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Università degli Studi di SalernoFacoltà di Scienze Politiche
Corso di Laurea Specialistica inScienza dell’Amministrazione e dell’Organizzazione
Esame di economia delle OrganizzazioniA.A. 2007 – 2008
Riassunto dal testo
Organizzazione eComportamento Economico
Prof.ssa Roberta Troisi
Studente: Aniello Spina - 1220300118
Università degli Studi di Salerno - Facoltà di Scienze PoliticheCorso di Laurea in Scienza dell’Amministrazione e dell’organizzazione
Esame di: Economia delle Organizzazioni
Riassunto dal testo: Organizzazione e comportamento economicoCapitolo 5 – Autorità e Agenzia
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CAPITOLO 5
AUTORITÀ E AGENZIA
Tra le forme di coordinamento basate sullo scambio di informazioni e di diritti di decisione tra parti
identificate, i sistemi di autorità hanno, ricevuto un’attenzione particolare ed hanno - in effetti - un ambito
applicativo particolarmente ampio.
In effetti, i sistemi di coordinamento basati sull’uscita e la decisione unilaterale, e i sistemi basati
sull’esistenza di un centro cui è demandata l’attività di coordinamento in parte funzionano grazie a principi
opposti. Tuttavia essi hanno una importante proprietà in comune: quella di ridurre significativamente i costi
di coordinamento di sistemi complessi attraverso una riduzione delle informazioni scambiate. Rispetto a un
potenziale schema di coordinamento alternativo in cui tutti comunicano con tutti e raggiungono una
decisione comune, sia le decisioni unilaterali sia le decisioni centralizzate implicano minori costi di raccolta e
trasmissione delle informazioni, di discussione, di negoziazione, di controllo.
Una relazione di autorità tra due attori ha luogo quando una delle parti accetta di conformare i
propri comportamenti alle decisioni dell’altra parte relativamente ad un’area definita di comportamenti.
Tale relazione può sussistere anche con riferimento a più di due attori: un gruppo di persone può accettare
l’autorità di uno o più leader.
Molte relazioni economico-sociali sono relazioni di autorità. Per esempio: i passeggeri che salgono su
un aereo accettano l’autorità del comandante relativamente ai comportamenti che possono avere effetto
sulla sicurezza del volo; i pazienti accettano l’autorità dei medici su problemi di salute. Queste relazioni sono
relazioni di autorità. Esse hanno in comune due caratteristiche essenziali la sospensione o cessione di alcuni
propri diritti di decisione da parte di un attore e l’accettazione delle decisioni prese da un altro attore. In
altri termini l’autorità è una relazione di potere asimmetrica, ma legittima cioè accettata da tutte le parti
coinvolte. Non ci si riferisce qui alla diversità dei “motivi” che possono presiedere alla formazione di questa
relazione, i quali dovrebbero almeno includere:
a ) i calcoli di convenienza di tale relazione (“autorità razionale-legale”);
b ) l’apprendimento o l’accettazione convenzionale di tale relazione come “normale” e appropriata in date
circostanze (“autorità tradizionale”);
c) l’attrazione affettiva ed emotiva per un leader (“autorità carismatica”).
Piuttosto, si analizzano le proprietà del meccanismo dell’autorità, cercando di rispondere alla
domanda quando e perché questo meccanismo è efficace e superiore ad altri?
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1. FORME DI AUTORITÀ
AUTORITÀ BASATA SULLA COMPETENZA.
Quando si parla di autorità, non ci si riferisce necessariamente a Re o ad imperatori industriali..
Anche le “piccole” relazioni di influenza che si sviluppano su particolari problemi nei gruppi o tra singole,
sono relazioni di autorità. Anzi, partire da queste relazioni “semplici” aiuta a distinguere in modo più chiaro
una fonte di autorità che nelle relazioni più complesse è spesso commista ad altre fonti: la competenza. In
tutti gli esempi sopra proposti, la base della relazione di autorità è esclusivamente la competenza. Essa può
essere tecnica o sociale, ma la competenza del leader deve comunque essere considerata non solo maggiore
di quella di chi accetta di subire la sua influenza, ma anche sufficientemente grande in assoluto per risolvere
con successo il problema in questione.
Un efficace funzionamento dell’autorità basata sulla competenza implica che tra chi subisce
l’influenza e chi la esercita non vi siano conflitti d’interesse. Anche qualora riconoscessimo grandissima
competenza in altre persone con cui siamo interdipendenti non ci fideremmo di loro se pensassimo che il
consiglio possa essere interessato, possa seguire finalità e obiettivi propri e privati di chi dovrebbe esercitare
influenza, divergenti dai nostri interessi.
AUTORITÀ BASATA SULL’EFFICIENZA DECISIONALE.
Un gruppo di amici ugualmente esperti nella vela, nominerà comunque un comandante in condizioni
di navigazione difficili. Un gruppo di imprese consorziate ugualmente importanti e competenti nominerà
comunque un’impresa portavoce per gestire il contatto con il cliente.
In questi casi l’emergere dell’autorità è innanzitutto legata all’opportunità di allineare le azioni di un
numero elevato di attori interdipendenti con un minimo di impiego di risorse (tempo e numero di
comunicazioni). Anche in questa situazione supponiamo che la situazione non sia complicata dalla presenza
di interessi diversi sulle azioni da intraprendere tra chi accetta e chi esercita l’autorità. Semplicemente
ipotizziamo che le parti vogliano trovare le azioni tecnicamente migliori nel modo più efficiente.
Uno schema di decisione in cui tutti scambiassero direttamente le proprie informazioni e conoscenze
con tutti e decidessero insieme sulla combinazione di azione migliore sarebbe più costoso di uno schema
accentrato in cui tutti inviassero le proprie informazioni ad un solo attore cui è demandata la responsabilità
di decidere; basti considerare il numero di connessioni di comunicazione tra attori necessarie.
Tuttavia, l’efficienza relativa di uno schema di decisione accentrato o decentrato non dipende solo
dal numero di attori e dalla pressione sulle risorse ma anche da un’altra fondamentale variabile: la
complessità delle informazioni.
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“L’autorità, la centralizzazione delle decisioni, serve ad economizzare la trasmissione e il trattamento
delle informazioni”, se le informazioni sono strutturate, e se un solo attore può disporre della competenza
necessaria a risolvere il problema, una volta in possesso delle informazioni.
Tornando ai nostri esempi iniziali, quindi, se da un lato l’autorità sarà spesso un sistema efficace ed
efficiente per coordinare i piani di produzione di diversi stabilimenti, tipicamente non sarà tale per
coordinare i contributi professionali di diverse funzioni aziendali nella definizione di un nuovo prodotto.
Anche nelle condizioni più difficili, in cui, di fronte a problemi completamente nuovi, nessuno degli
attori ha già sviluppato molte competenze pertinenti, un confronto di tutti con tutti tipicamente produce
risultati migliori che non la decisione di un solo attore, anche qualora quest’ultimo avesse consultato ad uno
ad uno tutti gli altri.
AUTORITÀ ARBITRALE.
Una ragione distinta di creazione di autorità è la possibilità che gli attori interdipendenti abbiano
interessi in conflitto e che non siano sempre in grado di risolvere direttamente tali conflitti.
Una delle ragioni d’essere della gerarchia è la necessità di stabilire delle “corti di appello” per la
regolazione dei potenziali conflitti tra operatori economici. Nella pratica si osserva che in effetti una delle
funzioni esercitate dai livelli gerarchici superiori rispetto a quelli inferiori è la composizione dei conflitti per
eccezione, quando essi non vengono efficacemente risolti dai diretti interessati (o non possono essere
convenientemente risolti per vie legali). Anche nelle relazioni tra imprese si ricorre ad arbitri, anche di
professione, che possano risolvere eventuali dispute, specialmente nei caso di contratti complessi di cui sono
sempre possibili diverse interpretazioni.
Una componente distintiva della legittimità dell’autorità arbitrale è una riconosciuta neutralità della
terza parte rispetto alle parti in conflitto perché le parti accettino la relazione di autorità. Inoltre, l’autorità
arbitrale deve possedere anche una competenza elevata sulla materia del contendere, anche se la sua ragion
d’essere distintiva non è la maggior competenza tecnica rispetto alle altre parti.
AUTORITÀ BASATA SULLO SCAMBIO.
L’autorità può essere un meccanismo efficace ed efficiente anche quando chi la esercita ha interessi
diversi da chi la subisce. Quando questi interessi diversi assumono la particolare configurazione che verrà
descritta in questo paragrafo, tale “interazione” può essere regolata efficacemente da un accordo o
“contratto sociale” di scambio.
Perché un libero individuo dovrebbe accettare di seguire le indicazioni di un altro su una serie di
propri comportamenti, se i motivi e le preferenze dell’altro sono diverse dalle proprie ed egli lo sa?
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L’accettabilità di una relazione di questo tipo è basata su uno scambio. Un individuo può cedere ad un altro il
diritto di “dirigere” un certo insieme o classe determinata di propri comportamenti in cambio di qualcosa.
Il tipo di relazioni di gran lunga più importanti nell’attività economica in cui queste condizioni hanno
spesso luogo sono le relazioni di lavoro. Una relazione di lavoro implica che vi sia qualcuno interessato a
cedere lavoro in cambio di una ricompensa e qualcuno interessato ad acquisirne i servizi. Se tutti i servizi in
questione fossero prevedibili e predeterminabili in anticipo, o scambiati istantaneamente, la regolazione di
questa relazione potrebbe essere un contratto che specifica il tipo di prestazione e la sua ricompensa. Non si
formerebbe nessuna autorità. Tuttavia, nella maggior parte delle situazioni di lavoro non è cognitivamente
possibile io è troppo costoso scrivere contratti completi di questo tipo.
L’erogazione del lavoro avviene spesso attraverso una cooperazione nel tempo, e nel tempo le
condizioni di miglior impiego del lavoro possono variare. In altre parole l’incertezza, cui è soggetta la
transazione richiederebbe una rinegoziazione continua del contratto di lavoro. Pertanto, chi acquista servizi
di lavoro in condizioni di incertezza è interessato a stabilire una relazione in cui i compiti possano essere
adattati alle circostanze.
Supponiamo inoltre che chi acquista servizi di lavoro abbia anche le conoscenze (informazioni,
competenze) e le risorse (tempo e attenzione) necessarie per individuare i modi migliori di impiegare il
lavoro. Allora, questo attore, è interessato ad acquisire non solo contributi di lavoro ma anche diritti di
decisione sulle modalità di impiego del lavoro.
Si guardi ora il problema dal punto di vista di chi cede il servizio. Questo attore è interessato a un
corrispettivo, ma non solo a questo. Infatti, chi conferisce il proprio lavoro in una attività economica è di
solito interessato a non sopportarne interamente il rischio. Inoltre la ricompensa derivante dal lavoro
influisce significativamente sui livelli totali di ricchezza del lavoratore. Ed entrambe queste circostanze sono
fonti di avversione al rischio riguardo alle ricompense pertanto chi conferisce lavoro in un’attività è anche
interessato a una ricompensa che sia libera da rischio.
In sintesi, un lavoratore, avverso al rischio e “quasi indifferente” rispetto ad un dato insieme di
modalità alternative di impiego del suo lavoro, cede i diritti di decisione e di controllo sui suoi
comportamenti in una “zona di accettazione” e riceve una ricompensa non soggetta a rischio. Un datore di
lavoro acquisisce il diritto di decidere quale azione richiedere al lavoratore e di controllare che essa sia
effettivamente intrapresa; nonché il diritto di trattenere i risultati residuali derivanti da tali azioni. Se inoltre
il “datore di lavoro” è un “conferente capitale”, in condizione di diversificare gli investimenti e di
approssimarsi a condizioni di neutralità al rischio, questo “trattato di autorità” rappresenta uno scambio
Pareto-efficiente sia sotto il profilo dell’allocazione del rischio sia sotto il profilo degli incentivi a partecipare
e a produrre.
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AUTORITÀ BASATA SULL’EFFICIENZA NEL CONTROLLO
Il fabbisogno di decisioni accentrate può essere concettualmente distinto dal fabbisogno di controllo
accentrato. Spesso esse si trovano unite, ma non sempre. Per esempio: decisioni prese tramite voto e non
tramite autorità possono poi aver bisogno di una struttura centrale che controlli l’applicazione delle decisioni
della maggioranza. Perché il controllo è necessario?
La questione del conflitto d’interesse è essenziale al riguardo. Se tutti gli attori avessero un interesse
comune, una volta trovata la combinazione ottimale di azioni per quel fine, tutti avrebbero incentivi a
collaborare e ad attuarle. Tuttavia, una causa frequente di conflitto d’interesse nell’azione economica
collettiva è il costo dello sforzo per produrre l’azione. In altri termini, anche laddove gli attori abbiano
accettato di impegnarsi in certe azioni perché sono nell’interesse di tutti o perché discendono da un
contratto conveniente, è probabile che essi percepiscano almeno in parte come costo il consumo di risorse
personali e organizzative impiegate per lo svolgimento di quelle azioni. Nelle situazioni in cui la struttura
delle preferenze ha questa configurazione, esisterà un incentivo a cercar di ridurre i propri sforzi se questo
può esser fatto senza ridurre significativamente i propri benefici (incentivo, al free-riding).
Fonte essenziale di possibilità di free-riding è che gli attori ritengano di non poter essere scoperti o
di non poter essere puniti. La non osservabilità dei contributi individuali all’interno di un output collettivo è
una delle condizioni di questo tipo più studiate e ricorrenti. Se i singoli contributi non sono osservabili e lo
sforzo è costoso si crea un incentivo al free-riding tanto maggiore quanto più grande è la squadra. Infatti,
riducendo il proprio sforzo (se gli altri non lo fanno) il singolo membro del gruppo si appropria interamente
di tale beneficio mentre i costi di minor output finale saranno ripartiti su tutta la squadra.
Se gli output individuali non sono osservabili una ragionevole alternativa può essere osservare i
comportamenti in input: si possono osservare gli atti affinché le persone compiono anziché misurarne i
risultati. Per esempio, anziché tentar di stabilire il peso trasportato da ogni persona in un lavoro di scarico, si
potrà osservare se le persone sono attive, se seguono le tecniche di lavoro raccomandate, se aiutano gli altri
quando ce n’è bisogno.
Ma chi osserverà i comportamenti? Se la squadra è piccola, i membri stessi direttamente potranno
controllarsi l’un l’altro ed hanno interesse a farlo. Se la squadra è grande, sarà più efficiente affidare ad un
unico agente il compito di controllare i comportamenti di tutti. Questo spiega il ricorso all’autorità in
situazioni come la supervisione di processi di trasformazione industriale con impianti/attrezzature comuni; o
la supervisione di attività di vendita di un servizio di qualità definito e sorretto da un unico marchio come nel
franchising.
Ma chi controllerà il controllore’? Una risposta è stata trovata sul piano dei meccanismi di incentivo
anziché di quelli di controllo. La soluzione è che il controllore sia direttamente ed economicamente
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interessato a massimizzare il risultato della squadra attraverso l’impiego più efficiente possibile delle risorse.
Chi esercita l’autorità con funzione di supervisione avrà diritto al risultato economico “residuale”
dell’attività, cioè agli utili dopo aver compensato ogni altro input come fattore produttivo.
Nelle economie moderne, tuttavia, spesso i risultati che interessano sono troppo complessi per
essere sintetizzati nel singolo indicatore della redditività. Anche con riguardo ad attività economiche di
produzione e distribuzione di beni e servizi, molti risultati interessanti come l’innovazione, la qualità di un
servizio medico o di istruzione, non si prestano ad una buona misurazione del risultato di squadra stesso in
termini economico-reddituali.
Per capire come possono essere controllate situazioni di questo tipo, In cui non solo vi è un
problema di non misurabilità dei risultati, individuali, ma anche di quelli della squadra (e quindi del
controllore), si potrebbe guardare al campo di attività in cui più chiaramente questo accade, quello delle
imprese o enti con finalità di servizio pubblico e/o che non operano su un mercato (per esempio, i servizi di
magistratura, di amministrazione pubblica). Il sistema normalmente adottato, è quello del controllo
reciproco tra controllori, di una pluralità di controlli esterni al sistema e specializzati su diverse dimensioni
della performance, dei “checks and balances”. Naturalmente esso è un sistema di controllo imperfetto e
costoso, che suppone che il numero dei centri delle, autorità che si controllano reciprocamente sia basso:
cioè sia stato ridotto attraverso una catena di controlli sovrapposti all’interno delle diverse attività.
Infine, il più chiaro limite di applicabilità dell’autorità basata sul controllo deriva dal costo del
controllo stesso, il controllo sui comportamenti è sempre elevato rispetto ad un controllo sui risultati e può
diventare proibitivo se le attività sono molto complesse. Come controllare il livello e il tipo di sforzi profusi
da un ricercatore, da un legale, nella preparazione e realizzazione del suo risultato?
Una soluzione parziale a questi problemi è fornita dalla sostituzione della relazione di autorità con
una “relazione di agenzia”.
2. LA RELAZIONE DI AGENZIA
Alcuni dei problemi di coordinamento che non possono essere risolti da una relazione di autorità in
tutte le forme precedentemente descritte possono esserlo tramite una relazione di agenzia. Una relazione di
agenzia è una relazione di scambio tra un attore (il “principale”) che delega ad un altro attore (l’”agente”) il
potere discrezionale di agire nell’interesse del principale.
Si possono subito notare gli aspetti comuni e gli aspetti differenti tra questo tipo di relazione e la
relazione di autorità. Di nuovo abbiamo una relazione di scambio che giustifica una cessione di diritti di
decisione e controllo, come in una relazione di autorità classica basata sullo scambio. Tuttavia, in quella
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relazione un attore si impegna ad agire negli interessi di un altro, ma i diritti di decisione e controllo sulle
azioni rimangono alla parte “interessata” (il “principale” o “datore di lavoro”).
Differentemente, in una relazione di agenzia chi si impegna ad agire negli interessi di un altro
contrae anche il diritto e l’obbligazione di scegliere i propri comportamenti nel miglior interesse del
principale. I motivi di questa delega normalmente risiedono in una mancanza di risorse, tempo, o
conoscenze da parte del principale per svolgere direttamente tutte le attività cui si sarebbe interessati e
normalmente tra motivi di accettazione di tale delega vi è una ricompensa per l’agente.
La teoria dell’agenzia affronta il problema di come regolare questa relazione sotto l’ipotesi più
difficile o nelle condizioni più avverse: cioè sotto l’ipotesi che l’agente valuti positivamente le ricompense in
termini di utilità o beneficio e valuti negativamente lo sforzo in termini di disutilità o costo. In queste
condizioni, vi sono due possibili mezzi per falsi che il “contratto” sia rispettato e che l’agente agisca
effettivamente "negli interessi del principale. Il primo meccanismo è quello di ricorrere ad un sistema di
incentivi contingenti ai risultati; il secondo è quello di investire in sistemi di controllo della performance.
Entrambe queste soluzioni sono, nelle condizioni ipotizzate, costose per le ragioni seguenti.
Un sistema di incentivo che leghi la ricompensa al risultato osservabile potrebbe cointeressare
l’agente agli stessi risultati cui è interessato il principale e “riallinearne” gli obiettivi. Tuttavia il problema di
questi schemi di ricompensa è che essi trasferiscono parte del rischio da un attore neutrale al rischio ad un
attore avverso al rischio. Il contratto presenterà, dunque costi pari all’ammontare del “premio” necessario
ad indurre l’agente avverso al rischio ad accettare tale esposizione al rischio. Pertanto, i contratti di agenzia
devono essere costruiti in modo tale da risolvere il trade-off tra i benefici di incentivazione (riallineamento di
obiettivi) e i costi di un’allocazione inefficiente dei rischio. Quanto meno i risultati dipendono dalle azioni
dell’agente, tanto meno servirà trasferire il rischio all’agende. Questo significa che quanto più l’attività
dell’agente è incerta, cioè soggetta a molti fattori variabili di natura esogena, tanto meno un contratto di
agenzia basato su incentivi contingenti ai risultati sarà efficiente.
Nelle situazioni in cui è poco, conveniente risolvere il problema dell’agenzia trasferendo il rischio si
può investire in sistemi controllo. Si possono istituire sistemi di rilevazione di indicatori dello sforzo compiuto
diversi da quelli ottenibili osservando i risultati. Poiché nemmeno i comportamenti rilevanti di lavoro sono
direttamente osservabili, si tratterà di indicatori imperfetti di tali comportamenti. Per esempio, rilevare le
ore di presenza sul luogo di lavoro è un indicatore alquanto imperfetto. In effetti, esso è informativo solo se
vi e una qualche correlazione tra le ore di presenza e gli sforzi profusi. Pertanto, anche il controllo è costoso
e imperfetto nelle condizioni assunte.
In conclusione, si può dire che le relazioni e i contratti di agenzia, nelle condizioni in cui essi sono
distintivamente applicabili (informazione asimmetrica o incompleta) rappresentano un modo di
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coordinamento contiguo a quello dell’autorità ma più decentrato. Parte dei diritti decisionali sulle azioni da
coordinare sono trasferiti a chi agisce l’agente. Con essi vengono trasferite all’agente anche parte del rischio
cui sono soggette le conseguenze delle azioni, tramite alcuni diritti alle ricompense residuali. I diritti di
controllo sulle azioni rimangono al principale ma, in generale, gli investimenti in controllo avranno limiti di
convenienza. Perciò nelle condizioni di asimmetrie informative descritte, si osserveranno, in generale
soluzioni miste, governate da un mix di incentivi legati ai risultati e di controllo su segnali dei comportamenti.
Per attività molto complesse e soggette a forte incertezza la relazione di agenzia “va in crisi”, poiché
né un maggior trasferimento del rischio né l’intensificazione del controllo sono efficienti. Quindi, la teoria
dell’agenzia predice che in tali condizioni contratti di agenzia tenderanno ad essere sostituiti da contratti di
natura associativa e da una condivisione dei diritti di proprietà da parte degli attori, cioè da una
riunificazione della figura del principale e dell’agente e dalla formazione di gruppi di pari.
3. LA DINAMICA SOCIALE DELL’AUTORITÀ E DELL’AGENZIA ‘
Tutti i meccanismi di coordinamento basati sulla comunicazione e sull’influenza reciproca diretta tra
attori hanno una dimensione sociale più pervasiva di quelli basati sulla decisione unilaterale. Essi si fondano
su interazioni interpersonali e implicano necessariamente transazioni di “beni” sociali: l’approvazione, la
stima, la socialità e l’appartenenza, l’affetto. Perché i vantaggi dell’autorità (e dell’agenzia) come
meccanismo di coordinamento siano effettivamente colti, è necessario che la relazione sia in equilibrio sul
piano relazionale.
3.1. PATOLOGIE
L’errore più diffuso e più grave nella gestione delle relazioni di autorità è un errore di autoritarismo.
Varie sono le sue componenti:
• Un comportamento autoritario confonde il diritto di prescrivere certi compiti con l’aggressività verso le
persone, il diritto di servirsi di certi contributi con il diritto ad essere servito come persona, il diritto -
dovere di individuare e indicare le azioni migliori per il sistema di cooperazione e scambio con l’arbitrio
personale.
• Un comportamento autoritario pretende che la cessione di diritti decisionali a chi accetta l’autorità in una
certa zona di comportamento, diventi un diritto generale a dirigere qualsiasi comportamento.
• Un comportamento autoritario trascura gli scambi sociali che derivano necessariamente dall’esercizio di
autorità; emana ordini, ma dimentica di fornire approvazione per il lavoro ben eseguito; reagisce, in sede
di attuazione valutazione, solo negativamente di fronte a prestazioni non conformi alle aspettative,
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anziché anche positivamente di fronte a buone prestazioni.
Una patologia del tutto differente è quella della manipolazione. In questo caso, chi esercita l’autorità
non trascura le relazioni sociali che emergono come conseguenza del rapporto lavorativo ma le sfrutta a fini
produttivi. Esiste o si è creata amicizia, confidenza, fiducia, stima? Bene, in nome di questi valori, si chiede al
partner o si spinge il partner che ne è inconsapevolmente guidato, ad accettare azioni che vanno al di là
dell’accordo di cooperazione o scambio su cui la relazione di autorità è stata accettata. Si tratta quindi di una
forma di opportunismo, che tradisce lo spirito di un accordo e spesso contiene elementi di inganno e
dichiarazioni non credute da parte di chi le fa.
Va notato che strategie manipolative possono essere adottate sia da parte dei subordinati (o degli
agenti) sia da parte dei leader o principali. Per esempio, subordinati o agenti possono usare le relazioni
sociali con il superiore, o principale per ottenere trattamenti privilegiati rispetto ad altri, assenza di controlli,
promozioni, ricompense.
Le componenti di controllo e supervisione delle relazioni di autorità e agenzia possono essere difficili
da “vivere” relazionalmente dalla persona che le esercita. Soprattutto se le relazioni sociali e interpersonali
sono buone, può essere difficile dare feedback negativi e rilevare inadempienze. Il controllore, che con quei
comportamenti aumenta l’efficienza del sistema, dall’altra parte può incorrere in perdite personali di
amicizia, affetto, sostegno emotivo. Sull’altro versante infatti, è probabile che comunque i feedback negativi
non siano i messaggi più graditi e che il controllo in sé susciti sempre una certa resistenza psicologica.
Pertanto, una patologia di origine prevalentemente affettiva ma per molti versi opposta a quella della
manipolazione e quella del permissivismo: anziché di strumentalizzazione delle relazioni affettive a fini
produttivi, si tratta di imprigionamento delle relazioni produttive in quelle affettive.
3.2. ELEMENTI DI STILE DI DIREZIONE
• Un comportamento direttivo efficace richiede un orientamento : positivo verso le persone. Questo
significa che una persona che accetta di esercitare autorità deve comunque occuparsi delle relazioni
interpersonali; che non deve ledere l’equilibrio psicologico di persone mature dei subordinati; che deve
essere in grado di distinguere il “dire cosa fare su un problema un’attività” dal “comandare le persone”.
• Un comportamento direttivo efficace richiede attenzione e capacità di dare feedback alle persone
sull’attuazione delle attività sia negativi sia positivi. Questo aspetto è fondamentale nell’autorità da
competenza in quanto consente a chi la subisce di apprendere e sviluppare le proprie competenze. Ed è
fondamentale nell’autorità basata sullo scambio, poiché se la remunerazione è fissa, il feedback, è
fondamentale per sollecitare prestazioni superiori piuttosto che inferiori.
• Un comportamento direttivo efficace è consapevole delle particolari fonti da cui deriva la possibilità di
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esercitare autorità. Un leader efficace sa se la sua capacità di influenza è basata su competenze tecniche
o sociali; o su funzioni di controllo di applicazione di decisioni e di regole prestabilite; o su uno scambio
di risorse; o su funzioni arbitrali; o su problemi di efficienza di coordinamento in pressione di tempo; o
su quale mix di tali fonti. Poiché in pratica è normale che un singolo leader possa far leva su più basi
interconnesse di autorità, una capacità manageriale importante è saper attivare diverse relazioni in
funzione dei tipi di compiti o di persone, cioè di essere leader “multidimensionali”.
• Un comportamento direttivo efficace è in grado di discernere il grado di delega efficace nello
svolgimento delle attività. Le condizioni sotto cui relazioni di autorità o di agenzia sono efficaci non si
presentano tutte insieme.
4. I COSTI DELL’AUTORITÀ E DELL’AGENZIA
Le relazioni di autorità e di agenzia implicano la raccolta di informazioni sulle situazioni locali,
l’elaborazione di piani di azione, la trasmissione di descrizioni di attività da eseguire e la raccolta di
informazioni su attività svolte. Pertanto, i costi di informazione e comunicazione saranno maggiori nelle
relazioni di autorità, e anche di agenzia, che non in un sistema di coordinamento basato su decisioni
unilaterali. A tali costi vanno tuttavia aggiunti altri caratteristici di questo tipo di relazioni.
Soprattutto nelle relazioni di autorità basate sullo scambio e nelle relazioni di agenzia, le ricompense
complessive ottenute dal subordinato o dall’agente dipendono dal giudizio del controllore, egli è
responsabile di valutare la prestazione. Poiché i giudizi e le valutazioni non sono mai perfetti, è probabile che
i subordinati e gli agenti impegnino risorse non indifferenti per influenzare il giudizio dei superiori: per
esempio, presentando i propri risultati positivi nel modo più visibile e cognitivamente “disponibile”,
mantenendo relazioni personali strette, fornendo giustificazioni, costituendo pegni e garanzie materiali o
immateriali (come la reputazione) in funzione di assicurazione della correttezza e qualità del proprio
operato. I costi di questi processi sono stati chiamati in generale costi di influenza, e più in particolare nel
caso di relazioni di agenzia costi di rassicurazione.
Rispetto a sistemi di coordinamento in cui gli attori decidono, agiscono e controllano direttamente i
risultati delle proprie azioni, i sistemi principale-agente e di autorità comportano il mantenimento di una o
più posizioni specializzate in tutto o in parte in attività di coordinamento. Questi costi crescono più che
proporzionalmente al crescere del numero degli attori coinvolti. Infatti, le attività di coordinamento centrali
possono includere l’elaborazione a integrazione delle informazioni locali, la definizione e comunicazione di
piani d’azione, la risoluzione dei conflitti, il controllo dell’attuazione. L’entità e difficoltà di queste attività
cresce più che in proporzione rispetto al numero degli attori da coordinare poiché deve tener conto delle
relazioni tra di essi.
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Perciò, esiste un limite al numero di attori che può esser coordinato da uno stesso centro. Si tratta di
un limite molto basso se le attività sono regolate da una sola persona attraverso decisioni caso per caso, cioè
se non sono largamente predeterminate dal punto di vista tecnico ovvero regolate anche da meccanismi
alternativi come le regole e la programmazione. In secondo luogo, quanto più i compiti sono complessi (e
quindi più intensa l’attività decisionale richiesta), tanto più basso esso diventa, fino a raggiungere le
dimensioni del piccolo gruppo. In terzo luogo, lo span of control efficiente diminuisce se i subordinati non
sono “indifferenti” riguardo ai compiti da eseguire o comunque manifestano un certo tasso di non
adeguamento alle direttive. Pertanto, al crescere del numero di attori interdipendenti coordinati tramite
autorità o agenzia, si osserva la formazione di sistemi di coordinamento sovrapposti, cioè di una gerarchia.
Quanto maggiore è lo span of control, e quanto più numerosi i livelli gerarchici, a parità di altre
condizioni, tanto maggiori saranno le imperfezioni e le perdite di controllo nel sistema. Queste imperfezioni
si manifestano anche qualora si supponga che l’autorità sia utilizzata correttamente nel suo ambito
applicativo. Le perdite di controllo possono infatti derivare innanzitutto dalle inevitabili perdite di
informazione in catene di processi di comunicazione qualitativa, basati sul linguaggio. I messaggi tendono
infatti ad indebolirsi e distorcersi attraverso più processi di emissione - ricezione. Nel caso dell’autorità,
questo varrà sia per la trasmissione verso il centro delle informazioni locali sia per la trasmissione dal centro
alla periferia degli ordini o piani di azione.
In secondo luogo, un adeguamento imperfetto delle azioni ai piani, anche in assenza di conflitti
d’interesse, può derivare dall’incidenza di fattori esogeni, non previsti, o casuali. Infatti, si è detto che
l’autorità dovrebbe essere in grado di regolare - tra l’altro - attività non totalmente prevedibili, in cui l’attore
centrale possa di volta in volta decidere l’allocazione migliore degli sforzi. Tuttavia, ciò non riduce a zero il
divario temporale tra decisione, attuazione e controllo. Rimane la possibilità che le circostanze possano
variare durante l’attuazione e che il comportamento degli attori che subiscono l’autorità possa risultare
comunque imperfettamente adattato alle aspettative per due diversi e opposti motivi. Essi si possono
attenere rigidamente alla lettera delle istruzioni ricevute - e proprio per questo non riuscire ad attuare in
realtà lo “spirito del contratto” di autorità nelle circostanze osservate. È questo un difetto o costo di rigidità
o inerzia dei sistemi basati sull’autorità largamente osservato e osservabile. Alternativamente, gli attori in
posizione subordinata possono “prendersi la responsabilità” di interpretare lo spirito degli ordini e di
scegliere azioni diverse da quelle prescritte: con questo possono salvare l’efficacia del sistema di azione, ma
comunque lo fanno “uscendo” dai limiti di una relazione di autorità intesa in senso stretto.
In terzo luogo, un adeguamento imperfetto delle azioni ai piani può naturalmente verificarsi per
errore, mancanza di risorse professionali o strumentali e altre incongruenze tra la prestazione richiesta e la
possibilità di erogarla in un particolare momento. Per definizione la possibilità di errore è tanto maggiore
quanto più un’attività è complicata e difficile. I costi di errore quindi, di per sé, non sono specifici del
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meccanismo di autorità, bensì della natura della attività. Tuttavia, il meccanismo di correzione degli errori è
invece tipico del particolare sistema di coordinamento adottato. Nel caso dell’autorità il circuito di controllo
e feedback richiede ulteriori e specifiche attività di rilevazione, di informazioni e di comunicazione di giudizi e
valutazioni: la correzione degli errori è dunque particolarmente costosa in un regime di autorità, e costituirà
un limite di applicazione dell’autorità in attività difficili.
Nelle relazioni di agenzia il controllo presenta difficoltà addizionali per via della delega di poteri
decisionali. Queste difficoltà aumenteranno al crescere della discrezionalità dell’agente; e al crescere
dell’inosservabilità dei suoi comportamenti e dell’imperfezione dei segnali su cui può essere basato il
controllo.
In conclusione, ci si può attendere che il fenomeno della “perdita di controllo” sia tanto maggiore
quanto più complesse sono le indicazioni operative trasmesse, quanto più l’attività è variabile e quanto più è
difficile, ma non ci si può mai attendere che esso sia completamente assente. Inoltre, non è nemmeno
auspicabile che esso sia assente, che il sistema sia “perfettamente coerente”, che il controllo sia perfetto. In
effetti, un sistema di controllo perfetto, quale che esso sia avrebbe scarsissime capacità di apprendimento
ed evoluzione. Infatti gli errori di esecuzione possono trasformarsi in scoperte di nuovi modi efficaci di agire,
in effetti imprevisti ma positivi in innovazione senza costi di ricerca. L’interpretazione flessibile dello spirito
del contratto di autorità e di agenzia è spesso molto più efficace di un perfetto adeguamento agli ordini o
alle aspettative di azione iniziali. La crescita della “perdita di controllo” può esser perciò letta come un
segnale che la natura delle attività non si presta più ad una relazione per autorità o di agenzia e non
necessariamente come un costo che deve essere ridotto.
Con riferimento all’autorità basata sullo scambio, si è detto che una “quasi - indifferenza” di chi
subisce l’autorità con riguardo ai possibili impieghi dei propri servizi di lavoro entro una determinata zona, è
una condizione che rende lo scambio fattibile ed efficiente. Tuttavia, tale circostanza non è priva di costi.
Infatti, in primo luogo, una descrizione di comportamento di lavoro di attività da svolgere non potrà
mai essere completa. Tuttavia, una persona “quasi - indifferente” sul contenuto della propria attività, se non
ha particolari incentivi ad eludere e ad agire diversamente da quanto prescritto, non ha neppure incentivi ad
operare oltre le indicazioni ricevute, a perfezionarle ed integrarle come opportuno.
Infine, il divorzio tra le persone e il governo delle proprie attività, anche se volontariamente
accettato, è una situazione psicologicamente innaturale e potenzialmente riduttiva per le capacità generali
di dare contributi ai gruppi cui si appartiene o “alienante”. In effetti, si può osservare che ogni regime di
comportamento può creare assuefazione, generare “allenamento” e formare “predisposizioni” che poi si
ripropongono al di là dei contesti e delle occasioni in cui sono state apprese. Nel caso specifico dei regimi di
subordinazione, specie se molto accentrati, le persone che agiscono senza decidere per una parte estesa del
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proprio tempo, possono trovare poi difficile l’assunzione di comportamenti non eterodiretti anche quando
questi ultimi siano necessari o opportuni.
Le relazioni di agenzia presentano minori problemi sia con riguardo all’alienazione sia con riguardo
all’indulgenza. Infatti, da un lato esse implicano un’allocazione di diritti decisionali significativi a chi agisce;
dall’altro istituiscono incentivi più forti grazie al collegamento tra prestazione e risultati dell’agente. D’altra
parte generato l’orientamento a risultati misurabili e predefiniti può produrre un effetto “paraocchi” sui
comportamenti, rendendoli poco innovativi. Per esempio si è spesso lamentata la scarsa propensione agli
investimenti innovativi nelle risorse tecniche e umane da parte di direttori di divisione incentivati
prevalentemente in funzione dei ritorni economici sugli investimenti come da risultati di esercizio.
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CAPITOLO 6
I GRUPPI
Il prezzo, il voto, le relazioni di agenzia e l’autorità non risolvono tutti i problemi di coordinamento.
Un’importante modalità alternativa è costituita da un processo di aggiustamento diretto e reciproco tra gli
attori interdipendenti. È la modalità più naturale e antica di coordinamento. Anche nelle attività
economiche, il baratto i gruppi associativi erano diffusi nel medioevo e nelle economie preindustriali. In
questo capitolo si cerca di capire grazie a quali meccanismi di comunicazione, decisione e controllo i gruppi
possano coordinare l’azione collettiva in modo efficace, efficiente ed equo, e sotto quali condizioni.
1. COMUNICAZIONE E DECISIONE DI GRUPPO
1.1. DEFINIZIONI E PROPRIETÀ
Una base empirica importante per comprendere come funzionino i gruppi nel definire un’azione
collettiva coordinata è stata prodotta da una serie di esperimenti sulla soluzione di problemi in gruppo. Il
disegno classico di questi esperimenti prevede l’assegnazione di un compito ad un piccolo gruppo persone
e osservare i processi tramite i quali esso è in grado di produrre una scelta su una linea di azione collettiva.
Inoltre, poiché interessa anche valutare l’efficacia di tali processi, spesso si sono proposti compiti e
problemi che, per quanto di incerta soluzione per i partecipanti all’esperimento, hanno una soluzione
“corretta” di raffronto. Le soluzioni prodotte dal gruppo possono poi essere comparate, oltre che con la
soluzione corretta di raffronto, anche con le soluzioni che gli stessi individui, con le stesse competenze,
sono in grado di produrre da soli, prima di poter avere un confronto con gli altri.
Qual è dunque il miracolo dei gruppi per cui una somma di quasi incompetenze individuali produce
una certa competenza collettiva? E quando possiamo attenderci che questo accada?
Il meccanismo centrale è mettere in comune ed integrare informazioni e competenze parziali e
differenti: il confronto. La possibilità di vedere aspetti prima non considerati di un problema, di accedere a
nuove informazioni, porta le persone ad accettare di rivedere le proprie percezioni, giudizi e posizioni, e a
persuadersi a vicenda. Ognuno esercita influenza in base alle proprie informazioni e competenze. Nessuno,
in un modello ideale di gruppo, ha sufficienti informazioni e competenze per risolvere bene il problema da
solo. Se uno o più membri del gruppo fossero in queste condizioni, allora sarebbe ugualmente efficace e più
efficiente demandare ad uno di essi il compito di definire l’azione collettiva per tutti, cioè creare un’autorità
basata sulla competenza.
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Saranno dunque tipicamente i problemi nuovi, complessi, multidisciplinari a richiedere l’impiego di
processi di decisione di gruppo e a beneficiarne maggiormente.
Sui problemi complessi, il gruppo consegue grandi vantaggi di tipo cognitivo. Anziché operare
attraverso la riduzione della quantità di informazioni trattate e scambiate come fanno, in modo diverso, il
prezzo, il voto, il coordinamento tacito e l’autorità, la decisione di gruppo punta all’ampliamento della
capacità di trattamento delle informazioni e della potenza cognitiva del sistema decisore.
Tra i benefici delle decisioni di gruppo si sottolineano spesso anche vantaggi motivazionali e non
solo vantaggi cognitivi. Infatti, la partecipazione ai processi decisionali è spesso un fattore di accettazione e
convinzione sulle azioni da compiere. Tuttavia, il gruppo permette di conseguire tali benefici solo se
funziona “bene”: cioè, come nel caso del prezzo o dell’autorità, se certe condizioni riguardo alla natura
delle informazioni e degli interessi sono rispettate.
Quali sono gli attributi del gruppo come meccanismo distintivo di coordinamento? Innanzitutto,
una rete di comunicazione totale, in cui tutti possono comunicare con tutti ed effettivamente lo fanno.
Un’elevata interazione diretta fra tutti gli attori è un tratto distintivo e una condizione di efficacia del
coordinamento tramite gruppo. Un gruppo in cui alcuni membri non riescono ad esprimersi e a dare il
proprio contributo di competenze e informazioni, non realizzerà che in parte miglioramenti nella qualità
delle decisioni collettive.
Perché vi sia uno scambio aperto e paritario di informazioni e perché esso sia efficace, è importante
che gli attori controllino informazioni e competenze approssimativamente della stessa consistenza e
rilevanza per il problema o attività in questione, cioè siano dotati di capacità di influenza equilibrate. Per
esempio, un “circolo di qualità” per il miglioramento di un processo produttivo, può generare
effettivamente la qualità superiore prevista, se tutti i lavoratori che operano su parti diverse del processo
sono presenti e possono esprimersi liberamente.
In terzo luogo, il raggiungimento del consenso tramite il confronto e la persuasione è possibile solo
se i potenziali conflitti tra i membri non sono conflitti d’interesse. Se i partecipanti avessero un interesse
proprio in questa o quella alternativa la chiarificazione razionale e il confronto fra analisi diverse non
risolverebbe il problema. Saprebbe necessario ricorrere alla negoziazione. Il gruppo, il “lavoro di gruppo”, la
“decisione di gruppo” è un collettivo con interessi comuni, una “squadra” e tutti i membri della squadra
hanno interesse a vincere il gioco che stanno giocando. I conflitti possono riguardare i modi migliori per
farlo, l’interpretazione delle informazioni, i giudizi e le diagnosi, le relazioni causali tra azioni e risultati.
Sono conflitti di giudizio, di opinione, non conflitti d’interesse che possono essere risolti tramite confronto
e decisione di gruppo.
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1.2. PATOLOGIE DELLA DECISIONE DI GRUPPO
II gruppo è un’arma a doppio taglio. Esso può funzionare, per così dire come un “decisore
superumano”, riducendo i limiti e le distorsioni della razionalità individuale. Tuttavia, il processo di gruppo
può anche prendere una strada del tutto opposta; qualora non si presidino e non si supportino determinate
condizioni decomposizione e funzionamento interno.
Uno dei più noti esperimenti sui processi decisionali di gruppo ha chiarito molto tempo fa quale
può essere la potenza della decisione di gruppo e come essa possa portare facilmente ad “abbagli” di
gruppo piuttosto che a decisioni migliori. Data la struttura dell’esperimento, la “pressione” si può attribuire
interamente a fattori cognitivi. In altri termini, negli esperimenti le persone trovano difficile esprimere il
proprio parere e/o cambiano opinione per il solo fatto che altri, e più precisamente tutti gli altri,
sostengano un’altra opinione. Anche in un compito in cui l’ambiguità di giudizio è minima, le persone
perdono sicurezza nelle proprie valutazioni, iniziano a pensare a tutti i possibili indizi, elementi contrari e
controindicazioni che evidentemente gli altri vedono mentre loro no. Questo processo, che sarebbe
positivo in un regime di pluralità di opinioni, è distruttivo in un regime quasi unanimistico, in situazioni in
cui vi sia una visione nettamente prevalente.
La patologia derivante dalla pressione cognitiva del gruppo è stata definita groupthink. Essa è stata
studiata in casi e situazioni organizzative reali e avanzata come spiegazione di alcune decisioni di gruppo
disastrose. In tali casi, pur esistendo alcuni segnali sui limiti dei progetti e alcune espressioni di dissenso, le
aspettative esterne e interne al gruppo decisore per avere comunque risultati e l’entusiasmo collettivo per
l’impresa portarono quei gruppi a una cecità e mancanza di senso critico assai superiori a quella dei loro
membri singolarmente presi.
Una delle caratteristiche delle decisioni prodotte in regime di groupthink e di elevata pressione di
gruppo è la loro rischiosità. Probabilmente nessun decisore individuale si sarebbe preso la responsabilità di
avallare personalmente quelle azioni, avendo ricevuto le informazioni di tipo negativo che erano in effetti
disponibili a priori. È l’effetto di “produzione di squadra” e il possibile “free-riding” a livello di
responsabilità; i singoli si deresponsabilizzano poiché i contributi e le responsabilità individuali non sono
discernibili nella decisione di gruppo. Pertanto ogni membro del gruppo non sopporterà che in parte le
conseguenze delle scelte qualora l’esito fosse negativo. In mancanza di incentivi esplicitamente volti a
rendere i membri del gruppo solidalmente responsabili, a parità di altre condizioni, è quindi probabile che il
gruppo sia più propenso al rischio rispetto ad un decisore individuale interamente responsabile.
In considerazione delle patologie delle decisioni di gruppo menzionate in questo paragrafo e dei
vantaggi sottolineati nel paragrafo precedente, si può osservare che almeno la serie seguente di variabili ha
effetti significativi sull’efficacia del gruppo:
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• il grado di differenziazione delle informazioni possedute dai membri;
• il grado di differenziazione degli stili cognitivi e degli schemi percettivi;
• il grado di coesione attorno agli interessi del gruppo vissuti come “missione” (obiettivi da raggiungere
in ogni caso e a qualunque costo) piuttosto che come parametri con cui valutare opzioni (per cui un
problema può anche non ammettere soluzioni in un dato momento, se non ci sono alternative adatte;
• il grado di pressione del tempo;
• il grado di pressione esterna per risultati immediati; >
• una rivalità diretta tra gruppi.
Tuttavia, la relazione di queste variabili con l’efficacia dei gruppi non è lineare. Il gruppo efficace ha
bisogno di gradi elevati di differenziazione interna, di tempo per decidere, di non essere minacciato
esternamente. D’altro lato, se questi attributi del gruppo e del suo contesto raggiungono valori estremi, il
gruppo può essere posto in difficoltà o non essere sufficientemente stimolato e motivato. Una
differenziazione cognitiva troppo elevata può rendere difficile la comunicazione, interessi e valori comuni
sono necessari per orientare l’azione è permettere la costruzione del consenso per confronto, la pressione
e competizione esterna sostiene l’orientamento all’efficienza interna.
1.3. SUPPORTI ALLA DECISIONE DI GRUPPO
Così come la concorrenza ha bisogno di supporti e difese ed è difficile che si mantenga
“spontaneamente”; così come l’esercizio di autorità necessita di competenze specifiche perché non
degeneri in autoritarismo o imposizioni; così il gruppo ha bisogno di tecniche e competenze
comportamentali per funziona re in modo positivo e per non cadere in patologie e impasse.
Tra le prescrizioni offerte da studi di comportamento organizzativo ricordiamo le seguenti.
• Coinvolgimento nella definizione dei problemi. Nei processi decisionali si possono individuare
alcune sottoattività di trattamento di informazioni, quali la definizione dei problemi, la ricerca di
informazioni e alternative, la valutazione delle alternative e la scelta. Il coinvolgimento del gruppo nelle
varie attività è di grande impatto sulla dinamica del gruppo. Molte riunioni e processi decisionali di gruppo
non vanno a buon fine perché i partecipanti hanno idee piuttosto diverse su quale sia il problema da
risolvere. Discutendo, per esempio, di quale sia il miglior investimento in un sistema informativo, è
possibile che non si riesca a risolvere il problema perché per gli esperti si tratta di un problema di capacità
di memoria, per i commerciali di un problema di tempestività dei dati, per la funzione del personale di un
problema di riorganizzazione del lavoro. L’allocazione ai gruppi di attività di definizione dei problemi, e non
solo di discussione e valutazione di alternative, è fondamentale perché il gruppo si costituisca come tale
con riguardo alla presenza di un interesse comune, di una percezione comune del gioco.
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• Generazione di alternative libera e indipendente. Quanto detto con riguardo alla definizione del
problema non esclude che, invece, nella fase di generazioni di opzioni, i membri del gruppo riducano la loro
interdipendenza per conseguire maggior creatività. Una tecnica molto utilizzata è quella della formazione di
sottogruppi. Definito un problema di lancio di un nuovo prodotto, un gruppo di marketing si può dividere in
sottogruppi che generino idee pubblicitarie diverse, senza influenzarsi l’un l’altro in questa fase dedicata
all’aumento della varietà degli input informativi. Una seconda nota tecnica, dagli scopi simili, è quella del
brainstorming, o generazione libera di alternative in regime di sospensione del giudizio e della valutazione.
Quali sono i modi potenziali per migliorare un processo di montaggio? o per migliorare il processo
tradizionale di conduzione di un esame universitario? o per migliorare una procedura di valutazione del
personale? Lo sforzo dominante in questa fase è di pensare a qualcosa di diverso dalla situazione
preesistente, di “lontano”, di radicale, di non facilmente “disponibile” in termini cognitivi. Solo in un
secondo tempo tali idee verranno giudicate in termini di fattibilità, e, anche qualora vengano scartate,
alcuni loro elementi potranno essere incorporati nelle soluzioni accettate. Altra tecnica di sostegno alla
varietà degli input informativi è la costruzione deliberatamente differenziata del gruppo in modo tale da
contenere portatori di diversi schemi mentali, diversi stili cognitivi (esperti esterni, persone provenienti da
altre organizzazioni o da altri contesti nazionali); o persone chiamate a svolgere uno specifico ruolo di
“critico”, di “discussant”, di “controrelatore”.
• Conflitti sui problemi, non con le persone. La discussione e il confronto sono dinamiche ad alta
intensità sociale ed emotiva. Sono processi dedicati non solo a risolvere i conflitti di razionalità e giudizio,
ma addirittura, come si è visto, a crearli a fini di innovazione. Tuttavia, non sempre le persone sono allenate
a fare e ricevere critiche “costruttivamente”. La patologia del conflitto relazionale è stata la preoccupazione
principale nella letteratura psico-sociale sui processi di gruppo. In questa prospettiva, si indicano e si
prescrivono una serie di comportamenti poco costruttivi quanto frequenti: interrompere, essere aggressivi
verso le persone, cercar di abbassare lo status degli altri, disconoscere la legittimità dei partner, estraniarsi.
Come tecnica di supporto la formazione comportamentale al lavoro di gruppo ha un ruolo fondamentale
nel facilitare processi di gruppo efficaci, ed è infatti uno strumento organizzativo centrale nelle attività che
fanno ampio uso del lavoro di gruppo (dalle task forces militari alle équipe mediche, dai gruppi di
progettazione tecnica ai comitati interfunzionali e internazionali).
• Differenziazione di ruoli. L’assunzione di ruoli diversi e complementarità parte dei membri è
spesso efficace. Sia la differenziazione delle competenze e delle informazioni dei membri di un gruppo, sia
la possibilità e la convenienza ad una certa divisione del lavoro interna la giustifica. Per esempio, è spesso
utile creare ruoli focalizzati su diverse fasi o sottoattività decisionali (studi e ricerche, elaborazione di piani
e scenari, valutazioni comparate di alternative) o su diversi aspetti della dinamica di gruppo (come per
esempio i ruoli di moderatore, di esperto tecnico, di critico o discussant, di portavoce, di collegamento con
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altri gruppi) o naturalmente per specializzazione tecnica.
In conclusione, si può osservare che il coordinamento di gruppo ha sia relazioni positive sia negative
con gli altri meccanismi di coordinamento. Il coordinamento tramite confronto e decisione di gruppo può
essere in parte supportato e “assistito” da alcuni meccanismi tipici di altre modalità di coordinamento, per
creare forme organizzative basate sul gruppo. D’altra parte il confronto può essere facilmente “ucciso” se
l’impiego di quei meccanismi travalica determinati limiti.
Importanti meccanismi rafforzativi di un processo di gruppo efficace sono per esempio:
1. l’uso di forme di autorità procedurale, afferente al metodo di discussione, alla gestione degli
interventi, ma non al contenuto (le figure di moderatore, di presidente, di una seduta di un organo
collegiale);
2. la presenza di una conoscenza comune per quanto riguarda gli elementi di fondo: il linguaggio e le
capacità di capirsi, dei principi etici comuni, una condivisione dei valori che orientano l’attività del
gruppo ma non routine e conoscenze operative troppo simili.
3. lo scambio sociale, cioè la ricompensa reciproca attraverso transazioni di “beni sociali”: lo status, la
stima, il potere cognitivo, l’appartenenza e la socialità, e un sistema di “norme di reciprocità” che lo
regoli ma non la negoziazione e lo scambio sulle soluzioni tecniche.
1 .4. COSTI E LIMITI APPLICATIVI DELLA COMUNICAZIONE E DECISIONE DI GRUPPO
Dimensioni del gruppo. Il coordinamento dell’azione collettiva tramite confronto e costruzione del
consenso è il meccanismo più costoso in termini di tempo necessario e numero di comunicazioni impiegate.
Inoltre, al crescere del numero degli attori da coordinare, i costi crescono in ragione del numero di
combinazioni (connessioni) possibili tra le parti. Pertanto, una prima causa importante di “crisi del gruppo”
sono le dimensioni del sistema da coordinare. Vi sono piccole imprese che si avvicinano molto ad un
modello di governo di gruppo - si pensi a un gruppo di professionisti. Tuttavia anche nel caso di imprese
professionali, dove valga l’ipotesi di competenze distribuite e potere equilibrato, dove l’interesse comune
sia sostenuto da sistemi di compartecipazione e proprietà diffusa, la grande dimensione porta a processi
decisionali basati sulla consultazione, il voto, la negoziazione tra centro e periferia. Pertanto, nei sistemi
grandi ove per altri aspetti permangano le condizioni di complessità dei compiti che favoriscono l’uso dei
gruppi, ci si può aspettare forme di organizzazione che ibridano i meccanismi di gruppo con quelli più adatti
al governo delle grandi dimensioni.
Importanza delle decisioni. Oltre alla dimensione del sistema e alla complessità delle informazioni
dà trattare, l’importanza delle attività ha un impatto sulla convenienza relativa del gruppo rispetto a
modalità di coordinamento alternative. Decisioni con conseguenze importanti possono giustificare i costi di
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processi decisionali ampi, gli investimenti in capacità di trattamento delle informazioni maggiori di quelle
individuali. Infatti, anche nei sistemi organizzativi dove tutti i membri sono titolari di diritti decisionali (per
esempio le associazioni imprenditoriali e sindacali, l’insieme degli azionisti di una Spa, le cooperative) solo
le decisioni importanti sono discusse e valutate da tutti. Per contro, anche in sistemi coordinati
prevalentemente tramite autorità, le decisioni complesse e importanti sono spesso prese tramite confronto
e decisione di gruppo tra gli attori che controllano le informazioni e le competenze rilevanti (per esempio, i
comitati dei direttori di divisione o di funzione).
Conflitti tra interessi. Infine, il gruppo come modalità di coordinamento è tanto meno efficace
quanto più vi siano interessi in conflitto.
2. CONTROLLO DI GRUPPO
Il gruppo,non ha solo capacità di comunicazione e decisione, ma anche capacità di controllo. Come
accade anche per gli altri modi coordinamento, l’impiego a fini decisionali e l’impiego a fini di controllo
possono essere effettuati separatamente. Si può decidere in gruppo e affidare le garanzie di applicazione al
controllo per autorità o a schemi di incentivo.
Viceversa, si può confrontare sul controllo di gruppo per l’applicazione e realizzazione di attività
non decise dal gruppo stesso. Per esempio, in un gruppo di montaggio di una macchina per ufficio, le
attività possono essere predefinite; ciò nonostante, se i montatori sono incentivati a raggiungere un
risultato collettivo, possono controllare reciprocamente i comportamenti di lavoro.
Aree di attività in cui i contributi individuali invece non sono discernibili, situazioni di “produzione di
gruppo” o “di squadra”, sono potenziali candidate al controllo di gruppo, sotto alcune condizioni di
configurazione delle competenze e degli interessi dei componenti. Qualora le attività dei membri del
gruppo fossero separabili e ad ogni azione di ciascuno fossero collegabili senza ambiguità determinati
risultati, nessuna attività di controllo sarebbe necessaria; poiché le persone potrebbero essere incentivate a
contribuire tramite ricompense legate ai risultati.
2.1. RILEVAZIONE
Il controllo di gruppo implica innanzitutto che i membri del gruppo possano osservare la
performance; il contributo di ogni membro del gruppo deve essere rilevabile dagli altri, o attraverso la
visibilità dei risultati o attraverso la visibilità dei comportamenti tenuti.
Questo requisito restringe la fattibilità del controllo di gruppo ad alcune circostanze. Innanzitutto,
al crescere delle dimensioni del gruppo, il controllo diretto tra i membri diviene sempre più difficile e
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costoso. Oltre al numero di persone, anche il grado di divisione del lavoro e di diversità tra le
specializzazioni dei diversi membri costituiscono una barriera al controllo di gruppo.
Un problema delicato è posto dalla complessità delle attività. Infatti, si è visto che il gruppo è un
efficace meccanismo decisionale su attività complesse. Ci si può quindi chiedere se il gruppo abbia anche
proprietà di controllo di quel tipo di attività. Per esempio, consideriamo attività di ricerca. In attività di
ricerca e analisi medica, biologica e chimica di laboratorio, dove è richiesta presenza fisica delle persone ci
sono molti indicatori osservabili di attività, sia in termini di accuratezza di comportamento sia di risultati
degli esperimenti, il controllo di gruppo sarà molto efficace. Al contrario, nelle attività di ricerca poco
osservabili, vuoi perché svolte prevalentemente sul campo, il controllo di gruppo è poco praticabile.
Pertanto, mentre la decisione di gruppo è efficace soprattutto in i condizioni di elevata complessità
informativa, il controllo di gruppo è tanto più efficace quanto minore è la complessità dell’attività.
2.2. VALUTAZIONE
I membri del gruppo devono essere in grado di valutare la qualità dei contributi forniti. Per
esempio, nel caso di impiego del gruppo in attività di decisione о soluzione di problemi, i membri saranno
normalmente in grado di valutare la qualità dei contributi forniti in termini di impegno, preparazione,
serietà, rispetto delle regole di svolgimento della discussione, non evasione dai propri compiti e dal ruolo
atteso nel processo. Non sempre saranno in grado di valutare la qualità tecnica delle analisi e delle
informazioni fornite, specie se la differenziazione di competenze specialistiche nei gruppo è elevata.
Pertanto, una condizione importante per l’efficacia del gruppo come meccanismo di controllo è una relativa
diffusione e omogeneità delle competenze rilevanti per l’attività di gruppo.
La creazione di aspettative condivise sui modelli specifici di comportamento favorisce la formazione
di giudizi omogenei sulla qualità dei contributi di ciascun individuo da parte di tutti gli altri. Infatti, sé nel
gruppo vi fossero molte opinioni diverse sulla performance di un dato membro, il gruppo non sarebbe in
grado di applicare coerentemente nessuna sanzione capace di correggere il comportamento. Pertanto, il
gruppo sarà tanto più efficace nel controllo quanto più chiaro e condiviso sarà il sistema di ruoli, di
aspettative reciproche di comportamento che governa il suo funzionamento. Se questo è vero, allora tra le
condizioni in cui i gruppi che possono esercitare efficacemente un controllo sociale sui loro membri vi è una
condizione di stabilità nella composizione del gruppo, e stabilità nelle attività del gruppo. In altri termini i
membri del gruppo devono avere il tempo’ di conoscersi, di formarsi aspettative reciproche, di definire dei
modelli di comportamento rispetto ai quali valutare, i contributi dei membri che non siano già obsoleti
prima di poter diventare operativi. Le attività nuove e innovative, invece, mal si prestano al controllo di
gruppo.
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2.3. RICOMPENSA E SANZIONE
Attraverso quali strumenti i gruppi possono esercitare influenza? Perche i membri di un gruppo
dovrebbero prendersi il disturbo, talvolta psicologicamente costoso, di controllarsi l’un l’altro?
Il gruppo è inevitabilmente un luogo di scambio sociale; Anche qualora esso sia formato per lo
svolgimento di attività economiche, le interazioni tra i membri del gruppo implicano transazioni sociali.
Quali beni sociali vengono creati dal gruppo e possono da esso venir conferiti o ritirati nei confronti dei
propri membri? Per esempio i seguenti.
• Lo “status”. l’impegno, le capacità cognitive, la capacità di risolvere e mediare i conflitti,
l’esperienza nelle attività del gruppo vengono riconosciuti dai membri del gruppo che gratificano i singoli
attribuendo loro uno status ad essi congruente;
• Le competenze, il controllo di informazioni e risorse critiche per il gruppo, le capacità dialettiche e
relazionali, costituiscono base per l’esercizio di influenza tra i membri del gruppo e questa possibilità
rappresenta un beneficio, una ricompensa per molti individui;
• La stima: molti individui traggono inoltre dalla stima degli altri una parte importante delle
ricompense, dei ritorni che essi cercano nella propria attività; i gruppi conferiscono o ritirano la stima in
funzione della qualità dei contributi individuali;
• L’appartenenza: l’isolamento, l’esclusione, l’emarginazione, il ridicolo sono sanzioni sociali che di
solito sono avvertite in modo molto negativo dalle persone, tanto più, quanto più un singolo gruppo di
lavoro è prevalente nella vita di un individuo, quanto meno diversificati sono gli impegni della persona e le
sue possibilità di ottenere ricompense in altri gruppi.
2.4. COSTI E LIMITI DEL CONTROLLO DI GRUPPO
Le diverse proprietà del gruppo come meccanismo di decisione e come "meccanismo di controllo
portano ad una contraddizione nell’uso dei gruppi come modalità di coordinamento.
In teoria, non è impossibile pensare a gruppi capaci di indossare due cappelli diversi a seconda
dell’esercizio delle due diverse funzioni di decisione e di controllo. Tuttavia, in pratica, è molto difficile che i
membri di un gruppo sviluppino una capacità così sofisticata di comportamento contingente. Inoltre, le
stesse caratteristiche strutturali dei membri - orientamenti, personalità, diversità di informazione e
formazione, varietà interna di frames percettivi e stili cognitivi - che sostengono processi efficaci sono
diverse nel gruppo “creativo” rispetto al gruppo “precettivo” o “normativo”. Pertanto, esiste un trade-off di
fondo nei gruppi tra investimento in capacità di decisione e investimento in capacità di controllo.
Nella realtà organizzativa molti gruppi privilegiano infatti chiaramente l’una o l’altra dimensione.
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Per esempio, il funzionamento dei gruppi nelle imprese giapponesi, così come descritto dagli studi
organizzativi più accurati, è centrato sull’uso di un mix di controllo di gruppo e di controllo culturale sui
comportamenti. Questi stessi studiosi dei “clan”, ne hanno messo in luce i costi sul versante delle capacità
di cambiamento e di generazione di innovazioni. Al contrario, i gruppi che hanno bisogno di creatività,
innovatività e flessibilità hanno spesso problemi sul versante del controllo.
Al di là del contrasto con la funzionalità decisionale, il controllo di gruppo incorre in altri limiti suoi
propri: nel controllo per supervisione vi è sèmpre un certo tasso di devianza dalle indicazioni, di perdita di
controllo; nel controllo tramite uscita, il processo è temperato da fattori di inerzia e fedeltà. Nella
letteratura organizzativa di impostazione più tradizionale e/o meno recente, queste imperfezioni sono state
spesso modellizzate come “costi” incomprimibili di controllo. Tuttavia, come si è già posto in luce, la
presenza di queste distorsioni nei processi di controllo può avere almeno due importanti funzioni positive.
Primo, esse possono essere il segnale che la natura delle attività sta cambiando, che la forma di controllo
adottata sta entrando in crisi, e che il passaggio ad altre modalità di coordinamento delle attività
economiche è all’ordine del giorno. Secondo, esse possono costituire un segnale che il sistema sta
apprendendo nuovi comportamenti attraverso abuso degli spazi di discrezionalità e adattamento lasciati
dai processi di controllo. I supervisori non potrebbero apprendere nulla dall’esperienza degli esecutori se i
sistemi di autorità fossero perfetti; i produttori non avrebbero il tempo di apprendere nulla dai
consumatori se l’uscita fosse perfettamente senza attrito. Nei gruppi, la “devianza” e le “tensioni di ruolo”
rappresentano un simile fattore a doppio taglio.
Gli studi sulle tensioni di ruolo hanno utilmente individuato una serie di fonti di distorsione
nell’assunzione di comportamenti conformi alle aspettative del gruppo da parte degli individui. Per
esempio, la comunicazione delle aspettative può esser soggetta a tutti problemi di non chiarezza del
messaggio o di percezione e interpretazione del ricevente difforme da quella dell’emittente tipici di
qualunque processo di comunicazione poco codificato {distorsione di ruolo). Così, il ruolo, diciamo, di un
venditore di cosmetici porta a porta può esser “poco chiaro” perché i venditori non hanno avuto tempo e
modo di formarsi aspettative reciproche, perché non è stato dedicato tempo alla comunicazione e
all’interazione, alla formazione, alla socializzazione e allo scambio di esperienze sui comportamenti e le
tecniche utilizzabili. I comportamenti dei venditori potrebbero essere poco prevedibili e poco conformi alle
aspettative innanzitutto e semplicemente perché questi non sanno come comportarsi.
Il problema della scarsità di informazioni e conoscenze sui comportamenti attesi può assumere
proporzioni più gravi e strutturali se le persone non hanno le risorse, tecniche e professionali, per
soddisfare le aspettative (incongruenza di ruolo). Una disfunzione organizzativa spesso rilevata è la
formazione di aspettative verso le persone che svolgono determinate attività - senza che a queste persone
vengano messi a disposizione i mezzi per assumere quel ruolo (competenze, status, tempo e istanze
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appropriate). Un esempio ricorrente riguarda i “ruoli di integrazione” tra funzioni aziendali, per lo scaricarsi
inavvertito di responsabilità di integrazione su ruoli che sono intermediari nel processo produttivo ma che
non hanno lo status e le competenze necessarie: per esempio, l’aspettativa che tecnici
dell’ingegnerizzazione dei prodotti medino e integrino le esigenze di innovazione dei progettisti della
ricerca con quelle di standardizzazione della produzione senza averne gli strumenti tecnici e organizzativi.
Possono infine insorgere conflitti di ruolo e tra ruoli. Ogni attore appartiene normalmente a più gruppi,
anche limitandosi alle attività lavorative. Se i diversi gruppi hanno aspettative diverse con riguardo alle
stesse attività di un attore, i meccanismi di controllo si intersecano e il ruolo risulterà definito in modo
conflittuale e ambiguo. Per esempio, i ruoli di confine tra diversi gruppi hanno tipicamente questa
caratteristica: il ruolo dei capi intermedi è definito in modo conflittuale dalle aspettative del gruppo dei
subordinati e del gruppo direttivo di un’impresa; il ruolo dei venditori di beni/servizi complessi, con
rilevanti contatti con i clienti, risente del conflitto tra aspettative di questi ultimi e dell’impresa in cui è
incluso; i diversi gruppi funzionali hanno aspettative differenti riguardo ai comportamenti che dovrebbero
caratterizzare i ruoli trasversali di collegamento tra di esse, come i product-manager.
Il conflitto di ruolo può diventare conflitto d’interesse qualora una stessa "persona" assumesse
ruoli con obiettivi parzialmente o totalmente incompatibili. Un certo livello di conflitto fra ruoli è naturale e
incomprimibile in una società differenziata, come il conflitto tra ruoli di lavoro e impegni e ruoli extra-
lavorativi e familiari; o tra ruoli di lavoro differenziati come un ruolo di lavoro dipendente affiancato da
un’attività professionale. Tuttavia il conflitto tra ruoli può diventare distruttivo se arriva ad assumere il
carattere di “incompatibilità” fra orientamenti e interessi loro caratteristici. Possono essere incompatibili,
per esempio, ruoli di controllore e di responsabile di una stessa attività; ruoli di direzione d’impresa e di
direzione di sindacati dei lavoratori, ruoli di interesse pubblico e di proprietà e gestione di attività private.
Pertanto, i membri del gruppo potranno non accettare deliberatamente di uniformarsi alle attese,
potranno assumere un certo grado di devianza dalle norme e dai ruoli attesi. I gruppi normalmente
tollerano un certo grado di devianza, non solo poiché un processo di controllo perfetto è impossibile, ma
anche perché è controproducente. Infatti, lo slittamento dei comportamenti, rispetto, alle attese,
deliberato o casuale, può essere fonte di apprendimento per tentativi o errori di nuovi comportamenti e
può permettere un aggiustamento a cambiamenti non previsti nelle attività.
3. TIPI DI COORDINAMENTO DI GRUPPO
Un gruppo può essere titolare in diversa misura di diritti e obblighi riguardanti le azioni, le decisioni,
il controllo e la ricompensa derivante dall’azione di gruppo. La diversa allocazione di tali diritti al gruppo
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definisce diversi tipi di gruppo, la cui efficacia può essere collegata a diverse condizioni, anche perché essi
risolvono in modo diverso il trade-off tra esigenze di prevedibilità e coesione ed esigenze di soluzione dei
problemi e di innovazione.
Se il gruppo può osservare perfettamente i comportamenti di ogni componente allora il controllo
del gruppo sarà deterministico e istantaneo: a comportamenti devianti dalle attese corrisponderanno
sanzioni (sociali e/o economiche), a comportamenti conformi conseguiranno premi e ricompense. Questo
tipo di gruppo, adatto a governare attività chiare e direttamente osservabili, è stato chiamato gruppo
primitivo. Quando le dimensioni del gruppo diventano grandi può essere efficiente la costituzione di
un’autorità che svolga l’attività di supervisione che i membri del gruppo non possono più svolgere
direttamente. Si supponga ora che le attività di gruppo oltre ad essere interdipendenti e non separabili,
siano anche difficilmente osservabili e misurabili. Per esempio, si pensi ad un progetto tecnico di impianto,
da definirsi in modo da risolvere alcuni problemi di lavorazioni particolari di un cliente, realizzato da un
gruppo misto tecnico-commerciale. I membri del gruppo potranno osservare reciprocamente i
comportamenti rilevanti solo indirettamente. Quanto duramente un ingegnere ha pensato a possibili
soluzioni tecniche alternative? Quanto bene si sono informati su esperienze utilizzabili disponibili o
descritte su pubblicazioni specialistiche? Quanto approfonditamente i responsabili degli acquisti hanno
cercato i materiali che avrebbero potuto risolvere il problema? Quanto il ritrovamento di una soluzione più
o meno buona dipende dallo sforzo delle persone e quanto da fattori esogeni? La qualità e la quantità dei
contributi è valutabile dai membri del gruppo solo imprecisamente.
In queste condizioni di ambiguità nella valutazione delle prestazioni, si è sostenuto, l’allungamento
dell’orizzonte temporale, la “longevità” della relazione, la valutazione delle prestazioni e l’erogazione di
ricompense sulla base di una serie lunga di episodi dovrebbe permettere il governo di un tipo di relazione
non gestibile in nessun modo in relazioni istantanee. Perciò la forma di coordinamento di gruppo in tale
configurazione è stata definita “gruppo relazionale”.
Nel lungo periodo, infine, ci si può attendere che anche in presenza di incentivi al free-riding dovuti
all’incompleta osservabilità dei contributi, almeno nei piccoli gruppi in cui i contributi di ognuno sono
importanti, gli attori scoprano che norme di reciprocità cooperative del tipo “contribuire per sempre, fino a
che non si hanno segnali che qualcun altro non contribuisca” è conveniente anche per il singolo.
Infine, vi possono essere situazioni in cui le attività e i contributi non sono osservabili né valutabili
nemmeno nel lungo periodo. Sono troppo complesse, troppo specializzate, troppo individuali, troppo
distanti. La decisione non è separabile dal controllo ed entrambi non sono separabili dall’azione; vi sono
forti esigenze di qualità, creatività e innovatività nelle decisioni. Come può governare e controllare i propri
membri un gruppo di consulenti di direzione aziendale che opera internazionalmente? uno studio legale
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che opera su cause rischiose e complesse?
La cooperazione e lo scambio in queste condizioni non può essere gestita tramite processi di
controllo (esterno, da parte di altri); ma solo da sistemi di incentivo o comunque di auto-controllo. Si tratta
di riallineare gli obiettivi piuttosto che i comportamenti. In pratica, ciò può realizzarsi in due modi, non
mutuamente esclusivi, ed entrambi diversi dal controllo di gruppo. Il coordinamento di gruppo sarà
focalizzato sulla condivisione di conoscenze e sulla formazione delle decisioni anziché sul controllo.
• i membri dei gruppo possono diventare controllori di se stessi attraverso meccanismi di
incentivo come il cointeressamento individuale ai risultati economici residuali o la proprietà condivisa delle
attività. Questo è quanto infatti accade nelle partnership di professionisti, che raggiungono, grazie a tali
meccanismi, dimensioni anche molto elevate (come nel caso delle imprese di consulenza internazionali).
• I membri del gruppo possono essere controllori di se stessi grazie a meccanismi culturali,
all’identificazione con gli obiettivi comuni e con il gruppo, all’aspettativa reciproca di adesione ad un
insieme di norme uguali per tutti i membri, alla condivisione di conoscenze e linguaggi. I gruppi di
professionisti sono sempre un esempio pertinente: i codici di condotta, la reputazione di osservanza delle
norme e della deontologia professionale, la selezione attenta e la formazione intensiva, sono strumenti
fondamentali per il governo di tali gruppi. Per definire questo tipo di gruppo in modo distintivo usiamo il
termine “gruppo comunitario”.
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CAPITOLO 7
NEGOZIAZIONE
“Vi sono molte modalità consolidate per risolvere le dispute: le tradizioni, le regole, i duelli, i
tribunali, i mercati e le negoziazioni” Qual è lo specifico ambito applicativo della negoziazione rispetto a
modalità di coordinamento alternative? Quali sono le sue proprietà distintive? In effetti, il termine
“negoziazione” ha un significato amplissimo. Nec otium in latino identificava l’attività economica stessa, la
“negazione dell’ozio”, il dedicarsi agli affari. Il significato tecnico in cui oggi si usa questo termine è più
ristretto. Condizioni necessarie e sufficienti per definire un processo di coordinamento, una negoziazione
sono le seguenti:
· il processo implica comunicazione tra parti identificate con interessi e preferenze diverse;
· processo implica uno scambio di risorse materiali o immateriali tra le parti (denaro, informazioni, diritti,
impegni di comportamento);
· il processo implica una ricerca di modalità di scambio che rispondano il più possibile agli interessi delle
parti;
· il processo viene chiuso - se si chiude - con una decisione congiunta o accordo tra le parti;
Le definizioni costruite dagli studiosi della negoziazione la identificano infatti come “un processo di
interazione in cui due o più parti cercano di accordarsi su un risultato reciprocamente accettabile”, una
decisione congiunta tra due o più parti che non hanno gli stessi interessi.
Queste definizioni mettono in luce il tratto distintivo e il diverso ambito applicativo della
negoziazione come modalità di coordinamento rispetto agli altri sinora esaminati: non è un meccanismo
basato su decisioni unilaterali come il prezzo e il voto; i diritti di decisione sulle azioni da compiere sono
esercitati direttamente dalle parti - diversamente da quanto accade in una relazione di autorità; le parti
hanno e sanno di avere interessi in conflitto - in un processo di decisione di gruppo.
Inoltre, la negoziazione è basata sulla voce, è un processo di comunicazione tra attori specifici; ma è
anche un processo di ricerca, un tentativo di trovare soluzioni, un processo in cui le alternative di azione
vengono generate durante il processo, non solo in modo unilaterale, come nell’autorità, ma multilaterale,
come nel gruppo.
Pertanto, la negoziazione è un processo capace di gestire l’incertezza nel senso forte di capacità di
gestire problemi non strutturati, in cui le alternative d’azione non sono predefinite.
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Riassunto dal testo: Organizzazione e comportamento economicoCapitolo 7 - Negoziazioni
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La negoziazione non è però un processo efficace ed efficiente per gestire qualunque situazione di
scambio o cooperazione. Essa è un processo estremamente costoso, può quindi essere altamente
inefficiente in alcune situazioni rispetto ad altri sistemi. Oppure può essere impossibile, inefficace, o inutile.
Può essere distorcente, in alcune circostanze estreme.
1. NEGOZIARE O NON NEGOZIARE?
Se due o più parti hanno interessi completamente opposti, se il gioco è “a somma zero”, non c’è
spazio per negoziare. Per esempio, se due candidati sono interessati alla stessa posizione di direttore, e non
vi sono altre materie di scambio da usare in modo compensativo, essi non hanno nulla da negoziare. Uno
vincerà e l’altro perderà, in funzione delle loro mosse unilaterali. I giochi a somma zero non sono tuttavia
molto frequenti nella vita economica.
Ciò vale anche nelle relazioni più competitive, per esempio quelle compratore - venditore in cui la
materia fondamentale di cui si discute è il prezzo e una parte ha interesse a comprimerlo, l’altra ad alzarlo.
Infatti, anche in questo caso le parti possono preferire comunque un accordo a nessun accordo, il
compromesso all’uscita. In questo modo si crea spazio per la negoziazione.
Dire che due parti negoziano un prezzo implica che il prezzo non sia determinato esogenamente dalla
legge della domanda e dell’offerta, che gli attori possano decidere sui prezzi, almeno entro un arco di
valori, che i prezzi non contengano di per sé tutte le informazioni rilevanti per effettuare lo scambio.
Inoltre, dire che due o più parti preferiscono un accordo a nessun accordo implica che vi siano alcuni
elementi di monopolio, che le parti non siano perfettamente sostituibili. Come sappiamo, ciò può avvenire
sia perché uno o più attori controllano risorse scarse e utili non reperibili da altre fonti per motivi naturali,
di dimensioni del mercato, o di intervento pubblico sia perché le risorse scambiate sono specifiche alle
parti, cioè hanno minor valore in scambi con partner alternativi.
Sotto questi aspetti, la negoziazione è un meccanismo efficace nella regolazione di alcuni tipi di
relazioni in cui lo scambio e la competizione basate sul prezzo “falliscono”. Altre condizioni di impiego
efficace della negoziazione coincidono con situazioni di crisi di altri meccanismi di coordinamento,
l’autorità, il gruppo, le regole. Per esempio, molti aspetti delle relazioni di lavoro nelle grandi imprese,
precedentemente governate da relazioni di autorità, sono oggi negoziati. Tra i motivi di questa “ritirata”
dell’autorità a vantaggio della negoziazione vi può essere la maturazione di una capacità di definire
interessi e preferenze propri sulle condizioni di impiego del lavoro o sulle azioni da compiere in generale - il
restringimento delle “zone d’indifferenza” in cui si è disposti a rinunciare all’esercizio dei diritti di decisione.
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Inoltre, anche l’aumentata complessità informativa e incertezza di molte attività hanno contribuito a
minare l’efficacia e l’efficienza di decisioni prese da un solo agente centrale.
In effetti la negoziazione è un processo basato su promesse o minacce di dare o fare qualcosa “in
cambio” di qualcos’altro su basi più o meno simmetriche. Se una delle parti non può uscire dalla relazione,
“non ha alternative” e dipende completamente dalle risorse fornite dalla controparte si può effettivamente
ritenere probabile un’imposizione che appare tuttavia come una forma estrema, totalmente asimmetrica di
negoziazione.
Per esempio, imprese quasi monopoliste possono “imporre” le condizioni di scambio ai loro fornitori.
Tuttavia, anche questo esito, pur probabile in condizioni di monopolio unilaterale, non è scontato. Le basi
del potere negoziale non sono infatti solo le risorse a disposizione e la loro importanza e insostituibilità.
Non è impossibile negoziare difendendo bene i propri interessi anche in posizione di debolezza strutturale.
Tuttavia relazioni con partner che controllano tutte le risorse e/o le informazioni rilevanti sulla materia in
questione non dovrebbero apparire.
La raccomandazione standard è quindi di non entrare in negoziati in condizioni di accentuata
asimmetria informativa. Tuttavia, un negoziatore sagace potrebbe trovare alcune vie d’uscita alternative a
una perdita economica o dell’affare. Più in generale, affinché negoziare sia conveniente è necessario che le
relazioni di scambio o cooperazione abbiano qualche aspetto vantaggioso per tutte le parti, ovvero che
esista una possibile zona di accordo.
La risposta al dilemma - negoziare o non negoziare - dipende inoltre dalla convenienza relativa di tale
meccanismo rispetto ad altri! Meccanismi basati sull’“uscita” possono essere più efficienti di quelli basati
sulla “voce”; meccanismi basati sulla “loyalty” e l’adesione a norme, regole e programmi possono essere
più efficienti in altre situazioni. Perché gli automobilisti non negoziano chi deve passare per primo agli
incroci? O perché i cittadini non negoziano quante tasse pagare? Perché, in quelle situazioni, le regole sono
un meccanismo di coordinamento molto più efficiente della negoziazione.
Uno dei motivi è il numero di relazioni di interdipendenza da coordinare può negoziare tra due, tre,
forse dieci parti; difficilmente tra mille. Un altro motivo, non scollegato al numero di attori interdipendenti,
e il potenziale di opportunismo rispetto a qualunque accordo possa essere preso. Per esempio, se
l’attuazione di un accordo non avviene contestualmente alla definizione del medesimo e gli interessi sono e
rimangono conflittuali, vi possono essere incentivi a tradire i patti in fase di attuazione. Quanto maggiori
sono i vantaggi nel non cooperare, quanto minore è l’osservabilità e la controllabilità dei comportamenti
tra le parti, in fase di attuazione, tanto meno la negoziazione, o almeno la negoziazione da sola, sarà
efficiente.
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Un terzo motivo, collegato ai due precedenti, è il costo del processo negoziale - il tempo e le risorse
che esso stesso assorbe. Non varrebbe la pena, per esempio, impegnare nel processo di decisione
congiunta risorse che hanno maggior valore di quelle che si stanno negoziando. Oppure, una regola o
un’autorità arbitrale può forse rispondere meno accuratamente a tutte le particolari configurazioni degli
interessi delle parti, ma questi costi di mancata rappresentanza degli interessi degli attori nelle azioni
collettive potrebbero essere controbilanciati dai minori costi dei processi di negoziazione di quelle azioni.
2. STRUTTURE FONDAMENTALI DELLA NEGOZIAZIONE A DUE PARTI
Non esiste un modo migliore di negoziare in generale. La prima e principale cosa da capire in una
negoziazione è quale sia la “struttura del gioco”, ovvero la configurazione degli interessi.
Si è detto che la negoziazione è un processo utile per comporre il conflitto tra interessi diversi, ma
quanto diversi? Differenti tipi e gradi conflitto possono essere risolti in modo efficace ed equo tramite
diverse strategie. Tuttavia, come riconoscere la struttura del gioco in una situazione di incertezza? Per
definizione, in una situazione potenzialmente risolvibile tramite negoziazione le parti non conoscono per
certo i vincoli, le alternative e le preferenze delle altre parti (se mai conoscono le proprie). Pertanto, i primi
passi di un processo negoziale efficace sono sempre esplorativi e interlocutori. Non si tratta, ancora; si
scambiano informazioni sugli intenti e gli scopi di fondo per cui si vorrebbe negoziare. Perché siamo qui?
Perché ci serve ciò che vorremmo negoziare? Da quali contesti emergono tali bisogni? Queste semplici
domande di fondo sulla situazione negoziale sono di estremo valore e aiuto. Infatti una delle patologie più
note della negoziazione è la sopravvalutazione del conflitto. Poiché la situazione contiene alcuni ovvi e
visibili elementi di conflitto - le parti si contendono o si stanno dividendo risorse - allora si presume che gli
interessi siano totalmente opposti cioè che ad una fetta più grande ottenuta da una parte corrisponda
necessariamente una fetta in pari misura più piccola destinata all’altra.
Un esempio molto citato di quanto le situazioni negoziali possano sembrare di questo tipo altamente
conflittuale mentre in realtà non lo siano, è diventato il famoso negoziato e accordo di Camp David tra
Egitto e Israele sulla striscia di territorio che i due paesi si contesero negli anni 70. Quale gioco può apparire
più conflittuale di questo? La torta sembra fissa, un dato territorio; e sembra trattarsi, appunto di come
tagliarla a fette, ognuno aspirando alla parte maggiore (anzi a tutto il territorio). La domanda sugli interessi
di fondo retrostanti tali posizioni di domanda/offerta chiarì che la risorsa realmente appetita non era il
territorio in sé, ma la sicurezza delle frontiere da parte israeliana e la sovranità di principio da parte
egiziana. Così la soluzione della zona smilitarizzata a bandiera egiziana consentì di soddisfare gli interessi di
entrambe le parti. Molte situazioni di interdipendenza economica corrispondono a questo prototipo di
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conflittualità tra le posizioni che sono cognitivamente più disponibili alle parti e, allo stesso tempo, di
conciliabilità sostanziale tra interessi retrostanti.
Per esempio, due imprese con prodotti simili possono competere per sottrarsi quote di mercato,
salvo scoprire che le loro competenze sono, complementari - rendendole forti su linee di prodotti e canali
di vendita complementari per cui potrebbero stringere accordi di commercializzazione (per esempio, una
banca e una compagnia di assicurazione sui prodotti per l’investimento finanziario a lungo termine).
Ci si può tuttavia chiedere se la cessione di informazioni e la comunicazione non rappresenti un
rischio eccessivo data la presenza potenziale di conflitto forte e la possibilità che tali informazioni vengano
usate ostilmente in fase di trattativa. Il dilemma “comunicare o non comunicare” in un gioco di cui non si
conosce ancorala struttura e con una controparte di cui non si conosce ancora la disponibilità a
comunicare, ha la struttura di un dilemma del prigioniero. Per entrambi, l’esito sarebbe migliore se si
comunicasse, ma ad ognuno, non sapendo ciò che l’altro farà, conviene non comunicare. Questo può
spiegare perché tante negoziazioni non decollino o vengano impostate conflittualmente anche quando
sarebbe meglio per tutti non farlo. Tra le possibili vie d’uscita, come in ogni dilemma del prigioniero, vi sono
la trasformazione di una scelta singola in un “gioco ripetuto” un insieme di piccoli passi, di piccole aperture,
che vengono confermati e seguiti da altri solo se la controparte adotta comportamenti reciproci; oppure
una conoscenza individualizzata della controparte, della sua specifica propensione alla cooperatività, basata
sull’esperienza passata e sulla reputazione. Un secondo elemento fondamentale per comprendere la natura
della negoziazione che si va a condurre è la ricerca e l’analisi delle alternative che ogni parte può avere alla
conclusione di un accordo con una specifica controparte. Questo elemento è tanto importante e fre-
quentemente considerato nelle analisi delle negoziazioni da, essere identificato dagli esperti di
negoziazione con un acronimo, “MAAN” o “migliore alternativa a un accordo negoziato” (“BATNA” in
inglese, “best alternative to a negotiated agreement”).
Ricercare o immaginare alcune principali alternative è utile per valutarne le conseguenze in termini di
costi/benefici e comprendere quale può essere il livello di accordo sotto o sopra il quale non si è disposti a
continuare la trattativa. Questo livello è chiamato, nelle negoziazioni in cui i benefici possono essere
monetizzati, prezzo di rottura o prezzo di riserva. Comunque anche qualora non si tratti di beni valorizzabili
monetariamente e di “prezzi” propriamente detti, una collocazione, almeno ordinale, delle diverse
alternative secondo una scala di utilità per il negoziatore è un requisito necessario per coordinare gli scambi
utilizzando la negoziazione.
Per quanto riguarda la struttura della negoziazione, se il prezzo è l’unica materia ritenuta rilevante,
se non si vuole o non si può cercare o non si trovano altre materie compensative di scambio, essa è
effettivamente caratterizzata da interessi diametralmente opposti con riguardo al punto di accordo (gli
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interessi sono invece convergenti con riguardo alla convenienza di accordarsi, ed è questo che rende
possibile una negoziazione).
Tale struttura negoziale è chiamata struttura distributiva. L’altra possibile configurazione principale è
la struttura integrativa: in cui è possibile trovare combinazioni di scambio in cui tutti guadagnano rispetto
ad altre configurazioni, In cui si può “allargare la torta” prima di dividerla.
L’esempio già citato di Egitto e Israele consente di chiarire come questo possa avvenire. In realtà
l’esempio, se stilizzato, rappresenta un caso limite in cui due parti che si contendono il 100% di una risorsa ,
riescono ad ottenerlo entrambe (tutto il territorio quanto a sovranità all’Egitto e tutto il territorio quanto a
smilitarizzazione ad Israele). Un punto di accordo simile sarebbe rappresentato dal punto M in figura 1,
esso porta ad entrambe le parti l’utilità corrispondente ad una appropriazione di tutta la torta. Una volta
che si sia visto o trovato un punto simile, si è di fatto scoperto di essere in una situazione praticamente
priva di conflitto d’interesse, in cui non c’è in realtà nulla da trattare (scambiare). Lo stesso accadrebbe se si
scoprisse addirittura un punto come S: le due parti accordandosi possono ottenere di più che non
appropriandosi ognuna di tutta la torta. Ciò significa che l’accordo genera nuove risorse e nuovo valore,
come nel caso di due imprese con competenze
commerciali complementari che accordandosi
conquistano una quota di mercato superiore alla somma
delle quote controllate e contese dalle due imprese
separate. Si potrebbe classificare separatamente questo
tipo di negoziazioni - data la loro importanza sotto
l’aspetto della creazione di valore e della riduzione dei
costi opportunità - come “negoziazioni generative”.
Nella maggior parte dei casi tuttavia, non si riuscirà a
trovare punti di accordo che comportano solo benefici e
nessun costo. Graficamente, considerando gli “accordi integrativi” A, B, C e D in figura 1 si può notare che punti
come A e D siano generati da piccole concessioni dell’attore 1 e 2 rispettivamente, che fanno fare grandi passi
all’utilità della controparte, cioè sono generati da cessioni di risorse che hanno utilità scarsa per chi le cede e molto
elevata per chi le riceve.
Questa osservazione porta a notare un altro aspetto importante della negoziazione - e della
negoziazione integrativa in particolare. Le azioni negoziate non sono indipendenti dal processo che le
genera. Uno degli aspetti del processo che ha maggior influenza sul contenuto degli accordi che verranno
raggiunti è la misura in cui le diverse materie sono trattate disgiuntamente o congiuntamente. Si sono
distinti tre approcci principali, caratterizzati da diversi vantaggi e limiti.
Figura 1 - Strutture negoziali alternative
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• L’approccio “item per item”. Trattare sequenzialmente le singole materie presenta il grande,
spesso decisivo, svantaggio, di limitare la visione delle loro complementarità. L’approccio è pertanto più
adatto a negoziati distributivi dove non vi siano molte possibilità di scambi di items fra le parti. L’approccio
item per item può essere temperato da forme di alternanza, lungo la durata del processo: avendo A ceduto
sull’item X, già trattato, pretenderà una concessione di B sull’item Y, ancora da trattare. Tuttavia,
l’approccio item per item è talvolta il male minore in negoziati con materie numerose, sofisticate e molto
diverse fra loro. Sia pur al prezzo di trascurare le interdipendenze tra le materie, l’approccio item per item
permette una maggior competenza specialistica dei negoziato riducendo tempi e costi dei processo.
• L’approccio “a testo unico”. Secondo questo approccio, i negoziatori non procedono partendo da
piattaforme contrapposte ma lavorano sin dall’inizio su un unico documento, comprensivo di tutte le
materie in gioco, che prefigura una о più ipotesi di accordo, modificandolo e sviluppandolo fino a
raggiungere un testo di mutua soddisfazione. Il metodo è ambizioso. Infatti, poiché è ammesso che il testo
di partenza influenza notevolmente l’accordo finale, esso deve già rispondere a standard elevati di
razionalità ed equità; raramente può essere elaborato senza l’intervento di una terza parte di indiscussa
competenza ed equilibrio; sempre richiede l’investimento di ingenti risorse in analisi e studi preliminari; è
inseparabile da un notevole grado di formalizzazione e istituzionalizzazione delle trattative. Pertanto è un
approccio interessante soprattutto in negoziati innovativi e complessi, per esempio le grandi questioni
relative alle" relazioni industriali.
• L’approccio “per pacchetti”. È un approccio intermedio con ampie possibilità di applicazione.
Infatti, in tutti i negoziati di media complessità in cui non si sia costretti a procedere item per item per
vantaggi di specializzazione, о non vi siano le condizioni e le risorse per procedere a testo unico, si potranno
utilmente creare gruppi di materie da trattare congiuntamente perché tecnicamente affini, e
potenzialmente scambiabili.
Con il termine “accordi efficienti” si usano indicare le combinazioni allocative Pareto-efficienti о
Pareto-ottimali: cioè le soluzioni “non dominate” da altre, gli accordi rispetto ai quali non sono possibili
miglioramenti per entrambe le parti. Il processo di ricerca di ipotesi di accordo efficienti porterà, di solito,
ad individuarne più d’una (per esempio, gli accordi A, В, С e D in figura 1, se non fossero disponibili le
alternative M e S. sarebbero tutti Pareto-efficienti).
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La negoziazione tuttavia non si chiude con, e non si limita a una ricerca di soluzioni Pareto-superiori.
Essa richiede una ricerca e un giudizio che porti all’adozione e alla scelta di una di queste. Il processo e le
procedure di negoziazione seguite aiutano e condizionano al tempo stesso la scelta. Per esempio, una
procedura “a testo unico” tenderà a esplorare
solo le zone centrali, equilibrate e a trascurare le
allocazioni molto vantaggiose per una parte e
molto svantaggiose per l’altra del set delle
soluzioni efficienti, come illustrato in figura 2
(punti T1 e T2). Questi criteri di cernita sono
anche definiti “sostantivi” o “distributivi” per
distinguerli da quelli “procedurali” o
“processuali”. La figura mostra come accordi
selezionati secondo diversi criteri di equità
possano collocarsi in punti diversi sulla curva
degli accordi Pareto-efficienti. Per esempio, se la
curva ha una forma simile a quella in figura 2, il criterio del massimo prodotto delle utilità è più favorevole
al giocatore 2. Invece, un altro criterio importante, quello delle “eguali proporzioni” genera una
distribuzione più paritaria. È da notare che normalmente esiste una varietà di soluzioni efficienti ed eque. È
probabile che i giocatori che possiedono un buon repertorio di possibili criteri siano in grado di proporre
soluzioni eleganti, di mutuo vantaggio, e nello stesso tempo più favorevoli ai propri interessi rispetto ad
altre.
3. STRATEGIE NEGOZIALI
3.1. STRATEGIE DI NEGOZIAZIONE DISTRIBUTIVA ‘V
Si supponga di essere un collezionista di quadri di un certo autore e di aver trovato in una galleria
una delle sue ultime tele. Si contatta quindi l’espositore, che ha il mandato di concludere le vendite per gli
artisti. Quali possono essere strategie efficaci di conduzione di questa negoziazione, sia dal punto di vista
dell’acquirente sia del venditore? Molte persone tendono a rispondere a questa domanda dichiarando che
come prima cosa chiederebbero al venditore quanto è valutato il quadro. Tuttavia, ad una seconda
riflessione, ci si rende conto che, questa strategia può essere ragionevole solo se il prezzo non è molto
negoziabile. Supponiamo di non essere né nell’una né nell’altra di tali circostanze, e che il prezzo sia
largamente negoziabile. Per prima cosa, constatiamo che siamo in una situazione distributiva, cioè con
Figura 2 - Accordi generati da diversi approcci di equità
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interessi contrapposti su una materia, il prezzo. La ricerca empirica disponibile ha mostrato che in queste
condizioni le strategie di domanda/offerta più efficaci sono proattive e assertive.
Le informazioni sono una base di potere negoziale importantissima. Quanto più si sa sul contesto, le
condizioni di mercato, le alternative disponibili, tanto meglio si sapranno stimare i valori minimi accettabili
e massimi ottenibili propri e della controparte. Per esempio, il valore di un quadro di un autore vivente può
essere incerto; ma, data la natura tecnica, il soggetto, le dimensioni dell’opera, il mercato possono
suggerire (a tutti) ragionevoli limiti superiori e inferiori.
Su altre materie, meno strutturate, le risorse scambiate possono non avere un mercato e possono
avere valori del tutto soggettivi per le parti. Per esempio, nel “baratto” di informazioni relative ad attività di
ricerca tra persone che lavorano nella stessa area tecnica, i “tassi di scambio” saranno specifici e interni alla
relazione e non chiaramente limitati da informazioni e alternative di scambio esterne.
La ricerca attiva di partner alternativi è tuttavia sempre consigliata prima di intraprendere una
negoziazione, anche solo per scoprire che non ve ne sono. In molti negoziati economici ciò è fondamentale,
per non rimanere intrappolati in un processo negoziale con un partner meno attraente di altri; in altre
parole, per non investire risorse specifiche in una transazione sbagliata. Non pochi accordi commerciali e
alleanze strategiche tra imprese falliscono presto anche per questo motivo. Infatti una scarsa ricerca di
alternative genera “costi opportunità”: vengono “lasciate risorse sul tavolo”, poiché si intraprendono
relazioni economiche che creano minor valore specifico della relazione rispetto ad altre.
Il punto di accordo più probabile in una negoziazione distributiva è il punto medio fra le "prime
offerte dichiarate. Non si tratta del punto medio tra i reali prezzi di riserva, ma fra le offerte sul tavolo. Per
esempio, se il responsabile della mostra d’arte parla inizialmente di un valore di 2,5 milioni e l’acquirente
dichiara che pensava di spenderne al massimo 1,5 è probabile che la contrattazione si chiuda a 2. Questo
fenomeno ha conseguenze pratiche importanti come il fatto che, nelle negoziazioni distributive, il payoff di
ogni parte è positivamente correlato all’ambiziosità della prima mossa e che esistono vantaggi nel “parlare
per primi” poiché, le prime mosse “ancorano” cognitivamente la trattativa. Il “balletto” delle concessioni è
un gioco di reciprocità incrementale. Tramite una serie di passi, si cerca di apprendere quanto si può
ottenere facendo concessioni, condizionatamente all’evento che l’altra parte risponda ad ogni passo
facendo concessioni. Irrigidimenti e riduzioni nell’ampiezza delle concessioni possono essere adottati sia in
risposta a irrigidimenti dell’altro, sia come “segnale” che ci si sta avvicinando ai prezzi di riserva.
Il ricorso a terze parti nelle negoziazioni distributive può essere letto come un sostegno della
negoziazione tramite elementi di coordinamento per autorità. Le terze parti possono infatti avere
innanzitutto una funzione arbitrale. In altri termini, un meccanismo di autorità arbitrale può essere
impiegato per risolvere eventuali impasses nella divisione delle risorse. In condizioni di incertezza sulla
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soluzione migliore da un punto di vista tecnico, tuttavia, la soluzione arbitrale può essere anche piuttosto
arbitraria e comunque tendere a generare scarsa accettazione e insoddisfazione a posteriori in entrambe le
parti. Questo ed altri aspetti negativi dell’arbitrato puro hanno portato ad individuare tecniche di arbitrato
più raffinate che mantengano vivo l’impegno e la partecipazione dei negoziatori, come la final offer
arbitration la scelta da parte dell’arbitro di una delle due offerte finali formulate dalle parti
3.2. STRATEGIE DI NEGOZIAZIONE INTEGRATIVA
Il potenziale di integrazione tra le parti nasce dal fatto che l’intensità delle preferenze che le parti
assegnano a diverse risorse, anche sulle risorse che sono da dividere, è diversa e complementare. La
domanda fondamentale che gli attori devono porre a se stessi e alla controparte (sia pur in forme indirette)
è: qual è l’utilità per sé e quale per la controparte di ciascuna materia o risorsa? Per esempio, le quote di
ricavo di due giornali nel prezzo di vendita potrebbero sembrare una materia distributiva. Tuttavia, per il
Quotidiano Nazionale quei ricavi rappresentano comunque molto poco, ed esiste solo un’esigenza di
copertura dei costi; mentre per il Quotidiano Locale essi rappresentano quasi tutti i ricavi. E dunque
efficiente che il quotidiano locale mantenga i suoi ricavi e quello nazionale copra solo i suoi costi.
L’entità delle inserzioni e dei gettito pubblicitario è una materia a cui entrambe le parti sono
estremamente interessate. Tuttavia, il caso dei due quotidiani illustra come esse abbiano saputo
trasformare una negoziazione distributiva di divisione di quella risorsa in una negoziazione integrativa
tramite l’individuazione di sottomaterie. Infatti, al Quotidiano Nazionale interessano soprattutto le
inserzioni delle grandi aziende mentre il Quotidiano Locale può realisticamente essere ricercato soprattutto
dai piccoli e medi inserzionisti.
Come illustra l’esperienza dei due quotidiani la strategia negoziale di gran lunga più importante in
una negoziazione integrativa è quella di generare ipotesi di accordo creative. Questo approccio al negoziato
è essenziale sia all’interno della relazione per utilizzare il più possibile le possibilità di creazione di valore
per tutte le parti, sia all’esterno della relazione per scoprire, analizzare, costruire, persino inventare
alternative di azione creative ad un accordo negoziato. Infatti, proprio quelle stesse specificità tra le parti
che creano le sinergie e il surplus di risorse da dividere rendono nel contempo difficile trovare partner al-
ternativi attraenti. Alternative migliori saranno perciò spesso costituite da azioni alternative, da accordi di
altro genere - che vanno creativamente sviluppate - piuttosto che accordi dello stesso genere con parti
alternative.
Le tecniche di supporto alla varietà delle ipotesi di soluzione considerate sono in linea di principio
innumerevoli quanto le tecniche di supporto alla creatività in genere. Tuttavia, nel caso specifico della
negoziazione si possono dare alcune linee guida per la costruzione di alternative innovative rispetto alla
formulazione corrente del problema o comunque difficili da vedere spontaneamente.
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Contratti contingenti. Uno schema di contratto che consente di risolvere le divergenze derivanti da
diverse stime delle parti sul valore della transazione e sulle probabilità di eventi incerti che lo possono
condizionare, è quello dei contratto contingente: si conviene di corrispondere compensi di diversa entità in
funzione di diversi livelli di risultato osservati, “Bridging”. La tecnica di bridging tra gli interessi delle parti è
utile dove si debbano definire le caratteristiche di un oggetto o di un’azione comune, e consiste nel
progettarle in modo da soddisfare contemporaneamente le preferenze più importanti di entrambe le parti.
Introduzione e ideazione di nuove materie. Quante più materie sono incluse in un negoziato, tanto
più varie potranno essere le combinazioni di scambio, e tanto maggiori le possibilità di integrazione.
L’ampliamento delle materie può avvenire introducendone di nuove, cioè allargando il negoziato ad aspetti
precedentemente “fuori” dalla trattativa, oppure “spaccando” le materie di cui già si parla in sottomaterie.
Una menzione speciale meritano due materie che hanno valore di scambio generale rispetto a quasi tutte
le altre, e possono quindi facilmente essere introdotte e creare alternative accettabili in qualsiasi negoziato.
Esse sono il tempo e i compensi in denaro.
Il tempo è una variabile importante perché è improbabile che le parti abbiano esattamente le
stesse scadenze e necessità quanto ai tempi in cui si renderanno disponibili gli oggetti negoziati. Accade
quindi sovente che una concessione sia impossibile se trattata tutta e subito ma diventi accettabile se
scaglionata opportunamente.
Le compensazioni in denaro pure consentono spesso di costruire alternative di accordo accettabili
(side payments). Infatti, anche quando si trovino soluzioni integrative, esse possono essere rappresentate
in diversa misura e possono permanere degli squilibri. Non sempre però soluzioni che riflettano tutte le
esigenze sono tecnicamente o economicamente fattibili. In questi casi si potrà ricorrere a forme di
indennizzo, cioè a pagamenti collaterali di natura monetaria alla parte svantaggiata. Un esempio tipico è il
maggior compenso monetario per lavori pericolosi o nocivi laddove non si riescano a trovare miglioramenti
tecnici delle condizioni di lavoro.
L’intervento di terze parti nelle negoziazioni integrative non dovrebbe implicare l’uso di autorità,
poiché le informazioni sono diffuse e complesse, bensì dovrebbe essere di brokeraggio tra partner, di inter-
mediazione nelle comunicazioni e di mediazione tra gli interessi. Le tecniche di intervento sono molteplici e
si possono raggruppare e ordinare secondo l’entità dei diritti di intervento allocati alla terza parte. Se ne
può trarre l’implicazione che tanto maggiore è la distanza cognitiva e informativa tra partner e la
divergenza tra interessi tanto più estesi saranno i diritti di informazione e decisione che l’efficace ed
efficiente concedere a terze parti.
4. NEGOZIAZIONI A PIÙ PARTI
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L’aumento del numero di attori interdipendenti che si coordinano tramite negoziazione comporta
complicazioni sostanziali e dinamiche qualitativamente diverse rispetto alla negoziazione a due parti. La
fonte principale di tali complicazioni e differenze è la possibilità di formare coalizioni.
Infatti le negoziazioni a più parti in cui non è presente la possibilità di coalizzarsi è più complicata
ma qualitativamente simile a quella a due parti. Per esempio, una negoziazione tra un’associazione
ambientalista, la direzione aziendale e il sindacato dei lavoratori sui provvedimenti da prendere per
rendere accettabile la presenza di un’azienda inquinante in un dato territorio, non ha caratteri
fondamentalmente diversi dalle negoziazioni a due parti su più materie descritte nel precedente paragrafo.
Vi sono interessi comuni, come il fatto di essere tutti abitanti della zona. Si tratta di trovare configurazioni
impiantistiche e allocazioni dei costi che soddisfino i livelli minimi di risultato accettabili dalle parti e che
riflettano il più possibile l’intensità delle preferenze di ogni attore per ogni materia o aspetto in discussione.
Le situazioni in cui è possibile formare coalizioni implicano, in aggiunta, la possibilità di accordarsi
con qualcuno e non con altri attori in funzione dei vantaggi relativi di diverse coalizioni. Queste situazioni
sono frequenti nell’attività economica: per esempio, imprese situate nella stessa area geografica, che
dipendono dalle stesse infrastrutture e gli stessi consumatori. Vi sono interessi comuni, ma anche problemi
di divisione dei benefici e di allocazione dei costi all’interno della coalizione. Di qui, un problema negoziale.
5. DINAMICHE RELAZIONALI E COGNITIVE
La negoziazione è tipicamente un processo di ricerca, un processo euristico. Sulla base delle
ricerche sulle distorsioni cognitive nelle situazioni negoziali, si possono segnalare almeno i seguenti tre tipi
di effetti principali.
Effetti di framing. I frames distributivi tendono spesso a prevalete come schemi interpretativi di
che cosa sia un negoziato. La diffusione di tali frames genera inefficienze per la sottoutilizzazione di risorse
e la mancata creazione di valore dovute a rotture ingiustificate e accordi inferiori a quelli ottenibili. Un altro
fattore di irrigidimento dei comportamenti negoziali è la diffusione di frames negativi, cioè di un modo di
guardare alle conseguenze del negoziato come perdite e concessioni relativamente al massimo ottenibile e
desiderato, piuttosto che come guadagni rispetto all’alternativa di non accordarsi o di doversi accordare
con altri. Naturalmente, infine, anche la diversità dei frames, nel senso qualitativo di visioni del mondo, di
significati e valori attribuiti agli eventi e alle azioni, di culture, rende più difficile la comunicazione e
aggiunge al conflitto d’interesse altre fonti di conflitto incomprensione, difficoltà di interpretazione dei
segnali, offese involontarie, fino ad arrivare allo scontro tra valori e al conflitto ideologico, irresolubile
tramite negoziazione. Per ridurre e gestire le distorsioni della percezione competitiva della controparte, gli
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esperti di negoziazione consigliano tattiche di rottura della spirale competitiva come le seguenti: conoscere
a fondo la cultura e II modo di pensare delle controparti; mettersi nei panni degli altri; comportarsi in modo
difforme dagli stereotipi che gli altri possono nutrire su di noi; discutere le reciproche impressioni e
interpretazioni; cercare e utilizzare il più possibile informazioni e analisi “oggettive” (o neutrali, fornite da
terze parti) piuttosto che le proprie intuizioni soggettive.
Effetti di commitment. Gli impegni presi, le azioni compiute, le risorse investite in un processo
negoziale hanno effetti poderosi di intrappolamento delle parti e escalation del conflitto. I decisori tendono
a commettere con particolare frequenza e intensità, nei processi negoziali, l’errore decisionale del
conteggiare i “costi sommersi”: “ho investito troppo per mollare”, “ormai che siamo arrivati sin qui...”.
Effetti di ricerca locale. I possibili partner alternativi di un negoziato sono alternative
particolarmente “indisponibili”. Lo sono soprattutto perché per sapere se un’impresa o una persona sia un
possibile partner interessante, in molti casi bisognerebbe iniziare un rapporto, “provare” l’alternativa,
almeno in parte. Ma iniziare molte relazioni negoziali sullo stesso oggetto è estremamente costoso nonché
considerato scorretto in gran parte delle relazioni economiche. Dunque, se può esser facile valutare la
propria MAAN in negoziati abbastanza semplici e strutturati, in cui basta un’offerta per capire le alternative
di cui si dispone; nei negoziati complessi gli effetti della disponibilità e della casualità degli incontri sono
enormi. I partner potenziali da considerare sono spesso cercati tra i contatti che già si hanno, tra gli attori
direttamente conosciuti; e in ogni caso tra coloro che si è avuto occasione di incontrare. Le relazioni
negoziali sono iniziate su basi di conoscenza limitata sulle materie che interessano, e gran parte della
decisione congiunta di accordo o non accordo è basata sul processo di apprendimento reciproco in itinere.
Altri studi hanno cercato di modellizzare anche gli effetti dei contenuti delle motivazioni e degli
obiettivi degli attori. Le predizioni che sono state sviluppate sono piuttosto generali, come quella di cercare
di salvaguardare i bisogni umani fondamentali o interessi primari delle! persone, qualunque sia la materia
specifica del negoziato. Tali bisogni includono la sicurezza personale che non deve essere minacciata, il
senso di identità e di appartenenza al proprio gruppo, il diritto ad ognuno di giocare il proprio ruolo va
riconosciuto, il bisogno di riconoscimento si può stimare una controparte e farglielo capire e comunque non
si può porla in condizioni di “perdere la faccia” verso coloro che la riconoscono, se si vuol giungere ad un
accordo.
Infine, la chiarezza e la quantificabilità dei motivi e degli obiettivi degli attori ha effetti sul tipo di
processo negoziale e sulla difficoltà di ,composizione dei conflitti. Tali effetti sono duplici. Da un lato la
chiarezza e la quantificabilità degli obiettivi può rendere più forte il conflitto. Dall’altro, quanto più le parti
sono disposte a “monetizzare” gli scambi e a considerare accettabili vari mix di risorse, purché di pari utilità
complessiva, tanto più sarà semplice effettuare trade-offs tra materie e usare il denaro come risorsa
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compensativa per eventuali squilibri e difficoltà di divisione adeguata delle altre risorse.
In conclusione, poiché i fattori e i processi cognitivi hanno tanto peso nei processi negoziali essi
possono costituire basi di potere negoziale molto rilevanti, anche più rilevanti di quelle più strutturali
dovute alle risorse controllate. Infatti, anche alcune basi di potere strutturale come la sostituibilità e la
disponibilità di alternative devono essere cercate e percepite per costituire un’effettiva base di influenza:
pertanto esse stesse dipendono dalle capacità cognitive degli attori. In secondo luogo, la consapevolezza e
la capacità di un attore di stabilire frames, usare strategicamente gli effetti di commitment, ancorare la
trattativa, proporre vie d’uscita e soluzioni eque, fare offerte che non possono essere rifiutate, vedere
soluzioni integrative, ecc., possono portare quell’attore a governare la relazione.
Il conflitto tra interessi si trasforma in conflitto tra persone. E questa la patologia più diffusa in cui
può cadere un processo negoziale. Fisher e Ury hanno distinto le due dimensioni della durezza e della
conflittualità “sul problema” e della durezza e conflittualità “verso le persone” o relazionale, e hanno
illustrato la superiore efficacia del comportamento negoziale soft verso le persone e hard sul problema, che
essi considerano pertanto il comportamento prevalente del negoziatore professionale.
La longevità delle relazioni, l’aspettativa di incontri ripetuti o di un rapporto continuo nel tempo,
specialmente se coinvolge persone identificate (piuttosto che attori collettivi e istituti) facilita
l’impostazione integrativa delle negoziazioni. Infatti, qualora gli attori tengano conto di una serie di
interazioni, saranno interessati non solo al risultato di breve periodo ma anche a non compromettere le
possibilità di conseguire risultati in futuro. Perciò, la longevità delle relazioni di solito fa sì che si assegni una
valenza positiva al mantenimento di una buona relazione. La ripetizione o continuità delle relazioni
aumenta il valore assegnato al raggiungimento di un qualunque accordo rispetto alla rottura e il valore
assegnato ad un’atmosfera positiva. Inoltre essa aumenta l’interscambio di informazioni, la possibilità di
verificare le affermazioni altrui, la creazione di linguaggi comuni: pertanto essa scoraggia l’opportunismo e
limita le possibilità di uso strategico dell’informazione (i bluff, le false promesse e la manipolazione delle
informazioni).
Se questi sono i processi e le interazioni che possono supportare negoziati efficaci ed efficienti, non
tutte le personalità, le mentalità e le culture sono ugualmente adatte alla negoziazione. Si è mostrato per
esempio che le personalità autoritarie sono particolarmente in difficoltà e inefficaci nei contesti negoziali.
Tuttavia, questo non significa che i comportamenti negoziali possano essere previsti in base a fattori di
fondo, piuttosto lontani dai comportamenti, come le culture nazionali o di “genere” dei negoziatori:
l’adozione di comportamenti. conflittuali o cooperativi non risulta correlata alla nazionalità o al sesso, dei
negoziatori. Risultano invece positivamente correlati al grado di cooperatività negoziale alcuni attributi più
specifici e più operativi di particolari classi di attori, come il grado di istruzione e lo status sociale,
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l’autostima e la sicurezza di sé, un atteggiamento avverso al rischio piuttosto che propenso ad esso.
6. CONTROLLO NEGOZIALE
Per concludere l’esame delle proprietà della negoziazione come modalità di coordinamento
dell’azione collettiva ci si deve chiedere quali proprietà di controllo essa possegga. Esiste un “controllo
negoziale”, così come esiste un controllo per autorità, un controllo democratico, un controllo di mercato,
un controllo di gruppo, un controllo culturale? Quali sono i suoi meccanismi?
Sicuramente l’azione negoziata ha bisogno di controlli: l’accordo sulle azioni da compiere infatti
non implica una omogeneizzazione delle preferenze. Solo in situazioni molto particolari può accadere che
gli attori modifichino i propri obiettivi e la percezione dei propri interessi fino ad arrivare a definire
preferenze comuni come risultato del processo di ricerca e apprendimento. Nella maggior parte dei casi gli
interessi rimangono in conflitto e questo crea potenziale di opportunismo in sede di attuazione di contratti
e accordi conclusi.
Alcuni tipi di accordi possono essere controllati tramite osservazione e sorveglianza tra le parti.
Ogni parte ha incentivo a controllare che la prestazione della controparte e si conforma ai propri interessi
secondo quanto previsto nell’accordo. Ogni parte, in una relazione che dura nel tempo, ha inoltre una
capacità di sanzionare direttamente le eventuali inadempienze della controparte condizionando la sua
prestazione al verificarsi di comportamenti corretti dell’altra. In altri termini, le parti sono “ostaggio” l’una
dell’altra nei processi di attuazione di contratti negoziati.
L’uso di ostaggi, garanzie e pegni è meccanismo fondamentale del controllo negoziale. Essi possono
anche andare al di là della reciprocità di prestazione e consistere in apposite allocazioni e riserve di risorse
che rappresentano un potenziale indennizzo per le parti che venissero lese o danneggiate da una parte
inadempiente. Ne sono esempio le fideiussioni a garanzia del rispetto dei termini negoziati o le penalità
previste in caso di inadempimento e ritardi negli accordi industriali e commerciali tra imprese.
Il controllo incrociato è tuttavia efficace solo a condizione che le azioni e prestazioni dei partner
siano reciprocamente osservabili e valutabili dagli attori, sia pur al prezzo di specifici investimenti in
strutture di controllo (per esempio ispettori). L’osservabilità reciproca può essere invece compromessa sia
dall’elevato numero di parti coinvolte, sia dalla complessità informativa delle attività. Oppure, può darsi che
il processo di trasformazione e l’output sia composto da troppi elementi e usi competenze molto specifiche
e complesse per cui diventa assai difficile controllare che la controparte si sia attenuta completamente allo
spirito e alla lettera degli accordi.
In queste situazioni la negoziazione può risolvere il problema decisionale (quali azioni
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intraprendere) ma non il problema del controllo sulle "azioni. A tal fine saranno più efficaci ed efficienti altri
meccanismi, che infatti assai spesso “assistono” il meccanismo negoziale in fase di attuazione. In primo
luogo l’autorità arbitrale di una terza parte, che può svolgere più efficientemente compiti di controllo su
molti attori o agire da garante competente nei casi in cui le parti non possano accedere direttamente alle
informazioni e competenze rilevanti per giudicare la prestazione di un’altra.
Alternativamente o in aggiunta all’investimento in controllo, bilaterale o trilaterale attraverso una
terza parte, si può investire in sistemi di incentivo. Per esempio, in attività molto complesse, l’autorità
neutrale non ha migliore accesso alle informazioni rilevanti per il controllo che non le parti stesse. In questi
casi, un’attuazione non distorta degli ; accordi può essere raggiunta co-interessando le parti all’attività di
attuazione. Per esempio, la costituzione di joint venture tra imprese per ‘ la realizzazione di attività
complesse - come la ricerca e sviluppo o la produzione basata su tecnologie sofisticate complementari - le
quote prestabilite di proprietà e ricompensa residuale sulle attività, scoraggiano l’opportunismo
riallineando gli obiettivi delle parti nell’attuazione dell’azione negoziata.
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Riassunto dal testo: Organizzazione e comportamento economicoCapitolo 8 – Norme e Regole
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CAPITOLO 8
NORME E REGOLE
Le modalità di coordinamento sin qui trattate implicano decisioni sulle azioni da intraprendere da
parte degli attori coinvolti: decisioni unilaterali nel caso del prezzo e del voto; decisioni concertate nel caso
dell’autorità, del gruppo, della negoziazione. Tuttavia, una gran varietà di comportamenti vengono
coordinati senza decisione ad hoc, senza ricerca, previsione e calcolo specifici al singolo problema. “Paga
eguale per eguale lavoro”; “Non è legittimo scavalcare il superiore”; questi comportamenti sono prescritti o
vietati da norme o modelli di comportamento socialmente accettati e validi per tutti i membri di una
collettività (e in taluni casi formalizzate in leggi e regole).
In effetti, un sistema di azione collettiva in cui fosse necessario prendere decisioni caso per caso su
ogni azione rilevante ogni volta che essa viene intrapresa, sarebbe un sistema semi-paralizzato. Uno degli
esempi più citati per illustrare le ragioni per non decidere caso per caso è quello della circolazione stradale.
Sarebbe estremamente inefficiente affidare a qualunque forma di decisione concertata o di aggiustamento
diretto tra le parti il coordinamento del traffico. Né la decisione unilaterale sarebbe un modo efficace ed
efficiente di assicurare il coordinamento. Il modo di coordinamento chiaramente superiore in problemi
simili è quello di adottare una regola.
Vantaggi delle norme e delle regole. Le regole della strada, le regole della politica, la
programmazione nelle imprese, i sistemi di ricompensa, persino il linguaggio comune, sono sistemi di
regole che possono essere giustificati come “convenienti” per tutti i partecipanti ad un sistema di azione
collettiva. La contrattazione o decisione congiunta diretta è estremamente costosa.
• Tutti i partecipanti stanno meglio se viene adottata una regola, qualunque regola, piuttosto
che nessuna regola. Per esempio adottare un linguaggio o uno standard di comunicazione è un’utile
convenzione.
• La scelta tra una regola e l’altra è di solito un gioco meno conflittuale che non la scelta di
azioni all’interno di regole definite, perché ogni attore non sa quale sarà la sua specifica posizione
quando la regola dovrà essere applicata. Per esempio, verrà da destra o da sinistra? Sarà in posizione
maggioritaria o minoritaria? Sarà riuscito a dare un contributo, a conseguire una performance elevata o
ridotta? Le regole di circolazione, di voto, di ricompensa possono essere accettate come eque dietro un
“velo di ignoranza” o di incertezza sulla propria specifica posizione. Inoltre, esse possono essere più
facilmente accettate rispetto a singoli equilibri in singole transazioni, poiché, per definizione, esse si
applicano a interazioni ripetute e possono essere accettate come eque serialmente nel tempo.
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• Grandissima parte delle norme che regolano i comportamenti economici non sono tuttavia
frutto di decisione calcolativa né nella scelta delle norme e regole come modo di coordinamento né nella
scelta del contenuto delle norme. Piuttosto, sono frutto di un processo di apprendimento, di una storia di
tentativi ed errori che ha portato alla definizione di regole in alcune aree di comportamento e ad un loro
particolare contenuto che “funziona”. Molte norme e consuetudini di comportamento consolidate, così
come molti programmi d’azione, hanno questa natura: sono sedimentazioni di apprendimento su una serie
di decisioni ed esperimenti passati. In ciò risiede la loro saggezza e giustificazione.
• Non solo nelle azioni, ma anche nelle interazioni una varietà notevole di comportamenti è
regolata da modelli appresi come efficaci. A livello di modelli di fondo del comportamento interattivo si è
per esempio sostenuto che nessun sistema di interazione può funzionare se gli attori non istituiscono e
apprendono una norma di reciprocità, per cui gli attori sono disposti a ricambiare i contributi degli altri e a
“non fare agli altri ciò che non si vuole gli altri facciano a noi”.
• Se gli attori fossero completamente liberi di considerare qualunque tipo di azione o
comportamento tecnicamente fattibile in una data situazione, il problema del coordinamento sarebbe
molto più difficile da risolvere di quanto in realtà non sia. In effetti, i comportamenti alternativi presi in
considerazione in una data circostanza sono molto meno variegati e difformi di quanto non potrebbero
essere in linea di principio. Ciò accade non solo perché gli attori accettano razionalmente di definire regole
del gioco, e non solo perché apprendono in prima persona regole soddisfacenti, ma anche perché ricevono
in eredità un repertorio, un bagaglio di conoscenze, di modelli di azione e di comportamenti, che non hanno
né gli strumenti né la convenienza di mettere in discussione. I processi di apprendimento di questo tipo di
norme sono largamente inconsapevoli. Esse sono accettate in modo fiduciario e “docile” in quanto
trasmesse da fonti depositarie dell’apprendimento passato di una collettività.
• Le regole e le norme sono spesso considerate meccanismi di coordinamento
“sovraordinati” o di quadro rispetto ad altri meccanismi. In tale insieme di “regole del gioco”, di
“paradigmi” relativi a cosa si può considerare un buono o cattivo comportamento esse agiscono come
dispensatrici di legittimazione e come agenti selezionatori di modalità organizzative favorendo la
sopravvivenza dei sistemi ad esse “isomorfi”. Tuttavia, vi può essere competizione tra diversi sistemi di
regole. Per esempio, le imprese possono scegliere dove insediare i loro investimenti tra diversi paesi, o
scegliere a quale regime di diritto commerciale vogliono essere sottoposte tra quelli dei vari paesi,
paragonando i sistemi di regole in competizione e influendo sulla sopravvivenza o lo sviluppo differenziale
di quei sistemi. Analogamente, le imprese possono scegliere di localizzare le loro unità in contesti in cui
prevalgono sistemi di norme e di convenzioni culturali funzionali al modo in cui quella unità dovrebbe agire.
Diversi filoni di studio hanno messo in risalto l’una o l’altra fra le modalità di formazione e le
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proprietà delle regole sopra esplicitate. Il filone di studi dell’”economia delle convenzioni” ha per esempio
considerato le regole di comportamento una modalità di coordinamento alternativa a quelle basate sul
calcolo, sottolineandone le capacità di generare azioni in situazioni di forte incertezza e ambiguità.
Nell’ambito dell’economia istituzionale, Douglas North ha fornito un importante riferimento definendo le
istituzioni come insiemi di regole del gioco, formali e informali, che, una volta stabilite, agiscono come
vincoli entro i quali si esercitano le scelte sulle mosse da effettuare da parte degli attori. Nella sociologia
dell’organizzazione, la nozione che i comportamenti possano essere dettati dall’obbedienza a norme piutto-
sto che calcolati è un modo di vedere diventato per alcuni un paradigma e reso universale, nonostante
importanti contributi avessero posto da tempo il coordinamento e controllo “normativo” come
complemento e cornice rispetto al coordinamento e controllo utilitaristico e calcolativo. Gli economisti
evoluzionisti hanno posto al centro dei loro interessi la natura e le proprietà di riduzione dei costi di
informazione del comportamento guidato dalle regole e dalle routine.
Indipendentemente dal loro grado di formalizzazione e dal tipo di processo che ha portato alla loro
legittimazione e formazione, le norme e le regole sono insiemi di prescrizioni di comportamento accettate
come legittime. Una volta accettate, esse hanno in generale la proprietà cognitiva di generare azioni in
modo automatico, senza richiedere decisioni ad hoc.
Regole e norme sono qui analizzate come sistemi stratificati di cognizioni con diverso grado di
generalità o astrazione verso particolarità o operatività. Tale stratificazione deriva
dall’”operazionalizzazione” di principi in regole di comportamento e viceversa dall’astrazione da esperienze
particolari di leggi di validità più generale.
L’analisi di un grado efficace, efficiente ed equo di generalità delle regole è un problema centrale
nell’analisi organizzativa. Infatti, come si mostrerà nei successivi paragrafi, tanto gli studi sulle culture
organizzative quanto gli studi sui sistemi di management formali hanno messo in luce, direttamente o
indirettamente, la presenza e le diverse proprietà organizzative di livelli sovrapposti di regolazione
caratterizzati da un diverso grado di generalità.
1. LA STRUTTURA STRATIFICATA DELLA CULTURA
Il meccanismo principale di coordinamento di una cultura organizzativa è prevalentemente
individuato nel sistema di norme accettato dai partecipanti, e rilevante ai fini dell’azione economica e
sociale. Con riguardo a norme di comportamento economico. Una caratteristica distintiva del
coordinamento e del controllo culturale è il suo fondamento cognitivo in una “programmazione della
mente” con funzioni analoghe a quelle di un software nel generare l’azione.
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Un primo livello di base delle culture si identifica solitamente nei valori e principi di base, gli “assunti”
fuori discussione, spesso condivisi a livello di intere società, ma anche di sottosistemi, come i settori, le
regioni, le imprese: per esempio la “missione aziendale” o la “costituzione” non scritta di un distretto
industriale o i valori di un gruppo di persone. Una proprietà distintiva di questo livello di regolazione è
quella di lasciare elevata discrezionalità agli attori e quindi di essere in grado di governare attività ad alto
grado di complessità e variabilità. Le persone stesse devono poter scegliere i comportamenti “adatti” o
“migliori” in funzione di finalità di efficacia e/o efficienza del sistema, se l’azione collettiva deve essere
coordinata. Pertanto, in queste situazioni sono preziosi tutti i meccanismi di coordinamento basati
sull’allineamento di obiettivi, piuttosto che sulla prescrizione e sul controllo di certi comportamenti.
L’altro estremo dello spettro di generalità dei tipi di regole è stato ben analizzato nelle ricerche sia di
economia cognitiva sia di cultura organizzativa. Esso è costituito dai programmi, le procedure, le routine, le
abitudini e le pratiche. Si tratta di regole che prescrivono quale azione intraprendere in presenza di quale
stimolo o situazione. Ne sono esempi la sequenza di azioni intrapresa automaticamente da un impiegato di
banca per incassare un assegno o da un artigiano per produrre un oggetto tradizionale.
In termini di coordinamento tra diversi attori, le routine e i programmi producono un allineamento
dei comportamenti anziché degli interessi o dei valori retrostanti. Pertanto, l’efficacia della routinizzazione
come modalità di coordinamento dipende da condizioni di elevata stabilità delle attività anche se non
necessariamente da una loro particolare semplicità. Anzi la routinizzazione del know-how è una modalità di
coordinamento molto diffusa anche in attività e relazioni ambigue, poco decidibili in modo calcolativo, poco
controllabili con altri mezzi, come nell’insegnamento e nell’assistenza sanitaria.
Un livello intermedio di specificità all’azione delle
norme e regole è rappresentato da “eurismi” e leggi
empiriche che si suppone generino azioni corrette in
specifici campi d’azione. Queste “rules of thumb”
incorporano conoscenze procedurali (come fare) anziché
“sostantive” (cosa fare) e lasciano maggior
discrezionalità agli attori.
L’utilità di questa distinzione tra strati della
cultura secondo i tipi di conoscenze che essa incorpora, può essere illustrata dalla seguente applicazione.
L’efficacia di alcuni sistemi di coordinamento, come quelli di alcuni distretti industriali italiani, o di alcune
imprese giapponesi, è stata ascritta all’uso intensivo del coordinamento culturale. Tuttavia, atri sistemi in
declino o in difficoltà, pure presentano un’elevata omogeneità culturale e proprio a questo devono le
proprie difficoltà nell’innovazione e nel cambiamento. La distinzione fra tipi di norme culturali aiuta a
Figura 3 - Gli strati della cultura organizzativa
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risolvere la contraddizione. Le ragioni dell’efficienza e dell’efficacia del sistema di norme descritto
risiedono, almeno in parte, in un’appropriata articolazione di norme a diversi livelli di generalità e nella
ricchezza e importanza di regole procedurali che assicurano predicibilità agli aspetti importanti del
comportamento senza irrigidirlo in soluzioni stereotipate
2. I CONTENUTI DELLE CULTURE
Sul piano dei contenuti, molte ricerche organizzative hanno contribuito a costruire tipologie degli
orientamenti cognitivi ed emotivi e a collegarli con l’efficacia nello svolgimento di compiti di diversa natura.
Alcuni di questi studi si sono riferiti alla cultura delle imprese, altri hanno studiato le diverse sottoculture
che possono coesistere ed essere efficaci in diversi sottosistemi (per esempio, tipicamente, le diverse
funzioni aziendali). Prima di entrare brevemente nel merito, si ricordano qui le avvertenze critiche sui
modelli dei contenuti in genere delle culture come dei bisogni o delle competenze. I “modelli dei
contenuti” non sono in effetti propriamente modelli, ma “liste”, linguaggi (sistemi di definizioni), sistemi di
classificazione logicamente aperti e per definizione non esaustivi. Essi possono essere usati per descrivere
alcuni tratti (fra i molti possibili) che si sono empiricamente dimostrati rilevanti per l’organizzazione.
In molte culture che governano attività in cui la qualità è legata ad un’elevata innovatività e creatività
nei comportamenti, come la ricerca o la produzione artistica, sono spesso incorporate norme di
innovatività. Tra le attese di comportamento rivolte alle persone vi sono attese di comportamenti originali,
nuovi, critici, stimolanti.
Altri studi hanno mostrato che all’interno delle imprese più efficaci ed efficienti dei settori
fortemente dinamici (come le materie plastiche e composite) gli orientamenti delle funzioni di ricerca e
sviluppo sono marcatamente differenziati da quelli delle altre funzioni, in termini di allocazione di
attenzione all’innovazione e di adozione di norme comportamentali che includano una propensione alla
novità e al cambiamento come elementi positivi.
Un altro attributo rilevante dei profili culturali aziendali è l’orientamento al lungo piuttosto che al
breve termine. Le attività complesse e Incerte tipicamente producono risultati valutabili nel lungo termine
fattività di direzione, di ricerca, di formazione e non possono essere efficacemente governate da culture
orientate al breve, interessate a risultati immediati. Una cultura orientata al lungo termine sarà preferibile,
per esempio, nel governo di divisioni di sviluppo di nuove combinazioni prodotto/mercato, nelle imprese ad
elevata intensità di ricerca, nelle funzioni di gestione del personale. Una cultura funzionale o aziendale
orientata al breve termine può essere efficace invece nella regolazione di attività di produzione con
tecnologie note e processi standard o di vendita di prodotti di largo consumo.
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Un attributo molto di fondo del contenuto di una cultura organizzativa è l’allocazione dell’attenzione
all’interno o all’esterno. Dove accadono le cose più importanti? Dove si verificano cambiamenti? Dove vale
la pena di guardare, sorvegliare, analizzare, decidere; e dove si può governare il cammino innestando un
pilota automatico? Questi sono esèmpi di domande cui si risponde spesso inconsapevolmente. Le imprese
o le unità organizzative orientate all’esterno ottengono migliori risultati in ambienti dinamici e turbolenti e
nelle attività “di confine” verso altre imprese, altre unità e consumatori. Al contrario, culture orientate
all’interno sono congruenti ad attività che si possono e si vogliono condurle in modo protetto e isolato da
disturbi e varianze.
L’atteggiamento attivo o passivo nei confronti di ciò che è percepito come l’ambiente è un’altra
caratteristica importante degli stili cognitivi ed emotivi individuali e collettivi. Con riferimento alle imprese
ci è per esempio empiricamente rilevata come significativa una differenziazione tra imprese dallo stile
predittivo (vuoi in termini di ricerca di opportunità che di tentativo di controllare l’ambiente) e imprese
dallo stile reattivo, orientate all’imitazione e/o alla risposta a condizioni ambientali percepite come non
modificabili. Anche in base ad analisi di storia dei settori si è sostenuto che le impostazioni culturali e
strategiche del primo tipo siano più efficaci in settori più complessi e dinamici.
Infine, una dimensione classica dello stile cognitivo ed emotivo individuale e collettivo, analizzata
nelle sue proprietà di efficacia nel coordinamento delle attività è l’orientamento ai compiti, contrapposto
all’orientamento alle persone.
È stato ipotizzato che una cultura bilanciata, che lasci spazio e rafforzi entrambi gli orientamenti sia
particolarmente efficace in attività complesse e innovative. Infatti, oltre a richiedere la mobilitazione di
rilevanti risorse cognitive e di analisi, le attività molto destrutturate e complesse implicano spesso, e
devono implicare, un tasso non trascurabile di interazione e conflittualità interpersonale. Questi risultati
complessivamente mostrano come la differenziazione tra culture e tra sottoculture economiche possa
essere efficace ed efficiente, nella misura in cui il contenuto e il grado di incertezza delle attività condotte
nei vari sistemi sono differenziati, sia pur all’interno di un quadro di linguaggi e conoscenze comuni che
permettano la comunicazione e l’apprendimento reciproco
L’importanza delle differenze culturali e delle proprietà funzionali dell’adattamento culturale di
diverse unità organizzative al proprio sottoambiente di riferimento è emersa con anche maggior forza negli
studi sul management delle imprese multinazionali. La nota ricerca condotta, da Gert Hofstede sui problemi
che la grande multinazionale americana per antonomasia, l’IBM, incontrava nel coordinamento su scala
globale ha fornito un punto di partenza e di riferimento importante innanzitutto identificando alcune delle
dimensioni più importanti di differenziazione delle culture organizzative nei diversi paesi.
La ricerca partì da una domanda che potrebbe essere oggi così riformulata: quanto è possibile e
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auspicabile applicare le stesse regole, procedure, programmi (il sistema regolativo della casa madre) ad
imprese sparse in tutto il mondo e radicate in sistemi di regole e norme, e istituzioni assai diverse? Lo
studio si concentrò sui valori collegati al lavoro, poiché essi, con le parole di Hofstede, “sono l’elemento più
stabile della programmazione della mente” e perché riflettono gli strati più profondi e meno modificabili
delle culture. L’analisi statistica mostrò l’esistenza di differenze significative tra i valori nelle sussidiarie
nazionali legate a quattro fattori o “dimensioni” della cultura nazionale:
• Il grado di individualismo o di collettivismo - le persone si occupano solo dell’interesse individuale
proprio e della propria famiglia e considerano tale comportamento legittimo; oppure le persone si
identificano con gruppi più ampi - gruppi di lavoro, clan, intere imprese, comunità locali - cui rimangono
fedeli per periodi di tempo molto lunghi;
• Il gado di accettazione della distanza di potere - come un aspetto legittimo della vita associata e
dell’azione collettiva (grado di ineguaglianza nel controllo di risorse, nella possibilità di prendere decisioni,
nella possibilità di comandare altri);
• Il grado di avversione all’incertezza - la misura in cui le persone non tollerano di non prevedere gli
eventi futuri, di vivere in situazioni poco chiare e definite, non sapere esattamente quali sono i propri
compiti e di doversi adattare o arrangiare;
• La mascolinità o femminilità della cultura intesa come assunzione sia da parte degli uomini sia delle
donne di valori “maschili” (come il denaro, la forza, l’assertività, le grandi dimensioni, la subordinazione
delle esigenze affettive e relazionali ai risultati produttivi) piuttosto che “femminili” (cooperazione
piuttosto che competizione, attenzione alle relazioni e all’equilibrio psicologico individuale, simpatia per le
piccole dimensioni).
Due ipotesi guida si sono confrontate negli anni ‘70 e ‘80 negli studi organizzativi; e in particolare
negli studi europei particolarmente sensibili al problema della varietà di contesti istituzionali e culturali
presenti nel vecchio continente.
• l’ipotesi culture-bounded asserisce, in generale, che la diversità nei sistemi di base di norme e
regole di convivenza e di collaborazione economica rende diverse le soluzioni organizzative efficaci nella
regolazione anche dello stesso tipo di attività economiche. Questa legge può essere tuttavia formulata in
modo più o meno deterministico. In una versione più deterministica, l’ipotesi culture-bounded implica una
tesi di sostanziale intrasferibilità del know-how organizzativo delle soluzioni organizzative elaborate in una
cultura ad un’altra; una tesi di sostanziate incomunicabilità tra paradigmi organizzativi maturati entro
diverse culture di sfondo. Per esempio essa condurrebbe a risposte drasticamente negative a domande del
tipo seguente: si possono trapiantare i circoli di qualità dalla Nippon-Steel all’Italsider di Taranto? Tuttavia,
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nonostante le molte difficoltà sperimentate in pratica, la risposta negativa sembra aver avuto conferme
empiriche solo laddove il trasferimento di know-how o la replicazione delle soluzioni organizzative sia stata
intesa in modo rigido.
Infine, vi sono alcuni campi nei quali la sedimentazione culturale di convenzioni che poi appaiono
come un vincolo esterno e oggettivato alla configurazione di altri aspetti dell’organizzazione è maggiore che
in altri. Per esempio, è sicuramente difficile condurre efficacemente una negoziazione sindacale in modo
culture-free, mentre è assai meno difficile disegnare un sistema efficace di incentivi a provvigione per
venditori che sia compatibile con un vasto spettro di possibili culture.
3. L’EFFICACIA COMPARATA DEL COORDINAMENTO CULTURALE
Si può ora proporre uno schema valutativo dell’efficacia ed efficienza delle culture come modalità di
coordinamento. La coraggiosa nozione di cultura efficiente è stata proposta da studiosi delle culture
organizzative in una prospettiva economica. Una valutazione della cultura in termini di efficienza
economica sembra difficile e suona riduttiva data la complessità ed elusività della materia.
Il coordinamento culturale è efficiente se è in grado di orientare l’azione verso risultati desiderati
cioè di realizzare miglioramenti paretiani, laddove altri meccanismi non lo sono o lo sono a maggior costo.
Ouchi e Wilkins hanno ipotizzato che il coordinamento culturale sia superiore sia allo scambio basato sul
prezzo sia all’autorità quando la complessità informativa implica scarsa osservabilità delle prestazioni, sia
dal lato dei comportamenti sia dal lato dei risultati.
Il coordinamento culturale si presenta, quindi come una modalità di allineamento di obiettivi e
comportamenti particolarmente interessante o addirittura indispensabile perché la cooperazione e lo
scambio economico possa aver luogo in attività estremamente complesse.
Il ruolo dell’omogeneità culturale e l’importanza della creazione di una cultura comune sono stati
infatti massimamente sottolineati, per esempio, per il successo delle cooperazioni tra imprese nel campo
della ricerca e dell’innovazione e per la possibilità stessa che abbiano luogo transazioni di servizi complessi
e difficilmente valutabili da coloro che li acquistano. Tali esempi illustrano come una base di norme
condivise possa coordinare efficacemente interdipendenze di diverso tipo: sia create dallo scambio, sia
dalla cooperazione, sia persino le relazioni competitive tra attori che offrono lo stesso tipo di prodotti o
servizi.
La tesi che la cultura sia un meccanismo di coordinamento efficace ed efficiente in condizioni di forte
incertezza, si imbatte tuttavia in un paradosso. Per quei sistemi di attività che sono coordinati grazie
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all’interiorizzazione di valori e norme comuni, attraverso processi intensi di socializzazione reciproca tra gli
attori o addirittura attraverso la trasmissione ereditaria di una specifica cultura organizzativa in date regioni
o settori, ci si può chiedere da dove possa venire il cambiamento e se il cambiamento sia del tutto possibile
proprio in quelle attività complesse dove esso è spesso altamente desiderabile.
La risoluzione del paradosso, la possibilità di pensare a qualcosa come una “cultura flessibile” risiede
in parte nel particolare contenuto di una cultura organizzativa, in parte nel suo grado di generalità. In una
cultura flessibile prevalgono norme di tipo generale e costituzionale. Queste norme svolgono soprattutto
una funzione di riduzione dell’incertezza conoscitiva piuttosto che di risparmio dei costi informativi di
decisioni prese caso per caso. Esse rispondono all’impossibilità di verificare criticamente ogni tipo di
conoscenza e di assunto e alla necessità di framing dei problemi. Spesso pertanto le norme a questo livello
di generalità contengono elementi convenzionali, cioè possono essere configurate in molti modi
ugualmente efficienti , come nel caso dei linguaggi.
Quanto più invece è intenso l’uso di regole di basso livello di generalità, tanto più l’azione sarà
condizionata e vincolata. Questi tipi di regole hanno proprietà di riduzione dei costi di decisione e della
complessità computazionale piuttosto che dell’incertezza conoscitiva o epistemica. La possibilità di
applicarle efficacemente dipende da quella di stabilizzare e ripetere le azioni nelle stesse condizioni. Non è
infatti difficile, anzi è proverbiale, incontrare situazioni in cui la sedimentazione di routine, comportamenti
consolidati e pratiche abitudinarie rende l’azione troppo inerziale, rigida e permanentemente obsoleta in
un mondo che cambia desolantemente più in fretta.
4. I SISTEMI LEGALI - FORMALI
I sistemi di azione stabili, esplicitamente descritti in documenti privati o tutelati dal diritto, aventi
una forma definita di divisione del lavoro e di coordinamento furono definiti organizzazioni formali. Si
riteneva che il loro carattere formale distinguesse in modo utile e significativo, per esempio un’associazione
sindacale da un movimento sociale, una società di persone da un gruppo informale di collaboratori, un
insieme di reparti di produzione coordinati all’interno di un’impresa da un distretto industriale. In base
all’analisi delle norme sociali e delle regole culturali condotta nel primo paragrafo, si può subito notare
come la differenza tra questi sistemi non risiede nel fatto che l’azione coordinata informalmente sia
necessariamente povera di regole. La differenza risiede nel grado di esplicitazione delle conoscenze
codificate nelle regole e nella loro incorporazione in documenti accessibili e controllabili da diversi soggetti.
Questa operazione comporta una fissazione e una accettazione, valida per un certo periodo di tempo, di
alcuni tratti dei modelli di azione e interazione. Gli attori potranno agire e coordinarsi prendendo decisioni
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caso per caso o discrezionali solo negli “spazi” non predefiniti dalle convenzioni stipulate o accettate e
oggettivate nei documenti regolativi. L’analisi delle proprietà della formalizzazione può essere dunque
utilmente organizzata prendendo in considerazione diversi tipi di documenti.
Una demarcazione di fondo, concettualmente rilevante, va tracciata tra documenti che precisano e
prevedono gli impegni reciproci e le modalità di azione economica interdipendente di due o più attori
secondo fattispecie previste e tutelate dal sistema legale esterno (tipicamente, i contratti) e documenti che
riflettono patti interni al sistema di attori e che traggono legittimità e garanzie di attuazione all’interno di
quel sistema (per esempio, i mansionari, gli organigrammi e le procedure). Illustriamo qui di seguito i
principali tipi di documenti a garanzia “esterna” (in breve “documenti esterni”) e a garanzia “interna” (in
breve “documenti interni”) e le loro proprietà
4.1. DOCUMENTI “ESTERNI” E “INTERNI”
La nozione di contratto nel diritto e nelle teorie economiche dei contratti, include qualsiasi accordo
con conseguenze patrimoniali per le parti volto a costituire o modificare un rapporto di obbligazione
reciproca. In generale, l’insorgere di obblighi reciproci di rilevanza giuridica in conseguenza ad un accordo
non implica che esso sia formale, cioè che il contratto sia formalizzato in un documento. Per esempio, i
contratti derivanti da scambi di beni o servizi in cui il passaggio di proprietà di una risorsa o l’erogazione di
un servizio sia facilmente identificabile spesso non sono formalizzati; una consumazione al ristorante, il self-
service in un supermercato, generano obblighi di pagamento dei corrispettivo, sono tutelati dal sistema
legale esterno, ma non sono formalizzati. Tuttavia, è utile ricordare che il diritto, se chiamato ad
intervenire, e in mancanza di regole e accordi espliciti, fa riferimento a ciò che per prassi, consuetudine e
convenzione ci si poteva aspettare come comportamento “normale” della controparte in un dato contesto.
Pertanto, un contratto, a differenza di uno scambio tout court, fa sempre riferimento ad un sistema di
regole, informali o formali.
Ci occupiamo qui dei contratti formali, che istituiscono e incorporano regole di scambio e
convenzioni di relazione esplicite.
■ Un contratto istantaneo definisce un’allocazione delle risorse in termini puramente “sostantivi” o
“distributivi”, cioè quali e quante risorse vengono trasferite tra soggetti. Esso non regola aspetti di
processo, pertanto il contenuto “procedurale” del contratto è basso.
■ Un contratto contingente è un contratto più complesso che riconosce che la relazione non è
istantanea, ma si svolge in un tempo in cui le condizioni possono variare, o che il valore delle risorse
scambiate o I messe in comune non è noto a priori ma potrà essere conosciuto solo in un tempo successivo.
Per quanto complesso, un contratto contingente così definito verte prevalentemente sull’allocazione delle
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risorse (do ut des) non su comportamenti da tenere (facto ut facias), su aspetti sostantivi e non procedurali.
Quanto più la materia regolata nel contratto è ampia e composta da una varietà di item e quanto più
numerose sono le possibili contingenze imprevedibili a priori tanto più un contratto completo dovrebbe
espandersi in una serie di clausole, condizioni, descrizioni di comportamenti e attività, descrizioni di
procedure di soluzione dei conflitti, descrizioni di diritti di controllo e di ispezione reciproca. Pertanto,
l’incertezza - intesa come variabilità, imprevedibilità e numero delle “eccezioni” da regolare - mette in crisi i
contratti obbligativi esterni come meccanismo di ordinamento. Una possibile risposta a questi limiti è
quella di integrarli con meccanismi extra-contrattuali; in particolare con norme e convenzioni che possono
essere accettate come quadro di riferimento, o con un ordinamento negoziato tra le parti non formalizzato
e non difendibile in termini legali. Questa combinazione tra regole formali incorporate in contratti e norme
socialmente accettate è stata definita “contratto relazionale”.
Un’altra possibile risposta all’incompletezza dei documenti esterni è l’istituzione di “contratti interni”
che li completino e li integrino. La regolazione interna può essere vista come “continuazione” del sistema di
regolazione esterno, e la gerarchia interna può essere vista come corte d’appello preposta alla tutela del
sistema legale interno. L’organizzazione interna all’impresa in effetti di solito amplia l’area di
comportamenti regolati da job description, procedure, programmi e regole e rispetto a quella già regolata
dai contratti “esterni”.
Ma, ci si può chiedere, perché le difficoltà di prevedere circostanze incerte dovrebbe essere minore
all’interno che non all’esterno dell’impresa? Infatti, non lo è. L’impiego delle regole e della formalizzazione,
anche all’interno dell’impresa è efficace ed efficiente solo nella misura in cui le attività sono abbastanza
stabili, prevedibili, non complesse e la regolazione tramite contratti e patti formali entra in crisi in attività
incerte, sia all’interno sia all’esterno dell’impresa.
4.2. GRADO DI FORMALIZZAZIONE INTERNA
Un sistema di azione economica è tanto più formalizzato quanto più le sue attività sono previste e
regolate in organigrammi, mansionari, procedure, programmi. Il fatto che le regole di un sistema siano
formalizzate non fa loro perdere l’ordinamento logico già analizzato per le norme e le convenzioni sociali e
culturali. North ha osservato che la distinzione tra “constitutional law, statutory law and common law” può
essere utile per comprendere la struttura stratificata delle istituzioni in generale, e le diverse proprietà
delle istituzioni di diverso livello.
Nei “sistemi legali interni” delle imprese o di altri attori economici collettivi, il livello “costituzionale”
della regolazione è rappresentato da atti di fondazione e statuti, da organigrammi e descrizioni di
responsabilità che sanciscono l’allocazione di base dei diritti di decisione, controllo e proprietà.
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Organigrammi e dichiarazioni di “missione” specificano soltanto le regole fondamentali di
corrispondenza fra attori e diritti, hanno una funzione costituente e un limitato potere regolativo delle
modalità di conduzione delle attività. Questa caratteristica della regolazione di fondo appare del tutto
funzionale e necessaria in questa prospettiva. Normalmente, tuttavia, gli organigrammi sono corredati e
affiancati da mansionari, cioè da descrizioni delle attività assegnate ad ogni posizione di lavoro entro i vari
organi e delle modalità secondo cui devono essere svolte. Rispetto alle indicazioni di quadro fornite
dall’organigramma, il mansionario costituisce quindi uno strumento di coordinamento più dettagliato e più
incisivo. Nella prospettiva di analisi e progettazione della regolazione interna qui delineata, ha senso
chiedersi in che misura e in quale grado di dettaglio queste regole di livello più operativo debbano essere
fissate.
Secondo una configurazione ricorrente il mansionario include: la collocazione dell’organo nella
divisione verticale del lavoro (da quale altro organo dipende); il contenuto delle attività assegnate, gli
obiettivi e le responsabilità, che definiscono le attività assegnate all’organo; i metodi di lavoro e le
procedure che regolano le attività. Come nel caso delle norme culturali, non c’è una risposta universale alla
domanda su quale grado di specificità e dettaglio delle regole sia corretto in questo caso, l’attività di
preventivazione era travagliata da problemi di errori di fatturazione e di inefficienza operativa derivanti
proprio dall’eccesso di specificazione di regole ex ante, dal tentativo di prevedere tutte le possibili
circostanze, di prescrivere cosa fare in ciascuna di esse, e di tenere traccia di tutto. La natura delle attività
avrebbe invece richiesto un adattamento caso per caso e in tempo reale alle frequenti variazioni nelle
richieste dei clienti. In tali circostanze, l’uso prevalente del sistema formale - legale costituito dai
mansionari e dalle procedure porta spesso all’inflazione di clausole e “cavilli”, casistiche e possibili
provvedimenti che paralizzano l’azione senza riuscire’ comunque ad essere esaustivi. Quanto più variabili
sono le attività, tanto più i contratti e i documenti interni diventano incompleti. L’idea che tutto sia
controllabile solo perché si svolge all’interno di un’impresa è più un esempio di “illusione del controllo” che
non un’ipotesi fondata.
Il punto è che le proprietà delle regole formali, come di quelle sociali, differiscono in funzione del
livello di generalità, specialmente per quanto riguarda il governo dell’incertezza. Infatti, il grado di dettagli
delle procedure e dei programmi varia in funzione, per esempio, del livello delle decisioni che esse
predefiniscono.
In conclusione, anche i sistemi legali - formali, come i sistemi culturali, possono essere utilmente
pensati come costrutti stratificati. Quanto più bassa è l’intensità di procedure e programmi, tanto più
flessibile è il sistema di regolazione. Una formalizzazione che si focalizza solo sulle regole del gioco di fondo
e sull’attribuzione formale di attività e degli obiettivi e responsabilità ad esse relative (formalizzazione della
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struttura) è meno rigida e deterministica di una formalizzazione che si estenda pervasivamente al livello
delle procedure e dei programmi (formalizzazione dei processi).
Un uso molto esteso e dettagliato delle regole è possibile ed efficace solo se le attività regolate sono
prevedibili, abbastanza stabili, o governate da un modello di variazione noto e compreso; abbastanza
ripetute o ripetibili nel tempo o tra soggetti, in modo che seguire la regola sia efficace (non bisogna
cambiarla in funzione delle circostanze) ed efficiente (eviti la ripetizione di decisioni caso per caso). Si può
dire quindi che il grado di formalizzazione è correlato positivamente, ih condizioni di efficacia ed efficienza,
al grado di prevedibilità e ripetitività delle attività.
5. VALUTAZIONE COMPARATA DELLA FORMALIZZAZIONE
Rimane da chiedersi quali siano le condizioni che spingono alla formalizzazione di regole come forma
di governo dei comportamenti distinta da quelle informali Si possono identificare almeno quattro grani
fattori.
Una prima ragione per formalizzare è l’esigenza di equità di trattamento nei casi di molteplici
contratti (“esternamente” e “internamente” garantiti) della stessa specie. Per esempio, un ospedale che
non abbia regole esplicite per l’accettazione dei pazienti, o un’università che non abbia sistemi formali e
trasparenti di ammissione, sarebbero sospettabili di opportunismo. Più in generale il fatto che gli attori
assegnino valenze positive all’equità o giustizia delle procedure con cui sono regolate le loro relazioni con
altri attori, spinge alla trasparenza e alla formalizzazione delle regole.
La formalizzazione rende i sistemi di azione più leggibili, più trasparenti, dotati di maggior
accountability, di maggior capacità di ricostruire le proprie azioni e di giustificarle nei confronti di terzi.
Perciò, per esempio, le imprese sono obbligate a produrre una serie documenti formali (come i bilanci).
Alcuni tipi di imprese devono rispondere a tale requisito più di altre: per esempio, le banche e le compagnie
di assicurazione sono imprese particolarmente formalizzate, e ciò è almeno in parte efficace anziché patolo-
gico per via delle particolari esigenze di controllo e registrazione delle transazioni riguardanti il patrimonio
dei clienti. Sia nei confronti dell’autorità interna, sia nei confronti dell’autorità dei tribunali, accordi e
impegni espliciti e formalizzati facilitano la valutazione del grado di rispetto ovvero di inadempienza.
Esisterà sempre un problema di scoperta dei comportamenti effettivamente tenuti dalle parti, ma i
comportamenti attesi almeno saranno chiari. Nel caso di accordi e impegni informali, anche lo “spirito del
contratto” va indagato e ricostruito in caso di conflitto. Tanto maggiore è il potenziale di conflitto e l’entità
delle conseguenze, quindi, derivanti dalla natura delle attività e degli impegni presi, tanto maggiore sarà la
convenienza a formalizzare.
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Un vantaggio molto importante della formalizzazione è la capacità di estensione della memoria
offerta dai documenti e dai supporti formali. Laddove uno stato di “incertezza” dell’attore sia dovuto
principalmente alla mole di informazioni da trattare (piuttosto che a imprevedibilità o difficoltà
interpretativa) la codificazione delle informazioni permette un immagazzinamento e una velocità di
trattamento altrimenti irrealizzabile. I vantaggi della formalizzazione nel gestire la complessità
computazionale cioè un elevato numero di elementi possono spiegare perché, a parità di altre condizioni, il
grado di formalizzazione delle attività è positivamente correlato al numero di attori e di materie da
coordinare, cioè alle dimensioni del sistema di azione.
Se questi sono i vantaggi, le forze che in positivo rendono efficace, efficiente o equa la
formalizzazione, il principale svantaggio e limite applicativo è costituito dall’invarianza nel tempo e nello
spazio delle situazioni che vengono previste e omologate dalle regole.
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CAPITOLO 9
FORME DI ORGANIZZAZIONE – ANALISI CONFIGURAZIONI
1. ATTORI, RISORSE E ATTIVITÀ
Nella maggior parte dei casi la scelta dei modelli di progettazione organizzativa, viene concepita
come scelta di un modello di divisione del lavoro e di coordinamento efficace ed efficiente per gestire delle
attività e relazioni tra attività. Tuttavia si trascura l’opportunità di vagliare in primo luogo se e in che misura
le attività correnti siano esse stesse configurate in modo diseconomico rispetto alle risorse da cui derivano
e alle relazioni di interdipendenza che le legano. Se questo fosse il caso, considerare le attività come “date”
genererebbe alti costi di organizzazione comunque siano divise e coordinate. Alcune tecniche e pratiche
attualmente di successo in campo organizzativo, si sono in effetti caratterizzate proprio per il fatto di
proporre procedure di revisione delle attività “necessarie” per produrre output di valore, attraverso un
riesame critico delle varie componenti dei processi di trasformazione che possono condurre a tale output
(come il business process reengineering).
L’analisi e la progettazione delle forme di governo di attività economiche può pertanto utilmente
codefinire sistemi di attività e sistemi di “governance”. Domande chiave in tale direzione sono: il sistema di
attività considerato può essere migliorato (esteso, ridotto, ricombinato). Si possono generare
economicamente nuove attività con le risorse già disponibili? Quali diverse configurazioni di attività si
otterrebbero , ricombinando le risorse in modo diverso?
Una prospettiva che fornisce vari elementi per rispondere a queste domande è nota come
“resource based view” dell’impresa e dell’organizzazione. Gli attori economici sono visti come possessori di
risorse e competenze che possono generare fasci potenziali di attività e servizi. Questa prospettiva, oggi in
grande sviluppo, è di solito applicata al livello di analisi dell’intera impresa ed orientata alla formulazione
delle strategie aziendali. Alcune implicazioni organizzative di tale filone di studi saranno qui coniugate con i
contributi dell’economia dell’organizzazione per rispondere alla domanda: da dove vengono le attività e le
interdipendenze di un sistema di azione economico? cosa significa valutare l’efficacia e l’efficienza di
configurazioni di attività?
L’intuizione fondamentale sulla base della quale Penrose spiega l’origine degli incentivi alla crescita
e alla differenziazione delle attività economiche svolte da un attore nel tempo, non è tanto o solo l’analisi
dell’attore economico impresa come “insieme di risorse”, quanto la distinzione tra il livello delle risorse
come potenziale di azione e il livello delle attività come selezione e attivazione di alcuni processi e servizi tra
i vari possibili. Le risorse, osserva Penrose normalmente sono strutturate come entità “discrete”, come
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“bundles” di servizi possibili, più ampi rispetto al particolare uso che può aver originato un fabbisogno per
quella risorsa: vi possono essere molti modi di impiegare una macchina o uno strumento tecnico - tra quelli
più flessibili si può pensare a un martello o a una fresa - così come le competenze ed energie di una
persona possono fornire molti diversi servizi.
Questa distinzione conduce ad un’altra distinzione organizzativamente importante, tra risorse più
specializzate e capaci di fornire un insieme ristretto di attività, e risorse più flessibili e polivalenti. Diverse
potenzialità e sentieri di evoluzione e crescita delle attività possono derivare da opzioni di riduzione dei
costi e di creazione di valore basate sulla specializzazione delle risorse su singole attività (economie di
specializzazione e scala): oppure basate sulla piena utilizzazione della gamma di capacità delle risorse su
molte attività (economie di raggio d’azione o “economies of scope”); oppure basate sulla complementarità
tra risorse diverse applicabili ad una singola attività. Queste dimensioni o variabili saranno definite e
illustrate nel loro effetto sulle soluzioni organizzative efficienti nei successivi paragrafi.
Inoltre, la nozione di “impresa come insieme di risorse” rende evidente un’altra importante
distinzione, quella tra le risorse e l’attore economico che “ha accesso” a tali risorse. Anche a questo
riguardo, non solo una singola persona fisica o giuridica o un’unità organizzativa può “possedere” molte e
diverse risorse, ma la natura e l’intensità di tale possesso o controllo di risorse può e deve essere chiarito in
termini di insiemi di diritti di cui un attore è titolare rispetto alle risorse. La definizione delle unità
organizzative può quindi essere formulata come problema di allocazione di insiemi di diritti ad attori,
includendo diritti d’uso, di decisione, di monitoraggio, di appropriazione dei risultati economici residuali
derivanti dall’impiego economico e di trasferimento ad altri soggetti dei diritti precedenti.
Il concetto di risorsa ha acquisito importanza nell’analisi organizzativa come potenziale di azione e
di generazione di valore accumulabile e relativamente indipendente dagli specifici impieghi e come forme
di capitale. Una prima distinzione tra tipi di risorse può peraltro essere fondata teoricamente proprio sul
diverso tipo di relazione da un lato con gli impieghi e dall’altro con gli attori: tali relazioni sono diverse a
seconda che si tratti di risorse umane, tecniche o finanziarie.
Le risorse umane possono essere definite primariamente come insiemi di conoscenze e
competenze. Esse non sono qui identificate con le persone, che sono gli attori che possiedono tali risorse.
Le risorse umane sono tuttavia in buona parte fisicamente incorporate nelle persone, nel senso che sono
difficilmente disgiungibili dagli attori che le possiedono di diritto o spesso anche solo di fatto, poiché è
particolarmente difficile definire in modo completo i diritti di proprietà su tale tipo di risorse. Sono perciò
spesso difficilmente trasferibili in quanto risorse, mentre ciò che viene trasferito sono più frequentemente
le attività o i servizi di lavoro erogabili in base alle risorse umane. Pertanto, l’analisi e la progettazione delle
relazioni di lavoro deve avvalersi di alcune ipotesi peculiari rispetto a quelle applicate ad altri tipi di risorse.
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Le risorse tecniche sono intese, complementarmente, come strumenti che incorporano e
concretizzano conoscenze e competenze rendendole relativamente indipendenti dai loro ideatori e
produttori, capaci di produrre attività e servizi dei quali gli stessi produttori non sarebbero mai
direttamente capaci. Se la tecnologia è concepita primariamente come forma di conoscenza, si possono
applicare anche alle risorse tecniche, alcune dimensioni di analisi pertinenti alle conoscenze e competenze
in generale si può parlare di tecnologie più o meno specifiche ad un uso o utilizzatore, più o meno
specializzate, più o meno complesse, nello stesso senso in cui questi concetti si applicano alle risorse
umane. Le tecnologie adottate concorreranno quindi a loro volta a determinare il grado di specificità,
specializzazione e complessità dell’intervento umano complementare, come hanno sottolineato le molte
tipologie del “grado di meccanizzazione” e di “complessità della tecnologia” disponibili nella letteratura
organizzativa. Queste tipologie saranno utilizzate nella parte terza in relazione agli aspetti
dell’organizzazione da esse più direttamente influenzati. Tuttavia, come la distinzione tra risorse e attività
aiuta a comprendere, ogni data configurazione di risorse tecniche è compatibile con varie configurazioni di
attività e quindi, a maggior ragione, con varie configurazioni organizzative. Pertanto, la tecnologia limita la
varietà di soluzioni organizzative fattibili, ma essa non è sufficiente a predire la soluzione migliore.
Le risorse finanziarie sono quelle più indipendenti da specifici usi o specifici attori. Pertanto, sotto
questo aspetto, sono il tipo di risorse più facilmente trasferibili. Tuttavia l’allocazione di risorse finanziarie
ai migliori impieghi necessita di informazioni che possono non essere facilmente disponibili e accessibili e
ciò può creare fabbisogni di meccanismi di coordinamento e decisione complessi. In tal modo anche la
relazione tra risorse finanziarie e loro possibili usi può contribuire a spiegare l’aggregazione e la crescita
delle attività svolte da un attore economico in particolare dell’impresa.
Le variabili sinora introdotte attengono al livello delle risorse e delle attività e alle loro relazioni.
L’organizzazione di tali relazioni non dipende solo dalle loro caratteristiche, ma anche dall’intensità degli
scambi di informazioni richiesti dal loro coordinamento. Per esempio, diversi sistemi di organizzazione
risultano efficaci a seconda che si tratti di processi di trasformazione in cui vi sono trasferimenti
unidirezionali di risorse materiali e pochi scambi di informazioni oppure molti scambi anche reciproci.
Pertanto, nell’analisi e nel disegno organizzativo la variabile della complessità informativa ha altrettanto
rilievo delle variabili di economie di scala, specializzazione e “scope”. Tali variabili, considerate
congiuntamente, hanno implicazioni per la progettazione non solo dei meccanismi di coordinamento ma
anche dei diritti degli attori su tali risorse e attività, e quindi per la riconfigurazione degli attori stessi. Gli
attori in questo senso possono essere pensati come “variabile dipendente” o output del disegno
organizzativo. D’altro lato, le loro preferenze e interessi governano la ricerca e la scelta delle soluzioni orga-
nizzative come “variabile indipendente”. In particolare, il grado e il tipo di conflitto fra gli interessi degli
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attori interviene come variabile di estrema importanza in diversi momenti. In primo luogo, se vi sono poche
divergenze di obiettivi e pochi incentivi ad agire in modo difforme dagli eventuali accordi presi, il problema
del coordinamento è più facile da risolvere che non altrimenti. In secondo luogo, è probabile che
divergenze tra interessi e preferenze esistano non solo riguardo a quali azioni intraprendere ma anche
riguardo a quali fra le varie soluzioni organizzative fattibili ed efficienti sia la migliore.
2. LE VARIABILI FONDAMENTALI DELL’ANALISI E DELLA PROGETTAZIONE ORGANIZZATIVA
2.1. ECONOMIE DI SPECIALIZZAZIONE
Adam Smith descrisse in modo vivido i vantaggi della divisione del lavoro fra diversi attori, o
specializzazione, documentando l’aumento della produttività che si può ottenere tramite la specializzazione
degli operatori su attività sempre più focalizzate, fino al punto di non essere più tecnicamente divisibili.
Il grande motore delle economie di specializzazione è l’apprendimento. La focalizzazione su un
attività basata su una singola tecnica e la sua ripetizione producono allenamento e destrezza; portano a
scoprire tutti i trucchi del mestiere che permettono di ottenere risultati migliori e in minor tempo;
permettono di costruire un repertorio di procedure di lavoro efficaci ed efficienti per risolvere ogni
problema produttivo economizzando le attività di presa di decisione.
Le economie di specializzazione possono essere “dinamiche” - portare alla scoperta di nuovi modi di
fare le cose e di nuove cose cui si può applicare la stessa tecnica - piuttosto che statiche - diventare sempre
più efficienti nello stesso processo e per lo stesso output. Quanto più difficili sono le attività quanto più
lungo il ciclo di apprendimento necessario per svolgerle, tanto maggiore l’importanza dell’esperienza e
della specializzazione. Un’elevata divisione del lavoro e specializzazione non implica necessariamente
l’”impoverimento” o la “dequalificazione”, spesso associata negli approcci “tayloristi” alla produzione
industriale di massa. Elevata specializzazione e elevata qualificazione, nelle economie moderne, sono
spesso associate. Le economie generate dalla divisione del lavoro non derivano solo da un processo di
apprendimento di tecniche rilevanti, ma anche dall’apprendimento e dallo sviluppo di tratti culturali, di
orientamenti cognitivi ed emotivi adatti allo svolgimento dell’attività. Per esempio, la divisione del lavoro
fra chi si occupa di produzione e chi si occupa di vendite in impresa non risponde solo alla diversità di
tecniche che caratterizzano i due tipi di attività inoltre, le attività di produzione richiedono e generano di
solito un’allocazione dell’attenzione, un interesse, addirittura una passione per i dettagli, per i dati, per
l’ingegnosità e l’ottimalità delle soluzioni; un orientamento ai risultati in tempi brevi; un atteggiamento di
avversione al rischio e di assorbimento e elusione dell’incertezza. Le attività commerciali invece richiedono
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e ingenerano di solito uno spiccato orientamento alle persone e alle relazioni, tolleranza e accettazione
delle diversità di mentalità e della pluralità di soluzioni; orientamento ai risultati di medio termine; un
atteggiamento meno avverso al rischio e capacità di affrontare e gestire l’incertezza. Non solo questi
orientamenti specializzati sono efficienti nello svolgimento delle singole attività divise. Essi, una volta
formati, possono produrre diseconomie di varietà. Infatti, se le tecniche possedute da una persona o da un
gruppo possono anche essere molteplici (sia pur limitatamente), più difficilmente un attore riuscirà a
possedere più di una mentalità.
Infine, economie di specializzazione non si manifestano solo grazie alla divisione del lavoro e alla
focalizzazione su una tecnica da parte delle risorse rimane ma anche grazie alla specializzazione delle
risorse tecnologiche. Anche le macchine, oltre al lavoro umano, possono essere specializzate.
Sia per le risorse umane sia per quelle tecniche, il grande limite della specializzazione è la mancanza
di flessibilità, o capacità di adattamento a richieste ed esigenze mutevoli. La flessibilità implica infatti
l’opposto della specializzazione: il generalismo, la ridondanza di competenze rispetto all’attività
correntemente svolta; la polivalenza delle risorse.
Inoltre, la sola presenza di economie di specializzazione non dovrebbe portare automaticamente ad
adottare effettivamente torme di organizzazione basate sulla massima divisione del lavoro anche per un
altro importante motivo: l’incidenza delle altre variabili chiave sul grado e il tipo di divisione del lavoro
efficace ed efficiente. Tra di esse, l’interdipendenza tra attività caratterizzate da diversa specializzazione è
spesso la più importante variabile rivale. Quanto più le attività sono specializzate e interdipendenti, tanto
maggiore sarà l’investimento necessario per coordinarle.
2.2. ECONOMIE DI SCALA
Uno dei fattori tradizionalmente considerati più importanti per la spiegazione della crescita delle
principali unità di azione economica, le imprese, sono le economie di scala. E definita economia di scala la
diminuzione dei costi unitari di produzione di beni o servizi al crescere della scala in cui sono impiegati i
fattori di produzione. La presenza di economie di scala è quindi considerata un fattore di espansione dei
confini delle unità produttive.
Ha senso parlare di economie di scala sia con riferimento a processi di produzione fisica o
“materiale”, sia a processi di trasformazione di simboli e di produzione di servizi “immateriali”. Per
esempio, se il costo di fornitura di un servizio di assicurazione decresce qualora la compagnia accorpi i rischi
di molti assicurati, si può dire che esistono economie di scala.
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Oppure ancora, si può parlare di economie di scala anche a livello “micro” e con riferimento alle
risorse umane, e non solo tecniche. I minori costi ottenuti saturando la capacità di una persona con
capacità specialistiche in una data attività, supponiamo un ingegnere del software, piuttosto che lasciando
la risorsa parzialmente inutilizzata perché il volume di attività non è sufficiente, sono una variante di
economie di scala.
Sebbene si possa parlare di economie di scala amministrativa, o di economie di scala nella fornitura
di servizi e di economie di scala nell’utilizzo del know-how, di solito l’entità delle economie di scala è più
pronunciata nei processi di trasformazione ad alta intensità di capitale , che non in quelli ad alta intensità di
lavoro, nell’industria manifatturiera ed estrattiva che non in molte attività di servizio, nei servizi di
commercializzazione, distribuzione e trasporto che non nei servizi alle persone, nella produzione di beni e
servizi standard (come elettrodomestici o depositi bancari) che non di beni o servizi non standardizzabili
(come i gioielli o la consulenza di direzione).
Le risorse sono spesso disponibili in entità discrete. Ciò implica che esse non possono ampliarsi o
ridursi in modo continuo, che possono esistere “discontinuità” nelle risorse, sia tecniche sia umane. Per
esempio, un impianto per la fusione dell’acciaio ha dimensioni minime efficienti piuttosto elevate e
richiede un volume di produzione rilevante per essere pienamente utilizzato. Inoltre, se si considera il
legame tra la fase della fusione e la fase della laminazione nella lavorazione dell’acciaio, notiamo che esse
sono “tecnicamente inseparabili”, almeno fino a quando non sarà tecnicamente possibile trasportare
l’acciaio fuso. In questo caso l’inseparabilità tecnica è dovuta alla mancanza di conoscenza su come
effettuare la separazione. In altri casi, la separazione sarebbe tecnicamente possibile, tuttavia i costi di
produzione sarebbero molto più elevati. Quanto maggiori sono i costi o le difficoltà tecniche di divisione
delle attività e di creazione di scorte, tanto maggiore sarà la spinta ad integrare le attività.
Questa osservazione permette di precisare che le economie di scala possono presentarsi a diversi
livelli: in particolare, possono essere specifiche di una fase o manifestarsi su un insieme di più fasi. Tale
distinzione importante dal punto di vista organizzativo. Infatti, qualora vi siano economie di scala su un
insieme di fasi, si genera una spinta all’integrazione di più fasi in un’unica unità economico-organizzativa, o
quanto meno ad uno stretto coordinamento tramite programmazione. Invece, se le economie di scala sono
interne a una fase o attività, esse generano spinte all’espansione di quella attività come attività
specializzata, in modo che essa possa raggiungere alti volumi grazie al fatto di poter servire molte altre
unità. Pertanto, economie di scala specifiche di una singola attività o fase favoriscono la divisione del lavoro
fra unità organizzative piuttosto che favorire l’integrazione. È il caso, per esempio, illustrato da Mariotti e
Cainarca nelle loro ricerche sull’industria tessile. Al contrario che nell’industria petrolifera, nell’industria
tessile vi è un’alta disintegrazione verticale tra imprese. Filatura e cardatura, confezionamento e
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distribuzione sono attività non solo tecnicamente separabili ma caratterizzate da economie di scala al loro
interno. Gli output di ogni fase sono stoccabili. Ogni attività tende a essere svolta non solo da diversi
operatori specializzati ma spesso persino da imprese diverse che acquistano da e vendono ad altre imprese
sia a monte sia a valle.
Inoltre, come ogni economia generata dalla tecnica e ogni valore generato dalle competenze, le
economie di scala potranno essere effettivamente realizzate come tali solo se le condizioni economiche
esterne lo permettono. Nel caso delle economie di scala, è necessario che le dimensioni del mercato (nel
senso di ampiezza della domanda) siano tali da poter assorbire gli output di una produzione su vasta scala.
2.3. ECONOMIE DI “SCOPE” :
Può accadere che i costi unitari di produzione diminuiscano allorché più tipi di beni o servizi siano
prodotti congiuntamente utilizzando le stesse risorse - impianti, know-how, risorse umane con una data
qualificazione. Questo tipo di economie nei costi unitari di produzione sono definite economie di “scope” o
raggio d’azione. Se vi sono economie di scope, la somma dei costi unitari di produzione di un bene P1 (se
esso è l’unico output delle risorse impiegate) più quelli di bene P2 (pure prodotto separatamente) è.
maggiore della somma dei costi di produzione dei due beni prodotti congiuntamente (utilizzando le stesse
risorse). La presenza di economie di scope è dunque considerata uno dei fattori in grado di spiegare la
diversificazione della produzione di una unità economico-organizzativa. Come accade per le economie di
specializzazione e scala, non tutti i tipi di attività presentano economie di scope. Quali sono le fonti di
queste sinergie produttive? Quando si verificano?
Come per le economie di specializzazione, l’apprendimento è fondamentale nella generazione di
economie di scope. Tuttavia, nei primo caso si tratta di un apprendimento di mezzi e metodi sempre
migliori per svolgere un tipo dato di attività. Nel caso delle economie di scope, invece, si tratta di
apprendere o scoprire o inventare quali altre attività potrebbero essere sinergiche con quelle già condotte.
L’opportunità di impiegare determinate risorse nella produzione di più di un bene sorge spesso dal
fatto che le risorse tecniche e umane che si devono approntare per lo svolgimento di un’attività, o che si
sono comunque accumulate nei tempo su quell’attività, risultano eccedere i fabbisogni di quell’attività ed
essere utilizzabili oltre i limiti di quell’attività.
Un altro esempio frequente di come le economie di scope possano guidare la diversificazione è
quello di attività intraprese come attività ausiliarie o di servizio ad un’attività principale, in cui le
competenze acquisite e le risorse accumulate si rivelano sufficienti a rendere quell’attività un’area di affari
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autonoma. Per esempio, I’IBM, in ausilio alla sua attività di costruzione di computer, sfruttando la propria
competenza elettronica, per gestire le filiali disperse in tutto il mondo ha sviluppato un network di
telecomunicazione che collega praticamente tutti i paesi del mondo, il cui affitto ad altre imprese come
canale di comunicazione è diventato di per sé una linea di prodotto ad altissima redditività.
Questa considerazione porta ad individuare una seconda caratteristica delle risorse tecniche e
umane che possono presentare opportunità di economie di scope. Le economie di scope non escludono la
presenza di economie di specializzazione nelle singole attività. Anzi, normalmente è proprio
l’apprendimento in un’attività a permettere l’accumulazione di risorse e competenze applicabili ad altre
attività. Tuttavia è importante che la tecnologia, il know-how, le competenze delle persone abbiano alcune
componenti relativamente universali, flessibili, di base, potenzialmente comuni a più attività. Tali
componenti degli strumenti o delle conoscenze possono tipicamente esser state scoperte e messe a punto
nel percorso di apprendimento e specializzazione in un’attività.
Le risorse con molteplici potenzialità di applicazione si possono definire risorse “di base” o “core
competences” nel caso esse siano di proprietà di un singolo attore, tipicamente l’impresa.
Si deve infine notare che anche per le economie di scope, come per le economie di specializzazione
e scala, non è sufficiente che si producano fenomeni di riduzione dei costi per motivi tecnici perché questi si
trasformino in economie effettivamente realizzabili da chi svolge le attività. Un limite specifico alle
economie di scope, in quanto economie legate all’innovazione, è l’appropriabilità delle risorse comuni o di
base. Per esempio, il possesso del know-how relativo alla riduzione dell’attrito nei meccanismi ruotanti
poteva essere un fattore di spiegazione dell’ingresso in nuove attività basate su di esso per le imprese del
diciannovesimo secolo, non lo sarebbe più oggi. Il motivo è che tali conoscenze si sono diffuse, sono
diventate un bene pubblico. In effetti, qualora fosse difficile mantenere la proprietà di tecniche sviluppate
in un’attività e suscettibili di altre applicazioni, l’unità economico-organizzativa che le ha sviluppate non
sarebbe più efficace ed efficiente di altre unità (imitatrici) nello sviluppo delle nuove applicazioni. Fanno
ormai parte della drammaturgia imprenditoriale e manageriale le “tragedie” delle imprese che
svilupparono tecniche di elevata utilità e versatilità ma di facile imitabilità (come la fotoriproduzione uscita
dai laboratori 3M) e che vengono sorpassate in sede di sviluppo e commercializzazione dalle applicazioni di
altre imprese (nel caso specifico, le fotocopiatrici Rank Xerox).
Ma nemmeno l’appropriabilità delle conoscenze e delle risorse è sufficiente di per sé a spiegare
l’espansione efficiente di un attore economico su più attività direttamente possedute e svolte. Le risorse
non devono nemmeno essere facilmente trasferibili ad altri attori. Infatti, nel caso di risorse come la terra,
un network informatico, conoscenze brevettabili o persino una rete di contatti (per esempio, un
indirizzario) l’uso parziale di capacità inutilizzata della risorsa può esser venduto. Solo se le risorse sono
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difficilmente trasferibili le economie di scope possono effettivamente portare all’espansione per
diversificazione delle unità economico-organizzative.
2.4. COMPLEMENTARITÀ
Questa variabile è stata messa particolarmente in luce per comprendere la grande espansione del
fenomeno delle alleanze tra imprese con competenze diverse orientate alla ricerca, sviluppo e realizzazione
di nuovi prodotti basati su tali risorse complementari. Tuttavia, la complementarità tra competenze è
altrettanto fondamentale e del tutto analoga negli effetti all’interno dell’impresa. Per esempio è noto da
tempo che l’innovazione di prodotto può e deve essere sostenuta dall’applicazione complementare delle
competenze delle principali diverse funzioni aziendali - la ricerca e sviluppo, la produzione, le vendite -
realizzata in apposite strutture di lavoro di gruppo.
Quale che sia il livello di analisi prescelto - relazioni tra imprese, una intera impresa, un
sottosistema di un’impresa - la ricerca di complementarità tra risorse potrebbe essere sistematizzata e
operazionalizzata attraverso strumenti di analisi delle relazioni tra risorse come matrici risorse/risorse o
risorse/attività. La matrice aiuta a porsi in modo sistematico le seguenti domande: quali sono le principali
risorse e competenze presenti in un sistema di
azione? Quali sono le attività che attualmente
utilizzano ciascun tipo di risorsa? Quali combinazioni
e complementarità tra risorse sono attualmente
sfruttate? Quali nuove attività potrebbero utilizzare
più compiutamente le risorse esistenti
singolarmente prese o in combinazione? Quali
nuove risorse se sviluppate o acquisite, e applicate
congiuntamente a quelle esistenti, potrebbero
generare output di valore diversi da quelli già esistenti o produrli a minor costo? Inoltre, la matrice offre un
quadro sintetico anche delle variabili precedentemente illustrate leggibili nelle celle disposte sulla
diagonale, in cui sono elencate le attività che possono essere svolte con l’uso di ogni risorsa o aggregando
risorse della stessa specie. Le celle situate fuori della diagonale ospitano le attività che possono essere
generate con l’uso combinato di risorse diverse
2.5. INSOSTITUIBILITÀ DELLE RISORSE
L’economia dell’organizzazione ha sottolineato l’impatto della specificità e dell’insostituibilità delle
Figura 4 - Analisi delle relazioni tra risorse per la generazione di attività
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risorse sulle soluzioni organizzative efficienti. Tra le fonti “difendibili” di insostituibilità (o monopolio) vi
sono il possesso concentrato in alcuni attori di risorse naturali ambite e rare (come il talento sportivo); il
rapporto tra dimensioni della domanda e dimensione minima efficiente delle imprese; l’innovazione e la
differenziazione del proprio output da quello di potenziali concorrenti; la specificità ad un uso o ad un
utilizzatore delle risorse investite in una relazione. Tutte queste forme di insostituibilità delle risorse danno
luogo sia a vari tipi di “rendite” - ritorni economici superiori a quelli necessari per attrarre la risorsa in un
dato impiego o attività - sia a vari tipi di “costi di transizione” - costi di ricerca di partner, di negoziazione
delle condizioni di scambio o di cooperazione, di con-trollo che gli accordi siano rispettati. Pertanto le
relazioni caratterizzate da insostituibilità non possono essere governate solo da meccanismi di prezzo e di
uscita. Quali altri meccanismi siano efficaci dipende tuttavia da altri elementi, come il grado di incertezza,
nonché dal tipo di rendita. Per esempio, nel caso di scarsa sostituibilità dovuta alle dimensioni del mercato,
si ricorre in genere all’intervento regolativo pubblico, per contenere i costi di transazione per i consumatori,
dovuti a possibili lievitazioni di prezzi e decadimenti di qualità. Nel caso invece di insostituibilità dovuta ad
innovazione e ad investimenti specifici, le rendite hanno una funzione di ricompensa senza la quale gli
investimenti non sarebbero effettuati e riflettono un maggior valore per gli acquirenti.
La specificità di una risorsa ad una relazione economica è particolarmente importante e diffusa
come fonte di insostituibilità perché è spesso generata dai processi di scambio e cooperazione stessi. Si
pensi alle conoscenze reciproche che si possono sviluppare tra attori che effettuino scambi o cooperino
ripetutamente: conoscenze dei linguaggi, dell’affidabilità, delle procedure amministrative, dei tempi di
azione. Pertanto, se certe risorse, o certe risorse e certe attività, sono legate da specificità, il loro “incontro”
in relazioni di scambio o di cooperazione genera maggior valore rispetto ad altre combinazioni.
Quando le rendite sono create da relazioni specifiche, esiste il problema di come dividerle tra le
parti che concorrono alla loro formazione. Normalmente tale problema è risolvibile tramite negoziazione. Il
valore che ogni parte deriverebbe dal miglior impiego alternativo delle proprie risorse fornisce “prezzi di
riserva” che delimitano la zona di accordo. La parte divisibile del surplus è di solito definita “quasi-rendita”:
il suffisso “quasi” si riferisce al fatto che la rendita è diminuita del costo di ricerca e trasferimento delle
risorse ai potenziali impieghi alternativi. Le parti possono negoziare prezzi e altre condizioni in modo da
espandere il più possibile il valore totale della quasi-rendita e dividerlo secondo qualche criterio di equità.
Da parte degli economisti organizzativi si è tuttavia notato che gli investimenti specifici possono
essere asimmetrici nel caso in cui una parte si vincoli unilateralmente ad un’altra. In tal caso essa si
esporrebbe ad un rischio di espropriazione di tutta la quasi-rendita creata dallo scambio o azione comune
da parte dell’altra. Per esempio, un franchisee che sostenga unilateralmente investimenti specifici per
accedere ad una catena di distribuzione, non ha comunque convenienza a lasciare la catena finché il suo
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corrispettivo non scende fino al livello di ricompensa derivante dal miglior impiego alternativo delle sue
risorse. Il franchisor, sapendolo, può comprimere i payoffs del franchisee fino a quel livello.
2.6. COMPLESSITÀ INFORMATIVA E INCERTEZZA
Il concetto di incertezza utilizzato nella teoria dell’organizzazione è distintivamente più ampio di
quello utilizzato nella teoria delle decisioni classica, da cui ha preso le mosse e le distanze. La distinzione
classica in teoria delle decisioni corre fra situazioni di “certezza”, “rischio”, e “incertezza”: nella prima si
possono prevedere i risultati delle combinazioni tra i possibili “stati del mondo” e le possibili azioni di un
decisore con probabilità uno; nella seconda quei risultati si possono prevedere assegnando loro delle
probabilità (minori di uno); nella terza non è neppure possibile valutare le probabilità. In tutti e tre i casi si
suppone tuttavia che il decisore sia
in grado di elencare le possibili
azioni (alternative) e i possibili
“stati del mondo” che possono
influire sulle loro conseguenze.
Il “costrutto” di incertezza
normalmente utilizzato in
organizzazione include quello di
incertezza della teoria classica
delle decisioni, ma è decisamente più ampio. E un concetto complesso, che include diverse componenti con
effetti diversi sull’organizzazione efficace ed efficiente. Si possono distinguere almeno sei componenti
principali utilizzate negli studi e ricerche organizzative. Per sottolineare questo allargamento del concetto e
della definizione di incertezza utilizzeremo il termine complessità informativa. La figura 5 mostra le
principali componenti del concetto di complessità informativa, illustrate nel seguito.
Per introdurre l’argomento, si considerino alcune attività universitarie: quali fonti di complessità
sono presenti nella preparazione di un esame universitario? Se si dovesse effettuare un progetto sul
campo, anziché solo studiare un libro, in che senso l’attività sarebbe più complessa? Perché programmare
l’orario dei corsi è complesso? Perché le decisioni di assunzione di nuovi docenti sono complesse?
L’incertezza non riguarda solo la possibilità di assegnare probabilità ad una serie di eventi ma anche
l’incapacità di prevedere quali possano essere questi eventi. Quali sono i possibili “stati del mondo” o
situazioni contingenti del contesto in cui intraprendere un’azione di vendita? Ad esempio, le recenti mosse
competitive dei concorrenti, le esigenze contingenti dei clienti, i prezzi delle materie prime, il livello
qualitativo ottenuto nella produzione, ecc.
Figura 5 - Principali implicazioni organizzative della complessità informativa
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La variabilità in tali fattori, anche se identificati, contribuisce al livello di incertezza. La variabilità
può essere generata dai fattori variabili del contesto in cui si svolge un’attività e che possono influenzarne il
risultato; dalla natura più o meno stabile degli oggetti o “materiali” sottoposti a trasformazione e dei
processi di trasformazione; dal tasso di cambiamento e volatilità delle esigenze dei consumatori. Per
esempio, un’attività di registrazione di dati contabili è un’attività stabile, mentre un’attività di marketing di
un nuovo prodotto è un’attività il cui esito dipende da molte contingenze al di fuori del controllo degli
attori e potenzialmente variabili (come le reazioni dei concorrenti e dei consumatori).
Un’altra componente dell’incertezza è costituita dalla natura delle conoscenze sulle azioni “correte”
o migliori da compiere per ottenere certi effetti. La natura dei materiali o dei processi di trasformazione
può richiedere processi di soluzione di problemi, produzione di nuove conoscenze, ricerca di soluzioni
nuove in misura minore o maggiore. Per esempio, le attività di definizione e realizzazione di una commessa
aerospaziale sono molto più incerte, sotto questo aspetto, che non le attività di definizione e realizzazione
di una commessa di impiantistica tradizionale. Analogamente, un’attività di cura psichiatrica è un’attività di
trasformazione del “materiale umano” a più alta intensità di ricerca che non l’insegnamento di una lingua
straniera a persone adulte.
La mancanza di conoscenze complete a priori e la necessità di produrre conoscenza durante i
processi di decisione e azione può riguardare anche i fini o preferenze degli attori. Vi possono essere campi
di attività nuovi per l’attore o nuovi in assoluto in cui obiettivi rilevanti vanno appresi agendo in modo
sperimentale e incrementale. Per esempio, quali sono le conseguenze rilevanti e quindi gli obiettivi
raggiungibili di un programma inedito di intelligenza artificiale applicato alla gestione dei titoli? Si può
partire da una percezione di riduzione nei costi/tempi di decisione per scoprirne in seguito molti altri effetti
positivi e negativi: per esempio, effetti sulla qualificazione delle persone, sulla flessibilità delle decisioni di
fronte a eventi/occasioni impreviste, sulla vulnerabilità del sistema nei confronti di guasti tecnici.
Un’ulteriore componente dell’incertezza attiene alle capacità di valutazione ex post delle azioni
economiche e delle loro conseguenze. In altri termini, con riferimento agli elementi fondamentali dei
processi decisionali, l’incertezza si può manifestare non solo a livello di informazioni, di alternative e di
obiettivi, ma anche a livello di valutazione delle azioni una volta compiute. Può essere difficile osservare e
misurare, sia in termini tecnici sia di valore, le risorse, le azioni, i risultati, tutti questi elementi.
Un’ultima componente della complessità informativa è quella ripetutamente evocata da Simon
attraverso l’esempio del gioco degli scacchi. Le regole del gioco non sono variabili e il suo albero decisionale
non è infinito: in teoria, si potrebbero sviluppare e valutare tutte le alternative (combinazioni di sequenze
di mosse rilevanti). La complessità informativa del gioco deriva dal numero terribilmente elevato di
informazioni e alternative che andrebbero tenute simultaneamente presenti. Quanto maggiore è il numero
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di elementi, e di loro possibili combinazioni, di un’attività - attori coinvolti, mosse possibili, materie rilevanti
- tanto più essa è computazionalmente complessa. Per esempio, un’attività di vendita di un bene
industriale (per esempio, una turbina) è di solito più complessa della vendita di un bene di consumo (per
esempio, un armadio). Infatti, anche a parità di altre condizioni (per esempio, supponendo che entrambi i
beni siano standard), la vendita della turbina tocca molte più materie di scambio che non, per esempio,
l’entità dello sconto e dei tempi di consegna.
La presenza di incertezza a tutti questi livelli ha grandi implicazioni organizzative. Per esempio, né i
prezzi né il voto potrebbero governare molte delle condizioni di incertezza illustrate in questo paragrafo.
L’autorità, così come il controllo di gruppo, sono messe in crisi dalla non osservabilità delle azioni; e la
relazione di agenzia è inefficace laddove i risultati dipendono debolmente dalle azioni per via di una forte
incidenza di incertezza da fattori esogeni. La possibilità di governare l’azione collettiva tramite norme e
regole è legata a condizioni di scarsa variabilità. La possibilità di dividere il lavoro orizzontalmente e
verticalmente è legato alla chiarezza degli obiettivi o output cercati e delle relazioni causa-effetto per
produrli.
Inoltre, come l’insostituibilità, anche l’incertezza può generare situazioni asimmetriche, e tale
condizione ha le sue specifiche implicazioni organizzative. Utilizzando le definizioni in uso al riguardo
nell’economia dell’informazione (entrambe derivate dallo studio dei problemi e dei contratti assicurativi) se
una parte ha molte informazioni sul valore di un bene o servizio oggetto di un possibile scambio, mentre la
controparte ha accesso a poche informazioni, la parte informata può permettersi di accettare l’affare solo
se il “valore vero” è inferiore al prezzo (se essa è venditrice) o superiore (se essa è acquirente), si parla in tal
caso di adverse selection. Dopo che uno scambio ha avuto luogo, se una parte è incerta sulle azioni
intraprese dall’altra (inosservabilità), ma l’agente sa quali azioni sono più convenienti per sé, quest’ultimo
ha incentivi ad intraprendere tali azioni anche se era stato pattuito diversamente (moral hazard). Le
asimmetrie informative possono ostacolare la realizzazione di eventi di scambio e cooperazione creatori di
valore, a meno che le decisioni non siano governate anche da meccanismi regolativi come le norme, le
convenzioni, e le garanzie di terze parti.
Infine, bisogna notare che le “condizioni di incertezza” - come quelle di insostituibilità - non sono un
“dato” ma possono essere modificate o persino scelte dagli attori, soprattutto attraverso la scelta delle
attività. Per esempio, una scelta strategica di grande impatto sull’incertezza delle attività che un dato
insieme di attori economici si trova a svolgere è quella di competere differenziando e innovando piuttosto
che di competere sui costi relativamente a un bene/servizio definito. Per esempio, quale grado di
incertezza avranno le attività di un’impresa che produce biscotti? Dipende. La tecnica di produzione è nota
e il prodotto è semplice, tuttavia vi sono imprese che hanno saputo vedere o inventarsi attività innovative
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soprattutto nell’area commerciale in un settore che appariva maturo, creando un sotto-ambiente incerto.
Lo stesso e accaduto nelle attività del settore tessile - abbigliamento dove le case di moda hanno
trasformato attività stabili e cicliche con poche rare variazioni, in attività ad altissima incertezza e volatilità.
2.7. FORME DI INTERDIPENDENZA
Una variabile utilizzatissima nei modelli economici e organizzativi di progettazione è
l’interdipendenza. In effetti, l’esigenza di coordinare de attività economiche nasce dal fatto che molte di
esse sono interdipendenti. Il possesso diffuso di informazioni e risorse e la divisione del lavoro generano
fabbisogno di scambio e cooperazione, cioè interdipendenza tra diverse attività e attori che le svolgono. Per
quanto si tratti di un predittore particolarmente sintetico e “vicino” alle soluzioni organizzative efficaci,
l’interdipendenza è da considerarsi una variabile intermedia, che dipende a sua volta da variabili già
esaminate. Si possono distinguere quattro tipi fondamentali di interdipendenza.
Una prima distinzione fondamentale fra tipi di interdipendenza attiene al tipo di legame che si può
instaurare tra risorse e/o tra attività. Beni e servizi possono essere scambiati, istituendo relazioni di
scambio, o condivisi, istituendo relazioni di cooperazione. Chiameremo la prima interdipendenza
transazionale: essa si riferisce al trasferimento di beni o servizi attraverso un’interfaccia tecnicamente
separabile. In altri termini, l’attività A genera un output che viene trasferito come input ad un’attività B.
Tuttavia, notiamo che si tratta di un tipo relativamente semplice o unidirezionale di interdipendenza del
tipo A → B. Essa viene normalmente definita interdipendenza, sequenziale. Thompson ipotizzò che
l’interdipendenza sequenziale fosse regolabile efficientemente tramite meccanismi di programmazione,
assumendo implicitamente che i trasferimenti fossero soggetti a vincoli di tempo, e di luogo e che i flussi e
il livello di utilizzazione delle risorse ai diversi stadi dovessero essere bilanciati. Senza questi assunti
supplementari, si può osservare che le interdipendenze sequenziali possono essere regolate efficacemente
anche da scorte e da prezzi, esterni o interni.
Secondo l’analisi iniziale di Thompson, la relazione può essere anche simmetrica: l’output di A è
input per B, e l’output di B è input per A (la relazione è del tipo A ↔ B). L’esempio portato era quello del
rapporto tra manutenzione e produzione. Tuttavia, ci si può chiedere se e perché trasferimenti di beni e
servizi in due direzioni dovrebbero porre problemi di coordinamento qualitativamente diversi da
trasferimenti unidirezionali. La regolazione potrebbe per esempio avvenire attraverso programmi più
complicati. In effetti è ciò che avviene nella regolazione di molte attività di manutenzione, sempre che esse
possano essere previste, anticipate e quindi programmate. Nell’esempio della manutenzione, si tratta della
manutenzione preventiva svolta sulla base di analisi statistiche sulle tipologie di guasti e i tassi di usura e di
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rottura dei componenti. Ciò che complica e rende qualitativamente diversi i meccanismi di coordinamento
efficaci ed efficienti non è di per sé la bidirezionalità ma la non predicibilità delle relazioni e la necessità di
risolvere problemi nuovi, dunque le caratteristiche di complessità informativa della relazione. Per esempio,
nel caso di guasti imprevisti e dalle cause difficilmente interpretabili si crea fabbisogno di comunicazione e
soluzione congiunta di problemi fra produzione e manutenzione. Saranno dunque efficaci meccanismi di
coordinamento che permettono tali interazioni, come le relazioni laterali, i ruoli di collegamento e i gruppi
di lavoro. Le condizioni di efficacia di tali meccanismi sono di solito definite di interdipendenza reciproca:
tuttavia il significato di questo termine, se si vuole predire correttamente l’uso di quei meccanismi, è quello
di interdipendenza transazionale complicata dalla presenza di complessità informativa. Esempi
economicamente importanti di relazioni di interdipendenza reciproca sono anche tutte le transazioni in cui
un output è prodotto da A “su misura”, “su specifica” o commessa di B, anziché indipendentemente da tali
informazioni: A fornisce l’output per B solo se B fornisce le indicazioni in input per A.
Vi sono forme di interdipendenza che non implicano trasferimenti di beni o servizi tra
attori/attività, bensì implicano unione di sforzi, allineamento di comportamenti, azione comune. Si
potrebbe perciò definirla in generale “interdipendenza cooperativa”. Si deve sempre a Thompson una
prima descrizione di questi tipi di interdipendenza: egli chiamò “pooled interdependence” l’interdipendenza
generata dalla costituzione e uso di risorse comuni. Per esempio, l’uso degli stessi edifici, impianti, risorse
segretariali o servizi di marketing, o dello stesso marchio o know-how da parte di più attività/attori genera
interdipendenza da risorse comuni. L’analisi delle situazioni di interdipendenza per “aggregazione” o
“pooling”, può essere arricchita considerando non solo l’aggregazione di risorse ma anche l’aggregazione di
attività. Per esempio, una semplice somma di sforzi grazie alla quale si può svolgere un’attività altrimenti
sovradimensionata. Di nuovo, il coordinamento di tali interdipendenze derivanti da economie di scala e
specializzazione può non essere problematico finché non è complicato da una qualche forma di
complessità informativa. Esso si può avvalere di procedure di lavoro, di osservazione e controllo reciproco
tra gli attori, e/o di meccanismi che governano l’accesso alle risorse in modo simile ai prezzi - come le code
o le tariffe di utilizzo. Esigenze di coordinamento e controllo un po’ più complesse si creano invece se i
contributi e le azioni non sono osservabili, per esigenze logistiche o per dimensioni della squadra, cosicché
si possono produrre incentivi all’uso improprio delle risorse comuni o riduzioni inosservate delle attività e
dei contributi. L’uso di relazioni di autorità o di agenzia è stato infatti collegato a tali situazioni, e se vi sono
vincoli di tempo e priorità anche la programmazione è opportuna.
Situazioni di interdipendenza cooperativa più compiesse, si possono avere se le parti devono
definire le azioni da compiere aggiustandole una rispetto all’altra, sulla base di informazioni derivate dallo
svolgimento di ogni altra azione, componendole come pezzi di un mosaico in un’azione comune. Utilizzando
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un altro termine di Thompson possiamo definire questo tipo di relazione “interdipendenza-intensiva”. Per
illustrarla egli portò come esempio l’équipe di specialisti medici in un intervento chirurgico. Esempi
economici di interdipendenza intensiva, sono le interdipendenze tra produzione, marketing e ricerca in
un’attività di definizione di un nuovo prodotto; o le interdipendenze tra case madri nella creazione e
gestione di una joint venture. Le implicazioni organizzative di questo tipo di interdipendenza sono
l’aggregazione delle risorse e attività in unità integrate entro le quali si possa realizzare l’aggiustamento
reciproco, e il disegno di schemi di incentivo in grado di “allineare gli obiettivi” degli attori.
2.8. CONFLITTO TRA INTERESSI E POTENZIALE DI OPPORTUNISMO
Il grado di contrapposizione o conflitto tra gli interessi tra attori che posseggono diverse risorse e
svolgono diverse attività; piuttosto che il grado di complementarità o addirittura identità di interessi è una
variabile di progettazione organizzativa molto importante ma sorprendentemente trascurata. Quando è
stata considerata, è stata trattata tipicamente come un “assunto” anziché una variabile. Per esempio, i
modelli di economia dell’organizzazione tendono ad “assumere” (o sospettare) la presenza di conflitto,
mentre in organizzazione si è spesso “assunta” la presenza di “fini comuni”.
Nella teoria economica dell’organizzazione si è sostenuto che più che il conflitto tra interessi di per
sé sia il “potenziale di opportunismo” che da esso può derivare ad influenzare gli assetti organizzativi
efficienti. Un comportamento opportunistico è un comportamento che tradisce lo spirito di un accordo di
cooperazione o di scambio attraverso “promesse non credute da chi le fa”, azioni che accrescono
unilateralmente i propri benefici e danneggiano altri che non sono in condizioni di scoprirle o di reagire,
free-riding, inganni e bluff.
Per esempio, la cooperazione tra imprese oligopolistiche che producono lo stesso tipo di prodotto
(per esempio, petrolio) sulla definizione dei prezzi è una relazione ad alto potenziale di opportunismo.
Esiste un interesse comune all’allineamento delle azioni (senza il quale non si avrebbe cooperazione del
tutto). Tuttavia, esistono anche significativi incentivi al non rispetto unilaterale degli accordi e al free-riding,
che conferiscono al gioco una struttura del tipo “dilemma del prigioniero”. Le imprese hanno un interesse
comune a mantenere alto il livello dei prezzi generale, ma ogni singola impresa ha interesse ad abbassare il
proprio prezzo sotto quello delle altre per guadagnare quote di mercato. Pertanto è difficile che il
coordinamento tra “conspiring oligopolists” possa sostenersi senza particolari garanzie e tutele reciproche
nei confronti del free-riding. Al contrario, la cooperazione tra imprese che operano in attività
complementari, per esempio prodotto con domanda correlata positivamente anziché negativamente, può
essere molto agevole, anche in materia dei prezzi, e sostenersi da sola perfino in modo tacito.
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Oppure si considerino le relazioni di cooperazione nel campo della ricerca e sviluppo. Anche in
questo caso si osserva un’ampia varietà di accordi, che possono andare da contratti associativi altamente
formalizzati, tutelati e istitutivi di relazioni di autorità per la risoluzione dei conflitti (come la costituzione di
una società in joint venture); fino ad accordi di cooperazione informale. La variabile che può meglio
spiegare queste differenze non è il grado di incertezza o il tipo di interdipendenza, che sono simili, bensì il
grado di conflitto e il potenziale di opportunismo insito nel gioco. Per esempio, vi sono alcuni tipi di know-
how e competenze che, attraverso la messa in comune, lo scambio e il confronto aumentano di valore per
entrambe le parti anziché rappresentare una cessione o diminuzione di risorse che richiede un
corrispettivo. E spesso il caso di conoscenze di base e di attività di ricerca pre-competitiva e non ancora
applicata. Al contrario, la messa in comune di conoscenze distintive possedute da diversi attori, critiche per
la loro stessa esistenza come attori economici, e non facilmente tutelabili in termini proprietari tramite
brevetti, espone le parti a elevati rischi di opportunismo. Si pensi a due imprese che vedano l’opportunità di
associare da un lato un insieme di contatti e di relazioni con clienti e istituzioni locali in un certo paese,
dall’altro un know-how tecnico su particolari processi di trasformazione chimica. Una volta conferite o
comunicate, tali risorse possono essere espropriate reciprocamente e la relazione di cooperazione può
trasformarsi in estrema competizione per la sopravvivenza. Perciò, questo tipo di relazioni sono spesso
pesantemente tutelate dalla “mano” di un governo molto “visibile”.
Un’analoga distinzione vale per le interdipendenze transazionali. Si consideri la relazione tra
un’attività di produzione e una di vendita di impianti su commessa. Si supponga che l’attività di produzione
sia orientata alla riduzione dei costi e quindi alla standardizzazione dei processi e dell’output. Si supponga
che invece l’attività commerciale massimizzi le probabilità di vendita cercando di negoziare su misura
l’impianto il più possibile con il committente. Le due attività hanno interessi conflittuali; e se lo stadio
commerciale compensa in forma monetaria lo stadio produttivo per il trasferimento dei beni o servizi, essi
hanno interessi contrapposti anche sul prezzo di trasferimento. Se il gioco fosse effettivamente così
distributivo, esso potrebbe generare un elevato potenziale di opportunismo permettendo alle parti di
sfruttare le variazioni nelle circostanze in cui si svolge lo scambio a proprio vantaggio. Tuttavia, ciò non si
verifica necessariamente: dipende dal tipo di variazioni che si possono manifestare. Per esempio, la
variazione incerta o imprevedibile nell’accordo di trasferimento tra le due parti che si manifesta potrebbe
essere favorevole a entrambe. Per esempio, un committente richiede uno slittamento nelle consegne per
suoi problemi di completamento di lavori di ristrutturazione dei capannoni in cui dovrebbe essere collocato
l’impianto; il fornitore è in ritardo con la consegna e gradisce il rinvio. Questa variazione genera risorse
maggiori, più comode, in eccesso per tutti; e come tale non è soggetta ad essere usata
opportunisticamente. La variabilità e l’instabilità che si risolva in un aumento delle dimensioni della torta
cui attingono attori/attività interdipendenti, rende i giochi meno conflittuali e abbassa gli incentivi
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all’opportunismo.
Inoltre, il rischio effettivo di opportunismo in una relazione dipende anche dalla misura in cui gli
attori adottano un modello di comportamento calcolativo e dalla longevità o ripetitività e frequenza attesa
dalla relazione. Relazioni ripetute e longeve, interazioni frequenti tra le parti e una forte
istituzionalizzazione capace di regolare molti comportamenti in modo “normativo” anziché “calcolativo”
dovrebbero calmierare il potenziale di opportunismo.
La possibilità di esercitare effettivamente azioni opportunistiche e di sfruttamento dei partner
contrattuali dipende poi dal grado di sostituibilità di entrambe le parti, cioè da quanto le minacce di uscita
dalla relazione sono credibili. Il potenziale di opportunismo può quindi diventare alto se è difficile stringere
contratti completi se gli interessi sono in conflitto anziché convergenti, e infine se gli attori non si possono
facilmente sostituire. Né l’insostituibilità di per sé, né l’incertezza di per sé, né il conflitto tra interessi di per
sé darebbe luogo a elevato potenziale di opportunismo: il loro connubio fo può generare.
A parità di condizioni, quanto maggiore è il conflitto tra interessi e il potenziale di opportunismo,
tanto più gli assetti organizzativi efficaci faranno uso di meccanismi forti di risoluzione dei conflitti come la
creazione di sistemi di regole formali interne a integrazione dei contratti, l’autorità arbitrale, al limite
l’unificazione o la condivisione dei diritti di proprietà.
La rilevanza della variabile del conflitto tra interessi per la progettazione organizzativa non si ferma
qui. La differenziazione tra interessi ed obiettivi non è solo diffusa ma spesso efficace. E può essere
governata e persino protetta attraverso la separazione tra attività. La presenza di conflitto tra interessi ed
obiettivi che governano o dovrebbero governare due o più attività può avere come soluzione efficiente la
separazione tra le attività. Si può parlare in questo caso di incompatibilità, e si può osservare che essa è un
criterio di progettazione organizzativa in effetti molto applicato, anche nell’attività economica, per
quanto sia stato alquanto trascurato nei modelli più diffusi di progettazione. Si ritiene che vi sia
incompatibilità tra molte cariche pubbliche e private, tra attività di controllore e di controllato, tra attività a
fini di servizio sociale e a fini di lucro (da cui discende l’adozione delle forme di associazione non a fine di
lucro per certe attività) tra attività di gestione patrimoniale nell’interesse dei depositanti (e in funzione del
loro grado di avversione al rischio) o nell’interesse dell’intermediario finanziario (da cui discende la
separazione tra banche di deposito e di investimento). Nel caso in cui il conflitto d’interesse si configuri
come incompatibilità, esso normalmente implica che sia efficace un’allocazione delle attività ad attori
distinti e talora addirittura non comunicanti.
2.9. INCERTEZZA E DIVERGENZA TRA INTERESSI SULLE SOLUZIONI ORGANIZZATIVE
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Esame di: Economia delle Organizzazioni
Riassunto dal testo: Organizzazione e comportamento economicoCapitolo 9 – Analisi e Configurazioni
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Diverse persone, o organi, o imprese possono ordinare secondo preferenza in modo diverso le
soluzioni organizzative stesse. Ciò significa che vi può essere conflitto stille forme organizzative da adottare
e che le modalità di soluzione di tali conflitti influenzano le soluzioni effettivamente adottate. Quando si
desiderino risolvere creativamente sia tali divergenze, sia problemi organizzativi nuovi, poco strutturati e
non “standard”, è opportuno adottare un approccio euristico e negoziale alla progettazione. Procedure atte
alla ricerca di soluzioni organizzative sono presentate nel primo paragrafo di ogni capitolo della parte terza.
Procedure eque di ottimizzazione congiunta delle soluzioni organizzative sono sviluppate nella parte
conclusiva di ogni capitolo. Esse seguono lo schema generale rappresentato in figura 6. Infatti, se una
“soluzione” o “forma” organizzativa implica una particolare allocazione di diritti su risorse e attività ad
attori diversi, è lecito aspettarsi che, tra le varie soluzioni Pareto-efficienti che si possono individuare, gli
attori preferiscano soluzioni che garantiscono loro maggiori diritti e risorse piuttosto che meno, e che
pertanto debbano mettersi d’accordo su quale soluzione ritengano equa per arrivare a definire un assetto
organizzativo. Per esempio, più imprese possono essere d’accordo sull’opportunità di associarsi per
realizzare un progetto complesso come un tratto di metropolitana, cogliendo economie di scala e di
complementarità nelle competenze. D’altra parte,
accade che una o più imprese, di solito quelle che
realizzano la parte più “grossa” in termini di fatturato dei
lavori come quelle costruttrici, preferiscano un accordo
di sub-contracting che garantisce loro una quota
maggiore di utili “spremendo” i subappaltatori; mentre
questi ultimi, spesso anche se non sempre, preferiscano
un accordo più paritario come un consorzio, in cui
possono accedere agli utili direttamente. Non vi è una
singola soluzione efficiente. Vi sono varie soluzioni
superiori, e una scelta tra di esse non può che avvalersi di un qualche criterio di divisione dei benefici, come
un criterio di equità.
Figura 6 - Struttura di un generico negoziato a due parti sulle formeorganizzative
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Riassunto dal testo: Organizzazione e comportamento economicoCapitolo 10 – Organizzazione del Lavoro –Il Sistema dei contratti
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CAPITOLO 10
ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO - IL SISTEMA DEI CONTRATTI
Le risorse incorporate nelle persone, o “risorse umane”, possono essere impiegate nell’erogazione di
servizi di lavoro in modi molto diversi fra loro. Le persone, nella nostra trattazione, non sono concepite
come “risorse”, ma come attori, titolari di preferenze e diritti, che posseggono risorse e stipulano accordi sul
loro uso.
L’impiego delle risorse umane è regolato da qualche forma di accordo o contratto, più o meno
complesso. Gli esempi sopra citati ne evocano la varietà. Questo capitolo esplora: a) quali sono i diversi
meccanismi che governano le risorse umane, qui raggruppati in tre grandi classi: la valutazione, la
ricompensa e la mobilita sviluppo; b) quali sono le diverse forme di contratto di lavoro come combinazioni
o configurazioni di tali meccanismi, e quali sono le condizioni nelle quali esse possono essere considerate
efficaci, efficienti ed eque. La trattazione allarga l’approccio usuale di “gestione delle risorse umane”
integrandolo con i contributi dell’economia dell’organizzazione, e riguarda sia l’organizzazione “interna” sia
quella “esterna” delle risorse umane e dei servizi di lavoro.
Quali criteri possono essere usati nel decidere gli aumenti retributivi alle persone? I tipici criteri che
vengono individuati e usati sono i seguenti.
· La valutazione della prestazione, da parte del superiore o dei pari, in base ai risultati o ai
comportamenti.
· La valutazione della professionalità e delle competenze, nelle sue dimensioni di livello di qualificazione
e complessità, e di relativa sostituibilità.
· La valutazione della posizione, nelle sue dimensioni di costo e di valore per chi la ricopre e per il sistema
di azione (difficoltà o piacevolezza dei compiti, nocività, responsabilità e discrezionalità).
· La valutazione delle preferenze e dei bisogni relativi ai beni allocati, nel caso specifico la remunerazione
monetaria.
Le pur esigue e semplici informazioni sulla performance delle varie persone date nell’esercizio sono
sufficienti ad aprire un ventaglio abbastanza ricco di possibili modalità di valutazione e a mostrare la
possibilità di conflitto tra criteri che premiano fattori diversi (i risultati, i comportamenti, il tipo di lavoro
svolto, la situazione personale, il livello retributivo di partenza). Il peso relativo dei diversi criteri può
naturalmente variare in diversi sistemi, e ciò contribuisce a configurare sistemi di valutazione di tipo
differente.
1. VALUTAZIONE
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Riassunto dal testo: Organizzazione e comportamento economicoCapitolo 10 – Organizzazione del Lavoro –Il Sistema dei contratti
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Le principali forme di valutazione considerate nella letteratura di “gestione delle risorse umane”
sono la valutazione delle posizioni, delle competenze, delle prestazioni, dei potenziale. Queste forme di
valutazione si possono collocare nei diversi stadi della catena causale (e dei giudizi di attribuzione causale)
che porta dalle risorse e competenze ai comportamenti di lavoro, ai risultati presenti e futuri.
Normalmente la valutazione dei risultati e dei comportamenti è definita globalmente valutazione
della prestazione. Il principale problema di progettazione di questo meccanismo è la scelta fra valutazione
dei comportamenti, che costituiscono gli input dei processi produttivi, o dei risultati che ne costituiscono
l’output. Lo schema proposto mette in luce il problema conoscitivo e di attribuzione causale sottostante alla
scelta tra valutazione dei risultati, dei comportamenti, o a monte, delle competenze e della professionalità.
Il problema consiste nel fatto che quanto più ci si allontana dalle caratteristiche e dagli attributi degli
attori (le competenze) e ci si sposta verso i risultati, tanto meno ciò che viene valutato può essere attribuito
in modo deterministico all’attore che viene valutato, specialmente in attività soggette a incertezza.
La funzione principale della valutazione della prestazione è quella di rilevare e misurare il valore dei
contributi forniti da date risorse, ed eventualmente di costituire una base di informazioni cui legare
ricompense (monetarie e non monetarie) in funzione dei contributi. Poiché la valutazione della prestazione
è un problema di indagine e misurazione empirica di un concetto complesso (la “prestazione”), di cui è
spesso difficile trovare indicatori validi e completi, essa è difficile e soggetta a distorsioni, come si vedrà.
Un tipo alternativo di valutazione, che può integrare o sostituire la valutazione della prestazione, è la
valutazione della posizione. Anche da un punto di vista storico, infatti, la valutazione della posizione si è
affermata, anche con la collaborazione dei sindacati dei lavoratori, come un meccanismo per rendere meno
arbitraria e più trasparente la valutazione e come modalità per sistematizzare i giudizi e le regole di equità
riguardanti la relazione tra contributi e ricompense, che sarebbero comunque informalmente applicati,
come per esempio: “paga uguale a uguale lavoro”, “pari opportunità” di accesso a posizioni se si
possiedono dati requisiti, ecc. In particolare, la valutazione del contributo che le attività attribuite a una
posizione di lavoro forniscono, indipendentemente dalla particolare persona che occupa la posizione e dalle
sue risorse, sono considerate una base equa ed efficiente per costruire una struttura di salari per una
struttura di posizioni di lavoro. Una giustificazione di questa tesi è che la valutazione della posizione può
esser vista come una misura del contributo medio atteso, in termini di competenze e responsabilità, da un
insieme di. attivita; essa può perciò fungere da variabile sostitutiva (in qualche modo una variabile “proxy”)
rispetto ad una più circostanziata e specifica valutazione delle prestazioni effettive degli attori che
potrebbero assumerle. Pertanto essa è particolarmente utile quando la prestazione effettiva e singolare sia
difficilmente osservabile e misurabile.
Un’altra importante funzione della valutazione delle posizioni è la sua capacità di tener conto di
aspetti importanti delle attività e dei risultati che non dipendono dalle azioni ma dal contesto e dalla natura
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della mansione. Se la valutazione non considerasse anche aspetti di posizione, questi fattori contestuali non
si rifletterebbero in appropriate ricompense e molte posizioni risulterebbero poco attraenti. Per esempio,
l’assunzione di responsabilità e di rischio possono essere attributi delle posizioni, e non solo delle persone o
delle prestazioni, ed essere indipendenti dalle risorse di competenza possedute e richieste nelle mansioni.
Ricompense che non tenessero conto delle caratteristiche della posizione, oltre che della prestazione e
delle competenze, non sarebbero né eque dal punto di vista distributivo, né efficienti nell’attrarre e
motivare i contributi necessari.
Tuttavia, le competenze e le responsabilità di un attore non possono essere adeguatamente desunte
solo dalla posizione occupata, se non in sistemi di ruoli altamente prescritti e formalizzati. Non tutti i capi
reparto, anche di una stessa impresa, posseggono le stesse competenze e assumono le stesse
responsabilità. E questo è tanto più vero quanto più le posizioni prevedono un’elevata discrezionalità,
anche su come interpretare i propri compiti. Una valutazione basata sulle competenze, se intesa come
ricerca e valutazione delle risorse degli attori e non come semplice componente della valutazione di ciò che
è richiesto da una mansione, è una risposta a tale problema.
Infine, una valutazione ancorata e orientata solamente a posizioni esistenti, risorse esistenti e
prestazioni osservate sarebbe tuttavia un sistema molto statico e orientato al passato. Non genererebbe
informazioni molto rilevanti anche solo per il governo della mobilità in senso classico (assunzioni e
promozioni) in una struttura data; ancor meno per il governo dello sviluppo di nuove competenze e nuove
attività. Lo sviluppo di strumenti di analisi e valutazione del potenziale ha rappresentato una risposta a
questo problema. Il “potenziale” è una grandezza congetturata e attesa, non osservata come la prestazione
o la professionalità. Si tratta di stimare le possibili variazioni e sviluppi futuri nelle competenze e nelle
prestazioni degli attori in nuove posizioni. Perciò la valutazione del potenziale è in generale più fallibile e
soggettiva, basandosi su ipotesi e giudizi sotto incertezza su possibili nessi causali futuri tra risorse e
attività.
1.1. VALUTAZIONE DELLA PRESTAZIONE
La valutazione della prestazione è la modalità di più generalizzata applicazione nelle più diverse
configurazioni contrattuali. E necessario valutare le prestazioni passate e attese per acquistare un servizio
di lavoro sul mercato esterno, per allocare le ricompense all’interno delle imprese, per costituire un gruppo
di lavoro, per assumere personale.
Poiché la valutazione è in primo luogo un processo di acquisizione di conoscenze e informazioni, la
scelta tra comportamenti o risultati come aspetto principale della prestazione da valutare è anzitutto
condizionata all’osservabilità e misurabilità degli input piuttosto che degli output. Molti comportamenti
economici non sono direttamente osservabili e valutabili sia per ragioni tecnico-operative sia per
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asimmetria nelle informazioni e nelle competenze. Molti tipi di risultato possono essere difficili da giudicare
e valorizzare, perché si manifestano nel lungo periodo, o perché sono multidimensionali o perché le
informazioni sono difficilmente accessibili (si pensi alla valutazione dei risultati di attività di formazione).
Tuttavia, la scelta fra valutazione sui comportamenti o sui risultati non dovrebbe dipendere solo da
quali dei due elementi è più osservabile. Un’altra variabile importante per la progettazione dei sistemi di
valutazione è la conoscenza delle relazioni causa-effetto. Infatti, i risultati possono essere osservabili ma
può esser difficile attribuirli causalmente a certe azioni; e i comportamenti possono essere osservabili ma la
loro relazione con le conseguenze può non esser chiara. In generale, il vantaggio della valutazione sui
comportamenti è la maggior correlazione di questo aspetto della prestazione con le risorse che lo hanno
generato; mentre il vantaggio della valutazione sui risultati è la maggior correlazione con gli obiettivi finali
dei sistema secondo cui una prestazione viene giudicata.
Da un lato, quindi, il giudizio di valore su un comportamento richiede che sia noto o dato il legame
causale che collega il comportamento a risultati desiderati. Per esempio, si possono valutare attività di
produzione di lattine di birra o di tondini di ferro in base ai comportamenti perché è noto quali
comportamenti e processi produrranno buoni risultati.
Dall’altro lato, la valutazione sul risultato implica che sia noto (e non troppo alto) il grado in cui il
risultato dipende dalle azioni da fattori fuori controllo piuttosto che dall’attore. Se i risultati sono
osservabili e misurabili, essi possono essere utilizzati come indicatori di prestazione nella misura in cui
possono essere attribuiti causalmente o “imputati” alle risorse che si stanno valutando. Per esempio, nelle
attività di vendita il risultato è tipicamente ben osservabile e misurabile come fatturato, quota di mercato,
qualità del parco clienti; mentre i comportamenti che ad esso conducono sono poco osservabili e spesso
anche poco noti e standardizzabili. Questa situazione non dovrebbe condurre ad una valutazione esclusiva
sui risultati tuttavia, a meno che il livello di incertezza ambientale e di dipendenza dei risultati dalle azioni di
altri non permettano di attribuire i risultati osservati agli sforzi e alle azioni dei venditori in questione. I
sistemi di valutazione per risultati possono tener conto della presenza di queste due variabili nel modo
seguente.
Se le difficoltà sono dovute a un’elevata varianza dei risultati dovuta a fattori esogeni (incertezza
ambientale), o al fatto che essi sono osservabili solo nel medio-lungo termine, si può estendere l’orizzonte
temporale della valutazione, valutando serie temporali estese di prestazioni che depurino dall’influenza di
fluttuazioni casuali o valutando ad intervalli di tempo lunghi.
Se le difficoltà derivano dall’ interdipendenza con altri attori i possibili rimedi sono diversi:
· Combinare la valutazione sui risultati con alcuni parametri di valutazione dei comportamenti, per gli
aspetti in cui sono osservabili e specificabili (per esempio, nel caso di attività di marketing, il rispetto
dei tempi programmati per le campagne promozionali in modo da non cannibalizzare prodotti correlati,
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il rispetto di zone territoriali, l’uso di specifiche tecniche di presentazione, informazione e assistenza al
cliente se l’attività di vendita è specifica ad un determinato marchio o produttore);
· Ampliare il ventaglio dei parametri di valutazione dei risultati considerati, in modo che l’indicatore
composito di performance sia più specifico e quindi più attribuibile ad un particolare attore (per esem-
pio, introducendo parametri qualitativi come la soddisfazione espressa dai clienti o dai fornitori);
· Valutare i risultati collettivi degli attori interdipendenti (attraverso indicatori di prestazione di gruppo o
addirittura d’impresa).
L’interdipendenza a livello di comportamenti crea ulteriori problemi. Si supponga che alcune attività
siano collegate in serie con altre a monte e a valle (come diverse operazioni di lavoro su una tecnologia a
ciclo continuo, per esempio, la laminazione dell’acciaio) o in parallelo su uno stesso oggetto di
trasformazione (per esempio, l’applicazione di diverse competenze tecniche alla manutenzione di un
impianto complesso). L’obiettivo principale spesso non è la massimizzazione di risultati produttivi bensì
l’ottimizzazione di un processo composito attraverso contributi adeguati nella qualità, nella quantità e nei
tempi. In tal caso il controllo sul rispetto dei programmi e le modalità di produzione (cioè una valutazione
sui comportamenti), sarà una componente necessaria del sistema di valutazione.
Pertanto si può concludere affermando che le condizioni di interdipendenza i sistemi di valutazione
più efficaci saranno misti e compositi, piuttosto che unilateralmente basati sulla valutazione degli input o
degli output.
Per tutte le unità, non è difficile osservare o misurare i risultati, in termini di costi o ricavi o profitti.
Per alcune non è difficile neppure valutare i comportamenti. Il problema è difficile perché quasi nessuna
unità ha piena discrezionalità sui “propri” risultati, i quali dipendono in buona misura dai comportamenti di
altri. Queste interdipendenze sono tanto maggiori quanto meno le diverse unità godono del diritto e della
discrezionalità di rivolgersi direttamente a partner esterni sul mercato, in modo da assomigliare a quasi-
imprese indipendenti. In base a quanto sopra discusso, alcuni correttivi dei parametri di valutazione che
aiuterebbero a gestire questa situazione di interdipendenza potrebbero essere:
· agganciare la valutazione di ognuno a quella di altri, istituendo parametri comuni;
· inserire i risultati globali di concessionaria tra i parametri di valutazione di ogni unità; ampliare il range
dei parametri di valutazione inserendo anche parametri qualitativi;
· allungare l’orizzonte temporale della valutazione.
Si possono dare infine attività in cui né gli input né gli output sono osservabili e misurabili a costi
ragionevoli. In questa circostanza, per definizione è difficile valutare la prestazione. Altre forme di
valutazione, però, più direttamente centrate sulle risorse (competenze) anziché sui servizi che ne derivano
possono soccorrere. O ancora, si vedrà, possono soccorrere soluzioni organizzative che, anziché basate su
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valutazioni ex post delle risorse o dei servizi di attori, forniscano motivazioni ex ante agli attori stessi ad
agire in certe direzioni.
Una buona architettura del sistema di valutazione secondo i criteri esposti non ne garantisce tuttavia
un buon funzionamento, qualora non se ne considerino gli aspetti di processo e la strumentazione tecnica.
Specialmente nei casi in cui i parametri di valutazione non sono “oggettivi”, devono essere stimati o
richiedono il giudizio di un valu-tatore, il processo può essere soggetto a forti distorsioni. Nel caso più
frequente in pratica, per esempio, la valutazione su parametri di giudizio qualitativo viene effettuata
tramite questionari rivolti al valutatore (in genere il superiore, ma potrebbe trattarsi di utenti di un servizio
che valutano i fornitori) sulla performance di altri attori (in genere un subordinato, ma potrebbe trattarsi di
un delegato o rappresentante, o di una persona che ha partecipato ad un progetto o attività comune).
Come in ogni processo di ricerca basato su questionari, ci si dovrebbe preoccupare della validità delle
misure di prestazione (si è misurato ciò che si voleva misurare? o gli indicatori e gli strumenti di misura
rilevano in realtà altro dalla prestazione?), e dell’affidabilità delle scale come strumento di misura
(registrano lo stesso valore se la prestazione ha avuto in effetti lo stesso valore, forniscono gli stessi risultati
se usate da diversi soggetti o in diversi momenti?).
In aggiunta, le risposte ai questionari di valutazione sono soggette a ulteriori e specifiche distorsioni
dovute a distorsioni cognitive e a potenziali conflitti tra interessi, particolarmente forti se alla valutazione
sono agganciate ricompense di varia natura. Nella ricerca specialistica sui processi di valutazione,
l’inventario di distorsioni, include errori di “rappresentatività” (come l’influenza di stereotipi e pregiudizi su
categorie di persone, il valutare il ruolo o posizione anziché l’effettiva prestazione); di “disponibilità” (dare
maggior peso a eventi emotivamente carichi, alla familiarità interpersonale); di “ancoraggio” (il procedere
incrementalmente rispetto a giudizi precedenti, il dare giudizi simili su tutti i parametri di valutazione); di
“azzardo morale” (giudizi deliberatamente distorti per non danneggiare o al contrario per penalizzare il
valutato).
Con riferimento particolare alla gestione dei possibili conflitti di interesse sottostante i processi di
valutazione, invece, è lo studio sulla giustizia procedurale (capitolo 3) che ha dato i contributi più utili.
Poiché di giudizio si tratta, l’essenziale è che la procedura giudiziaria risponda ai canoni di trasparenza ed
equità che tale attività richiede, riassunti dagli esperti di organizational justice.
In conclusione a questi elementi sui processi cognitivi e sociali di valutazione, si deve sottolineare
come l’elemento forse più importante per un processo di valutazione efficace ed equo è proprio la
sensibilità alla distinzione tra la persona e le sue risorse e attività: sistemi professionali di valutazione sono
sistemi di giudizio sulle risorse e i servizi, non sulle persone. La capacità di “scindere le persone dai problemi”
è un elemento essenziale in tutti i processi sociali efficaci nell’azione economica, ma nella valutazione forse
più che in ogni altro.
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1.2. VALUTAZIONE DELLE POSIZIONI
Le posizioni o mansioni (job) sono insiemi di diritti di azione all’interno di un sistema. In quanto tali,
esse possono essere assunte da attori. La valutazione della posizione intende valorizzare in modo
comparato i contributi relativi di questi aggregati di responsabilità e attività, indipendentemente dalle
competenze e dalla prestazione degli specifici attori che possono esserne titolari.
Il primo problema da risolvere per valutare le posizioni è disporre di descrizioni accurate e
comparabili di quali siano le posizioni o mansioni in un citato sistema. Può sembrare semplice ma l’attività
di job description può richiedere un’opera di ricerca organizzativa estesa e sistematica, basata su un
repertorio di tecniche d’indagine (interviste, questionari e osservazioni sul campo) alquanto specialistiche.
Il secondo problema da risolvere è l’individuazione dei parametri di valutazione. Teoricamente, la
domanda pertinente potrebbe essere: quali aspetti della mansione sono maggiormente correlati al valore
creato da quelle attività, indipendentemente dal particolare titolare della posizione? Come già osservato,
sono importanti e vanno distinte almeno due componenti principali: le competenze e le capacità “richieste”
da un lato, e le responsabilità e i rischi implicati dall’altro.
I metodi più diffusi di job evaluation si basano su correlazioni empiriche tra la presenza di certe
dimensioni o fattori e i livelli retributivi generalmente osservati. Su questa base si costruiscono “scale” di
punteggi per cui una posizione otterrà maggior punteggio (è stimata di maggior valore) quanto
maggiormente tali fattori o parametri sono in essa presenti. Il metodo che ha avuto maggior diffusione e
influenza (“metodo Hay” dalla società di consulenza che lo ha messo a punto), per esempio ha individuato
nelle competenze richieste per ricoprire la posizione, nell’intensità delle attività di soluzione di problemi per
assolvere i compiti, e nel livello di responsabilità i tre fattori o parametri principali. Essi sono a loro volta
operazionalizzati in scale di misura che intendono rilevare variazioni di valore in modo sensibile, su campi di
variazione molto ampi (dell’ordine delle centinaia di “punti”).
Dopo un periodo di notevole diffusione, questo approccio è stato soggetto a varie critiche. Al di là del
particolare contenuto dei parametri, facilmente emendabile con l’aggiunta di ulteriori parametri, vi sono
limiti più di fondo. Per esempio, il sistema di valori standard da assegnare a contenuti tipo delle posizioni,
espresso dalle scale di punteggi, trascura le differenze di valore che attività simili o addirittura identiche
possono avere in diversi sistemi (dovute alla specificità delle mansioni al sistema). In secondo luogo,
qualora la costruzione delle scale di valorizzazione si basi sull’analisi statistica di correlazione tra i vari tipi di
posizioni e le retribuzioni mediamente offerte sul mercato, si crea un problema di circolarità dovuta
all’utilizzazione come input dei livelli retributivi osservati, mentre i livelli retributivi sono ciò che il metodo
doveva consentire di progettare. Tuttavia, la valutazione delle posizioni basata sul valore loro riconosciuto
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mediamente sul mercato può essere comunque utile per stabilire un limite inferiore alla retribuzione per
una posizione genericamente definita. Infatti esso costituisce un buon indicatore di ciò che un attore con i
requisiti necessari per quella posizione potrebbe ottenere in un analogo impiego alternativo, senza
considerazione delle eventuali quasi-rendite e dell’eventuale criticità particolare di quei contributi per il
particolare sistema che effettua la valutazione. Infatti, in pratica, si osserva che salari e stipendi sono in
parte determinati sulla base di una valutazione delle posizioni e del loro valore medio e in parte negoziate
in base all’entità particolare del surplus creato da particolari contributi in specifici contesti.
1.3. VALUTAZIONE DELLE COMPETENZE
La valutazione delle risorse umane come insiemi di competenze potrebbe costituire un’alternativa
alla valutazione delle posizioni, applicabile in sistemi di attività dinamiche o complesse, in cui il contenuto
delle mansioni dipende in larga misura dalle competenze degli attori piuttosto che viceversa.
Tuttavia, le tecniche più note e diffuse offrono un approccio “standardizzato” a tale problema,
applicabile se le competenze sono codificabili e sono comuni a molte posizioni. Infatti, obiettivo centrale
dell’approccio di management delle risorse umane all’analisi delle competenze è scoprire a quali mix di
competenze si possano collegare performance superiori in una data attività. I metodi di analisi delle
competenze prevedono l’uso di tecniche di osservazione e di intervista strutturata che permettano di
rilevare quali conoscenze, comportamenti e procedure d’azione abbiano utilizzato gli operatori che hanno
raggiunto i migliori risultati. Questi elementi sono utilizzati per costruire un modello di competenza che
possa poi essere replicato e diffuso e rispetto al quale misurare il livello di competenza raggiunto dal
titolare di una posizione, cui commisurare anche componenti della retribuzione. In questa versione, il
processo di apprendimento ipotizzato è di tipo imitativo, adatto ad essere applicato ad un insieme
abbastanza vasto di attività simili e stabili.
Con la consapevolezza che quello descritto non è l’unico modello di apprendimento possibile, si può
sviluppare una versione di apprendimento e diffusione di pratiche superiori più adatta ad attività
complesse e differenziate. Anziché semplicemente “clonare” modelli di competenze, si possono costruire
modelli causali dei risultati ottenuti, precisando le condizioni in cui certe competenze e azioni producono
certi effetti e tenendo conto dei fattori esogeni e casuali. In questo modo si possono costruire modelli
causali generatori di nuovi profili di competenze anziché trasferire tout court modelli già osservati.
Tale approccio “generativo” alla valutazione delle competenze può comportare, se applicato
all’interno di imprese, l’attivazione di mercati interni delle competenze e dei loro possibili impieghi, anziché
interventi di diffusione pianificata delle stesse.
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1.4. VALUTAZIONE DEL POTENZIALE
La valutazione del potenziale è volta ad apprezzare le capacità di sviluppo e di prestazione futura
delle risorse umane in attività nuove rispetto agli impieghi passati. Essa costituisce un input informativo
fondamentale per la progettazione dei sistemi di selezione e di carriera.
La difficoltà di effettuare valutazioni del potenziale affidabili e precise aumenta in funzione del grado
di complessità e di specificità del lavoro. Infatti, se i contenuti e le caratteristiche dei compiti che si
dovranno svolgere sono note a priori e la relazione causale tra competenze e risultati è chiara, è possibile
utilizzare predittori abbastanza validi ed affidabili di performance futura. Per esempio, i sistemi di
ammissione all’università sono costruiti sulla base di ipotesi testate su grandi numeri di soggetti nel tempo
sul tipo di capacità che producono risultati superiori in dati programmi di studio; le capacità rilevanti sono
misurabili direttamente attraverso test psico-attitudinali e/o segnalate dalle performance passate in attività
analoghe. Pertanto la valutazione del potenziale per accedere ad attività abbastanza note e non troppo
dissimili da attività passate svolte dai soggetti valutati potrà avvalersi efficacemente di indicatori oggettivi
come il possesso di titoli e qualifiche, le misure della performance passata, i test di misurazione delle
capacità. Ne sono esempi i processi di prima assunzione nelle banche, o i piani di promozione all’interno di
una stessa area funzionale di una stessa impresa.
Ci si deve invece aspettare che la valutazione del potenziale debba divenire più soggettiva e basata
su complesse “certificazioni” e giudizi quando il lavoro è intrinsecamente complesso e difficile, le
competenze sono poco misurabili e le attività che si dovranno svolgere sono diverse dal passato, nuove,
specifiche alla nuova situazione di lavoro (nuova impresa, nuovo gruppo di lavoro, nuovi mercati). In queste
circostanze, acquisteranno maggior importanza come modalità di valutazione del potenziale i giudizi
informati sulle competenze e le altre risorse delle persone. Essi sono in genere effettuati sulla base
dell’osservazione diretta di comportamenti (in situazioni reali o “simulate”) o di interviste e colloqui diretti
(in profondità) da parte di figure che possano a vario titolo essere qualificate come “esperte”: collaboratori,
supervisori o partner passati, esperti dell’analisi e della certificazione di particolari classi di competenze.
2. RETRIBUZIONE
Il passaggio dalla valutazione alla ricompensa implica l’aggiunta di un livello di analisi pertinente agli
attori e alle loro preferenze e non solo alle loro risorse e prestazioni. Sarebbe inefficiente prospettare un
consistente aumento retributivo ad un attore che assegna ad esso scarsa utilità, mentre ambirebbe a una
diversa gestione del tempo di lavoro o ad attività di tipo diverso, a parità di risultati della valutazione della
posizione e della prestazione. Le persone possono attribuire un valore di ricompensa sia a risorse
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monetarie o monetizzabili, sia a fattori non monetari come le possibilità di sviluppo professionale e di
carriera e i contenuti del lavoro.
2.1. RETRIBUZIONE IN FUNZIONE DELLA POSIZIONE
Secondo una primaria distinzione tra sistemi di ricompensa, la ricompensa monetaria può essere
commisurata alla mansione e al tempo di lavoro (in tal caso è chiamata anche retribuzione “fissa”), e/o
contingente alla prestazione (e definita anche retribuzione “variabile” o “incentivo”). L’efficienza e
l’efficacia di uno schema di retribuzione legata alla posizione riposa su più premesse, le più importanti delle
quali sono: che la parte che conferisce lavoro sia avversa al rischio; e che la parte che retribuisce il lavoro
possa osservare i comportamenti (o inferirli con certezza dai risultati) e conosca quali sono le azioni migliori
da intraprendere. In altri termini, una ricompensa legata alla posizione e al tempo di lavoro si giustifica
come parte di una relazione di autorità basata sullo scambio o di una relazione di agenzia in condizioni di
osservabilità di comportamenti, ovvero della costituzione di una relazione di “lavoro dipendente” classica.
La spiegazione o la determinazione dei livelli appropriati delle retribuzioni di posizione dovrebbe
tener conto di almeno una delle seguenti variabili. Il livello della retribuzione fissa dovrebbe essere almeno
tale da trattenere il contributo (motivare e partecipare) e da compensare il tipo e livello desiderato di
comportamento (motivare a produrre). Si prenda in considerazione la situazione più generale in cui il
lavoratore dipendente non sia indifferente rispetto alle azioni alternative ma le ordini secondo preferenza.
Il livellò retributivo efficiente sarà quello che soddisfa le seguenti relazioni:
· l’utilità della ricompensa meno la disutilità dello sforzo per l’agente è una quantità non negativa;
· tale utilità netta è uguale o superiore all’utilità netta ottenibile dall’agente nel miglior impiego
alternativo delle proprie risorse;
· soddisfatti tali obiettivi dell’agente, il livello migliore di sforzo o l’azione ottimale da richiedere da parte
del principale è quella per cui la differenza tra guadagni attesi e costo richiesto per ottenerli è più
ampia.
E probabile che nella maggior parte delle situazioni questo tipo di calcolo sia affrontato in modo
molto più euristico, per la difficoltà delle valutazioni e previsioni richieste. Per esempio, è assai improbabile
che il lavoratore sappia comparare la disutilità dei propri sforzi con l’utilità delle ricompense, e in generale
sappia fare un bilancio contributi - incentivi, poiché essi sono due grandezze fortemente disomogenee e la
disutilità dei contributi è difficilmente monetizzabile. È empiricamente noto infatti che le persone giudicano
le ricompense monetarie offerte in base alla comparazione con le ricompense ricevute da lavoratori simili
in attività simili e non al proprio “costo dello sforzo”; cioè più in base a un criterio di equità che non in base
a un criterio di efficienza.
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Inoltre, i criteri di cui sopra stabilirebbero gli stipendi vicino al livello delle alternative d’impiego
disponibili sul mercato, o comunque non forniscono elementi per capire se una data mansione in una data
impresa non debba ricevere ricompense superiori a tale livello minimo dato da offerte alternative.
Pertanto, ai criteri sopra esposti, andrebbe aggiunta un’analisi delle quasi-rendite generate.
Nel contesto delle relazioni di lavoro, si definisce rendita “la porzione di ricompensa che il lavoratore
riceve in eccesso rispetto al minimo necessario per essere indotto ad accettare un particolare posto di
lavoro”. Si definisce invece quasi-rendita “la porzione di ricompensa che il lavoratore riceve in eccesso
rispetto al minimo necessario per indurlo a non lasciare un particolare posto di lavoro”. Le rendite e le
quasi-rendite derivano quindi in ogni caso dalla presenza di alcuni elementi di monopolio o di difficile
sostituibilità delle risorse umane.
Come si è già osservato, alcune fonti di monopolio sono il possesso di risorse molto scarse come, nel
caso del lavoro, di talenti rari. Per esempio, le ricompense di grandi cantanti lirici includono forti compo-
nenti di rendita derivanti dal possesso di risorse utili (creatrici di valore realizzabile sul mercato) e scarse.
Una diversa fonte di monopolio è la specificità. Un lavoratore con competenze specifiche rispetto ad
un’impresa può godere di una rendita effettiva che può includere il maggior valore apportato a
quell’impresa rispetto a lavoratori alternativi, meno i costi di ricerca e cambiamento del posto di lavoro.
Pertanto ci si può attendere che il livello retributivo di una mansione in un dato sistema includa parte delle
quasi-rendite che quelle posizioni contribuiscono a creare.
Ci si può a questo punto chiedere perché la negoziazione dei salari e degli stipendi, spesso assistita
dai sindacati sia un fenomeno così diffuso, e non limitato al lavoro specifico all’impresa o scarsamente
controllabile. Alcune delle ragioni di efficienza organizzativa sono le seguenti.
Se vi sono significative asimmetrie informative (per esempio, il valore degli impieghi alternativi per il
lavoratore è noto al datore di lavoro, ma il valore dei lavoratori alternativi per l’impresa non è chiaro al
lavoratore) o asimmetrie nella sostituibilità delle risorse (il conferente lavoro è più sostituibile del datore)
allora, in luogo di forme di integrazione verticale non praticabili nel caso delle risorse umane, forme di
integrazione orizzontale tra i conferenti lavoro come l’istituzione di sindacati è razionale come modalità di
organizzazione capace di ridurre il potenziale di opportunismo delle controparti e di gestire sistemi e
procedure eque.
La negoziazione centralizzata dei contratti di lavoro ha costi di transazione molto elevati, tanto più
alti quanto più alto è il numero dei contratti -negoziati da un solo agente centrale. Pertanto l’unificazione
delle richieste e l’interazione con una sola controparte rende il processo molto più efficiente specialmente
se le posizioni sono simili e standardizzate.
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In negoziazioni potenzialmente molto conflittuali come quelle tra lavoratori e datori di lavoro, la
longevità delle relazioni con una stessa controparte facilita gli accordi anche se i singoli lavoratori non
avessero relazioni di lunga durata con l’impresa, i sindacati dei lavoratori possono averla.
Il valore assegnato ad un accordo, specialmente nel caso dei contratti di lavoro, e la sua accettabilità
non dipende solo dal punto di accordo (efficienza ed equità sostantiva) ma anche dall’equità procedurale
attraverso cui è stato raggiunto. La rappresentanza sindacale degli interessi è una delle principali voice-
giving procedures nelle imprese.
2.2. RETRIBUZIONE IN FUNZIONE DELLA PRESTAZIONE
Gli “incentivi” e la “retribuzione variabile” sono componenti della retribuzione determinate da regole
di corrispondenza tra prestazione e compenso. Essi consentono di compensare ed incentivare adeguata-
mente i contributi che abbiano le seguenti caratteristiche: i lavoratori hanno discrezionalità sulle azioni; tali
azioni non possono essere facilmente osservate e valutate; i risultati delle azioni di lavoro sono misurabili e
attribuibili causalmente alle azioni con una discreta probabilità; l’erogazione dei servizi di lavoro richiede
tempo, non si esaurisce in una singola transazione. Tali fattori rendono poco efficaci sia sistemi di
regolazione basati sulla ricompensa “fissa” e l’autorità, sia degli scambi istantanei di servizi regolati solo dal
prezzo.
Il problema di fondo della retribuzione in funzione dei risultati è che essa trasferisce il rischio da un
attore tendenzialmente più capace di sopportarlo (il principale o la proprietà d’impresa che ha investimenti
più diversificati e maggiore ricchezza totale) all’agente che, per ragioni opposte, si suppone sia tipicamente
avverso al rischio. Sarà dunque necessario un trade-off tra maggiori incentivi a produrre e maggiori costi
dovuti a indennizzi. Nello schema di base che segue per effettuare questa valutazione, si suppone che gli
agenti valutino le possibili azioni da compiere in funzione dei loro costi e benefici, e che i costi siano
costituiti dall’erogazione di “sforzo” lavorativo, mentre i benefici siano rappresentati dalla ricompensa
monetaria. L’intensità ottimale degli incentivi variabili legati ai risultati, o trasferimenti ottimali del rischio,
dovrebbe quindi essere una funzione delle seguenti variabili:
· il valore prodotto da sforzi addizionali;
· l’incidenza di variabili esogene (non dipendenti
dall’agente) sui risultati finali;
· il grado di avversione al rischio dell’agente;
· il tasso a cui cresce il costo marginale dello sforzo per
l’agente.
La struttura fondamentale dell’argomentazione è
riassumibile nel trade-off tra le due funzioni rappresentate inFigura 7 - Intensità ottimale degli incentivi
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figura 7. Il beneficio marginale degli sforzi di lavoro, al netto dei costi di tali sforzi, è una funzione che
decresce al crescere dell’incentivo (poiché i costi marginali dell’intensità di lavoro crescono mentre gli
effetti marginali sui risultati decrescono). Il costo marginale dell’incentivo è invece una funzione che cresce
al crescere dell’entità del trasferimento di rischio al lavoratore, tanto più quanto più il lavoratore è avverso
al rischio e quanto maggiore è la varianza dei risultati dovuti a fattori esogeni.
Questo modello di base può essere esteso e qualificato sotto vari aspetti. In primo luogo, sia la forma
sia i contenuti delle utilità degli agenti possono essere differenti. Molti tipi di lavoratori, e spesso i manager,
non percepiscono il lavoro come costo (o solo come costo), derivano vari benefici intrinseci dall’attività
lavorativa, e includono tra i benefici più ambiti ricompense di tipo non monetario. Questo può rendere il
livello ottimale di incentivo più basso.
Inoltre, con riferimento al processo decisionale, un simile approccio alla progettazione della
ricompensa variabile richiede molte informazioni e capacità previsive e calcolative. Nella prassi aziendale
sono pertanto diffusi approcci più euristici, basati su livelli di aspirazione e target di performance da
raggiungere, specialmente per attività complesse e poco strutturate come quelle direttive e ad alta
discrezionalità.
Alcune principali forme di retribuzione variabile riscontrate nella pratica e le relative condizioni
applicative sono brevemente illustrate qui di seguito.
• Forme di retribuzione variabile. Tra i sistemi applicati a livelli direttivi, quello più diffuso è
generalmente definito Management by Objectives (MBO) La direzione per obiettivi è un sistema che parte
dalla previsione di risultati da raggiungere e impiega tali obiettivi come criteri per valutare il livello di
performance raggiunta dai diversi responsabili. Il sistema si basa su uno stretto collegamento tra il sistema
di programmazione e controllo, il sistema di valutazione delle prestazioni e il sistema di incentivazione
monetaria. Se gestito in modo partecipativo, è importante che la partecipazione riguardi non solo l’entità
ma anche le formule di ricompensa variabile. Se la consultazione si limitasse al livello degli obiettivi da
raggiungere i manager, godendo di informazioni esclusive sugli obiettivi di fatto raggiungibili, possono
avere incentivi a ridurre i target. Invece, il processo di definizione congiunta di obiettivi e regole di
ricompensa può esser visto come il risultato di una proposta da parte dell’impresa di un “menù di contratti”
e di una scelta da parte del manager del tipo di contratto sotto il quale sa di poter conseguire i migliori
risultati: se sa di poter raggiungere obiettivi elevati sceglierà il contratto più rischioso, viceversa, quello più
conservativo.
Una forma di retribuzione variabile tradizionalmente utilizzata per posizioni esecutive è il cottimo. Il
cottimo stabilisce ricompense in funzione delle unità prodotte e incentiva il contributo individuale
dell’operaio nella saturazione dei tempi di lavoro e nell’utilizzo efficiente d’elle risorse lasciati alla sua
discrezionalità. Questa forma di incentivazione ha trovato ampia applicazione nelle imprese nello sviluppo
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industriale di tipo taylorista, come incentivo ad adottare i modelli di comportamento più veloci e produttivi,
studiati e misurati per ogni singolo compito, in sistemi tecnici non altamente automatizzati, dove i ritmi e le
sequenze erano determinate in buona parte dagli operatori. La crisi di questa torma di incentivazione è
riconducibile in parte alla crisi più generale di quelle forme di organizzazione del lavoro, in parte a circoli
viziosi interni al sistema. Questi ultimi sono derivati dall’incentivo per il datore di lavoro, ad ogni
incremento di produttività (risparmio di tempi e maggiore quantità prodotta), ad innalzare il livello degli
standard di produzione. Il miglioramento nella produttività, ottenuto dall’incentivo del cottimo, diventa
quindi il nuovo standard, così da generare un’escalation degli sforzi necessari per ottenere i premi.
L’incorporazione del tempo libero attraverso la revisione continua degli standard, attenua l’efficacia
dell’incentivazione e disincentiva il contributo dei lavoratori alla ricerca delle micro-innovazioni che
possono migliorare la produttività.
Una forma di retribuzione variabile più complessa e adeguata a tali circostanze è il gain sharing, che
è una forma di retribuzione variabile di gruppo e di partecipazione ai guadagni che si originano dalla
prestazione di un gruppo o unità.
Le due forme di retribuzione variabile appena analizzate, il cottimo e il gain sharing hanno come base
di riferimento i risultati individuali e di gruppo. Sono anche fattibili e in crescente diffusione forme di
partecipazione agli utili (profit sharing), cioè forme di retribuzione variabile legata ai risultati economici di
un’impresa nel suo insieme. Vi sono diverse ragioni e condizioni di efficienza del profit sharing come forma
collettiva di partecipazione agli utili, esse portano a ipotizzare che l’uso del profit sharing è tanto più
indicato quanto più:
· il gruppo è di ridotte dimensioni, poiché questo riduce gli incentivi al free-riding e rende l’entità dei
premi pro capite più incisiva;
· le responsabilità e l’incidenza delle azioni sui risultati sono rilevanti;
· la partecipazione riguarda i profitti e non anche le perdite, che potrebbero essere non assorbibili dai
soggetti e portare a comportamenti troppo avversi al rischio;
· è possibile accordarsi su procedure eque e trasparenti di definizione e misurazione dei “profitti” da
distribuire.
2.3. POLITICHE RETRIBUTIVE
L’insieme delle componenti delle retribuzioni legate alle posizioni e alle prestazioni si può
rappresentare con funzioni del tipo illustrato in figura 8, anche chiamate curve retributive, che ne
sintetizzano l’andamento in un sistema di ruoli di lavoro.
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Se sull’asse delle ascisse sono riportati i punteggi di valutazione delle posizioni, l’incidenza relativa
delle retribuzioni dipendenti dalla prestazione (o da altri fattori non di posizione) è rappresentata dalla
dispersione delle retribuzioni attorno alla curva. L’ampiezza delle variazioni può essere diversa per posizioni
di diverso valore - per esempio, può aumentare con esso - o all’interno di diversi sottosistemi -per esempio,
può essere minore nelle unità di staff rispetto a quelle di line; con ciò sintetizzando un altro elemento di
politica retributiva.
Le diverse forme assunte dalla curva,
soprattutto se poste in relazione agli andamenti
di curve di “rendimento” o valore del contributo
fornito, e in relazione a quelle praticate in
imprese o sistemi comparabili, danno altre
informazioni sulla politica retributiva seguita e
consentono di correggerla. Per esempio, una
curva del tipo b in figura esprime una politica di
aumenti retributivi che rispondono lentamente
agli aumenti di competenza e responsabilità
richiesti dai contenuti della posizione. Questa
politica provoca un “effetto di ostaggio”, poiché
le risorse umane devono anticipare investimenti in competenze per accedere alle ricompense in un
secondo tempo. Pertanto, questa impostazione è equa ed efficiente se il sistema per parte sua investe nella
formazione di tali competenze e se le parti sono adeguatamente protette dallo scioglimento del contratto
di lavoro.
Al contrario, curve retributive che
rispondono più elasticamente alla crescita di
esperienza e di responsabilità, sono compatibili con
sistemi a maggior mobilità. Inoltre, le curve
retributive di singole imprese possono essere util-
mente confrontate con le curve medie di settore o
con quelle di imprese di riferimento, soprattutto
per diagnosticare le modifiche eventualmente
necessarie per trattenere le risorse umane ai
diversi livelli.
Figura 8 - Curve retributive
Figura 9 - Giustizia procedurale di un sistema retributivo
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3. MOBILITÀ E SVILUPPO
I processi di mobilità e sviluppo delle risorse umane possono essere utilmente visti come processi di
incontro e co-evoluzione tra persone e impieghi o mansioni (job). Le configurazioni efficaci, efficienti ed
eque di questi processi, e dei sistemi che li governano, dipendono dalle caratteristiche delle risorse e degli
impieghi. Due caratteristiche sono particolarmente importanti: la specificità delle risorse rispetto agli
impieghi, e la complessità informativa delle mansioni. Tutti i sistemi che afferiscono alla mobilità (ricerca e
selezione, formazione, carriera, uscita) sono qui considerati congiuntamente nelle loro interrelazioni e nelle
loro dimensioni sia interne sia esterne alle singole imprese.
3.1. RICERCA, SELEZIONE E MERCATO DEL LAVORO
La ricerca di personale è un processo decisionale dai confini in linea di principio indefiniti nel numero
di alternative. Inoltre le conseguenze cercate e i parametri di valutazione delle alternative riguardano
prestazioni future in combinazioni non ancora sperimentate fra risorse e impieghi. Pertanto, è ragionevole
attendersi che essi siano governati prevalentemente da processi decisionali euristici, in cui la
sperimentazione e i tentativi/errori non siano una patologia ma permettano di scoprire combinazioni
efficaci. D’altra parte, proprio per il loro carattere euristico, i processi di ricerca e selezione delle risorse
umane possono essere molto migliorati da tecniche atte a limitare le distorsioni tipiche delle valutazioni
sotto incertezza, da metodi che riducano la complessità della ricerca e il grado di incertezza. Tuttavia, il
grado di strutturazione del problema varia sensibilmente a seconda del grado di specificità e di complessità
delle competenze e delle attività.
• Ricerca. Un primo dilemma che si pone nell’impostare un processo di ricerca di risorse è dove
indirizzare l’attenzione, dove è più probabile trovare alternative di successo a minor costo. Gli economisti
dell’organizzazione a tale riguardo hanno illustrato l’importanza della distinzione tra processi di ricerca e
riallocazione delle risorse umane svolti all’interno dei confini delle imprese piuttosto che attraverso il
mercato esterno del lavoro. Un mercato interno del lavoro si può definire come un sistema di impieghi
finito e definito ad accesso riservato ai membri del sistema.
Il termine mercato interno evoca l’idea che i processi di riallocazione delle risorse che avvengono in
un sistema chiuso, possano tuttavia essere regolati da meccanismi di tipo mercatistico. Il mercato interno
del lavoro è un sistema di competizione tra candidati interni per le posizioni offerte nel sistema, regolato da
un meccanismo di prezzi negoziati solo debolmente collegato al sistema esterno. Tra le ragioni per cui
sorgono questi mercati del lavoro protetti, si suppone che la seguente sia fondamentale: se si ricercano
risorse specifiche agli impieghi, allora la ricerca all’interno sarà più efficace ed efficiente della ricerca
all’esterno (a parità di altre condizioni). Questa proposizione è basata sull’ipotesi che competenze di lavoro
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specifiche agli impieghi che una particolare impresa può farne non si possano che formare all’interno
dell’impresa stessa attraverso l’esperienza diretta e per affiancamento delle peculiarità dei contenuti e
degli strumenti di lavoro, nonché delle relazioni sociali e delle consuetudini, che caratterizzano l’impresa. Si
suppone altresì che sia più facile valutare i candidati interni, per la disponibilità di informazioni dirette sulle
prestazioni passate, specialmente se esse non sono facilmente codificabili e quantificabili. Pertanto, anche
la complessità del lavoro è un fattore di formazione di mercati interni. Sia la specificità dei contributi di
lavoro a diversi sotto-sistemi aziendali, sia il diverso grado di complessità del lavoro in essi, contribuiscono a
spiegare perché in realtà spesso emergano più mercati interni del lavoro nello stesso sistema, governati da
meccanismi parzialmente diversi e con limitata mobilità trasversale.
Se l’uso del mercato esterno del lavoro è in generale più costoso di quello del mercato interno per
contributi specifici e complessi, il secondo non è esente da costi, che in alcune circostanze possono anche
tornare a superare quelli del primo. Tra i costi della ricerca e selezione interna sono di solito sottolineati la
perdita dei vantaggi informativi all’aumentare del numero delle relazioni di lavoro dipendente; il costo dei
servizi di gestione interna del personale; la scarsa flessibilità nel dimensionamento dell’organico totale; le
barriere interne alla flessibilità del personale nelle nuove e diverse funzioni, l’escalation delle retribuzioni.
Un costo meno considerato ma spesso anche più importante del ricorso esclusivo о prevalente al
mercato interno è la possibile diminuzione delle fonti di innovazione, la maggior inerzia organizzativa e il
rischio di obsolescenza delle competenze, non importa quanto specifiche; ciò consegue dalla stabilità di
lungo periodo delle persone, dall’omogeneizzazione e dalla routinizzazione della cultura organizzativa e del
know-how, e dalla mancanza di varietà negli input conoscitivi.
• Selezione. Nel processo decisionale di scelta reciproca tra persone e impieghi, mentre la ricerca
rappresenta il momento di aumento della varietà degli input, la selezione rappresenta il momento di
eliminazione di ipotesi che porta ad individuare quelle accettabili. Questo processo di valutazione è
caratterizzato da notevole incertezza da entrambe le parti. Nella maggior parte dei casi il datore di lavoro al
momento della selezione, non ha informazioni certe sulle capacità produttive e professionali del potenziale
candidato, nemmeno nel caso in cui stia utilizzando il mercato interno del lavoro. D’altra parte neppure il
candidato possiede tutte le informazioni sulle attività da svolgere. Entrambe le parti corrono un rischio di
selezione avversa. Entrambe confrontano il trade-off informativo tra investire ex ante nella ricerca e
l’analisi di informazioni oppure affidarsi all’apprendimento ex post in base all’esperienza.
Gli strumenti strutturati di valutazione della prestazione e del potenziale servono a ridurre
parzialmente l’incertezza dovuta alla mancanza di informazioni ex ante. Nel caso di lavoro complesso e
specifico, qualora manchino predittori affidabili di performance su singole attività, sarebbe meglio
focalizzare la valutazione ex ante sulle competenze e la professionalità, e dar peso, nella selezione per
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specifici incarichi e impieghi, ai processi di valutazione ex post e al mercato interno del lavoro, come
meccanismo di apprendimento di quali siano gli incontri di maggior valore tra risorse e impieghi o attività.
Indipendentemente dal tipo di lavoro considerato, vi sono molti motivi per cui i sistemi di ricerca e
selezione dovrebbero essere strutturati e trasparenti. Infatti, è probabile che colloqui di selezione condotti
in modo intuitivo e discorsivo siano soggetti a forti e sistematiche distorsioni cognitive; se così è, la
codificazione del processo degli esperti stessi in un sistema diagnostico replicabile e depersonalizzato
dovrebbe migliorare la qualità decisionale.
La comunicazione e l’applicazione trasparente dei criteri di accesso alla valutazione e alla selezione è
un principio di equità procedurale apprezzato dai candidati e per alcuni aspetti protetto dalle leggi sulle
eguali opportunità. Un processo decisionale basato su metodi di ricerca e raccolta di dati di cui si possa
controllare la validità e l’affidabilità, fornisce conoscenze migliori e più comparabili, e permette economie
di scala se le attività di selezione sono frequenti.
Inoltre, la dichiarazione chiara e precisa da parte dell’impresa delle regole e delle procedure
amministrative che regolano il mercato interno del lavoro attiva un importante meccanismo di
autoselezione dei candidati. Per esempio, se si comunica in modo chiaro che lo spirito di un contratto di
lavoro include la disponibilità a cambiare luogo di residenza, ad accettare ricompense legate ai risultati, a
studiare per acquisire nuove conoscenze, gli elementi informativi contenuti in tale proposta dovrebbero
attrarre candidati con risorse e preferenze congruenti anziché divergenti.
3.2. FORMAZIONE
La formazione ha una rilevanza fondamentale nella generazione, sviluppo e mantenimento delle
competenze individuali e collettive; è, per l’impresa, possibile fonte di competenze distintive e di vantaggio
competitivo ed è, per le persone, una possibile forma di ricompensa sotto forma di risorse conoscitive che
rimarranno in suo possesso.
Per esempio, utilizzando la distinzione tra specificità rispetto agli usi (attività) o rispetto
all’utilizzatore (ad esempio una particolare impresa), si può notare che le imprese sono interessate ad
investire in formazione specifica all’impresa e non in capacità indifferenziate che possono essere fornite da
istituzioni di formazione esterne, a beneficio di tutte le imprese o di tutte le imprese di un settore. Tuttavia,
le imprese sono spesso - e sempre più spesso - interessate ad investire nella formazione di know-how
polivalente e non specifico rispetto agli usi, in conoscenze di base che possono generare economie di scope
e supportare processi di apprendimento e diversificazione.
Inoltre, analizzando il tipo di sistema a cui le competenze sono specifiche si può individuare il livello a
cui gli interventi di formazione sono più appropriati. Per esempio, se le competenze e le professionalità
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sono specifiche a insiemi di imprese connesse (quali settori, nicchie, distretti) esse possono formarsi più
efficacemente attraverso la circolazione delle persone e gli scambi di conoscenze tra più imprese, per
esempio con il supporto di strutture associative.
Infine, la complessità e l’innovatività delle conoscenze e competenze che devono essere trasferite o
generate in un processo di formazione, in genere richiede contesti di apprendimento caratterizzati da va-
rietà negli input; realizzabili attraverso l’esposizione a esperienze ditteronziate e a nuove idee. Per
esempio, la recente diffusione di esperienze di learning by networking nelle multinazionali e nelle imprese
professionali risponde all’esigenza di attivare processi di apprendimento non solo imitativi e basati sul
trasferimento di conoscenze già esistenti, ma anche generativi e basati sull’integrazione tra conoscenze
diverse e la soluzione congiunta di problemi nuovi.
Gli strumenti più diffusi di formazione (formazione d’aula, formazione strutturata a distanza) e di
knowledge management sono efficaci per conoscenze strutturabili e con molti possibili utilizzatori.
Strumenti basati su una comunicazione diretta, reciproca, poco codificata in schemi precostituiti (forum
reali o virtuali, squadre di lavoro, joint venture tra persone con competenze complementari) dovrebbero
essere superiori nel governo dello scambio e della condivisione di conoscenze complesse, tacite, specifiche.
Quanto ai contenuti della formazione, e ai processi di progettazione di specifici interventi, qualche
forma di “analisi dei bisogni” è entrata a far parte abbastanza presto del repertorio delle tecniche di
management in questo campo. Dal lato del sistema, l’analisi dei fabbisogni si aggancia all’evoluzione attesa
e desiderata delle attività e delle competenze. Importante a questo riguardo, come per la selezione, è
capire in riferimento a quale sistema di azione si sta formando - una mansione, una carriera, un’impresa,
una professione. Dal lato dell’attore, l’analisi delle aspettative e delle preferenze dei destinatari si è rivelata
cruciale. La formazione implica infatti una disponibilità alla ricezione della comunicazione e al cambiamento
della struttura delle conoscenze, delle capacità o perfino dei valori, non presente nell’individuo adulto
senza convinzione, interesse e accettazione.
3.3. CARRIERE
I sistemi di carriera regolano il cambiamento orizzontale e verticale di posizione, permettendo di
collegare gli aumenti retributivi alle promozioni a livelli di competenza e responsabilità superiori. Se
considerati nella dimensione interna alle imprese, tali sistemi contribuiscono alla longevizzazione dei
rapporto di lavoro, attraverso la richiesta di contributi che saranno ricompensati in un tempo differito. Le
prospettive di carriera introducono quindi un elemento seriale nell’equità percepita nel rapporto tra
contributi e incentivi, un equilibrio da ricercarsi nel lungo termine e non per ogni singola transazione. Le
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carriere, come meccanismo del mercato interno del lavoro, sono solo parzialmente isolate dalla
competizione esterna per le posizioni di lavoro.
I lavoratori che realizzano prestazioni particolarmente elevate in una attività possono rendersi visibili
e attraenti per datori di lavoro alternativi; i quali, per attrarli, dovranno offrire ricompense superiori a
quelle correntemente ricevute. Le offerte esterne creano incentivi per il datore di lavoro corrente ad
utilizzare ricompense variabili in risposta alla prestazione elevata o a promuovere il lavoratore. La
promozione è spesso un’alternativa attraente rispetto alla retribuzione variabile. Pertanto, la ricompensa
tramite promozione ha un contenuto di apprendimento organizzativo che la ricompensa monetaria non
possiede.
I criteri in base ai quali può essere governata la mobilità non si riducono alla sola prestazione. La
pratica di affiancare altri criteri, soprattutto l’anzianità e la valutazione del potenziale può essere spiegata
in base a proprietà complementari di efficienza ed equità possedute da tali criteri alternativi.
Le promozioni interne si possono basare su criteri di anzianità (seniority system), aziendale e/o
professionale. Tale criterio ha una certa relazione, per quanto non deterministica, con la crescita di
esperienza e di competenza. Come forma di ricompensa differita e basata sul tempo, ha la proprietà di
disincentivare il turnover, premiando la stabilità della relazione di lavoro. Per il suo carattere oggettivo e
non discrezionale, è applicabile in modo equo ed efficiente. Infine, e in sintesi, il seniority system
standardizza o routinizza il mercato interno del lavoro, sostituendo decisioni automatiche a decisioni caso
per caso. Per questo suo carattere automatico, è un sistema che permette di ridurre i costi di influenza; le
persone sono incentivate a dedicare tempo ed eventualmente a manipolare informazioni allo scopo di
influenzare le decisioni dei valutatori, laddove le promozioni siano effettuate secondo parametri più
soggettivi.
La promozione in base al merito, cioè, in seguito a ripetute valutazioni positive della prestazione, può
inoltre generare altri tipi di distorsioni, che possono essere ridotte grazie all’uso di altri meccanismi.
Può accadere che la persona migliore nelle prestazioni al proprio livello non sia il miglior candidato
per la posizione a livello più elevato. In altri termini, non sempre il miglior operaio può essere il miglior capo
stabilimento, o il miglior product manager può essere il miglior direttore marketing. La promozione in base
alla prestazione nel ruolo precedentemente ricoperto può far avverare il cosiddetto “principio di Peter”,
secondo il quale le persone sono promosse fino al loro livello di incompetenza, e per la quale molte
imprese perdono o sottoutilizzano persone con talenti e competenze rilevanti.
Tra i possibili correttivi, figurano il disegno di sentieri di carriera multipli e la valutazione del
potenziale.
In primo luogo, si possono moltiplicare i possibili sentieri di carriera, anche all’interno di una stessa
impresa. Per esempio si usa oggi distinguere tra carriere di tipo professionale (per esempio, posizioni con
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responsabilità di ricerca, di docenza, di diagnosi e intervento medico) e di tipo manageriale o
amministrativo (per esempio, controllo di progetti, vendita di interventi, controllo di gestione). Tra i
vantaggi dello sdoppiamento (dual ladder career) o moltiplicazione dei sentieri di carriera, vi sono la
capacità di favorire sinergie tra risorse umane e compiti (per esempio evitando che persone con forti
competenze tecnico-professionali come ricercatori e scienziati, che preferiscano continuare ad investire
professionalmente su queste competenze, debbano ad un certo punto della loro vita professionale
accorpare competenze di gestione del personale, pianificazione, organizzazione, ecc., per poter fare
carriera).
In secondo luogo, la carriera basata sul merito può e dovrebbe essere alimentata dalla valutazione
del potenziale: in questo caso si promuove la persona non solo o non tanto con la migliore prestazione al
proprio livello, ma con la prestazione potenzialmente migliore al livello superiore.
Un parziale correttivo potrebbe esser costituito dall’istituzione di “tornei interni” su specifiche
attività per accedere a date posizioni. Essi hanno il vantaggio di non richiedere una misurazione in valore
assoluto delle performance, ma solo un posizionamento relativo. Anche se le “gare” e i “tornei” possono
semplificare la valutazione, essi hanno tuttavia svantaggi in termini di clima, e di possibile demotivazione e
sotto-utilizzazione di coloro che “perdono”, pur avendo avuto buone prestazioni.
Tra i correttivi che si possono prospettare, vi sono i seguenti. Un primo tipo di soluzione sono
ricompense variabili contingenti solo a risultati positivi, anziché anche negativi. Le stock options offerte ai
manager possono essere interpretate come occasioni di partecipazione a risultati variabili e positivi
dell’azienda. Poiché si tratta di diritti di acquisto di azioni ad un prezzo prespecificato, i dirigenti possono:
a ) adoperarsi per far crescere il valore delle azioni; b ) acquistarle quando il loro valore è superiore a
quello pagato. In effetti, questo tipo di soluzione potrebbe essere avvalorata dalle ricerche cognitive e
comportamentali che hanno mostrato come i manager percepiscano e definiscano il “rischio” come
possibilità di perdite elevate e non come varianza generale (positiva e negativa) delle conseguenze (come si
assume nella definizione economico-finanziaria.
Un secondo tipo di soluzione, più radicale, utile soprattutto nei casi in cui le difficoltà di misurazione
delle prestazioni siano particolarmente severe, è quella di ridurre la distanza tra le figure e gli interessi del
“principale” e degli “agenti” attraverso una condivisione maggiore dei diritti di proprietà. In questa
configurazione dei sistemi di carriera, particolarmente diffusa nelle imprese di servizi professionali, quali gli
studi associati di consulenza, le agenzie di pubblicità, le società di revisione, e nelle realtà in cui si lavora su
progetti a lungo termine, “fare carriera” significa soprattutto “diventare partner”.
Dal punto di vista dell’efficienza, un processo di promozione basato su criteri poco chiari ed espliciti è
estremamente costoso in termini di costi d’influenza e di negoziazione. La qualità delle decisioni di
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promozione prese senza supporti strutturati è inoltre sicuramente minata da distorsioni di disponibilità,
rappresentatività e ancoraggio.
D’altra parte, bisogna notare che, sia nelle decisioni di promozione sia di retribuzione, è probabile
che la struttura del gioco sia spesso molto competitiva; sia perché si tratta di dividere risorse scarse, sia
perché le persone hanno una certa tendenza a sopravvalutare i propri contributi rispetto a quelli degli altri
e quindi a non ritenere equa la quota ricevuta anche laddove sia stata ben disegnata. Pertanto, è probabile
che le regole e le procedure, per quanto chiare ed eque, non siano sufficienti a governare tali processi e che
comunque sia inevitabile una componente di giudizio discrezionale da parte di autorità di tipo arbitrale.
Se questi sono i tratti dei principali processi di governo delle relazioni di lavoro, e in particolare della
mobilità e dello sviluppo, ne segue che, anche nei casi in cui essi siano regolati all’interno di imprese, posso-
no esserlo da meccanismi di “pianificazione” solo in misura limitata. I sistemi di “man power planning”
hanno avuto notevole attenzione e una certa diffusione nei periodo di maggior sviluppo e successo di
approcci “integrati”, “sistemici” e “strategici” al management nelle sue varie aree (il cui periodo d’oro è
collocabile negli anni 70). In questo quadro, si cercava di prevedere soprattutto l’evoluzione dell’organico, i
flussi in uscita e in entrata tra le diverse posizioni o famiglie professionali e attraverso i confini dell’impresa.
E possibile tuttavia individuare alcuni tipi di strumenti utili in un ambito più limitato: di breve
periodo, applicato a sistemi di dimensioni e complessità non elevate, per i quali si possano definire e
quantificare i molteplici input informativi richiesti. Infatti, un sistema di pianificazione delle risorse umane
implica una stima del fabbisogno di competenze e di persone per svolgere definite attività. Pertanto
richiede informazioni e stime almeno sui seguenti elementi, relativamente a classi di posizioni
organizzative:
· il tipo di competenze richieste;
· una quantificazione del “tempo-uomo” richiesto;
· le modalità di reperimento delle risorse (mercato del lavoro interno o esterno; canali; tempi; costi);
· gli interventi di formazione richiesti;
· tassi di uscita “normali” (turn over);
· la disponibilità dei potenziali candidati.
Su tali basi è quindi possibile calcolare o simulare il fabbisogno (o la ridondanza) di “organico” e i
livelli di crescita (o ridimensionamento) sostenibili.
4. FORME DI CONTRATTO DI LAVORO
I sistemi di governo della relazione di lavoro illustrati possono combinarsi in vari modi, dando luogo a
diversi tipi o forme di contratto di lavoro. Alcune caratteristiche delle risorse, delle attività e delle relazioni
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di lavoro si sono rivelate particolarmente utili per spiegare e prevedere quali configurazioni dei sistemi di
organizzazione delle risorse umane sono efficaci, efficienti ed eque: in particolare la specificità dei
contributi di lavoro rispetto alle altre risorse tecniche e umane con cui si combinano nei processi di
trasformazione; la complessità informativa delle attività e delle relazioni, in particolare Y osservabilità delle
prestazioni di lavoro e la conoscenza delle sue cause. Pertanto, ci si può attendere che forme diverse di
contratto di lavoro siano correlate a tali dimensioni. La tabella propone una tipologia di contratti di lavoro
basata su tali dimensioni.
In generale, i contratti possono
essere completi o incompleti, in
ragione soprattutto della quantità di
circostanze imprevedibili che
dovrebbero regolare (incertezza). Essi
possono incorporare, attraverso
clausole complesse e procedurali,
regole e sistemi di gestione delle
interdipendenze e risoluzione dei
conflitti di vario tipo, incluse le regole
e l’autorità (contratti obbligativi)
senza perciò configurare necessariamente una relazione di lavoro dipendente interna a tempo
indeterminato. In presenza di componenti significative di incertezza, sia nel prevedere i possibili
cambiamenti di circostanze, sia in termini di difficoltà nella valutazione delle prestazioni, i contratti
diventano fortemente incompleti nella loro parte scritta e formalizzata, e sono integrati da accordi e
aspettative di “buona fede” e di comportamenti conformi alle norme di buona condotta prevalenti in una
certa attività, dalla reputazione e dal controllo sociale (contratti relazionali). In situazioni di massima
specificità, insostituibilità e criticità dei contributi di lavoro e per il sistema organizzato, combinata con
radicali difficoltà di valutazione sia delle prestazioni che delle posizioni, logiche contrattuali centrate sullo
scambio, la valutazione e il corrispettivo, possono non essere efficaci. Logiche contrattuali centrate
sull’associazione (contratti associativi) possono esserlo, incentivando direttamente le persone a
comportarsi efficientemente con riguardo ai propri interessi. Allineamento degli obiettivi e motivazione
intrinseca possono essere sostenuti dalla condivisione dei diritti di proprietà nelle loro varie componenti
(diritti residuali di ricompensa, decisione e controllo), nonché da un ispessimento del coordinamento
tramite valori e obiettivi di fondo condivisi. Per esempio, nelle attività “brain intensive” e “personality
intensive”, i contratti regolativi delle relazioni di lavoro, sono di solito contratti associativi o di società tra i
possessori di tali risorse.
Figura 10 - Tipologia dei contratti di lavoro
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Oltre che sulla dimensione obbligativo/relazionale, i contratti possono essere ordinati secondo una
dimensione interno/esterno. Tale caratteristica è particolarmente legata alla specificità delle risorse umane
al sistema in cui sono impiegate e alle economie di scala e di specializzazione.
Se consideriamo per semplicità solo alcune possibili configurazioni delle variabili esplicative,
l’efficacia comparata delle relative forme contrattuali può essere spiegata come segue.
Se le competenze di lavoro non sono specifiche al sistema utilizzatore o la frequenza delle transazioni
di lavoro è bassa, i contratti tenderanno ad essere esterni e/o di breve termine:
· completi e contingenti alla valutazione delle prestazioni (risultati o comportamenti) se i risultati o i
comportamenti sono osservabili e l’incertezza è bassa (come nel caso di lavoro manuale stagionale di
raccolta di prodotti agricoli, o del lavoro “interinale”);
· relazionali, se i risultati sono osservabili ma soggetti a incertezza ambientale (come nel caso di servizi di
un’agenzia di pubblicità acquisiti sul “mercato”);
· associativi, se né i comportamenti né i risultati sono specificabili ex ante o ben controllabili ex post e
l’incertezza è elevata (come nel caso di attività di direzione d’impresa “a contratto”).
Se le competenze di lavoro sono specifiche o le transazioni sono frequenti, i contratti di lavoro
tenderanno ad essere a orizzonte temporale lungo o indeterminato e/o interni:
· se l’incertezza è bassa (le condizioni d’impiego sono prevedibili) i contratti potranno essere di tipo
obbligativo, legati ai comportamenti previsti e al tempo di lavoro (se questi sono osservabili), o legati ai
risultati (se sono questi ultimi ad essere osservabili); ne sono esempi, nel primo caso, i contatti “tipici”
di lavoro dipendente in regime di autorità (come il lavoro operaio e impiegatizio dipendente), nel
secondo caso i contratti di concessione di svolgimento di attività ad agenti (come nel caso degli agenti
assicurativi e dei concessionari delle case automobilistiche) ;
· se l’incertezza è elevata, i contratti saranno relazionali anziché obbligativi, e poiché per definizione i
comportamenti efficaci non potranno essere ben previsti e valutati in condizioni di incertezza, essi
incorporeranno sistemi di ricompensa legati ai risultati (come nel caso di venditori diretti di beni
industriali complessi);
· se l’incertezza è elevata e né i comportamenti né i risultati sono osservabili o attribuibili causalmente a
particolari azioni degli attori, allora le relazioni di lavoro saranno regolate efficacemente da contratti
associativi interni, che prevedano una condivisione più o meno estesa di diritti di proprietà (come nel
caso delle partnership professionali).
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CAPITOLO 11
ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO – LE STRUTTURE
Argomento centrale di questo capitolo è la “divisione del lavoro” e il coordinamento tra “attività
divise”, cioè insiemi di attività di cui individui o gruppi possono essere responsabili. In italiano si usano i
termini “mansione” o “posizione. Nel corso del capitolo questi termini saranno usati come sinonimi di
insiemi di attività di lavoro, non necessariamente formalizzati. Questo livello di analisi è solitamente
definito “microstrutturale”, in contrapposizione al livello “macrostrutturale”, costituito da ulteriori
aggregazioni delle posizioni di lavoro in unità organizzative più ampie. Questa problematica
microstrutturale è talvolta definita tout court problematica di organizzazione del lavoro, intendendo il
termine nel senso di “lavoro umano”, lavoro di persone analizzato al livello di ciò che fa e ha diritto di fare
la singola persona. Una “soluzione” o “forma” di organizzazione del lavoro sarà qui definita come una
configurazione o distribuzione particolare di diritti non solo di azione, ma anche di controllo, di decisione e
di proprietà.
1. GLI INTERVENTI SULL’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO: UNA LUNGA STORIA
Quello della progettazione delle mansioni è probabilmente il più antico tema di organizzazione.
Infatti, larga parte degli studi organizzativi sul lavoro e le mansioni sono scaturiti dai problemi posti dalla
grande diffusione, nella regolazione dei sistemi di lavoro industriali dell’organizzazione del lavoro di tipo
“taylorista”. In particolare, fra i problemi affrontati dai primi studi vi furono i cali di attenzione e
rendimento legati alla fatica e alla monotonia; i fenomeni di rifiuto e disaffezione verso il lavoro causati alla
mancanza di senso del proprio contributo; la cattiva qualità dell’ambiente di lavoro e della vita di lavoro in
generale; l’opposizione sindacale che fin dai suoi albori il modello taylorista aveva suscitato.
Una prima fase di studi e progetti di riorganizzazione del lavoro fu tuttavia caratterizzata da
difficoltà e anche insuccessi. Fra i limiti di tali interventi, collocabili fra gli anni ‘50 e gli anni ‘60 vi era un
approccio che fu poi accusato di “universalismo”, orientato a diffondere una “nuova filosofia manageriale”
supposta valida per tutte le stagioni, con scarsa considerazione delle differenti esigenze tecniche dei settori
e delle imprese. Inoltre, può darsi che i tempi non fossero maturi, mentre successivamente le condizioni
tecnico-economiche che dapprima avevano favorito la diffusione dei modelli di organizzazione del lavoro
“tayloristi” in molti settori mutarono. Infine, la ricerca e l’intervento sull’organizzazione del lavoro, aveva
puntato inizialmente proprio su quelle industrie di produzione di massa, come la meccanica, dove i processi
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di trasformazione e i compiti potevano essere divisi e rigidamente programmati con profitto.
Una serie di studi particolarmente istruttivi si orientarono ad un certo punto non tanto alle
situazioni dove i modelli tayloristi erano applicati, ma a quelle dove non erano in realtà mai penetrati,
scoprendo che alcune tecnologie e alcuni settori erano risultati piuttosto impermeabili e inadatti a principi
organizzativi di massima divisione del lavoro verticale e orizzontale, e di massima formalizzazione e
programmazione, come la siderurgia, la chimica e molte lavorazioni a processo continuo.
Inoltre, anche in settori a tecnologia divisibile e a processo standardizzabile, gli anni ‘60 videro
l’affermarsi di condizioni di incertezza originate dal cambiamento nelle caratteristiche della domanda, della
concorrenza e delle strategie competitive. Tale complesso di fattori portava verso condizioni - come si
diceva allora - di “ambiente turbolento”. Anche in settori come quello automobilistico o elettrodomestico,
l’aumento del numero di concorrenti e del potere d’acquisto e delle esigenze dei consumatori, e
l’accelerazione dell’innovazione di processo e di prodotto generavano esigenze produttive in contrasto con
un’elevata standardizzazione e specializzazione delle risorse tecniche e umane.
Infine, alcuni di questi studi ed altri misero in luce come lo sviluppo dell’automazione potesse
aumentare gli spazi, peraltro sempre esistiti in una certa misura, di scelta organizzativa tra una varietà di
modi efficaci di organizzare il lavoro anche in presenza delle stesse condizioni tecnologiche e di mercato,
rafforzando una proprietà che fu chiamata di equifinalità dei sistemi di organizzazione.
Sul versante delle condizioni sociali, la fine degli anni ‘60 pure segnò un mutamento con
implicazioni rilevanti per l’organizzazione del lavoro, poiché la chiarezza, l’omogeneità e il peso degli
interessi dei lavoratori in materia aumentò stabilmente, sorretto dalla diffusione e dalla legittimazione
delle organizzazioni sindacali, e con esso aumentò il numero di decisioni in materia regolate tramite
negoziazione anziché tramite autorità.
Più in generale fu riconosciuto che le soluzioni microstrutturali possono avere un impatto
particolarmente forte e spesso sistematico (omogeneo, prevedibile) sugli interessi primari delle persone. Dal
punto di vista teorico e metodologico, questa consapevolezza portò ad includere, nella maggior parte dei
modelli di progettazione delle mansioni moderni, una rilevazione esplicita delle preferenze di chi deve
assumere una mansione sul profilo della mansione stessa.
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2. LE VARIABILI CHIAVE NELL’ANALISI E PROGETTAZIONE DEI “SISTEMI DÌ LAVORO”
2.1. ANALISI DEL “SISTEMA PRIMARIO DI LAVORO” E DELLE “OPERAZIONI UNITARIEELEMENTARI”
L’errore di base che si potrebbe compiere in un’analisi delle mansioni è partire dalle mansioni così
come esse già sono, o considerarle in modo isolato da quelle confinanti sia orizzontalmente sia
verticalmente. Per esempio, se interessa comprendere come potrebbe essere efficacemente organizzato il
lavoro di una segretaria, bisognerà andare oltre le attività correntemente assegnatele, individuare con quali
altre attività esse sono interdipendenti (anche se assegnate a colleghi e superiori), comprendere quali
criteri di aggregazione delle attività in una mansione sono correntemente impiegati e quali potrebbero
esserlo.
Pertanto, i due livelli iniziali di analisi sono l’uno sovraordinato, l’altro sotto-ordinato rispetto a
quello delle mansioni da riprogettare. Si tratta del “sistema primario di lavoro” e delle “operazioni
unitarie”.
Un sistema primario di lavoro è un insieme di attività interdipendenti che portano ad un risultato
identificabile, tipicamente un’unità di prodotto o servizio. Potenzialmente, se un sistema di attività fosse in
grado di autoregolarsi, un’efficace ed efficiente organizzazione di quel sistema dovrebbe utilizzare questa
sua capacità, in tal modo si ridurrebbero i costi di coordinamento e controllo e nel contempo si
aumenterebbe la soddisfazione dell’interesse primario o bisogno di senso di identità delle persone. Il
sistema di attività sottoposto ad analisi dovrebbe tipicamente includere almeno i seguenti due tipi di
attività collegate: le attività operative interdipendenti che concorrono alla realizzazione di un output
identificabile (per esempio tutte le attività di montaggio che portano dai componenti ad un’auto finita; o
tutte le attività amministrative che portano da una richiesta di servizio bancario da parte di un cliente alla
sua evasione); le attività di supporto, manutenzione, controllo e regolazione del processo operativo (per
esempio, la manutenzione se si sta analizzando un processo produttivo; le attività di controllo degli
operatori su un processo automatizzato; le attività di decisione e programmazione sul tipo e la sequenza di
attività operative).
Se il sistema primario di lavoro stabilisce, per così dire, un limite esterno o superiore all’eventuale
integrazione tra attività, le operazioni unitarie stabiliscono un limite “inferiore”, oltre il quale i compiti non
sarebbero ulteriormente divisibili. La figura riporta le operazioni unitarie elementari di un sistema di
lavoro identificate dai ricercatori in uno dei più noti grandi progetti sociotecnici, il progetto Shell.
Una volta definito un sistema di lavoro e le attività di base che lo compongono (o lo dovrebbero
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comporre) si possono analizzare gli attributi delle attività e delle loro relazioni che hanno un effetto siste-
matico sull’efficacia dei contini e dei meccanismi di coordinamento tra ruoli di lavoro. A livello di
microstruttura, le seguenti variabili hanno effetti importanti: le “varianze” nello svolgimento dei compiti e
l’intensità delle interdipendenze.
2.2. ANALISI DELLE VARIANZE E DELLE INTERDIPENDENZE
Nell’analisi delle mansioni, le eccezioni, gli eventi imprevisti, le incertezze che caratterizzano un
processo di trasformazione sono solitamente chiamati varianze. La varianza è definita come una deviazione
rispetto ad una norma (di svolgimento di un processo di trasformazione) con effetti sull’output non
trascurabili e che può essere regolata
solo attraverso l’intervento umano,
per cui interessa intraprendere azioni
correttive ed esse dipendono
dall’organizzazione del lavoro umano.
Per esempio, nel caso Shell, per ogni
operazione unitaria si individuano
alcune caratteristiche dei materiali o
dei processi che possono comportare
variazioni impreviste nello
svolgimento dell’attività. La
temperatura e altre caratteristiche del
bitume come la gradazione e il livello
nella cisterna possono presentarsi
“fuori norma”; se ciò accade e non
viene intrapreso alcun intervento, l’output sarà sensibilmente influenzato in termini di sprechi di materiali e
di blocchi mal formati.
Le operazioni unitarie nell’esempio della formatura dei blocchi di bitume sembrerebbero a prima
vista legate da un’interdipendenza sequenziale semplice. Tuttavia, la presenza di un’elevata incertezza o
varianza nel processo complica e intensifica l’interdipendenza. Gli effetti di alcune delle varianze che si
possono produrre nei primi stadi si faranno sentire in tutte le operazioni successive. L’analisi della
trasmissione a valle delle varianze mette in luce come gli operatori a monte necessitino in realtà, come
minimo, di input informativi dalle attività a valle sul modo migliore ai regolare gli eventi imprevisti tenendo
conto delle caratteristiche generali e della situazione corrente delle attività a valle. L’interdipendenza tra
Figura 11 - Analisi del sistema di lavoro "sformatura dei blocchi di bitume"
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attività potrebbe pertanto definirsi più reciproca che sequenziale. Quindi, ci si può attendere che il tipo di
coordinamento efficace sia basato sul mutuo aggiustamento tra le attività oltre che sulla programmazione.
In generale, e a parità di altre condizioni, quanto più elevate sono le varianze e complesse le
interdipendenze tra operazioni unitarie, tanto meno è efficace ed efficiente dividerle in mansioni
specializzate assegnate a diversi operatori.
L’organizzazione iniziale presente nel reparto della Shell fornisce un esempio di una soluzione
inefficace sulla quale si cercava di intervenire. Il lavoro era diviso in quattro diverse mansioni, affidate a
persone diverse con una formazione e una qualifica professionale diversa: l’addetto alle cisterne, il filler,
l’estrattore dei separatori e l’addetto alle operazioni finali di imballaggio e carico dei materiali. Non erano
previste modalità di regolazione delle varianze ex ante; gli operatori a valle rimediavano quanto e come
potevano ai problemi di lavorazione ex post, e buona parte delle varianze si trasformava in difetti
nell’output.
Un ulteriore fattore che può aumentare l’interdipendenza tra attività è la specificità delle
conoscenze necessarie allo svolgimento di un’attività rispetto ad un’altra. Pertanto, a parità di altre
condizioni, ci si può attendere che compiti legati da forti specificità possano essere efficientemente
aggregati nella stessa mansione individuale, o almeno assegnati a persone che fanno parte dello stesso
gruppo di lavoro. Per esempio, se la professionalità di un operatore tecnico è fortemente specifica rispetto
alle caratteristiche del parco macchine che usa (e quindi alle attività di manutenzione o di allocazione delle
macchine alle diverse lavorazioni) le attività di produzione, manutenzione e programmazione possono
efficacemente ed efficientemente essere svolte dallo stesso operatore.
2.3. ECONOMIE DI SPECIALIZZAZIONE, SCALA E “SCOPE”
Varianze e interdipendenze fra attività elementari giocano tipicamente a favore dell’aggregazione
dei compiti in mansioni ampie, sia orizzontalmente sia verticalmente. Le economie di specializzazione e
scala possono tuttavia spesso, anche se non
sempre, pesare in senso opposto. Osserviamo
la fig. 12. La situazione definita di “massima
specializzazione” indica la presenza di
importanti economie di apprendimento e
specializzazione nei singoli compiti e la
saturazione delle capacità di singole persone
per realizzare quelle attività. Per esempio, èFigura 12 - Matrice di differenziazione delle competenze
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efficiente ed efficace che i compiti di taglio, sutura e anestetizzazione in un’operazione chirurgica siano
svolti da persone diverse con una mansione specialistica: sia perché richiedono sentieri di apprendimento e
un tipo di allenamento pratico differente, sia perché le operazioni devono essere svolte, controllate nei loro
effetti e regolate nelle loro varianze, in parallelo.
Una situazione di “massima polivalenza” può derivare sia dalla facilità e dalle “basse barriere
all’entrata” nei diversi compiti, sia dalla presenza di economie di scope tra diverse attività. Per esempio, chi
abbia acquisito competenze nel compito (per esempio, la stesura di un programma di calcolatore per
l’automazione di una procedura) può essere il miglior candidato per l’utilizzo del know-how acquisito in altri
compiti (per esempio, programmazione per altri progetti di automazione).
Lo stesso tipo di analisi è rilevante anche per la dimensione verticale della microstruttura, cioè per
le scelte di aggregazione verticale tra attività operative e attività di decisione, controllo e regolazione ad
esse relative. Per esempio, le attività operative di lavorazione tradizionale (manuale) al tornio, non
creavano barriere all’aggregazione di compiti di decisione sulle sequenze di lavorazione e di riattrezzaggio e
manutenzione della macchina. Anzi, le conoscenze sullo stato di usura e sulle prestazioni della macchina e
dei materiali generavano molte delle competenze rilevanti per la programmazione del lavoro e la
regolazione delle varianze. Differentemente, nel caso di macchine a controllo numerico (per esempio, torni
automatici) e ancora più di impianti complessi automatizzati, le attività operative di sorveglianza e
alimentazione del processo richiedono competenze piuttosto basse e generiche, mentre le attività di
programmazione e di regolazione delle varianze (possibili guasti e funzionamenti anomali) richiedono
competenze assai elevate e specialistiche di tipo elettronico ed elettrotecnico. Questi problemi di specia-
lizzazione spiegano perché talvolta l’automazione ha l’effetto di “polarizzare” le mansioni tra
esecutori/controllori e progettisti/decisori nell’organizzazione.
Per altri tipi di attività si troverà, al contrario, che sarebbe assolutamente inefficace e inefficiente
separare le attività operative da quelle di decisione e controllo: perché le attività operative e quelle di con-
trollo si basano sulle stesse competenze; perché le attività operative sono ad alta varianza e non possono
essere programmate a priori; perché le attività operative sono poco ispezionabili dall’esterno e
l’accertamento della qualità comporta quasi una riesecuzione del lavoro.
2.4. OSSERVABILITÀ DELLE PRESTAZIONI E CRITICITÀ DEI CONTRIBUTI DI LAVORO
Con riguardo all’aggregazione verticale delle attività si potrebbe obiettare che problemi di conflitto
di interesse la potrebbero sconsigliare. Tipicamente, le decisioni autonome sulle azioni da intraprendere da
parte di un agente, potrebbero portare a riduzioni di sforzo e al perseguimento di obiettivi particolari e
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l’autocontrollo sulle proprie azioni potrebbe portare a distorsioni e indulgenze pro domo sua. In altri
termini, a differenza dell’aggregazione orizzontale di compiti con diversa specializzazione, l’aggregazione
verticale di attività di esecuzione, decisione e controllo può comportare conseguenze importanti per i
sistemi di incentivazione agli attori.
Gli studi di teoria dell’agenzia si sono particolarmente concentrati su relazioni di lavoro in cui
significativi diritti di decisione e regolazione sulle attività sono assegnati all’agente che le svolge. Essi hanno
mostrato che il grado di osservabilità dei comportamenti degli agenti è una dimensione di analisi
importante per il job design. Nel caso di azioni osservabili, l’allocazione ad un agente di diritti di azione e
decisione sulle attività è compatibile con un’allocazione separata ad un “principale” dei diritti di controllo
tramite supervisione diretta o investimenti in sistemi di monitoraggio (per esempio, nel caso di un operaio
“di mestiere” ad alta qualificazione professionalità e discrezionalità, come un capo laminatore). Se le
attività sono poco osservabili, una riaggregazione dei diritti di azione e decisione/ regolazione delle attività
con una quota più o meno ampia di diritti di controllo e di ricompensa residuale può risolvere il problema
(per esempio, nel caso di un responsabile di zona commerciale).
Un corollario delle proposizioni precedenti sulla diversità dei sistemi di organizzazione del lavoro
efficaci ed efficienti in attività con alta o bassa osservabilità è che, a parità di altre condizioni, attività con
grado di osservabilità molto diverso non dovrebbero essere unite alla stessa mansione. Infatti, tale
commistione distorcerebbe il comportamento a vantaggio degli aspetti osservabili e misurabili delle
prestazioni a svantaggio degli altri aspetti - a meno che non vengano prese contromisure per sostenere
l’orientamento verso questi ultimi.
Altri studi di economia dell’organizzazione hanno sottolineato l’importanza di ulteriori variabili, in
particolare:
· il grado di sostituibilità delle risorse umane;
· il valore da esse aggiunto rispetto a quello aggiunto da altre risorse;
· la misura in cui le conoscenze su cui si basano le attività sono state accumulate dagli operatori e sono
poco trasferibili;
· il rischio cui è esposto il capitale umano.
Se sintetizziamo queste dimensioni nel concetto di criticità delle risorse umane rispetto ad altre
risorse, a parità di altre circostanze, quanto più critiche sono le risorse umane tanto più forme di
organizzazione del lavoro efficienti ed eque dovrebbero riservare loro diritti di proprietà. Infatti, l’uso di
contratti associativi tra conferenti di capitale umano, tecnico e finanziario, o di associazioni tra persone e
“partnership”, in cui “il lavoro assume il capitale” e non viceversa, sono diffusi in attività ad alta intensità di
“capitale umano” (attività educative, di consulenza, sanitarie, ecc.).
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2.5. ANALISI DELLE PREFERENZE
Una procedura completa di analisi e progettazione delle mansioni richiede che siano specificate le
preferenze degli attori sulle stesse. Tali preferenze possono essere “ipotetiche” o effettivamente rilevate.
Gli economisti optano in genere per il primo metodo: ”assumere” che le preferenze siano configurate in un
dato modo - per esempio, che l’agente misuri lo sforzo come costo e sia avverso al rischio, o che le
preferenze siano distribuite in modo casuale e quindi possano essere trascurate.
Questa impostazione ha dei limiti fondamentali. Infatti, essa vincola le soluzioni a configurazioni
molto particolari delle preferenze e, soprattutto, non si basa su alcuna evidenza empirica che le persone
interessate “voterebbero” come si presume se fosse loro richiesto di esprimersi. Sotto questo aspetto, la
tradizione organizzativa “sociotecnica” ha sviluppato un approccio empirico all’analisi delle preferenze.
Possono essere individuati alcuni tratti salienti di tale approccio:
· le preferenze degli attori di solito non si distribuiscono a caso e dunque dovrebbero influenzare
l’organizzazione del lavoro in direzioni identificabili;
· esse vanno rilevate empiricamente perché la loro configurazione specifica è soggettiva e perché questo
comunque migliora l’equità procedurale percepita delle soluzioni organizzative;
· esse non riguardano solo le azioni da compiere, ma anche le modalità di organizzazione di tali attività.
Nel merito, le principali conclusioni di tali ricerche su quali aspetti delle mansioni siano di solito
importanti per i prestatori di lavoro, e in che senso, possono essere esposte come segue.
Varietà. Le persone di solito hanno preferenze definite sulla varietà di attività che la loro posizione
lavorativa consente. Ciò non significa, tuttavia, che in tutti i casi maggior varietà sia preferita a minor
varietà. Per esempio, è risultato che in caso di attività con basso interesse e scarsa autonomia,
l’aggregazione orizzontale di più compiti per aumentare la varietà del lavoro e ridurre la monotonia spesso
non è gradita ai lavoratori. Infatti, la varietà in queste situazioni aumenta i livelli di attenzione e fatica su
attività comunque poco interessanti, e riduce la possibilità di dedicarsi ad attività compensative mentre si
lavora in modo automatico (per esempio, relazioni sociali, pianificazione della vita familiare). Al contrario, la
varietà è spesso apprezzata nelle attività ad elevato contenuto discrezionale, per esempio dei manager di
linea. Interventi di allargamento, delle mansioni, cioè di aggregazione orizzontale di diverse attività
assegnate alla stessa persona, possono essere valutati positivamente anche in situazioni a bassa
discrezionalità, dove la monotonia può incidere negativamente sulla salute. Per converso, essi possono
essere valutati negativamente da lavoratori con stili cognitivi analitici, impegnati in attività altamente
discrezionali in cui sono necessarie concentrazione e specializzazione (come ricercatori o pianificatori).
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Autonomia. Il grado di autonomia caratterizza una mansione nella sua dimensione verticale. Esso è
infatti costituito dall’estensione delle attività di decisione, pianificazione e controllo attribuite alla
posizione. Il grado di autonomia è espressivo quindi del grado di discrezionalità, autocontrollo e
autodeterminazione, del grado di libertà di cui gode un attore in una posizione lavorativa. Per esempio, la
mansione di un venditore è di solito caratterizzata da un maggior grado di autonomia rispetto a quella di un
operaio di produzione. Sotto l’aspetto della configurazione delle preferenze, si è spesso empiricamente
trovato che le persone preferiscono una maggior autonomia ad una minore autonomia. Fattori dinamici
come la progressione nei livelli di autonomia assunti nel tempo aiutano a spiegare le eccezioni a tale
regolarità. Per esempio, se il differenziale in aumento di responsabilità e autonomia che si prospetta
rispetto alla situazione in essere è molto ampio, le persone possono percepire un rischio e uno stress
eccessivo, specialmente se il grado di confidenza appreso in un dato campo di attività (autoefficacia) non è
ancora elevato.
Identità e identificazione. Il bisogno di identità, di un’immagine di sé e del proprio contributo, è
considerato uno dei bisogni di base che nei contesti di lavoro è influenzato dalle possibilità di
identificazione con i prodotti del lavoro o con gruppi di riferimento. La mancanza di significato percepito in
ciò che una persona fa è riportato nelle ricerche come un fattore che incide negativamente sulla
soddisfazione. Il senso di contribuzione o di identità consentito da una mansione si suppone basato in
primo luogo sulla visibilità, o comunque sulla percezione del contributo fornito ad un risultato finale
identificabile. In questa accezione esso può essere aumentato sia dall’identificabilità e dall’immagine
dell’output; sia dalla chiarezza della relazione tra il proprio input parziale e l’output (chiarezza dei
feedback). In un’accezione più ampia, un “senso di identità” è possibile anche dove l’identificazione degli
output (e con gli output) sia difficile. L’identificazione con un gruppo sociale e professionale che ha una
immagine e una funzione definita e apprezzata - un mestiere, un’impresa, una professione - svolge tale
funzione. Una posizione di lavoro che appartenga a tali sistemi a forte identità - per esempio un’impresa
nota e prestigiosa - è di solito preferita a posizioni con caratteristiche simili, ed anche meglio retribuite, in
sistemi che non abbiano tale proprietà.
Interazioni sociali. La possibilità di intrattenere relazioni sociali e di soddisfare bisogni di
appartenenza, socialità, potere e scambio emotivo e affettivo sul lavoro non è apprezzata in modo
uniforme dalle persone. L’età, lo stile cognitivo, l’interesse e la difficoltà dell’attività dal punto di vista
tecnico, la qualità della combinazione fra persone che spesso non si autoselezionano sulla base esclusiva di
affinità elettive, sono tutti fattori che possono influire sul grado di orientamento alle relazioni sociali delle
persone. Tuttavia, condizioni di impossibilità tecnica di parlare e interagire con altri e di isolamento sono
state riscontrate come fattori sistematici di insoddisfazione e stress già nei primi studi sugli effetti della
configurazione delle mansioni sulla soddisfazione.
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Sviluppo. Una delle caratteristiche di una mansione troppo poco definita è la prospettiva di
sviluppo professionale e di assunzione di altre più qualificate o più attraenti mansioni in tempi successivi
che essa apre. La maggior parte dei lavoratori preferisce prospettive di sviluppo più elevate e più chiare a
prospettive più limitate e più incerte. Tuttavia, il tipo di sviluppo preferito non è uniforme. Una distinzione
classica tra prestatori di lavoro con riguardo alle preferenze sui sentieri di sviluppo è quella tra locals e
professionals: le prime sono persone identificate con un sistema organizzativo particolare e orientate alla
carriera in quel sistema; e le seconde sono persone identificate con una professione, in cerca di uno
sviluppo nelle competenze e nei contenuti del lavoro, con forte propensione alla mobilità. Per esempio, in
imprese tradizionali e artigiane, inserite in zone con forte identità locale (come le imprese di alcuni distretti
industriali) le persone attribuiscono valenze positive alla tradizione, alla continuità delle relazioni, alla
continuazione di un “mestiere”. Pertanto, non è l’evoluzione del contenuto del lavoro che interessa
particolarmente. Piuttosto, è spesso desiderato uno sviluppo dei diritti di controllo e proprietà sulla propria
attività: l’obiettivo di “mettersi in proprio”.
Autorealizzazione. E stato ampiamente teorizzato ed empiricamente documentato che il lavoro
può essere fonte di ricompense intrinseche per chi lo svolge, e non solo un mezzo (e un costo) per
conseguire ricompense estrinseche. Tali ricompense intrinseche, e il senso di autorealizzazione che esse
procurano, consistono in benefici psicologici in termini di interesse, divertimento, senso di competenza e di
utilizzazione piena delle proprie capacità che una persona può derivare dallo svolgimento dell’attività
lavorativa. Bisogna osservare che, tra tutte le caratteristiche delle mansioni, si tratta della più volatile e
soggettiva. Inoltre, può essere difficile, anche per le persone stesse, valutare a priori l’interesse per
un’attività. Pertanto, per questa caratteristica delle mansioni, ancor più che per le altre, non solo le
preferenze dovranno essere empiricamente rilevate, ma gli attori dovranno avere il tempo di apprenderle
nel corso dell’attività.
Salute, sicurezza e qualità della vita di lavoro. Questo insieme di fattori è maggiormente attinente
a condizioni esterne e di contesto della mansione che non alle attività specifiche che la compongono. La
ricerca su tali fattori è sempre stata attiva. Si è tuttavia recentemente sottolineata l’opportunità di un
collegamento teorico e pratico tra gli approcci di progettazione delle mansioni in senso stretto e gli
approcci ergonomici, ecologici e clinici in “pacchetti di cambiamento più ampi orientati al miglioramento
complessivo della qualità della vita di lavoro”. Tale esigenza deriva innanzitutto dall’impatto che il disegno
delle mansioni ha sulla sicurezza, sulla salute e sull’ambiente di lavoro. Per esempio, mansioni
estremamente divise e poco variate hanno effetti negativi sulla salute psichica; e mansioni non
sufficientemente ampie e coordinate aumentano i rischi di errore e di infortunio. In secondo luogo,
l’organizzazione del lavoro comunque interfaccia la vita privata e familiare, influisce sulla disponibilità di
tempo libero e di energie e sull’equilibrio psicologico con cui la si affronta, ha conseguenze importanti sulla
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possibilità di doppia carriera e sulle pari opportunità fra uomo e donna. Nei programmi di Quality of
Working Life, (QWL) si assume questa funzione di “benessere” complessivo della persona come rilevante.
Nell’impostazione sociotecnica tradizionale, al contrario, le “preferenze” dei conferenti capitale o del
management vengono considerate coincidenti con i “requisiti tecnici” al disegno efficiente delle mansioni,
così come possono risultare dall’analisi delle operazioni elementari; delle varianze e interdipendenze e dei
requisiti di specializzazione. Infine, la progettazione dell’organizzazione del lavoro si è allargata - in
collegamento ad altre discipline collegate alla progettazione della tecnologia (come l’ergonomia e i sistemi
informativi) - a considerare la tecnologia stessa come elemento almeno parzialmente riprogettabile
congiuntamente e compatibilmente ad aspetti desiderati delle mansioni e non come variabile indipendente
data.
2.6. APPROCCI ALL’“OTTIMIZZAZIONE CONGIUNTA” DELL’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO
La definizione di una soluzione di microstruttura è, sulla base delle precedenti analisi, un problema
decisionale con molteplici attori ed obiettivi. Già nell’impostazione sociotecnica, che pure concepiva il
processo di riorganizzazione come un processo assai pianificato e talvolta risolto a tavolino, sia pure dopo la
rilevazione delle preferenze, si parlò sin dall’inizio di “ottimizzazione congiunta” dei requisiti tecnici e dei
requisiti sociali.
Operativamente, si è proposto di assegnare un “voto” ad ogni alternativa strutturale individuata,
sia in termini di “soddisfazione” delle persone, sia in termini di “efficienza”. Ogni voto dovrebbe essere una
somma di voti ottenuti da ogni soluzione sulle principali dimensioni delle mansioni, come la varietà,
l’autonomia, la contribuzione, ecc. Per esempio, si supponga che una particolare soluzione, come la
creazione di gruppi autonomi di lavoro, riporti le seguenti valutazioni, su una scala di preferenza da 1 a 5,
dei lavoratori coinvolti e dei rappresentanti della direzione rispettivamente: 2 e 3 sulla varietà, 2 e 4
sull’autonomia, 4 e 4 sulla significatività del contributo, 2 e 5 sulla qualità delle prospettive di sviluppo. La
soluzione del gruppo di lavoro riceverebbe un punteggio di 26 punti totali, moltiplicando ogni “voto” per il
numero di volte che è stato espresso e sommando: [(5X1)+(4X3)+(3X1)+(2X3) ].
Si considerino, come esempio applicativo di una procedura di ottimizzazione congiunta di questo
tipo, le implicazioni che essa avrebbe nella situazione del caso Shell, introdotto all’inizio del capitolo.
L’analisi delle varianze e delle interdipendenze mette in luce come una ricomposizione delle attività del
ciclo in mansioni più larghe e polivalenti (orizzontalmente) nonché più ricche e autonome (verticalmente)
avrebbe avuto soprattutto vantaggi: minori errori, miglior qualità dell’output finale, miglior utilizzazione del
personale. Sul versante della specializzazione, vi erano tuttavia due sottoprocessi diversi: il riempimento
richiede competenze diverse e tempi diversi rispetto alla estrazione elettromagnetica delle griglie.
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Pertanto, una soluzione tecnicamente efficiente avrebbe potuto essere un allargamento delle mansioni fino
a farle coincidere con i due sottoprocessi, assegnate a due piccoli gruppi distinti. Il coordinamento tra di
esse avrebbe potuto essere sostenuto da responsabilità di coordinamento oltre che di leadership tecnica
assegnate alla posizione che controlla le maggiori competenze e le varianze chiave (il filler). Quest’ultima
soluzione avrebbe potuto assommare i vantaggi di ottemperare ai requisiti tecnici e di non urtare le
preferenze dei soggetti. Nel caso specifico, per esempio, i fillers avrebbero potuto non gradire una
soluzione in cui avrebbero dovuto diffondere parte delle loro competenze ad altri.
L’approccio ora descritto usa un criterio di equità basato sulla somma di punteggi di intensità di
preferenza, e quindi implica una “comparazione interpersonale dell’utilità”. Tale approccio è difficilmente
sostenibile quando le preferenze sono espresse da diversi soggetti e spingono in direzioni divergenti. Sia in
teoria sia in pratica, infatti, simili problemi sono risolti tramite negoziazione (ed eventualmente voto finale).
Se le soluzioni di organizzazione del lavoro sono negoziate, ci si dovrà attendere che le parti
“pesino” le caratteristiche delle mansioni e che trovino scambi efficienti tra queste. Le preferenze dei
diversi attori acquistano un peso attraverso il processo negoziale.
Una critica che economisti e teorici dei giochi muoverebbero ad entrambi gli approcci di
progettazione congiunta sopra illustrati è che gran parte dei conflitti tra preferenze sulla configurazione
delle mansioni potrebbero essere semplicemente risolti tramite “pagamenti collaterali” e indennizzi
monetari per l’accettazione di aspetti non graditi delle mansioni. In effetti, in parte questo accade. Gli
aspetti retributivi sono infatti di solito negoziati o definiti in stretta connessione con le caratteristiche delle
mansioni. E accade anche che mansioni gravose, nocive o rischiose siano indennizzate con emolumenti.
Tuttavia, un uso efficace della retribuzione in questa funzione è assai limitato per almeno tre importanti
ragioni. In primo luogo, la monetizzazione degli squilibri nella distribuzione di altre risorse desiderate tronca
la ricerca di soluzioni superiori dal punto di vista qualitativo (per esempio, soluzioni tecnicamente efficienti
ma meno nocive). In secondo luogo, non tutte le caratteristiche dell’organizzazione del lavoro possono
essere monetizzate senza interferire con problemi etici e diritti fondamentali della persona (come la
salute). In terzo luogo, lo strumento retributivo è già sovraccarico di funzioni: la retribuzione dovrebbe
essere correlata alla discrezionalità e alla responsabilità decisionale; poi dovrebbe (al contrario)
indennizzare le mansioni più povere; poi dovrebbe garantire livelli di qualità della vita sufficienti per tutti;
poi dovrebbe essere correlata ai risultati. Poi dovrebbe... Il risultato potrebbe esser quello di
immagazzinare troppi segnali e informazioni nel “prezzo del lavoro”, rischiando di vanificare la leggibilità,
l’equità percepita e l’efficacia incentivante di qualunque sistema retributivo.
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3. STRUTTURE ALTERNATIVE DI ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO
Dopo aver esaminato i metodi e le variabili di analisi e progettazione della microstruttura in questo
paragrafo si illustrano alcune alternative strutturali o soluzioni di organizzazione del lavoro che si sono
rivelate fattibili e le cui condizioni di efficacia ed efficienza sono state specificate. Tali soluzioni o alternative
comportano diverse combinazioni e configurazioni allocative dei diritti di azione, decisione, controllo,
ricompensa e proprietà. Esse sono solo alcune combinazioni fra le molte in astratto possibili.
3.1. FORME “CAPITALISTICHE”
Nelle forme di organizzazione del lavoro tradizionalmente definite “capitalistiche”, i diritti di
proprietà sulle risorse tecniche - materie prime, prodotti intermedi, beni finiti, impianti, attrezzature e
know-how - sono allocati ad una singola parte. Questo attore o gruppo di attori proprietari del capitale
tecnico “assume” il lavoro di altri secondo vari schemi contrattuali. Principalmente dunque, all’interno di
questi assetti, le mansioni sono innanzitutto caratterizzate da prestazioni di lavoro svolte in tutto o in parte
“per” (nell’interesse di) e “alle dipendenze da” soggetti diversi dall’agente.
In generale, l’efficacia di tale assetto è legata a contingenze quali: la maggiore criticità e specificità
dei conferimenti di capitale rispetto a quelli di lavoro; una maggior avversione al rischio degli agenti e una
minore esposizione al rischio del “capitale umano” rispetto a quanto accade per il capitale tecnico e
finanziario; una “produzione di squadra” su vasta scala; una discreta controllabilità delle prestazioni di
lavoro da parte di soggetti diversi dagli agenti.
MODELLO “BUROCRATICO-TAYLORISTA”.
Il modello di organizzazione del lavoro caratterizzato da una massima divisione del lavoro fra diversi
operatori e da un’allocazione dei compiti di decisione, coordinamento e controllo ad un’autorità o capo
gerarchicamente sovraordinato, risponde alle caratteristiche del modello burocratico (specializzazione,
accentramento e chiara assegnazione formalizzata dei compiti. Viene spesso affermato, specialmente negli
studi organizzativi e sociologici, che il modello “taylorista” è superato, e che viviamo ormai in un’epoca
“post-fordista”. Ciò è probabilmente vero per molti tratti culturali e ideologici del taylorismo e del
fordismo. Tuttavia, se consideriamo gli attributi più tecnicamente organizzativi di una configurazione “a
massima specializzazione e programmazione”, è dubbio che essa sia scomparsa o che non sia efficiente in
alcuna circostanza. Così come “il taylorismo non si è fermato a Prato” (e in molti altri “luoghi tecnologici”) -
cioè non si è diffuso ovunque - in altri si è preservato o è stato riscoperto. Altrettanto dubbia è
l’associazione, che spesso viene data per scontata, tra aumento della divisione del lavoro e riduzione dei
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contenuti e della ricchezza del lavoro. La specializzazione può anche essere associata all’approfondimento e
all’eccellenza delle conoscenze e delle capacità in attività complesse.
MODELLO “ARRICCHITO”.
Molti interventi di cambiamento organizzativo a livello microstrutturale sono stati orientati a
modificare i sistemi di lavoro burocratici in sistemi di lavoro più flessibili e più motivanti. Tre tipi di
intervento sulle mansioni sono diventati canonici a tal fine: la rotazione, l’allargamento e l’arricchimento.
Tali interventi sono stati orientati, rispettivamente: ad aumentare le conoscenze sull’intero ciclo di lavoro, il
senso di contribuzione e la polivalenza delle risorse attraverso assunzione periodica di diverse mansioni da
parte dello stesso operatore; ad aumentare la varietà della singola mansione individuale attraverso
l’aggregazione di compiti diversi allo stesso livello di contenuto discrezionale; a “caricare verticalmente la
mansione” con attività di decisione, controllo e pianificazione così da garantire una migliore regolazione
delle varianze, capacità di adattamento locale e da soddisfare maggiormente gli obiettivi di autonomia e
autorealizzazione degli agenti.
I modelli arricchiti sono stati introdotti diffusamente ed efficacemente in settori di attività ad alta varianza
e incertezza, elevata interdipendenza tra operazioni unitarie, e requisiti relativamente bassi di
specializzazione nelle singole attività; nonché in situazioni di cronici e acuti problemi di conflitto industriale
prodotti dall’assetto taylorista. Un’organizzazione del lavoro ricca o arricchita esiste più stabilmente e
diffusamente nei settori di attività fortemente esposti a richieste variabili del mercato, alla competizione
basata sulla differenziazione e l’innovazione dei prodotti; nelle attività impiegatizie; in molte attività di
servizi; in attività in cui il lavoro è qualificato e specifico all’impresa.
MODELLI “RETICOLARI”.
Una soluzione più radicale orientata a creare una organizzazione del lavoro flessibile e basata sulla
definizione delle posizioni di lavoro con riferimento ad un gruppo, non ad un individuo e su modalità di
coordinamento “alternative alla gerarchia”. Il caso dell’organizzazione del lavoro secondo il “modello
giapponese” può essere un esempio emblematico del concorrere delle due circostanze e dell’efficienza
potenziale della soluzione in settori come quello delle apparecchiature elettroniche.
Si possono individuare tre varianti di organizzazione del lavoro che presentano caratteristiche “reticolari”: il
gruppo autonomo di lavoro; la “matrice” e la rete interna.
Il gruppo autonomo di lavoro è idealmente in grado di risolvere tutti i problemi di regolazione e controllo di
varianze e interdipendenze al proprio interno. Dovrebbe essere quindi efficace se le interdipendenze
esterne con altri gruppi non sono troppo elevate. Esempio classico ne sono le isole di produzione o di
montaggio. Il gruppo tipicamente è autonomo anche nell’assegnazione flessibile di compiti ai suoi
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componenti; idealmente anche nella selezione dei componenti.
Un assetto matriciale potrebbe essere più efficace dove le esigenze di specializzazione tecnica all’interno
del gruppo sono molto elevate, come in un gruppo di progettisti o ricercatori. Esso attribuisce ad ogni
posizione responsabilità e compiti sia all’interno di una specializzazione tecnica (per esempio, tecnici
meccanici, elettronici, idraulici, ecc.) sia con riferimento ad aree applicative, tipi di prodotti, tipi di
macchinari o tipi di processi in cui intervenire.
Infine, un assetto più aperto verso altre unità/gruppi potrebbe essere superiore se le interdipendenze e le
varianze della produzione possono essere efficacemente risolte solo ricorrendo a competenze e risorse ogni
volta differenti. La configurazione organizzativa - chi fa cosa e in connessione con chi - è definita da
decisioni ad hoc anziché stabilmente. A livello di microstruttura, alcune realizzazioni ispirate al just-in-time
si avvicinano per esempio a questo modello.
MODELLI “PROFESSIONALI”.
Una diversa “alternativa alla gerarchia” è costituita da un mix di meccanismi di coordinamento in
cui prevalgono le norme e la routinizzazione di know-how diffusi. Si pensi ad esempio alla lavorazione di
alta qualità di materiali non standard, come la pelle o il legno. O alla fabbricazione di prodotti artigianali di
qualità. Per quanto il know-how, l’esperienza e il “mestiere” possano essere in parte concentrati in uno o
più leader, la loro autorità deve essere affiancata da meccanismi di codificazione e trasmissione delle
conoscenze, affinché tutti possano agire in modo competente in processi poco prevedibili, che richiedono
interventi correttivi e decisioni locali e tempestive. Pertanto, la creazione di norme, regole, abitudini, prassi
di lavoro nonché la comunicazione e decisione di gruppo sono meccanismi di coordinamento efficaci, anche
se l’attore o gli attori che controllano le competenze critiche e che sono fonte di conoscenze per i
collaboratori sono proprietari delle attività.
3.2. FORME COLLETTIVE
Le forme di organizzazione del lavoro basate sul gruppo finora considerate, lo sono in modo
parziale. Un’alternativa più radicale è costituita da gruppi di lavoratori associati titolari non solo di diritti di
azione e decisione ma anche di diritti di proprietà sulle risorse complementari. Nelle forme di
organizzazione “collettiva” chi è proprietario delle risorse umane e conferisce lavoro è anche proprietario
delle risorse tecniche, finanziarie e commerciali. Assetti concretamente (e giuridicamente) identificati per la
conduzione di attività economiche in forma associata sono le cooperative e le società di persone.
Come per ogni altro gruppo di forme, una certa configurazione dei diritti di proprietà è compatibile
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con configurazioni molto variate di divisione del lavoro e di coordinamento. Almeno due configurazioni
alternative salienti possono essere confrontate.
• Gruppi di pari. In una configurazione piena, i membri del gruppo detengono tutti i diritti
fondamentali: di proprietà, decisione, controllo, azione e appropriazione dei risultati finali collegati ad una
data attività. Il gruppo di pari può strutturarsi secondo una democrazia rappresentativa, anziché diretta,
specie se di grande dimensione. Le cariche amministrative sono elettive e assunte a rotazione.
Assetti di tipo cooperativo persistono e sono efficienti sia sotto il profilo produttivo sia sotto il
profilo motivazionale in attività in cui i contributi di lavoro sono gli input principali e critici, e in cui
l’associazione continuativa tra tali input generi surplus rispetto al loro impiego separato. Nel caso in cui il
lavoro sia anche poco osservabile vi sono tuttavia ragioni di efficienza più forti per l’adozione di forme
collettive, per la difficoltà di controllare il lavoro e di orientare le persone verso prestazioni superiori se non
attraverso un riallineamento istituzionale degli obiettivi.
• Gruppi federativi. Una forma organizzativa parzialmente collettiva è rappresentata da un gruppo
di conferenti di lavoro che possiede in comune alcuni (o tutti i) mezzi fondamentali di produzione, ma in cui
ognuno ha diritto alla parte di risultati economici generati dal proprio lavoro. Essa è stata definita
“comunalità” ed è qui definita gruppo federativo per evocare la messa in comune di risorse (e della
proprietà di cose) e, contemporaneamente, la ritenzione dei diritti di ricompensa residuale e dei diritti di
autoregolazione delle proprie attività da parte di ognuno. In questo caso le attività devono essere separabili
anche se vi è commensalità nell’utilizzo delle risorse comuni (come i contatti commerciali, gli impianti, un
marchio). Per esempio, una società di formazione in cui i partner sono proprietari dei marchio e degli uffici,
ma in cui ognuno selezioni ; propri collaboratori, utilizzi un network di contatti parzialmente personale,
eroghi un servizio basato su conoscenze parzialmente proprie e non comuni, abbia diritto ai risultati
economici dei progetti che conduce, dopo aver devoluto una percentuale alla struttura comune, sarebbe
un esempio di gruppo federativo.
3.3. FORME IMPRENDITORIALI
Un’alternativa possibile per organizzare il lavoro potrebbe essere una forma “imprenditoriale” in
cui il soggetto che conferisce capitale, conferisce anche lavoro. Si possono dare diverse modalità di
coordinamento tra imprenditori e conferenti altre risorse.
• Lavorazione in conto terzi (“putting out”). Il putting out è stato analizzato da alcuni come forma
arcaica e superata di organizzazione in cui i vantaggi di flessibilità sarebbero stati superati dai costi di free-
riding, noncuranza, sprechi e intempestività. Per ironia della sorte la conservazione e revitalizzazione del
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putting out nel tessile ha costituito uno dei fattori di successo della moda italiana nel mondo. I vantaggi
della specializzazione e della flessibilità nelle combinazioni produttive in funzione della domanda rispetto a
forme capitalistiche integrate sono stati realizzati soprattutto grazie al coordinamento tramite regole e
routine setto-riali/locali molto chiare anche se non molto formali probabilmente assenti nei sistemi di
putting out del diciannovesimo secolo.
• Imprenditori interni. Anziché affidare la produzione sui materiali di proprietà (ed eventualmente
attraverso strumenti di proprietà) ad imprenditori esterni da parte di un’impresa committente, si può
presentare una situazione in cui un’impresa che non possiede strumenti tecnici e conoscitivi specifici ad
una data attività possa avvalersi di “imprenditori interni” in grado di svolgerla, fornendo risorse
complementari quali capitale finanziario, patrimonio immobiliare o strutture e competenze commerciali e
distributive. Pertanto, non tutte le risorse tecniche sono possedute da una sola parte: alcune attrezzature e
risorse come gli edifici, gli impianti centrali, i punti di vendita, i marchi commerciali sono posseduti da
un’altra. D’altra parte, la trasformazione e la generazione del prodotto e servizio finale è svolta da attori
che forniscono lavoro nonché risorse complementari, quali attrezzi speciali, software, know-how, capitale
relazionale. Inoltre essi assumono e gestiscono i propri collaboratori e ricevono ricompense per unità di
prodotto secondo schemi negoziati precedentemente, cioè sono anch’essi imprenditori. Per quanto anche
questo sistema, definito inside contracting, sia stato analizzato come un reperto archeologico diffuso nelle
economie agricole precapitalistiche - per esempio, nelle fattorie la macinatura del grano o la mungitura
erano affidate ad imprenditori specialisti che prestavano la loro opera a molte di loro - non è difficile
ritrovarne esempi moderni e altamente efficienti, dove le economie di specializzazione e la differenziazione
delle conoscenze per condurre un’attività si combinino con la specificità tra le risorse fornite dalle diverse
parti e con altre fonti di interdipendenza.
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CAPITOLO 1 2
O R G A N I Z Z A Z I O N E D E L L ’ I M P R E S A
1. CONFINI E COORDINAMENTO TRA UNITÀ ORGANIZZATIVE: UNA PROCEDURA DI ANALISI
Il quesito organizzativo più comune e centrale che un’impresa si può porre è: la struttura
organizzativa è “giusta” o “sbagliata”? Un errore di analisi organizzativa che si potrebbe facilmente
commettere nel risolvere questo tipo di problema sarebbe quello di cercar di ridurre i sintomi e le
disfunzioni manifeste investendo in “migliori meccanismi di coordinamento” tra unità. In realtà i costi della
struttura risultante potrebbero essere particolarmente elevati, qualora vi fossero problemi a monte nella
configurazione delle unità e delle loro responsabilità. In effetti, in quel caso si incorrerebbe nel doppio
costo di una divisione del lavoro inadeguata e di uno sforzo di coordinamento eccessivo, largamente
assorbito dalle necessità di rimediare ai conflitti e alle disfunzioni generate da quella divisione del lavoro.
Dunque è opportuno partire da un’analisi dell’efficacia e dell’efficienza della configurazione delle unità
organizzative, prima di esaminare i meccanismi di coordinamento.
In generale, per controllare i confini di un’unità organizzativa è necessario partire da un’unità di
analisi più elementare di quello dell’unità presa in considerazione. Come nel caso dei confini delle posizioni
di lavoro si sono considerate le operazioni unitarie elementari, così nel caso di unità organizzative
consideriamo attività più elementari che possano essere aggregate o meno in un’unità.
In linea di principio, l’analisi delle attività elementari potrebbe spingersi nel primo caso come nel
secondo fino a nuclei di attività tecnicamente inseparabili e alle relazioni tra queste. Tuttavia, controllare
l’efficacia e l’efficienza di un intero sistema di attività aziendali a partire dalle attività tecnicamente non più
separabili sarebbe di solito un processo costosissimo e dai benefici fortemente decrescenti quanto più ci si
allontana dal livello di unità che si vuole controllare. Pertanto, per esempio, nel caso SILCA questo tipo di
analisi fu effettivamente condotta sulla base di 45 attività “elementari”, ovvero considerate non più
utilmente disaggregabili per gli scopi di un ridisegno della macrostruttura. Quei 45 nuclei di attività erano
infatti strettamente omogenei sia dal punto di vista delle tecniche impiegate, sia dal punto di vista del
mercato di riferimento. Esempi di attività elementari erano, usando le denominazioni aziendali, le seguenti:
“Prospezione Italia”, “Prospezione Estero”, “Promozione e pubblicità”, “Vendita Italia”, “Vendita Estero”,
“Coordinamento agenti Italia”, “Coordinamento agenti Estero”, “Raccolta dati tecnico-commerciali Italia”,
“Raccolta dati Estero”, “Elaborazione tecnica progetti”, “Elaborazione commerciale progetti”, “Stesura
contratti di conferimento ordine Italia”, “Stesura contratti Estero”, ecc. A fini di semplificazione, l’analisi
sarà qui applicata ad una lista semiaggregata di 11 attività, e non alle originali 45, vedi figura 13.
Una volta individuate le “attività di base”, le variabili chiave da considerare, di cui è stato mostrato
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l’impatto significativo sull’efficacia delle strutture, sono le seguenti: l’incertezza ambientale e dei compiti;
le economie di specializzazione, scala e raggio d’azione, le interdipendenze tra attività, i limiti alle
dimensioni efficienti delle unità, e i possibili conflitti di interesse. Poiché tali variabili sono in gran parte
attributi delle relazioni tra attività, una buona base di lavoro è una matrice quadrata che riporti le attività
sia per riga sia per colonna.
Legenda:
T = Presenza di affinità tecnicaO = Presenza di affinità diorientamentiX = Interdipendenze reciprocheI = Interdipendenze sequenzialiK = Incertezze critiche
1.1. ANALISI DELLE INCERTEZZE
Le attività di base possono essere caratterizzate da un grado di incertezza più o meno elevato e
diverso l’una rispetto all’altra. La diversità nel grado di incertezza delle attività è una barriera (una fonte di
costi) alla loro aggregazione. Infatti, il fatto che lo svolgimento di un’attività sia certo o prevedibile senza
importanti eccezioni rispetto a un processo regolare o “a norma” implica che quell’attività possa essere
governata in modo esteso tramite regole, programmi e procedure. Differentemente, quanto più un’attività
presenta eccezioni e richiede ricerca di nuove soluzioni ad hoc, tanto più richiederà discrezionalità locale
degli operatori. Questa differenza nell’organizzazione di attività a basso ed alto grado di incertezza rende
difficile la loro aggregazione per almeno tre ordini di motivi.
In primo luogo, le attività più programmabili, se svolte dalle stesse persone che dovrebbero
svolgere anche attività poco programmabili, “scacciano” queste ultime dall’attenzione degli attori. In
secondo luogo, attività a forte aleatorietà e intensità di ricerca richiedono un ambiente organizzativo del
tutto peculiare: le attività non dovrebbero essere formalizzate e standardizzate, i compiti non dovrebbero
essere divisi troppo chiaramente e precisamente tra singole persone, la valutazione dovrebbe avvenire sui
risultati di lungo periodo ed essere integrata da valutazioni sulla professionalità, dovrebbe esservi
scarsissima enfasi sulla punizione degli errori e molta sui premi per le innovazioni riuscite . Infine, il grado di
incertezza delle attività influenza numerosi aspetti delle conoscenze professionali e tecniche e degli
orientamenti cognitivi ed emotivi che consentono agli operatori di svolgere efficacemente. Pertanto, la
Figura 13 - Matrice semplificata della attività nel caso SILCA
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separazione di attività con diverso grado di incertezza in diverse unità genera vantaggi di apprendimento e
di specializzazione.
Non solo è importante valutare le differenze nel grado di incertezza, ma anche l’intensità e
l’importanza relativa delle fonti di incertezza nelle diverse attività. Se tali hanno effetti importanti per
l’efficacia e l’efficienza complessiva dell’impresa sono dette incertezze critiche. L’analisi delle incertezze
critiche è importante per l’assegnazione di compiti di coordinamento a un’unità piuttosto che ad un’altra. Il
fatto che un’attività di trasformazione sia soggetta a “incertezze critiche” comporta sarà efficace ed
efficiente assegnare ad essa anche attività o compiti di coordinamento: essa ha il polso delle nuove
esigenze ed essa potrà farsi carico di comunicarle ad altre attività con maggior precisione e minori costi che
nessun altro.
Per esempio, nel caso SILCA le principali fonti di incertezza si situano dal lato del cliente più che dal
lato tecnico-produttivo o sul fronte degli acquisti. Infatti i materiali e le tecniche di produzione sono
abbastanza tradizionali, cosicché la produzione si qualifica come un’attività a bassa varianza; le componenti
reperite sul mercato sono pezzi standard e non si hanno pertanto relazioni particolarmente idiosincratiche
o complesse con i fornitori. Al contrario, i clienti sono fonte di continue variazioni solo tra impianto e
impianto commissionato, ma anche nel corso di realizzazione di una commessa con richieste di
cambiamenti di tempi e specifiche. Pertanto, nella matrice della figura precedente le attività di
progettazione preventiva e di trattative di vendita sono contrassegnate come incertezze o varianze critiche.
1.2. ANALISI DELLE SPECIALIZZAZIONI
Un importante aspetto della specializzazione è costituito dalle tecniche e dagli orientamenti
culturali che devono essere bagaglio delle figure professionali operanti in ciascuna delle attività (nel
linguaggio manageriale si definirebbe il modello di competenza); e la diversità tra competenze è un fattore
importante di progettazione delle unità.
Il profilo delle tecniche e delle conoscenze correlate ad elevate prestazioni in diverse attività può
essere costruito facendo riferimento all’arco delle discipline e specializzazioni professionali utilizzate così
come alle componenti tacite, eventualmente distinte per prodotto, mercato o altre segmentazioni rilevanti
nello specifico caso aziendale. Per esempio, considerando un’attività di vendita, si dovrà distinguere in che
misura lo svolgimento efficace di tale attività presupponga conoscenze di tecniche di relazioni pubbliche
e/o interpersonali e/o tecniche specifiche di negoziazione; conoscenze specifiche del prodotto; conoscenze
scientifico-tecnologiche di base e applicate (ingegneristiche, chimiche, ecc.) implicate dalla complessità del
prodotto; conoscenze dei processi produttivi del cliente e dei mercati dei propri clienti; conoscenze dei
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mercati dei propri fornitori, conoscenze economiche di quadro, ecc.
L’analisi delle componenti più soft dei profili cognitivi efficaci nelle diverse attività può avvalersi
delle dimensioni della cultura interna, e in particolare basarsi sulla differenza fra culture “rigide” e
“flessibili”; orientamento alla standardizzazione o all’innovazione; orientamento ai compiti, alle persone, o
a entrambi, e ai risultati; orientamento ai compiti, alle persone o a entrambi i risultati; orientamento al
breve e lungo termine; orientamento focalizzato e specialista o più generalista.
Per esempio, nel caso SILCA le attività dell’officina possono essere svolte con attenzione esclusiva
agli aspetti tecnico-realizzativi di ogni ciclo di lavorazione: gli orientamenti saranno concentrati su obiettivi
di riduzione dei tempi, riproducibilità dei cicli, qualità tecnica. Per contro, l’attività di trattativa di vendita di
impianti su commessa richiede competenze e sensibilità nei riguardi degli obiettivi di molte altre attività
dell’azienda nel suo complesso (costi, capacità produttive interne, decisione make or buy, flussi di cassa,
redditività della commessa, immagine aziendale e rapporti coi clienti).
In base ai modelli di competenza tecnica e culturale efficaci in ogni attività si possono valutare le
relazioni tra attività in termini di affinità o diversità di competenze. Per esempio, considerando le attività di
progettazione preventiva e di progettazione esecutiva nel caso SILCA, molti dei compiti necessari per lo
sviluppo esecutivo dei progetti sono semplicemente una versione più dettagliata di quelli svolti nella fase
preventiva. Le due attività sono cioè tecnicamente affini. Tuttavia, per quanto riguarda gli orientamenti
delle persone, la progettazione preventiva richiede il contatto col cliente e questo implica sensibilità ai
rapporti interpersonali, possibilità di spostamento, sensibilità agli aspetti economici oltre che tecnici,
capacità di non perdersi nei dettagli e creatività. La progettazione esecutiva al contrario richiede precisione,
attenzione ai particolari e concentrazione sugli aspetti tecnici.
1.3. ANALISI DELLE INTERDIPENDENZE
Le interdipendenze complesse, di tipo “intensivo” o “reciproco”, tra attività richiedono “mutuo
aggiustamento” e favoriscono, a parità di altre condizioni, l’aggregazione delle attività in una stessa unità.
Le interdipendenze sequenziali possono essere efficacemente regolate anche tra unità diverse da scorte,
prezzi o programmi. Le interdipendenze derivanti dall’uso di risorse comuni possono essere efficacemente
regolate anche tra unità diverse tramite regole di accesso alle risorse comuni, e da procedure di
comunicazione tra utenti.
Nel caso SILCA, le interdipendenze più importanti che legano le diverse attività sono di tipo
transazionale. La figura indica dove sono presenti interdipendenze sequenziali stringenti (I) e dove sono
presenti interdipendenze reciproche (X). Per esempio, i disegni e documenti prodotti dalla progettazione
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esecutiva della SILCA (attività 3) costituiscono input diretti sia per le decisioni di make or buy, sia per
l’emanazione di ordini di acquisto e di produzione secondo le specifiche desiderate.
Tutto il processo di definizione dei bisogni dei clienti, del tipo di Impianto che potrebbe soddisfarli e
delle modalità concretamente fattibili di realizzazione dell’impianto lega le prime quattro attività della
matrice in un blocco di interdipendenze reciproche. Al contrario, tra progettazione e officina si registra solo
un legame sequenziale.
Sia le economie di scala e raggio d’azione, sia i costi di controllo contribuiscono a definire i confini
efficienti di un’unità organizzativa. Il limite superiore alle dimensioni di un’unità può essere elevato se le
attività sono fortemente programmate e regolate da meccanismi formali, se lo stile di supervisione non è di
tipo accentrato, se gli obiettivi degli attori non sono in conflitto tra loro o con quelli del sistema
dell’impresa, se le comunicazioni sono chiare e quantitative anziché messaggi complessi e qualitativi.
Esistono anche limiti inferiori alle dimensioni delle unità organizzative, posti da problemi di
saturazione delle risorse data la scala a cui è correntemente svolta ogni attività. Domande chiave per la
stima della “dimensione minima efficiente” delle unità organizzative riguarderanno le capacità di ogni
singola attività di saturare risorse umane interamente dedicate o impianti interamente dedicati. Per
esempio, alla SILCA volumi di attività piccoli e molto variabili determinavano alti costi di sottoutilizzazione
delle risorse di progettazione preventiva ed esecutiva sotto un regime di separazione specialistica di queste
due attività in due uffici differenti.
1.5. CONFLITTI D’INTERESSE
L’assegnazione alle stesse persone di attività orientate ad obiettivi diversi e conflittuali può
generare forti sub ottimizzazioni nello svolgimento di entrambe le attività. In altri termini, la separazione
tra unità organizzative può essere efficace nel caso vi sia incompatibilità tra obiettivi e conflitto d’interessi.
Un problema di incompatibilità che si incontra spesso nella progettazione organizzativa è quello fra
attività per cui è efficace ed efficiente istituire controlli e le attività di controllo. Per esempio, nel caso SILCA
si era posto il problema dell’affidamento del controllo della qualità della produzione. Poiché il controllo
implicava esercizio di discrezionalità e giudizio da parte dell’unità di controllo e non una mera applicazione
di procedure standard, l’unità di controllo era stata separata dall’unità di produzione (e posta in staff alla
Direzione Generale). Anche il problema della collocazione delle attività di decisione make or buy
coinvolgeva aspetti di confl i tto d’interesse: in particolare la produzione aveva interessi suoi propri
all’internalizzazione delle attività. Pertanto, nonostante le affinità tecniche e le interdipendenze con la
produzione, questa considerazione portò all’allocazione della responsabilità delle decisioni make or buy
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all’unità degli acquisti, sia pur in comunicazione con la produzione.
1.6. ANALISI COMPARATA DI CONFINI ORGANIZZATIVI ALTERNATIVI
Le grandezze analizzate nei paragrafi precedenti forniscono altrettanti criteri o vincoli per
l’aggregazione delle attività in unità organizzative, che possono essere sintetizzati come segue.
· Le attività e le risorse dovrebbero essere aggregate in modo da massimizzare l’interdipendenza
all’interno di ogni unità e minimizzare l’interdipendenza tra unità. Tale criterio riflette un principio di
minimizzazione dei costi di coordinamento.
· Le attività e le risorse
dovrebbero essere
aggregate in modo da
minimizzare la
differenziazione
interna a ogni unità e
da massimizzare la
differenziazione tra
unità. Tale criterio
riflette un principio di
ricerca di economie di
scala e di
specializzazione e di
crescita delle
conoscenze che il
raggruppamento di
specialisti dovrebbe
generare.
· Le dimensioni di qualunque unità non devono superare il limite
oltre il quale l’incremento dei costi di controllo superi le
riduzioni nei costi di coordinamento e di produzione
precedentemente esposti.
· Non devono essere aggregate attività con interessi in conflitto o
incompatibili.
Legenda:T = Economie di specializzazione tecnicaO = Economie di specializzazione negli orientamentiX = Costi di coordinamento da interdipendenze reciprocheC = Costi di controlloS = Economie di scala e di scopeCI = Conflitti di interesse
Fig. 14 - Valutazione comparata di alcuni principali assetti alternativi delle unità
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Ma perché l’integrazione delle attività e risorse in una singola unità dovrebbe generare tali
benefici? In primo luogo perché costituire un’unità significa costituire un gruppo, in cui può aver luogo
un’interazione libera, intensa e frequente che permetta lo scambio e la generazione di conoscenze. Poi,
perché un’unità può essere dotata di un responsabile che applichi varie forme di coordinamento per
autorità in aggiunta e in supporto ai meccanismi di gruppo.
La figura 14 offre un quadro delle economie e diseconomie associate ad alcune principali ipotesi di riag-
gregazione delle attività della SILCA. Dal punto di vista metodologico, le valutazioni espresse nella figura
sono di tipo qualitativo, e mostrano la possibilità di trarre elementi conclusivi di progettazione anche
tramite giudizi ordinali (di maggiore/minore) sull’entità dei costi.
• Analisi. Alcuni blocchi di attività sono chiaramente candidati ad essere aggregati in un’unica attività,
poiché quasi tutte le variabili spingono nella stessa direzione. E il caso delle tre attività commerciali
(“contatto clienti”; “trattative di vendita”; “progettazione preventiva”) affini sul piano sia delle conoscenze
tecniche richieste sugli impianti, sia sul piano dell’orientamento al cliente e alla globalità del progetto
richiesto. Inoltre, esse sono altamente interdipendenti nel processo di definizione delle caratteristiche
tecniche ed economiche di ogni nuovo impianto. Lo stesso vale per le attività dell’area tecnico-produttiva
(“officina e magazzini”, “montaggi”, “collaudi”, “manutenzione”) che condividono gli stessi orientamenti e
un nocciolo di conoscenze tecniche comuni. L’unico problema è eventualmente rappresentato dalla
manutenzione e assistenza post vendita, che per i suoi contatti col cliente e la disponibilità di informazioni
di ritorno sulle sue esigenze, ha alcune affinità e interdipendenze con l’unità commerciale. Infatti, in altri
tipi di aziende l’assistenza post vendita è spesso aggregata all’area commerciale. Tuttavia, in questo caso
l’attività in questione ha contenuti quasi esclusivamente di manutenzione e assistenza tecnica all’impianto,
mentre il contatto col cliente a fini più ampi e già collocata nell’ambito dell’attività commerciale di
“contatto clienti”.
Meno univoche sono le soluzioni di aggregazione delle restanti attività. Per quanto riguarda gli
acquisti si pongono almeno due alternative: un’unità indipendente e un’aggregazione all’area tecnico-
produttiva. La prima alternativa può essere giudicata superiore alla seconda in termini di costi globali,
poiché l’unico costo significativo in caso di separazione è il costo di meccanismi di coordinamento nelle
decisioni di make or buy (quali riunioni, contatti laterali informali e procedure di decisione). Per le decisioni
make or buy, nella realtà SILCA le valutazioni dei costi mostrano una maggior efficienza dell’aggregazione di
tale attività all’unità degli acquisti, per maggiori affinità di orientamenti, minori conflitti d’interesse e minori
costi di controllo, rispetto all’aggregazione alla produzione. Con riguardo infine alla collocazione del
controllo qualità domina il criterio dell’incompatibilità di un’attività di controllo discrezionale della
produzione con le attività di produzione stessa.
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Il trade-off più complesso tra diverse categorie di costi riguarda la collocazione dell’attività di
produzione esecutiva. In effetti, nella realtà più vasta delle società impiantistiche le soluzioni organizzative
al riguardo sono molto varie. Per esempio, quanto minore è la percentuale di preventivi che diventano
ordini, tanto minore la convenienza a dettagliare i progetti già in fase di preventivazione, e quindi tanto
maggiore la differenziazione richiesta tra attività di progettazione preventiva ed esecutiva. Pertanto le
soluzioni più diffuse nelle grandi società impiantistiche contemplano unità molto differenziate (per esempio
la progettazione esecutiva più la produzione da un lato e la progettazione preventiva e il commerciale
dall’altro; o anche, dove le dimensioni lo permettono, con tre funzioni distinte: commerciale,
ingegnerizzazione e produzione) e contemporaneamente meccanismi di coordinamento potenti (per
esempio, responsabili di progetto o funzioni di integrazione attribuite all’unità di engineering).
Nel caso SILCA, la bassa complessità tecnica delle
commesse, le piccole dimensioni dell’attività e la percentuale
abbastanza elevata di preventivi trasformati in ordini concorrono a
privilegiare una soluzione di integrazione diretta della
progettazione esecutiva all’interno dell’unità tecnico-commerciale.
In base a tali analisi i confini efficienti delle unità
organizzative della SILCA Spa: risultano quelli disegnati
dall’organigramma riportato in figura (effettivamente adottato).
1.7. TIPI DI SPECIALIZZAZIONE DELLE UNITÀ ORGANIZZATIVE
Nei paragrafi precedenti l’analisi dei confini delle unità organizzative è stata applicata ad un caso di
azienda monoprodotto. In questo paragrafo generalizziamo l’analisi al caso di una compresenza di diversi
possibili criteri di specializzazione delle unità. Tradizionalmente, si contemplano due o tre tipi di
specializzazione delle unità: la specializzazione per “funzione”, per “prodotto” o per “mercato”. In linea di
principio, tuttavia, questi non sono i soli criteri possibili o interessanti; e, in pratica, essi si sono moltiplicati.
La specializzazione per funzione è il criterio più utilizzato e implica una divisione dei processi di
trasformazione in gruppi di attività omogenee dal punto di vista delle tecniche utilizzate, dei tipi di input, di
risorse, di competenze. Esso è alla base della costituzione delle tipiche funzioni aziendali - la produzione, il
marketing, la ricerca, l’organizzazione, il controllo, la finanza, ecc.
La specializzazione per prodotto o progetto: è la più importante alternativa al criterio precedente e
implica un raggruppamento di attività e fasi di trasformazione diverse - per esempio, produzione e vendita -
in quanto relative allo stesso output: prodotto.
Figura 15 - Confini efficienti delle unità nel caso
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L’organizzazione per processo è oggi un’opzione in grande diffusione, orientata a creare
responsabilità e competenza sulle relazioni tra input e output. I processi sono le catene di attività che
conducono ad output identificabili, anche se non necessariamente a “prodotti” finali. Può trattarsi di
output intermedi consegnati a “clienti interni”. Perciò la specializzazione per processo si oppone
soprattutto a quella per fasi e tecniche di trasformazione che spezzano le catene interne del valore e mira a
ridurre i costi lungo la catena (scorte, tempi di attesa, numero di trasferimenti, ecc.).
La specializzazione per sbocchi di mercato: l’importanza di tale criterio è crescente in una realtà
d’impresa che si vuole “orientata al mercato” e ha molte sfaccettature: i diversi mercati di sbocco intesi
come aree geografiche dalle esigenze e regole diverse, come segmenti di mercato o gruppi di consumatori
con profili diversi, nonché, si aggiunge di solito, come canali di distribuzione che operano in modo diverso.
La specializzazione per tipo di relazione o di partner. Le imprese non intrattengono solo relazioni di
scambio “di mercato”, ma anche, in misura crescente, relazioni “gestite”, “negoziate” e “reticolari” con
altre imprese e istituzioni pubbliche e private. Quando il governo delle relazioni esterne con altri attori
diventa critico, una specializzazione per tipo di partner o per tipo di relazione può divenire vantaggiosa.
Le grandi imprese, oltre ad impiegare una varietà di tecniche, producono una varietà di prodotti e li
offrono su diversi “mercati”. Pertanto, l’analisi delle relazioni tra attività presentato nei precedenti
paragrafi dovrebbe esser condotta su attività distinte non solo per funzione, ma anche per prodotto, per
mercato o altro per comprendere quale criterio di aggregazione presenta il miglior rapporto benefici/costi.
Tuttavia, piuttosto che scegliere “il” tipo di specializzazione delle unità più conveniente, combinarne più
d’uno porta spesso ad individuare soluzioni organizzative superiori, capaci di catturare diversi tipi di
vantaggi simultaneamente.
1.8. MECCANISMI DI INTEGRAZIONE TRA UNITÀ
Per quanto molti problemi di diversità e interdipendenza tra attività si possano risolvere attraverso
il disegno delle unità organizzative, molte saranno le interdipendenze “residue” che legano le unità
organizzative tra loro. La presenza inevitabile di tali interdipendenze crea fabbisogni ulteriori di
coordinamento attraverso meccanismi di coordinamento o di “integrazione” tra unità differenziate. Il
fabbisogno (e il costo) di coordinamento sarà tanto maggiore quanto più le attività sono interdipendenti e
quanto maggiore è la loro differenziazione in termini di orientamenti e cultura, di conoscenze e competenze,
di obiettivi e di interessi.
I principali meccanismi di coordinamento applicati in pratica e considerati nella letteratura sulle
strutture organizzative sono sintetizzati nella tabella di fig.16. Come si può notare, essi sono riconducibili ai
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meccanismi di coordinamento analizzati in generale nella seconda parte del libro e sono presentati in modo
“ordinato” secondo una capacità crescente di governare l’interdipendenza e la differenziazione delle
conoscenze e degli interessi tra le unità.
Se le interdipendenze sono
“semplici”, dovute alla costituzione e
all’uso di risorse comuni o a
transazioni sequenziali, un insieme
di meccanismi efficaci e di costo
limitato è costituito dai prezzi di
trasferimento; dai programmi, le procedure e i piani; e dalle decisioni gerarchiche.
Se le interdipendenze sono “complesse”, reciproche o intensive, le unità differenziate devono
comunicare e conoscere molto di più e direttamente delle rispettive attività. Pertanto, saranno necessari
canali di comunicazione e aggiustamento reciproco come i “ruoli di collegamento” (responsabili di relazioni
e consultazioni), gli “organi di integrazione” (responsabili di decisioni trasversali rispetto alle unità da
collegare, come i responsabili di prodotto rispetto alle unità funzionali), i gruppi (riunioni, comitati, task
forces, ecc.). Un intervento gerarchico efficace può essere solo di controllo residuale e arbitrato. Il
coordinamento tra unità organizzative può richiedere anche la condivisione di alcuni diritti di proprietà,
come la partecipazione ai risultati economici dell’impresa, se le attività sono fortemente innovative e
differenziate.
1.9. NEGOZIAZIONE DELL’ORGANIZZAZIONE INTERNA
In questo paragrafo si offrono alcuni allargamenti dell’analisi che includono le conseguenze per le
strutture organizzative di differenze e conflitti tra le preferenze degli attori organizzativi che riguardino non
solo le azioni da intraprendere ma anche le forme organizzative stesse con cui regolare le attività.
Si consideri, per esempio, il caso di due imprese che si fondono: esso di solito pone difficili problemi
di riorganizzazione interna. Infatti, l’unificazione dei diritti di proprietà sulle risorse tecniche è
relativamente semplice da attuare rispetto all’unificazione di due strutture organizzative. Una situazione
organizzativa ricorrente da cui si parte dopo una fusione è una giustapposizione delle due strutture
preesistenti, con tutte le duplicazioni e le incongruenze che questo comporta rispetto ai modelli efficienti e
coerenti di organizzazione finora esaminati. Tuttavia, chiedersi qual è la struttura “migliore” in una
situazione di questo tipo, significa chiedersi anche “per chi”, dato che gli interessi di diversi attori,
tipicamente divergono. E il caso degli interessi e preferenze dei gruppi proprietari e dei gruppi manageriali
Fig. 16 - Meccanismi di integrazione dell'organizzazione interna
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delle due ex aziende indipendenti.
Applicando gli strumenti di analisi negoziale sviluppati nel capitolo 7, si può rispondere a domande
come: quanto la soluzione organizzativa trovata era efficiente ed equa? I due gruppi di interesse furono
abili nell’allargare la torta in modo da mantenere intatte le risorse e i diritti di cui godevano
precedentemente. Nessun serio problema di conflitto interno emerse al momento. Che gli interessi fossero
in effetti più conflittuali, che si sarebbe dovuto negoziare più duramente e che la soluzione trovata fosse
troppo indulgente fu chiaro solo successivamente, anche per la contrazione della domanda e la
compressione delle “risorse in eccesso” sostenibili.
2. CONFIGURAZIONI ALTERNATIVE DI ORGANIZZAZIONE INTERNA
La varietà possibile di forme organizzative interne è almeno tanto ampia quanto lo è la varietà di
combinazioni possibili tra tutti i diversi particolari meccanismi di coordinamento e tutte le particolari
modalità di divisione dei diritti di azione, decisione, controllo e proprietà tra sotto-unità. Dunque la
“tipologia” qui presentata non implica il messaggio che deviazioni dai singoli tipi siano fonte di imperfezioni
o disfunzioni. Tuttavia è utile disporre di un portafoglio di soluzioni o forme conosciute, salienti, ricorrenti,
e di cui sono già state sperimentate le principali condizioni d’uso.
Di solito la classificazione e la comparazione tra forme interne viene effettuata tra coppie di schemi
contrapposti: tipicamente le strutture di tipo “unitario” (tra cui predominano le strutture “funzionali”); e le
strutture “divisionali” o “multidivisionali” (tra cui predominano le strutture specializzate per prodotto o
mercato). Tuttavia, in linea di principio e oggi anche di prassi, diversi criteri di specializzazione (per
funzione, prodotto o altro) possono combinarsi con diversi sistemi di responsabilizzazione delle unità e dì
governo: responsabilità di risultati parziali e governo tramite meccanismi a connessione forte, come nelle
forme unitarie, o responsabilità di risultati economici finali e governo tramite meccanismi a connessione
debole, come nelle forme divise.
2.1. FORME UNITARIE
Non tutte le imprese crescono, ma, se vi sono i presupposti economici e organizzativi per
l’espansione dei confini efficienti dell’unità-impresa, allora una prima grande classe di strategie di crescita
consiste nell’integrazione all’interno di una impresa dei principali processi o funzioni relativi a un
determinato tipo di prodotti. Questo tipo d’impresa è specializzato su un singolo prodotto o su una linea di
prodotti, e ha le competenze per svolgere molti o tutti i principali processi funzionalmente differenti relativi
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al prodotto: la ricerca e sviluppo, la produzione, la commercializzazione, gli approvvigionamenti, le funzioni
ausiliarie (o di “staff”) rispetto a quelle di gestione caratteristica, quali la finanza, la rilevazione e il
controllo, l’organizzazione e il personale. L’assetto strategico e organizzativo generato da questo sentiero di
sviluppo è quello classico dell’impresa industriale di medie e medio-grandi dimensioni, le cui principali
sotto-unità sono le “funzioni”.
Per quanto tipico dello sviluppo delle imprese industriali, quello descritto non è l’unico sentiero di
sviluppo possibile verso una forma organizzativa che integri “molteplici attività” e “molteplici risorse”, pur
rimanendo una forma “unitaria”. Si consideri per esempio la figura 17, che riporta la struttura organizzativa
tipica di un grande albergo.
Una struttura “funzionale” può essere difficile da definire in alcune situazioni: non tanto per
“imperfezioni” o “ibridazioni”, ma perché il “prodotto” offerto o il “processo” per ottenerlo tendono a
coincidere con la differenziazione delle “tecniche” applicate, come per esempio spesso accade nelle attività
di servizio, dove la “produzione” tende a coincidere con “derogazione” e la consegna
Così le unità fondamentali tipicamente osservate in settori come l’ospitalità o le banche e
assicurazioni o la sanità costituiscono cluster di attività che rappresentano spesso contemporaneamente
funzioni, processi e linee di servizi. Tuttavia, tali strutture restano strutture “unitarie” e non “divisionali”, in
ragione del modo in cui la divisione del lavoro tra di esse è definita. In uno schema “unitario” i confini tra
unità sono specificati in termini di diritti e responsabilità di azione e di decisione differenziati; mentre in uno
schema “divisionale” i confini tra unità sono definiti anche da diritti di controllo e di ricompensa residuali
sulle azioni e decisioni intraprese.
Figura 17 - Struttura organizzativa di un grande albergo
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• Forma unitaria burocratica. Un primo tipo di forma organizzativa funzionale si è meritata il titolo
di machine bureaucracy - e sarà qui definita forma unitaria burocratica. Infatti, la specializzazione per
competenze tecniche dei principali organi, unita alla depersonalizzazione dei ruoli e delle posizioni
organizzative come aggregati di responsabilità indipendenti da chi li assume, alla formalizzazione dei
compiti, alla chiara divisione non solo orizzontale tra unità funzionali ma anche verticale tra organi di
decisione e controllo e organi operativi, sono le caratteristiche definitorie di un’organizzazione burocratica
in generale.
Una “macchina organizzativa”, predefinita e specializzata, può essere più efficace ed efficiente,
rispetto a forme più flessibili, se i beni e i servizi da produrre, i clienti da servire e le loro esigenze, i
concorrenti e le loro possibili mosse, i fornitori e le loro condizioni, le tecnologie e i processi di
trasformazione sono sostanzialmente stabili e conosciuti. Queste condizioni si possono verificare quando
un’impresa operi in mercati ampi, con clienti che possono essere soddisfatti con prodotti dai cicli di vita
lunghi e dalla qualità standard, e quando l’impresa scelga effettivamente strategie di competizione sui costi
e standardizzazione dell’output.
Questo assetto, definito anche “sistema organizzativo meccanico” è di solito ripetuto all’interno di
ogni unità senza differenziazione organizzativa di rilievo, non solo negli aspetti strutturali di elevata
divisione del lavoro e formalizzazione. Per esempio, all’interno di tutte le unità, anche se differenziate per
competenze ed obiettivi, come la produzione, la vendita e lo sviluppo, in condizioni generali di bassa
complessità informativa, lo stile di direzione può essere piuttosto accentrato, i controlli frequenti, gli
standard di risultato formulati in modo preciso e a breve termine.
• Burocrazia professionale. Un secondo tipo di forma organizzativa unitaria-burocratica è stata
definita burocrazia professionale. Essa si distingue dalla precedente per il diverso mix di meccanismi di
coordinamento, centrato sulla standardizzazione delle conoscenze e delle competenze anziché sulla
standardizzazione dei materiali, dei processi di trasformazione e degli output; e sulla negoziazione tra unità
anziché sulla supervisione. Grazie a questo meccanismo i grandi sistemi di servizi complessi ma
relativamente stabili - come le scuole o gli ospedali - possono trasformare su vasta scala e in modo
relativamente sistematico materie prime estremamente variabili (salute e competenze delle persone).
Questa forma organizzativa sembrerebbe particolarmente legata ad attività di servizio piuttosto
che industriali, e più precisamente di servizi professionali. Tuttavia, poiché in non poche attività industriali
la componente di servizio è diventata essenziale è possibile ipotizzare una tendenza alla diffusione di tale
forma anche in alcuni settori industriali. Per esempio, alcune recenti ristrutturazioni organizzative in grandi
imprese del settore dell’elettronica e delle telecomunicazioni, come l’AT&T e IBM, si sono basate su idee
quali la riduzione del numero dei livelli gerarchici e dell’uso della supervisione come meccanismo di
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coordinamento, e sulla distinzione tra ruoli di “manager” (responsabile di risorse umane e finanziarie) e
ruoli di “professional” (fornitore di competenze) in ragione della crescita attuale e prospettica del numero e
dell’importanza di questi ultimi. È pertanto possibile che questo tipo di imprese assuma in futuro alcune
delle caratteristiche organizzative delle burocrazie professionali, come la doppia struttura gerarchica
amministrativa e professionale, il decentramento delle decisioni basate sull’applicazione del know-how
professionale, pesanti meccanismi di selezione e formazione.
• Forma ad alta differenziazione e alta integrazione. Esistono forme organizzative unitarie ma non
burocratiche? La risposta organizzativa al problema della flessibilizzazione delle strutture unitarie, con
riferimento soprattutto alle strutture funzionali diffuse nelle imprese industriali, è stata cercata
intensamente, in pratica e in teoria, a cavallo tra gli anni ‘60 e 70.
Le principali “riforme” strutturali individuate come risposta a quei problemi afferiscono ad
entrambi gli aspetti fondamentali della struttura e dei processi e meccanismi organizzativi. In particolare si
è mostrato che l’efficacia organizzativa è correlata a modifiche nel profilo organizzativo interno delle
funzioni che devono governare i sotto-insiemi di attività maggiormente interessati dalla complessità
informativa, e nel mix dei meccanismi di coordinamento e controllo delle unità funzionali.
Un’ampia serie di ricerche ha ipotizzato ed empiricamente mostrato che le imprese maggiormente
efficaci hanno adottato, entro quelle funzioni incerte e critiche, assetti organizzativi “organici” e “flessibili”:
bassa formalizzazione e divisione delle attività; processi decisionali e stili di direzione decentrati e
improntati a logiche “euristiche” e di ricerca di soluzioni nuove; controlli poco frequenti e orientati ai
risultati di lungo termine.
Come teoricamente ci si può aspettare, il risultato concordemente trovato è stato che le imprese
relativamente più efficaci ed efficienti in condizioni di alta differenziazione e alta interdipendenza tra le
unità funzionali, riducono l’intensità d’impiego di meccanismi relativamente predefiniti e/o accentrati come
le procedure, la programmazione, la standardizzazione e la gerarchia, e intensificano l’uso di strumenti più
flessibili, ad hoc e partecipativi, come le relazioni orizzontali dirette, la decisione congiunta interfunzionale,
i gruppi di lavoro, i ruoli e gli organi dedicati all’attività di coordinamento tra le funzioni.
Con riferimento specifico alle strutture funzionali si possono distinguere tre classi di organi
d’integrazione, che storicamente sono stati messi a punto in risposta a “incertezze critiche” o “fattori
strategici critici” collocati in diverse aree o per integrare le funzioni secondo diversi criteri (prodotto,
processo, ecc.).
1. Organi d’integrazione per prodotti e clienti. Il più noto e diffuso degli organi volti all’integrazione
delle principali funzionali di linea, sviluppo, produzione e commercializzazione con finalità di ottimizzazione
del marketing mix dei prodotti è il product manager.
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I product manager sono largamente impiegati soprattutto nelle imprese che gestiscono un’ampia
gamma di prodotti in uno stesso settore: per esempio, prodotti alimentari, detersivi, prodotti farmaceutici.
Altre importanti figure di integrazione con caratteristiche simili al product manager, sono i brand manager
e gli account manager. In questi casi le esigenze critiche attorno alle quali integrare le funzioni non sono
tanto i prodotti, quanto, rispettivamente i marchi o i clienti (conti-clienti). Per esempio, le imprese che
producono e commercializzano beni industrialmente poco differenziati e commercializzati con molte
varianti sotto diversi marchi possono far efficacemente ricorso ai brand manager nell’organizzazione
commerciale. Gli account manager sono invece figure nate per coordinare le funzioni di linea in modo
orientato alla gestione delle relazioni con altre aziende, fornitrici o distributrici, in situazioni di alta
concentrazione del mercato di sbocco e importante identità e potere negoziale dei partner.
Gli organi di integrazione ad orientamento commerciale sono spesso posti alle dipendenze della
Direzione Commerciale. In situazione di particolare complessità e interdipendenza possono assumere un
orientamento più generalista e trovarsi direttamente alle dipendenze della Direzione Generale. Tali organi
di integrazione si avvalgono del supporto e dello status loro conferito dalla vicinanza a posizioni di alta
direzione, ma non possono avvalersi dell’autorità come modalità di coordinamento tra le funzioni. Il loro
ruolo è tipicamente intermediario e mediatore nei processi di confronto e negoziazione interfunzionale.
2. Organi d’integrazione per progetti. Il più importante e rappresentativo strumento di questo tipo
è il project manager. Egli è responsabile di organi tipicamente collegiali creati ad hoc per risolvere problemi
tipici di sovrapposizione alcune diverse specializzazioni funzionali. Il progetto può essere lo sviluppo di un
nuovo prodotto, la realizzazione di una commessa industriale, lo sviluppo e l’attuazione di un programma di
formazione di automazione.
Come il product manager, anche il project manager si è nel tempo emancipato dalla sua originaria
matrice funzionale - cioè dal suo orientamento prevalentemente tecnico - per diffondersi nelle aziende
come strumento valido anche per problemi di natura non tecnica.
3. Organi di integrazione per processi. Un terzo tipo di organi integrano le funzioni con un
orientamento all’ottimizzazione e al controllo di processi. Per esempio, la figura del capo commessa è
utilizzata anche in imprese di medie o medio-piccole dimensioni per controllare e coordinare i processi di
avanzamento della commessa. Più in generale, e più recentemente, si costituiscono figure di process owner
con responsabilità più ampie e imprenditoriali sull’efficienza complessiva di “catene del valore” interne.
In conclusione, le strutture organizzative che da un lato costituiscono unità organizzativamente
differenziate attorno ai diversi nuclei di conoscenze specialistiche e ai diversi processi decisionali, mentre
d’altro lato impiegano un mix complesso di meccanismi e organi d’integrazione, sono state chiamate forme
ad alta differenziazione e alta integrazione.
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• Forme unitarie reticolari. La “nuova forma” di organizzazione che ha attratto il massimo interesse
nel corso degli anni 70 è la forma a matrice. Le strutture a matrice furono il naturale sviluppo e
l’istituzionalizzazione di una logica organizzativa doppia fondata sia sulla specializzazione funzionale sia
sull’integrazione tra le funzioni orientata e specializzata per prodotti. Una struttura a matrice per funzioni e
prodotti rende permanente la doppia appartenenza di tutti i partecipanti al sistema sia a un’area di
specializzazione funzionale, sia a uno o più sottosistemi di attività di produzione di uno specifico output.
Per esempio, in molte imprese o enti del cosiddetto terziario avanzato si trova efficacemente
applicata questa forma organizzativa. Infatti, la sofisticazione tecnica e la lunghezza dei cicli di
apprendimento delle attività funzionali rendono efficace il mantenimento di raggruppamenti di specialisti
ed esperti delle singole aree funzionali. D’altro lato, l’erogazione di servizi efficaci al cliente genera
significative interdipendenze tra le specializzazioni che possono essere risolte solo tramite confronti diretti
tra gli specialisti, orientati alla soluzione dei problemi dello specifico prodotto-servizio.
Nei settori industriali, la forma a matrice è diffusa nella regolazione di attività ad alta sofisticazione
tecnica e tasso di innovazione, come le aziende operanti nel settore aerospaziale, o le società di ingegneria
e impiantistiche.
Le strutture a matrice sono state spesso descritte come mondi incerti e ambigui, in cui è difficile
orientarsi. Infatti, la “doppiezza” di tale forma coinvolge tutti i meccanismi di coordinamento tipicamente
impiegati: la gerarchia, che si esprime nelle due figure dei responsabili di prodotto e di funzione; la
programmazione delle attività interne alle funzioni che si interseca e si scontra con quella di produzione dei
prodotti/servizi/progetti; i sistemi di incentivazione che seguono in parte una logica di risultato nel
prodotto e in parte una di prestazione specialistica; i processi di decisione congiunta che assumono assai
spesso i connotati della negoziazione tra più parti in conflitto.
Il limite fondamentale è di complessità informativa gestibile da una struttura che vuole prevedere e
governare una rete fitta di relazioni, assegnando responsabilità, formalizzando, prescrivendo quali contatti
è necessario avere di quale tipo su quali problemi. Nonostante sia stato detto che le strutture a matrice
“ampliano la capacità di gestire informazioni”, ciò è vero rispetto ad una struttura gerarchica e solo in
misura limitata.
Un’alternativa strutturale consiste in una forma che permetta ma non predefinisca le relazioni tra
molteplici unità a diversa specializzazione. Infatti, nel corso degli anni ‘80, le “nuove forme” di
organizzazione sono state definite tout court “reti interne”.
L’idea base che distingue tali forme dalla matrice, è peraltro rintracciabile anche in contributi
antecedenti sull’organizzazione delle attività altamente innovative e professionalizzate come la forma
organica e la forma adhocratica. Questa idea base consiste nella de-enfatizzazione e nell’indebolimento
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della struttura stessa come sistema stabile di assegnazione di attività per concepire il sistema come un
sistema di nodi o poli di competenza che si possono aggregare flessibilmente secondo necessità.
Una forma organizzativa di questo tipo è necessariamente molto piatta, al limite è un reticolo di
unità sullo stesso piano. I meccanismi di integrazione dominanti sono la comunicazione diretta, la decisione
congiunta e la negoziazione tra le parti; all’interno di architetture incentivanti (di diritti di ricompensa
residuale e proprietà in particolare) allocati in modo decentrato e condiviso.
• Problemi e costi delle forme unitarie. Il grande vantaggio della struttura unitaria in termini di
efficienza risiede nelle economie di scala e specializzazione realizzabili dall’aggregazione delle attività
tecnicamente omogenee. I grandi problemi sono la generazione di comportamenti orientati a obiettivi
parziali e l’indistinguibilità dei risultati economici di prodotto-servizio all’interno della produzione di
squadra cui contribuiscono le varie funzioni. A tali due problemi sono collegati i limiti alle dimensioni e alla
complessità dei sistemi di azione economica regolabili con un assetto unitario.
La specializzazione per funzioni tecnicamente omogenee porta con sé una segmentazione degli
obiettivi, dei sistemi di ricompensa, delle culture organizzative all’interno del sistema. Infatti, buona parte
delle patologie delle strutture funzionali sono legati all’incomprensione e al conflitto tra i membri delle
diverse funzioni. Tra le funzioni di produzione, marketing, ricerca, amministrazione, finanza, personale, vi
sono barriere dovute a linguaggi diversi, informazioni possedute diverse, schemi cognitivi diversi, obiettivi
organizzativi e persino valori diversi. Per esempio, la funzione produzione sviluppa di solito interessi
all’ampliamento della capacità produttiva interna, la funzione sistemi informativi all’espansione e alla
sofisticazione delle tecnologie informatiche applicate, la funzione commerciale all’ampliamento delle forze
di vendita, e così via. Gli stessi sistemi di valutazione e ricompensa ufficiali spingono al perseguimento di
obiettivi parziali e differenziati, come la riduzione dei costi di produzione, l’aumento dei ricavi, la qualità dei
prodotti, l’innovazione, il contenimento dei costi di struttura e organizzazione.
Un’altra serie di storie di crisi riguarda le difficoltà di misurazione dei risultati dell’attività
economica nelle strutture unitarie, al crescere del numero e della varietà degli output. Queste storie
documentano la crescente difficoltà, da parte di sistemi con un numero di prodotti-servizi in espansione, di
controllare e conoscere la performance specifica dei vari output che utilizzano in modo massiccio le risorse
comuni.
Sia l’una sia l’altra difficoltà sopra menzionate contribuiscono a generare diseconomie di
dimensione nei sistemi organizzati in modo unitario. All’aumentare del numero delle unità funzionali e dei
prodotti-servizi, i conflitti tra unità tendono a crescere, e così le difficoltà di controllo; le unità di governo
centrale dell’impresa vengono sempre più assorbite dalle attività di coordinamento, controllo e risoluzione
dei conflitti interni e il sistema non dispone più di attenzione libera allocabile alle decisioni strategiche di
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condotta esterna.
2.2. FORME DIVISIONALI
Una vasta e prestigiosa tradizione di ricerca che si è collocata tra la storia economica e
l’organizzazione ha mostrato come le forme organizzative divisionali si siano diffuse, sia pur con diversi
tempi e ritmi, in tutti i paesi industrializzati. Alle sue origini è stata messa a punto come stadio organizzativo
successivo all’esperienza di organizzazione unitaria e funzionale in risposta ai problemi posti dalla crescita
del numero, dalla diversità e dalla complessità dei prodotti e mercati su cui la singola impresa si trovava ad
operare.
Più in generale, l’opportunità di integrare all’interno di una stessa impresa prodotti e servizi diversi,
può essere generata da diversi fattori. Vi possono essere economie di scala e interdipendenze che legano
attività in diversi settori posti lungo la catena del valore aggiunto (produzione di materie prime, settori
manifatturieri, distribuzione). Vi possono essere economie di raggio d’azione e interdipendenze che
rendono economica la produzione congiunta di più output. Vi possono essere attività per le quali il
finanziamento interno da parte di una particolare impresa è più efficiente del mercato esterno dei capitali.
In questo paragrafo si presenteranno diverse forme organizzative divisionali, collegandole alle diverse
configurazioni di diversificazione e interdipendenza.
Si può notare in generale che, rispetto all’organizzazione unitaria, l’organizzazione divisionale si
basa su un principio radicalmente diverso: anziché cercare di unificare e integrare il più possibile aree
differenti ma fortemente interconnesse dell’impresa, si cerca di dividere l’impresa in combinazioni
produttive il più possibile indipendenti, in modo da poter far operare tali combinazioni - le “divisioni” - con
la trasparenza di risultati, l’innovatività e l’autonomia di “quasi-imprese” indipendenti.
Sotto l’aspetto della struttura proprietaria, le forme divisionali sono caratterizzate da un’accentuata
separazione fra proprietà e controllo e dall’allocazione di alcuni diritti di proprietà alle unità organizzative.
Questo ha portato a sostenere che, tra i loro vantaggi, vi è un comportamento più orientato agli utili per gli
azionisti e agli interessi generali dell’impresa rispetto alle forme unitarie. La forte separazione fra proprietà
e direzione implica l’instaurarsi di relazioni di agenzia a fondamento della gerarchia aziendale, con i relativi
costi, e contribuisce a spiegare perché la struttura efficiente della proprietà e del finanziamento sia
fortemente diffusa ed esterna. Le esigenze di investimento/disinvestimento in diversi rami di attività con
costi di riorganizzazione relativamente bassi e/o la diversità del quadro legislativo in diversi paesi in cui
l’impresa sia presente possono inoltre rendere efficiente il mantenimento delle società acquisite in forma
di società per azioni controllate o il conferimento alle unità divisionali dello status giuridico di imprese
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consociate.
• Divisionali burocratiche. Diverse forme divisionali possono esser definite in base al tipo di
relazione intercorrente tra le divisioni e al mix di meccanismi di coordinamento conseguentemente
efficace. Una prima configurazione può essere definita divisionale burocratica, perché, nonostante la
diversa natura ed estensione dei diritti e delle responsabilità di cui le unità sono titolari, i meccanismi di
coordinamento sono per altri versi simili a quelli delle forme burocratiche unitarie.
Supponiamo che la diversificazione dei settori in cui un’impresa opera sia dovuta all’opportunità di
integrare attività collocate lungo la catena del valore, ad esempio di acquisire fornitori o di entrare
direttamente nella distribuzione dei propri prodotti. L’organizzazione interna si trova così a dover regolare
una serie di interdipendenze sequenziali collocate lungo la catena del valore aggiunto. Lo farà usando
tipicamente meccanismi di coordinamento diversi da quelli utilizzati nelle forme unitarie per regolare le
interdipendenze sequenziali tra singoli processi tecnici. Infatti, nella forma divisionale, proprio in quanto si
possono valorizzare le attività governate da ogni divisione, e in quanto ognuna di esse utilizza conoscenze
diverse, si potranno assegnare prezzi di trasferimento tramite i quali indirizzare e incentivare
efficientemente gli scambi tra divisioni. Ad essi si affiancano altri meccanismi di importanza vitale per
questo tipo di divisionali: la pianificazione strategica per regolare l’utilizzazione delle risorse; gli staff
centrali di specialisti di tipo funzionale che coordinano le divisioni fornendo conoscenze specialistiche e
definendo politiche funzionali comuni - nel campo della ricerca tecnologica di comune interesse, del
marketing strategico, della gestione del personale, della gestione finanziaria, dei sistemi informativi, del
controllo di gestione. Un esempio tipico di grandi imprese rappresentative della combinazione strategia-
struttura descritta sono le compagnie petrolifere che hanno integrato a monte nell’industria estrattiva e
controllano altresì la raffinazione e le catene distributive.
• Divisionali integrate. La spiegazione fondamentale della diversificazione in diversi settori
industrialmente correlati è stata individuata nel governo efficiente di trasferimenti complessi e
riapprendimenti di know-how accumulato in un’attività originaria in nuove attività; e nell’utilizzo comune di
risorse complesse, specifiche rispetto all’impresa e tuttavia polivalenti rispetto agli usi.
Una struttura divisionale capace di governare effettivamente le interdipendenze reciproche
generate da questo tipo di transazioni complesse, non è tuttavia la struttura multidivisionale
completamente decentrata che in quegli stessi studi viene genericamente indicata (e illustrata qui come
ultimo tipo). Né sarebbe indicata una divisionalizzazione burocratica.
La regolazione di questo tipo di interdipendenza tra divisioni richiede meccanismi e organi di
coordinamento attraverso i quali il know-how possa circolare, il personale di nuove imprese possa imparare
da coloro che lo hanno in prima battuta appreso, l’assistenza tecnica possa verificarsi. Pertanto, le strutture
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divisionali più efficaci in queste circostanze dovrebbero essere dotate di organi di integrazione
interdivisionali significativi - e non basarsi pesantemente o solamente su meccanismi di coordinamento
interdivisionale relativamente semplici come la pianificazione, le politiche e gli staff centrali e i prezzi di
trasferimento.
La figura 18 illustra tre configurazioni
interessanti di divisioni integrate da organi
rispettivamente ad orientamento tecnico,
finanziario e commerciale in funzione della
natura del know-how critico trasversale. Per
esempio, alcuni gruppi di imprese europei
con elevata diversificazione su attività
industriali dipendenti da conoscenze
tecnologiche di fondo comuni hanno adottato
una struttura con divisioni o imprese “pilota”
per ogni gruppo di prodotti che dipende da
una stessa tecnologia (o core competence)
controllata principalmente da quell’impresa.
Essa è stata adottata per esempio nel gruppo
francese Saint Gobain, che controlla una serie
di tecnologie collegate alla lavorazione del
vetro o ad applicazione di parti di quel know-
how a settori di utilizzo e di attività di costruzione.
Un secondo esempio, è la struttura divisionale “a funzione critica”. In particolare, le compagnie di
assicurazione diversificate su diversi tipi di attività finanziarie e soprattutto in diversi paesi del mondo,
hanno nella gestione dei flussi finanziari e patrimoniali un’attività trasversale ai diversi servizi e critica per il
successo dell’impresa. Pertanto le attività di gestione finanziaria sono centralizzate e alla funzione
finanziaria sono attribuite responsabilità di coordinamento tra le divisioni geografiche.
Un terzo esempio, è quello di strutture divisionali per prodotto integrate trasversalmente da
responsabili di area geografica. In questo caso le attività relative ai diversi prodotti necessitano di un
coordinamento e un adattamento orientato alle specificità locali dei paesi in cui sono commercializzati e di
usufruire delle conoscenze e dei legami locali dei responsabili di paese.
• Divisionali reticolari. Uno dei più noti modelli elaborati sulla base dello studio dell’evoluzione
delle strutture multidivisionali è rappresentato in figura 19.
Figura 18 - Strutture divisionali ad alta specializzazione
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Oltre a mostrare, sulla base di un vasto studio empirico, diverse possibili e importanti traiettorie di
internazionalizzazione, il modello asserisce che processi di diversificazione “doppi” sia per mercati o paesi
(internazionalizzazione) sia per prodotti o servizi, possono essere governati da strutture a matrice
divisionale.
Come nel caso delle matrici in forme
organizzative unitarie, si tratta di strutture
con elevata capacità di trattamento di
informazioni e risoluzione di problemi
complessi, ma molto costose in termini di
processi di decisione e negoziazione. Inoltre,
nelle matrici divisionali, sia le direzioni
divisionali di zona geografica o paese, sia le
direzioni di prodotto sono responsabilizzate
sui risultati reddituali o residuali delle attività
secondo le due diverse aggregazioni e
gestiscono le risorse per raggiungerli. Data l’elevata interdipendenza tra divisioni e l’elevata incertezza dei
risultati, le ricompense di ognuno tendono a dipendere da fattori esogeni e dalle azioni degli altri
responsabili divisionali. Il livello di conflitto strutturale in queste forme organizzative è dunque molto
elevato per quanto possa essere in parte calmierato da alcune ferme di partecipazione agli utili complessivi.
Una risposta alle difficoltà delle matrici divisionali si potrebbe definire “multipolare” o a “rete
interna tra imprese”. Alcune grandi imprese, soprattutto multinazionali, sia in campo industriale che
commerciale, che in passato hanno sperimentato schemi matriciali, di fronte al problema del
coordinamento di attività su scala mondiale, o su scala continentale ma con disomogeneità interne molto
rilevanti come in Europa, hanno cercato soluzioni nel contempo decentrate e interconnesse, differenziate
nelle competenze e nelle identità delle divisioni. Tali soluzioni dovrebbero essere in grado di preservare
l’identità, la storia di apprendimento e il radicamento locale delle sussidiarie, piuttosto che derivare il loro
profilo da chiare e singole specializzazioni per prodotto-mercato nel quadro delle attività della casa madre.
Riferendosi al caso delle imprese a diversificazione internazionale è stato definito modello
“transnazionale” e distinto da modelli “globali” e “internazionali” e da modelli “multinazionali”. Queste
ricerche empiriche mettono in luce come il know-how e le risorse critiche sia tecniche sia di relazione con
gli ambienti locali siano controllate in modo diffuso in queste strutture e le opportunità di combinare in
modi diversi tali risorse e competenze in modo vantaggioso varino e non siano pianificabili con lunghi
orizzonti temporali. Entrambe queste circostanze rendono la formazione di coalizioni ad hoc, flessibili e
negoziate a livelli decentrati più efficaci di sofisticati meccanismi di integrazione predefiniti, poiché le
Figura 19 - Il modello di Stopford e W
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interdipendenze principali da gestire sono di tipo intensivo e ad alta complessità informativa (poco
prevedibili e legate all’innovazione). Queste forme organizzative sono state perciò evocativamente anche
chiamate eterarchie per sottolineare che, nonostante la centralizzazione dei diritti di proprietà su un vasto
gruppo di imprese, le possibilità d’uso della gerarchia come meccanismo di decisione e controllo sono ivi
molto ridotte.
• Multidivisionali e holding. La versione più radicale di struttura divisionale forma multidivisionale
senza altri attributi, “pura” o “M-form” si contraddistingue per un decentramento e una separazione
massima dei diritti di decisione e ricompensa residuale alle divisioni e per un uso esteso di meccanismi di
coordinamento e controllo simili a quelli del mercato, per quanto applicati all’interno di un’impresa. Le
divisioni sono largamente autonome nelle loro scelte e il coordinamento è assicurato principalmente da
regole del gioco e incentivi di tipo economico: quasi-prezzi interni, negoziati e sensibili ai livelli dei prezzi
esterni, investimenti e finanziamenti in funzione della redditività delle divisioni, scarsa presenza delle
tematiche tecnico-specialistiche a livello di direzione generale, controllo su parametri economico-finanziari.
Questa logica di funzionamento della forma multidivi-sionale è stata definita di “mercato internalizzato” o
di “mercato dei capitali interno” e si può combinare con il riconoscimento della personalità giuridica alle
divisioni che divengono imprese vere e proprie, controllate da un’impresa centrale che diviene una società
holding (detentrice di partecipazioni) che non entra nel merito di tematiche industriali e governa solo gli
investimenti e le tematiche finanziarie (M-form).
Presupposto per l’efficienza della forma M è che effettivamente vi siano interdipendenze poco
compiesse tra i diversi settori di attività, come più spesso accade nel campo dei beni di consumo che non
nei beni industriali, o nelle attività commerciali piuttosto che industriali. Tipicamente, queste circostanze
ricorrono nelle cosiddette conglomerate o imprese con “attività non correlate”. Poiché il presupposto in
termini di efficienza di tale tipo di diversificazione è stato individuato in una maggior informazione e
capacità di allocazione di risorse in funzione dei risultati attesi del mercato dei capitali interno rispetto a
quello esterno si deve sottolineare che qualche canale informativo e di circolazione di conoscenze
specifiche deve pur sussistere anche nelle strutture radicalmente, divise. Infatti, se così non fosse, se esse
simulassero un mercato in modo troppo realistico, esse non avrebbero vantaggi informativi rispetto ad un
mercato vero e proprio, mentre comporterebbero maggiori costi di struttura e governo centrale.
• Problemi e costi delle strutture divisionali. Le possibilità ora menzionate di perdita di vantaggi di
conoscenza e informazione di grandi gruppi conglomerati rispetto ad imprese indipendenti costituisce un
primo limite. Una patologia annunciata e ormai empiricamente constatata delle strutture divisionali [Porter
1987], è quella di una sorta di febbre dell’acquisizione e della diversificazione che ha portato l’espansione
delle imprese ben al di là dei propri confini efficienti. Il semplice impiego di risorse finanziarie in eccesso per
acquisire imprese - anche imprese redditizie - non è infatti giustificato in termini di efficienza né del sistema
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economico complessivo, né della singola impresa, a meno che l’acquisitore non abbia competenze o
informazioni specifiche o trasferibili nell’attività acquisita tale da rendere le sue decisioni di investimento
migliori.
Un secondo motivo per cui la struttura centrale di un’impresa divisionalizzata può diventare un
“guscio vuoto” è semplicemente la vastità del sistema coordinato. Qualunque sistema di attività economica
con elementi di coordinamento centrale incontra prima o poi dei limiti dimensionali. Le forme divisionali
fanno un uso limitato di meccanismi gerarchici, di pianificazione e di decisione congiunta ed un uso
maggiore dei meccanismi di coordinamento a decisione unilaterale rispetto ad altre forme interne, perciò
incontrano limiti dimensionali a livelli più elevati.
Nelle strutture funzionali vi è molta interdipendenza e occasioni frequenti di conflitto; tuttavia i
conflitti hanno spesso la natura di negoziazioni integrative. Nelle strutture divisionali vi sono meno occasio-
ni di conflitto poiché l’interdipendenza tra unità è più ridotta; tuttavia, quando emergono, i conflitti hanno
spesso natura distributiva (concorrenza interna per l’acquisizione di risorse umane e finanziarie). Inoltre, la
specializzazione funzionale crea molti conflitti di opinione, giudizio e preferenze percepite che possono
essere risolti tramite confronto. Nelle negoziazioni interfunzionali attorno alla configurazione di un nuovo
prodotto, le soluzioni integrative di solito abbondano. Al contrario, i conflitti tra divisioni sull’assegnazione
di risorse o su un prezzo di trasferimento sono giochi altamente distributivi. Analogamente, gli interessi di
allocazione delle risorse alle divisioni o imprese di un gruppo in funzione del ritorno sull’investimento, sono
in aperto contrasto con l’interesse di ciascuna divisione o impresa di veder finanziati i propri progetti.
E stato osservato che il livello di perseguimento di interessi locali o privati dei manager nelle forme
divisionali dovrebbe essere inferiore che nelle forme funzionali, poiché essi sono valutati su risultati reddi-
tuali finali e non su obiettivi parziali. Tuttavia, nelle strutture funzionali il controllo sui comportamenti è
anche meno difficile e costoso che in quelle divisionali.
Le strutture divisionali sono gerarchie assai più decentrate, con elevato potere discrezionale
assegnato alle divisioni e scarsa possibilità di osservazione e controllo delle azioni effettivamente
intraprese. E tanto maggiore è il decentramento, tanto più elevati sono i costi attesi di agenzia. Per
esempio, gli schemi di incentivo prevalenti nelle strutture divisionali trasferiscono in parte il rischio di
impresa sui manager responsabili di divisione. Conformemente alla teoria dell’agenzia, se i dirigenti
divisionali sono conferenti di lavoro avversi al rischio con riguardo alla variabilità delle loro ricompense
personali, i contratti che assicurano una loro collaborazione non eccessivamente distorta da obiettivi
manageriali e personali saranno molto costosi.
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SOMMARIO
Capitolo 5 ................................................................................................................................................................... 1
Autorità e agenzia ....................................................................................................................................................... 1
1. Forme di autorità ................................................................................................................................................ 2
Autorità basata sulla competenza. ................................................................................................................. 2Autorità basata sull’efficienza decisionale. ..................................................................................................... 2Autorità arbitrale. .......................................................................................................................................... 3Autorità basata sullo scambio. ....................................................................................................................... 3Autorità basata sull’efficienza nel controllo .................................................................................................... 5
2. La relazione di agenzia ........................................................................................................................................ 6
3. La dinamica sociale dell’autorità e dell’agenzia ‘ .................................................................................................. 8
3.1. Patologie................................................................................................................................................. 83.2. Elementi di stile di direzione.................................................................................................................... 9
4. I costi dell’autorità e dell’agenzia .......................................................................................................................10
Capitolo 6 ..................................................................................................................................................................14
I gruppi ......................................................................................................................................................................14
1. Comunicazione e decisione di gruppo ................................................................................................................14
1.1. Definizioni e proprietà ............................................................................................................................141.2. Patologie della decisione di gruppo ........................................................................................................161.3. Supporti alla decisione di gruppo............................................................................................................171 .4. Costi e limiti applicativi della comunicazione e decisione di gruppo........................................................19
2. Controllo di gruppo ............................................................................................................................................20
2.1. Rilevazione.............................................................................................................................................202.2. Valutazione ............................................................................................................................................212.3. Ricompensa e sanzione ..........................................................................................................................222.4. Costi e limiti del controllo di gruppo .......................................................................................................22
3. Tipi di coordinamento di gruppo .........................................................................................................................24
Capitolo 7 ..................................................................................................................................................................27
Negoziazione..............................................................................................................................................................27
1. Negoziare o non negoziare? ...............................................................................................................................28
2. Strutture fondamentali della negoziazione a due parti .......................................................................................30
3. Strategie negoziali .............................................................................................................................................34
3.1. Strategie di negoziazione distributiva ‘V .................................................................................................343.2. Strategie di negoziazione integrativa ......................................................................................................36
4. Negoziazioni a più parti.......................................................................................................................................37
5. Dinamiche relazionali e cognitive .......................................................................................................................38
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6. Controllo negoziale ............................................................................................................................................41
Capitolo 8 ..................................................................................................................................................................43
Norme e Regole .........................................................................................................................................................43
1. La struttura stratificata della cultura ..................................................................................................................45
2. I contenuti delle culture ......................................................................................................................................47
3. L’efficacia comparata del coordinamento culturale ............................................................................................50
4. I sistemi legali - formali ......................................................................................................................................51
4.1. Documenti “esterni” e “interni” .............................................................................................................524.2. Grado di formalizzazione interna ............................................................................................................53
5. Valutazione comparata della formalizzazione .....................................................................................................55
Capitolo 9 ..................................................................................................................................................................57
Forme di organizzazione – Analisi Configurazioni .......................................................................................................57
1. Attori, risorse e attività ......................................................................................................................................57
2. Le variabili fondamentali dell’analisi e della progettazione organizzativa ............................................................60
2.1. Economie di specializzazione ..................................................................................................................602.2. Economie di scala ...................................................................................................................................612.3. Economie di “scope” : .........................................................................................................................632.4. Complementarità ...................................................................................................................................652.5. Insostituibilità delle risorse .....................................................................................................................652.6. Complessità informativa e incertezza .....................................................................................................672.7. Forme di interdipendenza ......................................................................................................................702.8. Conflitto tra interessi e potenziale di opportunismo ...............................................................................722.9. Incertezza e divergenza tra interessi sulle soluzioni organizzative ...........................................................74
Capitolo 10 .................................................................................................................................................................76
oRGANIZZAZIONE DEL LAVORO - IL SISTEMA DEI CONTRATTI ..............................................................................................76
1. Valutazione........................................................................................................................................................76
1.1. Valutazione della prestazione .................................................................................................................781.2. Valutazione delle posizioni .....................................................................................................................821.3. Valutazione delle competenze ................................................................................................................831.4. Valutazione del potenziale .....................................................................................................................84
2. Retribuzione ......................................................................................................................................................84
2.1. Retribuzione in funzione della posizione .................................................................................................852.2. Retribuzione in funzione della prestazione .............................................................................................872.3. Politiche retributive ...............................................................................................................................89
3. Mobilità e sviluppo ..........................................................................................................................................91
3.1. Ricerca, selezione e mercato del lavoro ..................................................................................................913.2. Formazione ............................................................................................................................................933.3. Carriere ..................................................................................................................................................94
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4. forme di contratto di lavoro ................................................................................................................................97
Capitolo 11............................................................................................................................................................... 100
Organizzazione del lavoro – Le strutture ................................................................................................................... 100
1. Gli interventi sull’organizzazione del lavoro: una lunga storia ........................................................................... 100
2. Le variabili chiave nell’analisi e progettazione dei “sistemi dì lavoro” ................................................................ 102
2.1. Analisi del “sistema primario di lavoro” e delle “operazioni unitarie elementari” .................................. 1022.2. Analisi delle varianze e delle Interdipendenze....................................................................................... 1032.3. Economie di specializzazione, scala e “scope” ....................................................................................... 1042.4. Osservabilità delle prestazioni e criticità dei contributi di lavoro ........................................................... 1052.5. Analisi delle preferenze ........................................................................................................................ 1072.6. Approcci all’“ottimizzazione congiunta” dell’organizzazione del lavoro ................................................. 110
3. Strutture alternative di organizzazione del lavoro ............................................................................................. 112
3.1. Forme “capitalistiche” .......................................................................................................................... 1123.2. Forme collettive ................................................................................................................................... 1143.3. Forme imprenditoriali .......................................................................................................................... 115
Capitolo 1 2 ............................................................................................................................................................. 117
O r g a n i z z a z i o n e d e l l ’ i m p r e s a ...................................................................................................................... 117
1. Confini e coordinamento tra unità organizzative: una procedura di analisi ........................................................ 117
1.1. Analisi delle incertezze ......................................................................................................................... 1181.2. Analisi delle specializzazioni ................................................................................................................. 1191.3. Analisi delle interdipendenze ............................................................................................................... 1201.5. Conflitti d’interesse .............................................................................................................................. 1211.6. Analisi comparata di confini organizzativi alternativi ............................................................................. 1221.7. Tipi di specializzazione delle unità organizzative ................................................................................... 1241.8. Meccanismi di integrazione tra unità .................................................................................................... 1251.9. Negoziazione dell’organizzazione interna ............................................................................................. 126
2. Configurazioni alternative di organizzazione interna ......................................................................................... 127
2.1. Forme unitarie ..................................................................................................................................... 1272.2. Forme divisionali .................................................................................................................................. 134