimo avanzare più di un sospetto sulla possibilità di

fondare una filosofia dell’immaginazione sulla vaghezza dei nostri usi lin-

guistici. Le occasioni che ci consentono di parlare di immaginazione sono

varie e molto diverse le une dalle altre e il nostro avvalerci di una stessa

parola per intendere cose apparentemente diverse non è ancora una garan-

zia del fatto che un nucleo di significato invariante accomuni quei diversi

impieghi. Tutt’altro: in un passo delle Ricerche filosofiche Wittgenstein

osserva che la robustezza di una corda dipende dall’attrito e quindi dalla

forza con cui sono state intrecciate le molte fibre che la compongono e non

dal fatto che vi sia un unico filo che per intero l’attraversi; così stanno le

cose anche per le nostre parole il cui uso risponde spesso ad un intreccio di

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molti e diversi possibili impieghi e non dal fatto che un’unica fibra li leghi

gli uni agli altri.

Di qui il cammino che credo sia opportuno percorrere: se le parole non

garantiscono di per se stesse l’unicità di un concetto che le attraversi da

parte a parte, potrebbe essere tuttavia utile cercare di rendere in primo

luogo evidente dove l’intreccio stringa in unico nodo fibre che hanno una

diversa natura.

Ora, vi sono molte vie per venire a capo di questo intreccio, ma un per-

corso che sembra possibile seguire ci conduce sul terreno delle analisi in-

trospettive: certe volte l’immaginazione sembra coincidere con il pensiero,

altre con il ricordo, altre con le fantasticherie, ma forse per distinguere que-

ste forme le une dalle altre è sufficiente descrivere le immagini mentali che

ci facciamo perché sembra ovvio sostenere da un lato che le immagini men-

tali accompagnino ogni forma di immaginazione e che dall’altro il loro va-

riare possa dirci qualcosa anche delle diverse forme cui alludiamo quando

impieghiamo quel termine. Immagini un volto o lo ricordi? Per rispondere,

prova a descrivere quel che ti sembra di vedere balenare di fonte agli occhi

della mente. Che qualcosa si dia e che io possa descrivere ciò che avverto

è indubbio: per quanto sia breve il tempo in cui riesco a tenerla ferma e

nitida, sono lo stesso egualmente certo che nella mia mente si affacci

un’immagine visiva che ha un contenuto determinato e che posso descri-

vere nelle forme e nei modi in cui descriverei una percezione. Vogliamo

immaginare un volto e quel volto lo “vediamo” davanti a noi, e tuttavia è

sufficiente esprimersi così per rendersi conto che siamo costretti ad apporre

le virgolette al verbo “vedere” e questo non soltanto perché di fatto non

vediamo proprio nulla, ma anche perché è necessario far luce su un insieme

di differenze che l’introspezione ci mostra e che rendono queste immagini

profondamente diverse dalle scene percettive o dalle raffigurazioni nel

senso consueto del termine.

Si tratta di una differenza ben nota di cui si è cercato di rendere conto

dicendo che un’immagine mentale è per sua natura sfocata, che i suoi con-

torni sono più labili e che il suo rendersi disponibile al nostro sguardo è,

per così dire, minacciato dal tempo. Le immagini mentali svaniscono e non

hanno il carattere di un possesso sicuro, di cui si possa disporre a piacere.

Le immagini mentali, tuttavia, non sono soltanto tremule, ma hanno in

sé qualcosa che ci lascia perplessi e ci stupisce perché anche se ci sembra

di vedere il volto che immaginiamo, non sappiamo poi dire esattamente

quali siano i tratti che gli appartengono ed abbiamo anzi l’impressione che

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ad ogni nuova domanda si possa rispondere solo mettendo in questione il

carattere di raffigurazione delle immagini mentali. Un quadro che raffigura

un paesaggio tace molte cose: suscita un’impressione, ma non può appa-

gare sempre il desiderio dei dettagli: vediamo gli alberi, ma non le loro

foglie, scorgiamo figure di cacciatori, ma non i lineamenti dei loro volti, e

così di seguito. Certe cose, tuttavia, un quadro non può non rappresentarle:

se raffigura il cielo, non può non fissarne il colore e se ci mostra delle ro-

vine in primo piano, non può tacere la forma di quelle antiche architetture.

Nel caso delle immagini mentali la situazione è più complessa. Nella nostra

mente l’immagine del volto di una persona nota si apre un varco tra gli altri

pensieri, e noi vediamo quel volto – ma questo significa forse che sa-

premmo davvero dire se in quell’immagine è reso quasi visibile anche il

colore degli occhi o la lunghezza delle ciglia o la piega dei capelli? Le

immagini mentali sono fatte così – sono in sé lacunose e comunque non

tollerano di essere osservate a lungo nello stesso modo in cui è invece pos-

sibile osservare a lungo un oggetto concreto o un quadro che lo raffiguri.

La natura flebile e incerta delle immagini mentali è già di per sé una

buona ragione per dubitare che sia questa la via da seguire per venire a

capo del nostro problema. Basta tuttavia riflettere un poco per rendersi

conto che vi sono altri motivi che rendono questa via difficilmente percor-

ribile. Qualcuno pronuncia un nome e questa parola evoca in me un volto,

ma in certi contesti non avremmo davvero difficoltà a dire che lo immagino

proprio perché lo ricordo bene, e questo modo di esprimersi dovrebbe met-

terci sull’avviso di una difficoltà su cui è necessario riflettere: una stessa

immagine mentale sembra oscillare tra due significati diversi. Alla radice

di questa oscillazione vi è un fatto rilevante: la possibilità di richiamare

alla mente l’aspetto di un volto ha come sua premessa il nostro averlo già

percepito. Tu pronunci un nome e quel nome evoca in me un’immagine –

la evoca solo se conosco quella persona e la ricordo. Ma ciò è quanto dire

che le immagini, in quanto tali, sono immagini rammentate – almeno per

ciò che concerne gli elementi semplici che le compongono.

Riconoscere questa verità elementare, che è all’origine della relazione

che fin dalle prime pagine del Trattato sulla natura umana di Hume lega

le impressioni alle idee, non significa tuttavia sostenere che ogni immagine

mentale sia un ricordo. Tutt’altro: una stessa immagine mentale può appa-

rirci ora come un ricordo, ora come una forma di visualizzazione, ma la

constatazione che una stessa immagine mentale può assumere forme di-

verse non significa sostenere che non sapremmo dire quando abbiamo a

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che fare con lo scenario memorativo e quando invece ci disponiamo sul

terreno di una visualizzazione. Piccole sfumature di contesto possono de-

terminare il senso di ciò che l’immagine dice. Posso discorrere con un

amico degli anni del liceo e ad un tratto può farsi strada nei nostri discorsi

un nome e, insieme ad esso, un volto: ora ci ricordiamo di Pietro, proprio

com’era negli anni del liceo ed in questo caso il fatto che l’immagine men-

tale sia una traccia di una percezione ormai lontana è tutt’altro che irrile-

vante poiché il senso che attribuiamo a quell’immagine è tutto racchiuso

nel suo riproporci quel volto così come un tempo lo abbiamo visto. Un’im-

magine si fa strada nella mente ed esclamiamo: “Pietro! Me lo ricordo

bene” e se diciamo così è perché quel volto ci parla di un passato e ci dice

che così stavano le cose tempo addietro. È tuttavia sufficiente una diversa

scena perché quella stessa immagine assuma un senso nuovo: ora tu

esclami un nome – Pietro – e io mi rendo presente come posso il suo volto,

anche se non lo vedo da anni e sono consapevole che molti tratti del suo

viso saranno cambiati. Mi rendo presente il suo volto come posso, sulla

base di ciò che ho un tempo percepito, ma non me lo rendo presente per

questo come qualcosa che ho percepito un tempo – non lo rendo dunque

presente come se fosse un ricordo. Lo visualizzo, ecco tutto. Possiamo

trarre allora una prima conclusione: un’immagine mentale sostiene un ri-

cordo e non una mera visualizzazione se risponde alla domanda “quando?”,

collocando l’oggetto raffigurato sull’orizzonte, sia pure indeterminato, di

un passato che ci appartiene. Ed un ricordo non è affatto un’immagina-

zione, anche se talvolta gli usi linguistici sembrano trarci in inganno3.

Nel nostro tentativo di far luce sugli usi linguistici che chiamano ambi-

guamente in causa l’immaginazione vi è almeno un altro punto su cui è

opportuno soffermarsi in questo nostro tentativo metodico di confonderci

le idee. Qualche volta può capitare che si parli di immaginazione quando

abbiamo a che fare con la formulazione di un’ipotesi. Qualche volta nei

3 Su questo punto è opportuno insistere. L’empirismo settecentesco (e non solo quello

settecentesco) ha ritenuto possibile rendere conto della distinzione tra immaginazione e ri-

cordo, sottolineando esclusivamente la dimensione della vivacità del vissuto, anche se poi

una critica implicita alla percorribilità di questo criterio è già contenuta nel fatto che lad-

dove Hume ci invita a sostenere che il ricordo è più vivido di quanto non sia l’immagina-

zione, Condillac ci propina invece la regola opposta. Il punto su cui riflettere, tuttavia, è un

altro e ha una portata più ampia: ciò che qui si mostra con relativa chiarezza è che – per

dirla con Wittgenstein – un’immagine non contiene in sé la regola della sua applicazione e

che non basta quindi indicarne la vivacità per decidere quale sia il senso che le compete.

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libri di geometria c’è scritto così: “si immagini un triangolo rettangolo in

cui l’ipotenusa …”. Noi sappiamo bene che cosa ci si chiede, ma forse non

reagiremmo diversamente se leggessimo che dobbiamo assumere che vi

sia un triangolo rettangolo fatto così e così. Il libro ci chiede di immagi-

narlo, ma che cosa cambierebbe se ci chiedesse di pensarlo?

Una risposta sembra ovvia: se il libro chiede di immaginarsi quel trian-

golo è perché si deve contemplarne in qualche modo la figura. Ma se così

stanno le cose, non dobbiamo in questo caso fare affidamento proprio a

quelle immagini mentali che c’era sembrato opportuno lasciare da canto?

Cartesio ritiene che le sia proprio questa la via da seguire e nella Sesta

meditazione ci invita a distinguere pensiero ed immaginazione, fondandosi

sul criterio delle immagini mentali. Se qualcuno ci chiede di immaginare

un triangolo, dobbiamo farci un’immagine di quella figura, ma non ogni

pensiero concresce su un’immagine: possiamo pensare ad un chiliagono e

possiamo pensarlo in modo del tutto nitido, perché questo compito non ci

chiede altro, per essere esaudito, che di intendere quello che caratterizza

una figura geometrica che abbia esattamente mille lati.

Si tratta di una soluzione che sembra plausibile anche se ci costringe a

tornare sui nostri passi e a restituire alle immagini mentali una loro voce in

capitolo, ma come reagiremmo se qualcuno ci chiedesse di immaginare un

oggetto invisibile che, senza fare alcun rumore e senza dar di sé alcuna

traccia sensibile, penetrasse insensibilmente in uno spazio interamente

vuoto con l’incedere minaccioso di ciò che è inavvertibile? Diremmo che

non possiamo immaginare questa strana realtà perché non possiamo far-

cene un’immagine mentale? Ma se le cose stanno così, siamo forse costretti

a pensare il nulla della Storia infinita di Michael Ende? Non possiamo più

semplicemente immaginarlo? Ma allora si può davvero sostenere che

l’avere immagini mentali sia il discrimine che separa l’immaginazione dal

pensiero?

Non credo affatto che le cose stiano così, ma forse possiamo rendercene

conto anche volgendo per un attimo lo sguardo ad un diverso esempio.

Monto una mensola alla parete e qualcuno mi invita a riflettere su che cosa

potrebbe accadere se la mensola non reggesse il peso di cui intendo cari-

carla. E per invitarmi ad esaminare quest’ipotesi potrebbe esprimersi così:

potrebbe chiedermi di pensare – o di immaginare – che la mensola non

tenga, ma nessuno credo direbbe che in un caso, ma non nell’altro si fanno

strada nella nostra mente una serie di immagini. Nessuno credo direbbe

così e forse saremmo semplicemente d’accordo nel sostenere che quelle

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espressioni hanno proprio lo stesso significato e che – caso mai – avrebbe

senso distinguere tra due diversi scenari che sembrano però del tutto indi-

pendenti dal fatto che si facciano avanti immagini mentali: posso immagi-

nare che la mensola crolli come un’ipotesi che deve essere vagliata o posso

immaginare invece quel crollo come l’inizio di una piccola narrazione ed

in questo secondo caso forse la parola “immaginazione” ci sembrerà più

appropriata. Non limitarti ad assumere per ipotesi che la mensola non

regga, ma immagina che cosa potrebbe accadere: uno scricchiolio sinistro,

la mensola che si piega, i libri che cadono, un vaso che si rovescia e così

di seguito. Qui ha luogo una narrazione minimale, ma non sembra esservi

ragione per sostenere che ogni narrazione implichi immagini mentali, che

potrebbero essere invece presenti nella formulazione dell’ipotesi che ab-

biamo dianzi indicato: ipotizziamo che la mensola non tenga e ci raffigu-

riamo lo schema delle forze che agiscono sui tasselli. Insomma: il fatto di

avere immagini mentali non sembra essere la chiave di volta per risolvere

questo nostro problema.

Eppure si dirà che vi sono significati della parola “immaginare” che non

possono essere disgiunti dalla dimensione intuitiva. «Immaginati di entrare

nel tuo studio e di sederti alla scrivania» – qualcuno potrebbe farci questa

richiesta, e in questo caso sembrerebbe davvero impossibile negare che

siano le immagini mentali a dirci quel che accade. Certo, quando qualcuno

ci chiede di immaginare una scena come quella che abbiamo appena de-

scritto è facile che davanti alla mente si parino dinnanzi immagini diffe-

renti, ma che cosa accadrebbe se non accadesse nulla di simile? Ora mi

chiedi di immaginare il tuo tavolo e mi dici che ci sono libri e fogli in

disordine e una lampada accesa – e io mi immagino bene la scena, anche

se questo non significa che abbia costruito nella mente un modello visivo

di quel che mi hai detto. Mi sono fatto un’idea del tuo tavolo, senza per

questo avere nulla davanti agli occhi della mente, proprio come è proba-

bilmente accaduto a chi ora ha letto queste parole.

Si badi bene: non intendo affatto negare che immagini mentali vi siano e

in generale le considerazioni che propongo non possono né vogliono dire

nulla che concerna la dinamica reale delle nostre esperienze. Può darsi che

immagini mentali siano comunque presupposte ed in senso lato lo sono

senz’altro. Può darsi che, sia pure inconsapevolmente, ogni immaginazione

poggi su processi che infine ci riconducono a immagini mentali o a pro-

cessi di simulazione motoria, ma anche se così stessero le cose non per

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questo si può negare che possiamo comunque distinguere tra un immagi-

nare che ha una sua pienezza intuitiva ed un immaginare che sembra essere

invece privo di qualsiasi rimando alla dimensione fuggevole e vaga delle

immagini mentali. Il cappello di Raskòlnikov «era un cappello alto e ro-

tondo, alla Zimmerman, tutto liso, rossastro per l'usura, crivellato di buchi

e cosparso di macchie, senza più falde e ammaccato da un lato» – Dostoe-

vskij lo descrive così e noi comprendiamo perfettamente come stiano le

cose, ma davvero leggendo “vediamo” quel cappello con gli occhi della

mente? Ed è davvero opportuno farlo? Forse le cose non stanno affatto

così. Forse non è affatto un bene vedere, sia pure soltanto nella mente, un

simile cappello perché non è affatto detto che l’effetto visivo di un simile

cappello faccia tutt’uno con la sua descrizione linguistica. Non c’è una fo-

tografia che corrisponda ai primi versi della Sera del dì di festa, perché il

senso di questa descrizione è inseparabile dalla forma temporale della sin-

tassi linguistica, dal suono delle parole e dalla rete semantica dei rimandi

che ogni voce ridesta. Se mai, leggendo quei versi, si formasse in noi

un’immagine mentale di una sera d’estate con la luna piena, sarebbe op-

portuno fare uno sforzo per tacitarla. Può darsi che accada, ma per fortuna

non ce ne accorgiamo.

Forse di fronte a queste considerazioni di carattere generale si risponderà

che poggiano tutte su un terreno sbagliato e che per venire a capo delle

distinzioni che dobbiamo tracciare è necessario mutare interamente pro-

spettiva e rammentare che per venire a capo dei nostri problemi è necessa-

rio assumere un punto di vista puramente obiettivo e chiedersi che cosa

sono immaginazione e memoria in se stesse e non come ci appaiono

quando ci disponiamo sul terreno delle indagini fenomenologiche. In

fondo, un ricordo è un evento reale nel mondo e si può facilmente distin-

guerlo dai prodotti dell’immaginazione in virtù del nesso reale che lo lega

ad un evento accaduto nel passato – un evento che ha lasciato una traccia,

senza la quale la rimemorazione non potrebbe aver luogo. Il criterio per

decidere se ricordiamo qualcosa e non ci limitiamo a fantasticarla è un cri-

terio causale: un’esperienza è un ricordo se e solo se il contenuto che ci

propone deriva causalmente (secondo una concatenazione che andrebbe

comunque precisata) da un’esperienza che ha avuto luogo tempo addietro

e che in qualche modo si ripropone nel contenuto esperito. Che così stiano

le cose ce ne rendiamo conto se osserviamo che in fondo saremmo disposti

a riconoscere che un nostro lontano ricordo di infanzia è soltanto frutto di

fantasia se non fosse possibile sostenere che di quel lontano evento ci parla

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una traccia che troviamo impressa nella nostra mente. Ci sembra di ricor-

dare e ci sembra quasi di vedere la scena accaduta tanti anni addietro, ep-

pure siamo costretti a riconoscere che quel ricordo è frutto di mille racconti

che si sono infine consolidati in una fantasia che ci sembra di avere vissuto.

Non è importante quel che crediamo e quel che pensiamo di avere vissuto;

importanti sono le riflessioni cui siamo condotti quando ci interroghiamo

sugli eventi reali che animano la nostra mente.

Così stanno le cose per i ricordi, ma anche per l’immaginazione: anche

le fantasie sono vissuti reali che debbono essere indagati al di là dell’espe-

rienza che ne abbiamo. E così come vi sono ricordi che scopriamo essere

frutto dell’immaginazione, allo stesso modo potremmo imbatterci in fan-

tasticherie apparenti che in realtà sono ricordi. Credevamo di esserci im-

maginati una qualche scena della nostra infanzia e invece ora scopriamo

che si trattava di un ricordo, di cui paradossalmente non avevamo più me-

moria: credevamo di fantasticare e invece eravamo immersi in un’imma-

gine del nostro passato. E ciò è quanto dire che un ricordo non è un vissuto

che abbia una forma peculiare, ma è un’esperienza che ha un contenuto

peculiare e una particolare determinatezza causale.

Non facciamo che approfondire quest’ordine di considerazioni se osser-

viamo che, in questa luce, non avrebbe alcun senso parlare di ricordi falsi:

un ricordo è per sua essenza veridico poiché può dirsi tale sole se ciò che

narra è davvero accaduto nel passato ed è la causa del mio poterlo ora rivi-

vere. Un ricordo che non fosse conforme all’evento che l’ha causato non

sarebbe un ricordo, ma una fantasticheria. Alla stessa stregua, una fantasti-

cheria che fosse pienamente conforme ad un evento che abbiamo vissuto e

che dipendesse causalmente da esso non sarebbe una fantasticheria: sa-

rebbe un ricordo, anche se chi lo vive non lo pensa come un evento che

appartiene al passato e non crede che vi sia stato un tempo in cui è accaduto

ciò che ora occupa la sua mente.

Dovremmo appunto ragionare così, ma non credo che questa via meriti

di essere percorsa, almeno se ci si prefigge il compito di comprendere quale

sia la natura dell’immaginazione. Vi sono almeno tre differenti ragioni che

giustificano questo rifiuto. Si potrebbe infatti osservare, in primo luogo,

che è difficile anche solo pensare di separare ricordi e immaginazioni se-

condo il criterio che abbiamo indicato, perché non c’è ricordo che non sia

almeno in parte riletto alla luce del presente e delle narrazioni che ne ab-

biamo dato e non vi è fantasia che non cresca su ricordi di varia natura. Mi

ricordo bene di quando sono nati i miei figli, ma questo significa forse quel

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ricordo non cresca insieme alla mia vita e non si determini nel suo senso e

nella sua stessa forma con il passare degli anni e con il ripetersi delle oc-

casioni in cui lo richiamo alla mente? I ricordi non possono essere disgiunti

dalla loro narrazione e restano ricordi anche se vengono in parte corretti e

integrati dal presente che dà loro ascolto. Chi ricorda un evento non può

fare a meno di integrare ciò che è rimasto vivo nella sua mente, ma la storia

che narra ad altri o a se stesso resta un ricordo, perché si inserisce nell’oriz-

zonte del nostro passato e apre un varco che conduce al presente e che si

origina in tempo che è stato nostro. E ciò che vale per il ricordo, vale anche

per l’immaginazione. Forse Manzoni aveva conosciuto davvero una qual-

che Donna Prassede e forse un lettore può riderne soltanto se nella sua vita

ha conosciuto una persona fatta così, ma questo non rende quel personag-

gio una silloge di ricordi, così come non sono ricordi le nostre fantastiche-

rie, anche se si nutrono di eventi passati. Vi è poi, in secondo luogo, una

preoccupazione più generale che ci tiene lontani dall’avvalerci di un simile

criterio tutto esterno alla dimensione descrittiva dell’esperienza ed è il fatto

che di un simile criterio potremmo avvalerci solo facendo infine riferi-

mento ad altre esperienze, colte queste nella loro immediata valenza epi-

stemica. Ho bisogno di fidarmi dei ricordi per non fidarmi di un ricordo e

posso avvalermi di un criterio esterno alla dimensione della consapevo-

lezza solo se presuppongo criteri interni ad essa. Si tratta di una considera-

zione relativamente ovvia: posso scoprire che il contenuto della mia espe-

rienza è un ricordo e non una fantasticheria perché posso connetterlo ad un

evento lontano che è causa di questo mio esperire così, ma posso parlare di

un evento passato solo perché faccio affidamento su un insieme di ricordi

che debbo assumere come tali e cui debbo credere in ragione della loro

evidenza, se in generale voglio poter parlare sensatamente di un passato. E

ciò è quanto dire che non posso comprendere che cosa sia un ricordo sulla

base di un criterio che, per essere applicato, presuppone che io sappia già

distinguere quello che con il suo aiuto dovrei poter imparare a distinguere.

Vi è tuttavia una terza ragione che mi spinge a sostenere che non sia questa

la via da seguire. Può essere importante decidere se un certo evento appar-

tiene al passato e può darsi che uno dei criteri di cui ci si può avvalere per

deciderlo sia chiedere qual è la causa remota di ciò che ora esperiamo. Il

nostro obiettivo tuttavia è un altro: vogliamo far luce sulle diverse modalità

intenzionali che caratterizzano i differenti modi in cui immaginiamo o ri-

cordiamo un contenuto ed una differenza rilevante vi è tra il modo in cui

immagino un fatto e il ricordo che, all’improvviso, me lo rende presente.

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Ora finalmente me ne rendo conto: ciò che credevo di ricordare è soltanto

una fantasticheria, e rendersene conto significa cambiare qualcosa – vuol

dire cambiare l’atteggiamento intenzionale verso il contenuto di quel pre-

sunto ricordo: ora che me ne rendo conto la vicenda che esperivo come un

ricordo si fa avanti come un resoconto o addirittura come una fantastiche-

ria. Ciò che è mutato è appunto il modo in cui qualcosa è esperito ed inteso4

Credevamo di sapere molto bene che cosa volesse dire che immaginiamo

qualcosa, ma ora questo sapere sembra sfuggirci di mano. In un passo dei

suoi Dialoghi tra Hylas e Philonous Berkeley scriveva che i filosofi con le

loro argomentazioni sollevano nubi di dotta polvere e poi si lamentano che

non si riesca più a veder nulla con chiarezza. Berkeley se ne lamentava, ma

qualche volta si deve fare proprio così, per avvertire meglio il bisogno di

una chiarificazione concettuale. Ora, tuttavia, è giunto il momento di la-

sciare che la polvere si depositi, per cercare poi di dare ai nostri concetti

una forma che ci consenta di comprendere meglio il senso delle nostre pa-

role.

2. Un’analisi concettuale

Tra gli esempi che abbiamo discusso ce n’è uno da cui credo sia opportuno

partire perché può davvero insegnarci qualcosa. Qualcuno pronuncia un

nome di una persona che ci è nota e noi immaginiamo il suo volto. Ab-

biamo osservato poi che parleremo di ricordo se l’immagine si dispone

4 Un fatto questo su cui lo stesso Hume attira la nostra attenzione, anche se poi, come di

consueto, ritiene possibile venire a capo di differenze che concernono la grammatica filo-

sofica dei concetti nel linguaggio vago delle differenze di vivacità delle idee: «Accade

spesso che di due uomini che hanno preso parte a una stessa azione uno la ricordi molto

miglio dell’altro e duri grandissima fatica per farla ricordare al suo compagno. Invano gli

enumera minutamente le diverse circostanze, gli cita il tempo, il luogo, la compagnia, ciò

che è stato detto, ciò che è stato fatto: finché tocca per caso un particolare che fa rivivere

tutta la scena e dà all’amico la completa memoria dell’accaduto. Qui, la persona che ha

dimenticato, riceve da principio tutte le idee del discorso del compagno, con le stesse cir-

costanze di tempo e di luogo, benché le consideri mere finzioni dell’immaginazione. Ma,

appena accennato questo particolare che colpisce la sua memoria, queste stesse idee ap-

paiono sotto una luce nuova: sono sentite, si può dire, in modo diverso di prima. Senza che

nulla si alteri in esse all’infuori del modo di sentirle, diventano immediatamente idee di

memoria e suscitano l’assenso. Potendo, dunque, l’immaginazione rappresentare gli stessi

oggetti che la memoria, e distinguendosi queste facoltà soltanto per il diverso modo di sen-

tire le idee, vien fatto di chiedersi qual è la natura propria di questo modo di sentire. Ognuno,

credo, risponderà convenendo che le idee della memoria sono più forti e più vivaci di quelle

della fantasia» (Hume 19xx: 98).

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sotto l’egida di uno sguardo rivolto al passato, mentre saremo inclini a

parlare di immaginazione in una qualche accezione del termine quando

questa collocazione sullo sfondo temporale del passato non si dà.

Questa constatazione ci invita ad una riflessione ulteriore: vi sono espe-

rienze che collocano il proprio oggetto sullo scenario del passato, ma vi

sono atti che anticipano il futuro e che ce lo rendono presente come tale.

Guardo dalla finestra, vedo il cielo livido e mi aspetto il temporale inci-

piente e questa attesa, che di solito resta implicita e che spesso si rende

consapevole solo nello stupore che accompagna il diradarsi delle nuvole,

può manifestarsi esplicitamente e assumere la forma di una prefigurazione

dell’evento atteso, anche se questo ancora non significa che si pronunci a

mezza voce un qualche giudizio. Guardiamo il cielo e ci sembra di avver-

tire l’inquietudine lieve che accompagna l’attesa di un temporale estivo ed

una simile esperienza è per molti versi simile al ricordo: il pensiero del

temporale che ora occupa la nostra mente risponde alla domanda

“quando?” proprio come le immagini del ricordo, solo che vi risponde al-

ludendo ad un tempo futuro, ad un presente che non è ancora. Potremmo

forse esprimerci così: come vi sono ricordi del passato, vi sono anche ri-

cordi del futuro che rendono presente per noi quel che accadrà o che è

probabile che accada, senza tuttavia consentirci di accedervi in forma di-

retta. Non vediamo nel futuro, ma ce lo raffiguriamo e la veridicità delle

nostre anticipazioni verrà giudicata in seguito quando effettivamente ve-

dremo come stanno le cose.

Non ci sono tuttavia solo ricordi del passato e del futuro, poiché non vi

sono soltanto atti che si rapportano al proprio oggetto come qualcosa che è

stato o che sarà; vi sono anche – per quanto possa suonare strano – ricordi

del presente. Non tutte le forme di relazione intenzionale che si rapportano

ad un oggetto ponendolo come presente sono percezioni e non tutte danno

ciò di cui parlano nella pienezza del suo esserci; tutt’altro: vi sono atti che

si limitano a rendere presente ciò che manifestano senza tuttavia consen-

tirci di affermare che così stanno le cose. Bussano alla porta e tra me e me

una voce dice: sarà Luca. Per esserne certo, tuttavia, devo aprire la porta e

guardar bene, perché il mio rendermi presente qualcosa non ha in sé il ca-

rattere di una testimonianza che possa suffragare le mie credenze.

Queste considerazioni ci consentono di comprendere le ragioni che po-

trebbero sostenere una scelta terminologica che resta in sé così dubbia. Nel

ricordo qualcosa si dà originariamente – ed è l’idea del passato. Ciò che

ricordo tuttavia non è presente originariamente, ma si rende presente come

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qualcosa che è stato un tempo percepito e vissuto5. Chi ricorda non esperi-

sce nulla: il ricordo, in questo senso, è una forma di quasi esperienza perché

ha le forme di decorso che caratterizzano una percezione qualsiasi e

un’esperienza qualsiasi, ma non ci pone direttamente in contatto con qual-

cosa che c’è. Chi ricorda qualcosa non ha esperienza di qualcosa, anche se

si rende nuovamente presente ciò che ha un tempo percepito, e ciò è quanto

dire che il ricordo non è un atto in cui qualcosa si dà nella sua originarietà

e immediatezza, ma è una forma di esperienza (di quasi-esperienza) che ha

una sua necessaria mediazione. Il ricordo è ricordo di un’esperienza pas-

sata, di qualcosa che abbiamo un tempo percepito6. Ciò che ci ricordiamo

dunque non è per noi presente nella sua immediatezza, ma è dato in quanto

è stato percepito7. Che così stiano le cose lo si vede bene anche quando ci

si interroga sulla veridicità del ricordo. I ricordi possono ingannarci e per

saggiarne la veridicità cerchiamo di controllarne ora l’interna plausibilità,

ora la coerenza con cui si legano ad una qualche catena memorativa: un

ricordo ne ridesta un altro e come nei castelli di carte l’equilibrio sorge in

un gioco in cui ogni parte si sostiene a vicenda. Dei ricordi siamo ragione-

volmente sicuri e ce ne possiamo avvalere come di un’evidenza per sor-

reggere la pretesa di verità di una proposizione, eppure non è difficile ren-

dersi conto che il ricordo non contiene in sé una piena garanzia della sua

veridicità. Ci ricordiamo di aver visto così, ma la nostra certezza potrebbe

incrinarsi o potremmo, per qualche ragione, ritenerla insufficiente ed in

questo caso ravvivare il ricordo potrebbe non bastare perché nel ricordo la

cosa rammemorata non si fa avanti, ma si rende semplicemente presente

attraverso l’esperienza che ne abbiamo avuto. Il ricordo è esperienza di

un’esperienza e non ha quindi una presa diretta sul mondo: ci parla di qual-

cosa che è avvenuto nel passato, ma ce ne parla solo in quanto l’abbiamo

percepito così e così. Un ricordo può essere del tutto affidabile e raccontare

tuttavia qualcosa sulla cui verità è possibile dubitare: non posso dire di

ricordar male quando dico che l’atrio della mia scuola elementare era

5 Il concetto di presentificazione è tratto dalla fenomenologia husserliana. Husserl lo definisce così:

6 Va da sé che le riflessioni che stiamo proponendo concernono esclusivamente il ricordo e quindi la

memoria episodica. Le varie forme di memoria non appartengono, da un punto di vista descrittivo, ad

un unico genere, anche se è certamente opportuno discuterle insieme, se ci si pone sul terreno di un’ana-lisi psicologica e cognitiva.

7 Come abbiamo osservato, vi è tuttavia qualcosa di cui il ricordo è esperienza – ed è il carattere di

passato del passato, e di questo carattere non vi è altra esperienza se non il ricordo. Su questo punto tuttavia non possiamo qui soffermarci.

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grande e solenne, perché così probabilmente l’ho percepito, ma anche se

non ho nulla da rimproverare alla mia memoria non posso escludere che

quell’atrio sia diverso da come lo ricordo. Per decidere dovrei poter vedere

se le cose stanno così come le ricordo, dovrei poter gettare nuovamente lo

sguardo sulla realtà di cui ho memoria – e il rivolgere nuovamente lo

sguardo ad uno stesso stato di cose è una prassi razionale se si vuole sag-

giare la validità di una determinata credenza. Rinnovellare un ricordo, in-

vece, non rende più credibile il passato, proprio come una notizia non ci

sembra più vera quando compriamo due copie di uno stesso giornale.

Il ricordo in senso proprio ha una ragione per dire che così stavano le

cose ed anche se non ci consente di accedere a nuove prove dell’esser così

di ciò che è ricordato, ci permette egualmente di rammentare le ragioni per

cui avevamo un tempo ritenuto opportuno credervi. Il ricordo di ciò che è

passato è anche ricordo di una fiducia riposta, ma appunto: come stanno

le cose nelle altre forme di ricordo – nel ricordo in senso lato? Nel caso

delle anticipazioni le cose mutano: non abbiamo ancora percepito nulla

perché non è ancora accaduto nulla e quindi non sappiamo ancora se le

cose andranno come ci figuriamo che vadano. Nulla è ancora deciso, anche

se ci raffiguriamo così il corso degli eventi. Certo, anche i ricordi di futuro

sono forme che rendono presente il loro contenuto, ma in questo caso se

diciamo che un’anticipazione non ci dà l’evento anticipato nella sua origi-

narietà non intendiamo affermare che esso sia colto attraverso un’espe-

rienza che lo dà nella sua originarietà. Dire che le anticipazioni sono forme

che rendono presente qualcosa significa allora sostenere che ci danno il

loro contenuto nella forma di una coscienza di immagine: anticipare un

evento significa raffigurarselo come un evento che accadrà.

Si tratta di una differenza rilevante, ma ciò non toglie che anche i ricordi

di futuro, proprio perché comunque rendono presente qualcosa, abbiano

una loro pretesa di verità: ci raffiguriamo ciò che ci attendiamo, ma nel

senso di ogni simile raffigurazione è implicita la consapevolezza che il fu-

turo a suo tempo pronuncerà un verdetto su ciò che abbiamo pensato che

accada. Un’anticipazione può rivelarsi falsa proprio come falso può essere

un ricordo e ancor più del ricordo in senso proprio anche il nostro raffigu-

rarci il futuro non contiene in sé il metro della sua verificazione, ma ri-

manda ad una percezione che sola potrà in seguito decidere come stanno

le cose.

Uno stesso ordine di considerazioni vale anche per ciò che abbiamo chia-

mato ricordo di presente. Anche in questo caso abbiamo a che fare con un

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raffigurazione che avanza una pretesa di verità che non ha in sé il criterio

della sua verificazione. Anche in questo caso, il ricordo si fa plausibile

quanto più sa connettersi con l’orizzonte della presenza e sa integrarsi con

ciò che lo determina. Sento suonare alla porta e ho ragione di pensare che

sia proprio la persona che aspetto: l’ora è quella consueta, non attendo altre

persone e la scampanellata la riconosco bene. Per decidere tuttavia se così

stanno le cose non basta che io mi crogioli nel mio immaginare e nel mio

compiacermi della sua interna coerenza: è necessario che apra la porta e

guardi chi è.

Un tratto accomuna dunque queste forme del ricordo: si tratta, in gene-

rale, di atti presentificanti, di atti che rendono presente il loro oggetto,

senza tuttavia darlo direttamente, anche se questa caratteristica comune si

declina diversamente tra i ricordi in senso lato e il ricordo in senso proprio.

Ci ricordiamo – nel presente, nel passato, nel futuro – di qualcosa e ce ne

ricordiamo disponendolo in un orizzonte temporale determinato, ma anche

se i ricordi in ogni loro forma pretendono di essere veri, non hanno in sé il

metro cui è ancorata la loro definitiva validità. Proprio qui, tuttavia, si an-

nida il tratto che diversifica le differenti forme del ricordo e che rende dif-

ficilmente percorribile la proposta terminologica che abbiamo proposto. Il

ricordo in senso proprio si riferisce ad una percezione precedente e rac-

chiude in sé il rimando a ciò che è stato e vale come quindi di per sé come

una testimonianza che sorregge una credenza: credo e ho ragione di credere

che p perché ricordo che p. Nel caso del “ricordo” di presente e di futuro

le cose stanno diversamente: quando “ricordo” qualcosa nel presente o nel

futuro, avanzo un’ipotesi che chiede di essere confermata e che ha forse

ragioni per sorgere, ma non ne adduce di nuove. Non è un caso allora se di

queste forme improprie del ricordo parliamo talvolta come di forme imma-

ginative: sentiamo suonare alla porta e diciamo che immaginiamo chi sia,

così come potremmo dire, guardando il cielo livido, che ci immaginiamo

un bel temporale, mentre non potremmo dire che immaginiamo che ieri

abbia piovuto se ci ricordiamo dell’acquazzone che ci ha infradiciato. Non

possiamo farlo perché il ricordo non si limita a rappresentare ciò che è

stato, ma ci offre una ragione per credere: rende presente un evento attra-

verso un atto che lo presenta effettivamente – attraverso la percezione di

cui il ricordo è ricordo. Nelle forme del “ricordo” di presente e di futuro,

l’evento ricordato è reso presente solo in virtù di un atto che ci consente di

raffigurarcelo: ci facciamo un’idea di quel che accade o che accadrà. Ce ne

facciamo un’immagine, appunto.

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Non facciamo che sviluppare queste considerazioni se osserviamo che

così stanno le cose anche quando immaginiamo un volto o un luogo che ci

sono noti. Che non si possa parlare di ricordo, neppure nell’accezione am-

pia di cui ci siamo momentaneamente avvalsi, lo abbiamo osservato:

quando qualcuno ci invita a raffigurarci mentalmente un luogo che cono-

sciamo facciamo evidentemente affidamento sulla nostra memoria, ma non

per questo lo collochiamo in un momento particolare del tempo. Una

mappa non dice sempre e necessariamente se quel che raffigura è, era o

sarà così, ed è per questo che i disegni che fungono da progetto di una casa

possono in seguito essere usati come un mappa che la descrive. Forse si

potrebbe obiettare che una mappa non dice che ora le cose stanno così,

anche se questo non toglie che possa invecchiare e diventare inservibile, se

l’oggetto di cui ci parla muta nel tempo. Su una mappa è possibile apporre

una data, come talvolta accade nelle fotografie: in questo caso, la mappa

dice che così stanno le cose in un certo istante del tempo obiettivo, ma non

colloca quell’istante rispetto all’ora in cui vivo. Le cose stanno così anche

per quegli atti che potremmo chiamare visualizzazioni: raffigurano un og-

getto ed eventualmente dicono il tempo obiettivo in cui si colloca l’evento

o la cosa raffigurata, ma non lo collocano nel tempo rispetto al mio pre-

sente8. Se trascuriamo questa differenza, tuttavia, le visualizzazioni sono

davvero simili ai ricordi di presente e di futuro: sono una forma di presen-

tificazione che ha un valore di verità, ma che non ci offre nessuna evidenza

nuova per affermare che le cose stano così come la visualizzazione ci dice.

Non dimostro la bontà di una mappa controllandola con un’altra mappa,

anche se ho una riprova indiretta della sua plausibilità.

Se ora riflettiamo su ciò che ci consente di parlare di immaginazione per

alludere alle forme improprie del ricordo e alle visualizzazioni, siamo im-

mediatamente ricondotti al carattere raffigurativo di questi atti. Quando di-

ciamo di immaginare bene chi sia alla porta, intendiamo dire soltanto che

non lo sappiamo con certezza, ma ci raffiguriamo egualmente chi possa

essere, così come non vediamo davvero il volto che immaginiamo, anche

se ce ne facciamo un’immagine. Di qui una prima proposta terminologica:

parleremo in questo caso di immaginazione figurale, per sottolineare ap-

punto che questo carattere – il carattere della raffigurazione – è ciò che

giustifica qui il nostro discorrere di immaginazione.

8 Dovremo in seguito osservare che le visualizzazioni hanno un tense – presentano ciò che raffigurano

ad una soggettività finzionale.

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Vi sono tuttavia altre forme dell’immaginazione che non sembrano chia-

mare in causa il momento della raffigurazione e che non sono né vere, né

false: è questo il caso delle diverse forme di immaginazione del possibile

– di quelle forme di immaginazione che si riferiscono a ciò che immagi-

nano ponendolo come una mera possibilità non realizzata. È questo il caso

dei progetti che delineano uno scenario nella sua possibilità e lo collocano

in un futuro più o meno prossimo. E un progetto non può dirsi vero o falso,

anche se gli eventi possono avverarlo. Può essere invece mal fatto: delinea

qualcosa che dovrebbe essere realmente e non solo logicamente possibile,

ma trascura troppe questioni di fatto e dipinge un futuro che non sarà. I

progetti possono perdersi in fantasticherie. Dovrei pensare a quello che

debbo fare domani, ma invece di immergermi in un progetto serio che

tenga conto del nesso che lega il futuro al presente e ai suoi impegni, la

mia mente si perde in una fantasticheria che muove da questo nostro mondo

per abbandonarlo e fingere così una possibilità – per fingerla in quanto

mera possibilità che non ci preoccupiamo di realizzare, ma in cui ci im-

mergiamo per gioco. Domani vado al mare – e quello che dapprima po-

trebbe sembrare un progetto diviene poi un sogno ad occhi aperti in cui

prende forma una trama possibile, di cui l’immaginazione non intende mo-

strarci la realizzabilità, ma solo fingere la presenza. E se un progetto può

essere ben fatto mal fatto, una fantasticheria è al di qua di questa possibilità

perché non pretende di confrontarsi con ciò che accadrà. Le fantasticherie

non sono vere o false, ma nemmeno coerenti con il mondo, anche se qual-

che volta, per caso, possono avverarsi.

Uno stesso ordine di considerazioni vale anche nel caso di quelle forme

dell’immaginazione in cui immaginiamo che la realtà abbia avuto un di-

verso corso e che il presente o il passato siano diversi da quello che sono o

che sono stati. Così, nel disappunto percepiamo il presente come insoddi-

sfacente e pensiamo a quello che avrebbe potuto accadere. Nel rimpianto,

invece, mi immagino un passato diverso da quello che è stato: non abbiamo

varcato quella porta e ora ce ne pentiamo, non abbiamo avuto il coraggio

di fare quel gesto e ora ne siamo dispiaciuti, ma nell’uno e nell’altro caso

ciò che immaginiamo non pretende di essere vero: immaginiamo una pos-

sibilità in quanto tale e la immaginiamo proprio così – come una mera pos-

sibilità che non pretende nulla, ma in cui possiamo immergerci e che ci

consente di dare al reale una veste diversa e nuova.

Ora, sottolineare che queste forme dell’immaginazione non avanzano

pretese di verità vuol dire anche rammentare che non hanno il carattere di

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atti che si riferiscano ad uno stato di cose del mondo per affermarne l’esi-

stenza. Tutt’altro: le figurazioni di cui discorriamo ci invitano a prendere

commiato dalla realtà e a disporre liberamente degli scenari del mondo per

fingere ciò che è soltanto possibile. Muoviamo dal mondo – da questo no-

stro mondo – per variarlo liberamente, proponendo così una narrazione che

ci racconta un diverso corso degli eventi, che non si è realizzato e che non

ci si prefigge di realizzare, ma che è immaginato nel suo essere una mera

possibilità.

Come abbiamo osservato, nel caso delle figurazioni del possibile non ci

riferiamo più al mondo come al giudice della verità delle nostre rappresen-

tazioni, ma ciò non toglie che del mondo qualcosa permanga: nel rim-

pianto, immagino un diverso corso degli eventi, ma quegli eventi concer-

nono me e la mia vita e si giocano nell’alveo di ciò che realmente l’ha

ospitata. Rimpiango di non averti ascoltato, e anche se di fatto immagino

quello che non è accaduto – il mio averti dato retta – pongo quest’ipotesi

controfattuale nel calco del nostro mondo: non ho dato retta proprio a te e

in quella circostanza che posso indicare perché è davvero accaduta. Uno

stesso discorso vale anche per le fantasticherie che pure muovono dal

mondo e raccontano che cosa potrebbe accadere a me o ad altri se solo si

realizzassero i desideri che le muovono. Chi fantastica si perde in sogni ad

occhi aperti, ma si perde sullo sfondo di questo mondo ed è per questo che

le fantasticherie possono lasciare l’amaro in bocca o far sorgere speranze

infondate: parlano pur sempre della nostra vita, mostrando possibilità che

non ci saranno o che non ci sono state. Del resto, che le diverse forme

dell’immaginazione del possibile siano legate al contesto del mondo si ma-

nifesta anche nel loro costringerci a pensare diversamente la realtà Il rim-

pianto, non si limita a mostrare che un altro corso degli eventi avrebbe

potuto accadere, ma proprio questo trasforma la realtà in contingenza, la

rivela per quello che è: una possibilità che si è realizzata, ma che non per

questo dimentica il suo essere soltanto possibile. Così stanno le cose anche

per le fantasticherie che ci insegnano a levare dal reale il velo che ne nega

l’alterabilità e a proiettarvi il pensiero del suo poter essere altrimenti. Il

controcanto immaginativo che ci invita a fingere una possibilità inattuale è

così la posizione esperita della contingenza – una contingenza che non è

affatto implicita nel tessuto percettivo che non ci mostra le cose nel loro

essere possibilità realizzate, ma nella loro semplice e diretta presenza.

Così stanno appunto le cose nelle forme dell’immaginazione del possi-

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bile, ma qualcosa muta radicalmente quando ci disponiamo sul terreno lu-

dico. Due bambini che giocano possono immaginare che il divano sia una

nave che solca l’oceano, ma nel senso di questa loro finzione non è soltanto

messa da canto ogni pretesa di verità, ma è anche in linea di principio

esclusa la possibilità che il gioco si avveri. Un gioco non può avverarsi

perché non si muove sul terreno del mondo e non pretende di occuparlo,

nemmeno a titolo di una sua possibilità. La prassi ludica è, in questo senso,

una prassi non posizionale: non pretende di dire come stanno le cose o di

modificarle realmente. Nel gioco il divano diventa una nave – è così che ci

esprimiamo, ma non dobbiamo farci ingannare dalle parole: un divenire

reale non vi è, e perché le modificazioni che il gioco impone al reale si

dissolvano è sufficiente aspettare che la parentesi del gioco si chiuda. Il

divano non diventa realmente una nave e la paroletta «è» che accompagna

la prassi istitutiva del gioco e che dice che cosa sono diventati nello spazio

ludico gli oggetti reali del nostro mondo non ha in questo caso un valore

posizionale, non asserisce una loro reale metamorfosi, ma fissa il ruolo che

essi assumono nel gioco e che nel gioco soltanto ha una sua consistenza. Il

gioco non lascia tracce, anche se nel gioco possono accadere incidenti di

varia natura che possono costringerci a ricadere in quella dimensione di

mondo da cui il gioco prende commiato e cui in senso proprio non appar-

tiene. Ed è in questo senso che si può sostenere che il gioco è una prassi

acontestuale.

Sul senso di quest’affermazione è opportuno soffermarsi un poco. Il

bambino che finge che il divano sia una nave non crede per questo di essere

su una nave: il gioco è una prassi immaginativa che trasforma sotto la sua

presa la realtà in una finzione consapevole. La trasforma appunto: il gioco

non dimentica il contesto in cui si muove e non trascura le proprietà reali

degli oggetti, ma le ammette nello spazio ludico mutandole, per dir così, di

segno. Nel soggiorno c’è un divano, ma si può fare come se fosse una nave

pirata: la sua forma lo consente, così come la morbidezza dei cuscini per-

mette di tuffarsi nei flutti senza farsi del male. Gli oggetti reali entrano nel

gioco, ma vi penetrano attraverso un’interpretazione ludica che ne deter-

mina il senso, anche se questo non significa che il gioco non sia guidato

nel suo realizzarsi proprio dalla falsariga delle proprietà reali dell’ambiente

che lo ospita. Il divano è davvero morbido e quindi invita a fare ciò che

chiunque farebbe con esso, ma nel gioco il piacere fisico che l’oggetto nella

sua determinatezza reale consente si colora di un’interpretazione ludica pe-

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culiare. L’oggetto guida il gioco, ma entra nel gioco solo in quanto si su-

bordina alle sue regole. Del resto, il gesto che modifica finzionalmente la

realtà si riverbera anche su chi si dispone nello spazio ludico: chi nel gioco

accetta di solcare il mare su una nave di cuscini non è il bambino che co-

nosciamo – non è insomma una persona reale con proprietà reali – ma è

l’io finzionale del gioco, è l’io che dice di sé che è un pirata, anche se

questo certo non vuol dire che il bambino non sappia come stanno davvero

le cose ed anche se una caduta rovinosa è più che sufficiente perché il

“come se” del gioco si dissolva. Nel gioco, dunque, si prende commiato

dalla realtà, ma in una forma molto più rilevante di quanto abbiamo visto

sin qui: il gioco non può avverarsi perché non rende presente un possibile

corso degli eventi che appartenga al nostro mondo, ma crea una trama lu-

dica che si sostituisce pro tempore al nostro mondo, senza per questo porsi

come una sua possibilità. Così, se improvvisamente per una qualche strana

ragione il divano diventasse realmente una nave e il bambino un pirata, non

per questo il gioco si sarebbe avverato: il gioco non mette in scena una

possibilità di questo mondo e non dice che il bambino che gioca potrebbe

diventare un pirata o potrebbe esserlo stato – dice che lo è, per gioco. Più

precisamente: il bambino che gioca non è affatto un pirata perché nel gioco

vi è un pirata che non è affatto un bambino – e tantomeno quel bambino

che lo mette in scena. Il bambino che gioca non è il pirata di cui nel gioco

recita la parte e non ne condivide le proprietà: quando vi è l’uno non vi è

l’altro, anche se l’uno dà vita all’altro e si trova realmente nello stesso

luogo che l’altro occupa solo finzionalmente. Così la coincidenza che si

rivela nell’impiego della paroletta “io” che introduce il gioco (“io ero il

pirata, il divano era la nave”) non deve trarci in inganno perché non asse-

risce una relazione di identità e non predica una proprietà reale dell’io che

si accinge a giocare, ma indica una correlazione tra l’io reale e l’io finzio-

nale, istituendo così la dimensione ludica. Non è un caso allora che, quando

si stipulano le parti del gioco, i bambini avvertano il bisogno di avvalersi

dell’imperfetto ludico: una forma verbale al passato consente infatti al

bambino di esprimere la scissione tra l’io reale che decide di giocare e l’io

finzionale che nel gioco assume un ruolo determinato secondo il modello

della differenza temporale tra l’io che ora ricorda e l’io di cui ci si ricorda

e che era presente alla situazione rammemorata. E ciò è quanto dire che un

gioco non può avverarsi perché le cose di cui ci parla non appartengono al

mondo reale, ma alla dimensione ludica: qualunque evento accada nel

mondo non può dunque far avverare un gioco, perché non può in linea di

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principio parlare degli stessi oggetti di cui il gioco narra.

Uno stesso ordine di considerazioni vale quando leggiamo un racconto o

una favola: Collodi non afferma che esiste nel mondo un uomo di nome

Geppetto che ha una parrucca gialla come la polenta e la sua non è una

testimonianza che ci parli di un qualche mondo di cui solo lui conosce l’ac-

cesso. Tutt’altro: Collodi ci invita a immaginare così Geppetto e ci dice

come dobbiamo creare quel personaggio e le vicende che il racconto ci

narra. Così, se anche ci fosse davvero un uomo che da un pezzo di legno

da catasta traesse un burattino vivo come Pinocchio ed anche se fosse suo

malgrado soprannominato Polendina, ciò nonostante la storia narrata da

Collodi non diventerebbe vera perché non parlerebbe affatto di quell’uomo

reale e di quel pezzo di legno reale.

Da queste considerazioni di natura descrittiva (su cui dovremo in seguito

tornare) possiamo trarre una seconda conclusione di carattere generale: alle

forme di esperienza che rendono meramente presenti i loro oggetti si deb-

bono affiancare le forme dell’immaginazione ludica e narrativa che non

hanno il carattere di presentificazioni, ma creano i propri “oggetti” – questa

parola presa in un’accezione che dovrà essere in seguito precisata.

Di qui la possibilità di tracciare un primo schema che renda conto in

qualche modo delle analisi descrittive che abbiamo condotto sin qui

(schema 1).

Non credo siano necessarie molte parole per spiegare questo schema che

di fatto non fa altro che disporre secondo un ordine visivo le distinzioni

che abbiamo tracciato nel corso delle nostre analisi. Su un punto, tuttavia,

è forse opportuno raccogliere qualche riflessione, ed è la distinzione ampia

ed una nozione stretta di immaginazione. In un certo senso, la parola “im-

maginazione” la usiamo così: per intendere quelle forme di quasi espe-

rienza che non poggiano direttamente su una percezione, anche se natural-

mente dalla percezione dipendono perché di qui traggono in vario modo i

loro contenuti. Vi è tuttavia una ragione più profonda che ci spinge ad usare

questa parola in queste circostanze: il visualizzare sembra essere una forma

debole della percezione visiva – una sorta di quasi-percezione, proprio

come la narrazione di una favola sembra essere la forma debole di una te-

stimonianza: il narratore sembra quasi parlare di una serie di eventi cui ha

assistito, ma le cose non stanno così. Uno stesso ordine di considerazioni

sembra valere per il gioco: due cani che giocano in un parco sembra quasi

che si azzuffino realmente, ma non accade nulla di serio perché le aggres-

sioni sono soltanto simulate. Così fanno anche i bambini: si inseguono per

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prendersi e per far prigionieri, ma la ruota dentata della prassi ludica non

fa presa sull’ingranaggio della realtà e l’una gira senza conseguenze per

l’altra. Forse la parola immaginazione la usiamo così – per sottolineare il

fatto che ha avuto luogo una modificazione peculiare che indebolisce il

senso di ciò cui si applica e che alle forme dell’esperienza che hanno

un’immediata presa sulla realtà affianca una serie di comportamenti sol-

tanto simulati. L’immaginazione è una sorta di frizione che sgancia i mo-

vimenti dal motore dalle ruote, la nostra esperienza da una presa diretta

con la vita.

Credo che le cose stiano almeno in parte così e tuttavia credo che lo

schema che abbiamo appena proposto ci consenta di essere un po’ più pre-

cisi e di vedere quali oscillazioni di senso sono racchiuse nel concetto di

simulazione. Una visualizzazione è una quasi percezione, ma non per que-

sto perde interamente la presa sul mondo: quando visualizzo qualcosa non

ho un argomento nuovo per credere che le cose stiano così come me le

rendo presenti, ma l’immagine che mi faccio del cortile del Filarete non è

per questo meno suscettibile di essere valutata per ciò che concerne la sua

verità. L’ingranaggio non gira a vuoto, ma avanza una pretesa di verità:

dice come stanno le cose, anche se non recluta nuovi argomenti per dire

che stanno così.

Qualcosa muta quando passiamo dalla dimensione degli atti presentifi-

canti alle finzioni ludiche e narrative: il gioco è prassi simulata e la narra-

zione è una testimonianza simulata, ma nell’uno e nell’altro caso si prende

interamente commiato dal mondo. Anche se è proprio qui davanti a me,

non vi è nessun luogo del mondo in cui ci sia davvero la nave pirata con

cui ora solco i mari ed anche se sono proprio io al timone, non è vero che

Paolo Spinicci abbia messo piede su quel vascello. E alla stessa stregua, un

racconto sembra una testimonianza che ci rende falsamente edotti sulle vi-

cende del nostro mondo o che ci illumina su ciò che è accaduto in un

mondo diverso dal nostro, ma non è così: Geppetto non è un falegname in

un mondo possibile, ma è solo il personaggio di una storia. Chi la narra,

non testimonia nulla: crea passo dopo passo una vicenda fantastica. In-

somma: qualcosa di rilevante muta quando passiamo dall’immaginazione

in senso lato all’immaginazione in senso pregnante, ed è per questo che il

nostro schema sottolinea questa duplice accezione del concetto di immagi-

nazione e indica una direzione che dalla realtà degli oggetti immaginativi

ci conduce passo dopo passo verso lo scenario che compete alla dimen-

sione immaginativa in senso pregnante. Certo, questa differenza di senso

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non ha un’eco univoca sul terreno degli usi linguistici, che restano comun-

que necessariamente vaghi, ma di questo fatto non dobbiamo preoccuparci

troppo. Se ci interessano le parole è solo perché ci interessano i concetti –

e una distinzione concettuale qui c’è, anche se il linguaggio quotidiano non

ha ritenuto opportuno segnarla in modo univoco. Se il linguaggio non ha

segnato il confine non c’è nulla di male: possiamo farlo noi.

3. Immaginare ed assumere

Il quadro che abbiamo appena delineato non è tuttavia sufficiente per ve-

nire a capo dei nostri problemi e basta volgere lo sguardo alla dotta polvere

che abbiamo sollevato nelle nostre battute introduttive per rammentare che

una delle difficoltà nelle quali ci eravamo imbattute concerneva il rapporto

con il pensiero. Un libro di geometria può chiederci di assumere che una

retta divida in due parti eguali un triangolo isoscele, ma che cosa cambie-

rebbe se ci chiedesse di immaginare questo stesso stato di cose? Cambia

davvero qualcosa? E se non cambia nulla, che cosa ci consente di usare

nello stesso senso parole che hanno di solito significati differenti?

Una via per tentare di venire a capo di questo problema ci invita a riflet-

tere su una differenza che attraversa le forme di esperienza su cui ci siamo

soffermati e che ha una sua eco sul terreno degli usi linguistici. Si parla di

immaginazione quando ci si raffigura mentalmente il cortile del Filarete o

che cosa accadrà domani, ma il nostro senso linguistico avrebbe qualcosa

da eccepire se tentassimo di ricondurre sotto il titolo generale dell’imma-

ginazione le descrizioni di oggetti presenti o di eventi futuri: una descri-

zione può chiederci di immaginare qualcosa, ma di per sé non implica l’im-

maginazione e non coincide con essa. Comprendere una descrizione non

significa visualizzare qualcosa e non ci sentiamo autorizzati a parlare di

immaginazione nel caso delle descrizioni, eppure – proprio come le visua-

lizzazioni – anche le descrizioni sono forme che rendono presente qual-

cosa, senza tuttavia darcelo nella sua presenza immediata. Ma allora che

cosa ci consente di parlare di immaginazione quando mi faccio un’imma-

gine cortile della mia università e che cosa ci vieta di farlo quando leggo

una descrizione? Dire che una visualizzazione ha, nella norma, a che fare

con immagini mentali non sembra sufficiente, perché non ogni descrizione

ne è priva. In fondo una mappa è un disegno che descrive un luogo – ma

non è per questo una visualizzazione. E viceversa: forse immagini incon-

sapevoli e schemi motori di varia natura accompagnano il mio ripercorrere

mentalmente la strada che da casa mi conduce sino al mare, ma perché il

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cammino si dispieghi di fronte a me e si orienti nelle forme di un sistema

di deissi che ha in me il suo centro non è necessario che le immagini si

affollino l’una dopo l’altra consapevolmente – è sufficiente che la descri-

zione si orienti rispetto a me e riproponga un cammino che potrebbe essere

descritto così: esco di casa e giro subito a sinistra e poi a destra, per prose-

guire diritto fino a quando dopo una piccola piazza vedo davanti a me il

mare. Se mi esprimo così, non descrivo una mappa, ma visualizzo – o im-

magino – un cammino, e questo anche se questo mio immaginare non con-

siste affatto nel consultare una molteplicità di immagini mentali.

Di qui si deve muovere, io credo, per venire a capo di questa distinzione

che non poggia sulla presenza o sull’assenza di immagini mentali, ma su

una caratteristica peculiare che appartiene all’immaginazione in tutte le sue

forme – una caratteristica che è assente nelle mappe e, in generale, nelle

forme del pensiero. Una descrizione verbale ha natura obiettiva: rappre-

senta l’oggetto senza collocarci rispetto ad esso. Lo stesso accade quando

guardiamo una mappa: vediamo un intreccio di strade e di luoghi, ma per

poterla usare siamo innanzitutto costretti ad orientarla rispetto a noi per-

ché la mappa non dice affatto dove siamo e non raffigura l’oggetto, collo-

candoci rispetto ad esso9.

Diversamente stanno le cose quando ci disponiamo sul terreno della vi-

sualizzazione: le visualizzazioni sono sempre e necessariamente orientate

rispetto all’io cui implicitamente la scena visualizzata si raccorda e non si

limitano a sostenere che qualcosa è fatto così e così, ma lo mostrano in una

sorta di quasi-esperienza che non può darci una ragione per sostenere che

le cose siano così come ce le raffiguriamo, ma che è tuttavia in grado di

riproporci gli oggetti o gli eventi in una forma che è almeno in parte simile

a quella che caratterizzerebbe una loro rinnovata percezione. Il cortile del

Filarete posso descriverlo e posso dirti molte cose che forse non riesci ora

9 Talvolta sulle mappe che servono d’aiuto al turista per orientarsi in una città poco nota vi è un con-

trassegno e una scritta che recita «voi siete qui!». Come ci si debba avvalere di un simile espediente lo sappiamo: l’informazione che ci viene data deve aiutarci ad applicare la mappa allo spazio che essa

descrive, ora che almeno un punto è stato individuato con chiarezza. Quel contrassegno indica dunque

nella mappa il luogo in cui siamo, ma questo non significa che la mappa rappresenti ciò che rappresenta collocandolo rispetto a noi. Tutt’altro: quell’indicazione non ci serve per indicare il luogo in cui di fatto

siamo realmente – sarebbe privo di senso dire a chi si è smarrito che si trova proprio qui, nel posto in

cui è poiché è difficile pensare che non lo sappia! – ma è utile perché ci dice qual è il posto che nella mappa corrisponde al luogo in cui ci si trova: quell’informazione è quanto ci serve per potere dapprima

orientare la mappa e per cercare poi di orientarsi nello spazio reale grazie ad essa. Il senso di una simile

prassi, tuttavia, è interamente determinato dal fatto che la mappa deve essere orientata rispetto al mondo e rispetto a noi, che del mondo siamo parte.

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a visualizzare. Potrei persino arricchire la mia descrizione con una serie di

fotografie che fungano da sostegno visibile di ciò che dico, ma ciò non

toglie che alla mia descrizione mancherebbe comunque qualcosa che la vi-

sualizzazione invece possiede: il suo rendermi presente quel cortile come

se lo stessi osservando. Quando visualizzo qualcosa ne ho una quasi-espe-

rienza – ma che cosa significa il dir così? Una prima risposta mira a far

luce sulle ragioni che ci spingono a parlare soltanto di una quasi esperienza,

non di un’esperienza effettiva: la visualizzazione è una percezione simulata

che non ha una presa diretta sul mondo. Le scene si susseguono nella mente

come se percepissi, ma non percepisco affatto ed è per questo che non

avrebbe senso contrapporre all’evidenza di una testimonianza diretta l’au-

torità delle visualizzazioni. Ma a questa prima ragione se ne affianca un’al-

tra: abbiamo dianzi osservato che una visualizzazione è diversa da una

mappa o da una descrizione perché dispone ciò che ci rende presente in

relazione all’io, ma non vi è dubbio che vi sia un senso in cui l’io non si

situa affatto rispetto a ciò che visualizza o che si raffigura. Immagino il

cammino che potrò tra qualche giorno percorrere, ma il sistema di deissi

che scandisce la mia immaginazione non coincide affatto con il sistema di

deissi che vale ora per me. La visualizzazione non situa realmente il mio

corpo rispetto alla scena visualizzata e si distingue quindi nettamente dalla

percezione che fissa il luogo dell’io in relazione agli oggetti che le si danno.

Rammentiamoci di quello che abbiamo detto intorno alle mappe: quando

oriento una carta stradale per applicarla a ciò che vedo, cerco innanzitutto

di capire dove sono io – e qui “io” significa propriamente il mio corpo

reale. Quando cammino il mio posto sulla mappa muta: la mappa non rende

presente lo spazio che descrive in relazione a me, ma nel suo impiego

debba correlarla al mio corpo reale. Nelle forme di visualizzazione le cose

non stanno così: lo spazio visualizzato si orienta rispetto ad un io – all’io

che è come se percepisse quelle scene. Proprio questo, avevamo osservato,

è ciò che accomuna la visualizzazione all’esperienza percettiva, ma al mo-

mento della somiglianza si deve affiancare la voce della differenza: non

sono io, come corpo reale, che mi situo rispetto allo spazio visualizzato,

ma è solo il mio controcanto finzionale ed è anche per questo che la visua-

lizzazione è solo una forma di quasi-esperienza.

Alla differenza tra io reale ed io finzionale fa da eco la diversità che com-

pete alle forme di quel situare. Nella percezione accade qualcosa: la mia

posizione reale determina la natura del decorso percettivo che varia al va-

riare del luogo da cui osservo le cose. Colgo il luogo in cui sono dal modo

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in cui le cose mi appaiono, ma il mio essere realmente il centro del mio

universo percettivo si manifesta nella dipendenza reale delle scene visive

dal mio osservare gli oggetti da qui, da un punto reale dello spazio che

posso variare solo se faccio qualcosa, se mi muovo nello spazio reale, muo-

vendo insieme al mio corpo il punto zero delle coordinate che ordinano il

mio spazio percettivo. La natura dei decorsi percettivi dipende dal punto

zero del soggetto percipiente, ed è per sottolineare il fatto che questa rela-

zione si dà nella mia esperienza come una relazione reale e causale insieme

che si può dire della percezione che è egocentrata, che appartiene alla strut-

tura reale del percepire il suo dipendere dal atto che il luogo del io deter-

mina il come delle apparizioni. Nel caso delle procedure immaginative le

cose stanno solo apparentemente così perché l’io finzionale rispetto a cui

si orientano le mie visualizzazioni non determina realmente la scena im-

maginativa; al contrario: è solo il modo in cui l’immaginazione si costitui-

sce – il differenziarsi delle sue parti secondo una molteplicità coerente di

rimandi deittici – a fissare il luogo in cui l’io finzionale si situa. Nel caso

delle forme immaginative non vi è dunque un nesso reale che subordini il

variare delle scene al luogo dell’io; al contrario, il qui dell’immaginazione

dipende dal modo in cui concretamente visualizziamo o immaginiamo una

certa scena, dal modo in cui è fenomenologicamente orientata. L’io finzio-

nale è un prodotto dell’immaginazione e dipende dalla forma di ciò che è

immaginato e ciò significa Dalla natura egocentrata della percezione si

deve dunque distinguere il carattere egotetico che caratterizza i processi

immaginativi: nel caso dell’immaginazione, l’io finzionale è situato e po-

sto nel suo qui dal modo in cui lo spazio è immaginato. Il cortile del Filarete

è come se fosse qui, di fronte a me che lo immagino, ma l’io di cui discorro

non è l’io della percezione, non è il suo corpo reale che è qui ed ora, ma è

un io finzionale che ottiene il suo luogo nello spazio visualizzato solo in

virtù del sistema deittico che a questo compete.

Uno stesso ordine di considerazioni vale per le altre forme dell’immagi-

nazione che sono tutte egotetiche e che si distinguono da congetture ed

ipotesi proprio in virtù del loro essere forme di quasi-esperienza. Posso

figurarmi ciò che accadrà domani, ma posso anche semplicemente conget-

turarlo. Domani potrebbe esserci il sole e potremmo andare al mare – que-

sta è la possibilità di cui discorriamo, ma se mi dispongo sul terreno delle

congetture sembra possibile sostenere soltanto questo: che in un determi-

nato giorno dell’anno – il giorno che segue ad oggi – potrebbe esserci il

sole e che potremmo fare una passeggiata sulla spiaggia. Diversamente

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stanno le cose se ci figuriamo quest’evento: se lo facciamo, ci immagi-

niamo davanti alla riva del mare in una giornata di sole cui siamo presenti,

sia pure soltanto finzionalmente. Anche in questo caso, dunque, sembra

farsi avanti una identica differenza: alla dimensione oggettiva della con-

gettura o di ciò che potremmo chiamare descrizione in senso lato fa eco il

carattere di quasi-esperienza delle forme immaginative che sono caratte-

rizzate così dal loro coinvolgerci.

Di qui le ragioni che ci spingono a parlare delle forme dell’immagina-

zione e del ricordo come forme che se non possono essere dette esperienze

in senso proprio sono comunque quasi esperienze. Quando immagino qual-

cosa sono comunque coinvolto nella situazione immaginativa che fingo e

ha senso parlare del mio ego finzionale come un io che appartiene ad una

determinata situazione emotiva che determina ciò che mi tocca e mi colpi-

sce e che orienta la scena immaginativa rispetto ad una soggettività che

diviene il metro ultimo della rilevanza emotiva e affettiva di ciò che ac-

cade. Certo, questo accade perché ciò che si dà nelle forme di una quasi

esperienza ha carattere egotetico e pone un io finzionale che appartiene

all’universo quasi-esperito, ma questo non significa necessariamente so-

stenere che ogni atto di quasi esperienza di fatto si scandisca in una sorta

di processo che ripete in altra forma il decorso percettivo. È possibile che

ciò accada, ma normalmente le cose non stanno affatto così: le immagina-

zioni e i ricordi sono lacunosi e non hanno mai o quasi mai la forma di una

recita in cui una percezione si ripete o si dipana finzionalmente. Se ne pos-

siamo parlare come di una sorta di esperienza è solo perché le quasi espe-

rienze mantengono la struttura egotetica: descriverle significa comunque

avvalersi di un linguaggio deittico che trae la sua sensatezza dal rimando

ad un ego che è posto da ciò che nella quasi esperienza si manifesta.

Dovremo ritornare su questo punto, ma ora possiamo dare una veste ge-

nerale a queste considerazioni e sostenere che vi sono forme calde e forme

fredde di rapportarsi ai fenomeni. Le forme calde hanno un carattere pecu-

liare: ci coinvolgono direttamente e insieme pongono l’io in una relazione

peculiare rispetto a ciò che mostrano – l’ego si trova (in un modo che deve

essere precisato) in relazione con ciò che viene immaginativamente propo-

sto. Le forme di quasi esperienza hanno dunque una loro situazione emo-

tiva10. Le forme fredde, invece, non hanno questo carattere; non sono forme

10 Il concetto di situazione emotiva trae evidentemente spunto dalle riflessioni heideggeriane. Va da sé

che in queste pagine intendiamo farne un uso meno impegnativo e, per così dire, libero dalle implica-zioni ontologiche che sono così rilevanti nelle analisi di Essere e tempo.

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di esperienza, anche se si connettono alle forme dell’esperire in vario

modo. Non trovo me nella mappa che osservo, anche se una mappa può

servire per “trovarsi” meglio nello spazio reale.

Possiamo tracciare allora un secondo schema:

Forme calde – egotetiche

quasi esperienze in senso lato

Descrizioni e assunzioni in senso lato

Forme fredde

Vi sono appunto forme fredde: vi sono eventi reali o possibili e vi sono

descrizioni e congetture che li riguardano. Posso supporre che domani ac-

cadranno determinate cose, ma l’evento che penso possa aver luogo è posto

nella sua obiettività: è questo evento che può accadere e il suo eventuale

concernere la mia persona è un fatto che può essere parte della mia conget-

tura, ma che non fa tutt’uno con la sua forma. Diversamente stanno le cose

per le forme calde: in questo caso, l’immaginazione si rivela necessaria-

mente legata alla soggettività, poiché ciò che immagino è posto come se

fosse il contenuto di una quasi esperienza che si dà come mia e che è quindi

orientata verso di me.

Si tratta di un punto su cui riflettere perché parlare di quasi esperienze

significa di fatto affermare che nel caso della visualizzazione e, più in ge-

nerale, degli atti immaginativi ha luogo una vera e propria scissione dell’io,

che assume una struttura duplice: da un lato vi è chi immagina e che, pro-

prio per questo, non appartiene alla scena immaginata, dall’altro vi è invece

la scena immaginata che, nel suo specifico orientamento deittico, postula

un ego immaginato, un io che vi si trova – nelle forme e nei modi che sono

dettati dall’immaginazione stessa.

Avremo modo di tornare su questi temi, ma le osservazioni che abbiamo

sin qui raccolto ci consentono tuttavia di formulare un’ipotesi di carattere

generale: sembra essere in linea di principio plausibile sostenere che chia-

miamo immaginazione in senso lato solo quelle forme di esperienza che da

un lato non valgono come criteri dell’esserci di qualcosa e che, dall’altro,

hanno la forma di quasi-esperienze e insieme implicano uno sdoppiamento

dell’io. All’io immaginante si affianca un io immaginato che è il luogo di

accessibilità dell’universo immaginativo e che, tuttavia, si dispone su un

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piano che è in linea di principio secondario rispetto al reale. Posso imma-

ginare il cortile del Filarete e porre così un ego finzionale che si rapporta

allo spazio visualizzato; per tacitare questo nuovo io è tuttavia sufficiente

desistere da quel gesto immaginativo, mentre non vi è modo di mettere a

tacere il mio io reale – almeno sin quando sono desto.

Abbiamo detto che questa scissione dell’io è una caratteristica necessaria

dei processi immaginativi, ma è opportuno rammentare che non è affatto

una condizione sufficiente. Proprio come nel caso delle varie forme

dell’immaginazione in senso ampio, anche il ricordo ci invita a disporci su

un duplice piano: vi è un io che vive nel presente e che si dispone sulla

scena reale, ma vi è insieme un io che appartiene al passato e rispetto a cui

si situano le vicende rammentate. Immaginare, tuttavia, non vuol dire ri-

cordare e se le teorie filosofiche che hanno cercato di cancellare o di ren-

dere inessenziale la differenza tra presentazione memorativa e immagina-

tiva vengono difficilmente a patti con la nostra consapevolezza linguistica

è per una ragione che ci è ormai nota: chiamiamo «immaginazione» solo

le forme calde di quasi esperienza di qualcosa che non pretendono di porsi

come un criterio della sua esistenza. Il ricordo, invece, ci offre un criterio

per affermare l’esistenza di qualcosa – un criterio che ha una sua evidenza

e che merita di essere ascoltato, anche se non è definitivo e se è comunque

subordinato al giudizio della percezione.

A partire di qui si può spiegare in che senso il mio assumere un certo

corso degli eventi sia diverso dall’immaginarlo: solo l’immaginazione e

non le assunzioni sono infatti forme di quasi esperienza e quindi solo l’im-

maginazione, ma non le assunzioni, implicano quello sdoppiamento dell’io

di cui abbiamo discusso sin qui. Vi è tuttavia una seconda differenza su cui

è opportuno riflettere e che è, di fatto, strettamente connessa con le consi-

derazioni che abbiamo sin qui proposto. Le assunzioni non sono forme di

quasi esperienza e quindi non ci coinvolgono. In fondo, se qualcuno si ri-

fiutasse di immaginare anche soltanto per un istante che sia giusto divorare

i bambini per risolvere il problema della povertà – come suggerisce di fare

Jonathan Swift in un suo breve scritto – potremmo forse reagire così: po-

tremmo chiedergli di rinunciare ad immaginare che così stiano le cose e

invitarlo ad assumere che questo sia un buon progetto. Le assunzioni non

costano nulla e in fondo per rifiutare a ragion veduta una tesi bisogna pur

sempre comprenderla nel suo contenuto effettivo e disporla a titolo di ipo-

tesi all’interno del sistema delle nostre credenze. Così, se tu mi dici che la

Terra è piatta io comprendo il senso di questa tua affermazione un po’ retrò

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perché so come dovrebbe essere il mondo se è vera e insieme perché riesco

a farmi un’idea di quali siano sono le credenze cui dovrei rinunciare per

poterla pensare vera. Ma se così stanno le cose, assumere per vera una certa

proposizione p significa in ultima istanza intenderla nel suo senso e com-

prenderla nel suo ruolo all’interno del sistema delle mie credenze, ma non

vuol dire affatto credere che sia vera o impegnarsi a sostenere che possa

integrarsi con ciò che ritengo giusto e valido. Le assunzioni non sembrano

implicare un coinvolgimento perché si limitano ad avanzare ipotesi, senza

per questo chiederci di disporci in un contesto finzionale in cui tali ipotesi

siano messe in scena e “vissute” nella loro presunta verità.

Di qui appunto il carattere non coinvolgente delle assunzioni, il loro po-

ter essere accolte senza dover pagare il prezzo di una loro condivisione, sia

pure soltanto fantasticata. Le assunzioni non ci costano nulla perché non ci

toccano: dobbiamo prendere atto di ciò che è contenuto in un’ipotesi, ma

non siamo costretti a prendere partito. L’immaginazione, invece, chiede di

pagare un biglietto: il nostro alter ego deve condividere un mondo che può

essere diverso dal nostro e pervaso da valori che facciamo talvolta fatica a

condividere11.

Vi è tuttavia un’ulteriore differenza che è opportuno mettere in luce an-

che se ci costringe ad una riflessione ulteriore. Le ipotesi, abbiamo osser-

vato, si riferiscono ad asserzioni come ad una modificazione possibile: si

assume qualcosa e la si assume appunto a titolo di ipotesi. Ma ciò è quanto

dire che assumere non vuol dire rapportarsi ad altro, ma modificare il ca-

rattere che spetta ad una proposizione che abbiamo formulato e pensato.

Insistere su questo punto è utile perché ci consente di comprendere la ra-

gione per la quale la modificazione che è chiamata in causa dalle assun-

zioni non è iterabile: data una proposizione, possiamo sempre aprire o

chiudere il circuito che le consente di avere una valenza assertiva, ma insi-

11 Questo termine deve essere preso nel suo significato più generale poiché la condivisione cui qui si

allude non implica il ritenere valido, ma il lasciarsi guidare da un certo insieme di regole che ci acco-

munano ai personaggi della finzione e che ci dispongono in un mondo di cui dobbiamo essere imma-

ginativamente parte. Così, il lettore dell’Iliade non deve necessariamente trovare giusta la mentalità guerriera degli eroi omerici, ma deve consentire che il suo alter ego fantasticato si lasci guidare

dall’universo di valori che permea quelle pagine. Si tratta di un compito che può diventare arduo, ma

il lettore sa che se vuole leggere quelle pagine e comprenderle nella loro pienezza fantastica non può schierarsi dalla parte di Tersite e deve ridere del suo corpo sgraziato. Un compito arduo che il testo

chiede oggi al nostro esercizio di un’immaginazione consapevole e che non può essere sostituito dal

gesto – che non costa sforzo alcuno – di assumere che vi sia un mondo in cui è lecito esigere il silenzio degli umili con l’autorità violenta di uno scettro brandito come un’arma.

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stere nel premere l’interruttore non ci consente di andare al di là dell’anti-

tesi tra due posizioni che si escludono reciprocamente. Potremmo forse

esprimerci così: l’espressione “assumo che p” può essere sempre ricon-

dotta a p, dove p è appunto un’assunzione posta come tale

Nel caso dell’immaginazione le cose mi sembra stiano diversamente e

questo proprio perché quando immagino qualcosa non mi limito a ruotare

un interruttore, modificando un’asserzione in un’ipotesi, ma dispongo me

(il mio alter ego immaginativo) sul terreno di una quasi esperienza che

dischiude per me un mondo. In questo mondo che l’immaginazione delinea

non vi è, tuttavia, l’io che esperisce e che, tra le altre cose, immagina; ne

segue che ogni immaginazione rimanda per sua essenza ad una prospettiva

esterna al suo contenuto: la prospettiva del soggetto reale che ascolta o che

crea il racconto, dichiarandosi insieme disposto ad immaginare. Ma ciò è

quanto dire che ogni atto immaginativo può divenire a sua volta oggetto di

un’immaginazione nuova che dispone il mondo immaginario e il soggetto

che lo finge all’interno di una nuova finzione, un po’ come talvolta accade

quando in un sogno sogniamo di sognare o in un ricordo ricordiamo di aver

ricordato. In altri termini: l’immaginazione non è una mera modificazione

che appartiene al carattere assertivo di una proposizione, ma è una famiglia

di atti intenzionali che ha il carattere della quasi esperienza e che è, proprio

per questo, apertamente iterabile, anche se si tratta di un’iterazione che è

sensata e percorribile solo nei suoi primi passi12.

4. Esperienza e coinvolgimento

Le considerazioni che abbiamo appena svolto ci hanno permesso di richia-

mare l’attenzione su un punto: l’immaginazione nelle sue varie declina-

zioni si caratterizza come una forma di quasi esperienza che mette in rela-

zione ciò che è immaginato con il soggetto che quasi esperisce. L’abbiamo

12 Le cose stanno così, io credo, e tuttavia basta disporsi sul terreno linguistico perché la chiarezza che

abbiamo raggiunto si dissipi nuovamente. In fondo non possiamo assumere che vi sia un mondo in cui

si assume che le cose stiano così e così? Non possiamo in altri termini assumere di assumere? Io credo

che non sia possibile a meno che non si intenda il verbo “assumere” come se fosse un sinonimo del verbo “immaginare”. Certo, se quando mi chiedi di assumere pretendi da me che io immagini me stesso

che avanza un’assunzione di un qualsiasi tipo, se cioè, mi chiedi di avere una quasi esperienza di me

che avanzo a titolo di ipotesi una certa proposizione, per vagliare quali per esempio possano essere le reazioni altrui, allora evidentemente ciò che si intende con “assumere” è divenuto identico a ciò che

intendiamo con “immaginare”. Non credo che la nostra sensibilità linguistica abbia qualcosa da obiet-

tare rispetto a questi possibili usi del verbo “assumere”, ma il nostro problema non è quello di fissare un uso per le nostre parole. Ci basta avere indicato la possibilità di una distinzione concettuale.

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già osservato: questo soggetto non è l’io che immagina, ma è esso stesso

parte dell’immaginazione ed è coinvolto nell’universo immaginativo nelle

forme e nei modi che l’immaginazione stessa determina. Il coinvolgimento

può essere esile e non andare al di là di una relazione quasi spaziale, come

accade quando mi rendo presente il cortile del Filarete, ma può assumere

un contenuto più ricco, come accade quando leggo un racconto o quando

gioco. Nell’uno e nell’altro caso il coinvolgimento assume una piega emo-

tiva rilevante e posso sentirmi ora commosso, ora spaventato da quello che

immagino. Un punto, tuttavia, deve essere rammentato: il coinvolgimento

è sempre determinato dalla natura del processo immaginativo. Posso sen-

tirmi coinvolto da una scena immaginativa come se la osservassi da un

luogo altro e inaccessibile, ma posso anche essere chiamato direttamente

in causa dalla vicenda immaginativa, come talvolta accade in certi spetta-

coli teatrali o in certi romanzi che si rivolgono esplicitamente la lettore.

Posso sentirmi contemporaneo agli eventi narrati, ma è anche possibile im-

maginare un coinvolgimento che si rapporta alla scena immaginata ponen-

dola in un lontano passato o in un futuro remoto, come accade in certe

opere di fantascienza. Posso essere vicino alla scena fantasticata o lontano

da essa, e lo spazio può veicolare una differenza del coinvolgimento emo-

tivo, come accade in molti quadri e in molte rappresentazioni cinematogra-

fiche. E ancora: posso immaginarmi coinvolto come spettatore o testimone,

ma anche nella forma di chi è reso partecipe di un evento che gli viene

narrato. Così, lo spettatore che assiste all'omicidio di Marion in Psycho non

vi partecipa come se fosse un testimone oculare – nel senso della scena

raffigurata vi è che nessuno l’abbia vista all’infuori dell’assassino e della

vittima – ma non per questo può fare a meno di rapportarsi visivamente

alla scena secondo un orientamento spaziale determinato egocentrica-

mente: l’assassino si avvicina per uccidere Marion e poi lascia la stanza

allontanandosi da chi guarda, e ogni gesto di Marion e di Norman ha un

orientamento che va al di là della dimensione contenutistica dell’evento e

allude anche alla prospettiva da cui è colto. Lo spettatore non è un testi-

mone, ma non può fare a meno di sentirsi coinvolto in una scena che è

orientata verso di lui: deve immaginare così quello che vede – come se

avvenisse qui, di fronte a lui, in uno spazio immaginativamente condiviso,

ed è per questo che basta un gesto perché il coinvolgimento muti di segno:

Marion, ferita a morte, cerca disperatamente un appiglio, ma la sua mano

che si protende nel vuoto per un attimo costringe lo spettatore a vestire i

panni del testimone che è rimasto nell’ombra, ma che ora viene chiamato

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ad assumere un ruolo e a rispondere ad una richiesta di aiuto. È solo un

attimo: il gesto rivela la sua vera intenzione e la richiesta di aiuto si perde

insieme alla forma di coinvolgimento che aveva evocato. Una modalità

complessa di coinvolgimento, che andrebbe ulteriormente descritta, ma

che è utile qui rammentare solo perché ci consente di ribadire che il coin-

volgimento immaginativo è tutt’altro che univoco e ha le forme dell’im-

maginazione che lo pone.

5. Immaginazione e intuizione

Forse le considerazioni che abbiamo proposto sin qui possono sembrarci

plausibili e tuttavia lasciano ancora aperto un problema che merita di essere

discusso. Sinora, infatti, non abbiamo detto proprio nulla del carattere in-

tuitivo dell’immaginazione e questa dimenticanza sembra tanto più grave

quanto più saldo sembra essere il legame tra ciò che chiamiamo in senso

lato immaginazione e la capacità di farsi immagini delle cose. Questo nesso

deve sussistere perché qualunque cosa sia l’immaginazione, deve in qual-

che modo dipendere dalle forme e dai modi in cui opera la nostra mente, e

sembra ragionevole sostenere che la capacità di crearsi immagini mentali

abbia una rilevante voce in capitolo quando si tratta di fingere qualcosa.

Verso una qualche valorizzazione di questo nesso ci spingono del resto

considerazioni di varia natura che sembrano ritrovare sul terreno descrit-

tivo gli indizi di ciò che sembra ragionevole supporre sul piano esplicativo:

innanzitutto la tesi secondo la quale l’immaginazione è la capacità di raf-

figurarsi ciò che è assente, ma anche le considerazioni che ci spingono a

pensare all’immaginazione come al terreno di incontro tra la determina-

tezza della percezione e l’astrattezza del pensiero. L’immaginazione è la

facoltà degli schematismi e per quanti dubbi si possano legare alle rifles-

sioni kantiane che vanno sotto questo titolo sarebbe un errore negare che

Kant abbia colto un problema importante: il pensiero, almeno nelle sue

forme elementari, è una procedura operativa che non può essere disgiunta

dall’immaginazione, dal suo concreto operare nella dimensione intuitiva,

per piegare la concretezza del dato al ruolo che esso deve assumere nelle

operazioni intellettuali in cui entra far parte. L’immaginazione è una fa-

coltà intuitiva – ma allora: possiamo davvero “dimenticarci” delle imma-

gini mentali e come pensare di venire a capo del concetto di immaginazione

senza disporsi su questo terreno?

Non possiamo dimenticarcene, ma è necessario procedere con calma per-

ché nella parola “intuizione” si intrecciano molti fili che, io credo, debbono

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essere tenuti ben distinti e che, almeno da un punto di vista descrittivo, non

possono essere stretti insieme nell’unico nodo delle immagini mentali.

Può senz’altro darsi che l’immaginazione dipenda dalla capacità di pro-

durre immagini mentali, ma il constatare che l’immaginazione si avvale di

continuo di schemi mentali non significa ancora avere colto una ragione

che ci consenta di sostenere che l’immaginazione sia una facoltà intuitiva

perché si muove sul terreno delle immagini, perché non soltanto implica,

ma è nel suo senso una facoltà che vive di raffigurazioni mentali.

Un esempio può aiutarci a chiarire il problema. Un tronco su un prato

diviene nel gioco un cavallo su cui galoppare; in questa possibilità vi è

senz’altro un insieme di connotazioni intuitive: su un tronco si può stare a

cavalcioni perché lo si può stringere tra le ginocchia ed è facile pensarlo

come un animale che corre in una direzione determinata, perché la sua

forma, così chiaramente orientata lungo un unico asse, ce lo consente. Non

solo: tutto questo è possibile – lo abbiamo già osservato – solo perché il

bambino possiede un insieme di schemi mentali e motorii che rimandano

alla prassi che deve essere immaginativamente inscenata. L’immagina-

zione presuppone un procedimento analogico: il bambino può cavalcare

quel tronco come se fosse un cavallo solo perché possiede gli schemi mo-

torii che rendono possibile inscenare quel comportamento. Qui l’immagi-

nazione è senz’altro intuitiva, ma questo non significa che gli schemi men-

tali che rendono possibile un simile gioco siano per questo presenti come

un contenuto tra gli altri nell’esperienza ludica. Il bambino che cavalca un

tronco non vede con gli occhi della mente un cavallo – e non le vede natu-

ralmente nemmeno con gli occhi reali. Non vede un cavallo, né si raffigura

un cavallo: scopre in un tronco una possibilità nuova: scopre che il tronco

può essere utilizzato così ed è proprio quest’uso a rendere intuitivamente

presenti una molteplicità di caratteristiche inattese in un semplice pezzo di

legno. Il bambino vede quello che vediamo noi che lo guardiamo giocare

e ha in mente quello che abbiamo in mente anche noi che assistiamo al suo

gioco, ma la sua prassi immaginativa (che non si perde nella norma nel

richiamare immagini di cavalli o di cavalcate) rende intuitive una molte-

plicità di cose: il tronco assume una direzione e guarda in avanti e assume

per questo un capo, una schiena e una coda, mentre la sua corteccia assume

una sensibilità immaginaria perché è su di essa che il bambino agisce per

lanciarsi al galoppo. Sul prato resta un tronco e non vi sono nella mente

immagini di cavalli che vengano passo dopo passo scrutate: il bambino

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vede quello che vediamo noi, ma la sua prassi consente di applicare imma-

ginativamente un concetto e di attuare una serie di riconoscimenti imma-

ginativi: se il bambino si mette a cavalcioni del tronco e raffigura con i suoi

gesti e i suoi movimenti l’atto del cavalcare, allora il tronco è un cavallo e

quella è la testa, quest’altra la schiena, e così via. Nel gioco, il tronco di-

venta un cavallo al galoppo, ma lo diviene all’interno di una prassi che

rende visibile, perché imita, un gesto che, a sua volta, ci consente di tentare

un riconoscimento che ne motiva immaginativamente altri. Li motiva im-

maginativamente e intuitivamente perché anche se continuiamo a vedere

un tronco, impariamo dai gesti e dai comportamenti del bambino come si

debba applicare la regola del gioco, senza dover fare riferimento ad una

spiegazione effettiva. La prassi mostra da sé come dobbiamo fare: per ca-

pire che cosa è nel gioco quel tronco non dobbiamo ragionare: dobbiamo

solo cercare di riconoscere ciò che i gesti infantili mimano. Non abbiamo

bisogno di pensare, ma solo di immaginare coerentemente con quanto si

raffigura davanti ai nostri occhi. Ma ciò è quanto dire che l’immaginazione

è in questo caso intuitiva solo perché rende manifesto un uso che, a sua

volta, ci indica intuitivamente come dobbiamo immaginare l’oggetto di cui

ci si avvale.

Vi è una seconda ragione per la quale credo si debba senz’altro affermare

che l’immaginazione è una facoltà intuitiva: l’immaginazione è una forma

di quasi esperienza che orienta l’universo immaginativo rispetto ad un io

finzionale, proprio come la percezione dispiega il suo mondo rispetto all’io

reale. Così, se immagino un cammino che si snoda tra salite e discese e che

ora piega a destra e ora a sinistra, queste parole assumono un senso perché

si dispiegano intuitivamente rispetto all’io finzionale che può intenderle

alla luce di un riferimento deittico. Non solo. Immaginare oggetti significa

anche rapportarli implicitamente ad un’unità di misura che si radica nel

nostro corpo e che determina il senso intuitivo di quelle grandezze, ed un

simile discorso vale evidentemente per ogni determinazione degli oggetti

immaginati che ha sempre una piega intuitiva perché si modella non sulla

dimensione di un’astratta obiettività, ma nelle forme di una concreta inte-

razione esperienziale. L’immaginazione è intuitiva, ma questo ancora una

volta non significa che ogni immaginazione consti di immagini mentali, né

che sia possibile venire a capo delle distinzioni concettuali che è necessario

tracciare alludendo alla presenza di immagini che accompagnano la prassi

immaginativa.

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Di qui, credo, la possibilità di trarre la conclusione cui queste considera-

zioni tendono. Sottolineare il carattere intuitivo dell’immaginazione signi-

fica molte cose, ma non vuol dire affatto affermare che l’essenza dei pro-

cessi immaginativi consista in un qualche analogon della sensibilità, in un

contenuto intuitivo di natura peculiare che attribuirebbe una sorta di pie-

nezza intuitiva agli atti immaginativi. Se quando si parla di intuitività si

intende qualcosa di simile alla ricchezza di connotazioni sensibili o quasi

sensibili, allora è il caso di osservare che l’intuitività ha gradi e li ha tanto

nella percezione quanto nell’immaginazione o nel ricordo. Posso ricordare

in modo intuitivo i viottoli mille volte percorsi di una città che conosco

bene: posso avere vivida di fronte alla mente l’immagine delle case, le pie-

tre sconnesse del selciato, il succedersi delle svolte e degli slarghi e posso

quasi avvertire l’odore di umidità che emana da quelle pietre, ma non sa-

rebbe meno un ricordo se semplicemente dicessi di ricordare quelle case e

quei viottoli e quell’odore denso di salsedine e se nel mio dire così non vi

fosse altro che una piena comprensione del significato di quelle parole. La

natura del ricordo non riposa nella natura intuitiva delle immagini che lo

accompagnano e questo per la buona ragione che posso ricordarmi di qual-

cosa senza essere espressamente consapevole di una qualsiasi immagine.

Del resto, anche nel caso della percezione l’intuitività così intesa ha

gradi. Vedo la mia mano di fronte a me, ma non posso avere sensibilmente

presente il dorso e il palmo: vedo la mano, ma solo un aspetto si dispiega

sensibilmente allo sguardo. Così, vedo che sul tavolo ci sono dei libri, an-

che se non ho sensibilmente presente quella parte del tavolo che mi con-

sente di dire che i libri poggiano su di esso. La pienezza sensibile ha gradi,

ma non sembra essere questo il criterio che ci consente di parlare di una

percezione. Non vedo superfici, ma oggetti e li vedo su uno sfondo, anche

se per dare a questa paroletta il significato percettivo che le compete devo

riconoscere che la percezione visiva eccede necessariamente l’ambito di

ciò che è sensibilmente dato.

L’intuitività ha gradi e forse, nel caso dell’immaginazione, non supera

mai una certa soglia: le immagini mentali che accompagnano talvolta il

nostro immaginare non sembrano avere la stessa chiarezza che compete

alle percezioni. Ma non è questo il punto: il punto è che, ancora una volta,

non sembra affatto necessario sostenere che tali immagini debbano effetti-

vamente sussistere per dire che abbiamo a che fare con un processo imma-

ginativo. «Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò

trasformato in un enorme insetto» – è così che si apre un racconto famoso

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di Kafka; questo racconto ci propone un compito immaginativo ben pre-

ciso: dobbiamo pensare ad un uomo che ha subito nottetempo una meta-

morfosi inquietante e che ora si risveglia nel suo letto, trasformato in un

insetto di cui passo dopo passo scopre la natura, in un processo che è in-

sieme la scoperta del suo nuovo corpo – la schiena arcuata e rigida, le molte

zampette esili, il ventre convesso, bruno, diviso da solchi profondi. Dob-

biamo immaginare tutto questo, ma per farlo non siamo affatto costretti a

delineare nella mente una scena che con tutta probabilità ci stupirebbe se

soltanto ci fosse data la possibilità di osservarla. Potrebbe stupirci, ma po-

trebbe anche, semplicemente, infastidirci perché l’avere davanti agli occhi

quella scena non è parte del compito che l’immaginazione ci propone e

anzi finirebbe con il rimuovere proprio ciò che determina la natura di ogni

metamorfosi: il suo essere un nodo inestricabile di proprietà contradditto-

rie. Gregor è un enorme insetto ma è anche e soprattutto un commesso

viaggiatore che si sveglia in ritardo, Dafne è una pianta di alloro, ma è

anche e soprattutto una giovane donna, ed è per questo che chi ha cercato

di rendere visibile quella metamorfosi antica si è visto costretto a raffigu-

rare solo in momento in cui la metamorfosi sta avendo luogo – quel mo-

mento su cui invece significativamente Kafka tace.

L’immaginazione è intuitiva e si fonda sulla nostra capacità di produrre

immagini e schemi mentali, ma non per questo consta di immagini – questa

è la conclusione cui mi sembra si possa giungere. Sottolinearlo è impor-

tante perché ci consente di cogliere come dietro al problema dell’intuitività

dell’immaginazione se ne nasconda un altro su cui dovremo tornare in se-

guito, ma su cui è già forse opportuno spendere qualche parola. Quale sia

questo problema è presto detto: l’immaginazione è un titolo generale sotto

cui si raccolgono molte cose diverse, ma per cercare di venirne a capo è

necessario distinguere con chiarezza ciò che l’immaginazione è come fa-

coltà della nostra mente da ciò che l’immaginazione è diventata nella no-

stra cultura. Sarebbe sciocco pensare che gli usi e le forme dell’immagina-

zione – la rete dei giochi linguistici che circoscrive il senso che attribuiamo

a questa parola – non abbia come sua condizione di possibilità il fatto che

la nostra mente è capace di fare certe cose. Possiamo esercitare le molte-

plici forme dell’immaginazione perché siamo capaci di produrre immagini

e schemi mentali: è relativamente ovvio che le cose stiano così. Sarebbe

tuttavia meschino pensare che l’immaginazione come complessa trama di

senso si risolva in una qualche facoltà della mente. L’immaginazione è nata

per ragione biologiche: in un animale come l’uomo è utile una mente che

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sappia rendere presente ciò che è assente. L’immaginazione è nata per que-

sto, ma si è affinata nel suo senso: abbiamo imparato a disporla in una serie

di giochi linguistici che hanno definito il suo senso al di là delle sue fun-

zioni biologiche. L’arte del raccontare e della narrazione fantastica presup-

pone la facoltà dell’immaginazione, ma sarebbe sbagliato cercare un fon-

damento biologico del narrare.

Per quanto possa sembrare paradossale, alla luce di simili tesi non vi è –

per quel che mi sembra di poter dire – una volontà effettiva di comprendere

l’uomo sul fondamento della dinamica biologico-evolutiva. Una prospet-

tiva evoluzionistica dovrebbe al contrario farci innanzitutto pensare al fatto

che i primati, che sono così vicini a noi per quel che concerne le capacità

intellettuali, sono ciò nonostante lontani dall’insieme delle pratiche che ca-

ratterizzano la nostra cultura. In realtà, il giusto richiamo a considerazioni

di carattere biologico nasconde una pretesa ingiustificata: la tesi secondo

la quale sarebbe possibile comprendere per intero le forme in cui si articola

la nostra forma umana di vita in un qualche modulo che si possa presup-

porre e che ci consenta di anticipare una volta per tutte che cosa sia l’im-

maginazione. Ma io non credo che questo sia vero e ritengo che ci sia una

storia dell’immaginazione, un suo procedere sul fondamento delle nostre

capacità biologicamente determinate. Così, quando dal gioco e dal rito è

sorto il teatro (ed è accaduto così da poco, così come da poco è nata la

finzione narrativa) non si è manifestata una possibilità che era già racchiusa

nelle sue forme e nella sua natura in una facoltà della mente, ma è sorta

una nuova forma dell’immaginazione e insieme ad essa un significato

nuovo che ha aperto possibilità nuove, così come nuove – anche se chiara-

mente connesse con le forme tradizionali dell’immaginare – sono le forme

immaginative che sono nate insieme al cinema o ai videogiochi: ciascuna

di esse sollecita in modo diverso le nostre capacità e ci costringe a nuove

forme dell’immaginazione. La pretesa di ancorare l’immaginazione ad una

facoltà che la conterrebbe e la giustificherebbe in toto non è innanzitutto

un nuovo capitolo di una filosofia naturalistica, né tanto meno un tentativo

di disporsi davvero sul terreno dell’indagine scientifica: è una forma di es-

senzialismo mascherato che ha, per di più, il difetto di cercare la sua giu-

stificazione non nel materiale che pretende di dominare, ma nelle analisi

psicologico-cognitive.

Nessuno prenderebbe sul serio il tentativo di definire che cosa sia la na-

tura dei numeri e quali le loro forme a partire da una qualche riflessione

sulla natura delle facoltà che ci consentono di contare e che sicuramente ci

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differenziano da qualche animale, anche se non necessariamente da tutti.

Abbiamo imparato a contare perché potevamo farlo, ma non avrebbe senso

cercare in quella capacità la natura delle leggi dell’aritmetica, il concetto

di numero reale, la natura dei numeri trascendenti o la matematica dei tran-

sfiniti. Nessuno lo farebbe. E credo che sia opportuno non farlo nemmeno

quando si parla delle forme dell’immaginazione.

5. Uno schema riassuntivo

Nelle nostre considerazioni sull’immaginazione ci siamo lasciati guidare

da un’idea che potremmo riassumere così: ci sono molti e diversi usi del

termine “immaginazione” e vi sono ragioni che li giustificano. Le classifi-

cazioni, insomma, non sono vere in assoluto, ma sono un tentativo di fare

ordine cui se ne affiancano altri possibili. Sottolineare ora un significato

ampio della parola immaginazione, ora un significato più ristretto può in

altri termini creare qualche perplessità, ma è in fondo utile perché ci invita

a mostrare la rete di connessioni e di differenze entro cui si muovono i

nostri concetti. Se tuttavia lasciamo da canto il problema di giustificare gli

usi linguistici e cerchiamo di far ordine nel nostro vocabolario concettuale

ci accorgiamo che è possibile individuare una serie di caratteristiche gene-

rali che ci consentono di fissare lo spazio del concetto di immaginazione e

di articolare al suo interno le sue differenti forme. Quali siano questi tratti

generali è presto detto: sono le diverse antitesi su cui ci siamo soffermati

nelle nostre analisi e che ci hanno consentito di distinguere le forme della

presentificazione da quelle in cui l’oggetto è dato direttamente, gli atti caldi

da quelli freddi, le forme posizionali da quelle che posizionali non sono.

Queste tre antitesi individuano tre possibili direzioni di ordinamento delle

forme intenzionali e disegnano così gli assi che dischiudono lo spazio con-

cettuale entro il quale si situano percezioni, ricordi e naturalmente anche

l’immaginazione nelle sue diverse forme. Di qui un terzo schema su cui

soffermarsi.

Guardando questo schema possiamo dire, per esempio che la percezione

è un atto immediatamente offerente, di natura posizionale e che ha il carat-

tere di un’esperienza – che è una forma calda. Il ricordo condivide con la

percezione calore e posizionalità, ma è un atto meramente presentificante.

E l’immaginazione? In questo caso le forme dell’immaginazione ci ap-

paiono nel loro situarsi in quadranti differenti dello spazio che abbiamo

delineato. L’immaginazione in senso pregnante crea i propri oggetti e

quindi è un atto immediatamente offerente che ha il carattere di una quasi

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esperienza – è una forma calda, dunque. Non è tuttavia un atto posizionale

e questo la situa in un quadrante interamente diverso da quello che la per-

cezione occupa. Quanto poi alla distinzione tra esperienze e quasi espe-

rienze non è difficile situarla: un’esperienza è una forma calda immediata-

mente offerente e posizionale, laddove le forme di quasi-esperienza ab-

bracciano le rimanenti forme calde.

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CAPITOLO SECONDO

L’IMMAGINAZIONE ASSOLUTA: UNA POSSIBILITÀ NUOVA

1. Una genealogia dell’immaginazione?

Le considerazioni che abbiamo condotto sin qui avevano un obiettivo di

carattere generale: volevano tracciare un ordine possibile tra i molti signi-

ficati della parola “immaginazione”, e non certo per far luce su una serie

di usi linguistici, ma per comprendere meglio la grammatica della nostra

esperienza e il posto che in essa spetta all’immaginazione nelle sue diverse

forme. Nel tracciare la mappa del concetto di immaginazione ci siamo fin

da principio imbattuti in una proprietà rilevante: le forme di quel concetto

potevano essere ordinate secondo il criterio della loro crescente diversità

dalla percezione e dal ricordo, un fatto questo che ha ci spinto a parlare

dapprima di immaginazione in senso lato e poi di immaginazione in senso

pregnante. Ora, avvalersi di questo criterio significa mostrare che di un

concetto specifico per l’immaginazione vi è un bisogno crescente: quando

immaginiamo facciamo molte diverse cose che occupano ciascuna un po-

sto nella grammatica della nostra esperienza, ma ciascuna di queste cose fa

un passo nella direzione che ci allontana dalla realtà. E tuttavia qualcosa di

realmente nuovo accade soltanto quando ci disponiamo sul terreno dell’im-

maginazione in senso pregnante e lasciamo che prendano forma finzioni

che creano i loro oggetti e che hanno preso definitivamente commiato da

questo nostro mondo. Se la percezione ci ancora agli ingranaggi del

mondo, il ricordo e ancor più l’immaginazione sono una sorta di frizione

che ci permette di cambiare il rapporto con la realtà stessa e che infine

sgancia i movimenti del motore dalle ruote dell’esperienza. In questo senso

l’immaginazione narrativa e ludica si rivelano davvero come l’esito di un

cammino che ci consente di abbandonare pro-tempore il nostro coinvolgi-

mento nel mondo reale, per lasciarci catturare da un universo meramente

finzionale.

Abbiamo imparato a fare così, a disporre i nostri giochi e i nostri racconti

in uno spazio che non appartiene più al contesto del nostro mondo, e che è

divenuto autonomo, anche se non per questo incapace di interpellarci. Ma

appunto: abbiamo imparato a farlo, e ciò che ora appartiene alle possibilità

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più proprie dell’immaginazione umana forse non è affatto di per sé conte-

nuto nel repertorio delle facoltà. Sappiamo immaginare e sappiamo rac-

contare favole perché siamo fatti così, ma non è affatto necessario pensare

che vi sia una facoltà specifica dell’immaginazione che abbia, nelle sue

corde, la capacità di fingere oggetti interamente nuovi, che non pretendono

di esistere, né di appartenere al contesto del mondo. Sappiamo contare per-

ché il nostro cervello ce lo consente, ma sarebbe curioso pensare che si

possa ricondurre la matematica nel suo complesso ad una qualche facoltà

che, per così dire, l’anticipi nella sua possibilità. Ci sono molte diavolerie

nella matematica che non appartengono certo alla nostra natura, e lo stesso

potrebbe valere anche per le forme dell’immaginazione, che si radicano

nelle nostre facoltà, ma non sono racchiuse in un angolo della nostra mente.

Così, prima di riflettere un poco sulla natura dell’immaginazione in senso

pregnante, è forse opportuno riflettere su ciò che forse ci ha condotto in

prossimità di essa. Dobbiamo, in altri termini, discutere di quelle forme

intermedie che ci hanno condotto ad ampliare lo spazio logico dell’imma-

ginazione e che, a partire dalla nostra capacità di farci immagini delle cose

e di ricordarle, ci consentono di fare cose nuove, senza per questo essere

poi molto diversi per natura da quelle grandi scimmie con le quali condi-

vidiamo, in un tempo non poi così remoto, un’origine comune. Si potrebbe

dire, in un certo senso, che dobbiamo tracciare un’ipotetica genealogia

dell’immaginazione nelle sue forme più proprie, ma a questo termine – così

carico di risonanze filosofiche e così impegnativo – vorrei dare un signifi-

cato minimale. In fondo, il nostro obiettivo è solo questo: dire che la sinossi

delle forme immaginative che abbiamo tracciato potrebbe essere letta an-

che così – come l’indicazione di una genesi ideale. Forse abbiamo impa-

rato a raccontare e a giocare così come giochiamo e se questo è accaduto,

è ragionevole pensare che sia accaduto a partire da un insieme di forme di

vita più semplici di quella che ora ci accomuna, da forme della prassi che

si radicano in un modo più o meno diretto in ciò che è nelle corde delle

nostre facoltà.

Abbiamo imparato a raccontare, ma alla narrazione come prassi che ci si

dispone sul terreno finzionale si deve anteporre, in linea di principio, la

narrazione dei ricordi e quindi degli eventi che ci sono accaduti. Sappiamo

richiamare alla mente ricordi episodici e questa capacità accomuna la no-

stra memoria a quella di molti animali: ricordarsi di ciò che è accaduto è

una condizione importante dell’apprendimento e non dobbiamo quindi stu-

pirci di ricordare quello che anche alcuni animali sanno rammentare.

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Qualcosa di nuovo tuttavia accade quando i ricordi diventano racconto e

si fa avanti la prassi umana della loro condivisione. La narrazione dei ri-

cordi e degli eventi accaduti, la loro ripetizione nella forma di un racconto

che fissa l’evento narrato in un calco linguistico rappresentano il primo

passo verso l’acquisizione dell’atteggiamento narrativo e rispondono al-

meno in parte alle stesse esigenze: disporre gli eventi secondo un ordine

dominabile, scoprirne la sensatezza e insieme acquisire rispetto ad essi una

distanza che consente di riappropriarsi di ciò che è accaduto, senza lasciarsi

travolgere dalla sua carica emotiva. È ciò che accade a Ulisse quando il

racconto di Demodoco lo commuove dapprima e lo costringe poi a raccon-

tare il suo passato, a rivelare il suo nome e insieme a farsi una ragione di

quel che è accaduto, che può così finalmente tradursi in una vicenda con-

clusa, aprendo così la strada del ritorno.

La narrazione dei ricordi anticipa la narrazione finzionale, e non è un

caso che sia così: in fondo, il ricordo ha molti tratti che anticipano la strut-

tura della narrazione. Raccontare qualcosa – un evento reale – significa

innanzitutto questo: ripetere a qualcuno che cosa è accaduto. Si tratta di un

gesto semplice che ha tuttavia una sua prima rilevante conseguenza. Ogni

evento è concatenato agli altri in una trama che vincola ogni istante al mo-

mento che lo precede e a quello che segue: gli eventi appartengano alla

catena del tempo, e nel tempo gli istanti si dispongono in una serie che ad

ogni punto affianca un antecedente e un successore. La ripetizione recide

questa concatenazione di istanti e segna nel tempo un inizio e una fine –

l’inizio e la fine di quell’evento che viene nuovamente messo in scena nella

volontaria ripetizione della narrazione del ricordo.

Certo, avere un inizio e una fine nel tempo è una proprietà che spetta ad

ogni evento: le persone nascono e muoiono, proprio come inizia e finisce

un gesto o un’azione, e tuttavia l’istante iniziale e finale di un accadimento

non godono di uno status peculiare, poiché la loro natura di punti critici è

tale solo rispetto a ciò che delimitano, non rispetto alla serie temporale cui

appartengono e all’interno della quale occupano una posizione tra le altre.

Qui posizioni assolute non possono esserci: l’istante in cui si inaugura un

nuovo accadimento è anche sempre il limite ultimo di un passato che sva-

nisce, proprio come l’attimo in cui si chiuderà l’evento di cui discorriamo

è anche sempre l’inizio di qualcosa di nuovo che è indistricabilmente in-

trecciato con il vecchio. Non si può insomma parlare di un inizio e di una

fine assoluti e non si può parlarne perché ogni accadimento appartiene alla

concatenazione aperta degli eventi e del loro succedersi nell’unicità del

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tempo.

Diversamente stanno le cose quando si fa avanti il fenomeno della ripe-

tizione nel ricordo. Nel continuum del flusso temporale la ripetizione rita-

glia infatti un segmento che nel suo essere ripetuto guadagna una sostan-

ziale indipendenza dalla serie cui pure apparteneva13. La ripetizione è una

forbice affilata: recide il duplice nesso che lega un segmento temporale ad

un prima e ad un poi e, liberandolo dalla sua appartenenza al continuum

della temporalità, gli attribuisce una peculiare chiusura. Prima e dopo il

colpo di forbice della ripetizione non vi è nulla di rilevante poiché la ripe-

tizione detta una trama di attese che si soddisfano interamente là dove

l’evento ripetuto si chiude, perché questa era la meta cui l’intero processo

tendeva.

Le ragioni di questo fatto non sono difficili da scorgere: ripetere un

evento significa spostarlo nel tempo e proporre quindi, come sue proprietà

caratteristiche, solo le proprietà della sua forma, e cioè quelle proprietà che

concernono la sua struttura, non la sua individualità. Ne segue che le fasi

in cui si scandisce l’unità di decorso dell’evento ripetuto non sono contras-

segnate dalla loro appartenenza all’unità del tempo del mondo, ma dalla

posizione che ciascuna di esse occupa rispetto ai punti salienti (l’inizio, la

fine, il climax) che sono propri della struttura formale e ripetibile

dell’evento stesso.

La ripetizione, tuttavia, non si limita a dare agli eventi un inizio ed una

fine assoluti, ma li svincola almeno in parte dai rapporti di dipendenza da-

gli altri eventi del mondo. Ogni azione è preceduta da accadimenti che la

motivano ed è a sua volta causa di altre azioni, che possono essere piena-

mente comprese nel loro senso solo se vengono colte sullo sfondo della

concatenazione reale degli eventi. Anche in questo caso la ripetizione agi-

sce come un rasoio che scioglie, rescindendoli, i nodi che stringono

l’evento alla realtà. E ciò è quanto dire: il gesto o l’azione che vengono

rammentati non possono guadagnare la loro sensatezza nell’instaurare un

rapporto con ciò che li precede o li segue, ma debbono piuttosto porsi come

unità relativamente chiuse rispetto all’esterno, come forme relativamente

indipendenti che debbono trovare in se stesse la loro comprensibilità e la

loro autonoma ragion d’essere. Nel ricordo, le scene che si legano

nell’unità di un evento ci appaiono alla luce del loro convergere verso una

meta: al succedersi degli eventi che rendono possibile anticipare almeno in

13 Che alla ripetizione spetti questa funzione lo si coglie bene sul terreno musicale: un tema ripetuto è

un’individualità autonoma che inizia e finisce nel continuum sonoro.

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parte quel che accadrà, si sostituisce un processo retrogrado che guarda al

dipanarsi degli eventi dal punto di osservazione del loro esito. La ripeti-

zione ripete una forma e la rende concretamente presente e, insieme ad

essa, ancora il processo ad una regola che lo rende anticipabile proprio

perché il corso degli eventi è ancorato all’esito cui conducono. La falsa

necessità del ricordo ha qui la sua origine: quando ci disponiamo nella pro-

spettiva della meta i passi che hanno condotto ad essa ci appaiono in qual-

che modo necessari. È andata così, e questo sapere che è inseparabile dalla

natura del ricordo guida il corso degli eventi rammemorati e li strappa dal

pensiero della loro alterabilità. Le cose accadono nella vita e sono, nella

norma, fatti casuali che – come si dice – non conducono a nulla. Ho sentito

il treno che arrivava e mi sono precipitato giù dalle scale della metropoli-

tana e sono riuscito a salire; ma può accadere anche che abbia fatto i gradini

di corsa e abbia visto le porte chiudermisi in faccia – ma sappiamo bene

che in realtà non cambia proprio nulla: prenderemo il prossimo treno o ar-

riveremo a casa con due minuti di anticipo. Basta tuttavia disporsi nella

prospettiva dell’epilogo perché un evento insignificante si carichi di una

responsabilità inattesa: ogni istante diventa un bivio che conduce alla meta

e se pensi che a quella meta si dovesse giungere, ecco che ogni accadi-

mento, anche il più banale, sembra decidere delle sorti del mondo. La vita

di ciascuno di noi è fatta così: un incrocio di eventi che hanno cause na-

scoste, ma che ci sembrano del tutto casuali. Tutto questo lo sappiamo

bene, ma basta leggere questa successione di casi alla luce della prospettiva

retrograda del ricordo perché il caso ci appaia alla luce di un dover essere,

perché l’accidentalità di un percorso assuma le forme di una casualità ine-

vitabile: ciò che soltanto è accaduto diviene, se lo guardiamo nella prospet-

tiva di ciò che si è realizzato, il disegnarsi di un cammino impervio in cui

ogni possibilità è stata decisa, in cui ogni gesto è stato compiuto nell’unico

modo che poteva condurre alla meta. La morale del ricordo è che le cose

sono andate così e che dovevano andare così, non perché ogni altra solu-

zione fosse logicamente preclusa, ma perché le alternative erano scritte

tutte con l’inchiostro tenue della possibilità: nel ricordo e nella sua narra-

zione ci sembra che il passato assuma la forma del destino.

Non è un caso allora se la narrazione ha trovato nel concetto di destino

la sua applicazione più immediata alla vita. Edipo poteva restare a Corinto,

ma si reca a Tebe; Laio poteva lasciargli il passo, ma si comporta in modo

arrogante; la Sfinge poteva avere ragione di Edipo, ma si lascia sconfiggere

proprio come il servo che lo riconosce poteva parlare fin da principio e

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allontanare con una parola un infinito dolore: nulla di questo accade e una

serie infinita di casi conduce la tragedia al suo epilogo. Non è così, tuttavia,

che quella tragedia ci parla: come lettori della storia tragica di Edipo non

vediamo il caso affiancarsi al caso, ma – disposti come siamo nella pro-

spettiva della fine – assistiamo all’imporsi di un destino: proprio perché le

cose sono andate così, Edipo doveva abbandonare la sua Corinto e doveva

realizzare in ogni sua scelta il dettato di un destino che gli si impone. Il

destino, del resto, non è altro che la successione dei casi, osservata dalla

prospettiva del porto cui la navigazione è infine approdata. Ed il destino è

in sé una forma immediata di narratività: il destino è un modo immaginoso

di guardare alla propria vita, per scoprire (o meglio: per credere di scoprire)

che c’era un senso – sia pure tragico – che la guidava. Ma se il destino è

un modo immaginoso di guardare alla vita è nel ricordo che il senso di

quest’immaginazione prende forma. Il ricordo ritrova nel passato il mio

destino e getta le basi di un’illusione da cui è difficile liberarsi: il credere

che vi sia un destino che ci appartiene, un senso personale nella trama, in

larga parte casuale, degli eventi in cui si scandisce il nostro tempo di vita.

Di qui anche il carattere consolatorio del ricordo, il suo mettermi in pace

con il passato: è andata così e non poteva che andare così. La chiusura del

ricordo e il suo sguardo retrogrado determinano anche la forma specifica

della distanza che separa l’io che ricorda dall’io che appartiene al ricordo

– una distanza che è insieme un ottundersi del vincolo di responsabilità che

ci lega a ciò che ricordiamo. Nella narrazione del ricordo, il passato si

chiude e ci si mostra nella sua duplice tendenziale inalterabilità: non pos-

siamo più farci niente e anche se in linea di principio avremmo potuto fare

altrimenti, il ricordo illumina soltanto la strada che ci ha condotto alla

meta e ci spinge a pensare che i nostri passi dovessero davvero seguire le

orme che hanno lasciato. La morale del ricordo è una morale almeno in

parte assolutoria: ci ripete che è andata così e nel suo ricalcare la strada

che ha condotto alla meta ci convince che ci fosse un corso degli eventi

rende così più lieve il peso della responsabilità. In questo attutirsi della

responsabilità prende forma la distanza del ricordo, il suo presentarci un

mondo che non è soltanto temporalmente chiuso, ma che è anche in qual-

che misura assolto, almeno per quel che riguarda il coinvolgimento di chi

racconta gli eventi che gli sono accaduti. Di qui la piega ironica che talvolta

attraversa la narrazione dei ricordi e che testimonia della distanza tra l’io

responsabile del suo presente e l’alter ego che appartiene al ricordo e di cui

non possiamo più condividere sino in fondo le preoccupazioni.

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Anche in questo i ricordi sono davvero simili alle finzioni narrative e ci

consentono di anticiparle, ma sarebbe un errore non cogliere che nelle fin-

zioni narrative accade qualcosa di nuovo. I ricordi ripetono un passato e lo

rendono in parte indipendente dal corso degli eventi, ma questo non toglie

che il presente getti egualmente la sua ombra su quello che è stato, mutan-

done il segno. Il ricordo non rescinde per intero i lacci che lo stringono al

presente, perché il passato di cui ci ricordiamo è pur sempre per sua natura

il passato di un presente e il presente non ha necessariamente reciso il nodo

che lo stringe al tempo che l’ha generato. Certi ricordi non si risolvono

perché il punto da cui osservano il passato ha un legame troppo vivo von

il presente e la vicenda che in essi si dipana è ancora aperta: il ricordo non

è sciolto dal presente e non può esserlo mai interamente perché è dal pre-

sente che ricordiamo. Ciò che ricordiamo appartiene al passato – ma quel

passato ci appartiene: il ricordo prepara e anticipa la finzione narrativa, ma

non la sostituisce.

Un discorso analogo vale anche per le fantasticherie: anche quest’arte da

perdigiorno ha un suo ruolo nel guidarci verso il terreno dell’immagina-

zione in senso pregnante. Che cosa siano le fantasticherie ci sembra di sa-

perlo bene, anche perché – per quanta fatica si faccia ad ammetterlo – pas-

siamo buona parte del nostro tempo lasciando che i nostri pensieri vaghino

sulle loro orme. Le fantasticherie sono piacevoli e ci fanno compagnia,

senza pretendere per sé tutta la nostra attenzione: fantastichiamo mentre

passeggiamo, quando siamo nel vagone della metropolitana, quando fac-

ciamo lavoretti poco impegnativi e qualche volta anche quando dovremmo

ascoltare una persona noiosa che ci riempie la testa di parole che non ci

interessano. Passiamo una parte considerevole della nostra giornata im-

mersi nelle nostre fantasticherie, e tuttavia non è facile far luce sulla gram-

matica di questo concetto. Un tratto ci colpisce: le fantasticherie sembrano

condividere con i sogni il loro sottrarsi alla dimensione delle decisioni e

della scelta. Qualche volta nelle fantasticherie ci immergiamo, ma altre

volte semplicemente ci troviamo immersi in un universo fantastico senza

nemmeno sapere quando la scena immaginativa ha saputo ritagliarsi la nic-

chia in cui ci ha passo dopo passo imprigionati. Del resto, anche quando le

fantasticherie si aprono un varco nei nostri pensieri con il nostro esplicito

consenso – come accade per esempio quando vogliamo immaginare che

sia giunto un momento molto atteso – è difficile mantenere poi la presa sul

decorso delle nostre fantasie ed anzi la possibilità stessa di fantasticare

sembra dipendere dal fatto che possiamo abbandonarci liberamente al

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corso dei nostri pensieri.

Come abbiamo osservato, si è spesso voluto cogliere nel carattere elusivo

della fantasticheria un tratto che la accomuna alla dimensione onirica: pro-

prio come nei sogni, anche nelle fantasticherie il soggetto diviene lo spet-

tatore delle scene che nella sua mente si recitano. Bachelard del resto rite-

neva che proprio qui passasse il discrimine tra l’immaginazione poetica e

la fantasticheria che sembra non essere altro che «un po’ di materia not-

turna dimenticata nella limpidezza del giorno». Le fantasticherie sono ap-

punto sogni ad occhi aperti – ma le cose stanno davvero così? Io non credo

che quest’analogia possa essere seguita sino in fondo e una prima ragione

che ci spinge ad essere cauti è che le fantasticherie, ma non i sogni, sono

finzioni consapevoli anche se non per questo volontarie. Chi sogna, nella

norma, è perso in una vicenda che ritiene reale14; nelle fantasticherie, in-

vece, le cose stanno diversamente: possiamo perderci nelle sue molteplici

pieghe e possiamo “dimenticare” le preoccupazioni della vita desta, ma

non per questo dimentichiamo il carattere finzionale di ciò che fantasti-

chiamo. Ma ciò è quanto dire che le vicende fantasticate non si sovrappon-

gono, tacitandolo, all’universo reale, ma lo affiancano, invitandoci a di-

sporre le vicende che narrano in una scena nuova, che non pretende per sé

di essere creduta. Tutt’altro: laddove i sogni si danno solo quando nel

sonno la realtà si sottrae alla nostra presa, le fantasticherie invece irrom-

pono nella vita desta e si aprono un varco tra le cure della vita reale – si

aprono un varco, perché di fatto lo spazio delle fantasticherie si insinua nel

mondo reale che resta tuttavia presente come sfondo tacito che circonda lo

spazio immaginativo, determinandone così in profondità il senso. Il mondo

onirico è un nuovo mondo che rivela ad ogni risveglio la sua inconsistenza;

il mondo delle fantasticherie, invece, a rigore non è affatto un mondo poi-

ché non pretende per sé quell’unicità e quella onnicomprensività che è in-

scritta nel concetto stesso di mondo, nel suo porsi come una totalità che ci

abbraccia: le fantasticherie non aprono un mondo, ma una enclave, un ri-

fugio che è necessariamente consapevole della sua provvisorietà.

Di quest’ordine di considerazioni ci rendiamo conto se riflettiamo sul

nesso che lega le fantasticherie al desiderio. Questo nesso è, nella norma,

chiaramente percepibile, anche se non intendo con questo affermare che

14 E anche quando accade che ci si renda conto del fatto che stiamo sognando è evidente che non siamo

per ciò stesso divenuti pienamente consapevoli del carattere onirico delle nostre esperienze perché se

così fosse dovremmo sapere che anche la nostra consapevolezza che così stanno le cose è, a sua volta, soltanto sognata.

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ogni fantasticheria sia di per se stessa realizzazione di un desiderio. Si tratta

di un nesso che, quando è presente, non può passare inosservato: le fanta-

sticherie inscenano un mondo che ci riguarda e in cui il corso degli eventi

è piegato alla legge dei nostri desideri. Le cose andranno come vogliamo,

le difficoltà verranno messe da canto, gli ostacoli si riveleranno meno ardui

di quanto temessimo – questo è quanto si mette in scena nelle fantastiche-

rie.

Le fantasticherie sbucano dalla nostra vita come manifestazioni appa-

ganti di un desiderio, ma questo non significa che nel fantasticare una

trama narrativa nella quale immagino di ottenere ciò che voglio si formi

una falsa credenza che pretende che sia già stato raggiunto ciò che soltanto

fingo di avere raggiunto. Fantastichiamo e nel nostro fantasticare gli osta-

coli del domani trovano una loro facile composizione e fingiamo un corso

degli eventi che risponde alla domanda del desiderio lo rende visibile nella

sua soddisfazione. Nelle fantasticherie insceniamo desideri appagati, ed è

proprio questa scena fantastica è per noi in qualche misura appagante – ma

perché? Non certo perché le fantasticherie ci ingannino: sappiamo già che

le cose non stanno così e del resto quando ci perdiamo in una fantastiche-

ria, facciamo tutto il possibile per non doverci ritrovare troppo presto nella

realtà che ci ripeterebbe ad alta voce quello che sommessamente già av-

vertiamo. Sappiamo che le fantasticherie non hanno presa sulla realtà e lo

sappiamo anche quando ci culliamo nel mondo immaginario cui ci permet-

tono momentaneamente di accedere.

Si può anzi osservare che le fantasticherie spesso nascono da progetti che

formuliamo insieme alla consapevolezza che vi rinunceremo; domani po-

tremmo andare al mare, ma invece di consultare le previsioni del tempo, di

fare le valigie e di controllare quanto ci manca per finire un lavoro, cion-

doliamo per casa, ci facciamo un caffè e intanto fantastichiamo del mare,

del sole caldo e del rumore delle onde. Tutte questo ci appaga, eppure – e

ce ne rendiamo ben conto proprio perché la fantasticheria sorge qui intrec-

ciandosi ad un progetto possibile – il corso fantasticato degli eventi che ci

raffiguriamo e in cui ci “perdiamo” è sito in un futuro alla cui realizzazione

non siamo più rivolti. Tutt’altro: spesso l’atteggiamento sognante della

fantasticheria ha una piega malinconica, perché in fondo sappiamo bene

che se ci perdiamo nelle pieghe di una rêverie che prende commiato dalla

realtà è proprio perché una voce ci dice che al mare non ci andremo affatto

e che quel progetto, come altri, è destinato a naufragare. Ne segue che le

fantasticherie immaginano un corso futuro degli eventi e che il soggetto

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che vi si immerge è ben consapevole del fatto che un appagamento fanta-

stico dei desideri non è affatto un appagamento reale ed anzi talvolta pre-

lude ad un atteggiamento passivo che si accompagna alla loro rimozione –

ma allora perché dovremmo appagarci nel fingere appagati determinati de-

sideri?

Rispondere a questa domanda significa in primo luogo rammentare un

tratto caratteristico dei fenomeni immaginativi in quanto tali: il loro met-

tere capo ad una sorta di scissione dell’io. Nella fantasticheria mi accadono

molte cose, ma vi è un senso ovvio in cui queste cose non accadono affatto

a me: accadono alla mia controparte immaginativa. È lei che vede i suoi

desideri finalmente appagati e ne gioisce. Come abbiamo più volte osser-

vato, questo farsi avanti di un ego finzionale è un tratto caratteristico di

ogni forma dell’immaginazione, ma non è difficile scorgere come proprio

qui si faccia strada una peculiarità della fantasticheria, poiché nelle fanta-

sticherie l’io reale partecipa delle vicende dell’io fantasticato poiché desi-

deri che animano la fantasia sono i suoi desideri. L’io reale mette in scena

se stesso e si appaga nel vedere soddisfatti i suoi desideri.

Su questo punto è opportuno indugiare ancora un poco perché proprio

qui si fa avanti la specificità delle fantasticherie e si comprendono le ra-

gioni della posizione particolare che abbiamo assegnato loro nel nostro

schema. Le fantasticherie sono forme di trapasso tra l’immaginazione con-

testuale e l’immaginazione assoluta – questo è quanto lo schema che ab-

biamo proposto sostiene. Dobbiamo dunque cercare di rendere conto di

questo carattere intermedio del fantasticare.

Che le fantasticherie non assumano la forma di una mera raffigurazione

del possibile lo si comprende bene richiamando rapidamente l’orizzonte

progettuale da cui le fantasticherie possono prendere le mosse. Siamo

mossi da un desiderio e il desiderio implica una finzione del possibile: dob-

biamo immaginare una possibile alternativa al presente perché questa è la

condizione cui è vincolato l’agire e quindi anche la soddisfazione del desi-

derio da cui siamo mossi. In questo la dimensione progettuale è davvero

simile ai nostri sogni ad occhi aperti, e tuttavia non è difficile scorgere una

differenza rilevante: quando ci disponiamo seriamente nella dimensione

del progetto, immaginiamo una successione di eventi in quanto è mera-

mente possibile e la pensiamo in un futuro che racchiude in sé la consape-

volezza che non è affatto detto che così vadano le cose. Nella fantasticheria

invece la dimensione temporale si fa ambigua e ciò che sembra balzare in

primo piano è il presente fantasticato dell’appagamento – il suo accadere

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ora per l’ego finzionale che fa da controcanto all’ego reale nella dimen-

sione della rêverie. Al farsi avanti del tempo immaginato fa da controcanto

il dissolversi del nesso con il presente reale: nel progetto, la dimensione

futura della realizzazione del desiderio è in qualche modo determinata e

posta proprio dalla serietà della prassi che deve fare i conti con il presente.

Il desiderio manifesta una mancanza e il progetto dispone un cammino che

dal non esserci nel presente di ciò che si vorrebbe che fosse conduce ad

una realizzazione futura ed in questo cammino la distanza temporale tra il

futuro e il presente assume una misura e noi impariamo ad accettare il po-

sticiparsi dell’appagamento che fa tutt’uno con la realizzazione del deside-

rio. Nella fantasticheria, invece, il desiderio non si lega ad una prassi che

intenda far fronte al bisogno del presente e questo dispone la scena fanta-

sticata in un futuro vago e indeterminato: accadrà – in un futuro che non si

rapporta al presente, ma assume invece un piega qualitativa e si pone come

la cifra dell’irrealtà. Al domani del progetto che trae il suo senso dalla de-

terminabilità della distanza dal momento attuale fa così da controcanto il

domani della fantasticheria che in fondo non ci dice nulla di più di questo

– non oggi15.

Sottolineare la distanza che separa la fantasticheria dal progetto non si-

gnifica tuttavia confonderla con le forme dell’immaginazione assoluta e

per rendersene conto è sufficiente sottolineare il nesso che lega ogni fanta-

sticheria ad un elemento del mondo – l’io. La fantasticheria non rescinde

il legame con il mondo poiché ogni fantasticheria ci propone un racconto

che ci riguarda e che non può essere inteso nel suo senso se si rescinde

15 In un breve saggio sulla fantasticheria (che riprende le linee di una serie di lezioni che ho frequentato

nell’anno accademico 1979/80!) Giovanni Piana scrive così: «il desiderio può tingersi di immagina-zione e l’immaginazione di desiderio. Questo intreccio risulta chiaro mettendo in questione il problema

della temporalità. Sia in rapporto all’immaginazione che al desiderio potremmo parlare di una relativa

indeterminazione temporale. Se desideriamo che qualcosa accada e ci venisse posta la domanda intorno al quando nel tempo potremmo rispondere: di qui in avanti nel futuro. Naturalmente questo futuro è un

futuro reale, il punto del tempo che indichiamo indeterminatamente appartiene alla linea del tempo

oggettivo. Tuttavia si vede subito che questa indeterminazione, che è qualcosa di completamente di-verso dall'indeterminazione temporale dell'immaginazione, possa assumere i tratti di questa. Può acca-

dere che il futuro posto indeterminatamente nel desiderio, e possibilmente come un futuro prossimo,

diventi sempre più remoto: la realizzazione postulata dal desiderio tende allora ad allontanarsi sempre più nel tempo. Ed alla fine questo allontanarsi nel tempo assume sempre più i tratti di un allontanarsi dal

tempo. Così il futuro remoto del desiderio tende a diventare un futuro improprio, un futuro intemporale,

diventando piuttosto, come nel caso del passato lontano delle favole o del mito, un contrassegno dell’in-determinazione temporale che caratterizza gli scenari dell’immaginazione». Il saggio sulla fantastiche-

ria di Giovanni Piana (cui queste pagine devono molto) è pubblicato nell’archivio dei suoi scritti ed è

disponibile in rete a questo indirizzo: http://www.filosofia.unimi.it/piana/index.php/filosofia-dellim-maginazione/89-sulla-fantasticheria

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interamente il legame con il mondo e con il presente. Una fantasticheria

non è una favola perché non rescinde interamente il legame che la connette

al mondo e al presente; o se si vuole: è una favola che narra di me e che

proprio per questo non può fare a meno di rapportarsi al mondo reale, al

mondo in cui sono – per contrapporvisi.

Le fantasticherie sono fatte così: sorgono, certo, quando il legame con la

realtà si fa meno cogente e quando possiamo sentirci meno direttamente

coinvolti dalla rete dei compiti cui siamo chiamati a far fronte. Tuttavia

questo ottundersi della presenza del reale non si traduce in una sua radicale

messa da canto e questo perché la fantasticheria non può fare a meno di

proporre una vicenda che mi riguarda e che risponde, negandole, alle dif-

ficoltà del mio vivere. Il mondo reale si insinua dunque nella fantasticheria,

e in un duplice modo. In primo luogo, il mio perdermi in un sogno ad occhi

aperti non può rescindere il nesso che lega le mie finzioni alla mia vita e

alla rete dei miei desideri: la trama del mondo di cui io faccio parte non è

cancellata e dimenticata dall’esercizio di un’immaginazione che parla ne-

cessariamente di me. In secondo luogo, tuttavia, ogni concreto fantasticare

assume la forma di una risposta al presente, di una contrapposizione alla

realtà che esprime una chiara volontà di negarla – almeno immaginativa-

mente. In Tempi moderni, la fame che tormenta il vagabondo e la sua gio-

vane amica si trasforma in una fantasticheria di una vita diversa: la coppia

borghese che al mattino si saluta davanti al giardinetto di casa, ripetendo il

falso rituale della famiglia serena e felice, diviene lo spunto per un’imma-

ginazione utopica che proietta in un futuro già realizzato, ma non per que-

sto raggiungibile dal presente, lo stereotipo della vita felice. Si fa così

strada il sogno di un futuro diverso: una casa ricca e borghese, con tende e

poltrone e tovaglie pulite, ed una vita facile in cui il cibo sia sempre e co-

munque a portata di mano. Al mondo reale si sovrappone un mondo fanta-

stico che è chiamato a negarlo in forma utopica e che è a sua volta negato

dal corso reale degli eventi che assumono la forma minacciosa di un poli-

ziotto chiamato a rammentare allo spettatore che cosa di fatto si frapponga

tra la realtà del presente e la realizzazione dei sogni16. Possiamo forse espri-

merci così: nella fantasticheria si immagina un mondo felice, ma il mondo

che si immagina è proprio questo mondo e ciò fa sì che l’immaginazione

assuma il carattere di una negazione utopica della realtà, di un suo rifiuto,

16 La scena di Tempi moderni cui faccio riferimento è disponibile su youtube (minuti 3.40-6.10) all’in-

dirizzo http://www.youtube.com/watch?v=yPWhXWsc_Jw.

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in nome di un mondo che si può immaginare17.

Credo che queste considerazioni siano sufficienti per farci comprendere

la posizione peculiare che il concetto di fantasticheria occupa in seno al

concetto di immaginazione, ma forse – anche senza voler aprire qui un

tema che potrebbe essere sviluppato molto ampiamente – è il caso di ram-

mentare che le fantasticherie sembrano godere di una cattiva reputazione:

non vi è nulla di male nel dedicare tempo a leggere un romanzo o una fiaba,

ma chi indulge in fantasticherie sembra necessariamente vestire i panni del

perdigiorno. Dovresti agire e invece sogni ad occhi aperti, ma questo tuo

sognare non è soltanto colpevole perché ti distoglie dalla realtà, ma sembra

recare con sé un frutto avvelenato: più sogni una realtà che non c’è, più ti

fai nemico il mondo esistente che ti appare sempre meno ospitale e sempre

più lontano dalla norma che i tuoi desideri dettano. Nel rimprovero che ci

richiama al reale e che ci invita a varcare nuovamente la soglia che ci se-

para dalle pieghe sognanti della rêverie si fa avanti la consapevolezza del

carattere ambiguo delle fantasticherie – di questi sogni ad occhi aperti che

ci strappano alla realtà quel che tanto che basta per sentirsi appagati di un

sogno, ma che sono tuttavia ad essa sufficientemente ancorati da tacitare

l’urgenza dell’impegno e del progetto. Si tratta di un rimprovero che è in

qualche misura fondato, eppure è il caso di rammentare che nelle forme un

po’ trasognate della fantasticheria e nelle eco utopiche delle sue narrazioni

si fa avanti anche un atteggiamento positivo che ci consente di guadagnare

un rapporto nuovo rispetto al mondo e alla vita: l’atteggiamento di chi,

fantasticando il possibile, impara a non assolutizzare il presente e a non

soggiacere all’abitudine che ci invita a credere che soltanto ciò che c’è ha

davvero diritto di esistere. La fantasticheria è un progetto che si fa leggero

e impalpabile, ma che trae dalla sua leggerezza la capacità di non posarsi

troppo presto sulla realtà del presente, salvaguardando il diritto del possi-

bile ad un suo spazio protetto e difeso dalle argomentazioni della realtà.

Le fantasticherie hanno questa natura: ci consentono di allontanarci dalla

realtà cui apparteniamo, ma per farlo ci costringono a perderci in un sogno

ad occhi aperti che ha le forme di un progetto che ha smarrito la via del

17 Di questo carattere della fantasticheria, del suo essere sospesa tra immaginazione contestuale e im-

maginazione assoluta, ci rendiamo ben conto non appena riflettiamo sul carattere utopico delle fanta-

sticherie, sul loro proporsi come un progetto che si perde nel sogno o come un sogno che ha in sé una piega progettuale. Del resto, basta sfogliare le prime pagine dell’Utopia di Tommaso Moro per imbat-

tersi in un gioco di etimologie che ci consente di vedere nel cuore del concetto di fantasticheria: l’isola

in cui l’umanità ha saputo trovare una vita felice è sia un a topos – un luogo che non c’è, sia un eu topos – un luogo felice

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reale e che può trovarsi bene in una finzione del futuro solo inimicandosi

il presente. Proprio come il rimpianto si perde nella finzione di un passato

che, se fosse stato, avrebbe cambiato un presente di cui non si accettano le

fattezze, così le fantasticherie alludono ad un futuro che non si darà, per

mettere provvisoriamente da canto un presente che non si tollera. Ma è una

strategia di breve durata e che prepara un ritorno sgradevole: dalle fanta-

sticherie ci si sveglia e se di un risveglio si può parlare è proprio perché

esse non rescindono interamente il filo che le lega alla vita desta, al mondo

di cui sono una modificazione utopica. L’abbiamo già detto: le fantastiche-

rie non sono né vere, né false, ma possono avverarsi, come dimostra il fatto

che, nella norma, ci lamentiamo del fatto che non si avverino. Le finzioni

narrative e ludiche, invece, non possono avverarsi, perché non condividono

il terreno del mondo: non descrivono un possibile stato di cose nel mondo

e non lo affermano.

Di qui la differenza che separa le fantasticherie dalle forme dell’imma-

ginazione in senso pregnante e che consente una diversa forma di coinvol-

gimento immaginativo. Nelle fantasticherie ci rapportiamo ad un evento

che non accadrà ma potrebbe accadere, e proprio per questo il nostro fan-

tasticare racchiude insieme un verdetto di condanna del reale e il desiderio

di evaderne. Non pretendiamo che ci sia un futuro che realizzi le nostre

fantasticherie, ma non per questo rinunciamo a pensare all’universo fanta-

sticato in una qualche continuità con il presente: l’io che fantastica pre-

tende di ritrovarsi in un luogo che non c’è ed è proprio per questo che ci si

perde nelle fantasticherie e nel loro inscenare l’appagarsi di un desiderio

che rinuncia ad assumere le forme della volontà e del progetto. Fantasti-

cheria e realtà si negano l’una con l’altra proprio perché non rinunciano a

condividere uno stesso terreno: lasciarsi coinvolgere dall’una significa ri-

nunciare, sia pure pro tempore, all’altra e viceversa.

Nel caso del gioco e della narrazione finzionale le cose stanno diversa-

mente. Le forme dell’immaginazione in senso pregnante ci invitano a reci-

dere il nesso che ci costringe a contrapporre realtà e fantasticheria, e pos-

sono farlo perché non pongono le scene fantasticate in continuità con il

nostro mondo. Di qui la possibilità di una forma diversa di coinvolgimento:

nei giochi e nei racconti ci si immerge, senza perdersi perché la soggettività

che fantastica o gioca non è costretta a negare o rifiutare il mondo reale

quando è chiamata ad immergersi nell’esperienza ludica e finzionale. Il

bambino che gioca e il bambino nel gioco non si contendono il campo, e

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questo apre una possibilità nuova, sulla cui natura dobbiamo ora soffer-

marci, rinunciando a discorrere delle molte altre forme intermedie in cui

potremmo imbatterci se rivolgessimo l’attenzione al cammino che dalle

visualizzazioni ci conduce alle costruzioni fantastiche, passando per le

molteplici forme dell’adattamento del reale al metro dell’immaginazione.

2. La narrazione immaginativa

Le forme di transizione su cui ci siamo soffermati nel paragrafo che ci

siamo lasciati alle spalle ci hanno condotto in prossimità di una distinzione

su cui dobbiamo ora soffermarci – la distinzione tra le forme contestuali e

le forme acontestuali dell’immaginazione. Si tratta di una distinzione cui

abbiamo già accennato e su cui ora è opportuno riflettere, riprendendo il

filo delle nostre considerazioni che cercavano di aprire un varco che ci

conducesse alla nozione di narrazione immaginativa riflettendo su ciò che

accade quando raccontiamo a qualcuno un evento di cui siamo stati testi-

moni. L’evento è accaduto e ne parliamo come di qualcosa che ha una sua

realtà ed una sua definitezza al di là del nostro raccontarlo e questo fatto si

manifesta anche nella consapevolezza che ogni narrare decide insieme che

cosa è opportuno tacere: raccontiamo di una passeggiata al mare, di un

temporale, di come ci siamo bagnati, ma non ci soffermiamo su un’infinita

di cose che c’erano, ma che ci sembrano marginali o di cui semplicemente

ci capita di tacere.

Chi ascolta si trova in una posizione diversa: deve ricostruire quel che è

accaduto e ambientarlo in un qualche luogo del mondo e può farlo solo

perché le parole che ascolta passo dopo passo glielo consentono. Ciò che è

detto si arricchisce delle molteplici inferenze implicite che accompagnano

ogni comprensione linguistica, ma che sia stato taciuto qualcosa chi ascolta

lo sa bene ed è per questo che ritiene di avere comunque il diritto di chie-

dere che si dica qualcosa che si è taciuto perché anche il migliore dei rac-

conti è lacunoso se lo si confronta con la realtà. Anche per chi ascolta,

dunque, l’evento è al di là della narrazione ed è per questo che ha senso

non accontentarsi di ciò che viene raccontato ed è legittimo fare domande

o cercare di sincerarsi direttamente di come stanno le cose.

Vi è insomma una asimmetria tra il ruolo del narratore e il ruolo di chi

ascolta: chi narra ha rispetto ai fatti un accesso indipendente dalla narra-

zione stessa e non è quindi vincolato alla sua configurazione effettiva. Chi

ascolta, invece, è innanzitutto chiamato a rendersi conto dei fatti a partire

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dal racconto che gli viene proposto, ma può colmare l’asimmetria che ca-

ratterizza il suo ruolo liberandosene: almeno in linea di principio, infatti,

l’evento che la narrazione propone è indipendente dal racconto e può

quindi essere attinto da una diversa fonte.

Non facciamo che sviluppare queste considerazioni se osserviamo che

ogni racconto di un evento reale presuppone nell’ascoltatore una qualche

fiducia nella veridicità della narrazione che può essere ricavata ora dalla

convinzione che il narratore sia attendibile, ora dal fatto che la storia nar-

rata sembra coerente con lo stile complessivo della realtà. Ci si fida della

veridicità di una narrazione, ma è possibile decidere di non fidarsi e con-

trollare di persona come stanno le cose: i fatti esistono al di là della narra-

zione che li descrive e questo ci consente in linea di principio di confron-

tare una testimonianza con un’altra, un discorso con la nostra esperienza

dei fatti. In linea di principio, ma non sempre in linea di fatto: debbo fi-

darmi di quello che hai detto perché non mi è possibile controllarne la ve-

rità, e così accade con i ricordi che solo in linea di principio ci parlano di

eventi accessibili anche al di là della nostra memoria: di fatto, ben poche

cose del nostro passato sono accessibili se non così – come ricordi e quindi

come esperienze che racchiudono la ricchezza del reale in una datità che

non può più essere ulteriormente arricchita e sondata. Vorrei poterti dire di

più di ciò che mi è accaduto anni fa, ma non posso: mi ricordo soltanto

questo. Così, anche se è sensato pretendere di sapere di quell’evento lon-

tano qualcosa di più di quel che ne ricordo, di fatto la via per raggiungere

una conoscenza più dettagliata è preclusa: siamo costretti ad accettare i

ricordi per quello che sono – racconti che non coincidono con i fatti, ma

che ne sono l’unica via residua di accesso. E tuttavia, solo per questo pos-

siamo parlarne come di una via residua: perché in linea di principio altre

strade potevano condurre a quell’evento. Per dirla in breve: le testimo-

nianze e i ricordi sono racconti legati alla realtà, per quanto vario e com-

plesso possa essere il nodo che ad essa li tiene stretti.

I racconti dell’immaginazione, invece, sono racconti assoluti – nel senso

letterale del termine. Sono assoluti, perché impariamo a comprenderli nel

loro senso quando accettiamo che non sussista in linea di principio la pos-

sibilità di controllare ciò che narrano e recidiamo così il nesso che lega la

narrazione alla realtà. I racconti immaginativi sono fatti così: chi li narra,

propone una storia e insieme implicitamente rinuncia alla pretesa che essa

possa valere al di là dell’universo chiuso del racconto. Rinuncia insomma

ad attribuire alle sue parole la pretesa di parlare del mondo e invita chi lo

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ascolta a non interrogarsi sulla loro verità o falsità. Le favole e i racconti

possono essere coerenti, ma non possono essere veri: il gioco linguistico

che stipuliamo con il narratore e che attribuisce un senso alla narrazione

stessa ci rammenta che non possiamo andare al di là della finzione e che i

“fatti” di cui fiabe e racconti ci parlano non sono fatti per nulla poiché non

sono realtà di cui si possa discorrere autonomamente, ma costruzioni, fin-

zioni che sono accessibili solo ed unicamente a partire dalla narrazione

stessa. Il gioco linguistico della narrazione impone una regola nuova: ci

chiede, come di consueto, di cercare un senso nelle parole del racconto, ma

ci vieta poi di farne la rete per catturare gli oggetti e gli eventi del mondo.

L’immaginazione, nella sua forma più libera, si apre così con un divieto

che ha tuttavia le forme gentili di un invito a restare chiusi nell’universo

finzionale, rinunciando in linea di principio a cercare per gli eventi narrati

un’accessibilità che sia diversa dalla narrazione stessa. Se vogliamo im-

mergerci nel gioco della narrazione dobbiamo rinunciare a fare i guastafe-

ste e dobbiamo rinunciare a cercare i fatti narrati al di là della narrazione,

in un gioco che ci invita formalmente a confondere in un’unica amalgama

ciò che altrimenti abbiamo imparato a distinguere: la presentazione di qual-

cosa dalla sua esistenza indipendente. Nei racconti questa distinzione deve

smarrire il suo senso: ciò che racconti c’è perché lo racconti. Cavalli alati

non ce ne sono, ma se ti racconto che ne nascono, pochi per il vero, nei

monti Rifei devi accettarlo, anche se questo significa rinunciare in linea di

principio a cercare per l’ippogrifo di Astolfo un luogo diverso dalla fin-

zione narrativa dell’Orlando furioso. Ancora una volta: la libertà creativa

dell’immaginazione si paga con la rinuncia a cercare quel che si è creato al

di là delle forme immaginative che lo creano.

Le regole di un gioco linguistico sono ovvie, ma proprio per questo non

sono esplicitamente stipulate; comprenderle significa cercare di mettere in

luce una serie di caratteristiche che determinano il senso di quello che fac-

ciamo quando raccontiamo o ascoltiamo una narrazione immaginativa. Di

caratteristiche implicite che non ha senso rammentare se non quando si fa

filosofia. Eppure queste caratteristiche implicite le abbiamo imparate e

possiamo coglierle in una serie di risposte ovvie a domande che forse non

abbiamo mai formulato, ma che comunque ci hanno permesso di fissare

una nuova e diversa grammatica della narrazione – la grammatica delle

finzioni.

La prima domanda che dobbiamo porci concerne un ricordo di infanzia:

abbiamo tutti protestato quando chi ci raccontava una favola alterava anche

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di poco per noia o per trascurataggine la narrazione, modificando la suc-

cessione degli eventi o anche soltanto la caratterizzazione di un personag-

gio. Perché l’abbiamo fatto? Che cosa ci lega alla lettera di un racconto?

Certo, con gli anni si impara ad essere più tolleranti, ma questo non rende

quella protesta meno interessante e legittima, perché mette in luce una dif-

ferenza su cui è opportuno riflettere. Una testimonianza o un ricordo pos-

sono essere raccontati in vario modo e possono essere anche corretti in più

punti, perché hanno comunque un criterio esterno che fissala loro identità

e insieme la norma cui debbono ottemperare. Posso raccontare in modo

impreciso un ricordo e posso dovermi correggere, ma il ricordo resta lo

stesso perché parla di un fatto che sussiste al di là delle forme della sua

narrazione. Nel caso di una favola, invece, i contorni che ne fissano l’iden-

tità rivelano una fragilità inaspettata. Non posso correggere una favola per-

ché non c’è un mondo di cui essa mi parli, ma posso egualmente cambiarla;

ogni cambiamento, tuttavia, mette in questione la sua identità perché una

favola non ha altro metro per fissare la sua identità che se stessa. I racconti

immaginativi sono fatti così: puntano il dito verso se stessi e dicono che

questo è il mondo che narrano. Il bambino che protesta perché hai cambiato

qualcosa nel raccontarla chiede che si renda esplicita una regola del patto

narrativo: ti ricorda che cambiare una storia significa, a rigore, raccontarne

un’altra che coincide solo parzialmente con la prima. Omero avrebbe po-

tuto raccontare diversamente l’incontro con Eolo e avrebbe potuto far giun-

gere sani e salvi i compagni di Ulisse a Itaca, ma se così avesse fatto non

avrebbe corretto l’Odissea, rendendola più adeguata ad una vicenda indi-

pendente dalla narrazione, ma avrebbe semplicemente raccontato una sto-

ria diversa. Avrebbe fatto scomparire un mondo per crearne un altro, ed è

proprio questo che, nella norma, un bambino non vuole: il suo capriccio ti

ricorda che le favole sono racconti assoluti e che la loro identità è sospesa

nel gesto che la favola rivolge a se stessa dicendo: sono fatta così. Le favole

non possono cambiare troppo perché il criterio per decidere se ha senso

parlare di una variante non è il rimando ad un evento indipendente di cui

le singole narrazioni sarebbero differenti versioni, più o meno precise e più

o meno vere, ma è solo la loro parziale coincidenza, il loro esibire un nu-

cleo comune.

Qualche volta, leggendo un racconto, può capitare che ci si senta insod-

disfatti di come un personaggio è stato descritto. Si vorrebbe saperne di più

e proprio per questo ci si immagina qualcosa, ma lo si fa con la consape-

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volezza di sporgersi un poco al di là dei confini del racconto e di fare qual-

cosa che non è sempre lecito fare. Non possiamo domandarci ogni cosa e

non avrebbe senso chiedersi se il cacciatore che uccide il lupo di Cappuc-

cetto rosso aveva o non aveva un orologio al polso. Questa domanda ci

sembra fuori luogo, mentre ci sembra legittimo chiederci se era un ragazzo

o un uomo maturo, anche se la storia non dice nulla in proposito. Immagi-

nare significa anche imparare a non fare certe domande – ma perché? Ep-

pure se mai fosse esistito un cacciatore e se mai avesse salvato una bambina

dalle fauci di un lupo, avrebbe tanto senso chiedere se era giovane o vec-

chio o se aveva potuto constatare a che ora era accaduto il misfatto. Di qui

una seconda domanda che dobbiamo porci e che ci invita a riflettere su che

cosa voglia dire parlare di lacune in una finzione e che senso abbia cercare

di colmarle. Ora, nei racconti vi sono spesso lacune che si fanno talvolta

facilmente avvertibili, ma che cosa cambia quando ci muoviamo dalle te-

stimonianze alle finzioni e che cosa caratterizza il tentativo di soddisfare

la nostra curiosità nell’uno e nell’altro caso? Che vi siano lacune nelle no-

stre testimonianze è un fatto che non può essere negato e che qualche volta

si manifesta con chiarezza. Chi racconta un fatto accaduto, è libero di ta-

cere dei particolari o di indugiarvi, ma è comunque necessariamente selet-

tivo e non può in linea di principio esaurire la molteplicità degli aspetti che

caratterizzano un evento, e questo fatto può essere avvertito e può farci

percepire che manca qualcosa. Ma anche se questo non accade, anche se il

racconto non sollecita una curiosità insoddisfatta, una testimonianza può

dirsi egualmente lacunosa. Posso raccontare di una persona che ho incon-

trato tempo fa e posso dirti con esattezza che cosa mi ha detto e ripetere

nel dettaglio che cosa ha fatto, e il mio racconto può sembrarti del tutto

soddisfacente, ma ciò che ricordo e ancor più ciò che dico ha comunque

molte lacune. Le ha obiettivamente, perché il ricordo parla di una realtà

che sussiste al di là del mio narrarla e che è in linea di principio (ma non

necessariamente in linea di fatto) accessibile da altre esperienze. Le cose

stanno diversamente se ci si chiede di immaginare un racconto. Del lupo

della favola dei sette capretti sappiamo che ha la voce roca e le zampe nere.

Sappiamo anche che ha un grande appetito e un pessimo carattere, ma è lo

stesso difficile dire se la fiaba ha lacune e non vi è un criterio oggettivo per

deciderlo. Una favola ha lacune solo se ci sembra che le abbia, perché non

vi è un modello su cui misurare la narrazione, anche se è possibile che la

sua lettura faccia sorgere in noi curiosità, cui di fatto non risponde. Così,

non diremmo che la fiaba è lacunosa perché non ci dice la marca della

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pendola nella cui cassa si nasconde il più piccolo dei capretti, ma potrebbe

sembrarci lacunoso perché tace l’età del lupo che da quel che la storia narra

sembra essere una vecchia conoscenza di mamma capra, di cui i fratelli

Grimm, incuranti del galateo, si premurano di rivelare che è ormai anziana.

La favola suscita una curiosità, ma non la soddisfa; mal di poco: possiamo

sempre soddisfarla noi, decidendo liberamente come colmarla, così come

si aggiunge un altro pezzo di Lego ad una torre. Siamo liberi di farlo come

di non farlo, e possiamo decidere come vogliamo. In fondo, chi illustra una

storia è costretto a decidere molte cose, e può deciderle in tutta libertà: non

può sbagliare perché non c’è una realtà che giudichi del suo operato. Certo,

questo non toglie che si possa illustrare male un libro, perché ogni deci-

sione che prendiamo è vincolata al criterio della conformità immaginativa:

se qualcuno disegnasse un giovane lupo alla porta dei sette capretti scuo-

teremmo il capo perché l’astuzia e la malvagità crescono con gli anni. Non

vi è dubbio: il lupo non è un furfante di primo pelo perché la sa lunga e ha

la malvagità di chi si è abituato a non ascoltare la voce della coscienza, ma

non per altro: non perché sia vecchio davvero! Così, per quanto possa suo-

nare strano, le descrizioni che ci dicono com’è fatto il personaggio di un

racconto non sono affatto descrizioni: sono decisioni immaginative, che

costruiscono passo dopo passo un ruolo narrativo, una figura che c’è solo

nella misura in cui abbiamo deciso di immaginarla così.

Del resto, che la narrazione immaginativa decida liberamente ciò che al-

trimenti è definito dalla voce salda della realtà lo si scorge non appena ci

domandiamo, in terzo luogo, che cosa voglia dire parlare dell’identità dei

personaggi di un racconto. Anche in questo caso, le favole vengono incon-

tro al bambino che le ascolta e rispondono esemplarmente ai dubbi che

debbono essere tacitati se si vuole riposare nello spazio immaginativo. Si-

mili dubbi si farebbero avanti se ci fosse modo di stabilire un’identità tra i

personaggi di un racconto fantastico e le persone del mondo – se ci fosse

qualcosa che ci spingesse a pensare che Geppetto sia il nome di un fale-

gname che vive o è vissuto nel nostro mondo. Nelle fiabe questo dubbio è

messo fin da principio da parte perché la domanda che chiede se vi è qual-

cuno nel mondo di cui la fiaba ci parla è strozzata sul nascere dal fatto che

fin da principio ci imbattiamo in nomi che non ottemperano affatto ai cri-

teri delle descrizioni definite: nelle favole vi è un Re, un Paese lontano, un

vecchio mugnaio e i suoi tre figli, e ciascuno di questi nomi è un invito a

non chiedere altro, a non tentare nemmeno di pensare che abbia senso chie-

dersi chi sia quel re e dove si trovi quel paese lontano al di là di ciò che la

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favola narra. Questo significa tuttavia riconoscere che l’identità nei conte-

sti immaginativi è ben diversa dall’identità che si manifesta nel racconto

di un ricordo o di una testimonianza qualsiasi. Posso non ricordarmi bene

se la persona che ho incontrato ieri per strada è la stessa persona che ora

vedo nella folla, ma anche se potrei non disporre di un criterio per venire a

capo del mio problema, è certo che non si può decidere arbitrariamente

come stanno le cose. L’identità non è una questione che si possa decidere

liberamente perché dipende da ciò che in se stesso l’oggetto è: non dipende

da me e nemmeno da quel che ne so se Napoleone è o non è la stessa per-

sona che ha vinto a Jena e perso a Waterloo. Così accade per Napoleone

che è un personaggio reale, ma se qualcuno ci domandasse se il lupo della

storia dei sette capretti è lo stesso lupo di altre favole, forse non sapremmo

che cosa dire. Tuttavia, qualunque sia la risposta che riterremo opportuno

dare, si tratterà comunque di una decisione immaginativa. Possiamo deci-

dere che si tratta di due lupi diversi oppure possiamo pensare che un simile

caratteraccio sia un indizio da non trascurare e che si tratti dello stesso fur-

fante; decidere in un modo nell’altro, tuttavia, non significa altro che con-

tinuare la storia e immaginare il cammino che conduce da una favola all’al-

tra, unificando fantasticamente gli universi immaginativi di più favole in

un unico racconto che ha un solo o più lupi. Decidiamo così, ma se invece

decidessimo di rimanere chiusi nella trama della storia dei sette capretti

così come i fratelli Grimm l’hanno pensata, allora dovremmo semplice-

mente dire che quella domanda non è formulabile e che non esiste un ter-

reno comune che ci permetta di comprenderla. Del resto, che si tratti di una

domanda che ci lascia stupiti è difficile negarlo – ma qual è la ragione di

questo stupore?

Venire a capo di questa difficoltà significa porsi una quarta domanda cui

le fiabe rispondono esemplarmente prima ancora che qualcuno possa for-

mularla: la domanda che concerne la forma temporale della narrazione. A

guidarci verso la discussione di questo problema sono le considerazioni

che avevamo dedicato alle fantasticherie: i sogni ad occhi aperti – avevamo

osservato – sono caratterizzati da un loro peculiare aspetto temporale che

ci impedisce di ricondurli, senza fraintenderli, alla dimensione della pro-

gettualità. Un progetto è rivolto al futuro, ed in questo tratto si manifesta

con chiarezza il nesso che stringe la progettualità alla dimensione del desi-

derio e al suo alludere ad una mancanza che deve essere tolta. Anche le

fantasticherie, come sappiamo, hanno un loro peculiare rapporto con il de-

siderio e quindi anche con il futuro, e tuttavia il rimando alla temporalità

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che le caratterizza è particolare perché il futuro in cui la fantasticheria col-

loca l’universo immaginativo di cui ci narra non si misura con il presente

e non definisce la sua distanza dal punto ora nella delineazione della prassi

che deve condurci alla realizzazione di un obiettivo determinato, ma as-

sume invece una dimensione qualitativa: la fantasticheria si dispone nella

dimensione del futuro, solamente perché intende sottolineare la sua diffe-

renza radicale dalla realtà del presente. Il tempo della fantasticheria è un

domani che intende restar tale, ed in questa peculiare futuro intemporale

(che rammenta da vicino il passato intemporale delle narrazioni mitiche)

si intravede con relativa chiarezza la via che dall’immaginazione conte-

stuale conduce all’immaginazione acontestuale – all’immaginazione in

senso pregnante. Se abbandoniamo il terreno delle fantasticherie, se pren-

diamo commiato dall’antitesi ambigua con il reale che le caratterizza e se

ci disponiamo sul terreno della finzione narrativa, ci accorgiamo allora che

l’acontestualità temporale è un tratto distintivo dell’immaginazione in

senso pregnante. Rammentiamoci ancora una volta l’incipit di una favola:

le favole si narrano dicendo che c’era una volta un vecchio mugnaio, un

pezzo di legna da catasta o una spada conficcata nella roccia. Nessun ri-

cordo inizia così, nemmeno quei ricordi che ci sembrano pervasi da una

ineliminabile vaghezza: dire da vecchi che qualcosa è accaduta quando si

era giovani significa comunque collocare un evento nel tempo, ma asserire

che quell’evento è accaduto una volta non significa affatto rispondere alla

domanda “quando?”.

Non è un caso che le cose stiano così. Indicare un posto nel tempo signi-

fica affermare di qualcosa che esso appartiene alla trama obiettiva degli

eventi: vuol dire insomma riconoscere ad un oggetto un posto nel mondo

e ad un accadimento il suo carattere di realtà. Così stanno le cose quando

raccontiamo un evento reale che ci è accaduto: possiamo calcare le tinte e

alterare i contorni, ma se non vogliamo rinunciare fin da principio alla pos-

sibilità di essere creduti, dobbiamo necessariamente definire un tempo se

pur vago ed un luogo in cui collocare la nostra storia. Quando narriamo un

evento reale, le nostre parole debbono potersi riferire a qualcosa che accade

nel mondo: pronunciamo dei nomi e ci rendiamo disponibili ad indicare,

così facendo, quali sono gli oggetti cui ci riferiamo. Questa possibilità è

invece in linea di principio negata dalla narrazione immaginativa: l’incipit

delle favole, che recide esemplarmente ogni contestualizzazione temporale

dell’evento narrato e che ci impedisce di ancorare il tempo dalla favola al

tempo obiettivo, proprio come il suo invitarci a pensare ad un paese lontano

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di una lontananza che non può essere in linea di principio colmata, ci im-

pediscono di fatto di indicare il qui ed ora di ogni oggetto della narrazione.

Se non c’è un momento nella storia del mondo in cui collocare quel “c’era

una volta …” che apre la favola e se non c’è un modo per ricondurre l’as-

solutezza di quella lontananza ad un predicato relazionale che la ancori ad

un qui che la renda insieme misurabile, non c’è nemmeno il luogo in cui

poter cercare gli eventi che ci sono narrati.

Certo, le favole iniziano così – con un “c’era una volta …” che cancella

ogni collocazione temporale – ma, si dirà, questo non è affatto vero di ogni

racconto, e vi sono di fatto romanzi, novelle o film che hanno una data più

o meno definita che colloca le vicende narrate in un qualche luogo del

tempo. Così, sembra sensato dire che l’Iliade ci parla di un mondo più lon-

tano nel tempo di Guerra e pace e che 2001 Odissea nello spazio accade

in un anno che è relativamente vicino al nostro presente. Questo, appunto,

sembra ovvio. Si tratta di un’osservazione importante che tuttavia non

credo giustifichi la conseguenza che se ne vuol trarre. Certo, vi sono molti

prodotti immaginativi che si determinano anche rispetto al tempo e che

hanno una loro aura qualitativa che dipende dal luogo temporale che li ca-

ratterizza: i Promessi sposi parlano proprio della Lombardia del XVII se-

colo, non c’è dubbio e Guerra e pace della Russia negli anni delle guerre

napoleoniche. Se tuttavia riflettiamo sul senso di queste determinazioni

cronologiche ci accorgiamo che ad esse spetta una caratterizzazione quali-

tativa ineludibile che ne modifica in profondità il senso. Quando diciamo

una data, solitamente intendiamo fissare un punto nel tempo che non si

determina in relazione al presente, ma solo alla successione temporale di

cui è parte. Parlare del 2001 non significa parlare del passato, del presente

o del futuro, ma solo indicare un punto nella trama obiettiva del tempo; è

chiaro, tuttavia, che le cose non stanno così quando vediamo il film di Ku-

brick cui alludevamo: quel film parla di un presente che incombe sullo

spettatore e che ci è presentato come l’esito della nostra storia, la cui trama

è narrata nelle prime scene del film. Gli anni passano, ma quel film rac-

conta una storia che accade ora, anche se ci sembra meno credibile nei suoi

particolari e può sembrarci vecchia. Ma ciò è quanto dire che la colloca-

zione nel tempo dell’evento immaginario è soltanto apparente: nei contesti

immaginativi, le date fissano una relazione con il soggetto immaginante e

qualificano la scena narrativa, ma non la ancorano ad un punto obiettivo

del tempo. Del resto, quando sul palcoscenico si mette in scena più volte

la stessa commedia, non ha senso pensare che ci appaia giorno dopo giorno

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più vecchia, così come ci apparirebbe più vecchia la lettura di una stessa

notizia sullo stesso giornale. La ragione è ovvia: ciò che il giornale rac-

conta è (o dovrebbe essere) un evento accaduto realmente e gli eventi

hanno un luogo nel tempo e quel luogo si allontana ogni giorno dal nostro

presente, mentre le commedie accadono ogni volta da capo e narrano qual-

cosa che non è se non nel suo prendere corpo sul palcoscenico.

Vi è infine una regola che abbiamo tutti imparato a rispettare e che ci

impedisce di vestire i panni del guastafeste. C’era una volta un pezzo di

legno che avvertiva il pizzicorino della pialla, ma anche se il sale della

favola consiste proprio nello stupore che questo inizio ci suggerisce è un

fatto che non abbiamo diritto di chiedere come sia possibile che una simile

cosa accada. Non ci sono pezzi di legno fatti così? Bene, ora ci sono e

dunque non devi stupirti troppo se dopo poche pagine quel pezzo di legno,

trasformato in un burattino, infilerà la porta di casa e scapperà via.

C’è poi una quinta domanda che è difficile tacitare, ma a cui ogni rac-

conto immaginativo risponde solo in parte, riservandosi il diritto di non

dare una risposta effettiva – ed è la domanda su come sia possibile ciò che

si narra in un racconto immaginativo. Un tratto ci colpisce: quando ci di-

sponiamo sul terreno della testimonianza, la domanda sulla possibilità as-

sume un duplice senso. Una testimonianza ci sembra plausibile se è inter-

namente plausibile e se è coerente: chi l’ascolta non deve imbattersi in

qualcosa che sia esplicitamente contraddittorio o apertamente inaccetta-

bile. Ma per ogni testimonianza reale è possibile un criterio diverso: una

testimonianza è accettabile se la realtà che descrive è in se stessa coerente,

al di là dell’immagine che la narrazione traccia18.

Nel caso delle testimonianze, dunque, la coerenza della narrazione non

basta: è necessario che anche dal punto di vista obiettivo l’evento narrato

sia coerente. Anche in questo caso, le cose mutano quando ci disponiamo

sul terreno immaginativo. Qui la domanda sulla possibilità assume un ca-

rattere più tollerante, perché un racconto ..

Che cosa abbiamo imparato allora? Abbiamo imparato a sospendere la

valenza referenziale dei nomi. Ancora una volta, in quarto luogo, per com-

prendere bene il senso di queste considerazioni è opportuno coglierle sullo

18 Il primo criterio non implica il secondo: un resoconto può sembrarci accettabile, solo perché l’im-

magine che ci facciamo dei fatti esclude gli elementi che la renderebbero poco credibile. E viceversa.

Erodoto ritiene che non si possa credere che i fenici abbiano doppiato il capo di Buona Speranza perché

sostengono di avere visto a mezzogiorno il sole a settentrione: ciò che rende vera la loro testimonianza diviene così un criterio per rifiutarla.

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sfondo della narrazione memorativa. Quando ascoltiamo i ricordi di un

tempo che non ci appartiene, siamo costretti a rimanere sospesi sulle parole

che ci guidano verso un senso, senza tuttavia poter fare affidamento su una

comprensione effettiva del mondo cui alludono: capiamo, senza poter at-

tribuire ai nomi che ascoltiamo un referente definito. E tuttavia quei refe-

renti vi sono: non sappiamo figurarceli perché appartengono ad un’espe-

rienza che non ci appartiene, ma sono i frutti che la nostra rete deve poter

raccogliere, gli oggetti che soddisfano quei ricordi. Così, anche se com-

prendo quello che dici solo a partire dal suo senso, so che le tue parole si

riferiscono al mondo e alludono ad un insieme di stati di cose che possono

essere accertati indipendentemente da ciò che ora da te apprendo. Diversa-

mente stanno le cose nel caso di una favola o di una fiction: chi legge non

può fare altro che affidarsi al contenuto di senso delle parole che compon-

gono la storia, ma non può in alcun modo fare di quelle stesse parole un

uso, in senso proprio, referenziale. Pinocchio non è un nome proprio che

ci parli di qualcuno – di un qualche individuo nel mondo – ma è solo il

nome di un ruolo narrativo che prende forma nella storia e che può essere

indicato solo all’interno di quella. E ciò che è vero per i nomi propri, vale

evidentemente anche per ogni termine individuale: Geppetto porta a Pinoc-

chio tre pere, ma non è possibile indicare quei frutti se non nel racconto. I

frutti che Pinocchio impara a mangiare con torsoli e bucce e senza far

troppo lo schizzinoso non possono essere additati nel mondo reale: li si può

indicare soltanto nello spazio e nel tempo diegetico ed “esistono” solo

come ruoli narrativi. Ancora una volta: l’immaginazione ci pone di fronte

ad una narrazione assoluta e ciò è quanto dire che non possiamo usare le

parole che la compongono come frecce che additano, legandosi le une alle

altre, un oggetto.

Ce lo vieta la neutralizzazione delle posizioni d’essere che ci costringe a

fermarci all’interno della narrazione e a rinchiuderci nell’universo noema-

tico dei ruoli, lasciando fuori dall’uscio gli oggetti nella loro esistenza au-

tonoma e individuale. Neutralizzare le posizioni d’essere significa in fondo

questo: accettare di rinchiuderci nel racconto, mettendo fuori gioco ogni

posizione oggettuale – ogni pretesa che ci siano davvero gli oggetti di cui

il racconto narra. Così, se qualcuno mi chiedesse che cosa accade ai pochi

compagni di Ulisse che scampano dalla grotta del Ciclope, io non posso

che rispondere aprendo il XII canto dell’Odissea, perché è solo lì che i

compagni di Ulisse muoiono per aver mangiato le vacche care al dio Sole.

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Quel gesto fatale è compiuto solo in quel testo ed esiste solo in quel rac-

conto: che l’Odissea narri quella vicenda non è dunque una conferma del

suo essere accaduto, ma è la condizione cui è vincolato il suo accadere sui

generis. Aprire nuovamente il XII canto e rileggere quella vicenda non

vuol dire verificare l’esattezza della sua narrazione, proprio come non si

verifica la verità di una notizia comperando un’altra copia dello stesso gior-

nale: vuol dire invece consentire alla storia di mettersi nuovamente in

scena. Del resto, nel caso della narrazione fantastica, non si può davvero

fare di più di così. Un racconto immaginativo, infatti, non racconta un

evento, ma lo costruisce passo per passo, parola per parola. E al di là delle

parole, non c’è proprio nulla che si possa cercare e che possa sorreggere la

narrazione: in questo senso, dunque, si può sostenere che i racconti creano

l’evento che narrano.

3. La neutralizzazione delle posizioni d’essere e di valore

Tra gli argomenti che Berkeley ci propone per sostenere che non è possi-

bile cercare l’essere al di là del percipi, uno merita di essere rammentato:

per Berkeley, la convinzione che possa esistere una realtà non percepita

dipende da un’astrazione che non può essere condotta in porto poiché ci

chiede di separare gli oggetti dalle forme della loro manifestazione, la cosa

che percepiamo dal suo essere innanzitutto data a un soggetto nelle forme

della consapevolezza. Berkeley ragiona così: dimostrare che vale la tesi

che vincola l’esse al percipi significa dimostrare che non è possibile libe-

rare la nozione di oggettività dalle forme della sua manifestazione perché

le forme di manifestazione sono parte essenziale dell’oggetto che è, per sua

natura, una datità. L’elegante astrazione che dovrebbe separare una volta

per tutte le cose dal loro essere oggetti per una coscienza non è attuabile,

perché non è possibile indicare negli oggetti qualcosa che non coincida con

le forme del loro essere coscienti per l’io che li percepisce.

Questo ragionamento antico che contiene in nuce la forma di ogni argo-

mento idealistico non ci si aiuta a comprendere la relazione che lega l’espe-

rienza ai suoi oggetti, ma ci consente di imparare qualcosa sul nesso che

lega le finzioni all’immaginazione e ce ne rendiamo conto non appena os-

serviamo che, nel caso delle finzioni, non sembra essere possibile separare

la struttura del fatto narrato dalle forme della narrazione.

Verso questa conclusione sembra condurci, in primo luogo, una consta-

tazione ovvia che ha una sua eco immediata sul terreno della filosofia ber-

keleyana. Per Berkeley, l’esperienza è in linea di principio sita al di qua

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della possibilità dell’errore in senso proprio19: il principio che vincola

l’esse al percipi rende priva di senso la domanda circa la verità o la falsità

di una percezione perché vera o falsa può essere un’acquisizione di ordine

conoscitivo, non la presenza di un oggetto. Uno stesso discorso vale per un

racconto finzionale: un racconto può esser scritto male e può sembrarci

insulso o poco credibile, ma non avrebbe senso dire che è falso o che i

personaggi sono mal descritti per la buona ragione che non sono descritti

affatto, ma creati insieme alle parole della finzione.

Si deve poi rammentare, in secondo luogo, che i racconti finzionali hanno

un inizio e una fine assoluti, proprio come un inizio e una fine ha la prassi

della narrazione finzionale. Se racconto un evento che mi è accaduto, non

posso fare a meno di fissare un punto di avvio ed una conclusione della

mia narrazione, ma l’evento narrato ha un’origine nel tempo che si spinge

al di là dell’incipit della narrazione e ha conseguenze che conducono oltre

il momento del suo necessario chiudersi: l’evento narrato appartiene al

tempo oggettivo del mondo e ogni istante di tempo rimanda di là da sé a

ciò che lo precede e lo segue. Una favola o un racconto finzionale, invece,

inizia e finisce con la narrazione che lo pone e chiedere che cosa è accaduto

prima della notte in cui Gregor si è trasformato in un mostruoso insetto o

che ne è stato di sua sorella Grete dopo quel matrimonio che i genitori

vagheggiano per lei nelle ultime righe de La metamorfosi vorrebbe dire

soltanto pretendere di ascoltare un nuovo e diverso racconto che cambie-

rebbe interamente il senso del primo20.

In terzo luogo, quando ci ricordiamo di un fatto e lo raccontiamo, deci-

diamo che cosa è opportuno dire e che cosa è opportuno tacere, ma questo

non toglie che ogni racconto di un evento sia più o meno lacunoso e che

potrebbe essere integrato, accostandosi di più alla verità dell’evento acca-

duto. Le cose non stanno così nel caso delle finzioni. Odisseo si ferma un

anno da Circe, ma Omero non ritiene di doverci dire nulla più di questo:

19 Vi è, certo, la possibilità che l’esperienza ci inganni da un punto di vista pragmatico: l’esperienza

visiva del remo che appare spezzato nell’acqua, guida male la mano che deve afferrarlo, ma in sé – nel

loro valore obiettivo – la percezione visiva del remo spezzato e la percezione tattile che la segue sono

altrettanto indubitabili.

20 «Una magnifica sera un non meno magnifico usciere, Ivàn Dmitric' Cerviakòv, era seduto nella

seconda fila di poltrone e seguiva col binocolo Le campane di Corneville" Guardava e si sentiva al

colmo della beatitudine. Ma a un tratto... Nei racconti spesso s'incontra questo “a un tratto”. Gli autori han ragione: la vita è così piena d'imprevisti! Ma a un tratto il suo viso fece una smorfia, gli occhi si

stralunarono, il respiro gli si fermò... egli scostò dagli occhi il binocolo, si china e... eccì!!! Aveva

starnutito, come vedete» – così scrive Cechov nella Morte di un impiegato, ed è appena il caso di osservare che non è sensato chiedere davvero che cosa sia accaduto nei giorni passati.

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«e là tutti i giorni, fino al compirsi di un anno / sedevamo, a goderci carni

infinite e buon vino» sinché i compagni lo persuadono finalmente a destarsi

dal torpore e a rammentare la casa paterna. Certo, è difficile immaginare

un anno così – un anno seduti a tavola, accompagnati dal corso dei mesi e

delle stagioni e dei giorni che si accorciano e poi di nuovo si allungano, ma

è esattamente questo quello che dobbiamo fare e immaginare qualcosa

d’altro – una passeggiata, una battuta di caccia o la lettura di un buon libro

– vorrebbe dire semplicemente sbagliarsi. Circe è il dominio della vita ani-

male sulla forma umana del vivere, ed è per questo che da lei gli anni pas-

sano così. Dire di più vorrebbe dire raccontare una storia diversa.

Eppure, si dirà, anche i racconti hanno lacune che debbono essere inte-

grate. Spesso si argomenta così: se in un racconto qualcuno, che abbiamo

lasciato a Londra, si trova improvvisamente a New York, si deve presu-

mere che abbia preso un aereo e che abbia attraversato l’oceano. Il racconto

forse tace che così stanno le cose, ma il lettore deve colmare la lacuna, così

come deve pensare che in quel mondo valgano le leggi di natura, anche se

nulla nel racconto ci costringe a ricordarle. «Se ora è a New York, deve

aver preso l’aereo – non può aver attraversato d’un balzo l’Atlantico» –

questo è quello che direbbe il lettore. Le lacune della narrazione, talvolta,

vanno colmate e questo, si dirà, è un chiaro segno del fatto che lacune vi

sono e che non è dunque vero che l’evento narrato non eccede la sua nar-

razione ed è quindi inseparabile da essa. Lo si è spesso sottolineato, e tut-

tavia, credo che le cose non stiano così e che si debba distinguere l’inte-

grazione di un racconto che si fonda sull’evento narrato dalle integrazioni

che sono determinate dallo sfondo di ogni narrazione. Se ti dico che questa

mattina ero a Pesaro e ora sono a Milano, hai ragione di pensare che abbia

preso un treno: deve essere proprio andata così. A ben guardare, tuttavia,

non hai soltanto diritto di pensarlo, ma puoi anche chiedermi come sono

arrivato e l’unica risposta che posso darti dipende da come sono andate

realmente le cose. Nel caso di un racconto di finzione, invece, le integra-

zioni non rimandano alla realtà di un evento che le fondi, ma alla coopera-

zione del lettore che deve continuare il gioco che l’immaginazione dell’au-

tore gli propone secondo le regole che la narrazione suggerisce. In un rac-

conto realistico, se un personaggio che era Londra si trova il giorno dopo

a New York, è necessario supporre che abbia preso un aereo. Dobbiamo

immaginare così. In un racconto diverso, tuttavia, le cose potrebbero an-

dare diversamente: «Profondamente assorto nei miei pensieri guardavo ap-

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pena dove mettevo i piedi... Dopo nemmeno duecento passi notai di es-

sermi smarrito, perché mi trovavo in un annoso bosco di abeti che nessuna

accetta doveva aver violato. Feci ancora qualche passo e fui circondato da

squallide rocce nevose sulle quali attecchivano soltanto muschi e sassifra-

ghe. Spirava un'aria gelida e il bosco di abeti era sparito. Dopo altri pochi

passi sentii intorno a me una quiete mortale, il ghiaccio si dilatava in

un’estensione enorme e una spessa nebbia ristagnava nell’aria; il sole fiam-

meggiava sanguigno al margine estremo dell'orizzonte e faceva un freddo

insopportabile... Seguendo la costa vidi ancora rocce, paesi, boschi di be-

tulle e di abeti: dopo un paio di minuti di corsa il caldo divenne insoppor-

tabile, scrutai ancora intorno e scorsi gelsi in fiore e colture di riso. Mi

adagiai all'ombra e detti un'occhiata all'orologio: non era passato nemmeno

un quarto d'ora da quando ero uscito dal villaggio! Credetti di sognare...»

– chi parla così è Peter Schlemihl, che ancora non sa di avere indossato gli

stivali delle sette leghe. Non si stupisce invece il lettore che è ormai prepa-

rato alle mille diavolerie (è proprio il caso di dirlo) di quel bellissimo rac-

conto e proprio per questo comprende che gli stivali da poco comperati

debbano essere la causa di quei passi prodigiosi. Il racconto lascia provvi-

soriamente aperta una lacuna che il lettore integra sulla base del progetto

immaginativo della narrazione. Del resto che cosa sia una lacuna e che cosa

non lo sia lo si determina in un racconto solo in virtù del progetto immagi-

nativo del racconto. Nel legno che Mastro Cilegia regala a Geppetto è ri-

masto imprigionato uno spiritello insolente che prenderà le forme di un

burattino. Che il suo corpo provi freddo e fame anche se è fatto di legno

Collodi ce lo dice fin dalle prime pagine del suo libro, invitando il lettore

ad un gioco immaginativo che ripercorre la ricetta fantastica delle meta-

morfosi e che proprio per questo si lascia guidare da una regola ancipite.

Questa regola sorregge le integrazioni cui il lettore è chiamato: ora dovrà

immaginare Pinocchio come un corpo vivo che ha fame, ora come una ma-

rionetta che può essere bruciata per cuocere le pietanze di Mangiafoco. In

nessun caso, tuttavia, al lettore si chiederà di immaginare quel che non è

chiesto dalla favola: Pinocchio ha fame, ma la sua fame vorace non ha bi-

sogno di uno stomaco; e ha freddo, ma non ha per questo sangue caldo che

circoli nelle sue vene. Collodi non lo dice, ma questa non è lacuna, perché

l’immaginazione non è chiamata a colmarla. Di qui, in quarto luogo, la

conclusione cui dobbiamo giungere: un racconto di finzione ha lacune, ma

le lacune rimandano al progetto immaginativo che il racconto stesso pro-

pone e non sono affatto determinate da un qualche raffronto con una realtà

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che stia al di là della narrazione stessa. Ma ciò è quanto dire che le lacune

immaginative sono lacune per l’immaginazione. Certo, per condurre in

porto il gioco immaginativo che è chiamato in causa da Pinocchio devo

avere un’esperienza del mondo: devo sapere che cos’è una marionetta e

che cos’è un bambino. Devo sapere come è fatto un pezzo di legno e che

cosa prova un corpo vivo, ma questo sapere che fa da sfondo alla mia com-

prensione di quel racconto non entra nel gioco immaginativo se non pie-

gandosi alle regole del gioco che la narrazione ci propone. Anche in questo

caso, dunque, l’evento narrato non è separabile dalla narrazione, ma sorge

con essa.

Non facciamo altro che sviluppare queste stesse considerazioni se osser-

viamo, in quinto luogo, che nel caso delle narrazioni immaginative non ha

senso parlare di quella peculiare asimmetria tra narratore e ascoltatore cui

avevamo dianzi alluso. Certo, chi narra la storia la sa già ed è quindi in

una posizione di vantaggio rispetto a chi l’ascolta, ma ciò non significa che

il narratore sappia prima della storia stessa come sono andate le cose che

narra. Tutt’altro: il narratore sa la storia (è così che si dice) e questo pro-

priamente significa che è soltanto la storia che decide degli eventi che in

essa si narrano. In fondo, il narratore è soltanto un ascoltatore che ha già

ascoltato la storia narrarsi e che sa per questo come va a finire; più di questo

non può sapere, anche se ne è l’autore: che Ulisse riceva da Eolo l’otre dei

venti avversi e che i compagni, giunti in prossimità di Itaca, lo aprano con-

vinti che contenga un tesoro è un fatto solo nella storia che l’Odissea narra

e non vi è altro luogo che lo racchiude e altra fonte che possa renderlo

accessibile. Così, se mai vi è stato un poeta di nome Omero, è un fatto che

di quella vicenda è stato il primo ascoltatore: il grande privilegio che la sua

creatività gli ha concesso è stato quello di ascoltare prima di ogni altro le

molte vicende di Ulisse e di sapere per primo come sarebbero andate a

finire. Di ascoltarle e, insieme, di decidere: chi narra per primo una storia

è libero di scegliere molte cose, ma questa libertà in fondo non è altro che

il diritto di scegliere quale storia raccontare.

La mancanza di un’asimmetria tra narratore e ascoltatore ha del resto un

suo risvolto etico su cui è opportuno riflettere, seppur brevemente. Chi

ascolta un racconto di una vicenda reale deve infine valutarlo a partire dai

criteri che gli appartengono e che ritiene in generale validi. Così, per

quanto sia opportuno rammentare che un fatto deve essere giudicato te-

nendo conto dell’universo culturale cui appartiene, dobbiamo infine far va-

lere l’assolutismo morale di Passepartout – il servitore del Giro del mondo

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in ottanta giorni di Jules Verne che, senza pensarci troppo, decide di sal-

vare la vedova indiana dal rogo su cui verrà bruciato il marito. I racconti

di fatti reali non racchiudono in sé il metro di giudizio che deve infine va-

lutarli, anche se è giusto cercare di comprendere ad un primo livello i fatti

alla luce dell’universo culturale cui appartengono. Diversamente stanno le

cose nel caso dei racconti di finzioni. Ogni finzione porta con sé il metro

di giudizio che le si addice. Tersite, il più brutto tra i greci, si lamenta di

Agamennone e della sua smodata voglia di ricompense, e non ha forse tutti

i torti a ricordare che le guerre sono un affare per i potenti e una disgrazia

per i popoli. E tuttavia, con buona pace di Concetto Marchesi, per leggere

l’Iliade dobbiamo mettere da canto queste preoccupazioni: dobbiamo im-

maginare una vicenda insieme al metro che la giudica. Un racconto ci pro-

pone un esperimento immaginativo: ci chiede di immaginare un mondo

con i suoi valori e con la sua morale, mettendo per un poco da canto le

nostre convinzioni e le nostre certezze. Qualche volta non riusciamo a con-

durre in porto l’esperimento che ci viene richiesto e ricadiamo dall’imma-

ginazione alla realtà. Dobbiamo immaginare che Tersite la gobba se la sia

andata a cercare insieme alla punizione che giustamente lo raggiunge –

dobbiamo immaginare così, ma qualche volta l’immaginazione cede il po-

sto ad un pensiero orientato al reale e allora la vicenda di Tersite ci appare

alla luce delle infinite ingiustizie che i potenti hanno esercitato contro chi

metteva in dubbio il loro diritto al sopruso. Qualche volta è difficile rima-

nere sul terreno dell’immaginazione – ed è forse questo cui a suo modo

allude il dibattito sulla “resistenza immaginativa”. E tuttavia, parlare di una

difficoltà a rimanere sul terreno immaginativo non significa affatto allu-

dere ad un qualche nesso che stringerebbe l’universo finzionale al sistema

dei valori e dei principi morali che governano la nostra vita reale. Tutt’al-

tro: quando il sistema dei valori reali si scontra con il metro di giudizio che

l’immaginazione ci chiede pro tempore di far nostro abbiamo già abban-

donato il terreno immaginativo e siamo ricaduti nostro malgrado sul ter-

reno della realtà. Non è difficile giocare il gioco che l’Iliade ci propone: è

difficile continuare a giocarlo quando siamo chiamati a riflettere sulla di-

versità tra quel gioco ed il nostro. Ma dire così non significa asserire che

l’immaginazione è vincolata al nostro giudizio sul mondo; al contrario: si-

gnifica rammentare che ogni immaginazione è libera e reca con sé il pro-

prio metro di giudizio, ma che la nostra adesione ad un insieme di principi

e di valori porta con sé una necessaria memoria del mondo che ci impedisce

di abbandonarlo.

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4. Immaginazione narrativa e credenza

Le considerazioni che abbiamo tracciato sin qui delineano un quadro coe-

rente e ci invitano a pensare alle finzioni come universi chiusi e aconte-

stuali che ospitano quasi-oggetti, ruoli che non godono di un’effettiva in-

dividualità, perché le condizioni della loro individuazione non rimandano

ad un qui e ora reali, ma sono solo apparentemente soddisfatte nel contesto

della narrazione. Gregor si sveglia ora, dopo una notte inquieta, nella sua

stanza e deve rendersi conto ora di quello che è avvenuto nella notte – si

sveglia in un luogo e in un tempo che sembrano dargli un’individualità che

si rivela illusoria non appena ci rendiamo che un racconto è una forma che

può essere liberamente ripetuta e che non ancora le proprie deissi a punti

obiettivi dello spazio e del tempo. L’attimo in cui Gregor si sveglia è ora,

ma lo è ogni volta in cui leggiamo il racconto perché la deissi è apparente

e non fissa un luogo nel tempo obiettivo, ma solo una relazione rispetto al

lettore.

Abbiamo detto così e tuttavia questo quadro coerente sembra poggiare

su un terreno fragile perché in fondo la tesi secondo la quale la narrazione

assoluta non farebbe un uso referenziale del linguaggio può apparirci una

tesi infondata. In fondo, perché non dire più semplicemente che le finzioni

sono semplicemente false, anche se il patto narrativo che ad esse ci lega ci

vieta di lasciarci persuadere che le cose stiano davvero così. In fondo, il

narratore potrebbe semplicemente avvertirci che quel che dirà non è vero,

per invitarci ad ascoltarlo, senza lasciarci ingannare. Qualche volta accade

così: ascoltiamo qualcuno che ci racconta del suo passato e non sappiamo

bene se credergli e anzi non gli crediamo affatto, ma capiamo che l’unica

ragione che lo spinge a mentire è il fascino del racconto. Quella sera non è

in realtà accaduto nulla di rilevante, ma perché dovrei rinunciare ad ascol-

tare una storia divertente, se sono certo che non me ne verrà alcun danno

visto che non prendo seriamente quello che dici e non mi lascio ingannare

da una menzogna che non si cura di celarsi perché di fatto non intende

ingannare nessuno? Potremmo interpretare così tutti gli indizi che ci hanno

portato alla tesi che abbiamo dianzi formulato: come segni evidenti del

fatto che le falsità che raccontiamo non pretendono di ingannarci. Parliamo

di un pezzo di legno che si anima di vita propria, ma alziamo subito dopo

le spalle quando si tratterebbe di dire dove e come questo è accaduto e

quando, un po’ come si dice che non ci si rammenta più quali fossero gli

amici che erano presenti con noi quando c’è capitata quella buffa vicenda

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che ha il torto di non essere affatto accaduta. Del resto, se tu mi chiedessi

se Pinocchio e Geppetto sono mai esistiti, ti risponderei di no, come fa-

rebbe qualsiasi persona di buon senso. Un uomo che si sia svegliato da una

notte inquieta trasformato in un insetto mostruoso non è mai esistito: que-

sto lo sappiamo bene. Ma allora perché non dire semplicemente che La

metamorfosi di Kafka racconta a rigore un insieme di falsità che possono

essere accettate solo perché, leggendole, non crediamo affatto che sia ac-

caduto quel che si dice sia accaduto?

Certo, quando abbiamo ritenuto possibile sostenere che le finzioni sono

racconti assoluti avevamo osservato che da un lato non è affatto chiaro che

cosa voglia dire che un racconto come La morte di Ivan Il’ic racconta una

storia che non è accaduta e, dall’altro, che in generale quando abbiamo a

che fare con le forme dell’immaginazione in senso pregnante non si può

tanto dire che ciò che caratterizza gli “oggetti” dell’immaginazione non è

il fatto che non li si trova, ma che non lo si cerca nella realtà, ma non credo

che nessuna di queste osservazioni contraddica davvero la tesi secondo la

quale le finzioni sono affermazioni prive di fondamento. Non sappiamo se

davvero non è accaduto in qualche città della Russia che un uomo di nome

Ivan Il’ic si sia un giorno fatto male ad un fianco sistemando una tenda e

che sia infine morto per colpa di questo ridicolo incidente domestico. È

molto improbabile che le cose siano andate così, ma non possiamo esclu-

derlo e in fondo Pirandello nella seconda edizione de Il fu Mattia Pascal

fa notare ai critici che avevano accusato il suo romanzo di essere troppo

inverosimile che un simile fatto era davvero accaduto perché la realtà

spesso è più assurda di ogni finzione. Così non possiamo escludere che sia

accaduto ciò che Tolstoj e Pirandello ci raccontano, ma questo non toglie

che possiamo egualmente considerare che quei racconti siano in se stessi

un insieme di asserzioni infondate, cui non dobbiamo credere. Forse non

possiamo dire che quei racconti siano falsi, ma non per questo dobbiamo

pensare che siano privi di un valore referenziale: affermano che sono ac-

cadute certe cose e lo fanno senza alcun fondamento. Può darsi che Mattia

Pascal sia esistito davvero, ma non abbiamo alcuna ragione per crederlo, e

molte per pensare il contrario. Quanto alla seconda considerazione propo-

sta possiamo semplicemente accettarla senza problemi: in fondo, chi

ascolta un racconto pensando che si tratti di una bugia inoffensiva e mani-

festa non soltanto non trova quel che vien detto nella realtà, ma non lo cerca

nemmeno. Sa che quell’evento così bizzarro non è mai accaduto e non

cerca di sincerarsene: sa già che nel mondo non troverebbe nulla di eguale,

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ma proprio per questo non perde tempo a cercare. Una finzione racconta

una storia cui non crediamo e che non ci chiede la fatica di controllare se

sia vera o falsa, anche se abbiamo tutte le ragioni per pensare che sia falsa.

Possiamo davvero ragionare così? Certo, vi è un senso in cui non cre-

diamo affatto alle finzioni che leggiamo e ci sembra evidente che vi sia una

prospettiva in cui esse debbano essere semplicemente ritenute false: nel

mondo reale non ci sono lupi che parlino e che inghiottano le loro prede

vive in un solo boccone. Questo è certo, e tuttavia proprio qui si fa avanti

una difficoltà cui si deve tentare di dare una risposta. Non crediamo alle

favole e ai racconti di finzione, ma questa constatazione così ovvia sembra

possibile pronunciarla solo nel momento in cui guardiamo al contenuto

della finzione con gli occhi disincantati di chi ha smesso di immaginare. E

anche questo è chiaro: non posso leggere un racconto e insieme vestire i

panni del guastafeste che di continuo mi ripete che quel che leggo non è

affatto vero. So che una favola non mi parla affatto del mondo reale e non

credo realmente che esistano e talvolta che possano esistere i personaggi

che animano i mondi della finzione, ma quando mi immergo nel racconto

vi è un senso in cui l’incredulità si affianca al suo contrario poiché non

possiamo non temere per la sorte di Gregor perché ci aspettiamo che acca-

dano le cose che di fatto accadranno. Crediamo molte cose nella storia an-

che se non crediamo affatto alla storia– questo è il punto.

Una prima ipotesi sembra invitarci a sciogliere questa sorta di contraddi-

zione disponendola in una successione temporale: è la via che Coleridge

suggerisce quando propone di intendere l’atteggiamento del lettore come

una momentanea sospensione dell’incredulità, come una dimenticanza pro

tempore del carattere finzionale del racconto. Non è facile comprendere

come questo possa accadere. Non posso decidere di credere o di non cre-

dere, perché il credere e il non credere non sono atteggiamenti di cui possa

liberamente disporre: non posso smettere volontariamente di credere che

questa sia la mia mano, ma non posso costringermi a credere, sia pure per

poco, che Giacomino abbia raggiunto le nuvole arrampicandosi sui rami di

una pianta di fagiolo. Non posso deciderlo, nemmeno per ottemperare ad

un patto con il narratore, ma potrebbe tuttavia accadere che quel patto mi

disponesse all’ascolto o alla lettura e che la narrazione mi catturasse, fino

a farmi dimenticare che, al di là della finzione in cui mi immergo, vi è un

mondo reale che continua ad esistere. Un’ipotesi apparentemente plausi-

bile che sembra spiegare certi comportamenti di lettura che sono chiara-

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mente finalizzati a tacitare la presenza del mondo esterno: ci si mette co-

modi per tacitare le voci del corpo e si chiude la porta per lasciarsi il rumore

del mondo alle spalle. Nei teatri la luce si spegne e resta, illuminata, sol-

tanto la scena. Il mondo reale viene così sospinto al di là dello spazio della

finzione, ma questo significa davvero che sia possibile dimenticarlo? Per

molti versi, questa richiesta sembra eccessiva: non posso dimenticarmi del

fatto che la storia progredisce solo perché assecondo il suo svolgersi gi-

rando a tempo le pagine del mio libro e qualche volta, quando la curiosità

si impossessa di noi, può accadere che si vada a sbirciare nelle ultime pa-

gine perché non abbiamo mai dimenticato che il mondo della narrazione è

racchiuso nell’oggetto reale che abbiamo tra le mani. E del resto: se dav-

vero si trattasse di dimenticare che ciò che leggiamo ha un carattere finzio-

nale, come potremmo rendere conto del carattere così apertamente lettera-

rio delle finzioni? Le favole non parlano il linguaggio consueto della realtà,

ma usano ripetizioni e formule che rammentano al lettore ad ogni passo

che ciò che stanno leggendo è un’opera letteraria e così accade anche nelle

opere teatrali, in cui raramente la recitazione vuole essere pienamente rea-

listica. Ci ricordiamo bene che si tratta di una finzione; non abbiamo di-

menticato nulla, ma anche se per un caso questo fosse accaduto, la forma

della letterarietà (che non è affatto una colpa da cui un buon narratore do-

vrebbe emendarsi) ce lo rammenterebbe passo dopo passo. Del resto, si

possono dimenticare molte cose, ma non è davvero possibile dimenticare

lo stile consueto della realtà: non possiamo dimenticarci che dopo una notte

inquieta non ci si può svegliare trasformati in un gigantesco insetto. Non

possiamo leggere La metamorfosi e dimenticarci che si tratta di un rac-

conto; e non dobbiamo nemmeno farlo: per coglierne il senso, dobbiamo

poterlo leggere mantenendo quel distacco che ci consente di stringere in un

unico nodo l’assurdità dell’evento all’atteggiamento pacato e quotidiano

con cui ci si fa una ragione di questa stranezza. Dobbiamo leggerlo come

un racconto cui si crede – come a un racconto: questo è il punto.

Di qui la necessità di vagliare una seconda ipotesi che non ci chiede di

dimenticare quello che la struttura di ogni racconto di continuo ci ricorda,

ma che ci invita a distinguere il credere dal far finta di credere. Non cre-

diamo a ciò che La metamorfosi ci racconta, ma quando ci immergiamo

nella storia facciamo finta di crederci e questa dualità insita nelle forme del

“credere” deve consentirci di venire a capo della contraddizione di cui di-

scorrevamo. Non crediamo, ma facciamo finta di credere, e tuttavia basta

riflettere un poco per rendersi conto che i problemi restano ancora insoluti:

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non è chiaro infatti che cosa possa voler dire che fingiamo di credere ad un

racconto. L’abbiamo già osservato: il credere o il non credere non sono

atteggiamenti che siano in nostro possesso. Non posso decidere di dubitare

o di non credere a ciò cui semplicemente, ed è per questo che Cartesio nella

Prima meditazione ha bisogno di cercare argomenti che giustifichino il suo

dubbio metodico. Far finta di credere non potrà significare allora impe-

gnarsi in un gesto volontaristico che ci spingerebbe a credere ciò cui non

crediamo affatto. Di qui una diversa ipotesi che cerca di far luce sul senso

di quest’espressione a partire da espressioni simili. Se ci si chiedesse che

cosa significa fingere di dormire, noi sapremmo come rispondere, così

come sapremmo dire quali comportamenti dovremmo inscenare per ren-

dere quella finzione credibile. Ora si possono fingere situazioni e stati

d’animo: posso fingere di avere fame o di essere inquieto e posso fingere

di essere triste o di essere preoccupato. Più difficile sembra invece fingere

di credere, perché non vi è qualcosa che facciamo propriamente quando

crediamo qualcosa, e tuttavia potremmo dire che qualsiasi finzione insce-

niamo, insceniamo anche il nostro fingere di credere alla situazione che

recitiamo. Così, se fingo di suonare il violino, fingo anche di credere che

vi sia un violino in una mano e un archetto nell’altra e se fingo di essere

preoccupato, fingerò anche di credere che vi sia qualcosa che motiva quello

stato d’animo. Fingere di credere vorrebbe dire allora comportarsi come se

si credesse: dare da credere a sé agli altri che le cose stiano diversamente

da quello che in realtà riteniamo.

Quando ascoltiamo una favola fingiamo dunque di credere che il lupo

possa davvero essere così astuto come si narra, proprio così come nel gioco

il bambino finge che il divano sia una nave: nell’uno e nell’altro caso im-

maginare vorrebbe dire comportarsi come se fosse vero ciò che sappiamo

non essere vero. Ma le cose possono davvero stare così? Possiamo davvero

pensare che ascoltare una storia possa voler dire “recitare” un certo com-

portamento?

In un certo senso, una simile spiegazione sembra chiedere ora troppo, ora

troppo poco. Sembra innanzitutto pretendere troppo perché ci invita a pen-

sare che lo spettatore debba recitare le sue reazioni al contenuto della fiaba,

ma nessuno finge di prendere lo schioppo per difendersi dal lupo e nessuno,

leggendo, si comporta come se davvero ci fossero le molte cose che una

storia racconta. Se c’è una recita, il suo copione sembra essere molto meno

ricco di quel che potrebbe. Ma sembra, soprattutto, pretendere troppo poco,

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perché non ci sembra affatto di far finta di soffrire quando leggiamo il de-

stino di Adelchi e un bambino non recita la paura prima e la soddisfazione

poi quando qualcuno gli legge la storia dei sette capretti.

Venire a capo di queste considerazioni significa rammentare che non

ogni recita assume necessariamente le forme di un mero fingere, privo di

una partecipazione effettiva. Certo, posso mettere in scena la tristezza sem-

plicemente ripetendone il comportamento esteriore, ma quando giochiamo

o leggiamo un racconto le cose non stanno affatto così perché a fondamento

del nostro fingere vi è una situazione complessa che orienta in una dire-

zione determinata le nostre sensazioni e le nostre esperienze. Non pos-

siamo credere che vi sia un lupo e che abbia davvero sterminato sette ca-

prette, ma per avvertire un brivido dietro la schiena non c’è bisogno di

credere: le sensazioni sono più semplici delle emozioni e non chiedono

altro che una causa per essere scatenate. Così, se per provare un’emozione

è necessario che le sensazioni si leghino al nostro credere che le cose stiano

come debbono stare per motivarle, per provare una sensazione di angoscia

è sufficiente che certe scene si impongano alla nostra attenzione: ci basta

pensare che i denti del lupo si chiudano sul corpo di un cucciolo per sentire

un brivido dietro la schiena. Il bambino non crede che ci sia un lupo, ma la

scena che deve rappresentarsi lo mette egualmente a disagio e la sensazione

che prova può divenire nell’ascolto il fondamento di una quasi-emozione:

ciò che prova può adattarsi alla recita che deve condurre a termine, perché

si attaglia bene al tipo di emozione che la narrazione richiede. Come un

bastone offre un pretesto per mettere in scena un duello a colpi di sciabola,

così la sensazione di disagio attribuisce alla recita che il lettore deve insce-

nare la giusta partecipazione emotiva e, per così dire, la serietà dovuta.

Leggere un racconto non significa compiere un esercizio di falsa coscienza

e fingere quel che non si prova: significherebbe invece intendere quel che

si prova alla luce della narrazione, proprio come si intendono alla luce del

gioco gli oggetti che l’azione ludica incontra.

Siamo giunti così a formulare un’ipotesi che sembra percorribile. L’im-

maginazione è un far finta di credere ad una determinata situazione che è

sostenuto nella sua serietà dal fatto che avvertiamo le stesse emozioni, sep-

pure modificate di segno, che proveremmo se quella stessa situazione fosse

reale. Le quasi emozioni divengono così il fondamento della serietà imma-

ginativa – ma basta? Certo, se proviamo una sorta di dolore quando Ivan

comprende quello che lo aspetta e se abbiamo quasi paura per i sette ca-

pretti questo sembra attribuire al nostro gioco immaginativo un carattere di

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serietà, ma possiamo per questo dire che crediamo (o che quasi-crediamo)

nei racconti? Possiamo rendere conto del fatto che, nel gioco come nella

lettura, l’universo immaginativo si pone, pro tempore, come un mondo che

ci coinvolge e di cui ci sentiamo parte solo rammentando che ci è possibile

intendere quel che avvertiamo come fondamento di un gioco che finge il

nostro provare certe emozioni?

Che non sia possibile tentare di venire a capo del nostro “credere” nelle

finzioni seguendo una via analoga a quella che abbiamo percorso per le

quasi-emozioni sembra relativamente ovvio, perché il credere non ha da un

lato sensazioni peculiari che lo accompagnino e perché, dall’altro, non è

uno stato d’animo. Il mio sistema di credenze mi accompagna in ogni mia

azione, ma sarebbe privo di senso sostenere che vi sia un vissuto che abbia

ogni mia convinzione. Credo che Auckland sia una città della Nuova Ze-

landa, ma crederlo non significa vivere una qualche sensazione particolare

e del resto vi sono molte credenze che mi accompagnano nella mia prassi

quotidiana senza che abbia alcuna ragione per richiamarle alla mente.

L’unico sostegno che possiamo cercare per il nostro “credere” nell’uni-

verso immaginativo ci riconduce in questa prospettiva al gioco delle quasi

emozioni: credere in una storia significa solo rammentare che il nostro fin-

gere di credere è pervaso da una serietà di fondo, poiché siamo in qualche

modo coinvolti da ciò che immaginiamo.

Io credo che queste considerazioni colgano in parte nel segno, ma che al

contempo rivelino che vi è qualcosa di radicalmente sbagliato nella pro-

spettiva generale che le caratterizza. Rammentiamo quale fosse il nostro

problema: volevamo sciogliere la contraddizione che sembra caratterizzare

il nostro rapporto con i contenuti dell’immaginazione cui in un qualche

senso ci sembra di “credere”, ma cui tuttavia non crediamo affatto e c’era

sembrato possibile venirne a capo attraverso la tesi secondo la quale im-

maginare significa impegnarsi in un gioco di finzione. Ora, fingere di cre-

dere ad un universo immaginativo significa fare qualcosa che sembra es-

sere necessariamente consapevole: se immaginare significa dare a credere

a sé e agli altri che le cose stiano in un certo modo non posso non rendermi

conto che sto appunto facendo finta di credere. Far finta di credere che le

cose stiano in un certo modo, tuttavia, implica che si sia consapevoli che

non crediamo che le cose stiano realmente in quel modo, perché non posso

far finta di credere ciò in cui realmente credo, così come non posso far finta

di essere nato nel 1958 se sono nato nel 1958. Se così stanno le cose, tut-

tavia, far finta di credere che il lupo abbia ingoiato in un boccone i sei

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capretti vuol dire allo stesso tempo essere consapevoli di non credere che

vi sia un lupo che ha divorato quei capretti. Ne segue che il mio fingere di

credere al contenuto di un racconto fa tutt’uno con il mio prendere co-

scienza che non credo affatto al contenuto di quel racconto. Di qui, tuttavia,

la difficoltà di cui discorrevamo: se ci poniamo in questa prospettiva, im-

maginare qualcosa vorrebbe sempre e necessariamente dire ricordarsi che

qualcosa non esiste affatto. E ciò è quanto dire: il nostro immaginare la vi-

cenda del lupo e dei sette capretti farebbe tutt’uno con il nostro sapere che è

falsa e che, dunque, è soltanto per finta che crediamo a ciò che ci si rac-

conta. L’immaginazione, in questa prospettiva, è tutta qui – nella parola

“soltanto” che ci insegna quale sia il senso dei prodotti immaginativi: è

soltanto un film, è soltanto un racconto, è soltanto un gioco. Ora, vi è un

senso in cui questo è senz’altro vero: chi immagina un racconto, non pre-

tende che sia vero ciò che esso narra. E tuttavia, stranamente, di questo

avverbio non sentiamo nella norma il bisogno se non quando qualcosa

sfugge al nostro controllo. Mentre leggo una favola ad un bambino, mi

accorgo che la vicenda narrata lo rattrista e lo spaventa e allora – per ripa-

rare al misfatto – lo consolo e gli dico che è soltanto una favola: così fa-

cendo, tuttavia, lo invito ad abbandonare per un attimo la prospettiva

dell’immaginazione nella quale si è calato in modo troppo vivido. Il bam-

bino non ha dimenticato che si tratta di una favola – e come potrebbe altri-

menti credere a lupi che parlano e che mangiano capretti in un solo boc-

cone? – ma si è immerso troppo nell’immaginazione e si lascia dominare

dalla finzione che ascolta, proprio come accade talvolta a noi adulti: la pa-

rola “soltanto” richiama lui e noi dall’immaginazione alla realtà nella quale

comunque siamo e ci invita a fare un lungo respiro prima di iniziare even-

tualmente a fantasticare di nuovo. Ma se così stanno le cose, se devo de-

scrivere il mio rapportarmi al contenuto di un racconto o di una finzione

alla luce di ciò che la paroletta “soltanto” mi insegna, allora devo ricono-

scere che al terreno immaginativo non riesco propriamente ad accedere,

perché nel momento in cui mi propongo di fingere e di considerare quindi

soltanto finzioni le vicende del lupo e dei sette capretti ho di fatto già ab-

bandonato il terreno immaginativo e mi sono tranquillizzato nella realtà,

cui nuovamente accedo nel momento stesso in cui mi costringo a calcare il

terreno delle credenze. Pensare l’immaginazione come un fingere di cre-

dere significa allora coglierla da un punto di vista che non appartiene allo

spazio dell’immaginazione e che ci costringe a pensarla alla luce della di-

stanza che la separa dal nostro essere come di consueto coinvolti nella

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realtà cui apparteniamo. Ne segue che la stessa serietà dell’immaginare di

cui abbiamo dianzi discusso e che c’era sembrata così caratteristica del no-

stro rapporto con i prodotti dell’immaginazione deve essere in qualche

modo indebolita: posso far finta di credere che il lupo abbia divorato i ca-

pretti solo ripetendomi a bassa voce che è soltanto un racconto e che se

fingo di credere è solo perché in realtà non credo. Ma ciò è quanto dire che

il riconoscimento, in sé ovvio, che il racconto non si dispone sul terreno

della realtà porta con sé, nella prospettiva che abbiamo delineato, una vera

e propria negazione delle ragioni che dovrebbero consentirci di viverlo.

Una conferma di queste considerazioni ci si offre, del resto, non appena

riflettiamo un poco sulla possibilità di tranquillizzare chi si è lasciato

troppo prendere dall’immaginazione. Leggo un racconto e mi lascio pren-

dere da una commozione eccessiva, che cerco di tacitare ripetendomi che

si stratta soltanto di una finzione. Agisco così per guadagnare una posi-

zione nuova rispetto alla narrazione – ma come potrei ottenere un qualche

risultato se questa fosse la prospettiva da cui solitamente guardiamo ai con-

tenuti di finzione? Che un racconto sia soltanto un racconto non può essere

la massima che ci guida nella lettura perché questo è l’atteggiamento che

assumiamo solo quando guardiamo al contenuto della finzione dal punto

di vista della realtà. Qualcosa deve mutare quando mi lascio tranquillizzare

e tuttavia, sarebbe sbagliato dire che la massima della tranquillizzazione ci

insegna davvero qualcosa di nuovo: se posso ripetermi da solo che si tratta

di un racconto è perché lo so bene e perché, per quanto possa suonare

strano, non me ne sono affatto dimenticato. Devo credere nel racconto,

senza credere al racconto e devo poter sapere che le cose stanno così

Per sciogliere questo nodo è necessario innanzitutto distinguere due dif-

ferenti concetti che si confondono nel verbo “credere”. Vi è un’accezione

propria del verbo “credere”: in questo caso della parola “credere” ci avva-

liamo per sostenere che abbiamo ragioni di pensare che un certo stato di

cose sussista e sia proprio così come ci si dà. Abbiamo ragioni per credere

che il libro sia sul tavolo, e questo significa che non siamo semplicemente

entrati nello studio e che abbiamo visto quel che non potevamo non vedere,

ma che l’abbiamo propriamente constato: abbiamo rivolto esplicitamente

lo sguardo in una direzione determinata e abbiamo cercato in quel che ve-

devamo una risposta ad una domanda. Abbiamo usato la vista come uno

strumento per rispondere ad una domanda, come un criterio per sciogliere

un dubbio. Ci siamo avvalsi così di quel che vedevamo, ma la vista può

fungere come un criterio se e solo se le constatazioni che ci consente di

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compiere si muovono sul terreno di un mondo che è comunque immedia-

tamente percepito e che deve essere presupposto nella sua normalità perché

una qualche percezione possa valere come una constatazione e quindi

come una risposta ad una domanda che verte sull’esserci e sull’esser così

di qualcosa. Posso dire che il libro è sul tavolo non soltanto perché posso

constatare che le cose stanno così, ma anche perché la mia constatazione

poggia su molte percezioni che constatazioni non sono e che non chiedono

di essere controllate per potersi porre come il terreno su cui poggiamo:

controllo che ci sia il libro volgendo lo sguardo là dove è il tavolo, ma non

dubito che il luogo che il mio sguardo raggiunge sia quello che cerco e cui

giungo dopo aver percorso un breve cammino in un ambiente familiare che

mi è noto e di cui sono certo, ma che non mi è dato come oggetto di una

constatazione, ma è presente come il mondo cui la mia percezione mi con-

sente di accedere. Un dubbio ed una risposta ad un dubbio presuppongono

molte certezze21 e ciò è quanto dire credere ad un determinato stato di cose

solo se possiamo rendere tema di una constatazione qualcosa che ci si dà

nell’esperienza e che appartiene come tale al nostro mondo. Per credere

che le cose stiano così e così dobbiamo già avere avuto esperienza della

loro immediata presenza, del loro essere parte di un mondo che mi si dà in

un rapporto che è prima della dimensione del constatare e che, come tale,

non cade sotto il significato proprio della credenza.

Non crediamo di avere un mondo cui apparteniamo e tuttavia sarebbe

davvero un errore sostenere che non ne siamo già certi. Prima di credere

che le cose stiano così e così, siamo già coinvolti in una situazione che

determina le nostre emozioni e che costituisce l’orizzonte delle nostre

preoccupazioni. Così, anche se non abbiamo ragioni per dire che vi sono

un’infinità di cose che tuttavia fanno parte del nostro mondo, ne siamo

egualmente certi perché prima di avere ragioni che ci convincano, ci muo-

viamo già sul terreno della certezza, di una credenza originaria che non ha

nulla che parli in suo favore, se non l’evidenza che accompagna ogni per-

cezione e che costituisce il terreno su cui poggia ogni altra nostra convin-

zione. Potremmo parlare a questo proposito di una diversa accezione del

credere, di una credenza in senso improprio, che coincide con l’orizzonte

di ciò che si manifesta percettivamente. Ora, il terreno delle nostre certezze

– delle nostre credenze in senso lato – è sensibile alle ragioni e si lascia

plasmare dalle credenze in senso proprio. Ciò che vengo a sapere del

21 Wittgenstein

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mondo può costringermi a correggere l’immagine che me ne ero fatto: pen-

savo di aver visto il tuo libro sul mio tavolo, ma ora che ho guardato con

attenzione devo ricredermi. Il mondo che si manifesta percettivamente è

dunque da un lato il terreno su cui le credenze si fondano e, dall’altro, il

luogo di un processo di correzione e di riconfigurazione. Ne segue che il

mio coinvolgimento emotivo nel mondo è determinato in primo luogo da

ciò che nella mia esperienza si manifesta, ma anche, in secondo luogo, da

ciò che vengo a sapere, dalle constatazioni che faccio e che mi costringono

a correggere l’immagine della realtà cui appartengo. Le credenze in senso

proprio retroagiscono così sulle credenze in senso lato e ciò che vale per il

presente, vale anche per il passato e per il futuro: anche nelle diverse forme

di quasi esperienza si manifesta un mondo che detta le forme del coinvol-

gimento emotivo, ed anche per i mondi che il ricordo e la progettualità

dischiudono è possibile una correzione alla luce di quello che vengo a sa-

pere e che ho ragione di credere. Mi ricordo così e per questo sono a disa-

gio, ma se solo potessi mostrare che il sospetto di avere agito male fosse

frutto di un ricordo impreciso sarei tranquillo ed è anche per questo che

parliamo delle nostre preoccupazioni agli amici – perché speriamo che, vi-

sto da una diversa prospettiva, lo stesso fatto riveli un volto meno inquie-

tante. Possiamo lasciarci convincere che le cose stiano diversamente e

siamo autorizzati a farlo perché ciò che nell’esperienza si manifesta può

essere corretto alla luce di credenze giustificate. Il credere in senso proprio

si lega così al credere nella sua accezione lata, e lo corregge.

Di qui, da questa possibilità delle credenze di retroagire sulla nostra ade-

sione preteoretica al mondo deriva il carattere di quasi credenza della no-

stra situazione emotiva. Non abbiamo ragioni per credere al mondo che

nell’esperienza ci si manifesta, ma poiché questo nostro mondo si plasma

e si corregge alla luce delle nostre credenze è possibile trovare una conti-

nuità tra la dimensione teoretica e la dimensione preteoretica, tra le cre-

denze in senso proprio e la credenza originaria.

Diversamente stanno le cose quando ci disponiamo sul terreno dell’im-

maginazione in senso proprio. Anche l’immaginazione è una forma di

quasi esperienza e ci dispone in un mondo di cui ci sentiamo parte e in cui

siamo coinvolti emotivamente, almeno sin quando prestiamo ascolto alla

finzione che lo dischiude. Immaginare significa dunque, in questo, senso

“credere” all’universo finzionale, ma proprio qui è il punto in cui la diffe-

renza si fa manifesta. L’esperienza percettiva rende manifesto un mondo

di cui ci sentiamo parte, ma se in questo caso possiamo parlare di credenza

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originaria ciò accade perché il terreno delle credenze giustificate sorge sul

terreno delle certezze percettive e ad esso ritorna, correggendole. Nel caso

dell’immaginazione, invece, disporsi sul terreno della credenze vuol dire

in linea di principio abbandonare l’universo finzionale e tacitare con una

domanda sbagliata il nostro coinvolgimento in ciò che il racconto narra. E

non è un caso che sia così. Qualunque sia la risposta che ci sembra di dover

dare alla domanda che verte sull’esistenza o la non esistenza di ciò di cui

una finzione narra, l’universo immaginativo è comunque già chiuso perché

ponendoci quella domanda abbiamo di fatto trasformato i quasi oggetti che

lo abitano in descrizioni di cui ci si chiede se siano o non siano soddisfatte

dal mondo reale. Se mi chiedi se Tersite aveva davvero la testa a pera non

sei soltanto costretto (e non a caso) a volgere al passato una domanda cui

l’immaginazione risponderebbe al presente, ma hai già varcato l’universo

finzionale, ponendoti un interrogativo che stravolge il senso della finzione:

hai trasformato un personaggio che appartiene ad un universo immagina-

tivo in una descrizione cui con tutta probabilità non corrisponde nulla nel

mondo. Una simile domanda si può fare, ma è fastidiosa: qualunque sia la

risposta, il mondo dell’Iliade si è già chiuso e siamo tornati al nostro

mondo, passando tuttavia dalla porta di servizio di una domanda oziosa. Il

Tersite di cui l’Iliade parla non è mai esistito, proprio come non sono mai

esistiti lupi che inghiottono capretti in un solo boccone. Certo, possiamo

chiederci se un racconto è anche l’eco di una storia reale, e proprio questo

varrebbe nel caso dell’Iliade, ma la curiosità dello storico che si interroga

sul nostro mondo e si chiede se un testo abbia anche un valore documentale

non può essere l’abito del lettore che immagina, leggendo una storia: l’im-

maginazione non tollera queste domande da guastafeste perché è suffi-

ciente porle per fraintendere il senso di quel che è narrato. Se non è mai

esistito nel mondo un personaggio come Tersite, allora ciò che abbiamo

letto ci appare alla luce di questa domanda come una falsità che non pos-

siamo prendere sul serio e che non può in nessun modo turbarci; se invece

scoprissimo che un simile uomo è davvero vissuto o se ci disponessimo

nell’atteggiamento , allora non sarebbe possibile dare alle pagine che ne

narrano la vicenda il senso che Omero attribuisce loro, ma dovremmo pren-

derne le difese e disprezzare Ulisse che lo percuote. Se un evento è real-

mente accaduto, non ha senso giudicarlo secondo la morale di chi lo narra:

ciò che appartiene al nostro mondo deve essere giudicato e valutato se-

condo le regole che noi riteniamo valide. Ma se questo è vero, domandarsi

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se Tersite aveva davvero la testa a pera non significa solo porre una do-

manda fastidiosa da guastafeste; vuol dire anche formulare una domanda

che è nella norma sbagliata perché ci invita a dimenticare il carattere non

referenziale delle finzioni e a coglierle come se fossero descrizioni (di

norma) false del nostro mondo.

Se invece mettiamo da parte la tesi secondo la quale le finzioni sono de-

scrizioni false, anche se innocenti, del mondo, e riconosciamo che esse

creano il loro mondo e, insieme ad esso, l’orizzonte dei valori che lo per-

vade, allora possiamo da un lato comprendere perché le finzioni portano

con sé il giudizio sui loro personaggi, ma anche dall’altro come possa com-

porsi il problema da cui abbiamo preso le mosse. Le finzioni ci coinvol-

gono: l’immaginazione è una forma di quasi esperienza e in essa si mani-

festa un mondo in cui siamo emotivamente situati. Le finzioni, tuttavia,

parlano un linguaggio non referenziale e questo esclude in linea di princi-

pio che sia possibile trasformare la serietà della nostra adesione al mondo

immaginativo in una credenza in senso proprio: i personaggi di un racconto

non “esistono” al di fuori della narrazione e non è quindi possibile trovare

altrove ragioni che giustifichino la loro esistenza effettiva. Non possiamo

credere a ciò che le finzioni ci raccontano perché si può credere soltanto a

ciò che ha un’esistenza effettiva e che sussiste al di là della manifestazione

che lo pone. L’impossibilità di credere ai contenuti di una finzione non si

traduce tuttavia nel nostro credere che non esistano; tutt’altro: nel caso

della dimensione immaginativa, è la possibilità stessa di credere che deve

essere messa da canto. Ma ciò significa che possiamo – in un’accezione

impropria del termine – “credere” nella storia, senza crederci affatto: è suf-

ficiente lasciarsi coinvolgere da essa e farsi guidare dalla natura dei suoi

oggetti che, per il loro essere accessibili solo nella manifestazione che li

pone, non possono essere propriamente creduti.

Annotazione. Il paradosso della finzione

5. La narrazione immaginativa: un esperimento mentale

Nelle nostre considerazioni sulla natura delle finzioni, ci siamo lasciati gui-

dare da un modello che doveva consentirci di segnare delle differenze: ab-

biamo più volte confrontato i racconti dell’immaginazione con le narra-

zioni della memoria, suggerendo insieme un possibile cammino che da

queste conduce a quelli e che ci consente di comprendere ora per conti-

nuità, ora per contrasto, molte cose concernenti la forma delle finzioni. Si

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tratta di un cammino percorribile, ma non è certo l’unica via che avremmo

potuto seguire: vi infatti un nesso altrettanto evidente che lega l’immagi-

nazione narrativa alla dimensione della possibilità e quindi alle forme

dell’esperienza in cui la trama della realtà si fa più sottile e si avverte dietro

di essa il gioco di intrecci della possibilità. Anche qui affondano le radici

delle finzioni: nel loro espandere possibilità che la vita propone e subito

richiude – nell’espanderle, svincolandole dal contesto dell’esperienza reale

e dal loro stesso porsi come possibili forme di decorso della realtà. Ci

siamo già soffermati su questo tema e non credo sia opportuno percorrerli

nuovamente, per mostrare che anche di qui si può seguire un cammino che

conduce alla meta cui siamo giunti. E tuttavia, vi è almeno una ragione che

ci invita a ricordare la dimensione della possibilità, ed è che essa ci invita

a riflettere su un tratto che appartiene alla natura dell’immaginazione nar-

rativa e che ne mette in luce non tanto la forma, quanto la funzione e il

significato: il suo porsi come un esperimento mentale, come un gioco che

ci permette di saggiare la vita e il mondo, rimanendo al di qua del loro

accadere reale e possibile. In questo senso un racconto è davvero una sag-

gia sperimentazione: ci consente di partecipare ad una vita che non c’è,

per comprenderne il senso, senza tuttavia addentrarci davvero in vicende

che potrebbero non soltanto coinvolgerci, ma travolgerci. Lucrezio rite-

neva che la filosofia fosse lo scoglio ben saldo che ci consentiva di guar-

dare al naufragio lontano senza dover temere la violenza dei flutti, ed è

certo una bella immagine, anche se è lecito sollevare un dubbio sulla ina-

movibilità di quelle rocce. La promessa delle finzioni, tuttavia, è ancora

più impegnativa: proprio come Prospero, le finzioni scatenano tempeste

dominate, in cui possiamo gettarci, abbandonando lo scoglio, perché si

tratta appunto di burrasche create dalla magia dell’immaginazione. Non

contempliamo dalla riva il naufragio, ma possiamo parteciparvi, e parteci-

pare significa innanzitutto prendere parte emotivamente ad una vicenda

che non è reale e che non ci minaccia affatto, ma che ciò nonostante ci

turba e ci coinvolge.

Sarebbe sbagliato, io credo, non cogliere il carattere prevalentemente co-

gnitivo delle emozioni che le finzioni scatenano in noi. Se è così importante

per noi raccontare e ascoltare storie non è certo perché la vita reale non ci

dia ragione di provare dolori e gioie e nemmeno perché i racconti ci con-

sentano di compiacerci della nostra sensibilità, senza esporci al rischio

della serietà delle emozioni: favole e racconti non sono un repertorio di

emozioni più rumorose per evadere dal basso continuo della quotidianità.

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E non sono nemmeno un mezzo per risvegliare sensazioni ed emozioni già

note, quasi che un racconto non potesse fare altro che farci riconoscere quel

che già sappiamo. Tocco questa corda e tu sentirai una sensazione che ri-

condurrai ad una qualche esperienza emotiva che già possiedi – io non lo

credo. Certo, i racconti si possono usare anche così e si può usare così an-

che una canzone o un quadro – come uno strumento per variare le emo-

zioni della giornata e per smuovere la soggettività dall’alveo in cui è rima-

sta imprigionata per troppo tempo la sua vita emotiva, ma la strana idea

che la letteratura e la musica e la pittura siano la piuma per solleticare ad

arte la chimica dei nostri sentimenti ha il torto di pensare che questo sia il

loro unico impiego o anche soltanto l’impiego più appropriato. Non si rac-

conta una favola ad un bambino per farlo spaventare (o almeno: non si

dovrebbe), ma perché le emozioni che prova immergendosi in una situa-

zione che non deve vivere, ma può rivivere immaginativamente, sono lo

strumento che gli consente di comprendere e di pensare il senso di espe-

rienze che non ha fatto, ma che potrebbe fare, sia pure in altra forma, per-

ché appartengo comunque alla vita. In questo senso i racconti ci insegnano

molte cose e non sono prevalentemente uno strumento per ridestare in noi

passioni ed emozioni. Non vogliamo provare il dolore di Antigone (e per-

ché mai dovremmo?), ma quel dolore ci insegna molte cose, perché è il

viatico per capire davvero che cosa significa trovarsi in una situazione in

cui ogni scelta è sbagliata. Non vogliamo provare dolore, ma vogliamo ca-

pire perché è utile e bello: l’immaginazione, poi, ci consente di farlo, pa-

gando un prezzo tanto contenuto quanto necessario per condurre in porto

l’esperimento che si vuole compiere.

Sottolineare che le finzioni sono esperimenti significa allora sostenere

che hanno una funzione cognitiva che può passare in secondo piano solo

quando i racconti hanno poco da dirci. Un racconto ci insegna a capire

qualcosa che non abbiamo – ancora? – vissuto, e ci insegna a farlo, fissando

insieme la prospettiva da cui dovremmo poterlo giudicare e comprendere.

Così facendo, ci emoziona, ma le emozioni sono il mezzo necessario per

condurre in porto l’esperimento che l’immaginazione conduce per noi, per

insegnarci qualcosa. Ed è questo che separa innanzitutto i racconti dalle

assunzioni: non è sufficiente assumere che accada quel che potrebbe acca-

dere se fossimo dei giganti o degli esseri minuscoli per comprendere dav-

vero che cosa voglia dire questa duplice iperbole della grandezza, perché

le assunzioni non chiedono un coinvolgimento emotivo e non ci consen-

tono di comprendere, vivendone le emozioni, lo spessore effettivo di simili

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circostanze. Un racconto fa di più: finge il paese di Lilliput e di Brobding-

nag e ci invita a comprendere e sentire, al di qua della vita, i problemi della

vita, vivendoli, sia pure immaginativamente.

Asserire che i racconti sono esperimenti mentali non significa, tuttavia,

attribuire all’immaginazione una funzione propriamente conoscitiva, e su

questo fatto è forse opportuno spendere una parola. Un racconto è una fin-

zione e, come tale, non sperimenta davvero nulla: ci invita solo a percorrere

un cammino secondo le regole che l’immaginazione stessa propone e

l’esperimento può dirsi riuscito se possiamo percorrerlo, trovandolo per-

suasivo. Se leggi la vicenda di Gregor Samsa, puoi comprendere che cosa

significhi vivere l’esperienza di un corpo che si sottrae lentamente alla vita

per diventare il guscio che la imprigiona, ma questa comprensione è vin-

colata all’insieme di norme che esplicitamente e implicitamente il racconto

ti invita ad assumere perché sono la prospettiva da cui quel fatto è narrato

e descritto. Se la pensi così, questa vicenda è esemplare – è questo ciò che

i racconti ci dicono, ed è questo ciò che gli esperimenti immaginativi ci

insegnano: ci dicono come possiamo immaginare che sia la vita e ci inse-

gnano a comprenderla meglio.

Di questa funzione sperimentale dell’immaginazione narrativa ci si può

del resto rendere conto seguendo un diverso cammino che ci aiuta a com-

prendere la sua specificità immaginativa. Quando leggiamo una favola fin-

giamo una vicenda possibile, ma può talvolta accadere che ciò che leg-

giamo e fingiamo ci inviti a pensare e ci spinga a leggere la nostra vita e la

nostra esperienza alla luce di ciò che la storia ci insegna. «Mutato nomine

de te fabula narratur» – i racconti parlano di noi e ci insegnano molte cose,

se siamo disposti a continuare l’esperimento immaginativo che ci suggeri-

scono di mettere in atto, mutandolo questa volta di segno: i racconti ci in-

vitano anche a pensare in una forma determinata ciò che ci accade e a di-

sporre gli eventi reali e le persone in cui ci imbattiamo nei ruoli narrativi

che un racconto ci offre, per tentare poi di comprendere quelli attraverso

questi. Quando leggiamo La metamorfosi di Kafka possiamo immergerci

nella vicenda narrata e vivere il senso che in essa prende forma – possiamo

cioè immergerci in un esperimento mentale che ci invita a sentire e a pen-

sare ciò che il racconto ci chiede direttamente e indirettamente di sentire e

pensare – ma possiamo anche intenderla come un calco immaginativo en-

tro cui disporre la realtà, come un modello che ci consente di comprendere

meglio quello che accade a chi si ammala di una malattia che non lascia

speranza di guarigione e si ritrova improvvisamente in un corpo che decide

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per lui e in una prossimità con la morte che lo allontana dagli altri – da chi

appartiene alla consuetudine tranquilla del vivere22. Leggere un racconto

vuol dire allora scoprire che vi è una sorta di metessi immaginativa del

reale poiché la realtà si spiega e ci appare in un senso nuovo non appena

cerchiamo di immaginarla e raccontarla alla luce di ciò che l’immagina-

zione poetica e narrativa ci insegna23. In questo senso, gli esperimenti im-

maginativi racchiudono in sé una proposta e una promessa: ci propongono

un modo di guardare le cose e di intenderle e ci garantiscono, nel racconto,

la sua percorribilità.

Nel prendere parte a questo duplice esperimento immaginativo, il lettore

è chiamato ad un esercizio complesso. Deve imparare a immaginare mondi

diversi dal suo e questo significa soprattutto che deve accettare le regole

morali e gli stili di vita che li guidano e li sorreggono, perché parte

dell’esperimento consiste proprio in questo: nel comprendere e sentire una

vita diversa dalla nostra, nel sentirla e comprenderla senza doverla per que-

sto accettare e vivere realmente. È un esercizio complesso: non è facile

liberarsi della propria prospettiva e sicuramente non è facile se ci si chiede

di farlo sul serio. L’immaginazione, tuttavia, ci convince a tentare l’az-

zardo, perché ci rassicura rammentandone la provvisorietà: puoi accettare

di non biasimare Ulisse che percuote Tersite solo perché è stanco della

guerra, ma puoi farlo perché sai che stai sperimentando qualcosa che non

avrà conseguenze, ma che ti consente di vedere come appaiono di lì il

mondo e la vita. Proprio in questo, dunque, è sita l’utilità degli esperimenti

immaginativi: ci consentono di ampliare il nostro orizzonte di vita, senza

sobbarcarci i rischi del vivere. Ci permettono in tutta serietà di accedere a

mondi che non hanno la durezza e l’effettività del reale, ma questo non

22 Naturalmente questo non significa affatto sostenere che la nostra possibilità di partecipare emotiva-

mente ad un racconto passi per la constatazione che vi sono, nel mondo, situazioni simili a quelle narrate. Una simile tesi non è soltanto falsante rispetto alla natura del nostro coinvolgimento emotivo

nei confronti dei racconti di finzione – non soffriamo per una persona nota che, come Palinuro, manca

per poco il fine che si era prefisso – ma deve essere rifiutata perché ci invita a pensare all’immagina-

zione narrativa come ad una prassi che non ci insegna nulla e che è capace soltanto di rammentare

situazioni reali che abbiamo altrimenti vissuto. Non proviamo malinconia nel leggere del timoniere di

Enea che cade in mare poco prima di giungere alla terra dei latini perché sappiamo bene che cosa voglia dire non raggiungere la meta sperata e perché conosciamo persone a cui è andata così, ma impariamo

a comprendere meglio che cosa accada quando, prossimi alla meta, ci lasciamo prendere dalla stan-

chezza e manchiamo un successo che era ormai a portata di mano

23 Il mare l’ho visto molte volte la sera e mi è capitato infinite volte di sentirmi catturato dallo spetta-

colo ripetuto delle onde e della risacca, ma se mi ricordo di Omero e di uno dei suoi versi ho l’impres-

sione di capire di più e di sapere meglio il motivo di quella sensazione: ciò che ci colpisce è proprio che il mare non è mai stanco, che il suo respiro è così infinitamente più ampio e duraturo del nostro.

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significa ancora che ci garantiscano che l’esperimento può essere davvero

condotto in porto. L’immaginazione è acontestuale, ma ogni racconto cre-

sce su un insieme di presupposti che non possono essere esplicitati, ma che

per così dire sorgono immediatamente dalla nostra vita. Prima del ban-

chetto finale che costerà ai pretendenti la vita, Penelope cade in un sonno

profondo: Ulisse non chiede di svegliarla e non le rivela quello che ha in

animo di fare – e oggi ci sembra che questo sia una scelta a dir poco inde-

licata. Omero non dice nulla, ma ci sembra chiaro che per molti versi sia

convinto che era meglio che la saggia Penelope se ne stesse lassù, nelle sue

stanze, a dormire. Non lo dice, perché è ovvio che sia così, per un greco

vissuto quasi tremila anni fa. I racconti sono acontestuali, ma non lo sono

gli uomini che li narrano.

“Non è detto che Kublai Kan creda a tutto quello che dice Marco Polo

quando gli descrive le città visitate nelle sue ambascerie” – è così che si

aprono Le città invisibili di Calvino, con una riflessione che è insieme

un’allegoria sottile dell’immaginazione narrativa e delle sue funzioni. Ku-

blai Kan ha rinunciato a conoscere il suo vasto impero, ma i racconti di

Marco lo guidano di città in città, restituendogli la mappa di un mondo di

cui vorrebbe afferrare la cifra mutevole. Kublai non abbandona la sua reg-

gia e forse i racconti di Marco non sono nulla più che “i pensieri che ven-

gono a chi prende il fresco la sera seduto sulla soglia di casa”, ma nel gioco

della narrazione e dell’ascolto prende egualmente forma un atlante del

mondo, una mappa dell’impero tracciata da un disegno così sottile da

“sfuggire al morso delle termiti”. Per comprendere la mappa di città che

restano comunque invisibili e che vivono solo nei racconti di Marco, Ku-

blai è costretto a cercare di capire i gesti e i segni di un narratore che non

parla la sua lingua e che gli narra di città che chiedono di essere comprese

nella loro rarefatta natura. Kublai deve immaginare una città dopo l’altra

e, per ciascuna di esse, la forma astratta di una vita possibile che si dispiega

in quelle strade e in quelle piazze; per farlo deve abbandonare immagina-

tivamente il “qui” cui è ancorato: la sua reggia cui di fatto appartiene la sua

vita. L’immaginazione è fatta così: ci consente una sospensione tempora-

nea del nostro presente – ce lo consente se ci impegniamo in un esperi-

mento immaginativo che chiede serietà e impegno. E tuttavia, per quanto

sia libera ed acontestuale, l’immaginazione cresce su un insieme di presup-

posti che non possono essere interamente messi da parte. Ogni racconto

poggia su una rete di presupposti che non possiamo interamente tacitare ed

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ogni finzione non può dirci per intero quel che dobbiamo immaginare. Ac-

cade così anche a Marco, che non può descrivere la mappa dell’impero di

Kublai senza dare per dare per scontata la forma e il ricordo di una prima

città. Per Marco è Venezia, per ciascuno di noi è la nostra vita.

6. La dimensione del gioco

Dopo aver discusso della forma narrativa dell’immaginazione dobbiamo

cercare di far luce, sia pure sommariamente, sulla dimensione del gioco.

Che anche in questo caso sia possibile indicare la via di una genesi è ovvio:

il gioco ricco di immaginazione che crea intorno a sé un universo ludico

affonda le sue radici nel gioco come sospensione della effettualità della

prassi. Gli animali senza dubbio giocano, se per gioco si intende soprattutto

questo: la capacità di mettere off-line certi comportamenti e di inscenare il

rituale della caccia e della fuga, dell’aggressione e della lotta, senza per

questo agire realmente. Due cani su un prato fingono di aggredirsi e di

fuggire e fingono di mordersi e di azzannarsi: giocano, e il loro gioco con-

siste appunto nel sottrarre dai loro comportamenti la dimensione dell’ef-

fettività. Qualcosa di nuovo, tuttavia, accade quando il gioco diviene una

finzione in senso proprio e la prassi ludica non si limita a inscenare com-

portamenti che vengono privati della loro consueta effettualità, ma si arric-

chisce di una componente creativa: nel gioco, si crea un mondo ludico,

dove gli oggetti e le persone stesse vengono modificati di segno e di natura

e valgono come momenti interni al gioco, alla storia che in esso si dipana.

Non abbiamo più due bambini e un divano nel soggiorno di casa, ma una

serie di ruoli che vengono in parte definiti dall’attribuzione iniziale che

apre la prassi ludica (“noi eravamo due pirati, questa era la nave..”), in

parte chiariti dalla narrazione verbale che accompagna il gioco (“adesso

saltavamo sull’isola poltrona”), in parte infine determinati implicitamente

dalla prassi ludica che assimila al gioco gli oggetti di cui si avvale: pollice

e indice possono diventare per un attimo una pistola, il gesto di scoccare

una freccia crea un arco, un libro diventa uno scudo.

È difficile dire se questa forma di gioco ricca di immaginazione sia ca-

ratteristica del gioco umano o se sia già all’opera nel comportamento di un

gatto che rincorre e afferra un gomitolo. È difficile dirlo, ma non è questo

il nostro obiettivo: non ci interessa decidere se si può applicare in un caso

determinato una distinzione concettuale che riteniamo rilevante; ci inte-

ressa invece tracciare quella distinzione e mostrare che uno dei suoi termini

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ha il suo paradigma nel gioco infantile. In questo caso gli oggetti non sol-

tanto consentono un certo comportamento privo di effettualità (come forse

accade al gomitolo quando il gatto ci gioca), ma assumono una realtà fin-

zionale che è determinata dalla prassi ludica. In questo caso, si inscena un

racconto e possiamo immaginare il mondo secondo la narrazione che li-

beramente si dipana nel gioco. Si tratta di un punto che è importante sotto-

lineare: la distinzione che abbiamo a suo tempo tracciato tra le forme

dell’immaginazione narrativa che crea un mondo finzionale e la prassi lu-

dica che adatta il mondo ad un disegno immaginario non deve renderci

ciechi di fronte alla continuità che attraversa le forme dell’immaginazione

in senso proprio. Può darsi che la narrazione immaginativa e la prassi lu-

dica abbiano radici diverse e può darsi che siano differenti i bisogni cui

inizialmente rispondono, ma quando il gioco assume un carattere esplici-

tamente immaginativo, di fatto si lega ad una narrazione, sia pure mini-

male. La prassi ludica si fa immaginativa perché inscena un racconto e un

racconto non può liberarsi interamente da una qualche componente di

drammatizzazione, poiché i racconti vivono nella lettura che ne viene fatta

e non sono già tutti racchiusi nel testo che li fissa ad un copione che chiede

di essere recitato. Ci troviamo così di fronte ad una distinzione che segna

in realtà i poli di una opposizione che conosce stadi intermedi: il racconto

è un gioco che si libera, il gioco un racconto che si inscena e vi sono rac-

conti che si teatralizzano e giochi che accordano al linguaggio uno spazio

rilevante24.

Certo, questo davvero non significa che ogni racconto possa trasformarsi

felicemente in una recita, ma una conclusione è tuttavia possibile trarla:

proprio perché consta di ruoli, ogni narrazione può assumere una forma

24 Del resto, che un racconto possa inscenarsi è un fatto in sé ovvio. Ogni storia può in linea di principio

essere messa in scena perché è da un lato ripetibile e perché, dall’altro, consta di ruoli, articolati in una trama. Recitare significa del resto proprio questo: ripetere, e si può recitare perché ciò che si narra non

è un accadimento che abbia un suo posto nel tempo del mondo, ma è la forma di un accadimento, una

connessione di ruoli che non ha un’individualità, perché non parla di qualcosa o di qualcuno. I racconti si possono recitare e di fatto si danno sempre in una qualche esemplificazione attuale, o come po-

tremmo senz’altro esprimerci: in un’esecuzione determinata. Chi legge un racconto deve comunque

recitarlo, e può farlo solo se decide come intonare mentalmente o realmente la voce dei personaggi. Si è soliti riconoscere che la lettura silenziosa sia un fatto relativamente moderno e che Agostino non la

concepisse ancora come una possibilità effettiva, ma comunque stiano le cose da un punto di vista

storico, non si può non riconoscere che anche la lettura silenziosa è costretta a decidere toni e pause, perché toni e pause e accentuazioni di varia natura appartengono al senso delle cose che diciamo e

pensiamo. Ma ciò è quanto dire che vi è una dimensione performativa del racconto. Chi legge collabora

al copione, scegliendo la voce e intonando le parti e lo fa sia che davvero pronunci le parole che legge, sia che si limiti a farle risuonare nella mente.

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teatrale – può essere recitata per uno spettatore di fronte al quale persone,

cose e luoghi assumono una consistenza immaginativa. Il racconto è un

gioco che si libera, ma che non si è mai interamente liberato dalla prassi

ludica, perché ogni racconto è per sua natura recitato nell’atto della lettura.

Lungo questo cammino il racconto si fa teatro e qualcosa evidentemente

muta: quando ci disponiamo sul terreno della rappresentazione teatrale non

abbiamo più soltanto una storia che si costruisce parola dopo parola nella

narrazione, ma una prassi che trascina sul terreno immaginativo la scena

che abbiamo di fronte a noi. Gli attori sono persone reali e reale è la scena

e gli oggetti che sul palcoscenico si utilizzano, ma tutto ciò cui si applica

il copione viene di per se stesso trascinato nell’universo immaginativo:

persone e cose diventano “persone-e-cose-nella-recita” e ciò significa che

non ha davvero più senso interrogarsi sulla loro realtà e sulle loro reali

determinazioni. Il bicchiere di troppo che rende irascibile il protagonista

può essere fin da principio vuoto e, in generale, qualsiasi cosa può essere

sostituita da una che abbia la stessa apparenza scenica, poiché conta sol-

tanto questo. Agli oggetti reali possono sostituirsi così gli oggetti di scena,

ai paesaggi e alle case che fanno da sfondo all’azione le quinte teatrali.

Ora, non vi è dubbio che qualcosa di simile accada anche sul terreno del

gioco: per giocare ai pirati un bambino non ha bisogno di spade reali e di

navi, ma si accontenta di giocattoli o di oggetti che possano sostenere la

sua prassi ludica che è comunque di per sé capace di trasformare lo spazio

reale in cui opera in uno spazio immaginario, in un luogo racchiuso entro

cui valgono le regole del gioco ed è sospeso (nei limiti del possibile) il

dettato della realtà. Il teatro sembra dunque condurci di per sé sul terreno

del gioco e tuttavia, se non si vuole correre il rischio di attribuire ad una

somiglianza rilevante il valore di un’identità compiuta, è necessario fer-

marsi un attimo e riflettere per cercare di tracciare la linea che separa l’una

dall’altra la prassi ludica da quella teatrale.

Una prima distinzione sembra imporsi a chiunque abbia osservato la li-

bertà un poco sconclusionata dei giochi infantili: i bambini che fanno del

divano una nave e decidono di giocare ai pirati non hanno un copione che

guidi le loro mosse e il loro gioco si determina senza una regola apparente,

in un continuo succedersi di invenzioni, dettate ora dalla libera fantasia dei

giocatori, ora dagli oggetti nei quali casualmente ci si imbatte e che con-

sentono all’immaginazione un insieme di mosse nuove e in parte inattese,

ma facilmente comprensibili nel loro senso. Il gioco è fatto così: è libero e

cresce senza una regola che lo attraversi da parte a parte, anche se la scelta

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dei personaggi e la natura del luogo determinano un insieme di mosse re-

lativamente ovvie – chi gioca fingendo che il divano sia una nave non può

esimersi dal navigare in un mare in tempesta e se la sua è una nave pirata

dovrà tentare qualche arrembaggio e nascondere prima o poi da qualche

parte un tesoro. Diversamente stanno le cose quando ci poniamo sul ver-

sante della prassi teatrale: in questo caso non ci si può accontentare di spar-

tirsi i ruoli, ma sembra necessario avere una parte da recitare e forse lo

spettatore non sarebbe contento se la recita procedesse liberamente, la-

sciandosi guidare da un intreccio di luoghi comuni e di fantasie del mo-

mento, suscitate dal desiderio di usare un qualche strano oggetto trovato

per caso.

Si tratta di una constatazione ovvia e tuttavia non c’è bisogno di essere

esperti nella storia del teatro per sapere che le cose non sono così semplici

e che il copione non è una condizione necessaria della teatralità: il teatro è

molto più vecchio dei testi teatrali e basta ricordarsi della commedia

dell’arte per vedere all’opera rappresentazioni teatrali prive di un copione

e lasciate nel loro sviluppo al gioco libero dell’improvvisazione, sia pure

guidata e sorretta dal fatto che ci si è familiarizzati da un lato con la natura

dei personaggi, dall’altro con i gusti del pubblico. Il copione, dunque, non

è necessario e vi sono spettacoli che non l’hanno; potrebbero averlo tutta-

via, laddove il gioco, che pure può avere qualcosa di simile a un canovac-

cio, sembra essere incapace di sottomettersi interamente a una simile re-

gola. Certo, all’origine di questo fatto vi è anche la natura e la finalità del

gioco e, soprattutto, la mutevolezza degli interessi infantili, ma ciò non to-

glie che vi sia un’ulteriore ragione su cui riflettere e che ci pone di fronte

a ciò che distingue il gioco dalla dimensione teatrale: solo il teatro, ma non

il gioco ha uno spettatore ed è per questo che solo il teatro, ma non il gioco,

può avere un copione.

Avere un copione implica una passività: significa dover assistere alla vi-

cenda che viene messa in scena senza potervi partecipare. La scena si recita

per me ed anche se talvolta accade che sia invitato per un attimo a parteci-

pare come pubblico-attore allo svolgersi dello spettacolo, resta comunque

vero che anche in questo caso io sono essenzialmente chiamato a guardare

e ad assistere a qualcosa che si recita per me attraverso me, sia pure in una

minima parte. Ma ciò è quanto dire che lo spettacolo teatrale non si limita

a mettere in scena una vicenda, ma – proprio perché lo fa per qualcuno –

la narra: proprio come il lettore, anche lo spettatore è il destinatario di una

narrazione ed è, come tale, chiamato ad assistere a una vicenda che gli si

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consegna nella sua relativa chiusura.

Il punto è qui: il gioco non ha la forma della narrazione e non può avere

un copione; il teatro invece può averlo e non è un caso che abbia cercato

di difendere questa sua peculiarità in vario modo, ma soprattutto distin-

guendo con sempre maggiore chiarezza il luogo della scena dal luogo dello

spettatore. La recita deve aver luogo a teatro, ma un teatro è innanzitutto

questo: un palcoscenico e una platea. La sua forma architettonica deve dun-

que consentire la distinzione di fondo su cui poggia la sua specificità: il

suo essere qualcosa che siamo semplicemente chiamati a guardare25.

La storia del teatro può essere almeno in parte letta alla luce di questa

distinzione originaria. Se il teatro deve essere una messa in scena che non

rinuncia alla forma della narrazione, allora diviene ben chiaro perché nel

corso dei secoli la cesura tra palcoscenico e platea si sia fatta via via più

manifesta e chiara: l’arco di scena, il sipario, la luce che illumina solo il

palcoscenico, la riduzione dello spettacolo teatrale ai sensi della distanza a

scapito della dimensione della tattilità – tutto questo deve apparirci come

un segno evidente del tentativo di dare allo spazio teatrale e alla rappresen-

tazione la forma che meglio si attaglia alla distinzione su cui ci siamo sin

qui soffermati.

Su questo tema ci sarebbero davvero molte cose da dire; a noi tuttavia

ora interessa invece mettere da canto la dimensione teatrale e il suo disporsi

sul confine che lega l’immaginazione narrativa all’immaginazione ludica,

per affrontare finalmente la dimensione del gioco – di quella forma di gioco

in cui si assumono ruoli e si costruiscono storie. Dalle considerazioni che

abbiamo appena proposto è possibile trarre una prima provvisoria defini-

zione: i giochi di finzione sono recite prive di uno spettatore e sono proprio

per questo storie che si dipanano senza per questo assumere la forma di

una narrazione. Qualcosa nel gioco si narra – l’arrembaggio ad una nave,

la scoperta del tesoro, il suo nascondiglio – ma la narrazione non si rivolge

a qualcuno: la storia si costruisce nel gioco, ma non è rivolta a un lettore o

a uno spettatore e non vi è un narratore che si faccia garante della sua com-

pletezza. Il gioco si smette, senza che sia davvero finito.

Alla provvisorietà del gioco e alla sua vaghezza corrisponde tuttavia la

sua capacità di trascinarci all’interno del suo spazio e di coinvolgerci negli

eventi che si vengono mettendo in scena. Il gioco di finzione è un teatro

che ci coinvolge come attori e che cancella la distinzione tra scena e platea:

25 La parola “teatro” ha proprio quest’origine – viene dal verbo greco θεάομαι che voleva dire appunto

guardare, contemplare.

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chi gioca non può semplicemente assistere alla vicenda ludica, ma deve

parteciparvi. Al teatro come arte della distanza che fissa un luogo dello

spettatore fa così da controcanto il gioco che non ha queste barriere e che

vive nell’azione concreta e nel contatto: nel gioco di finzione dobbiamo

fare molte cose e lo spettatore è sempre anche attore e non può limitarsi a

vedere e ad ascoltare, ma deve anche agire quando il gioco lo chiede. Certo,

in qualche misura il gioco si avvale anche di parole e spesso è introdotto

da una narrazione minima, ma una volta che i ruoli siano stati assegnati e,

insieme ad essi, una trama minimale, il gioco inizia davvero e comincia

con un fare che è coerente con quelle originarie assunzioni. Ora non basta

più raccontare, ma dobbiamo agire e ciò ci chiede di trasformare immagi-

nativamente gli oggetti che ci circondano e i gesti che facciamo in un pro-

getto nuovo che sia coerente con ciò che dobbiamo mettere in scena: la

vicenda della sopravvivenza al naufragio.

Che così stiano le cose è difficile negarlo e tuttavia sembra sufficiente

sottolineare questo punto perché si faccia avanti una possibile obiezione

che potremmo formulare così: in fondo, si potrebbe argomentare, la distin-

zione tra la scena teatrale e la platea non fa altro che ripetere in altra forma

la chiusura della cornice, e la cornice da Simmel a Ortega y Gasset è sem-

pre stata intesa proprio così – come una sorta di discrimine tra la realtà e

l’immaginazione, tra lo spazio reale e il luogo della rappresentazione. Di

qui la conclusione che sembra necessario trarre: se il gioco rinuncia a porre

una cornice e se di fatto abolisce la distanza tra lo spettatore e l’attore non

rinuncia per questo a situarsi sul piano immaginativo? Non dovremmo in

altri termini riconoscere che la prassi ludica non rinuncia soltanto alla

forma narrativa, ma anche alla sua appartenenza alla dimensione dell’im-

maginazione?

Credo che a questa domanda si debba rispondere negativamente e che le

ragioni per le quali è necessario rispondere così si manifestino non appena

riflettiamo sulla natura spaziale e temporale del gioco. Certo, la prassi lu-

dica non si muove nello spazio chiuso del palcoscenico e non ha una cor-

nice che la separi dallo spazio reale, ma ciò non toglie che il gioco mani-

festi egualmente una sua caratteristica acontestualità.

Il gioco è acontestuale per ciò che concerne il tempo: il gioco ha un inizio

e una fine assoluti e non ha evidentemente alcun senso cercare di connet-

tere al tempo del gioco ciò che è prima del suo inizio e ciò che segue alla

sua fine. Ciò che è prima del gioco non conta, così come non conta il gioco

non appena è terminato: il tronco nel giardino torna ad essere ciò che è –

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un pezzo di legno, e del suo essere stato una nave non resta più traccia.

Così, non è un caso se l’inizio e la fine del gioco sono talvolta contrasse-

gnati da clausole rituali che soddisfano il bisogno di sottolineare una cesura

che è comunque presente: per iniziare il gioco, ci si avvale talvolta di conte

e di filastrocche che hanno tra le altre cose la funzione di affidare alla sorte

il compito di definire i ruoli del gioco, escludendo così fin da principio la

possibilità che a determinare il futuro del gioco possa essere il presente

nella sua realtà e nella trama concreta delle cause e delle motivazioni. Le

conte, il lancio dei dadi, le filastrocche che accompagnano la scelta cieca

dei ruoli da parte di un giocatore sono così il bisturi che recide la realtà del

gioco dalla realtà del mondo.

Alla separatezza che caratterizza il tempo del gioco fa eco la sua separa-

tezza spaziale. Certo, il gioco non si situa in un palcoscenico che lo separi

dallo spazio dello spettatore, ma ciò non toglie che la prassi ludica ritagli

egualmente un suo spazio i cui confini non hanno la nettezza di una cor-

nice, ma non sono per questo meno chiaramente avvertibili. Lo spazio del

gioco c’è sin dove si spinge la prassi ludica e per quanto non vi sia un

confine evidente da varcare, un bambino sa bene che ciò che vale nello

spazio del gioco cessa di valere quando ci si allontana da esso.

Sottolineare il carattere immaginativo della prassi ludica è importante

anche perché ci consente di prendere le distanze dalle molte tesi che ten-

dono a interpretare il gioco alla luce dell’incapacità del bambino di distin-

guere la realtà dalla finzione, il desiderio da ciò che è meramente dato. Ora,

vi sono molte ragioni per credere che le cose non stiano affatto così: il

bambino sa che ciò che vale sul piano del gioco non ha rilevanza sul terreno

della realtà e non confonde ciò che è vero e reale con ciò che si costruisce

passo dopo passo nel gioco. Che così stiano le cose mi sembra evidente da

un punto di vista empirico: il bambino sa bene che i giochi finiscono e la

sua disponibilità a trasformare immaginativamente il reale non si traduce

nel rifiuto della realtà e delle sue regole che sono del resto ben presenti

anche nel gioco e sfruttate, nei limiti del possibile, in una chiave ludica.

Per quanto a malincuore e in modo tutt’altro che spontaneo, il bambino

mette a posto i suoi giochi e non ritiene che ci sia nulla di male a rinchiu-

dere nel cassetto i playmobil cui ha attribuito sino a pochi istanti prima

un’esistenza autonoma. Nel gioco questi pupazzi sono personaggi di una

storia e vivono di una loro vita autonoma e avventurosa: appena il gioco

finisce, tuttavia, possono essere rinchiusi in un cassetto perché in fondo

sono soltanto pezzi di plastica.

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Le cose stanno così e non credo che vi siano in questo differenze rilevanti

tra un bambino e un adulto, e tuttavia su un punto è necessario riflettere. Il

bambino sa bene che ciò che vale nel gioco non ha cittadinanza nella vita

reale e tuttavia il gioco è una prassi che modifica immaginativamente la

situazione cui di fatto appartiene. La modifica per un intervallo finito di

tempo e in un luogo circoscritto – su questo ci siamo già soffermati, ma ciò

non toglie che la prassi ludica abbia comunque una sua eco nel mondo.

L’immaginazione ludica scopre una strada e la rende praticabile: mostra

come sia possibile trasformare una scatola di cartone in un castello, un

ramo sgrossato in una spada, un vecchio lenzuolo tagliato qua e là in un

manto regale. Il gioco finisce, ma l’oggetto resta e rimane come un eco

della sua plasmabilità immaginativa: il cartone, il legno e il vecchio len-

zuolo sono soltanto cose non appena il gioco si chiude, ma la prassi ludica

ha aperto una via che rimane visibilmente percorribile e che risuona

nell’oggetto come una promessa della sua possibilità di essere impiegato

di nuovo e per quello stesso scopo in giochi futuri. La scatola di cartone

diventa un giocattolo e ciò significa che racchiude in sé una funzione

nuova: l’oggetto suggerisce un gioco e, insieme, ne garantisce concreta-

mente la possibilità. Il giocattolo è un oggetto ancipite: c’è, come gli og-

getti reali nel mondo, ma appartiene alla dimensione immaginativa: lo si

usa davvero solo quando smette di essere una cosa del mondo. Ma ciò è

quanto dire che il giocattolo trasforma la prassi ludica in un comporta-

mento adeguato e richiesto e ne attesta visibilmente la possibilità anche

quando il gioco è finito. Un giocattolo ci dice come dobbiamo giocare, ma

ci dice anche che la situazione immaginativa che il gioco ha creato non

scompare interamente al finire di gioco, ma resta come inviluppata nei gio-

cattoli che ci consentono di ridestarla non appena li prendiamo nuovamente

tra le mani e li usiamo così come ci chiedono di essere usati. I giocattoli

sono oggetti particolari che vivono sulla soglia tra la realtà e l’immagina-

zione. Sono oggetti reali che si possono riporre nei cassetti, ma sono in-

sieme promesse di un’immaginazione possibile e depositari di giochi che

sanno riattivare. Lo sono, naturalmente, solo perché l’immaginazione ha

fatto presa su di loro.

7. La modificazione ludica

Le considerazioni su cui ci siamo appena soffermati ci hanno permesso di

constatare il gioco è una prassi che modifica immaginativamente la situa-

zione cui di fatto appartiene e ora dobbiamo cercare di essere un poco più

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precisi e questo significa innanzitutto chiedersi quale forma di modifica-

zione possa attuarsi nel gioco.

Una prima constatazione è relativamente ovvia: la prassi ludica modifica

gli oggetti che ci circondano, ma non si tratta di una modificazione reale.

Certo, per poter giocare siamo talvolta costretti ad adattare gli oggetti ai

bisogni che il gioco fa sorgere: di un ramo voglio fare una spada e per

questo lo ripulisco dalle foglie e dai ramoscelli laterali, per dare al bastone

la forma approssimativa di una sciabola. Così facendo, tuttavia, non mi

dispongo ancora sul terreno del gioco che è in linea di principio indipen-

dente da questi gesti che preparano la prassi ludica, senza tuttavia farne

parte. Da una parte, dunque, vi sono le azioni reali che compiamo per poter

giocare, dall’altra vi è il gioco con le sue modificazioni immaginative.

Del resto, che la modificazione ludica non sia una modificazione reale lo

si vede non appena smettiamo di giocare. Basta che il gioco finisca e il

ramo cessa di essere una spada: i mutamenti reali restano, ma la modifica-

zione ludica viene meno e con essa scompare anche la spada che c’è solo

finché giochiamo. Non basta smettere di scrivere perché la pagina torni ad

essere bianca, ma basta smettere di giocare perché gli oggetti tornino quel

che erano prima che la prassi ludica se ne impossessasse. E ciò è quanto

dire che la modificazione ludica non incide sulla sostanza reale degli og-

getti di cui si avvale, ma solo sulla relazione che li rende presenti per noi.

L’oggetto reale c’è e permane nella sua intatta materialità, ma il gioco

mette tra parentesi la sua natura e rinchiude l’oggetto nello spazio di ma-

nifestazione che la prassi ludica circoscrive: abbiamo così, di fronte a noi,

l’oggetto in quanto è parte del gioco, non l’oggetto in se stesso. Giocare

significherebbe allora proiettare sugli oggetti una molteplicità di ruoli lu-

dici che ci impedirebbero di tener conto delle proprietà che gli oggetti

hanno al di là del gioco.

Credo che questa tesi sia in ultima istanza condivisibile, ma lascia adito

ad un fraintendimento che deve essere messo da canto. Nel gioco, gli og-

getti hanno un ruolo ludico che definisce la loro natura, e tuttavia basta

osservare due bambini che giocano per rendersi conto che il gioco scopre

negli oggetti proprietà sempre nuove, che imprimono alla prassi ludica una

piega inattesa. Si gioca con gli occhi bene aperti: nel gioco, il divano di-

venta una nave, ma poi la morbidezza dei cuscini invita a tuffarsi e la nave

si fa mare, per poi assumere significati via via differenti che sono suggeriti

dalla natura stessa dell’oggetto che non può essere proprio per questo di-

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menticata. Il gioco si intreccia così con la scoperta dei materiali e ne dram-

matizza, per così dire, le proprietà notevoli. Quando da bambini si gioca

con l’acqua, si gioca proprio così: si teatralizza la liquidità dell’acqua, la

sua trasparenza, la sua capacità di aggirare gli ostacoli. Si gioca così, sco-

prendo ogni volta proprietà nuove, ma nel gioco l’acqua entra di volta in

volta con un significato ludico particolare. In altri termini: il gioco scopre

appigli nella realtà – su questo non ci sono dubbi, ma nel gioco gli oggetti

entrano solo assoggettandosi alle sue leggi, per quanto vaghe, indefinite e

mutevoli esse siano. Il gioco tiene gli occhi bene aperti, ma ciò che trova è

scoperto in vista di un possibile ruolo ludico.

Forse, di fronte a queste considerazioni, la nostra prima reazione sarà

quella di osservare che ciò accade nella prassi ludica sembra avere un’eco in

molte e diverse situazioni che non sono riconducibili all’immaginazione o al

gioco. Gli esempi sono a portata di mano. Abbiamo bisogno di aprire un

barattolo e proprio per questo volgiamo lo sguardo cercando ciò che po-

trebbe servirci allo scopo: basta che questo nuovo interesse si faccia avanti,

perché molte delle cose che prima avevamo osservato si facciano avanti

con un aspetto nuovo che sembra rispondere alla domanda che lo sguardo

ora pone ai suoi oggetti. Lo sguardo scorge molte cose e le classifica im-

plicitamente: vi sono oggetti adatti e inadatti per lo scopo che ci prefig-

giamo e questa classificazione si sostituisce implicitamente a quelle che

normalmente ci guidano. Ho in tasca una moneta e mi accorgo che sembra

fatta apposta per il fine che mi prefiggo: il suo valore cessa di essere per

un attimo quello consueto che la Banca centrale europea ha stabilito e di-

viene tutt’altro – è il valore di una leva che mi consente di aprire un barat-

tolo di vernice. Tra poco, quando il barattolo sarà stato finalmente aperto,

la moneta acquisterà di nuovo il suo consueto valore, e questo sembra strin-

gere una qualche analogia con l’orizzonte del gioco. Gli interessi pratici

proiettano sulle cose una domanda che è viva solo finché vivo è l’interesse

che la determina: al suo venir meno, viene meno anche la luce che avvol-

geva le cose e che dava loro una tonalità peculiare. Un cibo è invitante fino

a che ho fame; dopo pranzo cessa di esserlo e i dolci che vedo nella vetrina

di un pasticcere possono sembrarmi ora belli da vedere, ora troppo colorati,

ora persino sgradevoli e nauseanti. Ecco dunque l’analogia con la dimen-

sione ludica: proprio come la moneta che abbiamo usato come leva riac-

quista il suo consueto valore non appena il coperchio si apre così, allo

stesso modo, il ramo è una spada soltanto finché siamo immersi nel gioco.

Appena il gioco finisce la spada scompare e il ramo torna ad essere padrone

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della scena.

Che vi sia un’analogia è indubbio, ma al momento della somiglianza si

deve affiancare la constatazione della differenza. La moneta che riponiamo

in tasca dopo averla usata per aprire un barattolo non ci appare più come

una leva, ma ciò non toglie che lo sia ancora: posso usarla così perché è

fatta così, perché – tra le molteplici caratteristiche che la determinano per

quello che è – ha anche quelle proprietà che le consentono di essere usata

come una leva. Cerco una leva per aprire un barattolo e la trovo in questa

moneta perché una moneta è una cosa che ha certe proprietà reali, – questo

è il punto. L’interesse pratico che mi anima cerca qualcosa negli oggetti

che mi circondano e si placa quando crede di aver trovato ciò che gli

serve26.

Nel caso del gioco le cose stanno diversamente, poiché l’oggetto si de-

termina in ciò che “è” in virtù dell’agire ludico: nel gioco il bastone è una

spada perché lo uso così, non perché è così o perché ha proprietà che mi

consentono di usarlo con successo in quel modo. Il gioco non trova una

spada nel ramo, ma fa del ramo una spada perché finge di usarlo come una

spada.

Ritorniamo al nostro esempio. Se per minacciare realmente un nemico

voglio usare un bastone come se fosse una spada, scoprirò ciò che lo rende

in parte adatto e in parte inadatto allo scopo: la prassi reale è in questo caso

una forma di conoscenza perché nel suo agire con un oggetto x per ottenere

un certo scopo y, mette alla prova l’utilizzabilità concreta di x per y e sco-

pre così se x ha le proprietà che lo rendono adatto ad essere impiegato per

ottenere y.

Le cose stanno appunto così: non basta brandire ad arte un bastone e non

è sufficiente usarlo elegantemente per tirare di scherma per avere in mano

una spada – questo è ovvio. Ma se così stanno le cose e se è la prassi che

decide se ciò di cui si avvale è davvero lo strumento che le serve, allora si

deve riconoscere che all’azione che si muove sul terreno della realtà non

compete soltanto una certa forma di effettuazione, ma anche una sua effi-

cacia reale. Questi due momenti debbono essere legati l’uno all’altro an-

che soltanto per poter dire che abbia luogo l’agire di cui discorriamo. Per

dire di qualcuno che sta battendo un chiodo non basta che brandisca un

26 Del resto, talvolta accade proprio così: crediamo di aver trovato ciò che ci serve, ma appena lo

mettiamo alla prova ci accorgiamo che le cose non stanno così e che ci siamo sbagliati. Non abbiamo

trovato affatto ciò che ci serve e a dirlo è il fatto che il nostro agire fallisce il bersaglio: il coperchio è saldamente fissato nella sua sede e ci serve una leva più lunga di una moneta.

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martello e che lo usi come si deve: è necessario che il martello sia di ferro

e non di carta e che i suoi gesti possano avere una qualche efficacia. Un

martello è un martello se batte i chiodi quando lo uso come si deve –

quando l’agire che se ne avvale si esplica secondo una certa forma di ef-

fettuazione.

Così appunto stanno le cose, quando ci disponiamo sul terreno della

realtà; nel caso della prassi ludica, invece, le cose sono ben diverse perché

in questo caso il problema dell’efficacia reale è semplicemente messo da

parte. E non è un caso che le cose stiano così: le azioni del gioco non si

dispongono sul terreno obiettivo del mondo e ciò fa sì che a definire l’og-

getto nel suo valore di gioco non sia la voce della realtà e dell’efficacia

reale, ma solo la forma di effettuazione della prassi. Nel gioco le cose sono

in quanto sono giocate così: perché un oggetto sia pesante nel gioco è suf-

ficiente sollevarlo nella forma di effettuazione del “sorreggere a fatica”,

perché una bottiglia sia piena basta che si possa prenderla con il giusto

sforzo, fare il gesto di versare qualcosa con cura nel bicchiere – ed è irrile-

vante che alla fine di questa strana cerimonia il bicchiere sia vuoto come

prima. La bottiglia è piena (dal punto di vista ludico) perché ne abbiamo

appena versato parte del contenuto – altra riprova del suo essere immagi-

nativamente piena non c’è perché l’oggetto non si rivela nella sua natura

nella relazione che lega la prassi alla realtà, ma si definisce nel suo valore

di gioco esclusivamente nella prassi ludica. Per potersi riempire il bic-

chiere, la bottiglia deve essere piena; per poter fingere che lo sia è suffi-

ciente giocare a versarne il vino nei bicchieri: il vino non deve necessaria-

mente esserci, ma deve apparire nel gioco – deve potersi mettere in scena,

dunque.

Di qui la seconda conclusione che possiamo trarre. La dinamica degli

interessi scopre nelle cose la risposta ai nostri bisogni momentanei; così

facendo, tuttavia, mette in luce anche le proprietà reali degli oggetti di cui

si avvale: nella prassi gli oggetti si rivelano per quello che sono e ciò si-

gnifica che è possibile sbagliarsi. La prassi emette il suo verdetto e rivela

il mio errore e, insieme, mostra che l’oggetto è diverso da quel che credevo.

La prassi ludica non ha quest’autorità: qui il verbo «essere» non è di casa

e per rendersene conto è sufficiente osservare che non può accadere che

ciò cui nella prassi ludica attribuisco un determinato valore si riveli nel

gioco diverso da ciò che credevamo. Se brandisco un bastone come se fosse

una spada non può accadere che ciò che ho tra le mani non sia nel gioco

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una spada, perché «spada», nel gioco, è qualsiasi oggetto che si può bran-

dire così. Ma se non è possibile che sia falso che ciò che brandisco così e

così nel gioco sia una spada, allora non può nemmeno essere vero che lo

sia: la possibilità che si riveli vero nel gioco che qualcosa è una spada ha

come prezzo il riconoscimento della possibilità che si riveli falso che così

stanno le cose. Proprio questa possibilità, tuttavia, è esclusa: dobbiamo al-

lora conseguentemente rinunciare anche all’altra che le è correlata. Il gioco

non può consentirci di dire che questa è davvero una spada, così come non

può permetterci di affermare che non lo è: l’isolamento metodico che il

gioco impone alla sua prassi, il suo radicale rifiuto di commisurare la forma

di effettuazione dell’agire al metro della realtà, sottrae al gioco il diritto di

pronunciarsi sulla verità e sulla falsità del “mondo” che ci presenta.

Tutto questo sembra plausibile, eppure non dobbiamo riconoscere che

talvolta, giocando, ci accorgiamo che il ramo che abbiamo brandito non è

affatto adatto per farne una spada, e se diciamo così non stiamo insieme

dicendo che non è adatto perché ha certe proprietà reali che rendono im-

possibile usarlo per quegli scopi ludici per cui l’avevamo scelto? Può ac-

cadere che il ramo che ho scelto come spada si spezzi al primo attacco o

che il castello di cuscini e coperte crolli miseramente e in questi casi non

dovremmo riconoscere appunto che la prassi ludica mette alla prova gli

oggetti e ne mette in luce le proprietà reali? Certo dovremmo riconoscerlo

ed è importante farlo, perché nel gioco si imparano molte cose, ma non è

difficile rendersi conto che in questo nostro essere costretti a prendere atto

della realtà non si fa avanti una negazione nel gioco del valore ludico degli

oggetti, ma solo una breve interruzione del gioco che ci costringe a ram-

mentare o a scoprire quale sia la realtà delle cose al di là della parentesi

ludica. Così, chi nel gioco, guardando sconsolato il suo ramoscello piegarsi

ad ogni alito di vento, ad un tratto esclamasse «Questa non è affatto una

spada» non starebbe proponendo una constatazione fattuale che ci invita a

prendere atto della falsità di una qualche credenza che ci sorregge nel gioco

e non starebbe riconoscendo che la prassi ludica dimostra che quell’oggetto

non è una spada: tutt’altro: chi dicesse così ci inviterebbe soltanto a smet-

tere per un attimo di giocare, per poi rendersi conto da questo nuovo punto

di vista – il punto di vista della realtà – di come stanno realmente le cose.

Di qui la conclusione cui alludevamo: disporsi sul terreno della prassi lu-

dica non vuol dire modificare realmente le cose, ma nemmeno conoscere

ciò che le caratterizza o credere che siano adeguate al ruolo che intendiamo

attribuire loro. Il gioco non ha simili pretese: si accontenta di attribuire agli

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oggetti un ruolo ludico che non ci dice nulla sulla loro realtà effettiva, ma

determina il modo in cui essi appaiono nel gioco, anche se questo non

esclude affatto che giocando si imparino molte cose27. Le si imparano per-

ché per poter giocare dobbiamo fare molte cose, e possiamo farle solo

usando gli oggetti che ci circondano.

A partire di qui si può meglio comprendere che cosa si intende quando

si afferma che il gioco è sotto l’egida del fare come se. Quest’espressione

non allude ad una forma di falsa coscienza: chi gioca non finge di credere

che il ramo che brandisce nel pugno sia davvero una spada e non vive nel

gioco la falsa coscienza di chi crede che non lo sia. Certo, il bambino sa

bene che ciò che ha in mano è soltanto un bastone, ma non vi è alcun biso-

gno di porre questa credenza all’origine della prassi ludica: quando gioca,

il bambino non prende posizione sull’esser così degli oggetti, ma sempli-

cemente li usa e mette in scena la narrazione viva di una vicenda che non

ha altro luogo di accessibilità che non sia il gioco stesso. Chi gioca non ha

bisogno di credere proprio a nulla perché il gioco non pretende di parlare

delle cose del mondo, non ha la pretesa di muoversi sul terreno dell’essere,

ma si accontenta della dimensione dell’apparire: il gioco si mette in scena

e “c’è” solo nel racconto che ci propone.

Ci siamo già soffermati su questo punto: credere che qualcosa sia, e sia

così, significa in generale confidare che sia possibile accertare come stanno

le cose al di là del loro manifestarsi in un’esperienza data. Posso credere

che domani pioverà perché posso additare una possibile esperienza – di-

versa dal mio pensarla ora – che dimostrerà vera questa mia asserzione. Se

non fosse in linea di principio possibile farlo, se ciò di cui parlo “esistesse”

solo nel mio parlarne ora e nel mio parlarne così, allora non avrebbe senso

fare appello alla dimensione della credenza: si può credere qualcosa solo

se ha senso fare appello ad un criterio indipendente che ci consenta di va-

gliare la verità di ciò che crediamo. Si può credere solo a ciò che può essere

vero o falso e possono essere vere e false solo proposizioni che rimandano

ad un metro indipendente da esse che ci consenta di verificarle o falsifi-

carle. Nel caso del gioco (e dell’immaginazione in genere) le cose non

27 La parola «apparente» non deve essere fraintesa. Se diciamo che nel gioco il bastone ha il senso

apparente di una spada non vogliamo asserire che non è una spada anche se ne ha la parvenza: vogliamo

dire invece che nel gioco abbiamo tacitato ogni considerazione concernente l’essere reale degli oggetti il cui valore ludico è determinato soltanto dal modo in cui si manifestano nel gioco, dal loro apparirci

così all’interno della prassi ludica. Nel gioco, ci rinchiudiamo volontariamente nella dimensione

dell’apparenza ludica e lasciamo che a decidere del come degli oggetti sia esclusivamente il modo del loro apparir così: ogni altra considerazione deve essere dunque messa da parte.

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stanno così perché ciò che in esse prende forma si manifesta e «c’è» sol-

tanto in esse. Nel gioco il bastone è una spada, ma ciò che caratterizza la

prassi ludica è il suo rinchiuderci all’interno della narrazione che ci pro-

pone: la spada “c’è”, ma il suo “esserci” è tutto racchiuso in un agire che

si trattiene al di qua del reale e che determina il senso e la natura dei propri

oggetti solo in virtù della sua forma, non in ragione del suo rapportarsi al

reale. Ci imbattiamo così, ancora una volta, nella natura sospesa dell’im-

maginazione: così come la narrazione immaginativa ci costringe a rinchiu-

dere le storie che ci propone nella trama noematica dei significati, così la

prassi ludica ci costringe a comprendere il senso degli oggetti con cui opera

disponendoci all’interno dei ruoli che il gioco crea e definisce.

Il gioco ci si mostra così come una nuova, differente forma di neutraliz-

zazione delle posizioni d’essere. Nel gioco, prendiamo commiato dalla

realtà delle cose e ci disponiamo in una prassi che non si confronta con la

realtà delle cose, cui concede di far parte del gioco solo a prezzo del loro

calarsi interamente nel ruolo che la narrazione ludica assegna. E tuttavia,

per quanto il gioco ci inviti a disporre gli oggetti nel calco che egli stesso

crea, è opportuno riconoscere ancora una volta che la prassi ludica avviene

comunque nel mondo e che anche se il nostro agire non si misura con la

realtà, avviene comunque in essa e deve in ogni caso rapportarsi alle sue

regole. Nel gioco non posso fare quello che voglio: anche se le mie azioni

valgono solo per la loro forma e anche se non costringo alla riprova del

reale le assunzioni ludiche che sorreggono il gioco, resta egualmente vero

che ogni mio agire deve stringere un patto con la realtà, anche soltanto per

poterla lasciare fuori dall’uscio. Proprio come Don Chisciotte decide di

rinunciare a saggiare la resistenza del suo elmo fatto di legno, colla e car-

tone, così l’immaginazione ludica deve rinunciare a molte cose e non può

fare a meno di intrecciare il gioco al racconto, la prassi di valorizzazione

ludica alla finzione narrativa. Il divano è una nave, ma dobbiamo raccon-

tare i suoi viaggi e soltanto dopo averli narrati possiamo fingere di trovarci

in un posto diverso da quello in cui eravamo partiti. Il castello di cuscini è

un riparo invincibile, ma dobbiamo raccontare a parole gli assedi che ha

subito, perché basta poco a farlo crollare. Il gioco è immerso nel mondo e

ne subisce necessariamente i contraccolpi: i ramoscelli, nei duelli, si pie-

gano e si rompono, i grandi macigni di carta si muovono al vento e il ca-

stello di cuscini cade troppo spesso per non rammentarci con la sua fragilità

la solidità del reale.

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CAPITOLO TERZO

L’IMMAGINAZIONE E GLI ASPETTI FIGURATIVI

1. Un elemento comune

Nel nostro tentativo di mostrare la natura dell’immaginazione in senso pre-

gnante, ci siamo soffermati soprattutto sulle forme che, per così dire, se-

gnano gli estremi del metro che la misura: la narrazione e il gioco. Ci era-

vamo espressi così: il racconto è un gioco che si libera, il gioco un racconto

che si inscena, e ora a partire di qui vorremmo chiederci se non ha senso

cercare al di sotto di queste polarità un elemento comune che appartenga

allo spazio dell’immaginazione in senso pregnante in ogni sua forma.

Tentare di rispondere a questa domanda significa mostrare che il cam-

mino dal basso e il cammino dall’alto conducono ad uno stesso luogo con-

cettuale. Vi è in primo luogo un cammino dal basso che muove dal gioco

che è innanzitutto una prassi concreta. Il gioco è una prassi corporea, un

agire libero che nasce come libero dispendio delle energie e che consente

al bambino e ai cuccioli di molti animali di riprodurre in uno spazio pro-

tetto alcune attività che la vita chiederà loro. Lo si vede bene guardando i

cuccioli, ma anche il gioco infantile ha le forme di un libero disporre del

proprio corpo e delle proprie energie: si gioca saltando, correndo, facendo

capriole e c’è un’eccitazione ludica che accompagna anche i giochi più

tranquilli e che è una delle cifre più autentiche del gioco. Il gioco nasce di

qui e tuttavia, lo abbiamo osservato, vi è una specificità immaginativa del

gioco che si fa avanti quando la libertà dei movimenti e il libero dispendio

delle energie si legano ad una cellula narrativa elementare, ad un accenno

minimo ad una narrazione possibile. In molti giochi ci si accontenta di que-

sto: il bambino stende le braccia e corre, piegandosi ora da un lato e ora

dall’altro, e basta questo gesto, accompagnato forse dalla voce che ripete

il rumore di un motore rombante perché una cellula narrativa elementare si

faccia avanti: il gioco racconta che c’era una volta un aeroplano, anche se

questa storia non sembra andare al di là del suo narrarci di un volo fatto

proprio così. Un racconto in senso proprio non c’è: la storia dell’aeroplano

che il gioco inscena non ha un inizio né una fine e non c’è qualcuno cui si

narri ciò che il gioco mette in scena – questo è chiaro. In questo senso,

parlare di un cellula narrativa elementare non deve trarci in inganno: il

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gioco, specialmente nelle sue forme più semplici, non può essere accostato

alla narrazione perché non ne condivide la struttura e perché davvero non

sapremmo come rispondere se qualcuno ci chiedesse che cosa intende nar-

rare un bambino quando stende le braccia come fossero le ali di un aero-

plano. In un senso anche troppo ovvio, quel bambino non intende raccon-

tare nulla, e tuttavia il suo gesto apre uno spazio narrativo minimale: crea

una scena immaginativa e un ruolo finzionale e con questo predispone la

cellula minimale di una narrazione che diverrebbe ora possibile, se solo .

Giungiamo alla stessa meta se seguiamo il cammino che procede

dall’alto verso il basso: possiamo muovere dal terreno narrativo ed impo-

verire sempre di più la trama della storia che raccontiamo – possiamo pri-

varla di una trama e semplificarla sino al punto in cui ci resta soltanto l’in-

cipit della storia e l’indicazione di un ruolo finzionale, caratterizzato sol-

tanto dal suo occorrere in una scena che è posta insieme all’oggetto finzio-

nale: «c’era una volta un aeroplano…». Una storia potrebbe iniziare così,

ma certo questo non sarebbe più un racconto; e nemmeno un gioco, natu-

ralmente: è tuttavia quell’elemento comune ad essi che abbiamo proposto

di chiamare cellula narrativa elementare. Un tratto la caratterizza: rappre-

senta l’unità minima richiesta perché ci si possa disporre sul terreno imma-

ginativo in senso pregnante. Alludono ad un ruolo e ad una scena immagi-

nativa, ma non ci dicono altro: sono, appunto, una narrazione all’inizio, il

suo primo passo.

Abbiamo parlato di un elemento comune tra narrazione e prassi ludica, e

tuttavia la forma in cui questo elemento comune si fa avanti nell’uno e

nell’altro caso racchiude una differenza su cui è opportuno indugiare un

poco. Se ci disponiamo sul terreno narrativo in senso proprio, parlare di

una cellula narrativa elementare significherà soltanto alludere alla finzione

di una scena immaginativa iniziale che potrebbe essere poi sviluppata in

una narrazione più ampia. Diversamente stanno le cose nel caso della prassi

ludica: qui la prassi immaginativa si muove comunque su un terreno già

dato e il suo operare consiste nell’attribuire a qualcosa una forma immagi-

nativa, nel raccontarlo in una direzione determinata. Il bambino stende le

braccia e corre e in questo gesto è racchiuso un diverso modo di sentire il

proprio corpo che ora sembra bilanciarsi sull’aria e trovare in essa un so-

stegno. È una sensazione che non può essere presa alla lettera: il corpo non

poggia certo sulle braccia aperte, ma tanto basta perché l’immaginazione

prenda il sopravvento e la corsa diventi un volo sospeso sulle ali spiegate.

Il gioco prende forma e nel suo primo gesto crea un’immagine che poi in

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vario modo dispiega, narrandola: nel suo articolarsi e nel suo farsi più ricca,

l’immaginazione ludica dipana un’immagine e la fa risuonare, arricchen-

dola di ciò che il gioco mette in scena. Gli esempi possono essere moltipli-

cati. Entriamo nel bosco e le radici degli alberi suggeriscono strane forme;

le vediamo disegnarsi incerte, ma minacciose, e le scopriamo nel loro con-

tinuare nei tronchi e nei rami degli alberi. Tutto questo appartiene al terreno

dell’esperienza percettiva, ma ci predispone all’immaginazione: nel gioco,

tronchi e radici possono diventare creature maligne da cui tenersi lontano

o di cui rammentare la presenza per trasformare una passeggiata con i ge-

nitori in una rischiosa esplorazione. Ciò che nel gioco prende forma è ap-

punto una narrazione elementare: nella prassi ludica la forma del tronco si

racconta in una forma determinata che le attribuisce un dinamismo latente

e che orienta in una direzione determinata una realtà percettivamente in-

stabile. La forma tormentata del tronco, i segni visibili della fatica del suo

essere cresciuto così, la somiglianza con certi gesti espressivi che abbiamo

imparato a conoscere sui volti umani sono tratti che appartengono diretta-

mente alla nostra esperienza percettiva; nel gioco, tuttavia, diventano qual-

cosa d’altro: prendono così immaginativamente forma i lineamenti di una

potenza oscura, le forme di un corpo legnoso in cui è rimasta imprigionata

una vita minacciosa e sofferente. Nel gioco si fa avanti una cellula narrativa

elementare che ha le sue radici nell’esperienza e che si articola passo dopo

passo secondo le pieghe che la prassi ludica concretamente assume. Un’im-

magine prende forma nel gioco: l’immagine del corpo prigione, di una vita

altra e difficile da comprendere perché da tempo imbrigliata in una scorza

dura che la rende insensibile agli eventi e in membra rigide che gli impe-

discono apparentemente di muoversi.

Certo, ciò che accade nella prassi ludica accade anche sul terreno della

narrazione assoluta, e proprio questa stessa cellula narrativa ha trovato una

sua espressione nelle fantasie dantesche di Pier delle Vigne o negli alberi

animati di tante favole. Spesso i racconti nascono di qui: dal dipanarsi nar-

rativo del senso di un’immagine. In fondo, le vicende di Gregor Samsa

raccontano in una direzione determinata il disagio di una scena percettiva

che è pronta a trasformarsi in un’immagine – un insetto rovesciato sul

dorso che agita le sue esili zampe impotenti. Nel gioco tuttavia questo

nesso appare con maggiore evidenza: la prassi ludica è una prassi modifi-

cante che nasce dall’esperienza perché opera nell’esperienza, piegandola

narrativamente alle esigenze del gioco. Si tratta di una constatazione im-

portante perché ci permette di scorgere nelle pieghe della nozione ludica

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di narrazione elementare una forma dell’immaginazione di cui non ab-

biamo ancora discusso, ma che ha un’importanza centrale – l’immagina-

zione che crea immagini o, come potremmo anche dire, immaginazione

immaginosa. In un certo senso l’immaginazione nasce di qui, da questa

situazione originaria: qualcosa di percettivamente instabile diviene il nu-

cleo vivo di una narrazione elementare, di una narrazione statu nascenti

che prende forma nella prassi ludica e che trasforma il dato percettivo in

una scena immaginosa – in un’immagine appunto. Su un tronco caduto si

può stare a cavalcioni e questa possibilità ludica racconta in una direzione

determinata lo spaesamento visivo che si lega alla percezione di un tronco

adagiato sull’erba: il gioco produce un’immagine – il tronco è una canoa

che fende le acque in un viaggio insolito per chi è sempre stato radicato al

suolo – e ne rende possibili altre perché il prato diventerà un lago, i cespu-

gli isole, e così via. Nel gioco, la realtà assume una veste immaginosa e

prendono forma immagini di varia natura – narrazioni elementari statu na-

scenti che si definiscono e si articolano nel corso del gioco.

Rammentare il nesso che lega l’immaginazione immaginosa alla prassi

ludica non significa tuttavia sostenere che le immagini appartengano ne-

cessariamente all’orizzonte del gioco. Può darsi che le prime immagini sor-

gano per il bambino insieme alla prassi ludica e si intreccino ad essa, ma

non è necessario che ciò accada e soprattutto è possibile svincolare le im-

magini dai moventi del gioco e dai desideri che lo animano. In un certo

senso i desideri del gioco sono prima dell’immaginazione ludica: il bam-

bino vuole arrampicarsi o starsene tranquillamente seduto, vuole azzuffarsi

o provare il brivido di una paura controllata e allora cercherà nelle cose che

lo circondano gli oggetti che gli consentono di dare al reale la veste imma-

ginosa che si addice al gioco in cui vuole immergersi. Un ramo è innanzi-

tutto una spada, ma può diventare anche la bacchetta di un direttore di or-

chestra o, piantato nella sabbia, la cloche di un aeroplano, a decidere di una

cosa o dell’altra è solo la scelta del gioco che trova poi nelle cose quello

che cerca. L’immaginazione ludica asseconda i desideri del gioco ed anche

se la natura degli oggetti determina sempre in qualche modo la possibilità

della modificazione ludica, il desiderio di giocare a un gioco piuttosto che

a un altro determina più di ogni altra cosa l’immagine che nel gioco prende

forma.

L’immaginazione ludica è dunque un’immaginazione asservita ai desi-

deri del gioco – ma le cose stanno sempre così? L’immaginazione ha sem-

pre la forma di una prassi esplicitamente rivolto ad uno scopo? Quando

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immaginiamo e, immaginando, diamo vita ad immagini, siamo sempre gui-

dati da un desiderio esterno all’immaginazione, che la sorregga e la indi-

rizzi?

Vi è un senso in cui a questa domanda si può senz’altro rispondere nega-

tivamente, perché almeno questo è chiaro: non sempre l’immaginazione è

parte di una prassi volontaria e non sempre è asservita un fare più ampio

intende raggiungere. Certo, l’immaginazione ludica risponde agli interessi

del gioco: il bambino vuole azzuffarsi, e questo desiderio determina il

modo in cui l’immaginazione valorizza gli oggetti in cui si imbatte: il gioco

è una prassi volontaria e sorretta da interessi e l’immaginazione ludica

deve nella norma piegarsi agli scopi ai desideri di chi gioca. Anche la nar-

razione è una prassi volontaria ed anche il narrare può prefiggersi una mol-

teplicità di scopi: vi sono racconti che cercano di commuoverci, storie

d’amore che vorrebbero farci sognare, film che si prefiggono di terroriz-

zare lo spettatore e non vi è dubbio che in questi ed altri casi l’immagina-

zione è piegata ai desideri cui la narrazione intende far fronte e che questo

avrebbe una sua eco nell’indirizzare e nel piegare le immagini in una dire-

zione determinata. Ma appunto: non è sempre così, perché non ogni forma

dell’immaginazione è parte di una prassi. Talvolta nell’immaginazione ci

troviamo immersi senza averlo voluto, e non avrebbe senso in questo caso

chiedersi quale sia il fine per cui immaginiamo così, perché in un simile

caso l’immaginare non ha affatto la forma di una prassi che si prefigga un

obiettivo determinato. Qualche volta raccontiamo per commuovere, spesso

giochiamo per saltare e correre, ma accade anche che si immagini senza un

motivo. Non sempre immaginiamo per uno scopo: spesso semplicemente

ci accade di fantasticare e molte volte questo assume la forma di un vagare

tra immagini che prendono forma autonomamente o che rammentiamo

semplicemente perché calzano con la situazione che ci è dato di vivere. In

un certo senso, le immagini sono dietro l’angolo della percezione: guar-

diamo le onde del mare che arrivano a riva e ci sembra di capire davvero

Omero che dice che il mare non è mai stanco, perché ci sembra che non vi

sia altro modo di raccontare quelle onde se non pensarle come il respiro

lungo di un animale instancabile.

Di qui due questioni distinte che ci consentono di gettare una luce un

poco più definita sulla natura di quella forma di narrazione elementare che

si manifesta nella creazione delle immagini. In primo luogo dobbiamo

chiederci che cosa ci spinga ad immaginare in quei casi in cui l’immagina-

zione sorge senza per questo dover obbedire ad uno scopo che le venga

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imposto. In secondo luogo, poi, dobbiamo domandarci se dalla constata-

zione che vi sono forme dell’immaginazione che non sono asservite ad un

fine si può dedurre l’esistenza di un’immaginazione pura, di un immagi-

nare che non soltanto non si subordini ad un qualche scopo, ma che sorga

da sé, obbedendo esclusivamente alle sue ragioni. Due domande complesse

cui dobbiamo tentare di dare una risposta.

2. Gli aspetti figurativi

Poniamoci innanzitutto la prima domanda: che cosa ci spinge ad immagi-

nare quando l’immaginazione non è asservita ad una qualche prassi orien-

tata ad uno scopo che determini esso stesso la ragione del nostro fantasti-

care? Che cosa ci trascina sul terreno immaginativo anche quando non ab-

biamo un compito che intendiamo assegnare all’immaginazione?

A questa domanda, io credo, si possa rispondere soltanto così: debbono

esserci oggetti e situazioni concrete che per la loro stessa natura ci invitino

sul terreno immaginativo, che siano cioè caratterizzate dal loro manife-

starsi in una forma tale da spingerci insensibilmente verso l’immagina-

zione che è chiamata a dire la sua solo perché non è possibile attribuire

stabilmente alla scena percepita il senso che pure sembra spettarle dal

punto di vista fenomenico. Se ci accade di vagare tra immagini è perché

l’immaginazione affonda le sue radici nella nostra esperienza delle cose.

Sul senso di queste considerazioni dobbiamo soffermarci un poco, per

cercare di chiarirle passo per passo. Si deve innanzitutto comprendere che

senso abbia parlare di oggetti che ci appaiono caratterizzati da un insieme

di proprietà che, per altri versi, non possiamo attribuire loro. Guardo il tra-

monto e ne vivo la malinconia, ma allo stesso tempo non posso non co-

gliere che si tratta di un accadimento naturale tra gli altri, di un evento cui

in senso proprio il predicato della malinconia non può spettare. Il tramonto

è malinconico perché ci appare così, ma non lo è realmente, e l’esperienza

che ne abbiamo è tale da non consentirci di attribuire effettivamente uno

stato d’animo all’accadimento cui assistiamo. Ascolto le prime battute

della Primavera di Vivaldi e ne colgo la serenità e la gioia – una gioia che

esperisco in quei suoni, ma che non può essere di quei suoni; guardo la

radice contorta di un albero e la vedo nel suo aspetto minaccioso e tormen-

tato che tuttavia non dice realmente qualcosa di quel legno. Il tronco si

manifesta così sul terreno percettivo, ma ciò non toglie che io lo colga

come una cosa tra le altre, come una realtà materiale cui non è possibile

attribuire cattive intenzioni o un’esistenza difficile, e questo mi impedisce

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di attribuire al come di quella manifestazione un significato reale. Il tronco

non è minaccioso, ma mette egualmente in scena una minaccia, la raffigura.

Di qui la prima tesi che abbiamo sostenuto. Chiamo aspetti figurativi di

un oggetto quelle caratteristiche che lo rendono particolarmente adatto ad

essere il punto di avvio di un processo immaginativo – di una narrazione

elementare – e ritengo che, in generale, si possa parlare di aspetti figurativi

quando qualcosa – un oggetto, una situazione, uno stato di cose – rende

presente un aspetto che non gli può essere realmente attribuito. La ragione

per cui ne parlo come di aspetti figurativi non è difficile da cogliere. In

fondo una raffigurazione è proprio questo: un sostrato materiale che è real-

mente caratterizzato da una discontinuità cromatica che tuttavia si manife-

sta a chi l’osserva nella forma di una profondità apparente – una profondità

che non può essere attribuita realmente alla tela o al pannello, ma che si

manifesta egualmente alla percezione. La vediamo, ma non possiamo nem-

meno tentare di percepirla in altro modo, perché ciò che cade sotto i nostri

occhi ci dice che si tratta di una profondità apparente e che ciò che c’è è

una qualche superficie colorata.

Ora, in un dipinto, la tela esibisce un aspetto figurativo in senso proprio,

ma è possibile anche un uso traslato: quando diciamo che il nero è tetro

non vogliamo dire che sia realmente di questo umore, ma intendiamo af-

fermare che ci appare così, come se inscenasse per noi che l’osserviamo

una peculiare atmosfera emotiva. Il nero ha questo aspetto figurativo: ma-

nifesta una proprietà peculiare che non possiamo propriamente attribuirgli.

E ciò significa: non avrebbe senso avanzare molte delle richieste che nor-

malmente sono legittimate da una simile attribuzione e che ci consentono

di asserire con ragione che una simile proprietà esiste davvero. Un soffitto

nero è tetro, ma non avrebbe senso chiedere il motivo di un simile umore,

né domandarsi che cosa si potrebbe fare per alleviarlo. E non avrebbe senso

nemmeno domandarsi se di pessimo umore lo sia davvero o voglia per

qualche ragione apparirci così, e non perché i soffitti tetri siano particolar-

mente sinceri, ma perché quando diciamo che sono tetri non affermiamo

affatto che abbiano o possano avere un umore qualsivoglia. Il nero è tetro,

così come una brezza è gentile: ci appaiono così, ma non alcun senso sag-

giare ulteriormente l’effettività di un simile manifestarsi. Una brezza ha

l’aspetto della gentilezza perché accarezza le cose e smuove dolcemente la

chioma degli alberi, ma questo gioco di apparenze non basta per essere

davvero gentili. Può essere gentile un gesto, perché i gesti rimandano ad

un comportamento soggettivo e si legano ad un contesto di ragioni e di

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motivazioni che li pongono in uno spazio di predicazioni possibili cui la

gentilezza evidentemente appartiene. Un gesto può essere gentile o non

esserlo e può anche sembrarci a prima vista gentile, ma essere in realtà

mosso da altre motivazioni: può volerci ingannare ed essere falsamente

premuroso. In tutti questi casi, tuttavia, la gentilezza resta un predicato ri-

spetto al quale determinare la natura di quel gesto, e questo perché un gesto

appartiene ad uno spazio logico che è caratterizzato da predicati di tale na-

tura. Non così stanno le cose per un semplice movimento che non può es-

sere gentile perché la gentilezza non appartiene all’ambito delle sue sin-

tassi possibili.

Possiamo forse esprimerci così: una proprietà p è un aspetto figurativo

di un oggetto x se il tentativo di affermare alla lettera che p(x) conduce ad

un errore categoriale, ad una predicazione che non appartiene in linea di

principio allo spazio logico cui il soggetto appartiene. Una brezza non può

essere gentile; eppure ci appare così e ne parliamo così; ne segue che, in

questo caso dire, che la brezza è gentile non significa predicare una pro-

prietà in senso proprio: vuol dire invece attribuirgli un aspetto figurativo,

e gli aspetti figurativi non indicano proprietà degli oggetti, ma del modo in

cui ci appaiono. Possiamo allora affermare che gli aspetti figurativi sono

proprietà terziarie degli oggetti, forme che non dicono ciò che l’oggetto è

in se stesso, ma che ci parlano del modo in cui è presente per noi.

È tuttavia sufficiente dare una veste più chiara a questo concetto perché

si facciano avanti una serie di dubbi sulla sua legittimità. Guardi questo

soffitto nero e lo trovi tetro, e per questo sostieni che l’essere tetro sia in

questo caso una proprietà terziaria che non pretende di dire nulla della na-

tura di un oggetto o di un colore, ma solo del modo in cui ci appare. Una

proprietà terziaria come l’appetibilità di un cibo o la comodità di una sedia

– eppure una spiegazione più semplice sembra essere a portata di mano:

perché non dire che il nero è tetro solo perché a quel colore si è legato nel

tempo un impiego particolare – il nero è il colore del lutto. Un’idea si lega

all’altra e ne diventa il segno, e non è forse vero che una parola sembra

difficilmente separabile dal significato che le si è nel tempo legato? Che si

debba ragionare così, del resto, non lo si vede anche dal fatto che vi è una

qualche relatività culturale in queste affermazioni. A noi il nero sembra

tetro, ma possiamo ben immaginare che vi siano persone cui non appare

così: potrebbero trovarlo freddo, apprezzare il suo aspetto aristocratico, il

suo contegno così lontano dal chiacchiericcio dei colori, e potremmo anche

immaginare che ci siano uomini che appartengano a culture in cui i colori

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non hanno la capacità di suscitare alcuna impressione particolare e che,

proprio per questo, reagiscano con stupore alle nostre scelte cromatiche.

Le convenzioni crescono nel tempo e diventano una seconda natura: impa-

riamo a trovare certi colori tetri e altri allegri perché si usano nella nostra

cultura, e impariamo a sentire discordanti certi accordi, malinconiche certe

successioni di suoni perché esistono certe pratiche compositive che hanno

creato una predisposizione all’ascolto che non è tuttavia contenuta affatto

nella natura dei suoni. In un suo libro – Le sorgenti della musica – Kurt

Sachs racconta l’aneddoto di un musicista popolare albanese che, udita la

Nona sinfonia di Beethoven, la giudica senza appello troppo semplice, an-

che se in fondo bella. Ecco la prova che un’abitudine di ascolto determina

interamente ciò che sentiamo – verrebbe da dire, perché nessuno di noi,

cresciuti nella nostra cultura musicale, si stupirebbe della semplicità rit-

mica di quella sinfonia e si lascerebbe colpire piuttosto dalla complessità

della struttura melodica e dalla sua profonda bellezza. Solo chi è cresciuto

nella nostra cultura può apprezzare queste forme di bellezza, proprio come

per noi è preclusa – una volta per tutte – la bellezza dei canti esquimesi,

delle musiche africane, delle armonie indiane. Per afferrarle, avremmo do-

vuto crescere in quei mondi, imparare le loro lingue, vivere le loro vite – e

rinunciare alla nostra e quindi anche alla nostra musica. Non è andata così:

non abbiamo acquisito quello stile percettivo che ci avrebbe consentito di

impadronirci della musica esquimese, rinunciando alla nostra. Non si può

essere diversi da quel che siamo diventati28.

Come reagire a queste considerazioni? In primo luogo, io credo, ram-

mentando che non è del tutto chiaro che cosa ci suggeriscono. Dicono che

non possiamo apprezzare musiche diversa la nostra, ma è difficile dire che

cosa si intenda quando si parla della nostra musica. In fondo sentiamo Vi-

valdi e Stravinsky, Bach e Beethoven, Palestrina e i Pink Floyd, e tante

altre cose. Le sentiamo, e ci sembra di capirle, e quando non ci ritroviamo,

non malediciamo le nostre origini, ma ascoltiamo di nuovo e con più atten-

zione il brano che ci ha lasciato perplessi. Insomma: anche se non vi è

dubbio che vi siano convenzioni di ascolto e che l’appartenenza ad una

comunità musicale e ad un modo di vivere abbiano un peso, questo non

significa ancora che si possa parlare di una nostra musica, come se

quest’espressione alludesse ad insieme definito di regole e come se tutto

28 L’esempio di Sachs è discusso da Giovanni Piana nella sua Filosofia della musica, Guerini, Milano

199, pp. 38-45 – un libro da cui queste pagine hanno tratto ben più che un semplice spunto espositivo.

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dipendesse da un qualche modo di illuminare soggettivamente un insieme

di materiali inerti. Ascoltiamo molte cose diverse e ci appaiono diverse,

per non dire contrastanti, anche se questo non significa che, ascoltandole,

qualcosa muti in noi e nella nostra forma di vita. Non c’è bisogno di aver

vissuto nella Roma del Cinquecento per ascoltare un madrigale di Palestina

e avvertirne la dolcezza, ma se l’avvertiamo, questo non significa che ci

siamo per questo privati della possibilità di ascoltare ed intendere musiche

molto diverse da questa. Non siamo chiusi in un unico orizzonte d’ascolto.

Su questo punto dovremo tornare tra breve, e tuttavia riconoscere che è

possibile cogliere una pluralità di aspetti figurativi in una stessa scena per-

cettiva non significa riconoscere per altra via che si tratta di mere conven-

zioni? Forse non siamo chiusi in un unico orizzonte culturale, forse è op-

portuno non credere che le convenzioni determinino una seconda natura da

cui sarebbe impossibile spogliarsi, ma se possiamo davvero trovare tetro o

aristocratico, autoritario o sobrio lo stesso colore non dobbiamo ricono-

scere egualmente che gli aspetti figurativi non esistono affatto, ma vi sono

soltanto le molteplici convenzioni di cui possiamo liberamente disporre?

Non credo che nemmeno questa conclusione sia legittima perché non è

affatto detto, in primo luogo, che il nostro rapportarci alla molteplicità de-

gli aspetti che fanno presa su un’unica scena percettiva sia riconducibile al

gioco delle convenzioni. Una convenzione si stipula ed è difficile pensare

che vi sia qualcuno che non sia capace di compiere una mossa così sem-

plice. Per convenzione, il nero è il colore del lutto; potremmo tuttavia sti-

pulare una convenzione ben diversa: un fiocco nero alla porta potrebbe an-

nunciare che è nato un bambino. Le convenzioni possono stupirci, ma non

è difficile stipularle. Sembra proporci invece un compito difficile chi ci

dice che coglie nel nero un tratto gioioso e che trova riposante ed appagata

una settima diminuita: ci propone un compito complesso perché non ci

chiede di stipulare una convenzione, ma di percepire qualcosa che può es-

sere difficile o addirittura impossibile cogliere. Per fare di un colore il se-

gno del lutto dobbiamo accordarci su un certo stile di comportamento; per

cogliervi un aspetto tetro dobbiamo invece guardare con attenzione, pro-

prio come accade quando qualcuno ci invita a scorgere in lontananza una

persona che crede di avere visto. Dobbiamo guardare con attenzione, e non

è affatto detto che basti, perché qualche volta anche se guardiamo attenta-

mente non vediamo affatto quel che vorremmo, perché ci sfugge o sempli-

cemente perché non c’è. Non riesco a vedere il nero come gioioso, ma

posso senz’altro convenire che stia per la gioia, e se è possibile riuscire in

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questo e fallire in quello, allora si deve riconoscere che si tratta di due

compiti molto diversi. Affidarsi alle convenzioni per venire a capo dei

nessi figurativi non sembra dunque una strategia percorribile.

Non solo. Una convenzione può sembrarci più o meno praticabile, ma

sembra essere fuori di luogo cercare di convincere qualcuno che sia giusta

questa convenzione piuttosto che un’altra. Non posso cercare di convin-

certi che «lion» sia meno adatta di «Löwe» per indicare un leone, e se

tentassi di farlo intenderei con tutta probabilità richiamarmi a ciò che in

quelle parole non è convenzionale – all’immagine sonora che le caratte-

rizza e che può essere più o meno adatta ad accompagnare il pensiero di

quell’animale. Nel caso di quelli che abbiamo chiamato aspetti figurativi,

invece, le cose stanno proprio così: se qualcuno trovasse superficiale e fe-

stoso l’adagio del primo concerto brandeburghese di Bach, ci sentiremmo

in dovere di contraddirlo. Per farlo, non avremmo argomenti cogenti, ma

faremmo egualmente il possibile per richiamare la sua attenzione sui punti

che per noi giustificano un tutt’altro giudizio. Affiancheremmo all’ascolto

le parole, per rendere più persuasiva la nostra posizione e forse ogni tanto

daremmo alla nostra protesta una forma enfatica, come se chi ci ascolta

stesse negando l’evidenza e si rifiutasse di ascoltare quello che chiunque

sentirebbe al suo posto. Certo, parlare con un tono persuasivo ed enfatico

non è di per sé un buon argomento, ma è la spia di un fatto che merita di

essere sottolineato: in quel «ma possibile che tu non senta!» che dà voce

alla convinzione che non si voglia sentir così per partito preso, si fa avanti

la convinzione che gli aspetti figurativi siano proprietà intuitive che pos-

siamo imparare a scorgere grazie all’aiuto degli altri, ma che debbono in

definitiva essere percepite.

Nelle pagine della Critica della facoltà del giudizio, Kant sostiene che

del bello non si può disputare, ma si può cionondimeno discutere, e il senso

di queste considerazioni riposa sul carattere intuitivo della bellezza. La bel-

lezza non è il frutto di un’argomentazione e quindi non si può dedurre che

un ornamento sia bello o che lo sia un disegno, ma si può egualmente aiu-

tare qualcuno a scorgere ciò che non è riuscito ad afferrare – si può discu-

tere, per guidarlo a cogliere quel che non ha colto.

Non è facile comprendere sino in fondo il senso di questa bella distin-

zione kantiana, ma io credo che nel nostro contesto questa sua afferma-

zione abbia un senso che meriti di essere approfondito. Proprio come la

bellezza per Kant, anche le proprietà figurative sono proprietà intuitive:

coglierle significa dunque vederle, sentirle, toccarle o, più in generale,

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averne esperienza. Per farlo, tuttavia, può essere necessario orientare la no-

stra prassi percettiva in una direzione determinata: può essere necessario

guardare o ascoltare in un certo modo, per riuscire a vedere o a sentire ciò

che comunque può essere visto o sentito29. La percezione, si diceva una

volta, appartiene alla dimensione della recettività: è un fatto passivo che si

impone al soggetto percipiente, il quale non può fare altro che percepire

quello che gli si offre. Non posso decidere di vedere o di sentire quello che

voglio: ora sento il fischio di un treno che parte la sera e non posso fare a

meno di sentirlo, così come non posso fare a meno di avvertire la malinco-

nia di quel commiato. Anche la percezione degli aspetti figurativi è per sua

natura qualcosa che non dipende da noi, ma ciò non toglie che sia possibile

orientare la prassi percettiva in un modo determinato per riuscire a cogliere

ciò che comunque si poteva cogliere. Così, posso vedere lugubre il nero,

ma (e l’abbiamo dianzi osservato) posso anche imparare a scorgerne altri

aspetti: posso trovare nitida e un po’ autoritaria la sicurezza con cui il nero

separa ciò che ha il suo colore dallo sfondo, ma posso imparare anche a

cogliere la freddezza del nero, il suo aristocratico contegno che non solle-

cita il nostro sguardo con un colore particolare. Non posso dimostrarti che

il nero ha un tratto autoritario, ma posso cercare di mostrarti come e che

cosa devi guardare per vederlo. Non posso disputare, ma posso discorrere

– questo diceva Kant.

Due premesse sono necessarie per comprendere appieno queste conside-

razioni. La prima ci invita a sciogliere un dubbio. Può capitare, scriveva

Carneade, di confondere una corda con un serpente e può accadere che

guardando con maggiore attenzione ci si renda conto dell’errore. Una volta

che l’inganno è stato dissipato, tuttavia, non possiamo fare altro che vedere

una corda: in quel pezzo di canapa non riusciamo più a vedere qualcosa

che striscia e ci chiediamo come sia stato possibile confondere cose tanto

diverse. La percezione è intollerante e ha cattiva memoria: ciò che ora per-

cepiamo sbarra per sempre la porta a quel che credevamo di percepire. Così

29 Questa distinzione può essere ulteriormente approfondita, osservando in primo luogo che posso im-

parare a guardare qualcosa e che, correlativamente, è possibile anche insegnare a qualcuno a guardare in un certo modo: posso volgere gli occhi nella direzione che tu mi indichi e posso guardare come tu

mi chiedi. Non posso invece imparare a vedere: che io veda questo o quello è un fatto che accade se vi

sono le condizioni per le quali può accadere. Puoi insegnarmi come devo guardare quella nuvola e posso obbedirti passo dopo passo, ma questo non basta ancora perché io riesca a vedere quello che mi

chiedi. Il vedere è un verbo che indica un accadimento e tutti abbiamo qualche volta dovuto constatare

che non riusciamo sempre a vedere quel che pure si può vedere in un disegno. Ci si dice di guardare così e noi obbediamo, ma non per questo necessariamente vediamo quel che ci era stato promesso

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stanno le cose per la percezione – almeno così stanno nella norma, ma se

rivolgiamo la nostra attenzione agli aspetti figurativi siamo costretti a os-

servare che qui le cose sono assai meno rigide. Se il nero mi sembra tetro,

non per questo debbo rinunciare a vederne anche la piega autoritaria o a

coglierne la freddezza: qui la regola dell’intolleranza non sembra appli-

carsi. E se le cose stanno così, non dovremmo sostenere forse che gli aspetti

figurativi non sono datità intuitive? Non dovremmo cogliere in questa li-

bertà che ci consente di interpretare in un modo o nell’altro gli stessi ma-

teriali percettivi un segno del fatto che non ci muoviamo sul terreno per-

cettivo, ma su un diverso terreno – sul piano delle convenzioni o delle in-

terpretazioni? Venire a capo di queste difficoltà significa, io credo, ram-

mentare la natura degli aspetti figurativi, il loro essere proprietà terziarie

che non riguardano le cose come sono in se stesse, ma il modo del loro

apparire. Ora, una moneta ha un’unica forma, ma può apparirci in molte e

diverse forme, a seconda della posizione che occupa rispetto a noi. Uno

stesso discorso vale per gli aspetti figurativi: uno stesso colore non può

avere proprietà contrastanti, ma può apparire in molti e diversi modi. Non

siamo disposti a dire che il nero ci sembra scuro – una simile affermazione

suonerebbe ironica o semplicemente priva di senso – ma possiamo senz’al-

tro dire che a noi il nero sembra lugubre, anche se ad altri sembra invece

freddo, elegante, deciso o aristocratico. Qui la parola «sembra» è di casa,

ma non certo per avanzare un dubbio e nemmeno per tacitare l’evidenza

percettiva che accompagna l’afferramento degli aspetti figurativi. Tutt’al-

tro: se di questa parola ci avvaliamo è per proprio per sottolineare la natura

percettiva di queste esperienze e, insieme, il loro carattere essenzialmente

prospettico.

È questa la seconda premessa cui alludevamo: gli aspetti figurativi sono

datità intuitive, ma la possibilità di afferrarli riposa sulla nostra capacità di

assumere la giusta prospettiva – quella prospettiva che sola li dischiude.

Riconoscere il carattere prospettico degli aspetti figurativi non significa

dunque sottolineare soltanto la possibilità che uno stesso oggetto riveli

aspetti contrastanti, ma vuol dire anche porre l’accento sul nesso che lega

il loro afferramento alla dimensione degli orientamenti soggettivi che sor-

reggono la prassi percettiva.

A partire di qui il senso delle considerazioni kantiane sembra chiarirsi

ulteriormente. Gli aspetti figurativi hanno natura intuitiva, ma per afferrarli

è necessario, talvolta, discutere, e discutere significa persuadere e indiriz-

zare, senza per questo pretendere di argomentare, perché l’ultima parola

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spetta a una percezione senza parole. «Prova a guardare così il bianco:

come se fosse innanzitutto silenzioso» – è questo quello che Kandinsky ci

dice, e non è affatto detto che sia questo il modo in cui innanzitutto il

bianco ci colpisce. Paul Klee è di un altro avviso: del bianco ci dice che è

innanzitutto privo di vita. Non così Melville che nel suo Moby Dick dedica

un capitolo al bianco che gli appare tanto disumano quanto metafisica-

mente vero, proprio perché svela l’essenza incolore del cosmo, il suo essere

misteriosamente bianco al di là ogni colorata illusione:

E’ forse perché con la sua indefinitezza, adombra i vuoti e le immensità disumane

dell’universo e, in tal modo, ci colpisce alle spalle con il pensiero dell’annulla-

mento, quando contempliamo le bianche profondità della Via Lattea? O è forse per-

ché, nella sua essenza, il bianco non è tanto un colore quanto l’assenza visibile del

colore e, al tempo stesso, la fusione di tutti i colori; è forse per questi motivi che c’è

una così muta vacuità, piena di significato, in un vasto paesaggio nevoso – un inco-

lore onnicolore d’ateismo dal quale rifuggiamo? e quando consideriamo quell’altra

teoria degli scienziati, secondo la quale ogni diversa tinta terrena – ogni imponente

o aggraziata coloritura – i dolci riflessi dei cieli e dei boschi al tramonto […] e i

velluti dorati delle farfalle, e le guance di farfalla delle giovanette, non sarebbero

altro se non inganni sottili, non veramente inerenti alle sostanze, ma deposti su di

esse dall’esterno, così che ogni cosa la natura che abbiamo deificata dipinge né più

né meno che una prostituta, i cui allettamenti non fanno altro che nascondere l’in-

timo corrompimento; e quando, procedendo oltre, consideriamo che il mistico co-

smetico il quale produce ciascuna tinta, il grande principio della luce, rimane pe-

rennemente bianco e incolore in sé, e che, ove operasse senza tramiti sulla materia,

toccherebbe ogni oggetto, persino i tulipani e le rose, con la sua tinta senza colore

– quando consideriamo tutto questo, l’universo ammorbato sembra disteso sotto i

nostri occhi come un lebbroso; e come il viaggiatore ostinato in Lapponia, che ri-

fiuta di portare occhiali colorati e coloranti, allo stesso modo il povero infedele

perde la luce degli occhi fissando il monumentale sudario bianco che avvolge ogni

aspetto del mondo che lo circonda. E di tutte queste cose la balena albina era il

simbolo. Vi stupisce dunque la caccia accanita? (H. Melville, Moby Dick, cap.

XLII).

Tra questi molteplici modi di riferirsi al bianco per scoprirne la nascosta

espressività non avrebbe senso chiedersi quale sia quello vero. L’abbiamo

osservato: non possiamo argomentare nulla, ma questo non significa che

non sia possibile discutere, perché anche se infine qualcosa deve colpirci

nella sua datità percettiva – anche se infine dobbiamo riuscire a scorgere

nel bianco ciò che lo fa apparire silenzioso, privo di vita o disumano – ciò

non toglie che possa essere necessario, per riuscirci, ascoltare le parole di

chi sa guidarci verso quell’esperienza. Possiamo discuterne, perché qual-

che volta è necessario lasciarsi guidare verso una scoperta che è possibile

solo se accettiamo di disporci in una prospettiva di ascolto dei fenomeni

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che è diversa dalla nostra e che ci parla attraverso le voci di un mondo che

è profondamente differente dal nostro. Faccio fatica a cercare nel bianco

ciò che Melville vi scorge, perché per me il bianco ha la forma serena e

ricca di promesse delle cose all’inizio: è la tovaglia bianca che si stende sul

tavolo prima del pranzo. Ma anche se talvolta facciamo fatica, possiamo

egualmente lasciarci persuadere, nella certezza che comunque non per-

diamo nulla del nostro se accettiamo di guardare con gli occhi degli altri.

«Prova a guardare così!» è insomma la prima mossa di un nuovo gioco che

non esclude altri giochi; tutt’altro: ci insegna a capire come gli aspetti fi-

gurativi che cogliamo nelle cose ci parlino anche della prospettiva da cui

le abbiamo guardate. Ci insegna che sono a portata di mano possibilità dif-

ferenti, se abbiamo la pazienza e la voglia di accettare altri giochi che ci

invitano ad assumere altre e diverse prospettive.

3. Gli aspetti figurativi e l’immaginazione situata

Nelle considerazioni che abbiamo appena svolto abbiamo cercato di far

luce sulla natura degli aspetti figurativi e sul loro carattere prospettico. Pro-

prio su questo punto, tuttavia, siamo rimasti ancora troppo nel vago: ci

siamo affidati ad un’immagine – l’immagine del variare degli aspetti al

mutare del punto di vista – che non può essere presa alla lettera e che con-

tiene un riferimento univoco alla spazialità che non può essere mantenuto.

Per riuscire a cogliere la malinconia del tramonto che tu mi mostri dob-

biamo probabilmente condividere alcuni tratti che appartengono alla nostra

natura di animali diurni, non un determinato punto di vista prospettico: se

non riuscissi a cogliere la malinconia del tramonto non avrebbe alcun senso

chiedermi di spostarmi un poco a destra o a sinistra o di piegare il capo.

Certo, può accadere che gli aspetti figurativi si colgano meglio da un

determinato punto di vista – un tronco può sembrarci minaccioso solo se

lo guardiamo da una prospettiva particolare – ma nella norma le cose non

stanno così, e per rendersene conto è forse opportuno soffermarsi su ciò

che accade quando cerchiamo di condividere con qualcuno la percezione

di un qualche aspetto figurativo. In questi casi parliamo per condurre chi

ci ascolta alla meta, ma per farlo non ci limitiamo a dire dove deve fissare

lo sguardo, come faremmo se dovesse trovare un volume in un grande scaf-

fale, ma ci diffondiamo in descrizioni cariche di elementi immaginativi che

hanno, come loro obiettivo, il compito di disporci appunto nella giusta pro-

spettiva, in quel peculiare ordine di idee e di pensieri che rende compren-

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sibile un'immagine. Non abbiamo argomenti, ma possiamo trovare le pa-

role che motivano immaginativamente la prospettiva che dischiude

l’aspetto figurativo che abbiamo colto e che vorremmo che altri cogliesse.

Questo può avvenire in molti modi. Può accadere accostando immagine

ad immagine, in un gioco coerente che trascina l’interprete passo dopo

passo in un ordine di pensieri che si legano gli uni agli altri, in una costel-

lazione di immagini che fanno eco le une alle altre, facendoci infine sentire

la voce che da esse promana. La sera del dì di festa è pervasa da un pen-

siero che ha le tinte cupe di una metafisica dell’esserci: ci ricorda che la

natura e il mondo permangono in un quieto ed eterno presente senza me-

moria ed attesa e che questa eternità silenziosa racchiude in sé un verdetto

di condanna del tempo umano, del suo affaticarsi nella pretesa del ricordo

e della speranza. Tutto ci conduce verso questo pensiero, in un gioco di

immagini che sottolineano questa frattura. Da una parte vi è la dolcezza

appagata e il silenzio, la vastità serena e diafana degli spazi, dischiusa dalla

luce della Luna che si diffonde al di là dei rifugi e delle fatiche degli uo-

mini, rendendo visibilmente presente l’infinità della natura; dall’altra vi è

il tempo umano che ci appare nelle forme evanescenti di un fragore non

più percepibile, di voci che si spengono e che infine si perdono, poiché

«tutto posa il mondo» . Così, alla lontananza serena di interminati spazi e

ai sovrumani silenzi di un presente senza tempo fa eco – in un contrappo-

sizione sottile tra la temporalità dell’udito e l’atemporalità della vista – la

lontananza che si crea nel perdersi del canto dello zappatore che si allon-

tana lungo il sentiero – questa metafora così immediata della vita che ci

appare qui come un breve condividere nel tempo uno spazio che esiste in-

finto ed eterno in se stesso. Un’immagine si lega alle altre e l’una getta luce

sull’altra, delineando così un paesaggio immaginativo coerente che indi-

rettamente indica i pensieri che lo attraversano, rivelandoci quale sia la

prospettiva che ci consente di penetrare in quell’universo immaginativo.

Ma è possibile anche un diverso cammino. Possiamo penetrare in un’im-

magine, approfondendola, ed è così che fa Poe quando in un suo racconto

– La botte di Amontillado – ci costringe a comprendere l’orrore di una ven-

detta covata a lungo nell’oscurità dell’anima, invitandoci dapprima a se-

guire il cammino di Fortunato e Montresor in una lunga sequenza di stanze

che si aprono e si chiudono l’una nell’altra, per scendere poi in una cantina

che si rivela essere poi una catacomba in cui sono seppelliti gli avi di Mon-

tresor. In fondo alla catacomba, chiusa in una botte, vi è il vino prezioso,

che Fortunato non assaggerà, verrà murato vivo in un antro delle grotte per

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vendetta dall’amico. Qui un’unica immagine si ripete, passo dopo passo,

ampliandosi e approfondendosi, guidando il lettore verso la meta.

Le forme sono varie, ma ciò che accade ripete un copione unico. La nar-

razione immaginativa rende conto degli aspetti figurativi, li illumina e li

rende più ricchi e, allo stesso tempo, offre immaginativamente un intreccio

di ragioni che sembra condurci ad essi. In fondo, è questo che Melville fa

nelle pagine su cui ci siamo dianzi soffermati: ci racconta quali sono i mo-

tivi che sembrano giustificare quell’aspetto della bianchezza che lo turba –

e non vi è dubbio che questi motivi appartengano alla dimensione imma-

ginativa. Così accade in Melville, ma così accade anche nelle pagine di

Kandinsky e di Klee che ci invitano a scorgere il carattere del bianco, mol-

tiplicando le immagini, in un gioco che ha, tra le altre cose, la funzione di

metterci passo dopo passo nella posizione migliore per cogliere una pro-

prietà figurativa, una possibilità espressiva che comunque appartiene a

quel colore e che possiamo cogliere in esso.

Credo che queste considerazioni possano essere generalizzate e che ci

consentano di gettare un ultimo raggio di luce sulla tesi kantiana intorno a

cui ragioniamo. Si può discorrere delle proprietà figurative, perché pos-

siamo cercare di condurre chi ci ascolta a guadagnare la giusta prospettiva

sulle cose – quella che dischiude ciò che noi stessi abbiamo colto. Per farlo,

tuttavia, dobbiamo disporci sul terreno dell'immaginazione: dobbiamo si-

tuare chi ci ascolta rispetto a ciò che deve esperire e possiamo farlo solo

espandendo immaginativamente l’aspetto figurativo che ci ha colpito, po-

nendolo in un contesto di motivazioni immaginative che lo dispiegano e

che lo rendono immediatamente comprensibile. «Guardalo così il bianco,

come se fosse quello che resta visibile quando liberiamo il mondo dalla

rete delle apparenze soggettive e delle forme umane della percezione.

Guardalo come se fosse il colore che le cose hanno prima di colorarsi per

noi» – è questo che Melville ci dice e si tratta evidentemente di giochi im-

maginativi, ed è questo che, secondo Kivy, fa il critico quando ci invita ad

ascoltare un brano musicale, intendendolo alla luce di una narrazione mi-

nimale, di una narrazione senza racconto che istituisce un gioco di do-

mande e risposte, di motivazioni e di reazioni tra le molteplici risonanze

espressive che cogliamo passo dopo passo nello sviluppo di una sonata30.

30 «Il punto a cui voglio arrivare è il seguente. Così come durante la lettura di un romanzo noi pensiamo

a ciò che stiamo leggendo, formuliamo ipotesi su ciò che accadrà in seguito, abbiamo aspettative –

alcune delle quali verranno frustrate, mentre altre invece si avvereranno – e così via, allo stesso modo

ci comportiamo anche nell’ascoltare seriamente, con concentrazione, la musica assoluta. Le opere mu-sicali hanno “trame”: ovviamente non trame con personaggi in azione; ma piuttosto trame puramente

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Possiamo allora trarre la conclusione verso cui convergono le nostre ana-

lisi: gli aspetti figurativi hanno natura prospettica e si colgono solo se li

osserviamo dalla giusta prospettiva. Porsi nella giusta prospettiva, tuttavia,

non significa in questo caso assumere un luogo nello spazio tra gli altri, ma

vuol dire invece condividere alcuni tratti rilevanti della natura, dei pensieri,

degli atteggiamenti e della forma di vita di chi riesce a scorgere in una

situazione data un insieme di aspetti figurativi. L’abbiamo già osservato: il

tramonto è malinconico per noi uomini, ma non lo sarebbe forse se fossimo

animali notturni, e inscena il chiudersi dello spettacolo del mondo solo per

un animale prevalentemente visivo come noi siamo e per un soggetto che

condivida con noi molti altri pensieri che spaziano dalla consapevolezza

del tempo al suo essere per noi limitato e tuttavia scandito nell’avvicen-

darsi dei giorni. Trovare la giusta prospettiva significa appunto condividere

molte cose con chi di fatto a quella prospettiva appartiene.

Di qui il primo compito dell’immaginazione: nella rete di motivazione

che l’immaginazione stende intorno agli aspetti figurativi, nel suo raccon-

tarli in vario modo, dispiegandone il senso e ampliandone la risonanza, si

determina insieme la prospettiva che consente a ciascuno di noi di rivol-

gere la sua attenzione al mondo per trovarvi ciò che altri vi ha esperito. Se

vogliamo fissare le coordinate di quel punto di vista da cui qualcosa ci si è

manifestato così come si è manifestato non abbiamo altro mezzo che porci

sul terreno dell’immaginazione, per dispiegare gli aspetti figurativi che ab-

biamo colto in una narrazione elementare che consenta di afferrarli meglio.

Posso spiegarti come devi ascoltare una successione di suoni per coglierne

gli aspetti figurativi, ma per farlo non posso fare altro che proporti una serie

di immagini: debbo chiederti di disporre la scena percettiva in una narra-

zione elementare che renda perspicua quella possibilità di ascolto che si è

realizzata per me. Chiedendoti di immaginare, ti mostro come devi cercare

di percepire ciò che mi ha colpito in un determinato modo e, insieme, ti

svelo qual è la prospettiva che mi appartiene – quella da cui si percepiscono

proprio queste proprietà figurative.

Si può dire che, in questo senso, l’immaginazione ci situa, ma può farlo

solo perché è essa stessa a sua volta situata. Può dire dove siamo perché,

musicali; eventi sonori che accadono, come aveva sostenuto Hanslick, con una “logica” o un “senso” musicale che producono una connessione. Quando seguiamo queste trame, facciamo quasi la stessa

cosa di quando seguiamo la narrativa di finzione. Giochiamo con esse al gioco della domanda e rispo-

sta» (P. Kivy, Filosofia della musica, Einaudi, Torino 200x, p. ).

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nel suo dar vita alle immagini, è guidata e sorretta da pensieri e da prese di

posizione che ci appartengono e ci caratterizzano culturalmente e storica-

mente.

Siamo così tornati in prossimità del secondo quesito cui intendevamo

dare risposta: dobbiamo in altri chiederci se l’immaginazione immaginosa

obbedisca davvero esclusivamente alle sue ragioni – se vi sia, in altri ter-

mini, un’immaginazione pura. A questa domanda possiamo ora dare una

risposta negativa. Le immagini sorgono dagli aspetti figurativi, ma non

coincidono con essi: ne sono piuttosto una libera espansione, una narra-

zione elementare che apre in una direzione determinata la scena percettiva.

In una direzione determinata, questo è il punto: le immagini nascono dagli

aspetti figurativi, ma non sono contenute in essi e di fatto sorgono quando

ciò che esperiamo è disposto in un orizzonte narrativo più ampio, in una

catena di motivazioni immaginative e di pensieri che da un lato ci consen-

tono di articolare l’esperienza che abbiamo, dall’altro la piegano verso un

significato più ricco.

Non è un caso che ciò accada. Di per sé, un volto corrucciato e un com-

portamento inquieto non dicono ancora molto: parlano invece con chia-

rezza quando ci appaiono sullo sfondo di un contesto di azioni e di accadi-

menti che motivano quei gesti e quelle espressioni. Uno stesso volto in-

quieto ed una stessa gestualità possono accompagnare vicende diverse ed

esprimere differenti forme della preoccupazione. Il gioco dei gesti e delle

espressioni non ha la finezza di grana delle emozioni che pure veicola, ma

questo significa che comprendere un’espressione o intendere un gesto non

significa soltanto osservarlo con attenzione, ma coglierlo nel suo apparte-

nere ad un contesto più ampio, che tra le altre cose specifica in una dire-

zione determinata il senso che deve essere attribuito a piccole sfumature

altrimenti irrilevanti. So che sei preoccupato per una notizia che tarda ad

arrivare e per questo vedo che la tua inquietudine ti tiene inchiodato vicino

al telefono e ti nega ogni comportamento che potrebbe distoglierti dall’ar-

rivo della notizia sperata. Si è preoccupati in molti modi e sarebbe sba-

gliato, io credo, ritenere che a mutare sia soltanto l’oggetto delle nostre

cure: ciò che mi preoccupa determina la natura della mia inquietudine ed è

diverso crucciarsi per una notizia che non arriva o per la malattia di un

malato, per un lavoro che si deve finire per tempo o in generale per il fu-

turo, per un pericolo imminente o per una sventura lontana nel tempo.

Emozioni e sentimenti sono molto più che stati d’animo e il loro senso si

dischiude solo nel loro essere parti di un contesto più ampio.

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Del resto, il percorso che compiamo per comprendere meglio un gesto o

un atteggiamento espressivo è lo stesso che dobbiamo percorrere per va-

gliare se la persona che ci sta di fronte prova davvero le emozioni che

esprime, e la sicurezza di giudizio che così facendo acquisiamo è tale da

non lasciarsi smuovere troppo nemmeno dalle proteste di chi vive gli stati

d’animo che crediamo di cogliere. Fa parte della natura dei nostri giochi

linguistici la possibilità di attribuire ad altri, e persino a noi stessi, uno stato

emotivo al di là del suo essere consapevole in un vissuto determinato: ca-

pisco di essere inquieto perché non riesco a stare seduto a lavorare, perché

guardo troppo spesso l’orologio o perché non tollero qualche piccolo fasti-

dio che mi capita o perché mi arrabbio per nulla. Capisco di essere inquieto

come può capirlo chi mi osserva dall’esterno, e me ne rendo conto anche

se il vissuto dell’inquietudine resta sopito e non si fa strada sulla scena

della coscienza.

Uno stesso discorso vale per gli aspetti figurativi che si arricchiscono nel

loro senso e si consolidano nella loro stessa manifestatività quanto più

l’immaginazione li narra e li dispone in un contesto che consente loro di

dispiegarsi nel loro senso. Non possiamo non cogliere il carattere un poco

inquietante che accompagna il nostro calarci in un pozzo o anche, sempli-

cemente, il nostro discendere gradino dopo gradino, la scala che ci conduce

verso la cantina e che ci spinge dalla luce verso l’oscurità. Proviamo disa-

gio, ma questa atmosfera indefinita che accompagna il nostro scendere

verso un luogo buio e nascosto si arricchisce di senso non appena la nar-

riamo in una forma determinata – non appena cerchiamo di motivarla im-

maginativamente. Un motivo reale di quel disagio non c’è, perché non vi

sono motivi reali di proprietà irreali; e tuttavia proprio l’assenza di una

giustificazione reale ci consente di immergerci nell’immaginazione e di

cercare su questo terreno una ragione immaginativa di quel disagio. Questo

processo può assumere la forma di un’immaginazione mascherata: scen-

diamo le scale che portano in cantina e qualcuno ci domanda inquieto se

laggiù non vi siano ragni e scarafaggi o topi – se non vi sia cioè una ragione

reale per un disagio di cui non si conoscono le ragioni. Ma può assumere

anche la forma di un’immaginazione consapevole che si lascia guidare dai

pensieri che ci animano e che orientano la nostra percezione di quegli

aspetti figurativi.

La discesa verso un luogo nascosto che si apre sotto la terra che dovrebbe

sorreggerci è inquietante, ma per dare a questo disagio una voce definita

possiamo pensarla alla luce di un’immaginazione coerente dello spazio e

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della luce, così come fa Dante nella costruzione immaginativa del suo In-

ferno. Qui la discesa agli inferi appare sempre più chiaramente nella forma

di uno sprofondare che si dispiega e si arricchisce di senso nella sua con-

nessione immaginativa con la pesantezza del peccato, con il suo trascinarci

verso il basso, in una caduta che sembra inarrestabile e che è degradante

per chi la vive. Ma il peccato non è solo un greve indice delle nostre bas-

sezze: è anche una macchia che rende torbida la nostra coscienza che di-

viene proprio per questo nera come il peccato. Così, accanto al progressivo

discendere di Dante si disegnano le immagini dei dannati che sprofondano

nel male e nella sua oscurità: nel fango livido di Ciacco, negli di avelli di

Farinata e Cavalcante, nelle tombe a testa in giù “come pal commessi”,

nella ghiaccia “mettendo i denti in nota di cicogna”, giù giù fino allo spro-

fondare metafisico nelle bocche di Lucifero, che tormentano i dannati “a

guisa di maciulla”. Alla pesantezza e all’oscurità del male fa eco il cam-

mino faticoso di Dante che scende per sentieri incerti, per scale e pertugi,

fino ad esser costretto ad assaporare l’angoscia del sottrarsi della terra di

sotto ai piedi, in quella lenta caduta o in quella fredda immersione cui

Dante è costretto quando deve discendere sino a Malebolge sulle spallacce

di Gerione, la fiera dalla coda aguzza. Infine, accompagnato dal rumore

sordo che le acque del Letè, appesantite dai peccati che hanno dilavato,

fanno cadendo verso le acque infernali del Cocito, Dante risale dall’oscu-

rità alla luce, dal buio gelido di Giudecca alla notte stellata che lo accoglie

ai piedi del Purgatorio. In fondo, si potrebbe leggere così questo cammino:

come un modo grandioso di rendere immaginativamente ragione di un

aspetto della nostra esperienza dello spazio – di renderne ragione, tuttavia,

alla luce di una molteplicità di pensieri e di credenze, che rendono quel

nostro sentire parte di un mondo che siamo chiamati a condividere e che

accoglie nel suo esserci le nostre convinzioni più profonde e le nostre esi-

genze etiche, estetiche e religiose.

Di qui, dai pensieri che ci animano e dalle forme di vita in cui siamo

immersi, prendono forma le narrazioni elementari di cui discorriamo. Le

immagini non nascono dal nulla, e non sono nemmeno l’eco passiva degli

aspetti figurativi di cui abbiamo esperienza: sono il modo in cui, a partire

dalla nostra vita, raccontiamo gli aspetti figurativi della nostra esperienza.

Anche quando l’immaginazione non è asservita ad un fine non per questo

è un’immaginazione pura.

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4. Un mondo condiviso

Le considerazioni che abbiamo appena proposto avevano un fine ben pre-

ciso: volevano mostrare come le immagini si radichino non soltanto nella

nostra esperienza, ma dipendano anche dalla natura dei nostri pensieri,

dalla situazione particolare che ci è propria. Le immagini sono, in questo

senso, prospettiche in un duplice senso: la loro narrazione dipende da pen-

sieri e forme di vita, ma allo stesso tempo si radica in aspetti figurativi che

sono, come sappiamo, essi stessi prospettici.

Di qui il compito che le immagini propongono a chi cerca di compren-

derle. Le immagini ci propongono innanzitutto una sorta di esperimento

immaginativo: ci invitano a cercare di cogliere un certo aspetto figurativo

alla luce di una narrazione elementare. Le foglie, quando sono secche, ca-

dono e quando cadono sono fragili; anche il loro cadere, tuttavia, ci appare

alla luce di una leggerezza priva di vita: il cadere delle foglie è un “cader

fragile”. Se vogliamo comprendere quest’immagine, tuttavia, non pos-

siamo limitarci a ciò che vediamo e a vario titolo esperiamo, ma dobbiamo

cercare di leggerla alla luce della narrazione immaginativa che ne fa Pa-

scoli. «Puoi intendere così il cadere fragile delle foglie: come se in quel

cadere si mettesse in scena per noi la precarietà di tutte le cose, la loro

natura fragile e sospesa» – è questo l’esperimento immaginativo che l’im-

magine ci propone.

Le immagini non dicono come stanno le cose: il cadere delle foglie non

è fragile – un’immagine non contiene un giudizio in senso proprio, e non

pretende di essere né vera, né falsa. Quando diciamo che il cadere delle

foglie è fragile non intendiamo affermare un fatto; rammentarlo significa

solo sottolineare per altra via che le immagini appartengono alla dimen-

sione dell’immaginazione in senso pregnante e non si pongono quindi sul

terreno dell’essere31. Le immagini non constatano come è fatto il mondo,

ma non dicono nemmeno in una forma allegorica quello che potrebbe es-

sere altrimenti detto alla lettera: non ci invitano a rammentare qualcosa che

sappiamo bene, ma che preferiamo non dire in un linguaggio piano e cioè

che la vita passa in fretta e che non c’è cosa che non abbia in sé le stigmate

della finitezza.

Su questo punto si deve insistere. Un’immagine non è un’allegoria: non

è una veste letteraria che si aggiunga ad un significato che potrebbe essere

31 Su questo punto si veda Piana 1979: .

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altrimenti detto. Crederlo vorrebbe dire fraintendere la natura delle imma-

gini e privarle della loro autonoma sensatezza. E tuttavia dire così non si-

gnifica affermare che vi sia un qualche significato peculiare, altrimenti

inaccessibile alle parole e alla ragione, che le immagini saprebbero miste-

riosamente veicolare. Dire che le immagini non hanno un significato che

si possa dire a parole non significa affermare che sono capaci di dire l’inef-

fabile: vuol dire invece richiamare l’attenzione sul fatto che le immagini

non dicono, ma chiedono qualcosa: ci invitano a cogliere un aspetto figu-

rativo alla luce di una narrazione particolare. Il cadere delle foglie a no-

vembre non è fragile – non può esserlo e l’immagine non può suggerire

quello che non si può dire alla lettera, né essere il viatico di un senso inef-

fabile. Il «cader fragile» delle foglie novembrine non è la cifra dell’indici-

bile, ma un invito a disporre quel lento cadere privo di vita in un contesto

immaginativo dominato dai pensieri della precarietà e della disillusione,

del silenzio e del vuoto, del freddo e della mancanza di vita – dai pensieri,

insomma, che attraversano i versi di quella poesia di Pascoli.

Ora, sottolineare la dimensione prospettica delle immagini significa an-

che comprendere la dimensione pragmatica dell’esperimento che le imma-

gini ci invitano a compiere. Un’immagine non ci propone soltanto un certo

modo di raccontare il mondo: ci invita anche a disporci nella prospettiva

che rende accessibile l’immagine stessa e che insieme rende pienamente

esperibile e determinato nel suo senso un qualche aspetto figurativo. Tor-

niamo al nostro esempio. L’immagine ci chiede di immaginare il cadere

fragile delle foglie alla luce dell’universo di pensieri e di decisioni che

orientano il progetto immaginativo di quella poesia. Ora, non è affatto detto

che questi pensieri e queste decisioni ci appartengano; tutt’altro: possiamo

anche esserne lontani come nella norma accade a chi ha letto quella poesia

quando era poco più di un bambino. Di qui l’esperimento che siamo chia-

mati a compiere: dobbiamo provare a pensare così e dobbiamo tentare di

acclimatarci all’universo di valori che si fanno avanti in quella narrazione

elementare perché questo è il prezzo che deve essere pagato se vogliamo

penetrare nel senso dell’immagine che, a sua volta, è lo strumento che pos-

sediamo per tentare di impadronirci dei pensieri che ci consentono di com-

prenderla.

Da questa circolarità non possiamo liberarci, ma dobbiamo invece sotto-

lineare che in essa si esprime una dimensione importante dell’immagina-

zione. Le immagini presuppongono una qualche comunanza: le compren-

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diamo solo se condividiamo qualcosa con chi le propone. A questo presup-

posto fa tuttavia da contrappunto la constatazione che le immagini sono a

loro volta veicolo di un accomunamento: l’immagine ci propone una nar-

razione elementare che possiamo far nostra solo se accettiamo di lasciarci

guidare dai pensieri che hanno condotto sino ad essa – solo se ci poniamo

dunque nella prospettiva di chi l’ha colta.

Nelle pagine della Critica della facoltà del giudizio Kant sottolineava

che l’esperienza del bello implica idealmente una comunità (§ 21), poiché

ci consente di scoprire che tutti ci rapportiamo in un identico modo alle

nostre facoltà. L’accomunamento di cui qui parliamo è meno ambizioso:

ci dice soltanto che un’immagine dispiegata è insieme un’immagine che ci

parla di un mondo condiviso. L’immagine propone un esperimento: il no-

stro condurlo in porto è un segno che un accomunamento vi è stato. Se

sappiamo fare quello che l’immagine chiede, possiamo assaporare insieme

il piacere di una condivisione: abbiamo saputo intendere un aspetto del

mondo alla luce di un progetto immaginativo che non ci apparteneva e che

affondava le sue radici in una forma di vita che non era necessariamente

identica alla nostra. Comprendere un’immagine significa allora condivi-

dere una narrazione immaginativa: vuol dire trovare il modo per farla no-

stra, acquisendo una prospettiva sul mondo che ci viene in qualche modo

suggerita dall’immagine stessa. Così, se i racconti si raccontano volentieri

non è solo perché non abbiamo altro modo per guidare l’immaginazione di

chi ci ascolta verso la meta che è dettata dalla comprensione dell’imma-

gine, ma è anche perché il raccontare è per sua natura una forma di acco-

munamento che crea una comunità sorretta esclusivamente dal sentimento

della condivisione.

Il presente ci chiama ad un accomunamento che è almeno in parte dettato

dalle cose stesse che chiedono per loro natura una cooperazione, ma è dif-

ficile che una comunità si fondi esclusivamente sul vincolo della realtà e

della sua urgenza. Si vive insieme perché il presente lo chiede, ma spesso

le comunità hanno bisogno di ancorare il loro insieme al rituale dei ricordi,

al gioco corale delle narrazioni memorative e alla celebrazione delle feste

che tengono insieme un gruppo e che, proprio per questo, chiedono di non

essere dimenticate. Non puoi dimenticarti dei compleanni e degli anniver-

sari dei tuoi familiari, perché anche su queste cose si misura e si rafforza

la solidità di un gruppo di amici o di una famiglia. Può capitare che ci si

dimentichi, ma in questi casi qualcuno potrebbe rimproverarci perché non

avremmo dovuto dimenticarcene, e di fatto ci sentiamo colpevoli di un

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torto che non avremmo dovuto commettere. Vi è dunque un’etica del ri-

cordo che pretende da noi che non si dimentichino certe date o certi gesti

perché su di essi poggia quel comune riconoscimento che tiene insieme le

persone in un gruppo. Non vi è tuttavia soltanto un’etica del ricordo, ma vi

è anche qualcosa di simile ad un’etica dell’immaginazione: se vogliamo

trovarci bene insieme agli altri dobbiamo cercare di condividere una mol-

teplicità di narrazioni immaginative ed è anche per questo che sentiamo

così vivo il bisogno di raccontare e di condividere le immagini che sen-

tiamo nostre. L’immaginazione ha una piega corale, e le preoccupazioni

kantiane sul tema della comunicabilità del bello alludono in fondo a questo

problema: puntano l’indice sul fatto che immaginare è un fatto individuale

che vuole diventare collettivo e condiviso. È per questo che l’immagina-

zione si fa corale e rituale insieme, invitandoci a ripetere ciclicamente le

sue narrazioni per scandire la nostra vita. Le feste del calendario sono rac-

conti condivisi del tempo dell’anno, e lo sono anche i mille rituali che ac-

compagnano la nostra vita e che si caricano di valenze immaginative: per

ogni data importante della vita ci sono rituali che si ripetono e che è neces-

sario ripetere, perché sono dettati da un’etica dell’immaginazione che ci

chiede un accomunamento.

Tuttavia, che l’immaginazione abbia una funzione di accomunamento è

un fatto che merita di essere sottolineato non soltanto perché vi è un piacere

che accompagna il sentirsi uniti dall’appartenenza ad una narrazione co-

munitaria, ma anche perché nell’accomunamento immaginativo prende

forma un mondo condiviso. L’accomunamento è accomunamento rispetto

ad un mondo che l’immaginazione ci insegna a cogliere alla luce delle no-

stre convinzioni e dei nostri valori, della nostra sensibilità e delle nostre

emozioni, dei nostri desideri e delle nostre paure. La realtà, invece, è in

linea di principio indipendente dalle nostre esigenze e dalla nostra vita: il

mondo non è il nostro mondo, e questa pretesa che deve essere appunto

negata in linea generale ha tuttavia una sua validità che non si situa sul

terreno della metafisica, ma nella constatazione ovvia che il mondo così

come lo conosciamo dipende innanzitutto dalla nostra sensibilità e dal

modo in cui lo comprendiamo e in cui cerchiamo di renderne conto. Ci

muoviamo in un mondo che è innanzitutto presente per noi nelle forme che

dipendono dalla nostra natura sensibile: gli oggetti per noi hanno colori e

sapori e ci appaiono grandi o piccoli in relazione al nostro corpo o alla

prassi che vi si relaziona. Il mondo è innanzitutto il mondo della vita e si

articola in eventi che consideriamo rilevanti o irrilevanti, in cose che ci

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sembrano utili o dannose, piacevoli o disgustose o semplicemente indiffe-

renti. Il mondo è così come lo vediamo e ne abbiamo esperienza, anche se

questo non significa che non sia un mondo che ha una sua indipendenza da

noi che lo esperiamo o che non sia possibile correggere le nostre esperienze

alla luce dell’esperienza stessa: il remo è integro, anche se ci appare spez-

zato quando lo immergiamo nell’acqua e l’erba è verde, anche se di notte

non riusciamo a distinguerne il colore. Il mondo della nostra esperienza

non è un sogno privato: è questo nostro mondo che si ritaglia nella nostra

esperienza, alla luce della forma stabile del nostro esperire.

Il mondo è dunque innanzitutto questo mondo che esperiamo e che ha

una sua tendenziale obbiettività, e tuttavia già sul terreno della nostra espe-

rienza quotidiana la dimensione dell’obiettività sembra costringerci a rico-

noscere che le cose non sono così come ci appaiono in un senso più com-

plesso del termine. Il tramonto non è malinconico, il nero non è lugubre, lo

spazio non ha direzioni privilegiate, i suoni non sono carichi di affettività

e il cadere delle foglie non è affatto fragile – tutto questo lo sappiamo, e

non possiamo dimenticarcene perché ciascuna di queste tesi racchiude, se

la prendiamo alla lettera, un vero e proprio errore categoriale. Eppure, se il

mondo ci appare non soltanto come qualcosa che è, sia pure nelle forme

determinate dalla nostra presa sensibile sul mondo, ma come l’universo

sensato della nostra vita e come un campo di esperienze che ci insegnano

un’infinità di cose sulla nostra vita, ciò accade perché l’immaginazione ci

viene incontro e ci propone un insieme di narrazioni che ci consentono di

ritrovarci nelle cose, di dispiegare quel senso che troviamo in esse, anche

se non possiamo a rigore pensare che loro appartenga. La via verso il basso

non è diversa dalla via verso l’alto – e non c’è bisogno di Eraclito per com-

prenderlo. Lo sappiamo da sempre, e tuttavia ci basta sollevare la pietra

che copre un formicaio per sentire che là sotto brulica una vita inquietante

che non ci aspetteremmo di trovare in cima alle nuvole, e che il significato

di questa elementare poetica dello spazio si è arricchita e articolata proprio

nel gioco molteplice di esperienze di natura percettiva che tuttavia si con-

solidano sul terreno immaginativo.

Il punto è qui: il mondo reale è un mondo obiettivo che dobbiamo pensare

nella sua indipendenza dalla soggettività, ma il mondo in cui ci troviamo

vivendo è innanzitutto il mondo così come si dischiude alla nostra sogget-

tività percipiente, ma è poi anche il mondo in cui cerchiamo di ritrovarci,

narrandolo ogni volta daccapo, un mondo che si fa nostro e che si conso-

lida sul terreno immaginativo. Di qui ancora una volta l’importanza

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dell’accomunamento immaginativo. Un mondo nostro può prendere forma

nell’immaginazione solo se l’immaginazione è condivisa, solo se la narra-

zione individuale si apre ad una narrazione collettiva e la narrazione col-

lettiva si piega ad una forma rituale, per quanto debole sia il significato

che vogliamo dare a questa parola. Le immagini più salde e irrinunciabili

sono quelle immagini che si sono ritagliate un posto nelle nostre consuetu-

dini, nei comportamenti condivisi, nel linguaggio, nelle forme che abbiamo

dato alla nostra vita.

Tutti noi sappiamo che il tempo ha una struttura lineare e irreversibile e

che ogni istante è il successore del suo antecedente – si tratta di verità pic-

cole che non hanno bisogno di teorie per essere apprese perché sono rac-

chiuse in mille esperienze che le presuppongono e che possono assumere

un senso emblematico. Sappiamo che ciò che è accaduto è accaduto una

volta per tutte e non si può tornare indietro; sappiamo che il futuro dipende

almeno in parte dal passato e che non esiste nel tempo un inizio assoluto,

perché ogni istante è in qualche misura già vecchio poiché il presente è

comunque il futuro di un passato. Lo sappiamo, e tuttavia il rito del calen-

dario e il suo proporci una narrazione del tempo che ci accomuna ci invita

a pensare tutt’altro e a immaginare l’anno passato finisca davvero e ne inizi

uno nuovo. Immaginiamo così perché ne sentiamo il bisogno e questa nar-

razione corale propone un’immagine del tempo che si consolida nei riti

degli auguri e delle bottiglie stappate con fragore, per mettere in scena il

nostro desiderio di un taglio netto, di una cesura che sia piena di nuove

promesse. L’etica dell’immaginazione rivela così il suo carattere di impe-

rativo ipotetico: ci chiede di immaginare insieme agli altri per attribuire

solidità ad una costruzione immaginativa, ad un abito che si sovrappone al

mondo obiettivo e che non chiede di essere creduto, ma egualmente pre-

tende di essere ritrovato, anno dopo anno, come qualcosa che ha la sorda

ripetitività delle cose che sono.

5. L’immaginazione e il suo compito

L’immaginazione, scriveva Hume, è una facoltà libera, e libera in partico-

lar modo sembra essere l’immaginazione in senso pregnante poiché non si

muove sul terreno della realtà e non è costretta a condividerne i vincoli. E

tuttavia, per quanto sia libera, anche l’immaginazione in senso pregnante

ha un compito cui deve assolvere e che non può essere delegato ad altri.

L’abbiamo osservato: il mondo ci appare innanzitutto come questo nostro

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mondo che si costituisce per noi nelle forme della nostra esperienza per-

cettiva e che si manifesta come una realtà ricca di senso, e comunque de-

terminata dalle forme e dai modi del nostro esserci. Ci appaiono afferrabili

gli oggetti che hanno una dimensione adatta alle nostre mani, leggeri gli

oggetti che non mettono alla prova le nostre forze, gelidi i venti che raf-

freddano il nostro corpo e in generale le cose sono percepite in ragione di

una misura che ha nel nostro corpo un criterio rilevante. Uno stesso di-

scorso vale per molte delle proprietà che le cose rivelano alla percezione:

alcune cose le percepiamo come cibi, altre pericoli, altre ancora (ma non

tutte) come oggetti che si possono utilizzare in vario modo e che sono come

tali orientate rispetto ad una prassi possibile. Anche il carattere degli eventi

si orienta rispetto al nostro esserci di persone. Alcuni eventi li esperiamo

così: come se avessero cause, altri come se avessero motivi. Non mi chiedo

che motivo abbia la trave per cedere sotto il peso di un carico eccessivo,

ma nel mondo che ci appartiene vi sono motivi che spiegano il gesto di un

persona o il comportamento di un animale. La nostra esperienza del mondo

è fatta così: non ci sono soltanto accadimenti, ma gesti, azioni, comporta-

menti.

Alla natura sensibile del mondo che percepiamo e al suo orientarsi ri-

spetto alle forme del nostro corpo e alla rete dei nostri bisogni, fa eco il

suo carattere espressivo. L’esperienza, in questo senso, non è affatto muta,

ma ci parla in molti modi: forme, colori, e suoni hanno una loro valenza

espressiva che accompagna la loro percezione e vi è una poetica dello spa-

zio, dei materiali, degli accadimenti che appartiene senz’altro alle forme

del nostro essere nel mondo che è essa pure indisgiungibile da quello che

vediamo e sentiamo. Un discorso analogo vale per le atmosfere che perva-

dono gli spazi della nostra vita: certe stanze sono anguste, un soffitto cupo

opprimente, un viottolo di campagna può farci sentire soli e nelle strade

antiche di una città si può percepire un senso di condivisione serena. Le

atmosfere ci sono e le percepiamo così come si percepiscono gli infiniti

aspetti figurativi che pervadono le cose e gli spazi della nostra esperienza

quotidiana.

Certo, fa parte del senso complessivo della realtà così come la esperiamo

la consapevolezza che il mondo è in se stesso una realtà obiettiva e che non

è possibile pensarlo realmente nelle forme e nei modi in cui si manifesta

sensibilmente ed emotivamente nella nostra esperienza. La realtà non è

come la percepiamo: il gioco delle luci ci insegna già sul terreno dell’espe-

rienza quotidiana che le cose non hanno un colore, ma solo una capacità di

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reagire in vario modo alla luce e questa consapevolezza che si fa strada

insieme alla comprensione dei nessi reali tra le cose del mondo ci insegna

che il nostro mondo percettivo si perde ai margini e ha confini incerti, an-

che se questo non ci costringe ad abbandonarlo o a considerare insensate

le proprietà che lo caratterizzano.

Ancora più netto sembra essere il verdetto sulla dimensione espressiva

ed emozionale che caratterizza il mondo così come lo esperiamo. Fa parte

del senso complessivo della nostra esperienza del mondo la constatazione

che i tramonti non sono malinconici, le colline non sono dolci, l’atmosfera

di una giornata piovosa non è uggiosa e che il mare è davvero soltanto

questo – tanta, davvero tanta, acqua salata. Una stanza buia è malinconica,

ma non lo è realmente ed è per questo che se vogliamo renderla più vivibile

non cerchiamo di consolarla poiché non è realmente triste, ma la modifi-

chiamo nelle sue proprietà reali: la ridipingiamo di bianco, apriamo una

finestra, leviamo o spostiamo i mobili che l’arredano, e così via perché non

ci appaia più come prima ci si mostrava.

Si tratta di cose che abbiamo sempre saputo e che, in qualche misura,

sappiamo sempre meglio: una comprensione scientifica della natura ci co-

stringe infatti a prendere commiato dalle mille forme in cui nascostamente

il nostro mondo cerca di penetrare nel mondo obiettivo. Sul terreno del

mondo della distinguiamo già vita tra ragioni e cause, ma qualche volta è

difficile non rinunciare a cercare un motivo, anche là dove in realtà non ve

ne sono. Quando accade qualcosa che ci riguarda da vicino è difficile non

cercare motivi inesistenti: la catena della bicicletta che esce dagli ingra-

naggi nel giorno in cui si ha fretta per un appuntamento importante ha

cause reali di cui non dubitiamo, ma ci sembra anche parte di una congiura

ordita dal Caso e qualche volta ci lamentiamo del destino quando un evento

inatteso si inserisce senza ragione nella nostra vita, spingendoci a pensare

che ciò che è accaduto per caso fosse stato riservato proprio per noi.

Nella norma, sappiamo distinguere il nostro mondo dal mondo obiettivo,

ma questo non toglie che sia talvolta necessario riflettere e che le scienze

della natura ci abbiano molto aiutato a farlo. Non è facile guardare il mondo

senza guardarlo dalla prospettiva che ci appartiene, ma è utile ed impor-

tante farlo. Per dirla con Bachelard:

l’oggettività scientifica è possibile solo se si è rotto con l’oggetto immediato, se si

è rifiutata la seduzione della prima scelta, se si sono arrestati e contraddetti i pensieri

che nascono dalla prima osservazione. Ogni oggettività, debitamente verificata,

smentisce il primo contatto con l’oggetto. Essa deve all’inizio criticare ogni cosa

[...]. Ben lungi dallo stupirsi, il pensiero oggettivo deve ironizzare (G. Bachelard,

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Psicoanalisi del fuoco, Dedalo, Bari 1973, p. 125)

Non siamo fin da principio razionali: per esserlo siamo qualche volta co-

stretti a «prenderci gioco della prima persona” (Psicoanalisi del fuoco, op.

cit., 126) che è, in effetti, talvolta risibile. Qualche volta ci piace pensare

che la realtà risponda alle nostre inclinazioni e che ci sia un nesso profondo

tra i modi in cui il nostro mondo si dipinge per noi e la realtà obiettiva. Ci

piace pensarlo, ma non è affatto detto che sia così. Spesso è soltanto ridi-

colo crederlo, e i nessi che l’astrologia ha colto tra certi periodi dell’anno

e il carattere degli uomini nati sotto quei segni è una prova del fatto che

non è poi così difficile riconoscere che ironizzare è senz’altro opportuno.

Dobbiamo ridere della prima persona, ma questo non significa che sia

possibile rinunciare interamente e una volta per tutte a ciò che per noi si-

gnificano le cose prima di porci il problema della loro natura obiettiva. È

ridicolo pretendere che la realtà si adatti all’immagine che si disegna sul

terreno percettivo, ma non è molto più saggio pretendere di piegare il no-

stro mondo al dettato della realtà obiettiva.

«L’erba non è verde, i mattoni non sono rossi – un irlandese non può

credere a queste “verità”» – così scriveva Berkeley nel suo diario, ed anche

se non è certo possibile concordare con le ragioni che lo spingevano a dire

così, c’è qualcosa di molto vero in quest’osservazione. I colori apparten-

gono solo al mondo così come lo percepiamo e non hanno un loro posto

nella realtà obiettiva, ma se parliamo dell’erba e dei prati – se parliamo di

queste realtà familiari che appartengono al nostro mondo – non c’è ragione

per dire che non sono verdi: di quale altro colore potrebbero essere? L’erba

non ha una riflettanza, anche se ce l’hanno ovviamente gli elementi chimici

di cui è composta. L’erba, invece, è verde.

Un discorso analogo vale anche per le realtà che a noi sembrano cariche

di significato: anche in questo non vi è ragione per costringersi sempre e

ovunque ad un linguaggio obiettivistico. Non siamo costretti a parlare sem-

pre così: il mare è davvero soltanto questo – tanta acqua salata – ma non

dobbiamo sentirci più intelligenti o più sinceri se pronunciamo questa mas-

sima sconsolata la sera di fronte alle onde che giungono lente alla riva. Se

diciamo così è solo perché vogliamo fare i guastafeste.

Credo che queste considerazioni siano relativamente ovvie, e tuttavia vi

è un punto che merita una riflessione ulteriore. Che i colori non siano pro-

prietà reali delle cose è una verità che impariamo col tempo, ma sappiamo

da sempre che il tramonto non è malinconico e che una giornata di pioggia

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non è uggiosa. Lo sappiamo, eppure non possiamo sottrarci a quest’im-

pressione che si sviluppa e si arricchisce solo sul terreno immaginativo. La

differenza è qui: non abbiamo bisogno di immaginare nulla per sostenere

l’immagine sensibile del mondo, ma abbiamo bisogno di immaginare per

consolidare ed articolare la dimensione espressiva delle cose o per esten-

dere il gioco della motivazione al di là dei confini che gli spettano. Il

mondo ci si presenta ricco di espressività, ma spetta all’immaginazione il

compito di dipanare questa trama di senso.

Anche su questo punto Bachelard ha qualcosa da dirci: riconoscere che

il reale nella sua obiettività può essere compreso solo quando ci si dispone

sul terreno delle scienze non significa dimenticare che c’è un universo di

senso che coincide con il nostro originario rapporto con le cose, ma vuol

dire al contrario rammentare che c’è un compito specifico per l’immagina-

zione. Così, se anche la filosofia deve riconoscere che non vi è spazio per

la razionalità al di là dell’ambito delle scienze e dell’indagine epistemolo-

gica, deve egualmente riconoscere che il mondo così come ci è dato nel

nostro rapporto vivo con le cose merita comunque di essere indagato. Di

qui, per Bachelard, lo spazio per una filosofia dell’immaginazione che de-

linei sia pure in tono minore le forme di un’antropologia filosofica o addi-

rittura di una metafisica concreta. Di metafisica Bachelard parla, per il

vero, soltanto nelle battute conclusive della Poetica dello spazio: lo spunto

gli è offerto da una poesia di Rilke che celebra l’immagine di un albero che

è cresciuto in ogni direzione e che proprio per questo oppone la certezza

della sua pienezza sferica agli eventi capricciosi della vita nella sua mobile

imperfezione. Un passo isolato la cui rilevanza sembra essere però sottoli-

neata dal fatto che proprio a queste parole Bachelard affida il compito di

concludere il suo bel libro più bello sull’immaginazione – la Poetica dello

spazio, appunto:

se potessi mai accumulare in un grande complesso immagini molteplici, mutevoli,

che comunque illustrino la permanenza dell’essere, l’albero rilkiano aprirebbe un

denso capitolo di metafisica concreta (Bachelard 2011: 275).

Forse non è il caso di lasciarsi tentare da queste scelte terminologiche, che

nella forma garbata di un’immagine – la metafisica come un album che si

lascia sfogliare in pace, la sera, al riparo delle mura domestiche – ci invita

a riproporre un termine così carico di suggestioni filosofiche, ma il pro-

blema comunque permane32. E con il problema resta anche il compito che

32 Scrive Piana nel suo Saggio su Bachelard: «In un certo senso, se adottassimo lo schema elementare

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all’immaginazione deve essere attribuito: nel gioco e nell’immaginazione

narrativa, ma soprattutto nelle immagini prende forma un mondo che ci

appartiene perché è plasmato alla luce dei nostri pensieri e delle nostre

esigenze. L’immaginazione ci consente di accedere al nostro mondo, ma

non per questo lo crea perché ogni narrazione prende lo spunto dalle cose

e dalla loro figuratività: è un mondo che ci appartiene, ma è pur sempre

qualcosa che troviamo, per quanto ricca e significativa sia la dimensione

immaginativa che ci consente di appropriarcene. Così l’immaginazione ci

appare come una prassi che ci consente di ritrovare nel mondo obiettivo il

nostro mondo, di ritrovarlo senza per questo dover credere che sia reale.

In fondo, il segreto dell’immaginazione è proprio qui: ciò che ci propone

non ha bisogno di essere disposto sul terreno della realtà e non chiede di

essere creduto, anche se è capace di coinvolgerci nel suo mondo. Non ab-

biamo bisogno di credere che il cadere delle foglie sia fragile per sentire

che questo è il mondo cui apparteniamo e che ci appartiene. L’immagina-

zione non ci costringe a credere e non si cura della realtà: il suo operare nel

mondo per costruire e consolidare il nostro mondo non ha una pretesa

obiettiva, come non l’ha il nostro mondo la cui irrealtà è manifesta. Un

mondo irreale che scopriamo nella sua irrealtà quanto più impariamo, per

dirla con Bachelard, a ridere della prima persona, ma un mondo non per

questo falso, perché è nel nostro mondo che impariamo a costruire i nostri

pensieri e ad articolare le nostre emozioni. Non c’è bisogno di scomodare

proposto dal neopositivismo secondo cui si avrebbe la filosofia come epistemologia e poi nient’altro

che la filosofia come metafisica, non ci sarebbe da dubitare che secondo Bachelard la filosofia deve

essere anche metafisica. Una simile affermazione dovrebbe poi essere seguita da tutte le attenuazioni del caso; anzitutto l’attenuazione che riferisce questo termine entro una dimensione filosofico-antro-

pologica; quindi l’attenuazione di questa dimensione in direzione di un rifiuto di una teoria filosofica

vera e propria; infine l’attenuazione estrema consistente nel ricondurre tutto ciò ad una pura e semplice inclinazione che assume la tematica dell’immaginazione. La congiunzione di questi termini – metafi-

sica e immaginazione – non rimanda peraltro, in Bachelard, ad una tendenza sempre rinascente ad

attribuire all’immaginazione una sorta di vocazione metafisica, una sorta, cioè, di predisposizione ad

accedere ad un campo di realtà profonda e ignota, che resta in linea di principio inaccessibile agli

strumenti e ai metodi della ragione, ma è orientata se mai nella direzione opposta. Ogni discorso che

pretenda di mostrarsi come esplorazione di una realtà situata oltre la superficie delle cose acquista interesse proprio in quanto viene considerato come espressione dell’immaginazione stessa. Idea certa-

mente non nuova; anzi, molto vecchia, dal momento che qualunque polemica antimetafisica ha sempre

sottolineato, con maggiore o minore sarcasmo, l’immaginarietà delle costruzioni metafisico-specula-tive. Ma questa vecchia idea assume in Bachelard una singolare trasformazione. Il punto della que-

stione sta non tanto nell’esibire la relazione con l’immaginazione del discorso orientato metafisica-

mente, ma nel segnalare il suo interesse quando ci accingiamo a considerarlo così» (Piana 1985: ).

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la metafisica per questo, nemmeno nelle forme pacate di un album, ma an-

che se non è un compito metafisico, è un lavoro serio che ha una sua ragion

d’essere e di cui abbiamo bisogno, da sempre.

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CAPITOLO QUARTO

L’IMMAGINAZIONE E IL NOSTRO MONDO

1. Una finzione consolidata

Il mondo reale è un mondo obiettivo che dobbiamo pensare nella sua indi-

pendenza dall’io, ma a questo mondo obiettivo fa da controcanto il nostro

mondo che ci appare alla luce del nostro percepire e del nostro esperire, ma

che si costruisce anche in virtù di un’immaginazione che si radica nei con-

tenuti e nelle forme dell’esperienza, ma va al di là di essi, plasmandoli alla

luce dei nostri pensieri e delle nostre esigenze. Su questo punto ci siamo

soffermati relativamente a lungo nelle riflessioni conclusive del terzo ca-

pitolo che erano volte a mostrare come il mondo che sembra rispondere

alle nostre esigenze di senso e che ci appare alla luce delle nostre esigenze

e dei nostri orientamenti culturali ed esistenziali fosse il mondo in cui cer-

chiamo di ritrovarci, narrandolo ogni volta da capo, alla luce di quello che

siamo e pensiamo. Anche l’immaginazione assoluta ha un compito – que-

sto era quanto volevamo mostrare.

Basta tuttavia ripercorrere quelle considerazioni perché si faccia avanti

un’obiezione che sembra difficile tacitare e che ha le forme antiche del

nesso che stringe la finzione all’illusione e che scopre nella consapevo-

lezza dell’una la fragilità dell’altra. L’immaginazione risponde al bisogno

di un mondo nostro in cui ritrovarci e il suo modo di far fronte a questa

richiesta consiste nel proporci una narrazione delle cose che è tuttavia li-

bera dal vincolo della realtà. Non possiamo realmente credere che il mare

non sia mai stanco e non è vero che le sue onde giungano da molto lontano,

ma ci sembra bello pensare che così stiano le cose e l’immaginazione tesse

per questo le sue finzioni e costruisce per noi un’immagine ricca di senso

che ci piace abitare. L’immaginazione finge un mondo in cui indugiamo

volentieri pur senza credervi, ma questo non significa in fondo riconoscere

che questo nostro mondo costruito a fatica dall’immaginazione è un’illu-

sione in cui ci piace immergerci, ma che di fatto si dissolve necessaria-

mente insieme alla consapevolezza della sua origine? Non dovremmo in

altri termini riconoscere che il gesto creativo dell’immaginazione presup-

pone un atteggiamento di garbata ipocrisia o di irragionevole smemora-

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tezza? Forse c’è stato un tempo in cui l’immaginazione era capace di im-

brigliare la nostra consapevolezza e forse l’infanzia è il luogo di un’ade-

sione irrazionale al mondo da cui tuttavia ci siamo liberati crescendo, e

questo sembra costringerci a riconoscere che quel nostro mondo di cui di-

scorriamo deve essere necessariamente declinato al passato e relegato nelle

vicende remote di un’infanzia immobile che non ci appartiene più.

Di un’infanzia immobile ci parla, ancora una volta, Bachelard che ci in-

vita a cercare nell’immaginazione le tracce di un’adesione irrazionale al

mondo, di una sua originaria comprensione, dettata non dalle esigenze del

conoscere, ma dal bisogno di riconoscersi. In fondo, l’immagine dell’al-

bum cui abbiamo dianzi alluso ci porge anche in questo caso la chiave per

intendere il senso delle analisi di Bachelard. In un album si raccolgono le

fotografie del passato e si fissano, proprio per questo i ricordi di un tempo

che non è più: gli album si sfogliano per ritrovare e per ritrovarsi, anche se

la gioia di rivedere si affianca alla malinconia che si esprime nella consa-

pevolezza che non si può più vedere ciò che in quelle pagine ci si mostra.

Lo stesso accade quando l’immaginazione assolve il suo compito: la me-

tafisica concreta, che prende forma nelle nostre rêverie, appartiene ad un

passato che si è ormai chiuso e cui ci sembra di poter accedere solo quando

ci perdiamo nei nostri sogni e dimentichiamo pro tempore ciò che abbiamo

imparato a credere e che determina concretamente la nostra vita. L’ab-

biamo osservato: per Bachelard non siamo fin da principio soggetti razio-

nali, ma dobbiamo sforzarci di diventarlo e questo significa che quanto più

ci inoltriamo sul terreno della conoscenza, tanto più dobbiamo imparare a

sorridere delle nostre originarie convinzioni. Capita ovviamente così: i no-

stri errori ci appaiono risibili una volta abbandonati, ma il punto su cui

Bachelard intende richiamare la nostra attenzione è meno ovvio. Se vol-

giamo lo sguardo al passato della riflessione scientifica e ci addentriamo

nella teoria degli elementi che domina incontrastata la fisica antica non

troviamo soltanto all’opera una scienza che si muove tra esperimenti dubbi

e ragioni incerte, ma ci imbattiamo anche in un immaginare coerente che

non intende affatto venire a capo della realtà obiettiva delle cose, ma vuole

piuttosto radicarci nel mondo e ritrovare nelle presunte radici della materia

la favola antica del nostro originario aderire al mondo.

Gli errori nella scienza non sono sempre errori scientifici, ma si radicano

talvolta nell’immaginazione. Sono, questi, errori difficili da sradicare: non

se ne viene a capo ripetendo gli esperimenti e saggiando la bontà degli

argomenti, ma liberandoci da motivazioni profonde che ci parlano delle

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nostre pulsioni e delle nostre emozioni e del loro riconoscersi immaginati-

vamente nel mondo. L’epistemologo non deve dunque soltanto controllare

la struttura logica delle teorie e la validità delle osservazioni, ma deve im-

pegnarsi in una sorta di psicoanalisi del pensiero obiettivo, per liberarlo dai

complessi immaginativi che impediscono allo scienziato di abbandonare il

terreno del nostro originario rapporto con le cose per disporsi finalmente

sul terreno conoscitivo.

Ora, gli errori da cui l’epistemologo si sforza di emendare il pensiero

scientifico devono tuttavia valere, per il filosofo dell’immaginazione,

come fossili che testimoniano di una comunanza che si è smarrita nel

tempo: abbiamo creduto cose false, ma gli errori di un tempo ci guidano

tuttavia verso la radice delle immagini cui ancora oggi siamo naturalmente

legati. Intrecciati agli argomenti di una cattiva scienza ritroviamo così i fili

che debbono essere seguiti da un’antropologia filosofica che mostri qual è

la forma del nostro originario vivere nel mondo. Le prime pagine dell’al-

bum di metafisica concreta di cui discorriamo racchiude le tentazioni im-

maginative di un pensiero scientifico che non aveva ancora trovato la via

verso l’obiettività33.

Dell’importanza crescente che per Bachelard questo compito riveste è

facile convincersi, e uno sguardo alla sua produzione teorica ci mostra da

un lato il peso crescente che negli anni assumono le sue ricerche di filosofia

dell’immaginazione, dall’altro il loro progressivo emanciparsi dalla pro-

spettiva epistemologica da cui traggono origine. Questo nesso diviene via

via più esile e viene interamente reciso nelle sue ultime opere: la Poetica

dello spazio e la Poetica della rêverie hanno messo da canto il problema

di una psicoanalisi del sapere scientifico e si preoccupano esclusivamente

di mostrare come una filosofia dell’immaginazione possa occupare lo spa-

zio teorico delle filosofie dell’esistenzialismo, senza per questo doverne

ereditare per intero il peso ontologico e le derive irrazionalistiche. All’im-

maginazione spetta il compito di mostrare le forme del nostro esserci nel

33 Nel ragionare così, Bachelard ha torto e ragione insieme. Ha torto, io credo, nel credere che la ri-

flessione scientifica sorga soltanto nella modernità e sbaglia nel ritenere che il ruolo dell’immagina-

zione nella scienza sia soltanto negativo. La conoscenza cresce in molti modi e l’immaginazione ha molte forme e non è vero che tutte ci ancorino ad un accordo emotivo, ma non cognitivo con il reale.

Su questo punto dovremo tornare in seguito: ora è opportuno invece sottolineare che vi è un senso in

cui Bachelard ha ragione. La fisica aristotelica non è un capitolo superato della stessa dottrina di cui la fisica newtoniana è espressione. Per Aristotele, una buona soluzione dei problemi fisici risponde a

interrogativi che non coincidono pienamente con quelli cui Galileo o Newton intendevano rispondere.

La storia della scienza non è soltanto storie delle teorie, ma è anche storia del senso che deve essere attribuito al concetto di scienza.

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mondo (o le forme del nostro mondo), e tuttavia quanto più ci si immerge

nelle pagine di Bachelard, tanto più sembra necessario riconoscere che l’in-

fanzia immobile dell’immaginazione è comunque passata da tempo e che

l’età adulta della ragione è ormai definitivamente iniziata.

Certo, ci basta pronunciare la parola “acqua” (per prendere il tema di uno

dei suoi libri più felici) perché si facciano avanti mille immagini e perché

si raccolga una vera e propria geografia dell’immaginazione che ruota in-

torno a questo mobile elemento. L’acqua è innanzitutto una materia che

riflette e che consente una reduplicazione dei fenomeni. L’acqua è sotto il

segno di Narciso, e la sua capacità di rispecchiamento stringe l’acqua ai

fenomeni della visione. Nell’acqua calma dei laghi il mondo si rispecchia

e sembra prendere coscienza di sé: l’acqua – come diceva Paul Claudel –

è lo sguardo della terra e deve essere innanzitutto colta in questa suo appa-

rente consentire alle cose di prendere atto della loro bellezza. Ma l’acqua

non è soltanto superficie che rispecchia e raffigura la bellezza del mondo,

ma si manifesta anche nella forma della profondità in cui le cose si dile-

guano e lentamente sprofondano. L’acqua inghiotte le cose e le cancella –

le dissolve in sé. L’acqua silenziosa del lago diviene così un’acqua dor-

miente, un acqua che ha assunto le forme stabili della morte che impariamo

a conoscere nella sua veste acquorea: come un lento sprofondare in una

materia senza forma e confini. L’acqua racchiude in sé il fondamento del

complesso di Caronte: nell’acqua che non ha strade e che cancella le orme

del ostro passaggio ci si perde e la morte è un viaggio di dissoluzione, un

ritorno all’informe. È il rito antico del Todtenbaum: in molte e diverse cul-

ture, si scavava un sarcofago in un grande tronco e poi si abbandonava il

cadavere alla corrente lenta del fiume. In questa sepoltura acquorea, il

morto viene restituito all’unità indistinta – ad una sorta di vita uterina che

stringe in un unico nodo i valori di nascita e di morte che si legano all’ac-

qua dei fiumi. Di questa dualità di nascita e morte parlano anche le infinite

leggende che raccontano di bambini abbandonati in ceste lungo il corso di

un fiume, costretti a ripercorrere a ritroso il cammino che conduce dalle

acque della gestazione ad luminis oras, per usare l’immagine di Lucrezio.

Nei racconti di un abbandono che ha le forme di una sepoltura acquorea e

di una restituzione alla nascita si celebra così una possibilità nuova: il bam-

bino, che è salvato dalle acque, diviene il predestinato che ha sconfitto la

morte e sarà per questo un fondatore di città, un salvatore di popoli, un eroe

cosmogonico.

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Al complesso di Caronte fa eco il complesso di Ofelia come immagine

della dissoluzione della vita nella materia informe dell’acqua, come abban-

dono e rinuncia alla propria viva e differenziata individualità. L’acqua, tut-

tavia, non è solo immagine della morte e della dissoluzione: è anche im-

magine della purificazione e della rinascita. Alle acque profonde in cui la

vita si dissolve fa da contrappunto l’immagine della fontana della giovi-

nezza che cancella i segni della vecchiaia e l’acqua dei riti di purificazione

e di oblio. L’acqua scorre e porta via con sé i segni del passato e i ricordi

tormentosi: purifica e ringiovanisce perché scioglie i segni del passato e le

sue tracce.

Potremmo indugiare ancora su questa geografia immaginativa dell’acqua

e potremmo seguire Bachelard nel suo album di metafisica concreta dei

materiali, ma queste poche considerazioni ci bastano per rammentare che

per noi queste immagini sono ormai soltanto immagini e che non ci è più

possibile attribuire una consistenza reale a ciò che le immagine ci porge.

Questo non vuol dire che l’immaginazione debba tacere – tutt’altro, ma che

nel suo discorrere ci parla al passato, sia pure soltanto al passato privato di

ciascuno di noi, al tempo in cui le nostre esperienze ci legavano al mondo,

piuttosto che farcelo conoscere. Così, se ci poniamo nella prospettiva di

Bachelard dobbiamo semplicemente riconoscere che il nostro mondo di

fatto non c’è più, se non quando ci riposiamo e per un attimo chiudiamo la

porta della realtà che abbiamo imparato ad aprire e dimentichiamo, o fin-

giamo di dimenticare, quel che abbiamo appreso. Il nostro mondo c’era, e

le immagini poetiche su cui Bachelard si sofferma ce lo ripropongono, sia

pure con una piega memorialistica. La metafisica è finita in un album, che

ci piaccia o no.

Bachelard ragiona così, e non è certo un ragionamento nuovo, perché le

sue considerazioni ci riconducono insensibilmente verso un discorso mille

volte sentito: verso il tema del disincanto del mondo. Non si tratta certo di

un tema nuovo, ma lamentarsi della sua scarsa originalità non significa che

ce ne si possa liberare con una scrollata di spalle. In fondo, in qualche mi-

sura, è semplicemente vero che la conoscenza del mondo obiettivo sembra

costringerci a mettere da canto il nostro mondo, a riconoscerne almeno in

parte il carattere illusorio, ed è vero che la modernità porta con sé il rico-

noscimento che non vi è altra realtà se non quella che le scienze descrivono

e per cui ci offrono ragioni che ci sembrano vincolanti. Un disincanto del

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mondo c’è, e bisogna semplicemente prenderne atto, senza troppi rim-

pianti, ma allo stesso tempo è necessario cercare di comprendere bene per-

ché vi è un tale disincanto e che cosa propriamente comporti.

Così, riconoscere che non è priva di una qualche giustificazione la con-

vinzione diffusa che la modernità porti con sé un restringersi dell’universo

immaginativo, tuttavia, non significa ancora sostenere che Bachelard (e

con lui molti altri filosofi) abbia ragione nel sostenere che l’immaginazione

assoluta e le immagini che ne scaturiscono sono fossili che ci parlano di un

tempo passato, vestigia del nostro contatto originario con le cose, di quella

relazione che le lega a noi e che ci consente di riconoscerci nel nostro

mondo. Tutt’altro: io credo che questa tesi sia falsa e che non ci consenta

di comprendere in che misura e sino a che punto uno sguardo rischiarato

sull’obiettività porti con sé se non il venire meno, l’ottundersi della pre-

senza del nostro mondo.

Su un punto Bachelard ha torto: Bachelard ritiene che l’immaginazione

nel suo complesso sia una facoltà irrazionale, sorda alle sollecitazioni in-

tellettuali e alla curiosità che ci sorregge nella nostra esplorazione e com-

prensione del mondo. L’immaginazione, per Bachelard, è una facoltà

dell’originario: parla del nostro rapporto immediato con il mondo ed è per

questo che ha tutto da perdere da ogni commistione con i pensieri e le ri-

flessioni che ci muovono sul terreno della quotidianità. Un’immaginazione

colta o anche soltanto intrecciata a questioni e domande che stiano di là da

essa è, in fondo, un’immaginazione che ha smarrito la via: anche se l’arte

è un «innesto nella natura» (ivi, p. 17) e si avvale delle forme dell’espres-

sività, il suo contenuto ci radica al di qua del nostro essere di persone edu-

cate in una civiltà e in una cultura, nelle sue tradizioni e nei suoi problemi.

Se ci si pone in questa prospettiva è fin da principio evidente che per

un’immaginazione scientifica o tecnologica non possa esservi spazio, an-

che se questo non significa ancora che non ci sia interesse per il pensiero

creativo. Scienza e tecnica chiedono grandi capacità creative non c’è dub-

bio, ma Bachelard è convinto che l’immaginazione non abbia in fondo

molto o nulla a che spartire con quelle forme di pensiero intuitivo di natura

analogica e controfattuale che ci guidano nella soluzione di problemi teo-

rici o nella soluzione pratica di un compito inatteso. L’immaginazione per

Bachelard è un’altra cosa: è la facoltà delle immagini poetiche, e immagini

di questa sorta non hanno cittadinanza nel pensiero scientifico o tecnolo-

gico – questo è il punto.

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Non credo che sia opportuno tracciare un discrimine così netto tra l’im-

maginazione ludica che trasforma un ramo in una spada, l’immaginazione

tecnologica che vi coglie uno strumento di offesa e l’immaginazione poe-

tica che nei rami protesi potrebbe cogliere la sfida che l’albero lancia ai

venti che lo scuotono. In fondo, qualcosa di comune c’è, ma anche se ci

lasciamo convincere dell’opportunità di accentuare le differenze (che pure

vi sono) tra queste forme dell’immaginazione, resta una questione che ri-

veste, a mio giudizio, un’importanza centrale. Per Bachelard (e per chi ra-

giona come lui), l’immaginazione ci riconduce al nostro originario rap-

porto con le cose: è, in questo senso, una facoltà primordiale che ci con-

sente di comprendere che cosa eravamo, prima di essere diventati quel che

siamo diventati. Ma è dubbio che le cose stiano così. L’immaginazione

non parla al passato. Tutt’altro: se le considerazioni che abbiamo dianzi

proposto sono corrette, a guidarla sono

i pensieri che ci muovono ora, nel pre-

sente. Il cielo stellato e una falce di

luna possono richiamare alla mente le

sensazioni antiche della nostra apparte-

nenza ad un cosmo che decide di noi e

del nostro destino, ma questa litografia

di Daumier non ci parla del rapporto

originario dell’uomo con il cosmo, ma

al contrario ci invita a sorridere con un

po’di malinconia di quel che ci è acca-

duto nel tempo, del nostro essere di-

ventati animali domestici e un po’ ridi-

coli che, dal riparo sicuro di un bal-

cone, si perdono nella contemplazione

di un cielo che sembra essersi dimenti-

cato di loro. È una fantasia moderna

che cresce su una riflessione filosofica tagliente: ci mostra quanto poco si

adatti alle nostre berrette da notte il pensiero dell’universo infinito e del

suo mistero. Lo avvertiamo ancora e spalanchiamo le persiane per guardare

e meravigliarci, ma questo ci rende in fondo soltanto più buffi.

Bachelard sbaglia nel credere che l’immaginazione non ci parli al pre-

sente e non sia intrecciata ai nostri pensieri. Ma sbaglia anche perché sem-

bra credere che nel suo far presa sulle forme dello spazio e della materia,

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l’immaginazione non ci aiuti in qualche modo a comprenderle. L’immagi-

nazione non ha di mira una comprensione obiettiva della natura delle cose,

ma questo non significa che immaginando non si mettano alla prova i nostri

concetti e non ci si costringa a far luce su ciò che resta per molti versi

oscuro. Rammentiamoci degli esempi che abbiamo appena discusso. Ba-

chelard ci parla delle immagini dell’acqua, ma è difficile non cogliere come

l’immaginazione si affatichi su questa materia proprio in virtù della sua

peculiarità percettiva e della sua resistenza ad essere compresa sul fonda-

mento della rete dei nostri concetti intuitivi.

Su questo punto è opportuno riflettere un poco. L’acqua non è divenuta

per caso un capitolo dell’immaginazione materiale, ma è per molte e di-

verse ragioni un ingrediente importante della nostra prassi ludica. L’acqua

è una materia mirabile, come mirabili sono l’aria e il fuoco, le ombre e i

riflessi: sono fenomeni mirabili perché sembrano sfuggire alla rete della

nostra concettualizzazione e sono creature ibride perché sembrano posse-

dere qualità contrastanti. L’aria è evanescente eppure c’è e può mancarci:

è eterea, eppure può travolgerci con la sua forza. Le ombre non sono nulla

eppure ci seguono e disegnano una caricatura cupa e deformata delle cose

– una caricatura effimera e pronta a dissolversi oppure a stagliarsi con mag-

giore nettezza quando il sole è alto nel cielo. Uno stesso discorso vale per

l’acqua. Anche l’acqua è una creatura ibrida, ed anche l’acqua ci invita

proprio per questo al gioco: le sue proprietà contrastanti sono il fonda-

mento di una molteplicità di aspetti figurativi che sembrano chiedere

all’immaginazione di dire la sua. L’acqua qualcosa che inghiottiamo e che

a sua volta ci inghiotte, che troviamo nelle profondità della terra e che ri-

cade dal cielo. È in alto ed è in basso, e scorre ed è ferma: è placida e ci

travolge. L’acqua si ritira nell’unità di ogni singola goccia quando si rac-

coglie sulle foglie, ma le gocce si dissolvono l’una a contatto dell’altra in

un’unità nuova. Insomma: l’acqua si comporta in molti modiche ci stupi-

scono.

Alle vicende dell’acqua fa eco la sua stessa natura – o più propriamente:

la sua natura percepita ed esperita sensibilmente. «Acqua» è un termine

massa e questo ricordo di scuola ci invita a riflettere sul fatto che l’acqua è

una materia che non è imprigionata nelle cose, come di solito accade: l’ac-

qua è informe e acquista la forma di ciò che momentaneamente la contiene.

La natura fluida dell’acqua si manifesta del resto anche nella forma in cui

essa occupa lo spazio. Una goccia d’acqua è sul tavolo e un fiume scorre

nel suo letto, ma quando ci immergiamo nel mare, l’acqua ci appare come

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uno spazio materializzato, come res extensa. L’acqua non è una cosa e non

sembra misurabile con il metro consueto che impieghiamo con gli oggetti.

A questa peculiarità dell’acqua che ci impedisce di tenere insieme, come

di consueto, la grammatica della materia e la grammatica degli oggetti si

affianca la sua natura di liquido trasparente. L’acqua si avverte al tatto,

anche se non impedisce il movimento della mano che vi si immerge, ma si

nega alla vista, ed è forse anche per questo che i bicchieri sono di vetro:

una trasparenza richiama l’altra. Se a questo si aggiunge il fatto che l’acqua

evapora e svanisce nell’aria, ma poi gela e diviene a tutti gli effetti un og-

getto, si comprende bene perché di questo liquido l’immaginazione ludica

doveva impossessarsi. Il bambino, che gioca con l’acqua e che immagina

a partire da essa, mette allo stesso tempo alla prova la grammatica dei suoi

concetti e impara a chiarirla e a renderla più perspicua. L’immaginazione

non ha di mira la conoscenza obiettiva, ma non è per questo un ostacolo

alla riflessione: è parte della nostra prassi e della nostra esperienza e il suo

operare mette in scena a suo modo le proprietà degli oggetti di cui si avvale

e ci consente di acquisire un maggiore confidenza con le cose. L’immagi-

nazione dei materiali di cui Bachelard ci parla non è soltanto il luogo in cui

impariamo a riconoscerci nel mondo, facendo torto alla sua natura reale,

ma è anche una forma in cui approfondiamo la nostra conoscenza delle

cose. L’immaginazione è una forma di curiosità e sorge là dove qualcosa

ci stupisce e non sembra piegarsi alla rete dei nostri concetti intuitivi: le

immagini non ci fanno soltanto pensare, ma sorgono anche là dove siamo

costretti a farlo. Sono una voce, tra le altre, del nostro muoverci tra i feno-

meni, per impadronircene meglio.

L’immaginazione è una voce tra le altre della nostra esperienza, e tuttavia

questo non deve farci dimenticare quale sia il piano su cui propriamente si

muove. L’immaginazione non pretende di fissare le cose come sono real-

mente: le immagini dell’acqua che abbiamo dianzi raccolto non ci consen-

tono di comprendere che cosa obiettivamente sia l’acqua, ma non sono

nemmeno i fossili che testimoniano di una pretesa e quindi anche di un

errore. Le immagini non ci raccontano quel che credevamo, semplicemente

perché non ci chiedono – né ci chiedevano – di credere che ciò che in esse

prende forma sia la realtà obiettiva. L’immaginazione non ci illude perché

non pretende di asserire alcunché, ma ciò è quanto dire che l’immagina-

zione assoluta non sorge su un terreno che prima o poi sarà occupato dal

sapere scientifico. Anche su questo punto è opportuno insistere: l’immagi-

nazione ha un fondamento materiale, ma non nasce dalle cose in se stesse

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e dagli oggetti nella loro realtà: sorge dai loro aspetti figurativi. Ne segue

che il radicamento dell’immaginazione nel mondo e il suo consentirci di

ritrovarci nelle cose che ci circondano non rimanda alla dimensione

dell’obiettività, ma si gioca sul terreno delle apparenze. Il mondo che ci

sembra nostro è il mondo della nostra vita, non il mondo che abbiamo ra-

gione di pensare che sussista obiettivamente.

Di qui una seconda conclusione che mi sembra possibile trarre. L’imma-

ginazione non parla al passato, ma non è nemmeno necessariamente con-

nessa al concetto di illusione. L’immaginazione non si dispone sul terreno

della realtà nemmeno quando pretende di costruire il nostro mondo – il

mondo che ci appare nostro, ma che non si pone come obiettivamente

reale. Non immaginiamo un mondo che si contrapponga alle ragioni della

scienza e non abbiamo per questo alcun motivo per guardare con sospetto

alle immagini perché esse non sono la testimonianza di un errore e di una

falsa credenza. Il nostro mondo non c’è, ma questo non significa che ci sia

stato un tempo in cui abbiamo creduto che così fosse: vuol dire solo che è

così che l’immaginazione ci consente di farci apparire le cose.

Ribadire che l’immaginazione non tesse le reti di un’illusione di cui sa-

remmo vittime non significa tuttavia affermare che essa sia un gioco che si

perde in finzioni irrilevanti, ed è questa la terza conclusione che sembra

possibile trarre di qui. Abbiamo detto per quale ragione sembrerebbe pos-

sibile sostenere una simile tesi: se, immaginando, siamo consapevoli che il

gli scenari che prendono forma per noi non meritano di essere creduti, non

dovremmo semplicemente sostenere che l’immaginazione assoluta si perde

in trastulli cui non è possibile affidare una qualche funzione effettiva? Per

rispondere a questa domanda sembrerebbe sufficiente, di primo acchito,

osservare che le immagini e le finzioni narrative non sono semplicemente

giochi perché di fatto ci danno da pensare. Chi legge la Metamorfosi di

Kafka non deve soltanto immaginare una strana storia in cui l’assurdo si

lega ad una normalità anche troppo normale senza alcuno stridente fastidio,

ma deve anche pensare a molte cose perché a tutte le nostre vite molto

normali capiterà prima o poi di sentirsi prigionieri di un corpo che muore

e che decide per noi qual è il rapporto che noi stessi e gli altri assumeremo

rispetto alla nostra vita. Leggere quel racconto significa anche pensare tutte

queste cose che, si converrà, non hanno la tenue lievità dei giochi.

Se le finzioni sono giochi, si dovrà riconoscere che possono egualmente

essere impegnativi e, talvolta, anche cupi. Eppure queste considerazioni

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non bastano per venire a capo del nostro problema, perché sembra oppor-

tuno osservare, in primo luogo, che ad essere serio è il pensiero e non la

finzione: la favola è piacevole, intrigante, o divertente, ma è comunque una

mera finzione, anche se ci invita a pensare a qualcosa che ha un suo peso.

Sembra poi necessario riconoscere, in secondo luogo, che i pensieri cui

siamo sospinti possono essere liberati dalla finzione che li ha occasionati:

in fondo, ciascuno di noi può riflettere sul fatto che verrà un momento in

cui la sua vita sarà imprigionata in un corpo che si ammala e che appare

minaccioso e inquietante a chi ci è vicino, ma per farlo non è costretto a

pensare che prima o poi diventerà uno scarafaggio. Mutato nomine, de te

fabula narratur è una massima che si attaglia alla morale di un racconto,

non alla sua vicenda immaginativa. I prodotti immaginativi ci fanno pen-

sare mutato nomine – e questo sembra invitarci a riconoscere che è possi-

bile (e forse opportuno) liberarsi di queste mentite spoglie.

Non credo che queste considerazioni debbano essere condivise. Certo, i

prodotti dell’immaginazione ci danno da pensare, ma questo non significa

affatto che questo pensare consti di pensieri che si aggiungono ad una fin-

zione che ha il solo scopo di condurci insensibilmente ad essi. Lo abbiamo

osservato: racconti e immagini ci invitano ad un esperimento immaginativo

complesso. Ci costringono a immaginare un mondo che ci coinvolge: non

ci fanno riflettere su temi cui avremmo potuto giungere per altra via, ma ci

costringono ad approfondire un certo atteggiamento emotivo ed intellet-

tuale rispetto al mondo e alla vita. L’immaginazione ci dà da pensare, ma

non dobbiamo credere che questo significhi che guardare un quadro o leg-

gere un racconto o ascoltare un concerto sia davvero la stessa cosa che

parlarne, subito dopo, cercando di trovare le parole per quei pensieri che

ora possiamo formulare come se si trattasse di massime di carattere gene-

rale. L’immaginazione ci dà da pensare, ma non nella forma di una medi-

tazione distaccata, anche se è possibile che questo in seguito accada: pos-

siamo ripensare a quello che abbiamo letto, visto o sentito, ma il punto è

che mentre leggiamo, vediamo e sentiamo siamo in un qualche modo coin-

volti e il nostro pensare ha la forma di una consapevolezza che affianca ed

approfondisce un’esperienza viva. L’immaginazione non ci dà da pensare

su qualcosa, ma ci fa “vivere”, pensando, qualcosa: ci consente un coin-

volgimento emotivo ed intellettuale in una situazione che dobbiamo imma-

ginare e che promette di approfondire per questa via la nostra esperienza

di vita. È in questo modo che immagini e narrazioni ci insegnano qualcosa:

mettendoci di fronte a un mondo in cui accadono vicende che cerchiamo

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di comprendere nel loro apparente accadere. Un’immagine o un racconto

ci invitano ad un esperimento: ci chiedono di vivere così quel che “accade”,

di viverlo secondo le forme del coinvolgimento che la narrazione ci

chiede34. Così facendo, ci insegnano qualcosa e ci consentono di approfon-

dire la nostra esperienza di vita. Per farlo, debbono fingere un mondo: la

nostra esperienza di vita è infatti inestricabilmente connessa con le vicende

che ci accadono e con il mondo che le ospita. Posso invitarti a riflettere in

generale su molti problemi e posso farlo nelle forme astratte della rifles-

sione teorica, ma se voglio che tu penetri in quegli stessi problemi, viven-

done la dinamica affettiva e comprendendoli nella loro concretezza, non

posso fare altro che inscenarli. Gli esperimenti immaginativi servono a

questo: ci consentono di articolare e approfondire la nostra esperienza di

vita e insieme ci consentono di costruire il nostro mondo, approfondendone

il senso.

Un punto deve essere ancora sottolineato: l’immaginazione ci consente

di approfondire la nostra immagine del mondo, non di conoscere la sua

realtà effettiva. La conoscenza si gioca sul terreno dell’obiettività: riguarda

il mondo così come esso è. L’immaginazione su questa terreno è muta: non

pretende di dirci come stanno le cose, ma si limita a dar forma alla nostra

vita nel mondo e al mondo così come ci appare nella nostra esperienza e

nella nostra vita. L’immaginazione parla di noi, della nostra vita e del

mondo come lo viviamo, ma proprio per questo può insegnarci ad appro-

fondirne il senso non a conoscerlo effettivamente. Così, quando diciamo di

un racconto o di un’immagine che è proprio vera, non vogliamo affatto

sostenere che ora sappiamo qualcosa che prima non sapevamo. Tutt’altro:

vogliamo dire che quel racconto o quell’immagine ci fanno vedere meglio

quello che sapevamo già. In un passo delle Ricerche filosofiche Wittgen-

stein osservava che alle pareti non si appendono formule di fisica o di chi-

mica, ma quadri o proverbi o poesie. E la ragione è chiara: le une ci dicono

come è fatto il mondo, le seconde ci aiutano ad approfondire la nostra vita

ed è utile per questo scriverle come un monito che ci ripeta quale debba

essere il nostro stile di comportamento.

Sottolineare che l’immaginazione ci suggerisce una molteplicità di espe-

rimenti da cui possiamo imparare ad approfondire la nostra via e la nostra

immagine del mondo non è ancora sufficiente. Vi è infatti ancora un punto

34 È in questa luce che le forme del coinvolgimento andrebbero ulteriormente indagate e distinte poiché

è evidente che anche le modalità che legano all’immaginazioni i pensieri che la muovono dipendono a loro volta dalla trama delle forme possibili di coinvolgimento.

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su cui riflettere per comprendere per quale ragione i prodotti dell’immagi-

nazione non siano un mero gioco anche se non pretendono che si creda a

ciò che inscenano per noi. Quale sia questo punto è presto detto: come ab-

biamo osservato, l’immaginazione crea i propri oggetti che non “esistono”

se non nell’universo improprio dell’immaginazione. E tuttavia, anche se

l’immaginazione assoluta non pretende di essere creduta nelle sue finzioni

sorge comunque a partire dalla nostra esperienza del mondo ed è, prima

ancora di porsi come una funzione creativa, una capacità di ascolto. L’im-

maginazione non sorge dal nulla, ma si radica nella nostra esperienza delle

cose e non può essere separata da esse. Lo si è ripetuto mille volte: l’im-

maginazione, in fondo, non crea, ma mescola le carte che l’esperienza le

porge. Un ippogrifo è una creatura fantastica, ma la ricetta è semplice: oc-

corre un corpo di cavallo e una testa di grifone. L’immaginazione non crea,

ma mescola – questo è quanto Hume ci insegna. Ma non è questo il punto.

Dire che l’immaginazione presuppone una capacità di ascolto dell’espe-

rienza vuol dire altro: significa sostenere che per immaginare è necessario

innanzitutto approfondire la nostra esperienza sensibile delle cose e co-

glierne le potenzialità figurative. La ricetta dell’ippogrifo è un po’ più com-

plicata: chiede che ci si sia stupiti della velocità di un cavallo al galoppo,

della sfida vittoriosa che la corsa lancia all’aria che la ostacola, della libertà

che il cavalcare concede e che tutti questi pensieri si siano stretti nell’im-

maginare la corsa come un volo. I cavalli volano come il vento, e quest’im-

magine consueta ha generato (sui monti Rifei, naturalmente) i primi ippo-

grifi. Le immagini sorgono dal mondo, ma chiedono un’esperienza attenta

– un ascolto, appunto35. Così, anche se in un senso ovvio si può dire che

35 Lo dice bene Piana quando, in un suo bel saggio sulla composizione musicale, ci invita a cogliere la

prassi compositiva alla luce di un attento ascolto delle dinamiche dei materiali sonori che racchiudono

nella loro interna strutturazione un campo di alternative possibili che il musicista deve innanzitutto ascoltare per poter poi decidere. Scrive Piana: «Potremmo arrivare a dire: affermare che vi è una feno-

menologia dei materiali significa, tra le altre cose, affermare che, a loro modo, i materiali hanno già

preso le loro decisioni. […] In certo senso non dobbiamo fidarci troppo dall’accentuazione in senso attivistico che la parola «comporre» ha in se stessa, o più precisamente non dobbiamo ritenere che

questa accentuazione copra la sua intera area di senso. Forse potremmo rappresentarci il compositore

anzitutto come un grande ascoltatore, come qualcuno che ode suoni a tal punto che li ode anche quando non ci sono, un visionario dei suoni, se così si può dire. Questo grande ascoltatore ascolta,

intanto, le decisioni dei suoni. Ma dire questo non basta: nello stesso tempo, deve essere rivalutato, in

un contrasto solo apparente, proprio il momento soggettivo della scelta, secondo un ordine di conside-razioni che ripropone inevitabilmente in modo nuovo il tema della sua dimensione storica. Una simile

rivalutazione comincia dall’osservazione che le peculiarità e le differenze tra i suoni, le differenze nei

rapporti di intervallo e nelle forme di ordinamento scalare, le differenze tra consonanza e dissonanza, ed anche naturalmente ancora prima, le differenze timbriche con le loro latenze espressive, e così via,

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l’immaginazione è una facoltà creativa, in un differente senso si deve rico-

noscere che la prassi immaginativa muove dalla nostra esperienza delle

cose e dipende da essa. Prima di poter creare il nostro mondo, l’immagina-

zione deve in qualche misura scoprirlo: deve dare ascolto agli aspetti figu-

rativi che animano e rendono complessa la nostra esperienza delle cose e

deve sforzarsi di cogliere e di animare ciò che ci è dato in una direzione di

senso condivisa. È questo che rende il nostro mondo non reale, ma solido;

non obiettivo, ma intersoggettivamente condiviso. Così, riconoscere che

l’immaginazione scopre e insieme crea i propri oggetti vuol dire compren-

dere in che senso l’universo immaginativo cui mette capo ha una sua soli-

dità, anche se non pretende di essere creduto e non si pone sul terreno

obiettivo della realtà, anche se sorge dal mondo che esperiamo e lo articola

in vario modo. Del resto, e l’abbiamo dianzi osservato, le immagini si con-

dividono e ciò fa sì che il nostro mondo abbia la natura salda di ciò che è

accomunato. Non crediamo alle nostre immagini e non crediamo alle no-

stre favole, ma le raccontiamo ad alta voce e nella condivisione impariamo

ad attribuire loro un carattere duraturo ed una solidità che va al di là del

nostro attuale immaginare, del nostro narrarli e viverli in un’immagina-

zione momentanea. Accade così a molte cose e vicende del mondo quel

che accade ai giocattoli: divengono forme solidificate dell’immaginazione.

Ci basta vederle e ascoltarle, perché le immagini di cui disponiamo e di cui

la nostra cultura è permeata si facciano vive nuovamente e ci consentano

di leggere quel che ci è dato alla luce di un progetto immaginativo imme-

diatamente disponibile. Le immagini si ripetono e si cerca di impararle pro-

prio per questo: sono, tra le altre cose, le istruzioni che ci sorreggono nel

nostro gioco e che, proprio per questo, ci aiutano a consolidare l’universo

immaginativo cui apparteniamo. Non è un caso allora se l’immaginazione

tende a farsi rituale, se le feste ci invitano ad immaginazioni condivise nella

forma e nel tempo e se impariamo fin da piccoli a seguire certi calchi im-

maginativi: le immagini stereotipate sono i mattoni che ci aiutano a co-

struire l’universo immaginativo che ci appartiene e cui apparteniamo.

Credo che le considerazioni che abbiamo proposto ci consentano di com-

prendere in che senso l’immaginazione non è soltanto un gioco e che cosa

sono in grado soltanto di delineare puri ambiti di possibilità, e precisamente ambiti di possibilità alter-

native che determinano il campo entro cui possono esplicarsi le decisioni compositive. Non c’è deci-sione, non c’è scelta se non entro un campo di decisioni e di scelte possibili» (G. Piana, “Fenomenolo-

gia dei materiali e campo delle decisioni. Riflessioni sull'arte del comporre” in AAVV, Il canto di

Seikilos. Scritti in onore di Dino Formaggio, Guerini, Milano, 1995, p. 50).

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voglia dire affermare che il nostro mondo, e la ricca trama di aspetti imma-

ginativi che lo caratterizzano, è tutt’altro che un’illusione passeggera e un

gioco da cui sarebbe facile liberarsi.

Per dare al mondo immaginativo una presenza stabile e duratura non è

necessario credere che le cose stiano così come l’immaginazione le inscena

o contrapporle a quello che l’esperienza e il ragionamento ci insegnano.

Non è necessario, perché l’immaginazione parla di noi e ce ne parla attra-

verso il nostro mondo – attraverso il mondo che articola e concresce su ciò

che esperiamo e viviamo. Il mare è davvero tanta acqua salata, ma nella

norma non è questo che determina il nostro rapporto con quella realtà: l’im-

maginazione del mare non dipende dal fatto che ci sono circa 50 elementi

chimici disciolti nelle acque oceaniche o da una comprensione effettiva di

che cosa sia il movimento delle onde.

E tuttavia, l’abbiamo osservato, il disincanto del mondo non è solo il ti-

tolo generale cui ricondurre astiose querimonie di cui è saggio e sano di-

sinteressarsi. È anche un fatto, di cui è difficile non rendersi conto e che è

connesso con il farsi strada di una più ricca comprensione del mondo obiet-

tivo. E se così stanno le cose, allora è necessario riconoscere che deve es-

sere pensabile un modo di edificare il nostro mondo che pretende di non

essere soltanto immaginativo.

Annotazione. Riflessioni sulle marionette

2. Figure di confine

Torniamo al punto cui siamo appena giunti. La nostra prima premessa era:

l’immaginazione non pretende di costruire per noi un mondo obiettivo, ma

dà forma al nostro mondo della vita, disponendosi comunque sul piano non

di ciò che abbiamo ragione di pensare che sia, ma sul piano delle appa-

renze, sorrette immaginativamente. A questa premessa se ne aggiunge

un’altra: è un fatto che il peso crescente della comprensione obiettiva del

mondo sembra portare con sé un disincanto del mondo. Di qui la conclu-

sione cui eravamo giunti: se ciò accade, è necessario pensare che non sia

solo l’immaginazione ad essere chiamata in causa nel processo di costitu-

zione del nostro mondo, ma anche un qualche momento che chiami in

causa la dimensione del credere. Debbono esistere cioè forme della nostra

cultura in cui l’immaginazione si lega alla credenza e pretende per sé un

compito nuovo: quello di parlarci di una realtà altra, qualunque cosa que-

sto voglia dire. Siamo così sospinti a interrogarci sulle figure di confine

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dell’immaginazione, su quelle forme della nostra cultura e della nostra vita

che stringono un forte legame con le procedure immaginative, ma non pos-

sono essere senz’altro ricondotte per intero all’immaginazione.

Sulla natura di queste figure di confine è necessario riflettere un poco.

Pensiamo per esempio alla dimensione del magico: chi affida la propria

salute ad un guaritore e ritiene che sia possibile liberarsi di una malattia

sottoponendosi ad un qualche rituale magico, sembra credere (in un senso

ovvio del termine) alla magia e alla sua capacità di agire concretamente nel

mondo. Di agire, certo, in un modo particolare: lo sciamano non sembra

impegnarsi in azioni particolari che abbiano un obiettivo pratico che di-

pende da esse, ma sembra piuttosto recitare una parte, fatta di gesti elo-

quenti e teatrali, privi di un’immediata efficacia pratica. Lo sciamano si

comporta così, e anche se davvero non si vede come i suoi gesti possano

raggiungere lo scopo che si prefiggono, pure sembra innegabile che il ma-

lato sia disposto a credere alla loro efficacia. E alla magia si possono af-

fiancare, in questo caso, le convinzioni religiose. Il fedele prega per otte-

nere ciò che gli sta a cuore e ritiene che vi sia un dio che ha creato il mondo,

ma anche se ritiene che nulla possa giustificare il miracolo che pure in

qualche misura si attende e anche se converrebbe che non sia in fondo com-

prensibile il sorgere dal mondo dal nulla, sembra egualmente credere che

così stiano le cose. Anche in questo caso è difficile negare che non si debba

parlare di un credere: il fedele crede che le cose stiano così, qualunque sia

il significato esatto che deve essere dato alle sue parole. Crede a un dio

creatore e crede ai miracoli, anche se sa che nulla di ciò che altrimenti crede

può giustificarli. Si tratta di credenze particolari, certo – ma perché par-

larne come di figure di confine? Che cosa ci autorizza ad intendere queste

manifestazioni della nostra cultura come forme che implicano in qualche

modo l’immaginazione?

Per rispondere a questa domanda sono necessarie due considerazioni pre-

liminari. La prima è di carattere generale e dev’essere soltanto rammentata

perché è più volte comparsa in queste pagine: io non credo che l’immagi-

nazione sia il titolo generale sotto cui raccogliere le operazioni di una qual-

che facoltà che appartenga alla mente umana. Le cose non sono così sem-

plici. Certo, una qualche facoltà di richiamare alla mente qualcosa che non

è presente e che, tuttavia, non appartiene al nostro passato deve esistere e

può darsi che consista propriamente nella capacità di produrre immagini

mentali, qualunque cosa di preciso questo significhi. L’immaginazione,

tuttavia, è divenuta molte cose diverse e se ci chiediamo se abbia un suo

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peso nelle credenze magiche e religiose, di fatto ci chiediamo soltanto que-

sto: se nelle credenze religiose e magiche vi sia un atteggiamento rispetto

ai temi della religione e della magia che sia in qualche modo riconducibile

a quell’atteggiamento in senso ampio narrativo che abbiamo colto come la

proprietà specifica dell’immaginazione in senso pregnante.

La seconda considerazioni su cui è opportuno soffermarsi concerne la

natura della domanda che intendiamoci porci. Non si tratta di una questione

psicologica: non vogliamo chiederci se chi crede nel racconto biblico del

paradiso terrestre o nelle arti dello sciamano abbia gli stessi vissuti che

provano coloro che credono al fatto che Cesare varcò il Rubicone il 10

gennaio del 49 a. C. o che il paracetamolo è un antipiretico. Ma non è nem-

meno una questione empirica: non ci chiediamo se tra coloro che credono

ai racconti della Bibbia vi sia qualcuno (o anche più di qualcuno) che vi

creda nello stesso modo in cui altri credono ai racconti degli storici. La

domanda che ci poniamo ha natura fenomenologico-concettuale: ci chie-

diamo se, in generale, il credere al racconto biblico della creazione di

Adamo ed Eva e della colpa da loro commessa implichi concettualmente

le stesse credenze e le stesse conseguenze che si legano al fatto di credere

ad un evento tra gli altri. Si tratta di una domanda che non chiama in causa

la nostra reazione fattuale ai miti e ai racconti religiosi o ai (presunti) eventi

magici e miracolosi cui talvolta si crede, poiché verte sul significato che

attribuiamo a quei racconti e a quegli eventi – un significato che si rivela

nella grammatica degli atti e dei comportamenti ad essi rivolti.

Se ci poniamo così questa domanda – se ci chiediamo in altri termini se,

in se stessi, i racconti biblici e le guarigioni dello sciamano siano almeno

in parte compresi ed intesi alla luce di ciò che ci insegna il concetto di

narrazione immaginativa – allora la risposta che si deve dare è, io credo,

affermativa. L’immaginazione è chiamata in causa dalle credenze magiche

e religiose: per quanto siano irriducibili a favole o a recite di natura teatrale,

i miti e le pratiche dello sciamano chiedono di essere almeno in parte intese

alla luce di ciò che l’immaginazione ci insegna.

Le ragioni per sostenere una simile tesi ci riconducono innanzitutto al

fatto che se si può parlare di credenze magiche e religiose, lo si può fare

soltanto a patto di riconoscere che si tratta di credenze sui generis. In un

certo senso, chi crede alla magia e ai racconti biblici vi crede in un modo

che sembra tenere conto della loro componente immaginativa. Vi sono al-

meno quattro diverse considerazioni che ci conducono verso questa tesi.

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1. La prima è la più ovvia e ci riconduce al carattere insulare delle cre-

denze magiche e religiose. Le credenze sono normalmente caratterizzate

da quello che si potrebbe chiamare l’olismo delle credenze. Se credo ad

una proposizione p debbo avere delle ragioni per p, ma insieme debbo

ritenere che p sia coerente con il sistema complessivo delle mie credenze:

non posso credere alle leggi della fisica e insieme credere che il Barone

di Munchausen abbia potuto emergere dagli abissi tirandosi per il codino

della parrucca. Le credenze sono fatte così: si appoggiano le une alle altre

e si sostengono o si escludono vicendevolmente. Così appunto stanno le

cose, ma credenze magiche e religiose sembrano sfuggire a questa regola.

Chi crede nella magia, crede che sia talvolta vero ciò che di solito ritiene

non soltanto improbabile, ma addirittura impossibile. Per fare una magia

occorre compiere qualcosa che non si può normalmente fare – non basta

levarsi il cappello per essere un mago, ma è necessario cavarne almeno un

coniglio. E ciò che vale per la magia vale per i miracoli: credere ai miracoli

significa credere ad un evento incredibile perché un miracolo è tale solo se

si riferisce a qualcosa che accade infrangendo l’ordine consueto della na-

tura. L’olismo delle credenze sembra in questo caso del tutto fuori luogo;

anzi, sembra essere vero il contrario: possiamo credere a un evento magico

o religioso se e solo se abbiamo ragione di pensare che non collimi con il

sistema delle nostre convinzioni e che accada scardinando in un punto e in

un attimo irrepetibile l’ordine della natura. Chi crede alla magia o ritiene

che possano darsi miracoli, non cerca il loro posto nella natura e non

pensa che sia necessario ricomprenderla nelle sue regole e nelle su con-

suetudini dopo che misteriosamente le sue maglie si sono allentate per

consentire che accadesse un evento inatteso, ma crede che vi sia una realtà

altra – un’irruzione del sacro e del magico nella realtà quotidiana, un

evento altro che non può trovare posto tra ciò che di consueto accade. È

per questo che la magia e i miracoli chiedono un esecutore particolare: un

evento è magico o miracoloso solo se non può essere prodotto da chiun-

que e solo se non è un evento banalmente ripetibile.

2. I miracoli e le magie sono eventi inspiegabili. Sarebbe tuttavia sba-

gliato pensare che questo dipenda da un limite delle nostre conoscenze:

qualcosa è un miracolo o una magia solo se non possiamo addurre alcuna

spiegazione per il suo esserci. Una magia spiegata è un gioco di prestigio,

un miracolo che abbia una giustificazione fisica è un evento complesso e

inatteso che non ha in sé nulla di miracoloso. Ma ciò è quanto dire che

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miracoli e magie non sono soltanto eventi per cui non abbiamo una spiega-

zione, ma che l’assenza di una spiegazione è costitutiva del loro stesso es-

serci. Possiamo credere ai miracoli e alla magia solo se non abbiamo alcuna

ragione che li giustifichi, ma solo motivi che rendano conto dello scopo

che ci si prefigge con il loro accadere36. In fondo Pascal ha ragione a stiz-

zirsi di fronte alle perplessità di chi non crede alla transustanziazione: se si

accetta di credere in dio non si può poi storcere la bocca se non abbiamo

giustificazioni che ci consentano di credere a ciò che ha un carattere mira-

coloso. Non abbiamo giustificazioni e ragioni per credere, ma miracoli e

magie additano una diversa forma di evidenza che pretende di catturare la

nostra fiducia: il loro essersi esemplarmente manifestati. Le magie e i mi-

racoli non avvengono di nascosto, non possono essere inferiti: in questo

caso l’esse sembra presupporre il percipi. I miracoli e le magie sono dav-

vero mirabilia: cose che debbono essere viste con stupore e che possono

essere credute solo perché si ritiene di averle viste. Normalmente le cose

non stanno così: non ci basta vedere per credere e può capitare di non poter

credere ai propri occhi. E soprattutto: gli accadimenti, per essere, non hanno

bisogno di manifestarsi. Miracoli e magie, invece, debbono necessaria-

mente coinvolgerci come spettatori: il loro accadere è indisgiungibile dal

loro mettersi in scena.

3. Le nostre credenze sono, nella norma, suscettibili di essere falsificate.

Se attribuisco un evento a una causa – la pioggia che cade alle nuvole nere

che oscurano il cielo – subordinerò la mia credenza al gioco delle possibili

falsificazioni. Se la pioggia cadesse anche quando il cielo è sereno, dovrei

riconoscere di essermi sbagliato: sarei costretto a constatare che le nuvole

(quel tipo di nuvole) non sono una condizione necessaria della pioggia. E

così come le esperienze contrarie sembrano dissolvere le nostre credenze,

così le conferme empiriche sembrano consolidarle. Nel caso della magia e

dei miracoli le cose non stanno così. Lo sciamano danza e mette così in

scena la guarigione del malato – che tuttavia non per questo guarisce. Le

malattie hanno (vedi il caso!) una loro ostinata sordità ai rituali e di questo

36 Certo, la magia non rinuncia ad una qualche teorizzazione e il mago non può prendere interamente

commiato dal sapiente: di qui la possibilità di scrivere trattati di magia e di qui anche la pretesa di dare

conto degli eventi magici e di ricomprenderli nell’ordine della natura. Del resto nel Cinquecento è

storicamente rilevante il nesso che lega la magia alla riflessione naturalistica e la riflessione naturali-stica alla scienza, e questo mostra quanto siano schematiche queste considerazioni. E tuttavia ogni

trattato di magia sembra infine ricondurci ai segreti impenetrabili della natura, ad una vena profonda

della vita naturale che non si situa sul piano della realtà consueta delle cose e che allude ad un ordine diverso, ad una realtà altra.

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non potevano non accorgersi uomini come noi che vedevano necessaria-

mente il fallimento dei loro sforzi e assistevano comunque alla morte dei

loro cari. Lo sciamano ha inscenato i suoi balli, ma la magia promessa

non c’è stata – non è proprio accaduto nulla di più di quello che a ragione

si dovrebbe riconoscere di avere visto. Eppure, ostinata come la malattia,

anche la credenza nei rituali magici permane: l’insuccesso del rituale ma-

gico non sembra intaccare la fiducia di chi vi si affida e sembra comunque

possibile sostenere che la colpa è da imputarsi ad altro – a un errore nella

cerimonia, a una forza avversa, al destino. Miracoli e magie non cercano

una conferma empirica che ne dimostri la possibilità e la realtà: si accon-

tentano di una testimonianza esemplare che le attesti, a dispetto di ogni

ragionevolezza. In un certo senso, il contrasto tra le ragioni che ci condu-

cono a negare che le cose siano andate proprio così e ciò che invece pre-

tende un’esperienza vissuta apparentemente inemendabile fa parte del sa-

cro e del magico. Non si può credere ad un miracolo perché tutto parla

contro di esso, ma si deve crederci perché qualcuno testimonia di avervi

assistito – perché le ragioni per non credere debbono essere messe a tacere

da una testimonianza esemplare, da un’esperienza vissuta, anche se irri-

petibile e lontana37. Non ci sono argomenti che possano far credere ad una

magia o a un miracolo, ma sembra possibile credervi perché la magia e il

sacro sembrano essere presenti e sono capaci di coinvolgerci. Lo scia-

mano non può dare conferme empiriche del suo operato ma, comunque

vadano le cose, può garantire almeno questo: che chi spera nella guari-

gione del malato avvertirà la presenza del magico, sia pure solo durante

il rituale. La presenza della magia e del sacro, anche se non ancora la sua

efficacia, è garantita dal mettersi in scena del rituale e dal suo coinvolgere

gli spettatori che vi assistono.

4. Non facciamo che sviluppare queste considerazioni se osserviamo

che miracoli e magie non sono probabili, ma (in un certo senso del ter-

mine) nemmeno improbabili – perché sono unici e irripetibili. Stanno al

di là del gioco delle conferme e delle delusioni e quindi anche al di là del

loro calcolo. Lo sciamano promette ma non prevede la guarigione e non

dice quanto sia probabile; da parte sua il malato non sembra ritenere che

37 Non è sufficiente che le reliquie ci siano: è necessario vederle. Ora, vedere un pezzo di stoffa non è

una conferma empirica maggiore di quanto non lo sia sapere che quel pezzo di stoffa c’è e che è legato

ad un evento miracoloso, ma solo l’esperienza garantisce il coinvolgimento e ricrea quella sensazione di presenza che sembra giustificare il credere al di là delle ragioni che lo rendono implausibile.

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i riti magici cui si affida siano meritevoli di fiducia in ragione della pro-

babilità del loro successo. Un evento è probabile o improbabile nel corso

della natura, ma le magie e i miracoli non vi appartengono e per questo

non sono valutati alla luce di ciò che normalmente determina la nostra

credenza. Alle pareti delle chiese si appendevano un tempo gli ex voto,

ma suonerebbe stranamente irriverente indicare anche la percentuale di

successo delle preghiere o stilare una piccola classifica sull’affidabilità

dei santi. Suonerebbe irriverente perché cancellerebbe il carattere di sa-

cralità dei miracoli o l’aura magica delle guarigioni dello sciamano. Ci

vogliono alte percentuali di successo per credere nell’efficacia scientifica

di una cura; per credere ad una magia o a un miracolo è sufficiente invece

sentirsi coinvolti dal sacro e dal magico: si deve partecipare ad una sua

(presunta) manifestazione. Ora, per avere ragioni di credere ad un evento

non è sufficiente averne esperienza (e tantomeno credere di averne espe-

rienza): è necessario che ciò che si crede abbia un’esistenza che possa

essere altrimenti accertata. Credo di averti incontrato vicino a casa perché

ti ho visto, perché abiti qui vicino, perché ti conosco bene e perché so che

a quell’ora di quel giorno eri proprio lì nei paraggi. Si crede ad una cosa,

credendone molte e sul fondamento di molti e diversi accadimenti. Non

così stanno le cose per le credenze miracolose. I discepoli che ricono-

scono Gesù in Emmaus hanno tutte le ragioni per non credere di averlo

incontrato, eppure lo riconoscono, sia pure soltanto quando sono esem-

plarmente chiamati ad assistere alla dimensione sacrale del pane spezzato.

5. Si può essere razionali o irrazionali nei propri comportamenti, ma le

credenze sembrano essere per loro natura tendenzialmente razionali: ob-

bediscono al gioco delle ragioni perché ne dipendono e perché se ne nu-

trono. In questo senso le credenze sono indipendenti dalle nostre decisioni

e dai nostri capricci: non posso credere a quello che voglio e non posso

continuare a credere alla realtà di un fatto se ho ragioni cogenti che mi

mostrano che ciò che credo non è vero. Certo, può talvolta accadere che

si cerchi di chiudere gli occhi sulle ragioni che ci costringono a mutare

opinione, ma nella norma il sistema delle credenze si ancora ai fatti e da

essi dipende. Nel caso delle credenze magiche o religiose le cose non

sembrano stare così. Religione e magia sembrano chiedere una profes-

sione di fede: in questo caso, il credere non ci appare come un tratto che

accompagna l’evidenza obiettiva di ciò cui si crede, ma come un atteg-

giamento soggettivo che non ci parla tanto dell’evidenza dell’oggetto,

quanto del carattere della soggettività, di una sua decisione. Chi professa

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di credere in un dio o nel potere di uno sciamano ci dice qualcosa su di

sé: ci dice appunto di essere un credente. Satana decide di tentare Giobbe

perché Giobbe è un uomo dalla fede incrollabile che non abbandonerà il

suo dio nemmeno quando le prove cui verrà sottoposto sembreranno dar-

gli ogni ragione per farlo: a reggere la sua professione di fede non è l’evi-

denza, ma una decisione presa, una scelta fatta una volta per tutte. Si po-

trebbe forse dire così: prima di ogni altra cosa, il racconto di Giobbe è

una descrizione precisa di che cosa voglia dire credere in dio e di quali

siano le caratteristiche che distinguono una simile credenza dalle forme

consuete del credere. Perché questo è chiaro: un Giobbe che credesse ad

un fatto al di là di ogni evidenza empirica non sarebbe un modello da

imitare, ma uno sciocco da deridere.

Queste considerazioni ci spingono a sostenere che le credenze magiche

e religiose sono appunto credenze sui generis. Non sembrano dipendere da

giustificazioni di ordine cognitivo e non cercano prove che ci consentano

di verificarle o di falsificarle. Chi crede nei rituali di guarigione dello scia-

mano si affida ad essi, al di là di ogni ragione per credere. Decide di com-

portarsi così – come un credente che spera che la malattia presti ascolto

alle intimazioni dello sciamano. Si lascia coinvolgere dallo spettacolo che

si inscena per lui e si dichiara disposto a parteciparvi. E in fondo la stessa

cosa sembra fare il credente: la sua professione di fede è una decisione

presa che lo vincola ad un certo modo di rapportarsi alle cose ed al mondo.

Il credente si dichiara disponibile a credere e così facendo si lascia coin-

volgere da ciò che la religione gli chiede.

Nelle forme peculiari che il credere assume nella dimensione magica e

religiosa non sembra difficile scorgere una serie di tratti che rimandano

all’universo immaginativo. All’immaginazione sembra ricondurci innan-

zitutto il carattere insulare delle credenze magiche e religiose. Nelle favole

accettiamo che i lupi parlino e che un cavallo di legno possa nascondere

nel suo grembo molti e molti uomini armati anche se l’una cosa e l’altra si

scontrano con ciò che altrimenti riteniamo plausibile; accade così anche

nel mondo magico e nell’universo religioso: una ciocca di capelli sottratta

all’amata servirà per piegarne la volontà anche se questo non significa che,

al di fuori del contesto magico, una simile fiducia appaia fondata anche a

chi ai maghi di tanto in tanto si affida e tutti sanno che dalla morte non si

può fare ritorno, ma ciò nonostante si crede al vangelo che narra della

morte e resurrezione di Lazzaro. Più precisamente: lo storia di Lazzaro è

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un miracolo che crede di essere creduto proprio perché nessuno può risor-

gere dalla morte e perché quel che accade a Lazzaro non mette in questione

la credenza generale che concerne l’irreversibilità della cessazione delle

funzioni biologiche di un organismo vivente. Tutt’altro: ciò che accade a

Lazzaro non ci costringe a dubitare dell’irreversibilità della morte, proprio

come la vicenda di Cappuccetto rosso non ci costringe a credere alla lo-

quacità dei lupi. Il lupo della favola è loquace perché è fatato; Lazzaro

sconfigge la morte perché Gesù compie un miracolo. Non dobbiamo cam-

biare le nostre concezioni naturali né nell’uno, né nell’altro caso. E tutta-

via, vi è un punto in cui immaginazione e pensiero magico e religioso si

diversificano e su cui dovremo in seguito ritornare: chi crede che Lazzaro

abbia potuto risorgere non cambia idea sul corso della natura, ma cambia

almeno in parte idea sulla natura, poiché è invitato a riconoscere che il

corso naturale degli eventi non è l’unica forza in gioco.

Il nesso con l’immaginazione sembra essere, in secondo luogo, implicato

anche dal fatto che le credenze magiche e religiose non sembrano disposte

ad ascoltare di buon grado gli argomenti che le rendono poco plausibili e

non sembrano interessate a verifiche empiriche. Così facendo, tuttavia, la

coscienza magica e religiosa si comporta in modo simile ad un lettore che

si lascia coinvolgere dalle finzioni in cui si immerge, senza doverle per

questo vagliare empiricamente. Dobbiamo credere che l’acqua abbia rico-

perto le terre e che sia giunta sino alle vette del monte Ararat, ma non pos-

siamo fare domande per verificare se le cose stiano davvero così, e lo stesso

vale per le gesta dello sciamano: che siano magia i gesti che compie e non

soltanto i passi codificati di uno strano balletto è qualcosa cui si deve cre-

dere perché accettiamo di partecipare alla messa in scena che si recita per

noi, non perché vi sia una qualche prova della loro efficacia. Il disinteresse

per la dimensione della verificazione si spinge del resto sino a tollerare il

suo contrario. Oggi è difficile pensare che sia possibile credere al racconto

del peccato originale eppure quel racconto sembra per altri versi vero: in-

segna molte cose che pretendono di essere vere, in una forma che è solo in

parte dissimile da ciò che vale per un racconto di finzione.

Infine, in terzo luogo, sembra possibile accostare le credenze magico-

religiose alla sfera immaginativa perché anche in questo caso la dimen-

sione del coinvolgimento sembra chiamare una decisione di carattere di

decisione personale. Il bambino che comincia a giocare fa sottovoce una

promessa: accetta le regole del gioco e non farà il guastafeste. Non dirà che

il divano è un divano e non rammenterà ai compagni di gioco che il mare

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è un tappeto che conosce bene. Non dirà queste cose, perché se vuole gio-

care deve accettare di lasciarsi coinvolgere dal mondo ludico, a dispetto

dell’evidenza delle cose e della loro palese realtà. Per giocare, è necessaria

una fede incrollabile: occorre rimanere bene ancorati all’universo ludico

ed è necessario neutralizzare le mille spine della realtà che sono capaci di

far esplodere la bolla che l’immaginazione ha creato. Qualcosa di simile è

richiesto anche a chi crede nella magia o nei miracoli: deve sforzarsi di

credere e mettere da canto le cautele dello spirito critico. Il peggior nemico

della magia è la consapevolezza ironica: se non ci si lascia coinvolgere dal

gioco oscuro che il mago apparecchia per noi, i suoi gesti appariranno

come una mimica sforzata e le sue parole come ciarlataneria. Uno stesso

discorso per i gesti della liturgia religiosa che assumono un senso solo se

si accetta di credere, mettendo provvisoriamente da canto il sistema delle

certezze che accompagnano il nostro consueto rapporto con la realtà e con

il mondo. Per tacitare l’atteggiamento ironico, tuttavia, è necessario so-

spendere pro tempore la memoria della vita quotidiana: per credere alla

realtà altra della magia e della religione dobbiamo per un poco mettere da

canto le certezze della nostra vita. Il feticcio che lo stregone trafigge non è

il nemico – se lo fosse sarebbe già nelle sue mani; trafiggerlo non significa

ferire il nemico: terminato il rito, il guerriero deve armarsi per difendersi

da chi potrebbe nuocere alla tribù. Tutto questo è chiaro; eppure il rito in-

scena un desiderio e insieme promette un risultato: lo promette solo se ci

si libera per un attimo dalle credenze e dalle convinzioni quotidiane.

Non facciamo che approfondire queste considerazioni se osserviamo che

questa forma sui generis del credere si lega anche ad una peculiare modi-

ficazione dell’oggetto della credenza. Chi crede al racconto biblico del di-

luvio e dell’arca crede in fondo soltanto a questo: crede alla malvagità degli

uomini e, insieme, all’indissolubilità del patto che li lega a dio. Non si in-

teressa al fatto in quanto tale e non chiede come possano avere vissuto in

una barca tanti animali per tanti giorni. Non vuole sapere altro e non gli

interessa altro. Chi crede ai racconti biblici ci si affida come si affida ad

una favola, che non deve essere messa in discussione se non si vuole smar-

rirne il senso. Ancora una volta, è opportuno rammentare quello che scri-

veva Pascal: se accetti di porti sul piano delle credenze religiose, non ti è

lecito poi fare domande oziose su quanta acqua debba essere caduta dal

cielo per coprire persino le montagne più alte e lasciare frammenti dell’arca

quasi in cima al monte Ararat e su che cosa abbiano mangiato leoni e bu-

fali, gazzelle ed elefanti per tanti giorni, chiusi su una barca di 300 cubiti

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di lunghezza. Chi legge la Bibbia può disinteressarsi di tutte queste do-

mande, perché l’unica cosa che ha un peso è il racconto e il suo farci riflet-

tere. Così, se ci sembra vera la storia di Noè è solo perché è profondamente

vera: perché dice qualcosa su cui siamo chiamati a riflettere, non un fatto

che dovremmo poter accertare38. Considerazioni analoghe sembrano valere

anche per i miracoli e per le magie: lo sciamano recita i gesti che debbono

convincere la malattia ad abbandonare il corpo del malato e si comporta in

un modo che sembra essere ragionevole se lo intendiamo alla luce del rito.

Si tratta di gesti codificati: lo sciamano getta del fumo sul corpo del malato

come si farebbe nella tana di un animale che si vuole mettere in fuga oppure

finge di risucchiare del veleno che poi sputa. Si comporta così, seguendo

una serie di gesti che sono resi sensati da ciò che nel rituale si narra, ma

che non possono essere presi alla lettera tutti insieme: nessuno di essi è

giustificato da una sua concreta operatività pratica e non avrebbe senso

cercare di comprenderlo al di fuori della narrazione rituale che sola gli at-

tribuisce un senso. Proprio come nella favola il lupo parla e per questo può

ingannare Cappuccetto rosso, così nel rituale la malattia è ora un demone

da stanare, ora un veleno che deve essere tolto dal corpo del malato come

si leverebbe il pungiglione di un’ape dalla puntura.

Infine, se analizziamo i racconti mitologici delle varie religioni, ci im-

battiamo in una serie rilevante di aspetti concordanti. In moltissime culture

si parla di un antico diluvio e di terre sommerse dalle acque. Da un punto

di vista fattuale potrebbero tutte parlare di uno stesso evento – l’acqua sale

e ricopre le terre e l’umanità è costretta a riprendere daccapo il suo cam-

mino – ma è apparentemente privo di senso chiedersi se il diluvio di cui

narra la Bibbia è lo stesso di cui scrive Ovidio nelle Metamorfosi e se il

mito mesopotamico racconta, sia pure in altro modo, la stessa vicenda di

cui ci parla un antico mito thai. È privo di senso, perché rispondere affer-

mativamente non significherebbe riconoscere un identico evento alla base

di tante storie, ma fondere insieme religioni e miti diversi: creare un unico

mondo mitico di cui ci parlano. Ora il mondo mitico di Deucalione e Pirra

è diverso da quello di Noè ed entrambi sono diversi da quello mesopota-

mico di Utanapishtim ed è per questo che non sembra possibile dire che ci

parlano dello stesso diluvio, proprio come sembra possibile escludere che

la strega malvagia di un racconto sia la stessa strega che si pente in un altro.

38 A dispetto del fatto che ancora oggi c’è chi si ostina non soltanto a cercare – come l’astronauta

americano James Irwin – ma addirittura a trovare l’arca di Noè sulle cime dell’Ararat, una montagna che supera i 5000 metri di altezza.

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Il punto è qui: proprio come le favole, i “fatti” mitici hanno un criterio di

identità che sembra essere intradiegetico. Chi rifiuta di accettare che il di-

luvio di Noè sia lo stesso diluvio di Deucalione e Pirra non lo fa immer-

gendosi in un’indagine empirica; non cerca di scoprire come stiano real-

mente i fatti al di là dei racconti, ma decide che non è possibile un’inter-

pretazione che ci consenta di accomunare prospettive così diverse. Alla

stessa stregua, chi ritenesse possibile leggere quei racconti come se narras-

sero uno stesso evento, lo farebbe interpretandoli alla luce di una narra-

zione comune o semplicemente intendendoli come allegorie di uno stesso

problema – per Hegel il tradimento della natura nei confronti dell’uomo,

per esempio. Certo, potremmo leggere i miti che ci parlano del diluvio

come tracce di un evento reale accaduto in un passato molto remoto, e vi è

chi ha cercato di trovare un fondamento reale alla storia del diluvio (del

nostro diluvio): forse le acque del Mediterraneo alla fine della glaciazione

hanno infine varcato il Bosforo ampliando il bacino del mar Nero, forse

invece è stato un terremoto in Anatolia che ha creato lo stesso effetto, forse

un meteorite caduto nel golfo persico. Forse. Ma se anche fosse andata

così, sarebbe davvero questo il fatto di cui la Bibbia o l’epopea di Gilga-

mesh ci parlano? Non credo che nessuno sarebbe disposto a dirlo, e la ra-

gione sarebbe ancora una volta da cercare nella peculiare debolezza del

concetto di identità narrativa. Se su un vecchio giornale ceco leggessimo

che in una qualche casa di Praga, nel secolo scorso, un commesso viaggia-

tore dopo una notte inquieta, si fosse davvero risvegliato nel corpo di un

gigantesco insetto, non dovremmo per questo rallegrarci di avere final-

mente scoperto chi era Gregor Samsa e non potremmo imparare proprio

nulla di nuovo sulla vicenda che Kafka ci narra, perché non avremmo ra-

gione di credere che il fatto narrato da La metamorfosi sia davvero lo stesso

che quel giornale riporta. Certo, anche in questo caso l’assimilazione non

è completa. In fondo, la bibbia pretende davvero che un diluvio vi sia stato,

anche se poi chi legge il testo biblico non sembra disposto a imparare dalla

realtà nulla di nuovo su quel memorabile evento – che sia il frutto di un

meteorite o che abbia piovuto un po’ meno di quanto si narri, per esempio.

Credo che queste considerazioni ci consentano di comprendere in che

senso si possa parlare di una componente immaginativa nella religione e

nella magia. Ma sino a che punto è possibile spingersi in questa direzione?

Possiamo davvero pensare di venire a capo di queste forme della nostra

cultura intendendole esclusivamente alla luce dell’immaginazione, anche

se ogni volta che abbiamo indicato le ragioni per un accostamento ci è

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sembrato necessario indicare poi una qualche differenza?

Ora il tentativo di dare a questa domanda una risposta affermativa sembra

poggiare su una tesi di carattere generale che potremmo formulare così: riti

e miti sono innanzitutto manifestazioni espressive ed è questo che li acco-

sta alla dimensione immaginativa. Potremmo forse dire così: il pensiero

magico-religioso è il frutto di un’immaginazione inconsapevole. Nelle sue

narrazioni prende forma un mondo che ha la stessa natura delle finzioni,

ma che non abbiamo ancora imparato a cogliere nel suo statuto finzionale.

Crediamo al pensiero mitico-magico perché non abbiamo ancora imparato

a comprendere nella loro natura i frutti di un’immaginazione che ci domina

e che crea, senza che ce ne avvediamo, una realtà apparente. È una tesi su

cui vale la pena di riflettere e cui Cassirer dà una veste ricca e plausibile

nella sua Filosofia delle forme simboliche.

3. Una prima ipotesi: l’immaginazione inconsapevole

Nel paragrafo precedente abbiamo sollevato una serie di interrogativi e ora

vogliamo cercare di approfondirli e di svilupparli nel loro senso, riflettendo

su un testo filosofico che ha avuto una fortuna considerevole nella filosofia

novecentesca: la Filosofia delle forme simboliche (1923-1929) di Ernst

Cassirer (1874-1945). Su Cassirer e sul peso che questo filosofo ha avuto

sulla filosofia novecentesca e in modo particolare sulla cultura italiana vi

sarebbero molte cose da dire, ma dovremo qui rinunciare ancora una volta

ai vantaggi di un’introduzione storica di ampio respiro per volgere diretta-

mente lo sguardo al nostro problema e cioè al modo in cui Cassirer affronta

il problema del mito.

Di questo problema per Cassirer si deve discorrere all’interno di una pro-

spettiva di ampio respiro teorico che cerca di ricondurre il quadro generale

di una filosofia della cultura nell’alveo di una riflessione di stampo tra-

scendentale: il linguaggio, il mito e le diverse forme del conoscere do-

vranno apparirci allora come manifestazioni della vita dello spirito, come

forme relativamente autonome e indipendenti in cui si manifesta la fun-

zione ordinatrice della soggettività e la sua capacità di attribuire un senso

ai materiali informi dell’esperienza sensibile. Comprendere la natura del

linguaggio, del mito o del conoscere vorrà dire allora riprendere, sia pure

con una qualche libertà, il sistema kantiano delle funzioni a priori della

soggettività, per intenderle ora come forme di ordinamento e come principi

razionali che guidano la soggettività nella costruzione dei diversi ambiti in

cui si scandisce la vita dello spirito.

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È in questa luce che per Cassirer diviene centrale la nozione di simbolo

che deve essere tuttavia compresa mettendo fin da principio da canto la tesi

secondo la quale i simboli altro non sono che mezzi per comunicare un

pensiero già dato. Il simbolo, per Cassirer, non è questo; è piuttosto la

forma in cui di volta in volta si manifesta il risultato cui conduce lo sforzo

soggettivo di illuminare razionalmente il dato, di comprenderlo sul fonda-

mento delle funzioni a priori della soggettività. Cassirer scrive così:

il simbolo non è un mezzo che ci consenta di comunicare il pensiero, ma è il risul-

tato cui di volta in volta giunge, in un processo infinito, la riconduzione del dato

alla norma che lo comprende e lo illumina (E. Cassirer, Filosofia delle forme sim-

boliche, a cura di E. Arnauld, La Nuova Italia, Firenze 1966, vol. II, p. 24).

Un processo infinito: Cassirer lo dice apertamente ed è forse questa la

prima delle ragioni che lo spingono a ricondurre il processo di compren-

sione e di significazione soggettiva del dato sotto l’egida del concetto di

simbolo. I simboli rimandano al di là di se stessi e non possono essere intesi

se non come forme entro le quali si cerca di comprendere e di portare a

manifestazione una totalità che tuttavia ci sfugge. Così accade nelle diverse

forme in cui si articola la vita dello spirito: nel suo tentativo di compren-

dere il dato, la ragione non può mai giungere ad una meta che la soddisfi

pienamente e la Filosofia delle forme simboliche è chiaramente attraversata

dal pathos idealistico dell’infinitezza dei compiti dello spirito e dalla cer-

tezza che ogni risultato altro non sia che un momento di stasi all’interno di

un processo aperto e infinito. In questo processo, tuttavia, non assistiamo

soltanto al progressivo rischiararsi del dato, ma anche ad una sorta di au-

tocomprensione della soggettività che passo dopo passo si libera dell’opa-

cità dei materiali che cerca di comprendere e sempre più chiaramente trova

se stessa in ciò che ordina e razionalmente interpreta. La Filosofia delle

forme simboliche non è dunque solo la narrazione di un compito infinito –

il compito infinito della comprensione, ma è anche una nuova riproposi-

zione del romanzo di formazione della soggettività: nel suo penetrare i ma-

teriali sensibili con le sue regole, il soggetto comprende sempre meglio la

sua natura e scopre sempre più chiaramente la regola del suo operare. Nel

linguaggio, nel mito, nella conoscenza assistiamo così ad un processo che

ha un’identica struttura: passo dopo passo, lo spirito si libera dall’oscurità

che lo rende cieco a se stesso e il suo faticoso cammino si fa sempre più

leggero e luminoso. Il simbolo si fa così sempre più manifesto alla co-

scienza che lo pone.

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Del resto, sottolineare che ci muoviamo sempre e comunque nella di-

mensione di una simbolicità che ci impedisce di considerare definitiva una

qualsiasi acquisizione dello spirito significa anche richiamare alla mente il

tema stesso di ogni filosofia trascendentale: la tesi secondo la quale il con-

cetto di oggettività non può essere presupposto, ma si costruisce passo

dopo passo come il frutto di una sintesi soggettiva, di un processo di su-

bordinazione dei dati amorfi alla regola dell’intelletto, ai suoi principi ca-

tegoriali. Ora, anche questa tesi, così strettamente connessa alla prospettiva

kantiana della rivoluzione copernicana, si esprime in modo esemplare –

per Cassirer – nella nozione di simbolo. Il concetto di simbolo è un con-

cetto che ha una sua chiara piega linguistica e nel linguaggio le parole

hanno il significato che loro propriamente compete solo in virtù della loro

appartenenza all’orizzonte unitario della lingua. Che cosa significhi un sim-

bolo non lo si può comprendere se non ci si dispone all’interno del linguag-

gio e se non ci si pone in una prospettiva funzionale che spieghi la natura

di ogni parte riconducendola al ruolo che occupa nella totalità dell’uni-

verso di senso cui appartiene:

ogni singolo atto che pone una parte – scrive Cassirer – implica che si ponga il tutto,

non secondo il suo contenuto, ma secondo la sua struttura (E. Cassirer, Filosofia

delle forme simboliche, I, p. 43).

È una tesi kantiana: non si dà esperienza se non nel sistema, presupposto a

priori, delle forme trascendentali della soggettività. E ciò è quanto dire che

ogni contenuto della nostra esperienza è sempre parte di un sistema di rap-

presentazione, di una prospettiva interpretativa che lo attraversa e che gli

consente di rappresentarsi nello spazio logico della soggettività. Di per sé

il dato sensibile non può avere un posto nella coscienza: esperirlo significa

allora necessariamente rappresentarlo all’interno di un sistema di regole –

vuol dire insomma farne un simbolo che appartenga ad un sistema teorico

più ampio, ad una forma simbolica appunto.

Di qui, da queste considerazioni di carattere generale, si può muovere per

trarre una conclusione che si dispone ancora una volta nell’alveo della fi-

losofia kantiana. Parlare di coscienza simbolica e di simbolo vuol dire in-

fatti – per Cassirer – sottolineare in forma nuova una concezione generale

dell’oggettività: l’oggetto non è il dato nella sua opacità empirica e non è

nemmeno una realtà metafisica assoluta, ma è ciò che si costruisce nel pro-

cesso della simbolizzazione. L’oggettività, che nel simbolo si costruisce e

si manifesta, ha così la forma nota del fenomeno kantiano:

L’essere positivo dell’oggetto empirico viene raggiunto, per così dire, mediante una

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duplice negazione: da un lato mediante il suo distinguersi dall’ ‘assoluto’, e dall’al-

tro lato mediante il suo distinguersi dall’apparenza sensibile. Esso è oggetto del

‘fenomeno’, ma questo non è apparenza, infatti è fondato in leggi necessarie della

conoscenza, è un phaenomenon bene fundatum. Ancora una volta risulta che il con-

cetto generale di oggettività, come pure le sue singole realizzazioni concrete, nel

modo in cui si configura nella sfera del pensiero teoretico, poggia completamente

su di un atto progressivo di distinzione degli elementi d’esperienza, su di un lavoro

critico dello spirito, in cui sempre più l’accidentale viene distinto dall’essenziale,

ciò che è mutevole da ciò che è permanente, ciò che è contingente da ciò che è

necessario. E non vi è alcuna fase della coscienza empirica, per quanto ‘primitiva’

e irriflessa, in cui questo suo carattere fondamentale già non si riconosca chiara-

mente. Certamente negli studi di gnoseologia spesso si ammette quale comincia-

mento di ogni conoscenza empirica uno stadio della pura immediatezza, del sem-

plice dato, in cui le impressioni dovrebbero essere accolte nel loro semplice carat-

tere sensibile, ed essere ‘vissute’ senza che già fosse stata intrapresa in esse alcun

genere di attività formale, di elaborazione da parte del pensiero. In questo stadio

tutti i dati si troverebbero ancora, per così dire, disposti su di un piano, con un unico

carattere ancora indistinto e confuso di pura e semplice ‘esistenza’. Ma qui troppo

facilmente si dimentica che il supposto stadio puramente ‘ingenuo’ della coscienza

empirica non è esso stesso un dato di fatto, bensì una costruzione teorica; si dimen-

tica che esso non è altro che un concetto-limite creato dalla riflessione gnoseolo-

gico-critica. Anche dove la coscienza sensibile non si è ancora svolta in modo da

diventare la coscienza conoscitiva della scienza astratta, essa contiene già implici-

tamente quelle distinzioni e classificazioni che nella coscienza scientifica si presen-

tano in forma logica ed esplicita (ivi, II, pp. 50-51).

Si tratta di una constatazione importante. Per Cassirer, porsi sul terreno

delle forme simboliche vuol dire prendere atto del carattere costruttivo

dell’esperienza e mettere da parte come infondata ogni pretesa di stampo

assolutistico. Il filosofo che riconosce la funzione simbolica dell’esperire

deve insieme liberarsi del mito del dato e riconoscere che nell’esperienza

non vi è nulla di “semplicemente presente”. Ogni esperienza è interpreta-

zione: questa è la tesi che siamo invitati ad abbracciare.

Quest’ordine di considerazioni fanno da sfondo alla riflessione che Cas-

sirer dedica al pensiero mitico. Un punto deve essere fin da principio chia-

rito: se il mito è una forma simbolica tra le altre, studiarlo e comprenderlo

vorrà dire cercare di capire in che modo la coscienza mitica imprime una

sua forma ai materiali sensibili e in che modo li interpreta e li comprende.

E ciò è quanto dire: il mito non deve essere giudicato e compreso sempli-

cemente come un errore, ma come una manifestazione dello spirito in cui

si fa avanti un certo modo di rapportarsi alla nostra esperienza e di pen-

sarla: nel mito – e poi più chiaramente nel pensiero religioso e nell’arte –

si fa avanti per Cassirer una tendenza generale dello spirito, il suo attribuire

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un valore ed una funzione espressiva al mondo che ci circonda.

Riconoscere al pensiero mitico una funzione peculiare – nel mito la realtà

si rivela carica di valore – vuol dire in primo luogo prendere le distanze

dalle interpretazioni positivistiche del mito che caratterizzano per esempio

l’opera antropologica di Tylor o di Frazer. Che cosa si il mito per l’autore

de Il ramo d’oro lo si comprende con chiarezza: per Frazer, il mito è in-

nanzitutto una falsa teoria e comprenderlo significa in ultima analisi inten-

derlo come un tentativo radicalmente falso di comprendere il mondo. Il

pensiero mitico si prefigge insomma gli stessi obiettivi della riflessione

scientifica, ma a differenza dello scienziato il pensiero primitivo si lascia

guidare da vaghe analogie ed è privo di mentalità empirica. E se i miti sono

false teorie e appartengono alla preistoria del sapere scientifico, i riti ma-

gici sono la manifestazione primitiva della tecnica: insomma, lo sciamano

è un medico scadente e se si comporta diversamente dai nostri medici, ciò

accade soltanto perché fonda la sua prassi su una teoria drammaticamente

falsa.

Per Cassirer, il filosofo della mitologia deve innanzitutto liberarsi da que-

sta prospettiva di carattere generale e deve rifiutarsi di cogliere nei miti un

cumulo di errori. Frazer sbaglia e il suo errore riposa, per Cassirer, nella

convinzione che il pensiero mitico abbia innanzitutto una valenza conosci-

tiva. I miti non sono teorie e la magia non è una tecnica priva di fondamento

oggettivo; rendersene conto, tuttavia, significa chiedersi quale sia la pro-

spettiva peculiare del pensiero mitico e quale il senso che esso attribuisce

ai fenomeni. Analizzare e comprendere il mito come una forma simbolica

vorrà dire allora interrogarsi sulla natura interpretativa del mito o – più

propriamente – chiedersi quale sia l’orientamento complessivo del sistema

concettuale entro il quale i materiali sensibili si dispongono per essere

esperiti dalla coscienza mitica.

È tuttavia sufficiente porsi questa domanda perché si faccia avanti una

difficoltà inattesa. Nel nostro rapidissimo tentativo di far luce sulla natura

del concetto cassireriano di simbolo ci siamo soffermati soprattutto su un

punto: abbiamo osservato come la prospettiva delle forme simboliche fa-

cesse tutt’uno con la tesi, di chiara ascendenza kantiana, secondo la quale

l’esperienza non è mai mera ricezione di dati, ma è sempre interpretazione

dei materiali sensibili che possono accedere alla coscienza solo se si pon-

gono come elementi di un sistema, come momenti che acquistano un senso

solo perché si dispongono in un sistema di rappresentazione concettuale

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che attribuisce loro un significato di cui sarebbero altrimenti privi. Per ac-

cedere allo spazio logico e spirituale della soggettività, il dato deve vestire

le forme a priori della soggettività – deve dunque farsi simbolo e derivare

il suo senso dall’appartenenza ad una determinata forma simbolica. Questa

tesi riveste un’importanza centrale nella riflessione di Cassirer e tuttavia

basta addentrarsi nelle pagine dedicate alla coscienza mitica per imbattersi

in riflessioni che sembrano inconciliabili con essa.

Alla radice di questa difficoltà vi è innanzitutto il carattere eminente-

mente passivo del pensiero mitico. Conoscere significa vagliare il mate-

riale empirico e determinare il valore obiettivo di ogni singolo esperienza:

la conoscenza come forma simbolica implica dunque una soggettività che

si erge al di sopra del materiale esperito, per dargli forma e per vagliarne

l’obiettività. Nel caso del pensiero mitico, la soggettività non sembra af-

fatto emergere al di sopra della propria esperienza sensibile ed anzi ciò che

almeno apparentemente la caratterizza è il suo essere una coscienza affa-

scinata che si lascia pervadere dal contenuto che percettivamente le si im-

pone. Alla coscienza conoscitivamente atteggiata che si eleva sul suo con-

tenuto fa così eco la coscienza mitica che è pervasa da ciò che esperisce e

che vive nello stupore ciò che le si impone:

Il mito – scrive Cassirer – si attiene esclusivamente alla presenza del suo oggetto,

all’intensità con cui questo, in un determinato momento, afferra la coscienza e se

ne rende padrone (ivi, II, p. 52).

Possiamo anzi spingerci un passo in avanti e osservare che la coscienza

mitica non possiede quei tratti che in generale sembrano essere caratteri-

stici di una forma simbolica poiché non sembra in grado di vagliare i propri

contenuti, di giudicarli:

Nel mito la coscienza è rinchiusa come in alcunché di semplicemente esistente; non

possiede né la tendenza, né la possibilità di correggere e criticare ciò che è dato qui

ed ora, di limitarlo nella sua oggettività misurandolo mediante qualcosa di non dato,

mediante qualcosa di passato o di futuro. Ma se questa indiretta misura viene a

mancare, se tutto l’essere, tutta la ‘verità’ e realtà si risolve nella semplice presenza

del contenuto, tutto ciò che in genere si presenta si concentra in un unico piano.

Non vi sono qui gradi diversi di realtà, non vi sono gradi reciprocamente distinti di

certezza oggettiva. All’immagine della realtà, che in tal modo sorge, manca quindi,

per così dire, la terza dimensione, il distacco tra il primo piano e lo sfondo (ivi, II,

p. 53).

Allo spirito che nelle sue forme consuete sembra vestire necessariamente i

panni della mediazione e della coscienza critica si contrappone così il pen-

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siero mitico che appare interamente sotto l’egida dell’immediatezza. La co-

scienza mitica non è soltanto una coscienza affascinata; è, anche, una co-

scienza posseduta dal proprio oggetto: la coscienza mitica

vive nell’impressione immediata, alla quale si abbandona senza ‘metterla a con-

fronto’ con altro. Per essa l’impressione non è qualcosa di relativo, ma di assoluto;

non è ‘in virtù’ di altro e non dipende da altro, ma si afferma e si convalida con la

semplice intensità della sua esistenza, con la violenza con cui si impone alla co-

scienza. Mentre il pensiero mantiene un atteggiamento di ricerca, di problematicità,

di dubbio e di critica di fronte a ciò che come suo ‘oggetto’ gli si presenta con la

pretesa dell’oggettività e della necessità, mentre si contrappone ad esso con le sue

proprie norme, la coscienza mitica non conosce una contrapposizione di tal genere.

Essa ‘ha’ l’oggetto solo in quanto viene sopraffatta da esso; non lo possiede per

averlo progressivamente costruito per sé, ma semplicemente viene da esso posse-

duta. Qui non domina la volontà di cogliere l’oggetto, di abbracciarlo cioè col pen-

siero e di ordinarlo in un complesso di ragioni determinanti e di conseguenze, ma

vi è soltanto la semplice impressione suscitata da esso (ivi, II, p. 108).

Sarebbe tuttavia un errore credere che il pensiero mitico non sia una forma

simbolica e che nella coscienza mitica non maturi una specifica visuale sul

mondo e non si costituisca un nuovo orizzonte di senso. La coscienza mi-

tica ha anch’essa una sua specifica visuale e un suo peculiare modo di or-

ganizzare i materiali su cui si esercita – un modo che è strettamente con-

nesso con quel suo essere una coscienza affascinata e sopraffatta su cui ci

siamo dianzi soffermati:

Ma proprio quest’intensità, questa forza immediata con cui l’oggetto mitico è pre-

sente alla coscienza, lo pone al di fuori della semplice serie di ciò che è sempre

uniforme e si ripete in modo uguale. Invece di essere costretto nello schema di una

regola, di una legge necessaria, ogni oggetto, in quanto invade e penetra la co-

scienza mitica, appare come qualcosa che ha affinità soltanto con se stesso, come

qualcosa d’incomparabile e di proprio. Esso vive, per così dire, in un’atmosfera

individuale; è un fatto unico, che può esser colto soro questa sua singolarità, in

questo suo diretto hic et nunc. E tuttavia d’altro lato i contenuti della coscienza

mitica non si risolvono meramente in singoli elementi slegati, ma domina anche in

essi un universale, seppure di specie e di origine molto diverse dall’universale del

concetto logico. Infatti proprio per questo loro carattere speciale tutti i contenuti

che appartengono alla coscienza mitica si raccolgono nuovamente in un tutto: essi

formano un regno in se stesso chiuso; possiedono in certo qual modo un accento

comune, in virtù del quale si distinguono dalla serie dei soliti fatti della comune

esistenza empirica. Questo aspetto di stranezza, questo carattere di “eccezionalità”

è essenziale a ogni contenuto della coscienza mitica come tale; ciò si può osservare

dai gradi più bassi ai gradi più alti, dalla visione magica del mondo, che intende

l’incantesimo ancora in senso pratico e quindi semi-tecnico, fino alle più pure ma-

nifestazioni della religione, in cui ogni miracolo si risolve in definitiva nell’unico

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miracolo dello stesso spirito religioso. E sempre questo particolare tendere alla “tra-

scendenza” che collega fra loro tutti i contenuti della coscienza mitica e della co-

scienza religiosa. Essi contengono tutti, nella loro semplice esistenza e nella loro

situazione immediata, una rivelazione, la quale però, appunto perché tale, ha ancora

la natura del segreto; e proprio questa compenetrazione, questa rivelazione, che al

tempo stesso manifesta e nasconde, imprime al contenuto mitico-religioso il suo

carattere fondamentale, cioè il carattere del “sacro” (ivi, II, pp. 108-109).

Proprio perché la coscienza mitica si lascia dominare e sopraffare dal suo

oggetto, proprio per questo può liberarlo dalla trama del quotidiano e in-

tenderlo come qualcosa di eccezionale e quindi come il luogo di una sorta

di epifania.

Di qui la specificità del pensiero mitico, che in questa prospettiva ci ap-

pare come quella peculiare forma simbolica all’interno della quale la realtà

si ordina sotto un’antitesi fondamentale – l’antitesi tra sacro e profano. Al

conoscere che dispone e ordina i materiali sensibili, vagliandoli alla luce

del criterio del vero e del falso fa eco il pensiero mitico in virtù del quale i

materiali sensibili si raccolgono secondo le categorie del sacro e del pro-

fano, di ciò che ha valore e di ciò che ne è privo:

Ogni dato dell’esistenza, per quanto ordinario esso sia, può acquistare il carattere

proprio del sacro, non appena si venga a trovare sotto la specifica visuale mitico-

religiosa, non appena – invece di rimaner legato all’usuale cerchia dell’accadere e

dell’operare – attiri e susciti con particolare forza da qualche lato l’interesse mitico.

Il carattere del “sacro” non è quindi fin da principio limitato a determinati oggetti e

gruppi di oggetti, ma ogni dato, per quanto “indifferente” esso sia, può improvvi-

samente partecipare di questo carattere. Non una determinata natura oggettiva, ma

un determinato riferimento ideale è ciò che viene da esso indicato. Anche il mito

quindi comincia a introdurre determinate differenze nell’essere indistinto e “indif-

ferente”, a distinguerlo in determinate sfere significative. Anch’esso rivela la sua

facoltà di conferire forma e significato, interrompendo l’uniformità e l’omogeneità

dei contenuti della coscienza, introducendo in quest’uniformità determinate distin-

zioni di “valore”. Siccome ogni essere, ogni accadere viene proiettato nell’antitesi

fondamentale di “sacro” e di “profano”, acquista in questa proiezione un nuovo

significato che esso non “ha” fin da principio, ma che gli deriva soltanto da questa

forma di riflessione, da questa “luce” sotto la quale il mito lo pone (ivi, II, p. 110).

Possiamo allora trarre la conclusione cui miravano queste nostre prime

considerazioni. Per Cassirer il mito è una forma simbolica che si manifesta

nel suo scandire i materiali dell’esperienza secondo un’antitesi fondamen-

tale – l’antitesi tra ciò che valore e ciò che non lo ha, tra il sacro e il profano.

In questo suo scindere l’universo della nostra esperienza secondo il criterio

del valore e della sacralità, il pensiero mitico non fa altro che plasmare il

proprio oggetto alla luce di ciò che di primo acchito sembra essere il suo

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limite: il pensiero mitico subisce l’azione dei propri oggetti e si lascia per-

vadere da ciò di cui ha esperienza. Proprio per questo, tuttavia, la coscienza

mitica manifesta una particolare adesione ai propri contenuti: li coglie nella

loro assolutezza e nella loro irriducibilità alla trama consueta del quoti-

diano. Nel suo lasciarsi travolgere da ciò che esperisce, la coscienza mitica

trova così il fondamento della sua funzione simbolizzante: il pensiero mi-

tico diviene così coscienza del sacro in opposizione al profano e coglie

nell’individuale il luogo di un’epifania.

Sul significato di quest’antitesi dobbiamo ora soffermarci un poco per

cercare di comprendere meglio che cosa Cassirer abbia in mente. Un primo

punto è ben chiaro: quando nella Filosofia delle forme simboliche si parla

del sacro non si intende riferirsi fin da principio all’orizzonte codificato

delle religioni, ma ad una certa modalità dell’esperire che è caratterizzata

dal fatto che ciò che appare sotto il crisma della sacralità è vissuto come

eccezionale, come un oggetto o un evento che si distingue dal trascorrere

indifferente e anodino delle nostre esperienze proprio perché ci colpisce

profondamente e ci turba.

Si tratta di un punto su cui è necessario insistere. L’esperienza, nella sua

quotidianità, è caratterizzata da una sostanziale omogeneità che è ulterior-

mente accentuata dal farsi avanti della dimensione conoscitiva che tende a

prendere commiato dalla particolarità delle esperienze, per subordinarle ad

una identica regola concettuale. Non così nell’esperienza del sacro: il sacro

si fa avanti solo quando ci lasciamo colpire dall’individualità di ciò che espe-

riamo e ci lasciamo affascinare e dall’irriducibilità di ciò che si dà alla no-

stra coscienza. Alla dimensione del profano che ci appare così caratteriz-

zata come una zona grigia ed emotivamente tiepida fa così da contrappunto

l’esperienza del sacro che è sempre calda o gelida e che ci mette di fronte

a qualcosa di mirabile – ad un mysterium tremendum o fascinosum che

scuote la nostra coscienza e ne prende possesso.

Che cosa propriamente ciò significhi non è difficile comprenderlo non

appena ci disponiamo sul terreno degli esempi e riflettiamo in modo parti-

colare sulla natura della nostra esperienza della spazialità e della tempora-

lità. Una prima considerazione sembra essere relativamente ovvia: se vo-

gliamo scorgere l’operare sacralizzante del mito relativamente allo spazio

e al tempo, dovremo in primo luogo mettere canto le forme obiettive dello

spazio e del tempo come forme di ordinamento del reale. Da queste forme

dobbiamo prendere commiato perché la loro omogeneità è insieme la cifra

che cancella ogni eccezionalità dell’evento e che ci costringe a pensarlo

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sotto l’egida di ciò che è soltanto profano. Di qui il cammino che il pensiero

mitico-religioso deve seguire: aprirsi un varco verso l’esperienza del sacro

significa negare l’omogeneità dello spazio e tacitare la voce che ci co-

stringe a pensare ad ogni nostra esperienza come un’esperienza indivi-

duale, legata ad un tempo e ad un luogo, tra gli altri. Per il pensiero del

sacro, lo spazio come forma omogenea deve essere messo da canto e al suo

posto – nota Mircea Eliade in considerazioni che sono per molti versi affini

a quelle di Cassirer – deve farsi avanti l’immagine del luogo abitato, il suo

porsi come centro del mondo:

nel momento in cui il sacro si manifesta attraverso una qualsiasi ierofania, non sol-

tanto viene interrotta l’omogeneità dello spazio, ma avviene contemporaneamente la

rivelazione di una realtà assoluta, in opposizione alla non-realtà dell’immensa distesa

che la circonda. La manifestazione del sacro fonda ontologicamente il mondo. Nella

distesa omogenea e infinita, senza punti di riferimento, né alcuna possibilità di orien-

tamento, la ierofania rivela un punto fisso assoluto, un “centro”. Ciò dimostra in quale

misura la scoperta, cioè la rivelazione del luogo sacro, ha un valore esistenziale per

l’uomo religioso: nulla può avere inizio, nulla può “realizzarsi” senza la premessa di

un orientamento ed ogni orientamento implica l’acquisizione di un punto fisso. Per

questo motivo l’uomo religioso fa di tutto per porsi al “centro del mondo”. Per vivere

nel mondo bisogna fondarlo, e nessun mondo può nascere nel caos dell’omogeneità

e relatività dello spazio profano. La scoperta, o proiezione di un “punto fisso” ─ il

Centro ─ equivale alla creazione del mondo. […]. Per l’esperienza profana, invece,

lo spazio è omogeneo e neutro: non vi è alcuna rottura che stabilisca differenziazioni

qualitative tra le varie parti della massa che lo formano. Lo spazio geometrico può

essere delimitato e sezionato in una qualsiasi direzione, ma la sua struttura vera e

propria non può dar luogo a nessuna differenziazione qualitativa, né ad alcun orien-

tamento […]. L’esperienza profana conserva l’omogeneità, quindi la relatività dello

spazio. Ogni vero orientamento scompare poiché il “punto fisso” non gode più di uno

statuto ontologico: appare e scompare a seconda delle necessità quotidiane (Il sacro

e il profano, (1964), trad. it., a cura di E Fadini, Bollati, Torino 2001, pp. 19-21).

Il sacro chiede che lo spazio omogeneo sia tacitato e di fatto ogni evento

che sembra avere per noi un significato profondo viene fatto coincidere da

Eliade con una frattura della omogeneità dello spazio, con il darsi di un cen-

tro che pone fine alla relatività dei luoghi e, quindi, all’accidentalità indivi-

duale degli accadimenti. Il bisogno d’essere del sacro si traduce così in una

negazione della relatività dello spazio e in un’assolutizzazione della nozione

di luogo.

Molti sono gli esempi che potrebbero essere proposti per rendere conto

di queste considerazioni di carattere generale. Le chiese e i templi occu-

pano un posto nello spazio, ma la mera relatività dei luoghi è, per così dire,

tolta dalla vicenda narrata che si lega alla loro edificazione. Si tratta di un

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fatto ben noto che si fa avanti nelle molte leggende che accompagnano la

decisione del luogo su cui edificare una nuova chiesa. Gli edifici sacri sor-

gono là dove è accaduto un evento particolare che segna una discontinuità

nella continuità amorfa dello spazio e che consente di attribuire ad un mo-

tivo imperscrutabile una scelta che in realtà non ha ragioni che sappiano

liberarla dal gioco della relatività e dell’arbitrio. Così, non è un caso se le

chiese sorgono dove ha avuto luogo un’epifania del divino: l’apparizione

di un santo, un evento miracoloso, o un ordine ricevuto in sogno dalla voce

di dio sono alcune tra le molte forme di cui il pensiero mitico si avvale per

attribuire ad un luogo tra gli altri quella esemplarità che altrimenti non po-

trebbe spettargli. Un luogo sacro deve essere costruito proprio qui, così

come proprio qui – nel cuore noto della nostra città – c’è la nostra casa. E

ancora: ogni fondazione di una città è insieme accompagnata da un insieme

di leggende che rendono meno visibile la relatività del suo luogo la cui

scelta deve essere affidata ad un qualche evento oscuro che la liberi dalle

pieghe soggettive del nostro arbitrio. Così leggiamo che la capitale del per-

fetto sovrano cinese si trova proprio nel luogo indicato dal Sole nel giorno

del solstizio di primavera e che il tempio di Gerusalemme è fabbricato sulla

roccia che funge da ombelico del mondo, sulla pietra angolare da cui dio

ha preso le mosse nell’opera della creazione.

Di qui il significato che spetta al viaggio che ci costringe ad abbandonare

il centro del mondo per avventurarci negli spazi in cui la sensatezza del

luogo si perde. Al cosmo ordinato che si dispiega in prossimità del luogo

in cui siamo fa eco il venir meno della forma quanto più ci addentriamo

nelle regioni remote dello spazio, quasi che l’essere lontani dal centro sia

una proprietà reale dei luoghi cui dopo un lungo viaggiare si giunge. E del

resto il viaggio ai confini del mondo è per il pensiero mitico un viaggio

destinato a condurci al di là della norma: al di là delle colonne d’Ercole

abitano i mostri marini che segnano visibilmente il confine tra il cosmo

abitabile e il caos.

Alle riflessioni sullo spazio si possono affiancare poi quelle sul tempo.

Anche l’omogeneità del tempo deve essere tacitata e questo proprio perché

la successione continua degli eventi ci costringe a coglierli nella loro reci-

proca dipendenza – una dipendenza che ne cancella l’assolutezza e ne ot-

tunde l’eccezionalità. Di qui la peculiarità del tempo mitico, che sembra

incentrarsi sull’origine e sulla fine e che ci vieta di intendere l’eccezionalità

del passato e del futuro alla luce della regola della successione che ci con-

sente di pensare a ciò che è lontano nella forma relativa che da ciò che è

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vicino ci conduce al vicino del vicino, e così di seguito. Al tempo colto

come regola della successione fa così eco il tempo qualitativo del pensiero

mitico:

Se la storia risolve l’essere nella serie continua del divenire, in cui non vi è per esso

alcun momento particolarmente distinto e in cui invece ogni momento rinvia sem-

pre a un momento anteriore, cosicché il regresso verso il passato diventa un regres-

sus in infinitum, il mito, al contrario, compie sì un taglio netto tra ciò che è e ciò

che è stato, tra presente e passato, ma si arresta in quest’ultimo, una volta che lo ha

raggiunto, come in qualcosa di permanente che non presenta più problemi. Per esso

il tempo non assume la forma di una semplice relazione in cui i momenti del pre-

sente, del passato e del futuro si spostino e si convertano gli uni negli altri; bensì un

rigido confine separa il presente empirico dall’origine mitica, conferendo loro un

«carattere» proprio non permutabile (E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche,

op. cit., II, pp. 152-153).

Ancora una volta le pagine di Eliade ci consentono di esemplificare in

modo ricco e appropriato queste considerazioni di Cassirer. Gli esempi che

Eliade ci offre sono molteplici e ci invitano a riflettere sulla dualità di piani

che attraversa la concezione dell’essere nel pensiero arcaico. Nella cosmo-

logia iranica, così si legge, ogni fenomeno terrestre ha il suo controcanto

in un fenomeno celeste e ogni cosa e ogni concetto si presentano sotto un

aspetto duplice: l’aspetto terreno del gêtîk e l’aspetto celeste e archetipico

del mênôk. E dal punto di vista cosmogonico il mondo mênôk è prima del

mondo terreno e lo giustifica: il nostro mondo è un’immagine del mondo

celeste e può divenir vero solo nella misura in cui sa ripeterlo e sa proporsi

come una sua ripetizione. E ciò che è vero per la cultura iranica è vero

anche per la cultura ebraica: alla Gerusalemme terrena corrisponde una

Gerusalemme celeste, e la seconda è la misura della prima, la norma na-

scosta cui commisurarla e cui ricondurre la sua ragion d’essere. E ancora:

le città babilonesi avevano i loro archetipi nelle costellazioni, perché solo

così la comunità degli uomini poteva fondarsi in un’anticipazione celeste,

in un archetipo capace di giustificarla. Gli uomini fondano le città e le edi-

ficano, ma le loro gesta non aggiungono nulla di nuovo al mondo e proprio

per questo non si deve temere che ciò che è stato fatto possa un giorno

dissolversi: Sippar, Ninive e Assur attraverseranno i secoli, perché gli uo-

mini, costruendole, non hanno fatto altro che ripetere la mappa dei cieli e

dare forma terrena alla comunità celeste delle stelle che si affiancano nelle

costellazioni del cancro, dell’orsa maggiore, di Arturo.

Non vi è dubbio, per Eliade, che sia proprio in questa luce che deve essere

inteso il significato del ripetersi rituale del mito cosmologico in circostanze

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peculiari come la fondazione di una città o la costruzione di un villaggio o

di un tempio. In quel luogo si vivrà, e l’accidentalità di questo fatto e del

suo accadere qui piuttosto che altrove deve essere tolta dal rimando ad un

archetipo celeste, ad una fondazione originaria che mostri come ciò che gli

uomini fanno è già stato fatto ed è inscritto nel linguaggio eterno della

creazione. Così, quando si costruisce una casa in India, ricorda Eliade, si

ripete il gesto cosmogonico dell’uccisione del serpente: il caos originario

deve essere nuovamente sconfitto, perché la casa deve diventare cosmo e

il gesto dell’abitare deve porsi sotto l’egida del primo inquilino – il dio

creatore che fa ordine nel caos del mondo, per abitarlo. E se l’abitare ha un

suo modello archetipo nella creazione, anche il lavoro e il riposo si giusti-

ficano alla luce della creazione. La tradizione iranica ricorda che Ohrmazd

impiega un anno per creare il cosmo e che dedica cinque giorni alla chiu-

sura di ogni mese per riposarsi del lavoro compiuto – un modello cui gli

uomini dovevano richiamarsi per giustificare il loro necessario alternare

fatica e riposo, lavoro e festa:

l’uomo non fa che ripetere l’atto della creazione, il suo calendario religioso comme-

mora nello spazio di un anno tutte le fasi cosmogoniche che vi sono state ab origine.

Infatti l’anno sacro riprende incessantemente la creazione, l’uomo diviene contem-

poraneo della cosmogonia e dell’antropogonia perché il rituale lo proietta all’epoca

mitica dell’inizio […]. Anche il sabato giudaico cristiano è ancora una imitatio dei

(M. Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, a cura di G. Cantoni, Borla, Roma 1999, p.

31).

Eliade si sofferma poi su una molteplicità di riti e di narrazioni che hanno

il compito di proiettare le gesta degli uomini e la loro stessa vita su uno

sfondo archetipico che la giustifichi al di là dell’accidentalità delle scelte e

della fattualità empirica della nostra umana natura. Gli uomini debbono

nutrirsi, nascono e muoiono, si uniscono sessualmente e generano, e queste

datità della vita umana debbono apparire alla luce di un modello cosmico

che le giustifichi. Il nostro umano cibarci ripropone il cibarsi di un cibo

divino, e la simbologia cristiana del pane e del vino ne sono una chiara eco.

Nella cultura indiana, il matrimonio si pone sotto l’egida di una ierogamia:

il matrimonio è celebrato dalla formula «io sono il cielo, tu sei la terra»,

Didone celebra la sua unione con Enea in una tempesta39 – e gli esempi

39 «Interea magno misceri murmure caelum/ incipit, insequitur commixta grandine nimbus, / et Tyrii

comites passim et Troiana iuventus / Dardaniusque nepos Veneris diversa per agros /tecta metu petiere;

ruunt de montibus amnes. / speluncam Dido dux et Troianus eandem / deveniunt. prima et Tellus et

pronuba Iuno / dant signum; fulsere ignes et conscius aether / conubiis summoque ulularunt vertice Nymphae. / ille dies primus leti primusque malorum / causa fuit; neque enim specie famave movetur /

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potrebbero essere facilmente moltiplicati.

Il nostro tentativo di esporre le linee generali della filosofia del mito in

Cassirer non può dirsi tuttavia ancora concluso e per una ragione impor-

tante: non ci siamo infatti ancora soffermati sulla tesi del simbolismo im-

plicito. Si tratta di una delle tesi che maggiormente caratterizzano la posi-

zione di Cassirer e che con più coerenza derivano dal suo tentativo di strin-

gere in un unico nodo l’immediatezza del pensiero mitico e il suo essere

ciò nonostante una forma simbolica.

Di questa apparente contraddizione è necessario farsi carico e ciò signi-

fica, per Cassirer, riconoscere che il pensiero mitico è un’attività simbolica,

ma non per questo è consapevole del suo muoversi sul terreno del simbo-

lismo. Il mito e i rituali magici si muovono sul terreno delle immagini sim-

boliche, ma non ne sono consapevoli; tutt’altro: ciò che caratterizza la co-

scienza mitica è il suo confondere la dimensione simbolica con la dimen-

sione reale, i riti e i miti con le cose stesse. Rammentiamo le nostre consi-

derazioni relative ai riti di guarigione: lo sciamano mette in scena la guari-

gione e si dispone quindi sul piano delle rappresentazioni simboliche. Il

senso del suo agire, tuttavia, sembra voler propriamente rimuovere questa

consapevolezza: lo sciamano non si presenta come un attore e la sua recita

non può essere intesa sino in fondo come tale, perché il malato non vuole

soltanto fingere di guarire.

Si può parlare a questo proposito di simbolismo implicito per sostenere

che la specificità della coscienza mitica consiste propriamente in questo:

nel suo operare sul piano simbolico senza tuttavia esserne affatto consape-

vole. Scrive Piana:

Ciò significa: il pensiero mitico è in sé un pensiero simbolico, ma trae la propria

specificità proprio dal fatto che in esso non si produce la consapevolezza del sim-

bolismo in quanto simbolismo. Questa tesi si presenta già nella introduzione

dell’opera e ricorre ovunque nel suo corso. Cassirer non si stanca di ripetere che per

il primitivo il simbolizzante ed il simbolizzato fanno tutt’uno, che qui manca la

coscienza di una precisa discriminazione. Le «immagini» che sono presenti nei

comportamenti mitici non sono mai coscienti in quanto immagini, ma fanno corpo

con la cosa stessa (G. Piana, L’immaginazione sacra. Saggio su Ernst Cassirer, in

La notte dei lampi, Guerini Milano 1988, p. 28, ora in internet all’indirizzo web

http://www.filosofia.unimi.it/piana/cassirer/cassidx.htm)

Rammentare questo fatto è importante per molte e diverse ragioni.

nec iam furtivum Dido meditatur amorem: / coniugium vocat, hoc praetexit nomine culpam» (Virgilio, Eneide, lib. IV, vv. 160-168).

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È importante in primo luogo perché ci consente di collocare il mito all’in-

terno di una più generale filosofia dello spirito: il mito come forma di sim-

bolismo implicito sembra infatti necessariamente alludere ad uno sviluppo

e a una genesi ideale. Il simbolismo implicito deve divenire esplicito e ciò

significa che è necessario porre il pensiero mitico all’interno di un mecca-

nismo di sapore hegeliano, di una triade che sancisca il cammino che deve

condurre dalle profondità inconsapevoli del mito alla simbolicità dichiarata

dell’arte, passando attraverso quella negazione del visibile che è caratteri-

stica della religione40:

Il mito vede sempre nell’immagine anche un elemento di realtà sostanziale, una

parte dello stesso mondo delle cose, la quale ha rispetto a questo facoltà uguali o

maggiori. Il pensiero religioso muovendo da questa prima visione magica aspira a

una sempre più pura spiritualizzazione. Eppure si vede sempre condotto a un punto

in cui la questione del suo significato e della sua verità si converte nella questione

della realtà dei suoi oggetti, e in cui bruscamente sorge dinanzi ad esso il problema

dell’esistenza. Solo la coscienza estetica lascia davvero dietro di sé questo pro-

blema. Siccome essa fin da principio si abbandona alla pura ‘contemplazione’, sic-

come perfeziona la forma del contemplare a differenza di tutte le forme dell’agire

e in contrasto con esse, le immagini che in questo atteggiamento della coscienza

vengono abbozzate, acquistano per la prima volta un significato puramente imma-

nente. Rispetto alla realtà empirico-oggettiva delle cose esse si presentano come

“apparenza”: ma questa apparenza ha la sua propria verità, perché possiede le sue

proprie leggi. Nel ritorno a queste leggi sorge al tempo stesso una nuova libertà

della coscienza: l’immagine ora non reagisce più sullo spirito come qualcosa di

indipendente e di oggettivo, ma è diventata per esso l’espressione pura della propria

forza creatrice. (E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, op. cit., II, pp. 362-

363).

Ma è importante anche, in secondo luogo, perché la tematica del simboli-

smo implicito ci consente di comprendere finalmente in che modo Cassirer

affronta il problema che ci sta a cuore – il problema della credenza nei riti

e nei miti. Per Cassirer il simbolismo implicito ha innanzitutto una fun-

zione ovvia: possiamo parlare del sacro e possiamo pensare che sia una

realtà nella quale ci imbattiamo e che ci domina solo perché non siamo

consapevoli del fatto che il carattere della sacralità è il risultato cui conduce

un atteggiamento soggettivo, da cui solo dipende la scissione tra ciò che ci

appare carico di valore e ciò che invece appartiene alla quotidianità e al

profano. Sottolineare questo punto, tuttavia, significa anche rammentare

40 Scrive ancora Piana: «Il parlare di simbolismo implicito rimanda subito alla possibilità di una espli-

citazione – l’inconsapevolezza del rapporto ad una graduale presa di coscienza, che dovrà anche ne-

cessariamente rappresentare il superamento dialettico di quella fase dell’esperienza culturale dell’uma-nità che caratterizziamo come esperienza mitica» (G. Piana, La notte dei lampi, op. cit., p. 29).

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che il sacro ci appare come qualcosa di indipendente da noi, come il risul-

tato di una simbolizzazione implicita, appunto. Di qui la conclusione cui

tendono le nostre considerazioni: la condizione cui è vincolata la possibi-

lità di imbattersi nel sacro e di coglierlo come qualcosa che ci domina è

evidentemente la stessa che ci spinge a credere nei riti e nei miti. Solo per-

ché nel pensiero non distinguiamo l’attività simbolica dal suo risultato –

solo perché dunque il simbolismo resta implicito – è possibile credere nei

miti e nei rituali magico-mitici.

Si tratta di una constatazione importante, anche perché ci fa comprendere

quale sia la mossa che Cassirer deve compiere. Se il sacro riposa nella sua

natura sul simbolismo implicito, dobbiamo chiederci che cosa lo rende pro-

priamente possibile e quali sono le forme in cui concretamente si attua.

Rispondere a questa duplice domanda significa, per Cassirer, fare appello

innanzitutto ad una determinata immagine della mentalità primitiva che è

a sua volta giustificata da un’interpretazione letterale dei riti magici. Nei riti

magici accadono strane cose che, se prese alla lettera, sembrano parlare di

una radicale illogicità della mentalità primitiva ed è proprio questa originaria

confusione di pensiero che per Cassirer caratterizza il pensiero mitico. Al-

meno in questo, Frazer aveva ragione: i miti e la ritualità magica sono – per

Cassirer – forme di pensiero e, come tali, manifestano una loro radicale illo-

gicità. Il primitivo può credere nei suoi riti perché il simbolismo resta impli-

cito, ma il simbolismo può essere implicito perché la mentalità primitiva è

confusa e priva di acume critico – ne è talmente priva da confondere sempre

e metodicamente il simbolo con il simbolizzato, l’immagine con la cosa.

Rammentiamo la natura dei riti di guarigione: vi è innanzitutto la malattia e

vi è il desiderio di guarirla. Di qui il rito: lo sciamano desidera guarire il

malato e il desiderio si traduce in una recita in cui la malattia è colta come

un corpo estraneo – una pietra, un demone, un animale – che deve essere

allontanato dal malato. Il rito mima quest’allontanamento e inscena i gesti

con cui lo sciamano cerca di persuadere con le buone o con le cattive la

malattia a fuggire lontano dal corpo del paziente. Un rito, dunque, ma per

la mentalità primitiva – conclude Cassirer – non vi è alcuna differenza tra

la rappresentazione e la cosa e così può accadere che la recita in cui lo

sciamano mette in scena la guarigione si traduca nella certezza che la ma-

lattia sia stata effettivamente debellata.

Per la mentalità primitiva non c’è differenza tra la rappresentazione e la

cosa – il punto è tutto qui. La confusione originaria entro la quale il pen-

siero mitico si muove sembra essere interamente riconducibile a questa

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mancata distinzione. Così, in un passo del testo di Cassirer leggiamo che

nome e personalità si fondono in una cosa sola (ivi, II, p. 60) e poco più

avanti si osserva che

Nei riti di consacrazione virile e in altre simili usanze di iniziazione l’uomo riceve

un nuovo nome perché è un nuovo essere che egli acquista in quel momento (ivi,

II, pp. 60-61).

Che così stiano le cose per Cassirer è indiscutibile e in queste sue pagine è

evidente lo sforzo di mettere innanzitutto da canto come inadeguato ogni

tentativo di spiegazione metaforica dei riti. Parlare di simbolismo impli-

cito, del resto, significa proprio questo: sostenere che ciò che noi tende-

remmo a interpretare come una metafora ricca di senso e come un simbolo

è invece, per il pensiero primitivo, una verità incontestabile, una certezza

su cui si può immediatamente convenire. Tutti proviamo un certo fastidio

nel sentire storpiare il nostro nome, ma per il primitivo questo fastidio va

ben più in là di una proiezione immaginativa: per il pensiero mitico il nome

coincide con la cosa e il nomignolo deve apparire come una vera e propria

aggressione. La falsa identificazione di nome e cosa si manifesta del resto

anche quando dal segno linguistico muoviamo al segno iconico. Il mito

non distingue tra immagine e cosa e il rituale magico opera spesso così –

arrecando all’immagine ciò che si vorrebbe accadesse alla persona ritratta:

Come il nome proprio di un uomo, così anche la sua immagine è un alter ego: ciò

che accade ad essa, accade all’uomo medesimo. Così nel campo della rappresenta-

zione magica, incantesimi di immagini e incantesimi di cose non sono mai distinti

in modo netto. L’incantesimo, come può usare quale mezzo una determinata parte

del corpo umano, per es. unghie e capelli, può con lo stesso risultato scegliere l’im-

magine quale punto di partenza. Se l’immagine del nemico viene trafitta con spilli

o frecce, ciò per azione magica si ripercuote direttamente sul nemico. E come si

attribuisce all’immagine questa funzione passiva, così le va attribuita anche una

completa e attiva capacità di operare; una capacità di operare del tutto uguale a

quella dell’oggetto stesso. Un’immagine dell’oggetto modellata in cera è l’equiva-

lente dell’oggetto in essa rappresentato e produce gli stessi effetti. La stessa parte

che si attribuisce all’immagine tocca specialmente anche all’ombra di un uomo.

Anche questa è una parte realmente vulnerabile di lui; ciò che viene fatto all’ombra

viene fatto all’uomo stesso. È proibito camminare sull’ombra di un uomo, perché

così facendo si provoca nell’uomo una malattia. Di certi popoli primitivi si racconta

che quando vedono un arcobaleno tremano, perché lo ritengono una rete che è stata

tesa da un potente stregone per catturare la loro ombra (ivi, II, pp. 62-63).

Nel suo tentativo di circoscrivere le forme in cui si manifesta la confusione

originaria entro la quale si dibatte il pensiero mitico, Cassirer si sofferma

poi sulla sfera delle relazioni causali e, infine, sulla tendenza a stringere in

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una falsa identificazione tutto ciò che ha una qualche relazione con l’og-

getto stesso. Il pensiero mitico è fatto così – confonde tutto ciò che accosta

in modo vivido:

Se la conoscenza può collegare gli elementi solo in quanto li distingue gli uni dagli

altri in un solo e medesimo atto critico fondamentale, il mito invece ammassa in-

sieme tutto ciò che tocca, per così dire in un’unità indistinta. I rapporti che esso

stabilisce sono di tal natura che i termini che vengono a farne parte, non solo si

vengono a trovare in un reciproco rapporto ideale, ma sono addirittura identici fra

loro e diventano una sola e medesima cosa. […]. Se il pensiero scientifico cerca di

collegare elementi chiaramente distinti, il pensiero mitico fa in definitiva coincidere

ciò che unisce. (ivi, II, p. 93).

Si tratta di una tesi impegnativa che in fondo ci invita a sostenere che il

pensiero mitico si lascia trascinare dalla dinamica delle associazioni di

idee, in una forma che lo rende incapace di tracciare alcuna solida distin-

zione. La parte viene confusa con il tutto, il simile con il simile, ciò che

solitamente le si accompagna con la cosa stessa e in questo dissolversi di

ogni distinzione chiara ed in questo perdersi delle regole del mondo obiet-

tivo nei capricci delle associazioni immaginative, Cassirer vede la specifi-

cità del pensiero mitico e insieme la possibilità di prendere davvero alla

lettera gli strani riti che lo occupano. Così Cassirer ci assicura che per il

pensiero primitivo non vi è distinzione, ma anzi «perfetta connessione […]

fra tutto ciò che, in base ad analogie puramente esteriori (vicinanza spa-

ziale, appartenenza a uno stesso gruppo di oggetti), viene considerato “af-

fine” (ivi, II, p. 76) e che questa tesi è chiaramente implicata dalla natura

dei rituali che animano le culture primitive. Per il pensiero primitivo

lasciare gli avanzi di un pasto o le ossa di animali, di cui si sia mangiata la carne, è

estremamente pericoloso, poiché tutto ciò che viene compiuto su questi avanzi per

opera di ostili atti magici, viene subito anche dal cibo nel corpo, e quindi da chi lo

ha mangiato. I capelli tagliati di un uomo, le sue unghie o i suoi escrementi debbono

venir nascosti sotto terra oppure esser distrutti col fuoco affinché non cadano nelle

mani di uno stregone nemico. Presso certe tribù di Indiani lo sputo di un nemico, se

si riesce ad averlo, viene chiuso in una patata che viene messa ad affumicarsi: a

misura che questa si secca al fumo, anche le forze del nemico si dileguano con essa

(ivi, II, p. 76).

Non è difficile comprendere come all’origine delle riflessioni che Cassirer

ci invita a condividere vi sia una tesi che abbiamo già formulato: per Cas-

sirer i miti e i riti debbono essere presi alla lettera.

Ora, per molti versi questa tesi sembra dubbia. Per farmi uno scherzo, mi

chiami con un nomignolo che mi infastidisce o storpi ad arte il mio co-

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gnome (ed è abbastanza facile): la cosa mi innervosisce, ma debbo per que-

sto sostenere che non distinguo il nome dalla persona? L’innamorato bacia

il ritratto dell’amata – la confonde con la fotografia che ha tra le mani? Un

vecchio orologio mi ricorda una persona che è morta e lo guardo con ma-

linconia – lo confondo con lei? A tutte queste domande sembra necessario

rispondere di no – è ovvio. Così come è ovvio che i nostri riti possono

essere condivisi senza per questo immergersi nelle strane equazioni che,

per Cassirer, contraddistinguono il pensiero mitico. Pensiamo al rito di sfo-

gliare i vecchi album di fotografie; si tratta di un rito importante e molte di

quelle foto significano molto per noi e ci fanno pensare a molte cose che

riteniamo importante ricordare insieme ad altre persone. Se qualcuno sfo-

gliasse malamente quelle pagine lo rimprovereremmo e reagiremmo male

se qualcuno strappasse volontariamente una fotografia o mostrasse anche

soltanto di non averne alcuna cura: se però poi tu mi chiedessi se reagisco

così perché confondo l’immagine con ciò che raffigura, ti guarderei a mia

volta stupito perché non è affatto chiaro come sia possibile confondere per-

sone che si conoscono bene con dei piccoli ritagli di carta colorata. Una

simile confusione per noi è impossibile, ma per il pensiero primitivo? Pos-

siamo pensare che i primitivi confondessero le ombre con le persone e il

nome con la cosa? Si può davvero credere che il mondo, così come la co-

scienza mitica lo esperisce, sia così improbabile e così diverso dal nostro?

Insomma, il pensiero primitivo come Cassirer lo disegna è davvero un pen-

siero selvaggio – un po’ troppo selvaggio, vien quasi da dire. E viene da

chiedersi come sia possibile che i nostri antenati siano riusciti a sopravvi-

vere, nonostante la loro intelligenza e la loro immaginazione.

Non vi è dubbio che Cassirer si renda ben conto di questi problemi, ma

ritiene che non sia possibile venirne a capo sostenendo che anche per gli

antichi i riti avevano una valenza simbolica. Non è possibile farlo perché

nei riti magici e nei miti gli antichi credevano. Il punto è tutto qui: il malato

si affida allo sciamano e crede che le sue danze e le sue formule magiche

sappiano scacciare la malattia e convincerla ad abbandonare il suo corpo.

Ma se crede questo e se si affida ad un’arte tanto dubbia, deve credere a

molte altre cose: deve pensare che la malattia abbia orecchie per ascoltare

lo sciamano e deve confondere la rappresentazione della guarigione con il

suo avere luogo. Una credenza implica l’altra e se c’è una deve esserci

anche l’altra.

«Ma se puoi credere a questo, a che cos’altro credi?» – qualche volta

reagiamo così, quando rimaniamo perplessi nel constatare che qualcuno

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ritiene plausibile una tesi che per noi è del tutto inconcepibile. Cassirer ci

invita in fondo a fare la stessa cosa. Se qualcuno crede di poter colpire un

nemico distruggendo una sua immagine, allora deve credere molte altre

cose: un errore di questa natura si spiega soltanto se ne ha altri alle spalle.

Il pensiero primitivo deve così farsi carico di quelle improbabili equazioni

che sono per Cassirer il tratto che contraddistingue «il carattere della co-

scienza mitica dell’oggetto» – come recita il titolo del primo capitolo del

secondo volume della Filosofia delle forme simboliche. E se ci si pone in

questa luce, la tesi del simbolismo implicito deve apparirci come un’ovvia

conseguenza delle cose che abbiamo detto sin qui. Il pensiero primitivo

non può, per Cassirer, assumere le forme conclamate della pazzia e un fi-

losofo trascendentale non può certo ritenere che la ragione sorga ad un

certo momento della storia dell’uomo. I primitivi, dunque, non hanno

un’altra logica, ma sono vittime della vivacità del loro esperire e del loro

immaginare. Nei riti e nel mito è la logica dell’immaginazione che si ma-

nifesta – una logica che conosciamo bene anche noi, uomini civili, ma il

primitivo ascolta le voci della propria coscienza senza saperle discriminare

e discernere. Come noi usa metafore e metonimie, ma non se ne rende

conto. Si avvale di simboli, ma lo dimentica. Immagina, ma non sa di im-

maginare – il suo è appunto un simbolismo implicito.

Cassirer ragiona così, ma è opportuno riflettere un per saggiare la validità

delle sue argomentazioni, al di là del fascino che sanno esercitare sul let-

tore. Un primo quesito concerne il punto da cui muovono le analisi che

Cassirer ci propone: da quella distinzione tra sacro e profano che, a suo

avviso, costituisce l’antitesi fondamentale del pensiero mitico, la distin-

zione che attraversa per intero i contenuti della sua esperienza. Su questo

punto per Cassirer non vi sono dubbi:

ogni essere, ogni accadere viene proiettato nell’antitesi fondamentale di “sacro” e

di “profano” e acquista in questa proiezione un nuovo significato che esso non “ha”

fin da principio, ma che gli deriva soltanto da questa forma di riflessione, da questa

“luce” sotto la quale il mito lo pone (ivi, II, p. 110).

Da una parte vi è il sacro, dall’altra il profano e questa distinzione riguarda

ogni possibile contenuto e attraversa per intero la nostra esperienza,

quando l’osserviamo attraverso le lenti della coscienza mitica. Cassirer

dice così – ma a ben guardare è dubbio che le cose stiano in questo modo.

Una prima constatazione sembra essere relativamente ovvia. Ciò che è pro-

fano può dirsi così soltanto in relazione con il sacro; dire che qualcosa non

merita di essere detto sacro, tuttavia, non significa eo ipso asserire che sia

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profano. Normalmente non ci esprimiamo affatto così e per due differenti

ragioni.

La prima è che non sembra poi vero che la coscienza mitica possa esten-

dere i suoi responsi alla totalità degli oggetti. Se mi faccio un caffè, non

faccio di nulla di sacro: questo è ovvio. Ma non faccio nemmeno nulla di

profano: mi faccio soltanto un caffè, ecco tutto. Il caffè appartiene alla mia

quotidianità e non ha alcun senso chiedersi in che relazione stia con il sacro

perché con il sacro non stringe alcuna peculiare relazione e quindi nem-

meno con il profano. Ma ciò è quanto dire che l’antitesi fondamentale del

pensiero mitico non può essere semplicemente intesa come se attraversasse

per intero il nostro mondo. La coscienza mitica (se davvero vi è qualcosa

che è designato da questo nome) non è una forma di esperienza che ab-

bracci ogni e qualsiasi oggetto. La distinzione tra sacro e profano è una

distinzione importante, ma non è omnipervasiva: si staglia infatti sulla no-

stra quotidianità che è comunque presupposta.

Siamo ricondotti così alla seconda ragione cui alludevamo. Si può parlare

del profano solo se ci si mette nella prospettiva del sacro; questa prospet-

tiva, tuttavia, sembra essere tutt’altro che necessaria: non sempre i feno-

meni ci appaiono alla luce della categoria del sacro. Tutt’altro: normal-

mente ci muoviamo su un terreno che non è toccato dall’antitesi fondamen-

tale su cui Cassirer ci invita a riflettere. Prima di apparirci profani, gli og-

getti e gli eventi di cui abbiamo esperienza ci si danno nella loro familiarità

e quotidianità – questo è il punto.

Ora, sostenere che le cose sono – prima che profane – semplicemente

quotidiane sembra essere un’osservazione ragionevole, ma non molto si-

gnificativa. Le cose mutano (e la questione acquista un significato rile-

vante) se ci chiediamo se non si possa sostenere che l’antitesi sacro-pro-

fano presuppone la quotidianità e in generale la normalità del nostro mondo

della vita. Abbiamo già visto che per Cassirer le cose non stanno così. A

suo avviso, sacro e profano sono categorie originarie che non hanno come

presupposto il nostro mondo della vita e la trama delle sue regole. Il sacro

e il profano non dipendono da altro se non dall’operare della nostra co-

scienza: il pensiero mitico proietta sui materiali sensibili questa sua radi-

cale antitesi e non vi è nulla che non possa apparirci ora sacro, ora profano.

La ragione ci è nota: il sacro non è un caratteristica degli oggetti o dei

materiali esperiti, così come lo sono il colore o la pesantezza, ma è piutto-

sto l’eco dell’atteggiamento soggettivo che accompagna la loro esperienza.

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Vi è percezione del sacro quando la coscienza si sente sopraffatta ed affa-

scinata; al contrario, il profano si dà tutte le volte in cui la coscienza non

si lascia dominare dal materiale esperito che, proprio per questo, gli appare

privo di quel crisma di eccezionalità che sembra essere la cifra peculiare

del sacro. Scrive Cassirer:

Ogni dato dell’esistenza, per quanto ordinario esso sia, può acquistare il carattere

proprio del sacro, non appena si venga a trovare sotto la specifica visuale mitico-

religiosa, non appena – invece di rimaner legato all’usuale cerchia dell’accadere e

dell’operare – attiri e susciti con particolare forza da qualche lato l’interesse mitico.

Il carattere del “sacro” non è quindi fin da principio limitato a determinati oggetti e

gruppi di oggetti, ma ogni dato, per quanto “indifferente” esso sia, può improvvi-

samente partecipare di questo carattere. Non una determinata natura oggettiva, ma

un determinato riferimento ideale è ciò che viene da esso indicato. Anche il mito

quindi comincia a introdurre determinate differenze nell’essere indistinto e “indif-

ferente”, a distinguerlo in determinate sfere significative. Anch’esso rivela la sua

facoltà di conferire forma e significato, interrompendo l’uniformità e l’omogeneità

dei contenuti della coscienza, introducendo in quest’uniformità determinate distin-

zioni di “valore” (ivi, II, p. 110).

Cassirer dice così e ci invita a pensare che la chiave di volta della sacralità

riposi interamente in un atteggiamento soggettivo di affascinato stupore, ma

non è affatto chiaro per quale ragione un qualsiasi contenuto possa determi-

nare una simile reazione della soggettività. Il sacro si manifesta quando la

coscienza mitica si lascia sopraffare e dominare dal dato – perché ciò talvolta

accada e talvolta non accada il testo però non lo dice. Cassirer, come ab-

biamo osservato, sottolinea in più punti il carattere di eccezionalità del sacro,

ma questo tratto così peculiare sembra essere ambiguamente sospeso tra la

sfera delle cause e la sfera degli effetti. L’eccezionalità ci appare innanzi-

tutto come un effetto: proprio perché la coscienza si lascia dominare e as-

solutizza il proprio contenuto, proprio per questo ciò che esperisce ci ap-

pare come sacro ed eccezionale insieme. Ne segue che il sacro, il magico

o l’eccezionale altro non sono che i diversi accenti in cui una stessa nozione

si manifesta.

Al linguaggio che tende ad interpretare il carattere di eccezionalità come

un effetto dell’atteggiamento che la soggettività assume fa da contrappunto

la prospettiva delle cause che tende invece ad ancorare la reazione sogget-

tiva ad una specificità dell’oggetto percepito e basta guardare gli esempi

che Cassirer ci propone per rendersi conto che la coscienza mitica si lascia

dominare e affascinare solo da ciò che si dà come uno scarto dalla norma

– da ciò che è in se stesso eccezionale prima di ogni valutazione soggettiva.

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E come potrebbe essere altrimenti? Come potrebbe la coscienza mitica la-

sciarsi sopraffare da qualsiasi cosa e da qualsiasi circostanza?

Pensiamo alle forme in cui si manifesta l’esperienza mitica dello spazio.

A questo tema Cassirer dedica pagine molto belle che ci invitano a cogliere

come, per il pensiero mitico, lo spazio assuma innanzitutto un valore in

quanto viene ad orientarsi secondo la direzione del sorgere e del tramontare

del Sole e secondo i valori della vicinanza e della lontananza dal luogo in

cui siamo e abitiamo. Lo spazio si fa sacro per questo: perché impariamo a

contrapporre alla trama omogenea della spazialità un insieme di punti e di

direttrici che hanno una loro eccezionalità. Ora, il pensiero primitivo è do-

minato dalla centralità della vita e non può non cogliere nel Sole uno dei

fondamenti intorno a cui ruota l’esistenza umana. Di qui la peculiare arti-

colazione dello spazio che il pensiero mitico viene delineando: nella strut-

tura omogenea dei possibili orientamenti, il pensiero mitico sancisce la

centralità del tragitto che il Sole compie nel cielo e organizza lo spazio

accordando a quell’orientamento un valore mitico.

Ma se le cose stanno così, allora anche in questo caso si deve riconoscere

che la condizione prima del sacro è l’eccezionalità: qualcosa deve sem-

brarci irriducibile alla norma degli eventi per poter “affascinare la co-

scienza e sopraffarla” – per dirla con le immagini di cui Cassirer si avvale.

Ne segue che la possibilità di essere colpiti da un evento e di coglierne

l’eccezionalità e la sacralità implica per contrasto la percezione di una

norma: il mondo del quotidiano con la sua trama regolare di eventi e con

la sua medietà è dunque necessariamente presupposto dalla coscienza del

sacro. Prima del sacro e del profano, prima della coscienza mitica e del suo

strutturare la nostra esperienza, rilevando gli aspetti carichi di valore vi è

già il mondo della vita che fa da norma e che fissa il criterio rispetto al

quale soltanto è possibile misurare l’eccezionalità di ciò che pretende per

sé un’attenzione peculiare.

Su questo punto del resto già soffermati, quando abbiamo discusso della

categoria del magico. Un evento magico o miracoloso è un evento che ac-

cade nonostante le leggi della natura e che può essere spiegato soltanto

accettando che per un attimo vi siano state altre regole capaci di influenzare

il corso delle cose: la volontà di un mago, il disegno provvidenziale di un

dio, l’astuzia di un demone. Così, non parleremo affatto di una magia se

un calice di cristallo cade a terra e si rompe e nemmeno se stranamente

restasse integro perché ciò che è improbabile può talvolta accadere, ma

diremmo che qualcosa di magico è accaduto se, in seguito a un gesto o a

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una parola pronunciata da un mago, quel calice cadesse a terra e rimbal-

zasse sul pavimento per tornare sul tavolo da cui l’avevamo fatto sbadata-

mente cadere. Ma se le cose stanno così, se la categoria del magico abbrac-

cia quella categoria di eventi per cui non abbiamo una spiegazione natu-

rale, allora si deve riconoscere che per poter parlare del magico debbo

avere già ben chiara la trama delle normali relazioni causali. Le magie,

proprio come i miracoli, hanno bisogno di una norma stabilita – ne hanno

bisogno per poterla momentaneamente infrangere.

Riconoscere che la magia ha come suo presupposto la convinzione che il

mondo sia retto da una trama ordinata di relazioni causali non vuol dire

soltanto prendere le distanze dalla tesi dell’originarietà dell’antitesi sacro-

profano, ma vuol dire anche comprendere che la tesi della confusione ori-

ginaria della mentalità primitiva è lungi dall’essere plausibile. Per Cassirer,

il pensiero primitivo è un pensiero che si aggira tra vaghe analogie e che si

lascia trarre in inganno dalle associazioni di idee sino al punto di confon-

dere ciò che è davvero possibile confondere solo nelle pagine di una filo-

sofia idealistica: il selvaggio confonde il nome con le cose, l’uomo con la

sua ombra, la realtà con l’immagine, un evento con ciò che gli è in qualche

modo strettamente connesso. Che le cose tuttavia non stiano così è un fatto

che dovrebbe ora sembrarci del tutto ovvio: se il magico e il sacro presup-

pongono la struttura normale della nostra esperienza e del mondo, allora

non possiamo porre alla radice del pensiero primitivo quei fraintendimenti

che Cassirer ritiene invece necessario e ovvio porvi. Per quanto possa sem-

brare paradossale, la possibilità di agire magicamente sulla malattia con-

vincendola ad abbandonare il corpo del paziente ha come suo presupposto

la certezza che normalmente non sia affatto sufficiente intimare ad un do-

lore di andarsene per essere esauditi nei nostri desideri. Tutt’altro: il ma-

lato sa bene che normalmente non si può convincere la malattia ad andar-

sene perché le malattie sono cose che capitano e non persone che ci ascol-

tano. Il malato lo sa bene, ed è per questo che per convincere la malattia

ad andarsene ritiene di potersi affidare soltanto alla magia: solo un mago

può farsi ascoltare da qualcosa che non ha orecchie e che non parla la nostra

lingua.

Certo, si potrebbe forse insistere sul fatto che il pensiero primitivo si

muove sul terreno del simbolismo implicito e che non ha affatto bisogno

di presupporre esplicitamente ciò che è richiesto dall’applicazione del con-

cetto di magia o di sacralità. Il malato desidera guarire e il suo desiderio lo

rende certo del fatto che la danza che viene fatta davanti ai suoi occhi lo

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guarirà, proprio come potrebbe fare una buona aspirina. Crede nella magia,

ma forse non crede affatto che sia magia – non ha bisogno di riconoscerla

come tale per credervi e non deve quindi coglierla nel suo senso sullo

sfondo della trama normale del mondo.

Si potrebbe forse ragionare così, ma non vi è dubbio che non è questo

l’atteggiamento che sorregge il pensiero primitivo nel suo affidarsi alla ri-

tualità magica. Il malato che pretende di guarire – e che non sa come altri-

menti curarsi – si affida a uno sciamano, a una persona che è ritenuta ec-

cezionale perché eccezionale in due diverse accezioni del termine è

l’evento che deve accadere: è eccezionale perché ne va della sua vita ed è

eccezionale perché la guarigione deve essere ottenuta per mezzo di un agire

che non si ferma alle condizioni concrete cui sono normalmente vincolate

le nostre azioni. Quella che deve essere compiuta è una magia perché solo

dalla magia si può attendere la soluzione di un compito che supera le ca-

pacità pratiche di una società data.

Del resto, il carattere magico dell’operare dello sciamano si manifesta

anche nel carattere apertamente rituale del suo operato. Lo sciamano non

agisce realmente, ma mette in scena le sue azioni: recita la lotta contro gli

spiriti maligni e finge di scacciarli dal corpo malato. Finge di trovare la

pietra che è entrata nel corpo del malato e recita i gesti che sarebbero ne-

cessari a rimuoverla. Le sue azioni hanno la forma fenomenologica del

come se e i componenti della tribù che assistono al rito di guarigione non

possono non rendersene conto: vedono che ciò che lo sciamano finge di

trovare non c’è e non possono ingannarsi sulla natura mimica dei gesti che

si dispiegano di fronte al loro sguardo.

Lo vedono o, più propriamente, debbono vederlo, perché la possibilità di

attribuire ai gesti dello sciamano una valenza magica fa tutt’uno con l’esi-

genza di disporli su un terreno che non è quello della consueta operatività.

Così, non è un caso se per compiere un rito sacro è necessario uno sciamano

o un sacerdote e sono necessarie maschere e paramenti sacri e luoghi cul-

tuali: di tutto questo armamentario vi è bisogno perché la prassi magica deve

potersi contraddistinguere dall’agire reale perché solo in questa sua diffe-

renza sembra aprirsi lo spazio che rende possibile la sua operatività non na-

turale. Il selvaggio sa bene di non poter fare nulla per far piovere: la pioggia

non dipende realmente dalle sue azioni. Potrebbe tuttavia dipenderne ma-

gicamente; di qui la necessità di optare per una prassi rituale: la pioggia

può essere ottenuta danzando, perché nella danza si esprime un agire sim-

bolico che non si dispone affatto sul piano di una concreta operatività, ma

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sul terreno del magico. Si parla al cielo in una lingua che forse potrebbe

comprendere, sperando poi che abbia voglia di ascoltare.

Non facciamo che trarre una conseguenza diretta delle considerazioni

che abbiamo appena proposto se osserviamo che, a dispetto di ciò che Cas-

sirer ritiene, non è affatto possibile prendere alla lettera i riti e che in ge-

nerale ogni tentativo di cancellare dal rituale la presenza di un momento

apertamente simbolico conduce ad una sostanziale negazione del suo

senso. Il rito è necessariamente e consapevolmente simbolico perché deve

porsi appunto come un rito magico che pretende per sé un’operatività che

non si dipana sul terreno reale. Ma ciò è quanto dire che la tesi del simbo-

lismo implicito, cui nella sua filosofia della mitologia Cassirer attribuisce

un’importanza tanto rilevante, è di fatto insostenibile: disporre la dimen-

sione della ritualità sul piano di un simbolismo inconsapevole vorrebbe

dire infatti cancellare la pretesa del rito di disporsi su un terreno altro – il

terreno del magico, appunto. Il rito deve avere una forma particolare perché

la sua efficacia deve essere particolare; i suoi gesti debbono appartenere

alla dimensione ludica della recita perché la loro efficacia non può essere

l’efficacia pratica dell’agire reale: disporsi sul terreno del simbolismo im-

plicito e cancellare quindi la consapevolezza del carattere rituale delle ope-

razioni magiche vorrebbe dire cancellarne non soltanto il senso e la speci-

ficità, ma anche la ragione in base alla quale soltanto possono essere cre-

dute e ritenute efficaci.

Del resto che quanto si chiede allo sciamano e allo stregone non possa

collocarsi sul terreno reale della prassi e debba essere colto come qualcosa

che appartiene ad un diverso registro dell’operatività lo si comprende non

appena si osserva che l’effettuazione della prassi magica non esclude af-

fatto, ma anzi spesso implica un impegno concreto che non può essere la-

sciato da canto. La cerimonia magica che lo sciamano inscena quando tra-

figge l’immagine del nemico con spine non impedisce affatto ai membri

della tribù di armarsi per proprio conto: l’agire magico non nega la legitti-

mità delle azioni reali, ma spesso anzi la implica perché è evidente che la

dimensione empirica dell’agire non può essere trascurata perché è da essa

che dipende fattualmente il risultato che si vuole ottenere. I rituali che pro-

mettono una caccia abbondante non bastano per catturare la selvaggina ed

è per questo che si costruiscono archi e frecce e ci si addestra nel loro uso;

il superstizioso che, per scaramanzia, indossa lo stesso vestito ogni volta

che deve fare un esame non si accontenta di questo gesto, ma sa che deve

anche studiare. Una cosa non esclude l’altra e ognuna va fatta perché è a

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suo modo utile – così sembra ragionare chi si affida ai rituali.

Insomma: anche se il rituale magico presenta il desiderio già realizzato –

la selvaggina catturata e uccisa, il nemico colpito a morte, la malattia de-

bellata – non per questo il primitivo rinuncia ad agire, mostrando che è da

un lato pienamente consapevole del carattere simbolico della prassi rituale

e che, dall’altro, non è affatto vittima degli strani fraintendimenti che Cas-

sirer gli imputa. Il malato vede che lo sciamano recita la guarigione e non

confonde ciò che vede con ciò che spera; lo stregone che uccide in effigie

il nemico sa bene che è ancora in vita e per questo si arma insieme con i

guerrieri della tribù; lo sposo indiano che, ripetendo la formula della iero-

gamia, dice alla sposa «Io sono il cielo e tu sei la terra» sa bene che le cose

in un senso ovvio del termine non stanno affatto così e che questo suo sa-

pere è parte integrante del senso profondo della sua affermazione.

Di qui la conclusione cui le nostre riflessioni miravano: Cassirer sbaglia

nell’attribuire al pensiero primitivo le false equazioni che derivano dal

prendere alla lettera i rituali magico-mitici e sbaglia nel ritenere che sia

possibile venire a capo del problema della credenza nei riti e nei miti di-

sponendosi sul terreno aperto dalla tesi del simbolismo implicito. Non si

può pensare che il pensiero primitivo si costruisca un’immagine tanto falsa

del mondo e non lo si può pensare perché se così fosse, non potrebbe nem-

meno rapportarsi alla dimensione magico-mitica attribuendole il senso che

pure le compete. Una stessa considerazione vale anche per la tesi del sim-

bolismo implicito che non può non apparirci in questa luce come frutto di

un fraintendimento di cui occorre liberarsi perché di fatto preclude la com-

prensione del senso del rituale e anche del livello su cui si situa la sua pre-

sunta operatività.

Cassirer sbaglia, ma questo ancora non significa che si possa già dare

una risposta al quesito che nelle sue pagine trova una risposta: come è pos-

sibile che si creda ai riti magici e ai miti anche se si è consapevoli del loro

carattere rituale e immaginativo? A questa domanda dobbiamo ancora cer-

care di rispondere.

4. I riti e la funzione di cornice

Le considerazioni che abbiamo appena svolto intendevano mostrare quali

fossero, a mio avviso, le ragioni per prendere le distanze dalla filosofia

della mitologia di Cassirer. Queste critiche vertevano in fondo su un unico

punto: volevano mostrare come non sia vero che il disporsi sul terreno della

ritualità magica abbia come suo correlato la negazione del sistema delle

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credenze che normalmente sostengono la nostra prassi. Le cose non stanno

così: chi trafigge un fantoccio per ferire un nemico non confonde l’imma-

gine con la cosa e sa bene di avere tra le mani un ritratto e non un uomo in

carne ed ossa. Tutto questo lo sa bene ed è per questo che crede che ci sia

bisogno della magia per ottenere il fine che si prefigge. Per colpire il ne-

mico quando il nemico c’è occorre un arco e una mira sicura; per colpirlo

quando è assente c’è bisogno di un mago e di qualcos’altro – di un’imma-

gine, di un pupazzo o anche soltanto di un oggetto che appartenga alla vit-

tima designata.

Tutto questo è ben chiaro per la coscienza primitiva che è dunque molto

meno primitiva di quel che Cassirer pretende: su questo tema ci siamo già

soffermati. Non abbiamo invece ancora riflettuto su come sia tuttavia pos-

sibile che possano convivere in un’unica persona credenze così diverse

come quelle che sottendono la prassi magica e quelle che ci guidano taci-

tamente nella vita di tutti i giorni. Che un problema vi sia è difficile ne-

garlo: se quanto abbiamo detto sin qui è plausibile, il malato si aspetta

qualcosa da una prassi da cui solitamente non si attenderebbe proprio nulla.

Crede che si possa ottenere qualcosa di importante per la sua vita attraverso

gesti e formule che non sembrano in linea di principio accedere al terreno

concreto dell’operatività. Per dirla con un paradosso: chi crede alla magia

crede a quello cui normalmente si vieta di credere. Ed è questo paradosso

che dobbiamo tentare di risolvere.

Ora, un primo modo per venire a capo di questo problema – e per pren-

dere le distanze dal modo in cui Cassirer procede – consiste nel sottolineare

esplicitamente che la prassi rituale è caratterizzata nel suo complesso da un

insieme di procedure di segregazione che la separano nettamente dall’oriz-

zonte consueto del vivere e che le consentono di tacitare, senza per questo

dover negare, le credenze che appartengono comunque alla dimensione del

mondo della vita41.

Che la prassi rituale abbia tra i suoi momenti costitutivi la posizione di

una molteplicità di procedure di segregazione che ci aiutano a distinguerla

dal corso normale degli eventi è difficilmente negabile. Lo sciamano in-

dossa maschere che lo rendono irriconoscibile, il sacerdote veste abiti da

41 Il guerriero si affida alle arti dello sciamano e crede che i suoi gesti e le sue formule magiche possano

consentirgli di sconfiggere il nemico, ma non per questo smette di credere che per ferire un uomo è

necessario colpirlo e che risultati reali seguono ad azioni reali: ai riti si crede, ma le credenze rituali si

sovrappongono silenziosamente alle certezze del mondo della vita che continuano a farsi valere come una sorta di basso continuo che accompagna ogni agire e ogni ulteriore riflessione.

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cerimonia che lo distinguono da ogni altra persona normale, e i gesti

dell’uno e dell’altro sono vincolati ad un cerimoniale che ci impedisce di

confonderli con i gesti consueti. I gesti magici hanno la consistenza pecu-

liare dei gesti teatrali: sono da un lato esemplari, dall’altro privi di una

concreta efficacia. Un discorso analogo vale per il linguaggio: lo sciamano

affida a formule i suoi tentativi di persuadere (per esempio) la malattia ad

abbandonare il malato e in generale i rituali magici sono caratterizzati

dall’impiego di parole che sono solo in parte riconducibili al linguaggio

quotidiano. La ragione di questo modo di procedere è chiara: la prassi ri-

tuale deve porre tra sé e il mondo una cesura che consenta di separare le

credenze che ci accompagnano nel mondo della vita dalle credenze cui

dobbiamo assoggettarci per penetrare nell’universo rituale.

Non facciamo altro che approfondire quest’ordine di considerazioni se

constatiamo le molte analogie che legano la dimensione rituale alla dimen-

sione teatrale. In fondo i rituali magici sembrano per molti versi simili alla

dimensione della teatralità: lo sciamano mette in scena il desiderio di gua-

rigione, i suoi gesti hanno la dimensione teatrale di un agire soltanto insce-

nato, le parole ripetono un copione e proprio come a teatro i rituali magici

si aprono una nicchia spaziale e temporale all’interno del continuum del

mondo. Una differenza essenziale, tuttavia, permane: quando guardiamo

uno spettacolo teatrale siamo immersi nella vicenda narrata, la prendiamo

sul serio e ci facciamo coinvolgere da ciò che per noi si recita, ma non per

questo crediamo che la vicenda narrata abbia realmente luogo. Nel caso

della magia, invece, alla messa in scena teatrale fa da contrappunto la con-

vinzione che ciò che si recita davanti ai nostri occhi abbia comunque un’ef-

ficacia e possa essere creduto. Lo sciamano recita, ma il rito di guarigione

che inscena deve avere comunque un effetto reale: dalla messa in scena

della guarigione ci si attende che curi qualcosa di più che una malattia sol-

tanto recitata – questo è chiaro. Così, laddove la distinzione teatrale tra

scena e platea sostiene la finzione e protegge il carattere immaginativo

della recita dalle pretese della realtà, nel caso della prassi magica le ma-

schere, il cerimoniale e la studiata drammaticità dei gesti sono chiamati a

distinguere l’orizzonte normale del nostro agire e delle nostre convinzioni

dall’eccezionalità delle credenze che competono al rito. E in questo se-

condo caso la possibilità di tracciare una cesura è molto più problematica.

L’arco di scena distingue due mondi che non hanno nulla in comune: sul

palcoscenico si recita una vicenda che “è” solo nella narrazione che ci

viene proposta e che non chiede di essere in alcun modo creduta. Ma ciò è

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quanto dire che la cornice teatrale ha soltanto il compito di dire con chia-

rezza dove corre il confine che separa la realtà, che deve essere creduta,

dalla narrazione che non pretende di esserlo. Diversamente stanno le cose

nel caso dei rituali magici: qui la cornice distingue due differenti sistemi di

credenze che tuttavia si rivolgono ad uno stesso mondo e ad una stessa

famiglia di eventi. In questo caso, dunque, non è affatto ovvio che le pro-

cedure di segregazione possano davvero separare ciò che in qualche modo

distinguono.

Cerchiamo di riflettere più approfonditamente su questo tema. Il rito trac-

cia intorno a sé una cornice, ma non è chiaro come questo possa bastare

per impedire alle credenze di confrontarsi e di entrare in conflitto. Pro-

viamo a chiederci come stiano le cose quando, per esempio, ad essere chia-

mati in causa sono credenze che si riferiscono ad uno stesso campo ogget-

tuale, ma che pure tendono a rimanere separate le une dalle altre, senza che

si avverta necessariamente il bisogno di confrontarle e di armonizzarle.

Pensiamo per esempio alle cornici che sorgono in virtù di interessi teorici

che ci impediscono – per il tempo in cui ci facciamo guidare da essi – di

condividere il linguaggio quotidiano e che ci costringono all’interno di un

sistema codificato di credenze. Così stanno le cose per il sistema articolato

di credenze che siamo chiamati a condividere quando ci impegniamo sul

terreno della ricerca scientifica. Se mi dispongo nella cornice cognitiva

della fisica teorica, la distinzione tra spazio e tempo che normalmente trac-

ciamo (e con essa infinite altre distinzioni) dovrà necessariamente appa-

rirmi ingenua e, in ultima analisi, improponibile; ciò non toglie tuttavia che

anche il fisico più scrupoloso non si atterrà affatto ai precetti teorici che la

fisica gli insegna e della cui verità è pienamente convinto quando, termi-

nato il lavoro, farà ritorno a casa e parlerà con i suoi familiari o con gli

amici. Come fisici teorici sappiamo bene quanto sia inappropriato il lin-

guaggio del senso comune, ma nella vita di tutti i giorni chiudiamo volen-

tieri un occhio su quelle inesattezze e abbiamo molte buone ragioni per

farlo. Anche se, misurato con il metro della verità scientifica, il linguaggio

quotidiano si rivela inesatto, non per questo avvertiamo il bisogno di aprire

un varco nella cornice che circoscrive le verità delle scienze e che ci impe-

disce di farle valere al di là dell’ambito dell’indagine scientifica, nella

prassi consueta di tutti i giorni. Vi sono dunque cornici che hanno una va-

lenza cognitiva – o almeno questo è quanto sembra risultare da queste con-

siderazioni. Di qui il passo che siamo invitati a compiere: dobbiamo chie-

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derci se possiamo venire a capo della cesura che separa le credenze magi-

che dalle credenze della quotidianità a partire da considerazioni analoghe

a quelle nelle quali ci siamo imbattuti discutendo della cornice che separa

le credenze scientifiche dalle credenze del mondo della vita.

Non è difficile rendersi conto che nei due casi di cui discorriamo la so-

miglianza è soltanto parziale. Lo scienziato sa bene che non ha senso far

valere le verità obiettive della fisica nella quotidianità del discorso e vede

bene quali sono le ragioni che consigliano di mantenere distinti il mondo

della vita e il mondo della scienza, ma questo non toglie che vi sia una

risposta univoca alla domanda concernente la verità di quelle credenze:

vere sono le credenze nel mondo così come le scienze lo delineano e di

fatto il cammino che conduce dal mondo della nostra esperienza al mondo

della realtà obiettiva delle scienze è appunto tracciato dalla necessità di

ancorare le nostre credenze ad un sistema sempre più solido e articolato di

ragioni. Le verità del mondo della vita possono essere irrinunciabili ed è

plausibile sostenere che non sia possibile fare a meno del linguaggio del

senso comune, ma ciò non toglie che sappiamo bene (o che dovremmo sa-

per bene) che la verità appartiene al campo delle scienze e che non abbiamo

ragioni per sostenere che il mondo sia così come lo percepiamo e non così

come la scienza ci insegna a pensarlo.

Le cose stanno diversamente nel caso della cornice che circoscrive la

prassi magica: in questo caso il discrimine non separa due differenti livelli

di credenze che sono comunque già ordinate gerarchicamente, ma corre tra

credenze che appartengono a due ordini di “verità” inconciliabili. Se qual-

cuno pensa che abbia un senso trafiggere un’immagine per colpire la per-

sona raffigurata non crede ad un ordine di verità che si collochi su di un

livello più alto o più basso del sistema di verità che dominano l’orizzonte

del mondo della vita: crede semplicemente ad un insieme di tesi che sono

apertamente inconciliabili con ciò cui normalmente crede. Così, se è rela-

tivamente facile comprendere come mai si possa chiudere un occhio sulla

provvisorietà delle verità del mondo della vita e come possa una cornice

circoscrivere le verità della scienza, sconsigliandoci di farle valere anche

sul terreno della quotidianità, è più complesso capire che cosa possa tenere

separati due universi inconciliabili del credere come quello che si esprime

nella magia e quello che ci sostiene quotidianamente nella nostra prassi.

Dobbiamo dunque cercare una via differente per tentare di dare una ri-

sposta al nostro problema – una via che ci costringe a fare un passo indietro

per interrogarci su quali siano i comportamenti da cui la prassi magica trae

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216

origine.

5. Un passo indietro

Nel paragrafo precedente ci siamo convinti della necessità di compiere un

passo indietro: per poter meglio rispondere al problema che ci siamo posti

è forse opportuno mettere da canto il problema della credenza e riflettere

su una serie di comportamenti in cui il momento della credenza è del tutto

assente, ma è invece presente il momento della ritualizzazione e in una

forma e in un modo che rammenta da vicino i rituali magici.

Quali siano queste situazioni e questi comportamenti non è difficile mo-

strarlo. Qualche volta capita anche a noi, uomini disincantati del XXI se-

colo, di incrudelire con una penna sulla fotografia di una persona che ci è

sgradita: ci divertiamo a farlo e forse proviamo nel farlo un gusto maligno.

Gesti simili si fanno e li abbiamo fatti tutti qualche volta nella vita, ma se

qualcuno ora ci chiedesse che cosa credevamo di fare quando abbiamo

fatto qualche sgorbio su di una fotografia, non sapremmo proprio come

rispondere. Non credevamo proprio nulla: l’abbiamo fatto e basta. E men-

tre lo facevamo, eravamo contenti di farlo: ecco tutto. Qualche volta chi è

innamorato sente il bisogno di stringere a sé qualcosa che appartiene alla

persona che ama, ed anche se queste cose è meglio farle di nascosto, se

qualcuno le osservasse non avrebbe dubbi sul significato che in esse si

esprime: gesti simili esprimono un desiderio e mettono in scena la sua rea-

lizzazione. Dicono che si vorrebbe abbracciare qualcuno – anche se quella

persona ora non c’è e lo dicono a chiare lettere, anche se nella forma di un

gesto rituale che si avvale di un simbolismo tanto esplicito, quanto ovvio.

Di gesti rituali come quello che abbiamo appena descritto ve ne sono

un’infinità. Il bambino si fa male e viene per questo inscenata dai genitori

la punizione esemplare dello spigolo che è colpevole di avere causato il

bernoccolo che già si intravede: è uno strano gioco che distrae per un at-

timo il bambino dal suo dolore, ma voler leggere dietro a questo strano

rituale una qualche credenza sarebbe del tutto ridicolo. Ci arrabbiamo e

diamo per questo un pugno sullo stipite della porta. Non serve a molto;

anzi: non serva proprio a nulla, eppure lo facciamo lo stesso. Ma allora

perché lo facciamo? Perché insceniamo questa ed altre inutili rappresenta-

zioni? Rispondere è tutt’altro che difficile: questi gesti, nella loro enfasi

teatrale, mettono in scena un desiderio realizzato e nel farli proviamo pro-

prio per questo piacere. Si tratta di gesti che hanno un valore espressivo e

che dicono qualcosa che vorremmo: il pugno sullo stipite della porta dice

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che cosa faremmo al destino che ci ha fatto innervosire, la punizione dello

stipite rammenta la massima minimale che recita che chi la fa deve poi

aspettarsela, il bacio alla fotografia dell’amata anticipa ciò che l’innamo-

rato vorrebbe fare.

Ai gesti espressivi che mettono in scena un desiderio e la sua realizza-

zione si affiancano i gesti celebrativi che sottolineano enfaticamente l’im-

portanza che qualcosa ha per noi. L’estate verrà comunque e indipenden-

temente da noi – questo lo sappiamo bene, ma la prima sera in cui è possi-

bile cenare all’aperto ha per me (per noi?) un valore celebrativo e vale la

pena di sopportare l’aria fredda della sera per dire ad alta voce che l’estate

è arrivata, quasi che il dirlo rendesse impossibile al corso delle stagioni di

tornare sui propri passi. Possiamo spingerci un passo in avanti ed osservare

che anche la dimensione del sacrifico rituale ha una sua versione domestica

che non sembra implicare alcuna reale credenza – come dimostrano le fon-

tane delle città d’arte, in cui stranamente si sente il bisogno di gettare una

moneta, quasi che questo minuscolo sacrificio potesse giustificare una

qualche deroga al destino e garantirci il ritorno in un luogo che ci è pia-

ciuto.

Sulla natura di questi gesti sembra difficile avanzare dubbi di sorta: si

tratta di recite che in linea appartengono alla dimensione immaginativa e

procedono di fatto secondo le regole dell’immaginazione ludica. Vi è una

fotografia e ad essa ci rapportiamo come se fosse presente la persona raffi-

gurata, vi è lo spigolo contro cui un bambino ha picchiato la testa e vi è il

gesto che lo punisce – e nell’uno e nell’altro caso vi è un fare come se che

rivela la dimensione immaginativa entro la quale ci si muove. Certo, tal-

volta all’origine di questi strani gesti possono esservi comportamenti istin-

tivi, ma quanto più li includiamo nella nostra prassi consapevole e volon-

taria, tanto più diviene evidente il loro porsi come momenti dell’immagi-

nazione ludica: quei gesti sono recite che possono coinvolgerci e cui pos-

siamo attribuire un peso, ma non perché vi si creda, ma solo perché toccano

eventi che in qualche modo ci coinvolgono e sono importanti per noi.

Di qui, da questi gesti che hanno una loro spiccata valenza espressiva e

che mettono in scena il nostro rapporto con vicende che ci stanno a cuore,

si deve muovere per comprendere la sfera della ritualità magica – questa

almeno è la tesi che Wittgenstein ci invita a sostenere nelle sue Note sul

“Ramo d’oro” di Frazer:

Se sono furioso per una qualche ragione, mi può capitare di colpire la terra o un

albero con il mio bastone, ecc. Così facendo però non credo che la colpa sia della

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terra o che colpirla possa servire a qualcosa. «Sfogo la mia collera ». E tutti i riti

sono di questa specie. Queste azioni si possono chiamare azioni istintive. — E una

spiegazione storica che per esempio affermasse che in tempi passati io o i miei an-

tenati abbiamo creduto che colpire la terra serva a qualcosa sarebbe un imbroglio,

perché queste sono ipotesi superflue, che non spiegano niente. Ciò che importa è la

somiglianza dell’atto con un atto di punizione, ma più di questa somiglianza non si

può constatare (L. Wittgenstein, Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, a cura di S. De

Waal, Adelphi, Milano 1975, p. 34).

Alla radice di queste considerazioni vi è innanzitutto una tesi di carattere

polemico: proprio come Cassirer, anche Wittgenstein intende prendere le

distanze dalla prospettiva di Frazer secondo la quale i riti magici e i miti in

fondo non sono altro che false teorie42. Questa tesi deve essere appunto

messa da parte, ma questo – per Wittgenstein – non significa affatto di-

sporsi sul terreno del simbolismo implicito e supporre nella mentalità pri-

mitiva una molteplicità di strani ragionamenti. Tutt’altro: per Wittgenstein

il mito deve essere compreso proprio muovendo dalla famiglia dei com-

portamenti espressivi e celebrativi che abbiamo rammentato poc’anzi e

questo ci spinge da un alto a riconoscere il carattere apertamente simbolico

della prassi rituale43, dall’altro a non trarre conseguenze particolari sul ter-

reno della credenza dalle forme del rito.

Su questo punto del resto le analisi di Wittgenstein insistono in modo

particolare. Se cerchiamo di interpretare i riti come se fossero teorie – se li

interpretiamo cioè come Frazer li interpreta – ci sembrerà di avere a che

fare con un cumulo di sciocchezze:

È davvero strano che tutte queste usanze finiscano per esser presentate, per così dire,

come sciocchezze. Ma non sarà mai plausibile che gli uomini facciano tutto questo

per mera sciocchezza. […] Può darsi (oggi avviene spesso) che l’uomo abbandoni

un’usanza quando abbia scoperto un errore su cui quest’usanza poggiava. Ma

questo capita appunto solo là dov’è sufficiente far notare a qualcuno il suo errore

perché desista dal suo modo di agire. Questo però non è il caso quando si tratta

dei costumi religiosi di un popolo e proprio perciò non si tratta di un errore (ivi,

p. 19).

I riti non esprimono opinioni e quindi nemmeno credenze: non ha dunque

alcun senso valutarli con il metro del linguaggio fattuale e non si può pen-

sarli come se fossero teorie. Se fossero teorie, sarebbero teorie insensate 44

42 Scrive Wittgenstein: «Il modo in cui Frazer rappresenta le concezioni magiche e religiose degli

uomini è insoddisfacente perché le fa apparire come errori» (ivi, p. 17).

43 «La magia poggia sempre sull’idea del simbolismo e del linguaggio» (ivi, p. 22).

44 «Se per adottare un bambino la madre lo dovesse far passare attraverso i suoi vestiti, sarebbe folle

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– questo è ovvio. Ma proprio perché sono così apertamente insensate ed è

impossibile credervi – per noi come per chiunque altro – si deve ricono-

scere che non sono teorie e che in esse non si esprimono affatto opinioni.

Si può dire di più: se guardiamo attentamente il comportamento dei primi-

tivi ci accorgiamo che sembra essere sorretto da principi molto diversi da

quelli che dovremmo attenderci se prendessimo alla lettera il contenuto dei

miti e dei riti. A guardar bene, sembra anzi che il primitivo in fondo non

creda affatto ai riti che inscena:

Leggo, fra molti esempi analoghi, di un re della pioggia in Africa cui la gente si

rivolge con suppliche quando si avvicina il periodo delle piogge. Ma questo vuol

dire che essi in fondo non credono che egli sia in grado di far piovere, perché altri-

menti si rivolgerebbero a lui nei periodi secchi dell’anno, quando la terra è « un

deserto arido e bruciato ». Se infatti si suppone che abbiano istituito questa carica

di re della pioggia » per mera stupidità, è però chiaro che avevano già sperimentato

in precedenza che la pioggia inizia a marzo e allora avrebbero fatto funzionare il re

per il resto dell’anno. Oppure: di mattina, quando stai per sorgere il sole, gli uomini

celebrano riti dell’alba — ma non di notte, quando molto semplicemente accendono

lampade (ivi, pp. 33-34).

il medesimo selvaggio che trafigge l’immagine del nemico apparentemente per uc-

ciderlo costruisce realmente la propria capanna di legno e fabbrica frecce letali, non

in effigie (ivi, p. 22).

E ancora:

Frazer rappresenta le cose come se questi popoli avessero una concezione assolutamente falsa

(anzi folle) del corso della natura, mentre essi danno solo una strana interpretazione dei feno-

meni. Cioè, se mettessero per iscritto la loro conoscenza della natura, essa non si di-

stinguerebbe in modo fondamentale dalla nostra. Solo la loro magia è diversa (ivi, p.

37).

Ma se i riti non esprimono credenze e se non è lecito pensarli alla luce di

una prospettiva di stampo cognitivo, allora dobbiamo pensare che in essi

trovi una diretta manifestazione un insieme di comportamenti che non

hanno la funzione di descrivere il mondo, ma di celebrarlo in ciò che è per

noi importante. Nei miti e nei riti non si manifestano credenze, ma questo

non significa che i rituali non siano seri o che non abbiano un significato

per noi. Tutt’altro; nei riti si celebra ciò che è importante per la nostra vita:

Non deve essere stata una ragione da poco, anzi non può essere stata neppure una

ragione, quella per cui certe razze umane hanno adorato la quercia, ma semplicemente il fatto

credere che qui si tratti di un errore e che essa ritenga di aver partorito il bambino» (ivi, p. 22).

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che quelle razze e la quercia erano unite in una comunità di vita, e perciò si trovavano

vicine non per scelta, ma per essere cresciute insieme, come il cane e la pulce. (Se

le pulci sviluppassero un rito, riguarderebbe il cane) (ivi, p. 34).

Non deve essere stata una ragione – scrive Wittgenstein, ed anche questo

fatto ci invita a pensare. Nei riti non si esprimono teorie e nemmeno si

compiono gesti di cui si possa rendere ragione: semplicemente si agisce in

conformità con i propri bisogni e con i propri desideri. Prima di pensare e

prima di immergersi nel gioco del rendere ragioni si fanno tante cose a cui

non rinunciamo nemmeno noi, uomini civilizzati.

Il passo indietro che Wittgenstein ci invita a compiere ci appare così con

relativa chiarezza. Vi sono alcuni comportamenti che ci appartengono e

che non possiamo motivare in altro modo se non additando il loro legame

con certi desideri e certi bisogni che ci toccano da vicino. Questi compor-

tamenti non rimandano a ragioni che li sorreggano, non delineano implici-

tamente un insieme di opinioni che ci guidino e non implicano un insieme

di credenze che ci sentiremmo di condividere apertamente se qualcuno ci

chiedesse di farlo. Puniamo lo spigolo che ha fatto del male a un bambino

perché ci fa piacere farlo o addirittura perché ci sembra “giusto” farlo, ma

non crediamo affatto che questo nostro gesto sia giustificato razionalmente

o che lo spigolo se lo meritasse o che d’ora in poi si guarderà bene dal fare

del male a chicchessia. In fondo, non pensiamo nemmeno di fare ciò che

facciamo: possiamo agire così – come se punissimo lo spigolo – ma se ci

soffermiamo a pensare quello che facciamo, bene ci sembra semplicemente

impossibile continuare a farlo. Nonostante le apparenze, non crediamo di

punire nessuno, tanto meno uno spigolo, e non ci proponiamo nulla: sem-

plicemente agiamo e mettiamo in scena un comportamento che tradisce

molte cose di noi. Lo stesso fa l’innamorato quando bacia il ritratto

dell’amata e lo stesso il selvaggio quando trafigge di chiodi il pupazzo del

suo nemico: agisce senza credere e mette in scena un comportamento che

non ha ragioni dalla sua e che non contiene una qualche teoria implicita sul

mondo, ma appartiene egualmente alla sua forma di vita. Quel comporta-

mento appartiene al suo mondo e ci dice che cosa in quel mondo gli sembra

importante – ecco tutto. Da una concezione del mito e dei riti magici in-

centrata sul problema della credenza siamo tornati così ad un insieme di

comportamenti che non implicano il credere – ed è da questi comporta-

menti che Wittgenstein ci invita a prendere le mosse per comprendere i riti

e i miti delle culture primitive.

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Come dobbiamo reagire di fronte a questo passo indietro che Wittgen-

stein ci suggerisce di fare? Io credo che ci sia molto da imparare e che

semplicemente non sia possibile tacitare come irrilevante il nesso che lega

i nostri comportamenti rituali ai rituali magici che si codificano nella su-

perstizione e nel mito. Questo nesso c’è ed è centrale, ma ciò non toglie

che io non ritenga che sia davvero possibile mettere interamente da parte

il problema della credenza. Questo problema in qualche modo sussiste e

non credo che sia possibile liberarsene così – mostrando che c’è un nesso

che lega i rituali magici ai comportamenti espressivi. Il passo indietro che

Wittgenstein compie ci insegna molte cose, ma non possiamo fermarci alla

constatazione del carattere espressivo e celebrativo dei rituali magici: dob-

biamo fare anche un passo in avanti per capire che cosa si aggiunga ad essi

e che cosa faccia sì che in qualche strano modo immaginazione e credenza

si stringano in un nodo.

6. I fili di un intreccio

Dobbiamo ora cercare di raccogliere i fili che abbiamo cercato sin qui di

seguire e che, credo, siano parte dell’intreccio complesso di quelle forme

della nostra umana cultura che danno vita alla dimensione del sacro e del

magico45. Il primo filo che dobbiamo cercare di tenere ben saldo tra le mani

è quello che abbiamo appena cercato di dipanare e che abbiamo visto le-

gare la nostra coscienza rischiarata alle forme più arcaiche della coscienza

magica e religiosa. Una persona cara si ammala e non si può più aiutarla;

il pensiero che non ci sia più nulla da fare è intollerabile, per noi e anche

per lui, naturalmente. Si vorrebbe una guarigione, ma non c’è modo per

trasformare il desiderio in volontà perché non vi è spazio per una prassi

reale che sia capace di ottenere un simile fine. Non si può volere quello che

è impossibile fare, ma lo si può desiderare e il desiderio può assumere le

forme di una fantasticheria o di una messa in scena che può assumere le

forme del nostro pacato ragionare su quel che accadrà dopo la guarigione

o nell’amplificazione rituale del successo momentaneo delle cure. All’ori-

gine c’è questo: un rituale che ci consente di mettere in scena un desiderio

45 I fili sono vari, e sarebbe sbagliato pensare che il sacro sia il frutto di una facoltà peculiare o sia un

frutto, tra gli altri, della nostra immaginazione. Vi è una facoltà del ricordo e vi è un insieme di facoltà percettive, ma non c’è una facoltà del sacro, né un qualche errore nell’architettura dell’immaginazione

che ci abbia condotti ad avere un universo sacrale. È ridicolo pensarlo, così come è ridicolo chiedersi

se vi è un qualche sistema predisposto per pensare i numeri immaginari o la fisica quantistica.

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condiviso – il desiderio di una guarigione per cui non sembra più possibile

una cura effettiva. Lo stesso accade quando, per consolare un bambino che

si è fatto male, sgridiamo e puniamo lo spigolo che su cui ha urtato. Il

bernoccolo verrà e il male c’è – non si può fare altro che aspettare che passi

e riconoscere contro voglia che cose del genere capitano. Non ci si può far

nulla, ma si può qualcosa che assomiglia molto al nulla: si può mettere in

scena la punizione esemplare dello spigolo, che deve essere considerato il

colpevole di una sofferenza ingiustificata. Il bambino ha subito un torto e

l’immaginazione mette in scena una punizione esemplare, dopo aver creato

teatralmente un colpevole: nel rito, lo spigolo deve recitare una parte e per

questo lo si deve appellare in vario modo, per renderlo immaginativamente

adatto a recitare la parte del possibile artefice di un crimine.

Che si tratti di immaginazione lo sappiamo bene. Lo spigolo non è affatto

maligno: a rigore, parlare di spigoli maligni significa commettere un errore

categoriale, così come è un errore categoriale il pensare che le malattie

possano ascoltare le nostre richieste o piegarsi a minacce e ordini. Non

basta tuttavia saperlo: è necessario anche poterlo esperire. Il genitore che

punisce lo spigolo deve mettere alla prova le sue abilità teatrali: deve reci-

tare una punizione e deve guidare la mano del bambino che ripete quel

gesto perché la punizione deve essere soltanto simbolica. E lo stesso vale

per la guarigione promessa: anche senza bisogno di disporci sul terreno

della magia, ci sono gesti e comportamenti che, quando siamo malati, ri-

petiamo con una convinzione scenica che ci avverte che l’immaginazione

sta recitando la sua parte. Suffumigi e bevande calde non servono a molto,

ma ci sottoponiamo a queste cure antiche con esibita serietà perché ci met-

tono l’anima in pace e valgono come un avvertimento alla malattia: non

abbiamo intenzione di ospitarla a lungo e non sapremmo davvero che

cos’altro fare per farglielo capire più chiaramente. Abbiamo fatto persino

i suffumigi: se il raffreddore non decide ancora di andarsene, proprio non

sapremmo come fare per dirgli che è un ospite sgradito.

Non c’è bisogno di credere alla magia per comportarsi così e non c’è

bisogno di voler educare all’oscurantismo e alla superstizione un bambino

innocente per picchiare lo spigolo su cui si è ferito. Questi gesti non hanno

dichiaratamente alcuna efficacia pratica, ma hanno egualmente in se stessi

la loro ricompensa. Di per sé non promettono nulla, ma facendoli ci sen-

tiamo appagati. Rispondono a un bisogno, anche se vi rispondono solo sul

terreno immaginativo su cui visibilmente si dispiegano: i gesti e le voci che

li accompagnano hanno il piglio teatrale delle recite e non hanno la serietà

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di un agire concreto. Non siamo chiamati a credere e non possiamo non

vedere la natura degli spettacoli cui assistiamo: si tratta di recite che non

pretendono di disporsi sul terreno delle cause e degli effetti e che non vo-

gliono impegnarsi davvero nel mondo. Se davvero volessimo fare qual-

cosa, smusseremmo lo spigolo, senza fare tanti teatrini.

A questo primo filo se ne intreccia, tuttavia, un secondo che riusciamo

ad afferrare quando ci interroghiamo su un fatto che potrebbe facilmente

passare inosservato. Se il bambino colpisce accidentalmente uno spigolo,

insceniamo la punizione esemplare di cui abbiamo discusso sin qui – ma

che cosa diremmo se quell’incidente fosse la conclusione di un gioco az-

zardato, ripetuto mille volte contro i nostri ammonimenti e puntualmente

finito in pianti e lacrime? Gli diremmo, io credo, che se l’è cercata e questa

volta non ci sentiremmo affatto di punire lo spigolo o di ritenerlo colpe-

vole. Posso maledire il treno che mi fa arrivare in ritardo alla meta, ma non

posso maledirlo se parte in orario e lo perdo per colpa mia. In questo caso,

l’immaginazione deve tacere e questo dovrebbe apparirci strano perché a

rigore il treno è innocente nell’uno e nell’altro caso caso, proprio come lo

è lo spigolo, a dispetto della sua fama sinistra. A rigore, siamo tanto poco

autorizzati a maledire un treno quando arriva in ritardo di quanto non lo

siamo quando parte in orario lasciandoci in stazione: questo dovrebbe es-

sere chiaro. E tuttavia una differenza permane. Se il treno parte in orario e

lo perdo perché mi sono attardato a fare mille cose che avrei dovuto non

fare, so bene a chi devo dare la colpa del fastidio che provo. Se invece il

treno ritarda, mi sento legittimato a lamentarmi del torto subito e mi sembra

di avere diritto di maledire la sorte e le ferrovie.

Alla radice di questo duplice comportamento vi è un ordine di conside-

razioni su cui siamo chiamati a riflettere. Non posso chiedere per quale

motivo l’acqua evapora: in questo caso non possiamo cercare le ragioni che

motivino una simile decisione, perché una decisione che debba essere mo-

tivata semplicemente non vi è: vi è solo un accadimento che ha cause, ma

che non ha ragioni che appartengono allo spazio logico delle motivazioni.

Al contrario, posso chiedere per quale motivo sei uscito di corsa di casa:

se hai deciso di fare così, ci deve pur essere stata una ragione. Per gli ac-

cadimenti ci sono soltanto cause: questo è un fatto che sorregge la nostra

immagine del mondo e che determina la grammatica elementare della no-

stra esperienza. Gli eventi hanno cause; il gioco delle motivazioni, invece,

si attaglia bene all’universo delle persone e ci consente di comprendere

anche ciò che con le persone ha a che fare. Certo, spesso le cose che ci

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accadono hanno un motivo, oltre che una causa. Se ti sei fatto male facendo

un gioco azzardato e se hai desistito dal farlo solo quando era ormai troppo

tardi c’è un motivo per il tuo bernoccolo: sei stato imprudente e non puoi

che lamentarti con te stesso, anche se questo non toglie che il dolore che

provi sia un evento che ha una causa e che non ha bisogno d’altro per esi-

stere. Gli eventi accadono per una causa, ma senza un motivo; quando ci

accadono, tuttavia, alla causa che li determina si può affiancare la ricerca

di un motivo. O più precisamente: può esservi un motivo che spiega perché

accadano proprio a noi quelle cose.

Siamo ora in grado di prendere tra le mani il filo di cui discorrevamo. Gli

accadimenti hanno cause, non motivi. Gli eventi, tuttavia, non accadono

semplicemente, ma talvolta ci riguardano e questa sembra rendere lecita la

domanda che chiede per quale motivo gli accadimenti del mondo possono

dire la loro sulla nostra vita. Rispondere a questa domanda significa tal-

volta, ma solo talvolta, chiamare in causa l’immaginazione. Il bambino si

fa male contro lo spigolo perché il suo gioco è azzardato: non c’è bisogno

di immaginare proprio nulla per trovare un colpevole e per spiegare quel

che è successo. Doveva capitare ed è capitato. L’immaginazione, invece, è

chiamata in causa quando non c’è un motivo che appartenga all’ordine

delle cose, ma non rinunciamo per questo ad interrogarci sulla ragione per

la quale noi ora soffriamo. Avrebbe potuto non capitare quello che è capi-

tato; è stata solo una circostanza sfortunata quella per cui ora ci teniamo la

testa dal male, ma questo non ci basta: ci sembra di avere il diritto di chie-

dere perché è accaduto e perché proprio a noi. La messa in scena ci offre

una risposta additando un colpevole: lo spigolo in persona. Non abbiamo

un motivo per il nostro dolore, ma possiamo immaginarlo e così facendo

possiamo indugiare nel pensiero di avere subito un torto. Il bambino pic-

chia la testa sullo spigolo e il genitore lo consola sgridando e percuotendo

esemplarmente il tavolo che è causa di quel bernoccolo. Così facendo si

sforza di consolarlo; se tuttavia riesce nel suo intento non è perché il bam-

bino creda (o debba credere) che il tavolo sia colpevole e possa espiare le

sue colpe, soffrendo. Il motivo della consolazione è un altro: quello strano

rituale lo consola solo perché gli consente di continuare a comportarsi

come se avesse subito un torto e come se meritasse per questo di essere

compatito.

Ma ciò è quanto dire che la messa in scena che ci spinge a punire lo

spigolo per le sue (presunte) colpe non ha soltanto una funzione consola-

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toria, ma ci consente anche di continuare a pensare che ciò che ci è acca-

duto abbia un motivo e non sia soltanto un mero accadimento. In quello

strano rito si perpetua la convinzione che le cose che ci accadono abbiano

una ragione.

Su questo punto è opportuno indugiare un poco. Non tutto quello che ci

accade sembra avere un motivo e non è, in linea di principio, affatto neces-

sario che lo abbia. La nostra vita è un evento nel mondo obiettivo e non è

possibile escludere che ci accadano cose che hanno solo cause e non ra-

gioni. Se qualcosa mi urta e perdo l’equilibrio cado come cadrebbe qua-

lunque altro oggetto: sono appunto un corpo nel mondo obiettivo. Ricono-

scere che così stanno le cose, tuttavia, non significa ancora negare che il

nostro mondo della vita sia in linea di principio irriducibile alla dimensione

degli accadimenti. In fondo, se si può parlare di persone e non soltanto di

cose e se non si ritiene che sia sufficiente sempre e comunque indicare le

cause di un evento è perché si pensa che vi sia uno spazio autonomo per il

gioco delle motivazioni. Gli eventi hanno cause, ma gli accadimenti che ci

riguardano potrebbero anche avere motivazioni e rispondere quindi a ra-

gioni che non sono di ordine causale. È insensato chiedere per quale motivo

l’acqua evapora e poi cade come pioggia dal cielo perché l’acqua non è in

generale una cosa che accada in accordo con determinati motivi, ma posso

chiedere perché capita proprio a me di dover subire i danni della siccità o

di un’inondazione. Questa domanda non è insensata: la mia vita risponde

a motivi, e quindi non è insensato chiedere per quale ragione devo soffrire.

Riconoscere che non è insensato, tuttavia, non significa ancora dire che

vi sia necessariamente una risposta. Qualche volta l’ordine dei motivi è

immediatamente percepibile: uno stesso fenomeno si spiega causalmente

nel rimando ad una serie di accadimenti e si dispiega motivazionalmente,

nel rimando ad un insieme di ragioni che possono appartenere alla situa-

zione così come noi la esperiamo nella sua immediatezza. Sei triste perché

nel tuo corpo sono accadute determinate reazioni chimiche e fisiologiche

che impareremo sempre più chiaramente a descrivere, ma sei triste anche

perché la situazione in cui ti trovi è malinconica, come percepirebbe chiun-

que si trovasse al tuo posto. Talvolta, invece, le motivazioni possono sfug-

girci e chiederci un’indagine più approfondita: non so perché sei triste, ma

ci sarà un motivo – qualche volta ci esprimiamo così, assumendo che un

motivo debba esservi comunque.

Si tratta di un’ipotesi che sorge naturalmente e che non sembra di primo

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acchito particolarmente impegnativa. Dal punto di vista causale ragio-

niamo così: se dopo anni all’improvviso il chiodo cede e il quadro cade

una causa vi sarà, anche se non ne abbiamo direttamente esperienza. Se

all’improvviso diventi triste, un motivo vi sarà – ma è vero? Siamo costretti

a pensare che ci sia un motivo per ogni evento che concerne direttamente

la nostra vita d’esperienza? Possiamo chiamare questa ipotesi che ci invita

a pensare che vi sia sempre un motivo per ogni nostro stato d’animo l’ipo-

tesi della chiusura motivazionale dell’io. Non credo che sia un’ipotesi vera,

ma non è un’ipotesi grammaticalmente assurda e vi è chi l’ha sostenuta: la

psicoanalisi, per esempio. A questa ipotesi ne possiamo tuttavia affiancare

un’altra che sembra proporci una generalizzazione simile a quella che ab-

biamo appena vagliato. Qualche volta ci si ammala e le malattie sono ac-

cadimenti tra gli altri: hanno cause che possono essere indagate, ma non

hanno necessariamente motivi che dipendano da me o da altri e che si ma-

nifestino nella trama di un’esperienza possibile. Qualche volta ci si ammala

per imprudenza, qualche volta ci si ammala e basta e tuttavia il fatto che la

malattia accada proprio a me è qualcosa che si intreccia strettamente con

la mia vita e con il suo essere un centro di motivazioni. Di qui il farsi avanti

di una domanda – perché proprio a me? – che si lega ad un’ipotesi che,

come abbiamo osservato, non è grammaticalmente priva di senso: l’ipotesi

che per ciò che concerne la mia vita si possa sempre interrogarsi sui motivi,

perché tutto ciò che mi accade deve essere più che un accadimento.

Un accadimento ha cause perché un fatto tra gli altri, ma può avere motivi

se può essere connesso ad un qualche comportamento soggettivo. Una si-

mile ipotesi equivale a pensare che ciò che mi accade abbia sì una causa

palese, ma che possa anche essere interpretabile come parte di un agire che

mi riguarda. Che lo spigolo mi faccia male se lo urto è un fatto tra gli altri

e ha, in quanto tale, solo ed unicamente cause; che ora soffra è invece qual-

cosa che mi riguarda e che potrebbe avere motivi. Li può avere se posso

pensare che il fatto che quel dolore procura debba essere inteso anche come

frutto di un agire – se posso pensare insomma che la mia vita non sia sol-

tanto un accadimento, ma sia qualcosa che mi è dato.

Si tratta di un’ipotesi elementare che è in fondo alla base tanto del pen-

siero religioso, quanto del pensiero magico e della superstizione. È un’ipo-

tesi che ci chiede di cercare una ragione per le cose che ci accadono e che

pretende che essa vi sia, sempre e comunque, e che non risponda soltanto

o prevalentemente alla domanda fattuale concernente il come dell’acca-

dere, ma che ci dica la sua ragion d’essere e il suo motivo. Se la vita di

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Giobbe diviene improvvisamente un’indicibile successione di tragedie un

motivo ci deve essere – è perché Dio ha concesso a Satana di mettere alla

prova quell’uomo così retto; se i casi sfortunati si inanellano gli uni agli

altri è perché qualcuno ci ha fatto il malocchio, e c’è chi crede che i movi-

menti delle costellazioni e dei pianeti, che debbono apparirci alla luce di

curiose personificazioni, scrivano il copione che dobbiamo recitare, con-

sentendoci di pensare che ogni evento che ci accade fosse più che causal-

mente dovuto.

Non è un’ipotesi che scardini l’ordine della natura che è comunque anzi

necessariamente presupposto. Non dice che gli eventi non abbiano cause,

ma ci invita anche a considerare ciò che ci accade – e soltanto ciò che ci

accade – alla luce di un diverso ordine di spiegazione: ci chiede di pensare

agli accadimenti che ci riguardano alla luce della logica della motiva-

zione46. Per farlo, ci suggerisce di pensare agli eventi che ci accadono non

soltanto come eventi, ma anche come il frutto di un agire: le malattie acca-

dono – sono eventi tra gli altri, ma proprio perché riguardano la mia vita o

la vita delle persone che mi sono vicine sono invitato a pensarle come se

fossero insieme il frutto di una decisione ostile, di una prova cui sono sot-

tomesso da un dio, di una punizione che devo aver meritato. Se così accade,

deve esserci un motivo, e se il motivo rimanda ad un agire che non si

muove sul terreno manifesto della nostra quotidiana esperienza, allora do-

vrà trattarsi di una ragione che ci costringe a riconoscere che accanto alla

realtà e ai suoi nessi consueti è necessario porre una diversa realtà ed un

diverso ordine di connessioni. La pioggia che cade da un cielo grigio di

nuvole ha cause banali che appartengono a questo mondo, così come vi

appartiene l’attrito o la forza di gravità; la pioggia che pone fine al contagio

rimanda a tutt’altro cielo e riempie misteriosamente di buon umore anche

chi non sa, come Renzo, quale significato essa avrà.

Di qui il terzo filo che dobbiamo intrecciare. L’ipotesi che abbiamo for-

mulato è un’ipotesi che ci invita a pensare agli eventi che ci accadono come

se fossero il frutto di un agire che ha motivi. Pensare così, tuttavia, significa

pensare agli accadimenti della nostra vita come se fossero sensibili alla

logica del chiedere per avere. Se ha senso domandare per quale motivo

46 È questo un tratto rilevante del pensiero magico-religioso: ci sono motivi per comprendere solo gli

accadimenti che ci riguardano, direttamente o indirettamente. La tempesta che travolge la nave ha un motivo: è una punizione per una colpa o una prova per saggiare il coraggio di un eroe. Una tempesta

che sconvolgesse oceani non solcati da creature umane non avrebbe motivi, ma continuerebbe ad avere

cause: c’è bisogno di Poseidone per sconvolgere il mare su cui la zattera di Odisseo naviga, ma basta il vento per agitare le onde di un mare senza eroi e senza uomini.

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debbo ora soffrire e se la risposta è nella decisione che sorregge quel fare

da cui dipende quel che mi accade, allora ha senso anche chiedere che que-

sto torto venga sanato o agire a nostra volta per fronteggiare le decisioni

ostili di una potenza maligna o di un nemico. Un simile agire ed un simile

chiedere, tuttavia, non possono disporsi sul terreno concreto dell’operati-

vità reale. Se la malattia è il frutto dell’agire nascosto di una potenza ostile,

lo sciamano dovrà, per curarla, disporsi sul piano di una diversa operati-

vità. Non potrà agire causalmente, ma dovrà persuadere la malattia ad an-

darsene: dovrà trovare la via per opporre motivo a motivo, e questo signi-

fica che la cura dovrà assumere la forma di una richiesta. La cura dello

sciamano assomiglia in questo alle preghiere: chiede e agisce per convin-

cere, minacciando se necessario.

Siamo giunti così al quarto e ultimo filo che dobbiamo intrecciare – un

filo che ci mostra per altra via quale sia la centralità della dimensione ri-

tuale da cui abbiamo preso le mosse. Ci sentiamo stanchi e sentiamo che

sta arrivando un po’ di raffreddore e forse anche qualche linea di febbre, e

allora reagiamo platealmente: ci sciacquiamo la faccia con l’acqua gelata,

ci prepariamo un caffè con un gesto programmatico e forse ci pettiniamo

persino per recitare il nostro incondizionato rifiuto della piccola sciatteria

dell’essere malati. Sappiamo bene che questi gesti studiati non servono

proprio a nulla, se non a dire ad altra voce che il virus che ci assedia non

avrà vita facile, qualunque cosa significhi una dichiarazione di guerra fatta

ad una macromolecola. E tuttavia qualcosa cambia se riguardiamo a questo

gesto iniziale alla luce delle considerazioni che abbiamo appena svolto. In

fondo, all’origine di quel nostro gettarci un po’ d’acqua gelata sul viso c’è

una protesta ridicola: ci sembra di poter protestare perché questo accade

proprio adesso e proprio a noi, ed è questo desiderio di rivolta che il nostro

comportamento immaginativo mette esemplarmente in scena. Ora, non si

può protestare contro le cose e contro gli accadimenti, e non ce la si può

prendere nemmeno contro gli astri e le stelle se li si considera, come la-

mentava Don Ferrante, «come capocchie di spilli ficcati in un guancia-

lino». Per farlo a ragion veduta (sit venia verbo), è necessario farsi guidare

dall’ipotesi che abbiamo dianzi formulato: dobbiamo pensare che le cose

che ci accadono abbiamo un motivo e siano il frutto di una decisione che

qualcuno o qualcosa ha preso per noi. Dobbiamo credere che la vita ci sia

mandata e che le cose che ci accadono siano volute per noi.

Si tratta, io penso, di un’ipotesi ben poco plausibile, ma non è questo il

punto. Di quell’ipotesi ci interessa ora il fatto che essa ci invita a guardare

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gli strani rituali che abbiamo dianzi descritto sotto una diversa luce: ci in-

vita a pensare che si possa davvero protestare per quello che ci accade per

caso e che si possa davvero chiedere che non accada. Ci in vita a pensarlo

perché il contenuto di quell’ipotesi è che sia possibile porsi di fronte al

corso degli eventi che ci riguardano come se si trattasse del frutto di un

agire rivolto a noi – come se si potesse guardare al mondo obiettivo degli

eventi alla luce di una prospettiva che lo personalizza e che ci consente di

leggere nei fatti che ci accadono il messaggio che ci rivolgono. Ma ciò è

quanto dire che il contenuto dell’ipotesi che abbiamo formulato ci consente

di leggere i gesti recitati dei nostri rituali espressivi come se fossero parte

di un dialogo che ha una sua consistenza reale, anche se può trovarla sol-

tanto ampliando il concetto di realtà al di là dello spazio della natura.

In questa premessa ipotetica è dunque racchiusa la ragione che trasforma

i gesti esibiti di una recita senza scopo in liturgia. Lo sciamano intima alla

malattia di andarsene, soffia fumo sulla tana del morbo e risucchia il veleno

che si annida nel corpo del malato, ma quei gesti esibiti e spettacolari pos-

sono diventare parte di una liturgia: il loro essere privi di un’operatività

reale diviene la condizione che consente loro di guadagnare una operatività

soprannaturale. Così, il malato che si affida alle cure dello sciamano non

crede alla possibilità di una guarigione reale, ma sembra ciò nonostante

poter sperare in una guarigione miracolosa. Se gli accadimenti salienti

della nostra vita debbono essere pensati alla luce di un’ipotesi che li ricon-

duce ad una volontà che li decide per noi, se in generale gli eventi non

rispondono soltanto all’ordine delle cause e non sono soltanto natura ma –

in quanto eventi che ci accadono – rispondono alla logica della motiva-

zione e hanno in se stesi un significato personale, allora non deve sembrarci

strano che il guerriero si armi di tutto punto per colpire il nemico che pure

è già stato trafitto in effigie: quel gesto magico consente di credere ad un

diverso ordine di efficacia pratica – l’ordine sovrannaturale del miracoloso

– ma non nega per questo la necessità di un agire concreto. Qualche volta

si prega persino per ritrovare le chiavi di casa47, ma non per questo si smette

di cercarle: ciò che la preghiera consente è solo di poter pensare, quando

finalmente le si ritrova (se le si ritrova), che alla causa reale del successo

di quel cercare – il nostro aver guardato con più attenzione in un luogo o il

47 Quando si smarrisce qualcosa, la tradizione dei responsori suggeriva di ripetere per tredici volte

senza interruzione una preghiera particolare – il Sequeri (che è poi una storpiatura di «si quaeris mira-cula...») – che veniva rivolta a Sant’Antonio.

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nostro esserci rammentati di gesto dimenticato – si affianchi una causa so-

vrannaturale: qualcuno o qualcosa ha messo a tacere la potenza ostile che

tramava contro di noi e ha restituito alla nostra vita il corso che speravamo,

anche se questo non toglie affatto che le chiavi si ritrovino proprio dove le

abbiamo lasciate e dove ci siamo infine ricordati di andare a guardare.

I riti espressivi divengono così riti magici e religiosi in virtù di un’ipotesi

che li muta di senso; sarebbe tuttavia sbagliato credere che questa ipotesi

si leghi ad un corpo estraneo in cui semplicemente si imbatte per caso. Le

cose non stanno così, e per una duplice ragione. Per comprenderla, tor-

niamo ancora una volta al nostra esempio. Il bambino picchia la testa e il

genitore lo consola, punendo esemplarmente lo spigolo. È un gesto che non

pretende di essere creduto, ma che prepara immaginativamente il terreno

per una credenza. Il genitore che punisce lo spigolo per quel che ha fatto ci

invita ad una personificazione: trasforma immaginativamente un evento

che ha soltanto cause in un gesto malevolo, compiuto da una potenza

oscura che si annida nel legno del tavolo. L’immaginazione rituale prepara

così l’universo di oggetti e di relazioni su cui poggia l’ipotesi del pensiero

magico-religioso. Ma vi è di più: il rito non soltanto predispone il terreno,

ma rende l’ipotesi che lo interpreta se non vera, almeno concretamente pre-

sente, poiché consente a chi si lascia coinvolgere dalla dimensione imma-

ginativa di vivere in accordo con il suo dettato. Lo sciamano si affatica sul

corpo del malato e lotta contro la malattia che, proprio per questo, appare

come una potenza ostile, come un nemico da sconfiggere in una battaglia.

Il rito fa così apparire ciò che l’ipotesi ci invita a credere. Che il pane di-

venti il corpo di Cristo lo si deve credere, ma il rito ci coinvolge e rende

presente la sacralità del sacramento nella natura dei gesti del sacerdote e

nella coralità della risposta dei fedeli. Non ci si inginocchia davanti a un

pezzo di pane e non si adora un calice di vino, ma proprio per questo com-

piere questi gesti significa rendere presente ciò che si vuole credere. Ma se

così stanno le cose, allora si può comprendere quale sia il rapporto effettivo

che lega il rito alla dimensione della credenza. Il rito ha una valenza teatrale

e immaginativa: chi vi assiste non può non rendersene conto e ciò significa

anche che non può credere alla lettera a quello che vede. Ogni rito e ogni

liturgia hanno nei loro gesti una piega ludica che non può essere messa da

canto e trascurata. Non si crede ai riti; si crede grazie ad essi: non sono

oggetto, ma veicolo della fede, perché consentono di rendere presente per

noi nel suo senso e nella sua concreta manifestatività ciò che l’ipotesi che

sorregge il pensiero magico-religioso ci invita a supporre. Nel rito, la realtà

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altra di cui la religione e la magia ci parlano si fa manifesta, sia pure sol-

tanto in una teatralizzazione che, come tale, non può essere interamente

messa da canto e dimenticata. L’immaginazione ludica diviene così il vei-

colo di una credenza, la forma che ci consente di vivere immaginativa-

mente quello che si vuole credere.

7. Credere ad un’ipotesi

Credere ad un’ipotesi di carattere generale come quella che abbiamo dianzi

formulato significa credere a qualcosa di ben diverso da un fatto. Ai fatti

crediamo perché possiamo vedere che si danno effettivamente, per quanti

problemi queste considerazioni così banali possano sollevare. Se credo che

ci sia ancora pane nella madia e voglio decidere se quel che credo merita

di essere creduto è sufficiente che guardi nella madia e veda se vi è ancora

pane. Così accade per ogni credenza che abbia per oggetto un fatto, e per

quanti problemi possano sorgere quando ci disponiamo sul terreno com-

plesso di un’indagine epistemologica, sarebbe eccessivo dire che una si-

mile prassi implichi per forza di cose una qualche teoria. Quando guardo

nella madia per vedere se c’è il pane non ho bisogno di teorie. Certo, ho

bisogno del linguaggio perché le credenze, nella loro veste più propria,

sono formulate linguisticamente, ma anche se è vero che così stanno le

cose, non si deve per questo dimenticare da un lato che le credenze in senso

stretto poggiano comunque su certezze di ordine prelinguistico e, dall’al-

tro, non si deve enfatizzare troppo il ruolo del linguaggio. In fondo, quando

controllo se c’è il pane nella madia faccio qualcosa di simile a quello che

fa il gatto quando controlla se ci sono croccantini nella scodella: guardo

bene per potermi rassicurare e per sapere come devo comportarmi in un

futuro immediato.

Diversamente stanno le cose quando abbiamo a che fare con un’ipotesi

di carattere generale che ci invita a pensare ciò che accade alla luce di una

determinata famiglia di concetti e sullo sfondo di una rete di cause e di

motivazioni. Davanti a noi vi è una serie di fatti che constatiamo: vi è un

uomo malato davanti a cui un altro uomo gesticola in vario modo. Questi

fatti debbono tuttavia essere letti alla luce di un’ipotesi generale: l’uomo è

uno sciamano, i suoi gesti sono una cura magica, le sue urla minacce volte

a stanare la potenza oscura che fa soffrire il malato. È questo cui deve cre-

dere il malato se vuole poter sperare di guarire, ma è evidente che la pos-

sibilità di verificare una simile ipotesi è tutt’altro che ovvia. In questo caso

non basta guardare meglio: l’unica cosa che possiamo fare è decidere se

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l’ipotesi regge alla prova dei fatti, ma si tratta comunque di una questione

complessa che non si risolve con uno sguardo più attento e che non può

essere risolta con un tratto di penna. Accade così anche con le teorie scien-

tifiche: un’oscurità teorica non le dissolve e un’anomalia non basta per fal-

sificarle. Tutt’altro: parte del lavoro di uno scienziato consiste nello sforzo

di reinterpretare i fatti recalcitranti in una forma che li renda tollerabili ri-

spetto al quadro concettuale che è chiamato a renderne conto. Per fugare i

dubbi (in parte del tutto giustificati) che minavano i fondamenti del calcolo

infinitesimale, D’Alembert invitava i matematici ad andare avanti senza

farsi scrupoli eccessivi e senza farsi paralizzare dalle incertezze, sicuro che

la fede prima o poi sarebbe arrivata. E aveva ragione: le teorie non possono

farsi fermare da qualche risultato recalcitrante o da qualche anomalia irri-

solta e debbono chiudere un occhio sulle oscurità teoriche su cui non sanno

far luce. Credere in un’ipotesi di carattere generale è, in qualche misura,

un atto di fede, una scommessa che si vuole vincere, ma che non è mai del

tutto già vinta. L’ideale leibniziano di una comunità di saggi che in perfetta

armonia, deposti lo spirito di parte e l’animosità, si affidi alla massima ra-

zionale del «Calculemus!» per venire a capo di ogni questione teorica non

è di casa nemmeno sul terreno scientifico. Alle ipotesi scientifiche si crede,

sperando di avere ragione e cercando di avere ragione, ma senza avere ga-

ranzie effettive di essere già dalla parte della ragione. Anche sulle teorie

scientifiche il sole sorge pian piano e tramonta lentamente: non basta un

esperimento cruciale per mettere tutti a tacere e per far sorgere e tramontare

una teoria. Ci vuole tempo perché ogni esperimento cruciale è per la parte

avversa solo un problema su cui riflettere, non un verdetto definitivo.

Così stanno le cose per ciò che concerne le teorie scientifiche48 – e non

sembra che le credenze magico-religiose abbiano un destino molto diverso.

In fondo, si potrebbe argomentare, Giobbe ha ragione: non si può rinun-

ciare alla propria fede in un dio giusto e buono solo perché la vita presenta

d’un tratto infinite anomalie. Il malato che si affida allo sciamano può spe-

rare di guarire anche se non è capitato così ai suoi amici: c’è molto da fare

prima che un esperimento contrario possa essere preso come prova della

falsità di un’ipotesi. E anche chi ha smarrito le chiavi può convincersi che

il Sequeri sia una buona strategia, perché anche se ha ripetuto con cura

tredici volte la stessa orazione, sa di non averla sempre pronunciata con

animo puro. Le ipotesi generali sono restie a vincolare il loro destino a un

48 Pressappoco così: si tratta di problemi molto complessi e sono lontanissimo dal credere che le con-

siderazioni proposte siano davvero soddisfacenti.

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singolo caso individuale e fa parte della strategia di chi crede ad un’ipotesi

il cercare di venire a capo in qualche modo delle difficoltà marginali in cui

una credenza generale si imbatte.

Certo, anche sulle credenze religiose e magiche il sole cala a poco a poco

se mutano le convinzioni e le forme di vita su cui quelle credenze poggiano.

Le danze dello sciamano diventano folklore quando si comprende che un

antibiotico è più efficace di mille rituali e che vi sia un dio che agita i mari

e che scuote la terra nei terremoti è un’immagine che si allontana dal nostro

mondo quando impariamo le cause reali dei terremoti e delle onde nel

mare. Qualche volta andando avanti, la fede viene; qualche volta, invece,

se ne va: è successo con il calorico, e succede (per fortuna) anche con i

guaritori cui ormai si affidano in pochi e solo per cercare di guarire da quei

piccoli disturbi che non vale la pena di curare, perché sono cose da poco o

da quelle malattie temibili per le quali non vi è al momento alcuna cura che

sia davvero efficace49. Le credenze si perdono pian piano e qualche volta

si perdono solo perché non riusciamo più a condividere un certo modo di

pensare e di ragionare. È difficile credere in un Dio Padre che crea gli ani-

mali e poi l’uomo perché sappiamo troppe cose sull’evoluzione della vita,

perché non riusciamo più a condividere l’antropocentrismo orgoglioso che

esalta l’unicità della nostra specie e perché non crediamo più che la pater-

nità meriti tutte queste maiuscole. La trottola cade perché gira sempre più

piano e reagisce sempre più debolmente alle forze che vogliono farla ca-

dere; così accade anche alle credenze: si raffreddano e si fanno più fragili

sin quando finalmente cedono o tacciono definitivamente. Il disincanto del

mondo ha qui le sue radici: se l’immagine scientifica del mondo si fa sem-

pre più persuasiva, sembra necessario riconoscere che la plausibilità di una

comprensione magica e mitica del mondo deve venire meno, proprio come

deve venire gradualmente meno la fiducia nella teoria aristotelica della gra-

vitazione quando la fisica newtoniana ci mostra che i moti sublunari e i

moti celesti obbediscono ad una stessa legge. Insomma, credenze scienti-

fiche e credenze religiose si comporterebbero così, grosso modo, nella

stessa maniera e non ci sarebbe affatto bisogno di rammentarsi dell’imma-

ginazione per venire a capo delle stranezze delle credenze magiche e reli-

giose: in realtà è il credere che non è affatto così lineare e razionale come

stranamente ci piace invece dipingerlo.

Le cose stanno davvero così? Si può davvero sostenere che l’ipotesi di

49 Si va così dall’omeopata quando ci si sente affaticati e dal guaritore quando si ha una malattia che

non può essere in alcun modo curata.

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cui discorriamo è un’ipotesi tra le altre e che non vi è alcuna peculiarità

delle credenze magiche e religiose? Io credo di no, e per due differenti

ragioni che in realtà ci costringono a riflettere sulla particolarità dell’ipo-

tesi generale di cui discorriamo.

Vediamo innanzitutto la prima ragione. Per smettere di credere ad una

teoria scientifica un fatto recalcitrante non basta – lo abbiamo appena detto,

e tuttavia da un lato quel fatto rimane come un problema che deve essere

spiegato, dall’altro il valore del rapporto tra conferme e disconferme non

può comunque diventare troppo esiguo. E non a caso: una credenza scien-

tifica è una credenza di carattere cognitivo ed è, come tale, in primo luogo

determinata dalla realtà dei fatti che resta comunque il giudice unico della

sua veridicità e della sua stessa plausibilità. Per credere che vi sia un nesso

tra la pioggia e le nuvole nere che solcano il cielo non deve accadere –

salvo qualche rara eccezione, di cui si dovrà comunque rendere conto – che

piova e che vi sia il cielo sereno. Per credere in una qualche superstizione,

invece, basta una conferma che ci colpisca in profondità nell’animo e non

sono sufficienti mille smentite per farci cambiare idea: le superstizioni,

come i miracoli, vivono di eccezionalità e non c’è calcolo che scoraggi il

fedele dal pronunciare tra sé e sé tredici volte i versi del Sequeri per ritro-

vare ciò che ha smarrito e se mai gli è capitato di ritrovare così il suo mazzo

di chiavi questa circostanza fortuita varrà come una prova inconfutabile

che un miracolo è possibile e che la porta che conduce dai fatti della natura

a motivazioni che stanno al di là di essa è aperta e percorribile. Insomma,

il fedele crede al di là di ogni calcolo, perché il suo credere non si misura

sui fatti, ma sembra piuttosto fare corpo con un’esigenza di carattere esi-

stenziale che si manifesta in alcune esperienze esemplari e che sembra

avere nel credere una garanzia della sua possibilità. Se c’è una disgrazia

che ci colpisce deve esserci un colpevole che l’ha perpetrata: è il gatto nero

che ci ha tagliato la strada e che, in virtù di un’immagine il cui senso è

facile da dipanare, ha gettato improvvisamente la sua ombra cupa sul no-

stro destino, mettendosi di traverso tra noi e il nostro futuro cammino. Alle

superstizioni si crede non perché siano confermate dai fatti, ma perché

l’ipotesi che le sorregge ci consente di pensare agli eventi alla luce di

un’esigenza profondamente radicata in noi: abbiamo bisogno di credere

che i fatti che ci accadono appartengano ad un disegno che è stato pensato

per noi e che appartiene alla nostra vita. Crediamo non perché vi sia un

qualche sostegno fattuale, ma perché il credere sorregge il nostro tentativo

di attribuire agli eventi che ci accadono un motivo che li spiega e che ci

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consente non soltanto di prevederli, ma anche – in un certo senso – di

meritarli.

Di qui la seconda ragione di cui discorrevamo. L’abbiamo osservato:

l’affermarsi della mentalità e del sapere scientifico non sono senza conse-

guenze per l’ipotesi che sorregge la mentalità magico-religiosa, ma questo

non significa ancora che vi sia davvero una comunanza di piani tra queste

forme diverse della cultura umana. Il racconto biblico della creazione non

è un trattato fantasioso di fisica e la creazione degli animali e dell’uomo

non risponde alla stessa domanda cui risponde la biologia darwiniana. Il

problema di Darwin è un problema conoscitivo: Darwin si domanda come

sia potuto accadere che le forme del vivere si siano diversificate, adattan-

dosi in modo mirabile alle condizioni casuali del vivere e la sua risposta è

in una teoria che può essere accettata solo perché dimostra di potersi fon-

dare su una miriade di conferme empiriche. Il racconto biblico della crea-

zione ha un altro scopo: ci invita a pensare che se vi è vita nel mondo e ha

questa forma è perché dio l’ha voluto e perché ha voluto che essa fosse così

com’è, perché ogni cosa creata non ha soltanto una causa, ma ha innanzi-

tutto un motivo. Così, se vi è un disincanto del mondo e se il farsi strada

dell’immagine scientifica del mondo incrina la credibilità dell’ipotesi ma-

gico-religiosa, ciò accade non perché l’una e l’altra abbiano di mira uno

stesso obiettivo di natura conoscitiva, ma perché il farsi avanti di una spie-

gazione puramente naturale rende superflua, anche se non necessariamente

falsa, una spiegazione sovrannaturale. In fondo, noi ragioniamo così: se

potessimo prevedere interamente i gesti di chi ci sta di fronte in base ad

una regola meccanica, penseremmo di avere a che fare con un automa, e

non con una persona. Lo stesso accade con il corso degli eventi: sembra

più facile supporre che vi sia un progetto che attraversa gli accadimenti che

ci riguardano se non sappiamo spiegarli causalmente – se il loro accadere

ci appare inspiegabile. La teoria darwiniana non rende insensato il pensiero

che attraversa il racconto biblico della creazione e non lo contraddice – dio

potrebbe avere realizzato il suo disegno proprio così, nel gioco apparente

dei casi – ma lo rende ciò nonostante inutile. Possiamo credere alla crea-

zione delle specie e dell’uomo, ma non c’è più per noi uomini del presente

un mistero che apra nella dimensione fattuale della natura un varco che ci

consenta di muovere dai fatti per spiegarli alla luce di un diverso ordine di

preoccupazioni; tutt’altro: abbiamo già una spiegazione che ci consente di

pensare come un fatto puramente naturale ciò che ci si sforzava di inten-

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dere in altro modo. Il pensiero che attraversa il racconto biblico della crea-

zione non risponde alla stessa domanda cui risponde la teoria darwiniana,

ma per potersi porre come risposte entrambe hanno bisogno che vi sia una

domanda e che qualcosa ci appaia enigmatico. Una soluzione naturalistica

non tacita gli interrogativi cui le narrazioni mitiche intendono dare risposta,

ma le rende tuttavia superflue perché cancella il bisogno di una spiegazione

e così facendo toglie le condizioni della loro applicabilità al reale.

Il disincanto del mondo nasce di qui: possiamo immaginare ancora che

il mondo accada per noi, ma questa fantasia non riesce più a trovare un

varco nella realtà e a porsi come un’ipotesi che sembra richiesta dalla com-

plessità delle cose. Chi pensava ai terremoti come se fossero l’espressione

della collera di Poseidone enosigeo non intendeva spiegarli naturalistica-

mente, ma cercava un racconto che sapesse giustificare la morte e la distru-

zione. Cercava un racconto e poteva sforzarsi di pensare che fosse vero

perché i terremoti erano comunque inspiegabili: l’ignoranza delle cause

poteva così aprire un varco ad un presunto sapere delle ragioni.

Di qui, da queste considerazioni di carattere generale, è possibile trarre

una conclusione rilevante circa la natura dell’ipotesi di cui discorriamo.

L’ipotesi magico-religiosa non è un’ipotesi che pretenda di assolvere ad

una funzione conoscitiva. Non vuole spiegarci come è fatto obiettivamente

il mondo ed è per questo che nei miti i dettagli contano poco e ci colpiscono

più per il loro senso profondo che per la determinatezza della loro narra-

zione. Il racconto biblico della creazione lascia un’infinità di problemi

aperti ed è risibile se lo pensiamo come una spiegazione effettiva dei fatti

– questo l’abbiamo già osservato. I miti non vogliono dire com’è fatto il

mondo, ma vogliono insegnarci a pensarlo così: come una realtà fatta per

noi, come una successione di eventi che, nella misura in cui ci riguarda, ha

un senso. Credere all’ipotesi che sorregge il pensiero magico e religioso

non significa allora impegnarsi in primo luogo nella determinazione di una

serie di fatti, ma scommettere sulla possibilità di un esperimento esisten-

ziale che appare tanto più percorribile quanto più ci sembra di poterlo fon-

dare su una realtà in cui possiamo credere, anche se non si dispiega sul

terreno dei fatti. Quale sia il contenuto di questo esperimento lo sappiamo:

ci dichiariamo disposti a vivere come se gli eventi che ci riguardano fos-

sero il frutto di una decisione pensata per noi e insieme scommettiamo che

questa possibilità sia garantita da un ordine sovrannaturale delle cose cui è

lecito credere.

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Non è difficile cogliere nell’esperimento esistenziale di cui discorriamo

un tratto che ci riconduce ancora una volta in prossimità della dimensione

immaginativa: il malato che accetta di credere allo sciamano e alla sua fu-

tura guarigione si dichiara innanzitutto disponibile a vivere secondo una

massima generale – la massima che lo rassicura del fatto che la sua malattia

non è soltanto un accadimento tra gli altri, ma è parte di una vicenda che

lo riguarda e che è stata voluta per lui da una qualche oscura potenza che

può essere persuasa a desistere dal suo agire malvagio. Il malato accetta di

lasciarsi coinvolgere da un esperimento esistenziale che non può non ricor-

darci da vicino gli esperimenti immaginativi cui ci chiama l’immagina-

zione ludica o narrativa. In fondo il malato fa proprio questo: prende sul

serio il rito e ci spera, finché ne ha memoria. Si lascia rassicurare dallo

sciamano finché ne vede i gesti e li ricorda. Poi, quando il rito si chiude e

se ne smarrisce l’impressione vivida, lo spazio racchiuso della magia si

chiude e la malattia rimane e resta la necessità reale di fronteggiarla, come

resta il nemico che pure è stato ucciso in effigie, trafiggendo il feticcio che

lo impersonava.

Eppure una differenza c’è, e non è difficile coglierla ora. Un mito è un

racconto che ci invita a immaginare secondo una prospettiva determinata

un aspetto della nostra vita e dello scenario che la ospita. Ci insegna a im-

maginare il mondo per farlo nostro: ci suggerisce, per esempio, di pensare

che la vita breve degli uomini abbia origine da una colpa o che i terremoti

siano manifestazioni di collera di un dio bizzoso come Poseidone. Ma ci

invita anche a pensare che sia vero non tanto il racconto nei suoi dettagli,

che sono in qualche misura irrilevanti, ma l’ipotesi che sorregge in gene-

rale quella narrazione. Deve essere vero che i terremoti sono le manifesta-

zioni di una collera che si deve poter placare e che la nostra vita breve

dipende da una colpa perché se non si può credere che le cose stiano così,

si è costretti a riconoscere che il nostro mondo non è affatto nostro e che

non abbiamo alcun diritto di pensare che sia semplicemente vero quello

che per varie ragioni sentiamo il bisogno di raccontarci. Ma ciò è quanto

dire che l’ipotesi di cui discorriamo e che sorregge in vario modo religione

e mito, superstizione e magia, ha un obiettivo ben preciso: si pone come un

tentativo di ancorare il mondo come teatro della nostra vita al di là della

nostra stessa vita, in una realtà che supera la realtà stessa. La nostra vita è

fatta così: diamo naturalmente importanza alle vicende che ci accadono e

alle diverse situazioni cui apparteniamo, e nelle forme diverse di una ritua-

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lità condivisa o anche individuale costruiamo immaginativamente un no-

stro mondo, la cui solidità tuttavia non può andare in linea di principio al

di là della nostra cultura e della nostra esistenza. Per poterlo fare il nostro

mondo dovrebbe essere una realtà obiettiva – ed è proprio questo che l’ipo-

tesi magico-religiosa ci invita a credere.

A torto, io credo.

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