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(AA 2013-14)
Appunti di Biotecnologie Industriali: ecologia microbica e bioprocessi
industriali
(LM Chimica Industriale, Sapienza Università di Roma)
Prof. Michele M. Bianchi
Sommario
Cicli della biosfera .................................................................................................................................... 2
Ciclo del carbonio .................................................................................................................................... 3
Ciclo di Calvin ........................................................................................................................................... 4
Degradazione della biomassa .................................................................................................................. 6
Ciclo dell’azoto ...................................................................................................................................... 15
Ciclo dello Zolfo ..................................................................................................................................... 23
Ciclo del fosforo ..................................................................................................................................... 25
Ambienti estremi ................................................................................................................................... 26
Ecologia microbica ................................................................................................................................. 32
Biofilm .................................................................................................................................................... 38
Biodiversità microbica ........................................................................................................................... 43
Produzione di metano ........................................................................................................................... 60
Produzione di idrogeno ......................................................................................................................... 77
Produzione di biodiesel ......................................................................................................................... 91
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Cicli della biosfera
Dal punto di vista degli elementi, il pianeta Terra si può considerare un sistema chiuso in quanto gli
scambi con lo spazio esterno sono praticamente nulli. Anche gli scambi tra la biosfera e l’interno del
pianeta sono piuttosto scarsi e limitati ai fenomeni eruttivi. Fondamentali sono invece gli scambi di
energia: luce e calore dal Sole e calore (energia geotermica) dall’interno. L’energia scambiata è alla
base delle trasformazioni degli elementi che costituiscono la biosfera: queste trasformazioni sono
continue, di tipo ciclico e sono costituite da alternanze di fasi minerali ed organiche, incluse quelle
vitali.
In tutti gli ecosistemi della biosfera, i microrganismi sono attori essenziali delle trasformazioni che
portano da una fase all’altra di questi cicli. Il materiale minerale inorganico viene assimilato e
trasformato in materiale organico da parte dei microrganismi e delle piante e quindi dagli animali.
Una parte importante del materiale minerale viene reso disponibile per le piante, che costituiscono
la parte maggiore del materiale organico (biomassa) della Terra, grazie alle capacità assimilative di
alcuni gruppi di microrganismi, in particolare dagli azoto-fissatori che organicano l’azoto atmosferico.
Questo passaggio del Ciclo dell’azoto è una fase critica del ciclo in quanto ne costituisce un passaggio
lento (collo di bottiglia). Gli organismi viventi, seguendo i loro cicli vitali, producono naturalmente
del materiale organico di scarto o morto. Anche questo serbatoio di materiale è principalmente
costituito da materiale di origine vegetale, soprattutto polimeri, e costituisce il substrato per un’altra
trasformazione importante operata dai microrganismi e cioè la trasformazione del materiale
organico in humus e materiale fossile. Questa trasformazione è anch’essa una fase critica del ciclo
(Ciclo del carbonio) ed è governata principalmente dalla degradazione dei polimeri vegetali. Infine, la
mineralizzazione chiude il ciclo con la trasformazione di humus e materiale fossile in materiale
inorganico minerale. I fenomeni di assimilazione degli elementi da parte degli organismi sono
catalizzati dagli enzimi mentre i fenomeni di trasformazione possono essere catalizzati sia dagli
enzimi (attività biologiche) che dalla combustione (naturale o antropica).
I cicli degli elementi sono caratterizzati da serbatoi di riserva, dove si accumulano grosse quantità
degli elementi, con i quali avvengono scambi lenti. Gli elementi presenti in questi serbatoi sono
abiotici e in forma non assimilabile. Possono essere di tipo gassoso, come l’anidride carbonica e
l’azoto, o di tipo sedimentario (insolubile o solubile), come i carbonati, i sali d’azoto e altri elementi
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(fosforo, zolfo, potassio, ferro ecc.). A seconda del tipo di serbatoio di riserva, il ciclo dell’elemento
può essere di tipo gassoso o sedimentario.
L’estrazione dell’elemento dal serbatoio avviene con un processo di assimilazione lento da parte dei
microrganismi. L’elemento trasformato in elemento assimilabile e/o solubile entra a far parte di una
sacca di scambio dove gli elementi sono presenti in piccola quantità e scambiati molto velocemente.
Ad esempio, gli elementi resi assimilabili dai microrganismi sono assorbiti dalle radici e trasferiti nel
materiale organico vegetale, che a sua volta rappresenta un serbatoio di elementi relativamente
grande e stabile. Un altro punto importate dei cicli degli elementi è la loro connessione tramite le
molecole biologiche composte da più elementi. Ad esempio, i cicli del carbonio dell’azoto e dello
zolfo sono connessi dalle proteine, i cui amminoacidi contengono i tre elementi.
Ciclo del carbonio
Il carbonio è il principale elemento della materia vivente, a parte i costituenti dell’acqua. Anche per
questa ragione il ciclo del carbonio è di importanza primaria nelle dinamiche della biosfera. I serbatoi
abiotici di carbonio della biosfera sono l’atmosfera e l’oceano (strati superficiali e profondità).
Serbatoi di scambio e/o trasformazione del carbonio sono il suolo, i sedimenti oceanici e il carbonio
fossile. I serbatoi biotici sono invece gli organismi viventi della superficie, che includono vegetali,
microrganismi e animali, e degli oceani, dove troviamo ancora microrganismi, vegetali e animali. Gli
scambi tra i vari serbatoi del carbonio avvengono sia in seguito a trasformazioni naturali che
antropiche e sono in un ambito compreso tra poche e centinaia di miliardi di tonnellate per anno di
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CO2. Le trasformazioni naturali più importanti sono i fenomeni chimico/fisici (evaporazione,
dissoluzione, precipitazione ecc) e atmosferici che si sommano a quelli dovuti alle attività naturali
degli organismi viventi. La trasformazione principale degli organismi viventi è il fissaggio
(organicazione) della CO2 atmosferica. Questo passaggio viene portato avanti dagli organismi
autotrofi (chemio-autotrofi e foto-autotrofi): piante e, soprattutto, microrganismi del suolo e
acquatici. Più di 100 Gt/anno di CO2 viene fissata dagli organismi e va a costituire il pool di carbonio
organico. Di questo, solo una piccola parte (circa il 10%) viene immobilizzato come sostanza organica:
il resto viene restituito all’ambiente dal metabolismo aerobico della respirazione.
Ciclo di Calvin
I principali organismi che fissano la CO2 sono le microalghe, inclusi i cianobatteri marini, e le piante.
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A seconda della fonte di energia che utilizzano – luce o composti chimici inorganici – appartengono
alle categorie nutrizionali dei fototrofi o chemiotrofi. L’organicazione della CO2 richiede anche potere
riducente, che questi organismi possono ottenere indirettamente dalla luce e dall’acqua,
direttamente dai composti chimici inorganici ridotti o dal metabolismo del carbonio. Il fissaggio della
CO2 avviene tramite il ciclo di Calvin, che consiste di tre fasi: fissaggio del carbonio (fase 1), riduzione
(fase 2) e rigenerazione del ribulosio 5-fosfato (fase 3). Le reazioni sono indipendenti dalla luce anche
se avvengono nei centri fotosintetici dei cloroplasti e delle strutture analoghe dei procarioti. La luce,
ovvero H2S, S, Fe2+, H2, NH4 negli organismi chemiotrofi, fornisce l’energia (ATP, NADPH). La fase 1
consiste di due passaggi catalizzati da enzimi specifici del ciclo di Calvin e quindi presenti solo negli
organismi che fissano la CO2: la ribulosio fosfato kinasi e la ribulosio bis fosfato carbossilasi (RuBisCo).
Il prodotto di questa fase è l’intermedio glicolitico 3-fosfoglicerato (2 moli per mole di ribulosio).
Questo intermedio può essere indirizzato nel metabolismo centrale del carbonio, ad esempio
attraverso gli enzimi della parte bassa della glicolisi, oppure reintegrare il ribulosio fosfato tramite la
seconda e la terza fase del ciclo di Calvin. La seconda fase, o fase di riduzione, sfrutta l’attività della
fosfoglicerato kinasi e della gliceraldeide fosfato deidrogenasi, due enzimi glicolitici che in questo
caso lavorerebbero nella direzione opposta rispetto alla glicolisi, producendo gliceraldeide 3-fosfato
con consumo di ATP e ossidazione di NADPH/H+. Successivamente, la gliceraldeide 3-fosfato può
essere convertita in ribulosio 5-fosfato dall’azione ciclica degli enzimi isomerizzanti della via dei
pentosi.
Gli enzimi delle fasi 2 e 3 sono comuni a tutti gli organismi. La reazione bilanciata delle fasi 1 e 2 è la
seguente:
3 ribulosio 5-P + 3 CO2 + 9 ATP + 6 NADPH/H+ → 6 gliceraldeide 3-P + 9 ADP + 6 Pi + 6 NADP+
Per reintegrare il ribulosio (fase 3), 5 moli di gliceraldeide vengono trasformate nella via dei pentosi:
5 gliceraldeide 3-P + 2 H2O → 3 ribulosio 5-P + 2 Pi
La reazione netta del ciclo di Calvin risulta essere:
3 CO2 + 9 ATP + 6 NADPH/H+ + 2 H2O → gliceraldeide 3-P + 9 ADP + 8 Pi + 6 NADP+
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Degradazione della biomassa
La sostanza organica prodotta dal fissaggio della CO2 è la biomassa che costituisce gli organismi
viventi. Questa biomassa è soggetta a mutamenti e trasformazioni: produce spoglie, secrezioni e
rifiuti, anche dovuti all’attività umana, che saranno a loro volta substrati di ulteriori trasformazioni da
parte dei microrganismi e che si trasformeranno infine, con l’ausilio anche di trasformazioni
spontanee, in humus e carbonio fossile. Le trasformazioni del materiale organico da parte dei
microrganismi e le combustioni antropiche contribuiscono mineralizzazione del carbonio e/o alla
restituzione di CO2 all’atmosfera. Un’altra parte della biomassa viene invece riciclata da altri
organismi tramite i meccanismi di predazione e parassitismo. Il ciclo del carbonio è quindi costituito
da una complessa serie di trasformazioni che avvengono in sequenza o in parallelo, delle quali sono
di particolare interesse industriale ed ambientale quelle operate dai microrganismi impegnati nella
decomposizione. In questo quadro, il principio della ‘catena alimentare’ delle trasformazioni
biologiche ambientali, si applica anche alle sequenze di trasformazioni a carico dei microrganismi i
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quali trasformano un substrato in prodotto, che a sua volta è il substrato per il microrganismo
successivo della catena e così via.
Il ruolo dei microrganismi è particolarmente rilevante nella trasformazione (degradazione) e
mineralizzazione della biomassa vegetale, che costituisce una frazione importante del carbonio
assimilato ed è direttamente disponibile sulla superficie terrestre. La biomassa vegetale è composta
da una frazione solubile, che costituisce il 5-30% della biomassa e deriva principalmente dal
citoplasma e dalle linfe, e da restante residuo insolubile costituito dai polimeri strutturali e di riserva.
La frazione solubile contiene una grande varietà di molecole, come zuccheri semplici, acidi organici e
alcoli, direttamente assimilabili dai microrganismi e che non richiedono specifiche attività
metaboliche per essere utilizzate come nutrienti. La scala temporale di utilizzo di queste sostanze è
dell’ordine dei giorni; possono essere utilizzate come fonte di carbonio ed energia producendo
biomassa microbica e CO2. Nell’utilizzo di queste fonti, si può distinguere tra microrganismi aerobici,
come il genere Bacillus, che attraverso il metabolismo respiratorio producono CO2 ed ATP ed una
corrispondente elevata quantità di biomassa, e microrganismi anaerobici, ad esempio il genere
Clostridium, che attraverso il metabolismo fermentativo producono CO2 e poco ATP: di conseguenza
la biomassa microbica è limitata, ma vengono prodotti altri metaboliti ridotti, quali metano, alcoli e/o
acidi organici, che possono, a loro volta, essere utilizzati successivamente da microrganismi aerobici
per ulteriori trasformazioni con produzione di biomassa.
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Per quanto riguarda il residuo vegetale insolubile, possiamo distinguere tra polimeri labili e stabili. I
polimeri labili (proteine, pectine, amidi ed emicellulose) rappresentano il 5-30% della biomassa
vegetale e vengono degradati ed utilizzati su una scala temporale di mesi da parte di microrganismi
specializzati, con produzione di CO2 e biomassa microbica. La specializzazione di questi microrganismi
deriva dalla presenza di enzimi idrolitici esocellulari per questi polimeri, che sono quindi idrolizzati e i
monomeri derivanti possono essere a loro volta assimilati e metabolizzati. La labilità di questi
polimeri deriva dalla facilità e dalla velocità della loro idrolisi enzimatica. La seconda parte della
frazione insolubile è composta dai polimeri stabili lignina e cellulosa, che rappresentano
rispettivamente fino al 30% e 60% della biomassa vegetale. La trasformazione di questi polimeri
richiede microrganismi specializzati dotati di enzimi depolimerizzanti (idrolitici e non) specifici.
Questa trasformazione richiede tempi dell’ordine di anni, in quanto questi polimeri sono
particolarmente recalcitranti, e porta alla produzione di biomassa microbica e humus.
L’amido è un omopolimero del glucosio con legami 1-4α (amilosio) e, occasionalmente, 1-6α che
introducono delle ramificazioni (amilopectina). Gli enzimi idrolitici dell’amido sono: le α-amilasi
(endo α1-4 glucosidasi), presenti in tutti gli organismi (piante e mammiferi) e nei microrganismi,
soprattutto nei generi Bacillus e Aspergillus; le β-amilasi (eso α1-4 glucosidasi), presenti soprattutto
nelle piante e in pochi microrganismi; le glucoamilasi (eso α1-4, α1-6 glucosidasi), presenti nei
microrganismi (funghi, lieviti e batteri). Le α-amilasi frammentano e solubilizzano l’amido, le β-
amilasi agiscono dalle estremità del polimero e producono maltosio (dimero) e destrine, le
glucoamilasi anche agiscono dall’estremità ma producono glucosio. E’ interessante notare che non si
può ottenere glucosio da amido utilizzando un solo tipo di enzima, neppure con la glucoamilasi anche
se quest’ultimo, in teoria, potrebbe. Per ottenere l’idrolisi totale dell’amido serve l’azione combinata
di più enzimi e quindi di consorzi microbici. I microrganismi principali che degradano l’amido sono i
batteri appartenenti ai generi Bacillus e Clostridium e alcuni attinomiceti, i funghi dei generi Mucor e
Rhizopus nonché molti basidiomiceti. Le amilasi hanno numerose applicazioni industriali, nei campi
della produzione e trattamento degli alimenti e per la produzione di zuccheri fermentabili come fonti
di carbonio per la formulazione di terreni di coltura industriali.
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L’emicellulosa è un etero polimero con ramificazioni composto da esosi, pentosi ed acidi uronici
legati tra loro prevalentemente da legami 1-4β, 1-3α e 1-2α. L’emicellulosa è un componente del
legno, insieme alla cellulosa, alla lignina ed altri componenti minori. I monomeri principali sono:
glucosio, galattosio, mannosio, xilosio (C5), arabinosio (C5), acido glucuronico e acido galatturonico. I
microrganismi in grado di idrolizzare l’emicellulosa sono batteri aerobici (Streptomyces,
Pseudomonas, Achromobacter, Micomonospora) e anaerobici (Clostridium) e funghi aerobici
(Aspergillus, Penicillium, Trichoderma) che possiedono endo ed eso idrolasi attive sui vari tipi di
legame e monomeri presenti nel substrato.
Le pectine più frequenti sono eteropolimeri con una struttura lineare di acido galatturonico e metil-
galatturonico (metil estere) con legami 1-4α (omogalatturonani) oppure acido galatturonico e
ramnosio con legami alternati 1-4α e 1-2α (ramnogalatturonani, RG-I). L’ossatura lineare può essere
ramificata con altre strutture di esosi o pentosi (galattosio, xilosio, arabinosio ecc) più o meno
ramificate e omogenee. Le pectine sono elementi strutturali delle cellule vegetali. Si trovano nelle
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pareti cellulari delle parti non legnose delle piante, dove contribuiscono a tenere insieme le cellule.
Quantità, composizione e struttura delle pectine cambiano nel tempo e nei diversi punti della pianta.
La pectina grezza è un materiale composito dove sono presenti anche gli altri polimeri strutturali
vegetali. La pectina viene liberata da cellulosa ed emicellulosa per azione delle protopectinasi. Quindi
la pectina viene de metilata dalle pectino-metilesterasi che producono metanolo e acido
poligalatturonico. Infine l’acido poligalatturonico viene depolimerizzato dalle poligalatturonasi. Il
prodotto finale, l’acido galatturonico e altri monomeri, vengono successivamente assimilati ed
utilizzati dai microrganismi per la crescita.
Microrganismi specializzati, dotati di tutte le attività enzimatiche necessarie alla degradazione
completa delle pectine, sono rari. Molti microrganismi intervengono invece in successione nelle fasi
finali del processo utilizzando i prodotti di degradazione: batteri aerobi (Bacillus, Erwinia) e anaerobi
(Clostridium, Plectridium), e funghi (Aspergillus, Mucor, Penicilluim, Sclerotinia). Oltre ai
microrganismi che partecipano alla degradazione della biomassa vegetale, è interessante notare che i
microrganismi simbionti e/o parassiti delle piante sono in genere produttori di pectinasi per favorire
la penetrazione dell’organismo nel tessuto vegetale. Dal punto di vista industriale, le pectinasi
trovano applicazione nell’industria tessile, per il trattamento delle fibre tessili vegetali, e nel
trattamento del materiale vegetale utilizzato come fonte di zuccheri fermentabili, ad esempio nella
produzione del bioetanolo, per favorire la liberazione e l’idrolisi degli amidi e delle cellulose per la
produzione di zuccheri fermentabili.
Un altro polimero particolarmente abbondante nel suolo superficiale, dove rappresenta una
percentuale importante del carbonio organico, è la chitina. L’origine della chitina non è vegetale ma
deriva bensì dalle pareti cellulari dei funghi e delle muffe e dall’esoscheletro degli insetti. La chitina è
un polimero della N-acetil glucosammina e gli enzimi deputati alla sua idrolisi sono le chitinasi. Gli
attinomiceti aerobici del suolo sono tra i pochi microrganismi in grado di produrre chitinasi. La
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presenza di azoto nella chitina contribuisce ad arricchire il prodotto di degradazione con questo
nutriente fondamentale e favorisce la crescita del microrganismo.
La cellulosa è il composto più abbondante della biosfera: è un serbatoio di accumulo della CO2 in
quanto contiene il 60% del carbonio fissato, circa 40 Gt/anno. Dal punto di vista industriale, è alla
base della produzione di materie prime, fibre tessili ed energie rinnovabili. La cellulosa è un
omopolimero del glucosio con legami 1-4β e si trova in genere associata ad altre fibre vegetali nel
legno e nelle cellule e strutture vegetali. La si può trovare pura solo in pochi casi: nelle capsule di
alcuni batteri, in alcune alghe e piante, come il cotone. La cellulosa è un polimero vegetale costituito
da poche a molte centinaia di unità: il polimero è associato in strutture via via più complesse: micro
fibrille o fasci, fibrille e fibre disposte longitudinalmente. I filamenti che costituiscono le micro fibrille
sono legate molto intimamente in strutture quasi cristalline che si alternano a zone con struttura più
lasca ed amorfa. Le zone amorfe della cellulosa sono i punti deboli della struttura dove avviene il
primo attacco degli enzimi degradativi, che sono endo-glucanasi, eso-glucanasi e β-glucosidasi.
Queste attività cellulolitiche possono essere associate ad enzimi singoli solubili e secreti
nell’ambiente, come quelli di origine fungina, oppure dovute a subunità di complessi enzimatici
ancorati alla parete esterna della cellula, come avviene nei batteri. Il complesso enzimatico si chiama
cellulasi ed e’ dotato di svariate attività cellulolitiche (domini catalitici), funzioni di legame alla
cellulosa, funzioni di legame tra proteine e funzioni di ancoraggio alla parete cellulare. La
degradazione della cellulosa inizia con l’attacco delle zone amorfe da parte delle endo-glucanasi che
cominciano a smontare la struttura cristallina dei fasci e generano delle estremità libere. I filamenti
sono quindi resi disponibili per l’attività delle eso-glucanasi, che producono cellobiosio (dimero), e
infine delle glucosidasi, che producono glucosio. L’attività cellulolitica è indotta dal substrato, la
cellulosa, e inibita dal prodotto, il glucosio. Data l’abbondanza e la distribuzione del substrato, i
microrganismi cellulolitici sono ubiquitari nella biosfera e nell’apparato digerente degli erbivori.
Corrispondentemente, le condizioni di degradazione sono ad ampio spettro: aerobiche, anaerobiche,
mesofile, termofile, acidofile.
I microrganismi che degradano la cellulosa appartengono a quattro gruppi principali. I batteri del
suolo superficiale sono aerobi e mesofili (pH neutro): sono i microrganismi cellulolitici primari che
degradano la cellulosa al 80-90% e sono cellulolitici obbligati in quanto degradano solo la cellulosa e
non gli altri polimeri vegetali della cellulosa. Appartengono ai generi Cytophaga e Sporocytophaga. I
batteri del suolo sono invece microaerofilici e necessitano di azoto per la loro attività litica. Sono dei
generi Bacillus e Cellulomonas. I batteri del suolo profondo, dei sedimenti e del tubo digerente sono
anaerobi. Anche loro necessitano di azoto e sono polifaghi, cioè utilizzano anche altri polimeri
vegetali oltre alla cellulosa. Tra questi batteri ci sono i simbionti degli erbivori che degradano e
assimilano la cellulosa ingerita e producono intermedi metabolici non ossidati (acidi e alcoli) che
vengono a loro volta assimilati dall’erbivoro. Troviamo i questo gruppo di microrganismi i generi
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Butyrivibrio, Clostridium, Fibrobacter e Ruminococcus. I funghi sono microrganismi eucariotici tipici
del sottosuolo forestale e sono i maggiori degradatori di cellulosa. Possono essere sia aerobi
superficiali (Trichoderma, Aspergillus, Phanerochaete) che anaerobi (Neocallimastix, Piromonas,
Sphaeromonas). I funghi sono in genere più acidofili dei batteri e quindi sono favoriti nel terreno
forestale che è leggermente acido. Anche per i funghi il fattore limitante è l’azoto che nei residui
vegetali è particolarmente ridotto: C/N=100-200 rispetto al rapporto ottimale per la crescita C/N=50.
La scarsa disponibilità dell’azoto limita sia la crescita che la cellulolisi. Un altro fattore importante per
la degradazione della cellulosa è l’acqua, che provoca il rigonfiamento delle fibre favorendo il
contatto con gli enzimi, il distacco dei filamenti e quindi l’idrolisi.
La lignina è il componente strutturale del legno che ne determina le caratteristiche chimico-fisiche
quali la rigidità e la resistenza meccanica e la resistenza alla degradazione. E’ un polimero reticolato a
struttura variabile ed amorfa. I monomeri costituenti sono alcoli variabili e derivati dal fenil-propano:
alcol p-cumarilico, coniferilico, sinapilico. I rapporti tra i costituenti sono variabili, in particolare a
seconda del tipo di pianta. Nelle gimnosperme, ad esempio l’abete, i rapporti relativi tra i tre alcoli
sono 6:80:14. Nelle angiosperme, ad esempio il faggio, i rapporti sono 5:49:46. I monomeri sono
legati prevalentemente da legami etere ottenuti sia per sintesi enzimatica che per condensazione
spontanea.
La lignina ha una struttura amorfa con proprietà colloidali e di difficile degradazione enzimatica. In
più i prodotti di degradazione possono ripolimerizzare spontaneamente. Gli enzimi degradativi della
lignina più importanti sono di tipo redox: laccasi, idrossilasi, perossidasi, tirosinasi, o di tipo idrolitico.
Le reazioni che avvengono durante la degradazione sono di depolimerizzazione, di distacco dei gruppi
metilici, di distacco delle catene propaniche, di idrolisi e/o ossidazione dei derivati alifatici, di
ossidazione e apertura degli anelli aromatici. La degradazione della lignina, in particolar modo
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l’apertura dell’anello aromatico, richiede condizioni fortemente ossidative (elevate concentrazione di
ossigeno) e per questo motivo è praticamente impossibile in anaerobiosi o in ambiente acquoso. Ciò
rende conto dell’ubiquitarietà delle piante a fusto in quanto resistenti a svariate condizioni
ambientali.
I microrganismi ligninolitici sono principalmente i funghi e vengono classificati secondo l’aspetto del
prodotto di degradazione. I funghi del marciume molle attaccano lignina e cellulosa ma non la
pectina e l’emicellulosa. Appartengono ai generi Chaetomium, Humicola e Paecilomyces. I funghi del
marciume bruno degradano tutti i polimeri vegetali ma non aprono gli anelli aromatici della lignina. Il
colore del prodotto di degradazione deriva dalla produzione di melanina. Appartengono al gruppo
dei basidiomiceti. I funghi del marciume bianco sono i lignolitici primari, più attivi ed efficienti.
Degradano tutti i polimeri vegetali a CO2 e acqua. Il colore bianco è dato dalle ife che colonizzano il
legno. Appartengono tipicamente ai generi Phanerochaete e Polyporus.
La degradazione della biomassa vegetale porta, da una parte alla degradazione dei polimeri più
aggredibili (circa il 40%) e alla produzione di biomassa microbica che utilizza i prodotti di
degradazione. Dall’altra parte, i polimeri più recalcitranti (circa il 60%) vengono solo parzialmente
degradati e portano a sostanze non assimilabili, come i derivati fenolici della lignina, che reagiscono e
condensano tra loro in condizioni aerobiche, producendo polimeri eterogenei di struttura poco
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definita e prevedibile. Anche i legami che si formano spontaneamente sono di vario tipo e non
necessariamente aggredibili dagli enzimi microbici.
La sostanza organica del suolo così prodotta è l’humus: è amorfa, colloidale e insolubile e ingloba
anche materiale cellulare microbico costituito da polisaccaridi di parete e proteine. Costituisce il 2-
5% del suolo ed ha una composizione 100:10:1:1 di carbonio:azoto:fosforo:zolfo. La formazione
dell’humus si basa sull’attività di funghi e batteri mesofili ed è ottimale tra 10 e 45°C: a seconda del
clima, richiede 1-2 anni, con delle rese del 20% circa. La velocità di produzione e degradazione
dell’humus aumenta con la temperatura. Può essere prodotto anche artificialmente in tempi più
brevi tramite letamazione e compostaggio. La degradazione dell’humus richiede periodi lunghi di
150-1500 anni e quindi costituisce un importante serbatoio di carbonio ed azoto. Inoltre l’humus
garantisce la ritenzione idrica, ha proprietà tamponanti e di scambiatore ionico e la sua struttura
garantisce l’aggregazione con la componente minerale del suolo. La perdita dell’humus è alla base
della desertificazione. Ad esempio, il taglio delle piante da fusto per la coltivazione di piante erbacee
riduce l’apporto di lignina al suolo portando inevitabilmente alla riduzione dell’humus e della fertilità
fino alla desertificazione. Questo fenomeno è accelerato nei paesi caldi a causa dell’aumentata
velocità di degradazione dell’humus. La riduzione dell’humus comporta anche una ridotta capacità di
aggregazione del suolo e quindi una perdita di minerale per ruscellamento che alla fine accelera il
processo di desertificazione.
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Esistono tanti tipi di humus, a seconda dell’ambiente di formazione, in particolare a seconda del tipo
di rocce presenti e del tipo di piante e a seconda delle caratteristiche idriche: sono prodotti da flore
microbiche differenti e con tempi molto variabili. I vari humus hanno diversi rapporti C/N e diversi
pH e sono caratterizzati da tempi di mineralizzazione diversi, quindi con delle persistenze ambientali
diverse.
Ciclo dell’azoto
L’azoto è una frazione significativa della biomassa, circa il 14% del peso secco delle cellule, ed è
contenuto nelle proteine (amminoacidi), negli acidi nucleici DNA e RNA (basi azotate) nonché nei
cofattori degli enzimi, nelle vitamine e nei metaboliti secondari. Proteine e acidi nucleici
costituiscono, a loro volta, rispettivamente circa il 50% e il 20% del peso secco della cellula.
L’azoto è presente in natura in tutti i suoi stati di ossidazione, da +5 a -3, tra i quali passa anche grazie
all’attività metabolica degli organismi viventi. I serbatoi dell’azoto sono le rocce, dove è presente in
forma indisponibile, e l’atmosfera, dove è presente sotto forma di N2 in misura del 78% ed è
disponibile per la fissazione. L’azoto disciolto e disponibile è presente anche negli oceani. Il suolo, lo
strato superficiale della Terra, è ricco di composti azotati in vari stati di ossidazione: nitriti, nitrati,
ammoniaca, composti organici, che costituiscono le sacche di scambio dell’azoto, e l’humus, che
costituisce invece una riserva di azoto. Troviamo l’azoto ovviamente anche nei microrganismi del
suolo e degli oceani, nelle piante della superficie e negli animali. La distribuzione dell’azoto nei suoi
vari stati di ossidazione può variare nei differenti distretti ambientali della biosfera. Anche la quantità
di azoto varia molto in termini assoluti anche in relazione alle dimensioni del serbatoio. Tutti gli
organismi viventi trasformano e producono sostanze azotate ma solo i microrganismi e le piante
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sono in grado di fissare e assimilare l’azoto inorganico. Gli stati principali dell’azoto si possono
raggruppare in quattro serbatoi, riserve o sacche: l’azoto atmosferico, l’azoto ridotto
(ammoniaca/ammonio), l’azoto organico (indicato genericamente come RNH2), l’azoto ossidato
(nitriti/nitrati).
I passaggi dell’azoto da uno stato all’altro costituiscono il ciclo dell’azoto e sono effettuati
soprattutto dai microrganismi anche se molto importanti sono i fenomeni atmosferici
(precipitazioni), le combustioni e la lisciviazione. Le alterazioni antropiche del ciclo dell’azoto
consistono soprattutto nell’uso dei fertilizzanti che causano un eccesso di azoto nel terreno e il suo
dilavamento nelle acque. L’aumento dell’azoto nelle acque causa da una parte l’eutrofizzazione
dell’ambiente acquatico; dall’altra il trasferimento nell’atmosfera di forme ossidate dell’azoto per
evaporazione e conseguenti piogge acide. L’anidride nitrosa atmosferica provoca anche la riduzione
dell’ozono e l’aumento dell’effetto serra. La trasformazione dell’azoto atmosferico in
ammonio/ammoniaca è la fissazione, la trasformazione dei nitriti/nitrati e ammonio/ammoniaca in
azoto organico sono assimilazioni o immobilizzazioni. L’assimilazione dell’ammonio può avvenire, in
alcuni casi, insieme alla fissazione in un unico passaggio. La trasformazione dell’azoto organico in
ammoniaca/ammonio è l’ammonizzazione. Le trasformazioni di ammonio/ammoniaca in
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nitriti/nitrati e viceversa sono passaggi di nitrificazione (ossidazione) e riduzione, rispettivamente,
mentre la riduzione di nitriti/nitrati ad azoto elementare è la denitrificazione.
L’ammonizzazione (R-NH2 → NH3) o mineralizzazione è la trasformazione dell’azoto organico in
ammoniaca. L’azoto delle proteine, degli acidi nucleici, dell’urea o dell’humus, derivanti dai residui
vegetali, animali o microrganismi, viene reso disponibile da parte dei microrganismi del suolo grazie
all’azione di enzimi idrolitici (proteasi, peptidasi, ureasi) che vengono secreti e producono monomeri
e sostanze assimilabili. Il metabolismo cellulare trasforma quindi queste sostanze in intermedi
metabolici e biomassa con secrezione dell’ammonio in eccesso. Dato che l’azoto è spesso un fattore
limitante, viene preferenzialmente assimilato e riciclato: raramente è in eccesso e quindi
mineralizzato. A pH neutro, l’azoto viene mineralizzato come ammonio e reso disponibile per
l’assimilazione da parte di altri organismi mentre a pH alcalino l’azoto in forma di ammoniaca
volatilizza causando l’impoverimento del terreno. I microrganismi ammonizzanti sono generici, sia
procarioti che eucarioti, aerobici ed anaerobici.
L’assimilazione (NH3 → R-NH2) o immobilizzazione è il passaggio inverso dell’ammonizzazione. I due
processi sono in equilibrio tra loro in modo dipendente da vari fattori ambientali tra i quali sono
importanti la concentrazione dei substrati, la presenza di ossigeno, la temperatura ed il pH
ambientale. Tutti i tipi di microrganismi sono in grado di assimilare l’ammonio: batteri, archea ed
eucarioti. I meccanismi metabolici di assimilazione si basano sull’azione di due enzimi alternativi: la
glutammato deidrogenasi (GDH), che ammina riduttivamente il chetoglutarato producendo
glutammato, e la glutammina sintasi (GS), che ammina il glutammato a glutammina con consumo di
ATP: l’eccesso di glutammina prodotta serve quindi per amminare il chetoglutarato con produzione
di due moli di glutammato. L’enzima che catalizza questa reazione è la glutammina oxoglutarato
ammino trasferasi (GOGAT). Sia la GDH che la GOGAT utilizzano NADPH/H+ come potere riducente.
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La nitrificazione (NH3 → HNO3) è l’ossidazione dell’ammonio a nitrato: avviene in due passaggi. Il
primo è l’ossidazione dell’ammonio a nitrito, con estrazione di potere riducente ed ATP; il secondo è
l’ossidazione del nitrito a nitrato, ancora con estrazione di potere riducente ed ATP.
Operano questi passaggi due tipi di batteri: i nitrosanti ed i nitricanti, entrambi batteri aerobi
chemiolitotrofi ed autotrofi. Appartengono ai generi Nitrosomonas, Nitrosococcus, Nitrococcus,
Nitrobacter e Nitrospira. Questi batteri sono distribuiti soprattutto negli ambienti marini e nelle
acque dolci oppure nel suolo. Gli enzimi tipici dei batteri nitrosanti sono l’ammoniaca mono-
ossigenasi (AMO) e l’idrossilammina ossido reduttasi (HAO). La AMO è un enzima idrossilante ad
ampio spettro e quindi attivo su un gran numero di substrati quali cloroformio, tricloroetilene,
cloroetani ecc. Per questo motivo la sua attività può essere impiegata in programmi di
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biorisanamento di acque e suoli). La AMO è un enzima di membrana che utilizza
ubichiolo/ubichinone per trasferire gli elettroni all’ossigeno ed idrossilare l’ammoniaca con
produzione di acqua. L’idrossilammina, trasferita nello spazio periplasmico, viene ossidata a nitrito
dalla HAO e gli elettroni prodotti sono in parte utilizzati per ristabilire il pool di ubichinone/ubichinolo
tramite il citocromo bc, in parte utilizzati per ridurre l’ossigeno ad acqua tramite enzimi ossidasi. I
protoni prodotti vengono invece sfruttati per la produzione di ATP tramite il gradiente
transmembrana che si genera tra il periplasma ed il citoplasma.
Anche i batteri nitricanti sfruttano la diversa compartimentazione degli enzimi per ottenere ATP dal
metabolismo ossidativo. Infatti l’enzima nitrito ossido reduttasi (NOR) che ossida il nitrito a nitrato è
periplasmatico e genera un gradiente di protoni col citoplasma che permette la sintesi di ATP. Gli
elettroni sono invece trasferiti al citoplasma tramite il citocromo c ed utilizzati per ridurre l’ossigeno.
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I batteri nitrificanti (nitrosanti e nitricanti) sono aerobi obbligati ubiquitari, sono mesofili con pH
ottimale 7-8 e assimilano la CO2 tramite il ciclo di Calvin. Le rese energetiche dell’ossidazione
dell’ammoniaca sono basse: solo il 10% circa dell’energia si riesce a recuperare mentre le rese in
biomassa sono 15-70 moli di ammoniaca per mole di carbonio fissata nei nitrosanti e 75-135 moli di
ammoniaca per mole di carbonio nei nitricanti. La luce influenza negativamente l’ossidazione
dell’ammonio. Anche i funghi eterotrofi sono in grado di nitrificare ma il loro apporto al processo è
quantitativamente marginale. L’attività dei batteri nitrificanti è rilevante negli equilibri ambientali in
quanto l’ammonio, carico positivamente, si lega ai componenti del suolo e viene trattenuto
valorizzando il terreno mentre i nitriti e nitrati, carichi negativamente, non vengono trattenuti ma
dilavati e raccolti nelle acque di fatto riducendo il contenuto di azoto nel terreno.
La denitrificazione consiste in tre fenomeni: l’assimilazione o riduzione assimilativa del nitrato (HNO3
→ NH3 → R-NH2), la riduzione del nitrato (HNO3 → NH3) e la denitrificazione (HNO3 → N2O → N2).
Quest’ultime due costituiscono la riduzione dissimilativa o respirazione del nitrato. L’assimilazione
del nitrato consiste nella sua riduzione ad ammonio il quale viene indirizzato nell’anabolismo:
biosintesi di intermedi azotati (amminoacidi, basi azotate ecc) e quindi nella crescita della biomassa.
L’ammoniaca o l’ammonio, come prodotti intermedi della riduzione, non si accumulano: nel caso
fossero in eccesso, ad esempio se forniti dall’esterno, esercitano un’azione repressiva e bloccano la
riduzione del nitrato.
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I microrganismi che assimilano il nitrato sono sia aerobi che anaerobi e utilizzano questa sostanza
come fonte di azoto: appartengono ai generi Klebsiella e Rhodobacter o al gruppo dei cianobatteri. Il
primo passaggio del metabolismo del nitrato è il trasporto che può avvenire con tre meccanismi:
simporto con protone, antiporto col nitrito e trasporto con consumo di ATP tramite trasportatori con
ATP-Binding Cassette (ABC). Il nitrato viene ridotto a nitrito da enzimi nitrato reduttasi (NAS)
NADH/H+ o ferredoxina dipendenti. Il nitrito viene a sua volta ridotto a idrossilammina e ad ammonio
da enzimi nitrito reduttasi (NAS) e idrossilammina reduttasi (HCP). L’ammonio viene infine assimilato
come glutammato o glutammina.
La denitrificazione consiste in un processo in cui il nitrato non è o non è solamente una fonte di azoto
ma il sistema di bilanciamento dello stato redox della cellula. La denitrificazione è composta da due
processi, la riduzione ad azoto e la riduzione ad ammonio, che hanno il primo passaggio in comune
della riduzione del nitrato a nitrito. Il nitrato è trasportato all’interno della cellula da sistemi di
simporto protonico (trasportatori NAR/K1) o di antiporto del nitrito (trasportatori NAR/K2). Il nitrato
viene ridotto a nitrito dall’enzima di membrana nitrato reduttasi (NAR): gli elettroni sono forniti
dall’ossidazione anaerobica delle fonti di carbonio e di conseguenza è una reazione tipicamente
anaerobica e inibita dall’ossigeno. Nella via di riduzione ad ammonio, o dissimilazione, il nitrito viene
progressivamente ridotto ma, a differenza del metabolismo assimilativo, l’ammonio non viene alle
fine incorporato nel metabolismo biosintetico come azoto organico ma rilasciato. La sua funzione
sarebbe quella del riciclo dei coenzimi redox NAD+ e quindi come scarico di potere riducente. La
dissimilazione del nitrato viene operata da molti batteri enterici anaerobi dei generi Bacillus e
Clostridium. La denitrificazione, che ossida il nitrato ad azoto elementare, è un processo analogo alla
dissimilazione in cui le sostanze organiche vengono ossidate in condizioni anaerobiche e gli elettroni
derivanti vengono indirizzati alle molecole azotate. Si tratta quindi di un processo di respirazione del
nitrato, senza riciclo dell’azoto, che necessita di disponibilità del substrato (nitrato), assenza di
ossigeno e disponibilità di fonti di carbonio organico (ridotto).
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Gli enzimi che partecipano alla riduzione sono le nitrato reduttasi di membrana (NAR) o
periplasmatiche (NAP), le nitrito reduttasi periplasmatiche (NIR), le NO reduttasi di membrana (NOR)
e le nitroso reduttasi periplasmatiche (NOS). Le reazioni avvengono tutte nel periplasma tranne
quella catalizzata da NAR che avviene nel citoplasma e necessita quindi del trasporto del substrato,
per simporto o antiporto come nei casi precedenti (NAR/K1 e NAR/K2). Lo scambio degli elettroni è
assicurato dai citocromi c e bc1 e dal menachinone (MQ). La sintesi degli enzimi denitrificanti NAR e
NIR è inibita dall’ossigeno e indotta dal nitrato.
Esistono un gran numero di batteri denitrificanti. Quelli che effettuano tutti i passaggi fino alla
produzione di N2 sono i denitrificanti sensu stricto: α-proteobatteri (Magnetospirillum, Paracoccus,
Magnetococcus, Rhodopseudomonas, Rhodobacter, Brucella, Sinorhizobium, Bradyrhizobium), β-
proteobatteri (Nisseria, Burkhoderia, Cupriavidus, Ralstonia, Achromobacter, Alcaligenes), γ-
proteobatteri (Pseudomonas), Gram-positivi (Corynebacterium, Bacillus), archea (Pyrobaculum). Altri
batteri sono denitrificanti parziali. I denitrificanti sono principalmente chemio-organotrofi, qualche
specie è fototrofa o chemio-litotrofa.
Le principali cause naturali di produzione di specie reattive dell’azoto sono l’elettricità atmosferica e
la fissazione terrestre e marina. Le specie reattive sono quelle che costituiscono le sacche di scambio
tra i diversi distretti ambientali terrestri: organismi, suolo, acqua e atmosfera. Negli ultimi decenni,
l’attività antropica ha introdotto nuove fonti di azoto reattivo: l’uso dei combustibili fossili,
l’incremento delle aree destinate alla coltivazione delle piante agronomiche in simbiosi con gli azoto-
fissatori e la sintesi chimica di fertilizzanti azotati. Ciò ha contribuito ad incrementare, anche in
previsione, la produzione globale di azoto reattivo. L’aumento di sostanze azotate nel suolo porta ad
un aumento di azoto nelle acque con conseguente eutrofizzazione e aumento di azoto atmosferico
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per evaporazione. A sua volta, l’azoto atmosferico provoca effetto serra, riduzione dell’ozono e
piogge acide.
Ciclo dello Zolfo
I serbatoi dello zolfo sono le rocce, contenenti solfati e solfuri, e i sedimenti, contenenti solfati. Le
sacche organiche dello zolfo sono le proteine, contenenti gli amminoacidi cisteina e metionina, e un
certo numero di cofattori, tra cui biotina, tiamina e coenzima A.
Il contenuto di zolfo della cellula è circa l’1% del peso secco. Gli stati dello zolfo che fanno parte del
ciclo dello zolfo sono i solfati, lo zolfo organico (RSH), i solfuri o l’acido solfidrico (H2S) e lo zolfo
elementare S0. I solfati sono la fonte principale dello zolfo. Le trasformazioni principali che
coinvolgono i microrganismi e le piante sono la riduzione assimilativa dei solfati a zolfo organico, la
desolforazione o mineralizzazione dello zolfo organico a solfuri da parte di batteri e funghi non
specializzati e l’equilibrio tra solfati e solfuri, che consiste nella riduzione dissimilativa dei batteri
solfato-riduttori e nell’ossidazione anaerobica dei batteri chemio-litotrofi e fotosintetici.
La riduzione assimilativa (SO42- → R-SH) del solfato consiste nell’incorporazione dello zolfo
inorganico del suolo o disciolto nelle molecole biologiche che viene effettuata sia dalle piante che dai
microrganismi. Il solfato viene attivato per incorporazione nel ribonucleotide AMP (adenosina 5-
fosfosolfato, APS) o per successiva fosforilazione al 3’ (fosfo adenosina 5-fosfsolfato, PAPS), con
consumo di ATP. Una volta attivato, il gruppo solfato viene ridotto dagli enzimi APS reduttasi o PAPS
reduttasi (APR o PAPR) tioredossina dipendenti. Il solfito è quindi ridotto successivamente da solfito
reduttasi (SiR) NADPH/H+ dipendenti ed il prodotto di riduzione incorporato nelle molecole organiche
bersaglio. Le fonti di elettroni per le reazioni di riduzione variano a seconda dell’organismo.
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La riduzione dissimilativa (SO42- → S2-) del solfato è la respirazione anaerobica del solfato dove il
solfato raccoglie gli elettroni estratti dal metabolismo energetico e biosintetico. Batteri anaerobi
generici utilizzano le fonti di carbonio e producono acidi organici ridotti (lattato, propinato, butirrato)
e alcoli. Queste sostanze vengono a loro volta assimilate dai batteri solfato-riduttori e ossidate per
ricavare energia ed intermedi metabolici. Gli elettroni estratti vengono scaricati nella via dissimilativa
e secreti sotto forma di solfuri o H2S. I batteri solfato-riduttori o zolfo-riduttori sono anaerobi
obbligati (Desulfovibrio, Desulfotomaculum, Desulfomonas).
L’ossidazione anaerobica (S2- → S0 → SO42-) dei solfuri è una fotosintesi senza produzione di ossigeno
dove i microrganismi utilizzano i solfuri invece dell’acqua per estrarre gli elettroni necessari alla
riduzione della CO2 e alle reazioni biosintetiche. Viene effettuata da batteri autotrofi in ambienti
anaerobici acquatici dove si accumulano acido solfidrico o solfuri. Appartengono a questo gruppo di
microrganismi i batteri fotosintetici rossi (Ectothiorhodospira, Chromatium, Rhodospirillum) o verdi
(Chlorobium) e il prodotto di respirazione può essere zolfo elementare o solfati.
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La desolforazione e/o mineralizzazione (RSH → S2- → S0) è un processi in cui lo zolfo organico viene
trasformato in solfuri o acido solfidrico da microrganismi non specializzati (procarioti e eucarioti). In
condizioni aerobiche, acido solfidrico e solfuri possono essere ossidati a zolfo elementare da solfo
batteri aerobici (Thiothrix, Beggiatoa, Thiobacillus) oppure può ossidarsi spontaneamente. Alcune
specie di Thiobacillus sono in grado da sole di ossidare a solfato tutte le specie ridotte dello zolfo
anche se più frequentemente l’ossidazione completa avviene per successione di specie. L’ossidazione
delle specie dello zolfo avviene a pH variabili tra 2 e 8,5 ma preferibilmente acidi.
Ciclo del fosforo
Il fosforo è circa il 3% del peso secco cellulare e lo troviamo come componente degli acidi nucleici
(DNA e RNA) e nucleotidi liberi, nelle proteine fosforilate, nei fosfolipidi e in diversi cofattori. Il
fosfato ha un ruolo fondamentale nella cellula nel sistema di scambio energetico basato sull’energia
di idrolisi dei legami. Il ciclo del fosforo non è legato al cambiamento dello stato di ossidazione ma
solamente allo stato di disponibilità dei gruppi fosforici. Il fosfato fissato nel suolo in forma insolubile
è in equilibrio con le forme solubili e disponibili ai siatemi biologici. Viene quindi assimilato e
trasformato in fosfato organico da piante, microrganismi e animali. Il fosfato organico viene quindi
mineralizzato e restituito al serbatoio del fosfato solubile dall’attività dei microrganismi generici che
trasformano le biomasse. Tra le sacche organiche di riserva del fosfato vale la pena citare l’acido
fitico (inositolo 6-P), una forma vegetale di deposito che viene assimilata e mobilizzata solo dai
ruminanti.
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Ambienti estremi
Gli ecosistemi sono l’insieme di ambiente e organismi, indifferentemente dal fatto che siano
macrorganismi o microrganismi. Gli ecosistemi microbici sono ambienti popolati esclusivamente da
microrganismi che possono essere anche di dimensioni micrometriche: macroambienti
apparentemente omogenei possono essere costituiti da un insieme di microambienti eterogenei per
struttura, composizione e parametri chimico-fisici. Nell’ambito del singolo microambiente, i
parametri chimico-fisici che lo caratterizzano possono essere stabili o variabili: in ogni caso
determinano il tipo di popolazione microbica che li colonizza. Gli ecosistemi microbici sono presenti
in tutta la biosfera, il che equivale a dire che i microrganismi sono assolutamente ubiquitari nella
biosfera. I parametri principali che caratterizzano e determinano le condizioni dei microambienti
sono molteplici: temperatura, pressione, luce, attività dell’acqua, pH, composizione chimica. Per ogni
parametro esistono valori comuni, in genere intermedi, e valori particolari, in genere molto alti o
molto bassi. La temperatura sulla Terra varia dai -50°C delle zone polari ai +350°C delle sorgenti
termali abissali: la temperatura della biosfera è però comunemente compresa tra -10°C e +40°C. Il pH
è compreso tra ≈1 delle sorgenti sulfuree e ≈10 dei laghi salini alcalini con dei valori medi, negli
ambienti acquosi, in genere non troppo inferiori a 7, a seconda dei soluti presenti. L’attività
dell’acqua, detta anche pressione osmotica o salinità, dipende anch’essa dalla presenza di soluti, che
sono scarsi nelle cosiddette acque dolci e aumentano nelle acque salate oceaniche o di mare.
L’attività dell’acqua nel mare è data dalla prevalente concentrazione di NaCl, che si aggira intorno al
3.5%, e altri sali. La salinità dei laghi salati del deserto o delle saline arriva fino al 35% di NaCl. Un
altro parametro importante è la pressione: la pressione atmosferica, che al livello del mare è di 760
mmHg, scende a 230 mmHg sugli ‘ottomila’ delle grandi catene montuose. La pressione idrostatica
del mare aumenta invece con la profondità in ragione di una atmosfera ogni 10 metri. La luce è un
parametro variabile ciclicamente per definizione in base alla rotazione terrestre. La luce, sebbene
alternata tra il giorno e la notte, è sempre presente sulla superficie terrestre mentre è sempre
assente oltre una certa profondità nel mare, nelle cavità terrestri (grotte) e nel sottosuolo. Anche
l’ossigeno è un parametro variabile e, poiché viene prodotto per via fotosintetica, la sua presenza
dipende anche dalla presenza della luce. La quantità di ossigeno dipende anche dalla sua solubilità
negli ambienti acquosi, che varia con la temperatura, e dalla pressione atmosferica in quota. La
composizione chimica dell’ambiente è il parametro ambientale che determina la disponibilità dei
nutrienti per il sostentamento e la proliferazione dei microrganismi ed è spesso correlato in modo
specie-specifico con il tipo di microrganismi presenti. Altri parametri meno comuni, ma che possono
nondimeno essere determinanti per l’ecosistema, sono la presenza di radiazioni oltre alla luce; la
presenza di sostanze xenobiotiche (inquinanti chimici); le condizioni di aridità, invero piuttosto
frequenti e in alcuni casi alternate a condizioni di presenza di acqua, e il vuoto. L’elenco di parametri
ambientali e la descrizione delle loro variazioni ci portano a considerare ambienti ottimali e ambienti
‘estremi’. Questa valutazione è inevitabilmente antropocentrica poiché, come detto in precedenza, i
microrganismi sono ubiquitari e popolano tutti gli ambienti in cui sia disponibile acqua allo stato
liquido. I microrganismi che popolano gli ambienti estremi si definiscono estremofili ed hanno delle
caratteristiche peculiari che li rendono adatti a sopravvivere, o meglio, a vivere in condizioni
particolarmente difficili rispetto al mondo mesofilo. Queste caratteristiche li rendono interessanti
non solo dal punto di vista della conoscenza di base ma anche per le potenziali applicazioni nei
settori produttivi.
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Per ogni microrganismo esiste una temperatura alla quale, date tutte le altre condizioni per ottimali,
si riproduce alla massima velocità possibile. Quando questa temperatura supera di molto la
temperatura media, antropocentricamente fissata a 37°C, si parla di microrganismi termofili. Gli
ambienti tipici dei microrganismi estremofili e ipertermofili sono gli ambienti termali di ogni tipo:
sorgenti, pozze, fanghi, geiser. La velocità di crescita si esprime tecnicamente con µ e la massima
velocità di crescita con µmax. I microrganismi si classificano quindi, a seconda del valore della
temperatura (T) di µmax, come psicrofili (T<20°C), mesofili (20°C<T<40°C), termofili (T≈50°C),
estremofili (T≈70°C) e ipertemofili (T>90°C).
Anche nell’ambito di un gruppo tassonomico circoscritto, ad esempio un genere, ci possono essere
specie con caratteristiche differenti di dipendenza dalla temperatura, delle quali alcune possono
essere termofile se si discostano decisamente dal comportamento medio del gruppo. E’ interessante
notare che le specie termofile hanno dei tempi di duplicazione in genere più brevi rispetto alle specie
mesofile: anche per le trasformazioni biologiche, che sono una somma di reazioni biochimiche, vale
quindi il principio che la velocità di reazione aumenta con la temperatura, almeno entro un certo
limite fisiologico. A parte la temperatura di massima velocità di crescita, i microrganismi sono anche
caratterizzati da una temperatura minima ed una massima oltre le quali non si ha più crescita. Questi
limiti sono propri dell’organismo e determinati geneticamente, tanto che si possono isolare dei
mutanti con caratteristiche alterate: cold-sensitive, se il limite inferiore è incrementato, e heat-
sensitive, se il limite superiore è diminuito. Questi mutanti hanno in genere una fitness ambientale
ridotta. Dato che la solubilità dell’ossigeno diminuisce con l’aumentare della temperatura, i
microrganismi termofili vivono in ambienti con disponibilità di ossigeno ridotta o molto ridotta. I
termofili sono quindi per la maggior parte microrganismi anaerobici e sono dotati o di un
metabolismo a respirazione anaerobica, cioè trasferiscono gli elettroni a composti inorganici ossidati,
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oppure di un metabolismo fermentativo, dove la fonte di carbonio viene disproporzionata in un
metabolita ridotto ed uno ossidato. Più raramente hanno un metabolismo respiratorio aerobico. Le
categorie nutrizionali sono comunque piuttosto varie: oltre agli anaerobici e gli aerobici, esistono
specie autotrofe ed eterotrofe, fototrofe e chemiotrofe. Dal punto di vista del pH, esistono sia specie
acidofile, con pH ottimali tra 1.5 e 5, e neutrofile, con pH ottimali tra 5 e 8. Dal punto di vista
catabolico, i termofili sono in grado di utilizzare una grande varietà di substrati: polimeri, zuccheri,
acidi organici, amminoacidi, composti aromatici e CO2. Vitamine e fattori di crescita possono avere
però effetti diversi da specie a specie: in alcuni casi sono necessari, in altri casi inibiscono la crescita.
In generale la resa energetica è molto bassa e quindi la quantità di biomassa che si ottiene per
quantità di catabolita utilizzato è piuttosto limitata. I meccanismi di regolazione del metabolismo,
catabolico e biosintetico, sembrano generalmente simili ai microrganismi mesofili anche se la
scarsezza dei nutrienti organici negli ambienti termali in alcuni casi si correla alla mancanza di
regolazioni come la repressione da catabolita.
Si può quindi asserire che il campo di studio dei microrganismi termofili è per molti aspetti ancora da
chiarire, anche se alcuni aspetti consolidati definiscono diversi vantaggi dell’uso di questi
microrganismi nei processi biotecnologici. In dettaglio, l’elevata temperatura di processo favorisce (i)
una maggiore velocità di produzione, (ii) l’inattivazione termica dei microrganismi patogeni, che sono
in genere mesofili, (iii) riduce le spese di raffreddamento dell’impianto, (iv) permette una maggiore
velocità di diffusione ed una maggiore solubilità dei substrati, (v) riduce la viscosità dei terreni
riducendo le spese di mescolamento, (vi) riduce la tensione superficiale e facilita il recupero di
sostanze volatili anche durante il processo di produzione. Le applicazioni dei termofili sono molteplici
e diversificate: gli enzimi termostabili di questi microrganismi trovano impiego in vari settori
dell’industria, della farmacologia, della medicina e della ricerca. Un esempio tra tutti sono le DNA
polimerasi che vengono usate nei protocolli di amplificazione del DNA per PCR. Altre applicazioni
sono la sintesi di prodotti di fermentazione, incluso l’idrogeno da cianobatteri termofili tramite
fotoproduzione o da batteri anaerobici tramite degradazione anaerobica del carbonio organico, e le
produzioni di compost e trattamento di lettiere per l’agronomia. Infine, abbiamo la ricerca e lo
sviluppo di nuove molecole attive nel campo della medicina. Un settore d’interesse dei
microrganismi termofili è anche quello della ricerca di base. La ricerca si pone delle domande e cerca
delle risposte: in questo caso la domanda è perché e come un organismo è in grado di vivere a
100°C? Quali sono le caratteristiche delle molecole biologiche che lo compongono che gli
conferiscono queste straordinarie capacità? Quali sono le caratteristiche fisiologiche associate a
questa vita estrema? Alcune risposte sono già state trovate. Il DNA, ad esempio, ha un contenuto in
GC più elevato che nei mesofili e quindi una stabilità maggiore rispetto alla fusione delle eliche. Le
membrane sono composte con acidi grassi ad alta temperatura di fusione. Le proteine sono
termicamente più stabili dei mesofili e con un turnover basso. Una correlazione sistematica tra
composizione amminoacidica e stabilità termica è invece più difficile da stabilire. I microrganismi
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termofili autotrofi sono i metanogeni, gli acidofili, tra cui gli archeobatteri Sulfolobus, e alcuni
sporigeni Bacillus e Clostridium. I microrganismi termofili eterotrofi appartengono ai generi Bacillus,
Clostridium, Thermos e Thermomicrobium. Termofili eterotrofi estremi sono Thermoanaerobacter,
Thermoanaerobium, Thermobacterioides.
L’acqua è il componente maggioritario delle forme viventi e ambiente vitale per la crescita di una
grande parte di esse. Il mezzo acquoso è anche trasportatore di nutrienti. Dal punto di vista della
concentrazione dei soluti nel mezzo di crescita, possiamo distinguere tra microrganismi alofili o
osmofili, che necessitano elevate pressioni osmotiche per la riproduzione, e microrganismi
alotolleranti o osmotolleranti, che crescono in modo ottimale in condizioni mesofile ma che
sopportano – non ne sono danneggiati – elevate pressioni osmotiche. La differenza tra alofilia e
osmofilia è data dall’adattamento alle condizioni iperosmotiche derivanti da sali, quindi pressione e
forza ionica, o semplicemente da soluti non ionici, quindi solo pressione. Anche per l’alofilia, come
per la temperatura, esistono vari gradi di adattamento: nei microrganismi non alofili la π ottimale è
inferiore a quella equivalente a 2.5% NaCl. Gli alofili moderati tollerano π corrispondenti alle
concentrazioni saline dei mari e degli oceani, comprese tra 3% e 10% NaCl. Negli ambienti ipersalini
troviamo invece gli alofili, a concentrazioni equivalenti tra 10% e 20% NaCl, e gli alofili estremi, che
vivono a concentrazioni equivalenti >20% NaCl. L’ambito di tolleranza dipende anche dalle altre
condizioni di coltivazione: temperatura, pH, composizione del terreno. La ragione
dell’osmofilia/alofilia di questi microrganismi è conosciuta e risiede nella produzione intracellulare di
osmoliti, sostanze che aumentano la pressione parziale interna in modo da compensare quella
esterna senza danneggiare la funzionalità della cellula ed evitare la perdita d’acqua per osmosi. Gli
osmoliti sono piccole molecole non ioniche, quali il glicerolo o altri polioli e zuccheri, oppure
molecole neutre con cariche positive e negative (zwitterioni), come la betaina, l’ectoina e gli
amminoacidi. Negli alofili estremi del gruppo degli Archea l’osmolita è il cloruro di sodio.
I microrganismi tolleranti basse concentrazioni saline appartengono a tutti i gruppi tassonomici:
batteri, funghi, alche e protozoi. Tra gli alofili moderati troviamo specie metanogene
(Methanohalophilus e Halomethanococcus), cocchi Gram-positivi (Micrococcus, Marinococcus,
Salinococcus, Pediococcus), bacilli sporigeni e aerobi Gram-negativi (Vibrio, Halomonas). Tra i batteri
alofili troviamo specie anaerobie (Haloanaerobium, Halobacteroides, Sporohalobacter) e anaerobi
sporigeni fototrofi (Chromatium, Chlorobium, Rhodospirillum). Gli alofili si distribuiscono
nell’ambiente a seconda delle necessità rispetto a luce ed ossigeno: i cianobatteri foto sintetici, che
tollerano la presenza di ossigeno, si trovano nella zona ossica. I batteri fotosintetici verdi e viola, che
usano luce a 750nm per fotosintesi, si trovano nella zona anossica non raggiunta dal visibile. Altri
alofili appartengono al gruppo delle microalghe, come il genere Dunaliella. Gli alofili estremi
appartengono soprattutto al gruppo degli Archea. Le specie più comuni appartengono alla famiglia
delle Halobacteriaceae (Halobacterium, Halococcus, Haloferax, Haloarcula, Haloquadratum). Alcuni
di essi sono anche alcalofili (Natronobacterium, Natrococcus).
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Ci sono numerose potenziali applicazioni biotecnologiche che utilizzano microrganismi alofili, alcune
delle quali già concretamente sviluppate. Ricordiamo la produzione di biomasse come mangime ad
alto contenuto proteico utilizzando la microalga Dunaliella coltivata in ambienti ipersalini; la
produzione di bio-plastiche, come i poli-idrossi alcanoati, da colture ipersaline a basso rischio di
contaminazione; la produzione di liposomi da fosfolipidi da archeobatteri, più resistenti alla
degradazione in quanto contenenti legami etere invece che estere; la produzione di enzimi attivi a
bassa attività dell’acqua e la produzione di osmoprotettivi; la produzione di membrane contenenti il
sistema rodopsina-retinale batterico per la generazione di corrente elettrica dalla luce; la produzione
di esopolisaccaridi come emulsionanti, surfrattanti e sigillanti.
Per quanto riguarda il pH, possiamo distinguere due gruppi interessanti di microrganismi: gli alcalofili
e gli acidofili. Gli alcalofili sono microrganismi adattati a condizioni di pH superiori a 9. Si trovano in
ambienti naturali alcalini, come le sorgenti iperalcaline contenenti sali di calcio e i laghi inariditi degli
ambienti desertici contenenti carbonati. In quest’ultimo caso, i batteri presenti saranno di tipo alo-
alcalofilo a causa dell’elevata concentrazione salina. Altri ambienti dove si possono trovare alcalofili
sono gli ambienti antropici industriali, quali i cementifici e dove si produce carta o si lavorano
alimenti. I batteri alcalofili sono eubatteri sporigeni (Bacillus) e non sporigeni (Cellulomonas,
Halomonas, Bogoriella), oppure archebatteri alo-alcalofili (Natronobacterium, Natronorubrum,
Natrialba).
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I batteri acidofili, adattati a condizioni di basso pH, si trovano principalmente in due tipi di ambienti:
le zone vulcaniche sulfuree dove si produce acido solforico dall’ossidazione dello zolfo elementare (S0
+ 3/2 O2 + H2O → H2SO4) da parte di Solfolobus e nelle zone minerarie dove i batteri ferro-ossidanti
acidofili ossidano i minerali ferrosi (solfuri) a idrossido ferrico e acido solforico (4 FeS2 + 14 H2O + 15
O2 → 4 Fe(OH)3 + 8 H2SO4). I batteri ferro-ossidanti sono principalmente bacilli o vibrioni, mobili e
non sporigeni, con pH ottimale 2-2.5: Acidithiobacillus, Leptospirillum, Ferrimicrobium, Sulfobacillus,
Acidimicrobium.
Un altro gruppo interessante di microrganismi adattati ad ambienti estremi è quello dei piezofili o
barofili, microrganismi che sopportano le pressioni (idrostatiche) molto elevate delle profondità
marine. Vale la pena ricordare che la maggior parte della superficie terrestre, più del 70%, è occupata
da mari ed oceani, con delle profondità maggiori di 1000 metri. In questo ambiente la pressione è
elevatissima, fino a 1000 atmosfere, non c’è luce e la temperatura è bassa: 1-2°C. Inoltre i nutrienti
sono molto scarsi. Oltre alla vastità delle profondità oceaniche, vale la pena citare altri ambienti
sottomarini particolari con delle condizioni differenti. Le sorgenti termali abissali sono ambienti non
antropizzati dove si registrano pressioni idrostatiche elevate ed assenza di luce. Differentemente dal
resto dell’oceano, le temperature sono elevate e non c’è traccia di ossigeno. L’ambiente è adatto
microrganismi ipertermofili con temperature ottimali di 90-100°C. Altri ambienti sottomarini
particolari sono le grotte e cavità anossiche, tra cui i cosiddetti blue holes, dove lo scambio con
l’ambiente esterno è limitatissimo e quindi le condizioni chimico-fisiche interne sono molto stabili e
caratterizzate da accumulo di acido solfidrico.
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I batteri presenti nelle sorgenti termali abissali sono particolarmente interessanti e numerosi, in
particolare gli archeobatteri Pyrodictium, Pyrococcus, Pyrolobus, Thermococcu e, Methanococcus.
Alcuni dati interessanti sugli archeobatteri: il primo genoma di Archea completamente sequenziato è
stato quello di Methanococcus jannaschii; il termofilo più estremo finora identificato è Pyrolobus
fumarii con 113°C di temperatura di crescita; il più piccolo batterio è Nanoarchaeum equitans con un
genoma di 480.000 coppie di basi (M. jannaschii ne ha 1.664.970 codificanti per 1772 geni) e una
dimensione di 0.4 μm.
La presenza di anidride carbonica nelle sorgenti abissali termali, ha permesso di formulare delle
ipotesi sui primi colonizzatori della Terra: sarebbe plausibile che fossero stati i batteri viola anaerobi
ferro-ossidanti, in grado di produrre materia organica dalla CO2 estraendo potere riducente
dall’ossidazione di ferro (II) a ferro (III), generando così le formazioni geologiche ferriche ancora
osservabili, parallelamente alla riproduzione di biomassa. Bisogna sottolineare che ai primordi dello
sviluppo della vita sulla Terra, la varietà e la numerosità delle forme di vita, che ora operano nei cicli
ambientali, era molto ridotta dando ampio spazio e tempo alle forme di vita che via via si evolvevano
in determinati ambienti e li colonizzavano.
Ecologia microbica
La vita nella biosfera è resa possibile dalle interazioni tra gli organismi e l’ambiente e degli organismi
tra loro. I macrorganismi, piante e animali, interagiscono tra loro e con i microrganismi. I
microrganismi, a loro volta, interagiscono intimamente tra loro e con l’ambiente. I cicli degli elementi
nella biosfera sono un esempio dell’importanza delle interazioni organismo-organismo e organismo-
ambiente.
L’analisi dei cicli ci permette anche di individuare degli ambienti definiti in cui determinati gruppi di
organismi trovano le condizioni favorevoli per la riproduzione. Le dimensioni di questi ambienti sono
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molto variabili come sono variabili il numero di organismi differenti che li popolano e la numerosità
degli individui di ogni singola specie. Ambienti grandi possono contenere ambienti più piccoli
differenziati tra loro. Questi ambienti, se considerati non solo come spazi caratterizzati da
determinate condizioni chimico-fisiche ma includendo anche le specie viventi in essi contenute,
diventano ecosistemi e nicchie trofiche, a seconda delle dimensioni e della complessità. Inoltre gli
ecosistemi non sono sistemi costanti in quanto i parametri biotici e abiotici cambiano sia su base
ciclica che come tendenza temporale, sia come conseguenza dell’evoluzione naturale che a causa
dell’antropizzazione. In generale le interazioni tra organismi e tra organismi e ambiente sono
dinamiche e sono soggette ad una evoluzione parallela ai cambiamenti ambientali e della
popolazione. Ogni cambiamento si ripercuote necessariamente su tutto l’ecosistema e questo è vero
per ogni scala temporale: sia relativamente al ciclo vitale del singolo individuo sia relativamente
all’apparizione/sparizione di specie di organismi.
Le interazioni tra organismi si dividono in due grosse categorie di associazione: quelle positive e
quelle negative. Semplificando la classificazione alle associazioni tra due organismi, quelle positive
sono associazioni che danno un vantaggio ad almeno uno degli organismi o perlomeno non danno
uno svantaggio a nessuno dei due organismi. Le associazioni negative sono quelle che arrecano uno
svantaggio almeno ad uno degli organismi. E’ importante sottolineare il fatto che il
vantaggio/svantaggio di un’associazione è valido solo per un determinato periodo temporale e che le
associazioni positive, nel lungo periodo, sono più favorevoli di quelle negative. Associazioni positive o
negative esistono sia tra organismi simili che tra organismi molto diversi. Due casi esemplari di
associazioni positive tra organismi molto diversi sono l’associazione tra le leguminose e i batteri
azoto-fissatori e la colonizzazione del tratto gastro-intestinale degli animali da parte degli
enterobatteri.
Tra le associazioni positive troviamo il neutralismo. Questa associazione non porta né beneficio ne
danno per le due specie. E’ un’associazione frequente tra gli organismi superiori ma praticamente
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inesistente tra i microrganismi in quanto le condizioni necessarie affinché si verifichi occorrono molto
di rado: ambiente ricco di nutrienti ma con basse densità di individui che abbiano esigenze
nutrizionali molto differenti. In pratica è stato dimostrato solo in vitro tra i microrganismi.
Un’associazione invece molto comune in natura è il commensalismo: si verifica quando un
organismo ricava beneficio da un altro senza arrecare danno. Casi tipici sono quando l’organismo A
trasforma un substrato (S) in un prodotto (P), dove S e P sono tipicamente fonti di carbonio o di
azoto, e l’organismo B è in grado di utilizzare a sua volta P ma non S; un altro caso è quando
l’organismo A produce un fattore di crescita specifico essenziale per B ma che quest’ultimo non è in
grado di sintetizzare; oppure può accadere che A inattiva o rimuove sostanze che impediscono la
crescita di B, quali tossine, inibitori o molecole dannose; infine A può fornire un supporto fisico per la
crescita di B. In questo ultimo caso A può essere sia un macrorganismo che un microrganismo, che
viene colonizzato da B. Questa associazione si chiama anche foresi: B vive all’interno di A, che gli
offre protezione, usandone i nutrienti senza arrecare danno. Questa associazione può eventualmente
sfociare nel parassitismo. Un esempio tipico di commensalismo è la nitrificazione vista nel ciclo
dell’azoto dove i batteri nitrosanti, ad esempio Nitrosomonas, ossidano l’ammonio a nitrito e i batteri
nitricanti, ad esempio Nitrobacter, ossidano il nitrito a nitrato ricavandone energia senza interferire
con il ciclo vitale di Nitrosomonas.
Un’altra associazione positiva è la protocooperazione, un’interazione mutualistica non obbligatoria
dove gli organismi apportano benefici reciproci non indispensabili ma che cessano se le specie
vengono isolate. Il sinergismo e la sintrofia sono esempi di protocooperazione finalizzata alla
degradazione o trasformazione di sostanze a scopo di nutrizione. Alcuni esempi di sinergismo sono la
degradazione cooperativa della cellulosa da colture miste di funghi; la degradazione di biomassa
vegetale da colture miste di batteri; l’ossidazione del manganese da colture miste di
Corynebacterium e Chromobacterium; la produzione di acido lattico da colture miste di Lactobacillus
e Streptococcus.
Un altro esempio di sintrofia è la degradazione di un composto inattaccabile dal singolo
microrganismo: il metabolismo ossidativo del butirrato ad acetato e idrogeno da parte di
Syntrophomonas non è possibile in quanto l’idrogeno accumulato ne inibisce l’ulteriore ossidazione.
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La presenza di microrganismi denitrificanti, solfato riduttori o metanogeni, che utilizzano l’idrogeno
prodotto come fonte di potere riducente, sposta l’equilibrio chimico sottraendo prodotto dalla
reazione di ossidazione del butirrato consentendo il metabolismo del Syntrophomonas.
Il mutualismo o simbiosi mutualistica consiste in un’associazione con scambio di benefici vitali,
quindi essenziali per la sopravvivenza di entrambi gli organismi. L’esempio più conosciuto è quello
dei licheni, un’associazione ubiquitaria tra funghi eterotrofi - ascomiceti o basidiomiceti - e alghe
autotrofe, in genere Trebuxia, oppure tra funghi eterotrofi e cianobatteri autotrofi, in genere Nostoc.
I licheni sono associazioni non specie-specifiche e quindi una stessa alga può associarsi con più specie
di fungo. I licheni sono associazioni primitive, i primi colonizzatori di ambienti abiotici, costituiti da un
micelio fungino protetto da cortecce al cui interno sono distribuite le cellule algali o cianobatteriche.
Possiamo distinguere strutture omeomere, presenti nei licheni più primitivi come quelli crostosi,
dove le cellule algali o batteriche formano un groviglio indifferenziato; oppure le strutture
eteromere, tipiche dei licheni fogliosi o fruticosi, che presentano delle stratificazioni con
differenziamento delle funzioni. Nell’associazione, la funzione dell’alga o del cianobatterio è quella di
fissare la CO2 e l’azoto sfruttando l’energia luminosa e producendo composti organici azotati,
zuccheri e alcoli: il fungo, da parte sua, assimila dall’ambiente acqua, sali ed altri nutrienti che utilizza
insieme ai composti organici prodotti dalle cellule algali o cianobatteriche per generare e mantenere
la biomassa fungina. Il micelio fungino costituisce la struttura di ancoraggio del lichene e serve da
contenimento e protezione per le cellule algali, contribuendo anche con il mantenimento di
condizioni idratate e sintesi di nutrienti particolari.
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Tra le associazioni negative, la competizione è il meccanismo di associazione più comune e origina
essenzialmente dall’incapacità dell’ambiente, a causa delle risorse limitate, di sostenere lo sviluppo
di popolazioni diverse: ciò comporta la riduzione generalizzata della crescita di tutti gli organismi.
Come precedentemente sottolineato, in natura gli organismi non sono mai perfettamente isolati in
un ambiente. Non esistono quindi le condizioni di ‘coltura pura’, che si possono riprodurre in
laboratorio, dove la crescita dell’organismo isolato avviene in modo ottimale e indisturbato secondo
la composizione del terreno e fino all’esaurimento dei nutrienti. Nelle colture miste la crescita
avviene secondo meccanismi di competizione per i substrati, si generano flussi di substrati le cui
concentrazioni e composizioni variano nel tempo modificando in continuazione le condizioni
colturali. Ciò comporta, di conseguenza, una variazione continua della composizione in specie diverse
della popolazione, con selezione di specie via via con fitness più adeguata e quindi con una
successione temporale di prevalenza di specie diverse. Bisogna sottolineare che, negli ambienti
naturali, la competizione non riguarda solo i nutrienti ma anche la luce, l’acqua e lo spazio. Inoltre,
quando la competizione è interspecifica, cioè tra specie diverse, in genere una specie è prevalente in
una data finestra temporale. Nella competizione intraspecifica, cioè tra ceppi e/o varianti della stessa
specie, in genere le singole popolazioni si limitano a vicenda senza fenomeni di prevalenza spinta
essendo la fitness per le condizioni ambientali poco diversificata. Le caratteristiche di fitness che
condizionano i meccanismi di competizione sono svariate e comprendono: velocità di crescita e
velocità metabolica (velocità di consumo dei substrati), spesso strettamente correlate; tolleranza o
resistenza a fattori abiotici quali temperatura, pH o attività dell’acqua; tolleranza alle fluttuazioni dei
parametri ambientali; resa metabolica, cioè la capacità di ottenere energia e substrati per la crescita
a basse concentrazioni di nutrienti; capacità di sintesi di sostanze di riserva per i momenti di carenza;
capacità di movimento, cioè la capacità di ricerca di nicchie più favorevoli.
L’amensalismo o antibiosi è la produzione di sostanze tossiche verso altri organismi, in particolare ci
si riferisce alla produzione di sostanze con attività tossica specifica elevata e che quindi esercitano la
loro attività di antibiosi se prodotte anche a bassa concentrazione. Bisogna infatti precisare che molti
prodotti metabolici sono potenzialmente tossici, ad esempio l’etanolo o gli acidi organici, se presenti
ad alte concentrazioni, paragonabili a quelle che potenzialmente generano i produttori di questi
metaboliti. L’antibiosi fa invece riferimento a prodotti con attività biologica specifica su precisi
bersagli cellulari come gli antibiotici, le batteriocine e le tossine in generale. La produzione di queste
sostanze è comune tra i microrganismi terricoli e gli enterobatteri. Il prodotto non è generico ma è
attivo su un numero limitato di specie, spesso molto limitato, e quindi se ne deduce che se ne sia
evoluta la produzione in ambienti tipicamente costituiti da popolazioni miste. La produzione della
sostanza tossica può far supporre che l’evoluzione della popolazione si orienti verso delle condizioni
di ‘coltura pura’ dove solo il produttore è in grado di riprodursi. Invece il naturale evento
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dell’insorgenza di resistenze porta inevitabilmente alla formazione di popolazioni miste garantendo
al produttore una condizione di dominanza temporale ma non di assoluta esclusività. Questi prodotti
possono essere attivi su specie filogeneticamente lontane, quali gli antibiotici, o relativamente vicine,
come le batteriocine. Un’applicazione industriale dell’amensalismo è il trattamento di alimenti con
batteriocine da lattobacilli per impedire la contaminazione da Clostridium, Listeria e Staphylococcus.
Attualmente si usano batteriocine da Lactobacillus lactis, resistenti al calore e al pH.
Nel parassitismo, il parassita si nutre di cellule, tessuti e fluidi dell’organismo ospite che ne viene
danneggiato. Il parassitismo confina da una parte col commensalismo e dall’altra con la predazione
presentando una grande varietà di situazioni intermedie. I parassiti sono di solito sempre a contatto
con l’ospite, sono più piccoli e attivi su un ambito ristretto di specie di ospiti. Diversamente, i
predatori sono spesso più grandi delle prede e ne vengono in contatto solo occasionalmente. I
parassiti si dividono in endoparassiti o ectoparassiti, a seconda che abbiano il ciclo vitale
prevalentemente all’interno o all’esterno dell’ospite, e obbligati o facoltativi, a seconda che abbiano
necessità dell’ospite per completare il ciclo vitale oppure possano resistere e vivere anche all’esterno
dell’ospite abituale.
Un esempio tipico di parassitismo è il ciclo vitale del Plasmodium falciparum che possiede una parte
del ciclo vitale nell’uomo e una parte nella zanzara. La parte nell’uomo avviene nel fegato e quindi
nel circolo sanguigno, dove avviene il differenziamento dei gameti. Nella parte nella zanzara avviene
la coniugazione dei gameti e la successiva formazione degli sporozoiti. Per quanto riguarda i
microrganismi, un esempio di parassitismo è quello tra Bdellovibrio e gli enterobatteri Gram-negativi
Pseudomonas. Il Bdellovibrio contatta l’ospite, digerisce la parete batterica e penetra nel citoplasma
da dove richiude la parete e la modifica in modo che diventi inattaccabile da altri parassiti. A questo
punto il parassita si accresce a spese dell’ospite e si divide in più cellule fino a provocare la lisi finale
di quello che rimane della cellula ospite col rilascio di nuovi individui.
L’ultima associazione negativa è la predazione dove il predatore si nutre di un altro organismo. Nel
caso di prede unicellulari, la preda muore. Nel caso di prede multicellulari, la preda viene
parzialmente o totalmente distrutta. Le dinamiche e gli equilibri preda-predatore sono state
ampiamente studiate e formalizzate per gli organismi superiori, ma non si applicano ai microrganismi
dove le variabili in gioco sono molto differenti. Nei microrganismi la predazione può avvenite per
fagotrofia, quando il predatore ingerisce materiale particolato incluse cellule microbiche, con
successiva lisi e assimilazione dei nutrienti dall’interno del predatore. Oppure il predatore lisa la
preda dall’esterno e ne assimila i nutrienti solubili o solubilizzabili. Alcuni esempi di predazione tra
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microrganismi sono la fagocitosi di spore del fungo terricolo Chocliolobus sativus da parte dell’ameba
Leptomixa reticolata, un protozoo, e la predazione del nematode Chaenorabditis elegans, anch’esso
un protozoo, da parte del fungo Arthrobotrys anchonin. I funghi utilizzano trappole fatte con le
proprie ife per bloccare le prede e quindi aggredirle provocandone la lisi. Il nematode C. elegans è a
sua volta un predatore fagotrofico in quanto si nutre di cellule batteriche. Dal punto di vista degli
equilibri tra popolazioni, bisogna sottolineare che anche per quanto riguarda i microrganismi,
l’attività del predatore riduce drasticamente la popolazione di prede, ad esempio la numerosità dei
batteri nelle acque colonizzate dai nematodi.
Biofilm
Le interazioni tra microrganismi avvengono tra specie diverse, secondo le associazioni descritte, ma
anche tra individui della stessa specie che costituiscono una popolazione omogenea d’individui.
Individui di specie diverse sono, per definizione, specializzati in determinate funzioni nell’ecosistema.
Bisogna però rimarcare che anche individui della stessa specie possono acquisire dei tratti distintivi
rispetto agli altri individui, tratti che gli conferiscono una sorta di specializzazione e quindi una
funzione particolare nell’ambito della comunità. La distinzione dei ruoli tra gli individui, che si attua
nelle comunità di organismi superiori, succede anche nelle comunità di microrganismi. Questo
fenomeno è particolarmente evidente in alcuni modi di sviluppo delle comunità microbiche.
Una modalità fondamentale dello sviluppo della comunità microbica è quello della colonia cioè una
popolazione di individui che deriva da un singolo progenitore per divisione mitotica. All’interno della
colonia possono verificarsi anche coniugazioni e meiosi nel caso siano possibili fenomeni di sessualità
a causa dell’assetto genetico del progenitore, ma la popolazione all’interno della colonia rimane
sostanzialmente omogenea dal punto di vista genetico. La colonia corrisponde grosso modo al
concetto di clone: la generazione di individui identici al progenitore. Fatta questa premessa, bisogna
distinguere nei microrganismi tra crescita planctonica e crescita sessile. La crescita planctonica si
verifica in mezzo acquoso ed è caratterizzata da cellule isolate e libere. È il tipo di crescita che si
riproduce di solito in laboratorio dove le cellule vengono mantenute in sospensione dall’agitazione in
un mezzo omogeneo per distribuzione di nutrienti, biomassa, temperatura, ossigeno ecc. Le cellule
planctoniche che crescono in queste condizioni ottimali sono tutte uguali: vanno incontro a dei
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cambiamenti corrispondenti alle varie fasi di crescita, ma i cambiamenti avvengono mediamente su
tutta la popolazione. La crescita sessile avviene sulla superficie di un supporto solido o semisolido che
contiene eventualmente anche parte o tutti i substrati per la crescita. La fase al di sopra della
superficie è fluida, quindi liquida o gassosa (atmosferica), e può contribuire con nutrienti alla crescita
dei microrganismi. La colonia su piastra di terreno agarizzato è un tipo di crescita sessile che parte da
un singolo individuo. Man mano che la colonia cresce, si generano delle zone nella colonia con delle
condizioni molto diversificate: il perimetro della colonia dove ci sono le cellule in divisione attiva con
la massima concentrazione di nutrienti e contatto con l’aria; il centro della colonia a diretto contatto
col terreno ma con una limitata quantità di aria; la parte aerea della colonia con un diretto contatto
con l’aria ma priva di nutrienti. Le cellule presenti nei vari punti della colonia tendono a entrare in
stati fisiologici e fasi di crescita diverse a seconda delle condizioni che sperimentano e,
eventualmente, a differenziarsi come nel caso dei microrganismi filamentosi che generano i corpi
fruttiferi aerei contenenti spore. Anche la colonia su piastra, come la crescita in terreno liquido, è un
modo di crescita piuttosto artificiale tipico del laboratorio di microbiologia.
Altri tipi di crescita superficiale naturale sono i feltri microbici e i biofilm e l’ambiente più comune di
sviluppo è un supporto solido o semisolido con fase acquosa soprastante. I feltri microbici sono
strutture pluristratificate generate da microrganismi filamentosi, anche di tipi diversi, che
raggiungono spessori di vari millimetri e che sono adese e tenute insieme anche grazie alla
produzione di esopolisaccaridi (mucillagini). All’interno del feltro si possono generare ambienti
differenziati. La differenza tra feltro microbico e biofilm non è sempre evidente: il biofim, per
definizione, è una matrice composita e strutturata di cellule microbiche e di sostanze cellulari secrete
ed autoprodotte adesa ad una superficie. In dettaglio, le sostanze esocellulari sono polimeri, la
superficie di adesione è in genere un’interfaccia con una fase liquida, la superficie può essere solo
supporto o anche fonte di substrati, la popolazione microbica può essere singola o multispecie, lo
spessore è ridotto e non stratificato.
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Il biofilm è costituito da cellule impilate racchiuse in strutture esopolimeriche fortemente idratate:
polisaccaridi, lipopolisaccaridi, proteine, glicoproteine. Sono comuni anche enzimi e lipidi all’interno
delle strutture. I sostituenti carichi degli esopolimeri strutturali contribuiscono a trattenere nella
matrice metalli e altre sostanze ioniche importanti per il metabolismo cellulare. La struttura della
matrice non è compatta ma esistono pori, cavità e canalizzazioni orizzontali che permettono il fluire
della fase liquida, la distribuzione dei nutrienti e l’intrappolamento dei detriti. Esistono anche delle
zone più lasche dove avviene il distacco di porzioni di biofilm.
Le specie batteriche che formano biofilm appartengono a svariati generi: Acinetobacter, Alcaligenes,
Arthrobacter, Azospirillum, Bacillus, Brevibacterium, Burkholderia, Corynebactrium, Flavobacterium,
Kurtia, Listeria, Micrococcus, Kocuria, Pseudomonas, Staphylococcus, Vibrio. I biofilm si possono
sviluppare sia su superfici abiotiche (inorganiche) che su superfici (organi o tessuti) di macrorganismi:
lo sviluppo del biofilm è un evento multifattoriale, dinamico e complesso. Condizioni chimico-fisiche
dell’habitat quali la composizione e la struttura delle superfici e le caratteristiche idrodinamiche della
fase fluida contribuiscono a determinare lo sviluppo del biofilm insieme alle variabili biologiche –
genetiche, fisiologiche ed ecologiche – del microrganismo e dell’ospite.
La formazione del biofilm si suddivide in varie fasi. La prima è il condizionamento della superficie,
fase necessaria per consentire la colonizzazione da parte dei microrganismi, che consiste
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nell’adsorbimento dalla fase acquosa di sostanze, soluti o particolato, che stimolino l’adesione delle
cellule microbiche di tipo planctonico presenti nella fase acquosa e ne permettano la proliferazione.
Nella seconda fase, le cellule presenti e adese alla superficie intensificano la loro interazione con la
superficie tramite proteine esterne, pili o flagelli. Questa fase è critica per la progressione dello
sviluppo del biofilm, che prosegue con la fase di ancoraggio irreversibile tramite la produzione di
polimeri esocellulari e la formazione di un primo strato di cellule inglobate in una matrice idratata. In
questa fase continua la duplicazione cellulare, si consolida la matrice tramite legami covalenti e le
cellule cominciano a sentirsi e a comunicare tra loro tramite i meccanismi di quorum sensing. Questo
meccanismo si basa sulla sintesi di molecole segnale che, quando raggiungono una concentrazione
soglia determinata dal numero di cellule presenti nel microambiente, attivano dei segnali all’interno
delle cellule che provocano una serie di modificazioni adattive delle cellule stesse. Questo
adattamento si basa sull’accensione e/o spegnimento dell’espressione di determinati geni che
modificano profondamente lo stato metabolico e fisiologico delle cellule. Le molecole di quorum
sensing più comuni nei batteri sono l’acil-omoserina lattone (AHL) e i suoi derivati e peptidi
autoinduttori (AIP).
A questo punto comincia la costruzione del biofilm vero e proprio con la crescita verticale della
struttura dovuta all’impilamento delle cellule, che continuano a duplicarsi, affiancato alla continua
secrezione di esopolimeri. Il biofilm si propaga anche orizzontalmente grazie alla produzione e
secrezione di sostanze mucose e biosurfrattanti e alla mobilità delle cellule batteriche tramite organi
di mobilità cellulare quali pili, flagelli e fimbrie. Questi eventi sono mediati dal quorum sensing. Infine
c’è la fase di maturazione del biofilm, con il differenziamento delle cellule nei vari distretti del
biofilm, l’assimilazione e il rilascio di sostanze nutritive e di scarto. Dal biofilm maturo avviene anche
il rilascio di cellule o il distacco di porzioni di biofilm per la colonizzazione di altre superfici.
Il biofilm delimita e definisce un ambiente popolato da una comunità microbica in cui le cellule
vivono in modo interdipendente. Le cellule non sono tutte uguali ma la popolazione è eterogenea
con differenze dal punto di vista fisiologico e metabolico; si possono selezionare varianti genetiche e
mutanti. L’ambiente del biofilm è esso stesso variabile e si possono trovare nel biofilm dei
microambienti con caratteristiche chimico-fisiche differenti in cui sub-popolazioni possono trovare le
condizioni ottimali e segregare generando eterogeneità. Le cellule comunicano tra loro nel biofilm,
ad esempio attraverso meccanismi di quorum sensing, e costituiscono una collettività dove ogni
cellula trova il suo ruolo. Nel biofilm non si accumulano solo molecole segnale specifiche, ma anche
proteine, polisaccaridi, acidi nucleici, acidi grassi, fibre di vario tipo e fagi. L’eterogeneità delle cellule
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si applica sia a cellule di specie diverse che a cellule della stessa specie ma che si differenziano per
stato fisiologico: cellule in fase di divisione, cellule stazionarie, cellule morte. I nutrienti nel biofilm
non sono mai abbondanti e quindi la fase di crescita esponenziale, tipica delle colture planctoniche,
non si verifica o si arresta molto rapidamente. Differenze le possiamo trovare nel metabolismo a
seconda della localizzazione delle cellule nel biofilm: cellule a contatto con l’esterno possono
produrre enzimi idrolitici per polimeri esterni e favorire la diffusione dei monomeri all’interno. Le
cellule all’interno possono esprimere i geni necessari all’attivazione delle vie metaboliche per
l’assimilazione dei monomeri disponibili. Altre differenze le possiamo trovare sul metabolismo
aerobico o anaerobico a seconda della distanza dalla superficie di diffusione dell’ossigeno.
Il biofilm è quindi uno stile di vita per i batteri che lo generano e lo abitano. Innanzi tutto è una
struttura stabile e difficilmente eradicabile una volta che si è generato. Ma oltre a essere una casa
stabile, offre ai microrganismi che lo abitano una protezione contro svariati pericoli: molecole o
cellule battericide/batteriofaghe prodotte eventualmente dall’organismo colonizzato; anticorpi e
antibiotici o altri pericoli ambientali quali fagi e protozoi. La superficie del biofilm è una barriera fisica
sulla quale gli agenti esterni si possono adsorbire ma la cui diffusione all’interno risulta bloccata o
perlomeno rallentata. Questo consente alle cellule perimetrali di secernere sostanze che inattivino
l’agente esterno, ad esempio enzimi idrolitici, oppure di rilasciare enzimi intracellulari protettivi per
la comunità in seguito a lisi cellulare. Un esempio è la produzione di catalasi che neutralizza l’azione
ossidante letale dell’acqua ossigenata. La barriera fisica e la controazione biologica garantiscono un
bilancio tra diffusione e inattivazione dell’agente esterno nocivo e la formazione di un gradiente di
tossicità che protegge di fatto le cellule più interne. La scarsezza dei nutrienti e quindi la limitazione
della crescita garantisce una protezione aggiuntiva contro gli agenti tossici che intervengono in
processi correlati alla duplicazione cellulare. Un altro fenomeno rilevante nel biofilm è la presenza di
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DNA libero che può essere acquisito, più facilmente che in ambienti esterni, da cellule anche di
specie diverse favorendo il trasferimento orizzontale di geni. Nel caso di trasferimento dei geni di
resistenza ad antibiotici, spesso presenti su plasmidi o trasposoni, questo fenomeno contribuisce alla
diffusione interspecifica di resistenze e resistenze multiple nelle popolazioni batteriche
aumentandone le probabilità di sopravvivenza.
I biofilm sono importanti nella medicina, nella sanità e nelle applicazioni biotecnologiche. Specie
batteriche non patogene, come Staphylococcus epidermidis e Pseudomonas aeruginosa, diventano
patogene quando formano biofilm, cosa che accade in particolar modo negli individui
immunodepressi. Nell’industria alimentare il biofilm rappresenta spesso un grosso problema
provocando bioincrostazione e biocorrosione dei macchinari e colonizzando superfici di lavoro
(Pseudomonas) e le carni (Escherichia coli, Lactobacillus brevis, Klebsiella, Pseudomonas) provocando
contaminazione e deperibilità dei prodotti. Per quanto riguarda il suolo e le piante, bisogna
evidenziare come la maggior parte dei batteri del suolo siano in forma di biofilm adesi alle particelle
di terreno, rappresentato da fillosilicati, organo-minerali, micro-minerali e superfici radicali, piuttosto
che in forma planctonica dispersa nella fase idrica circolante. Tra l’altro, la presenza di una fase idrica
separata nel terreno è fortemente dipendente dalle precipitazioni e non costante. Particolarmente
importanti sono i batteri rizosferici che hanno un’attività importante di fitostimolazione e azoto
fissazione: crescono sulla superficie delle radici in forma di biofilm oppure colonizzano le piante per
penetrazione tissutale per produzione di enzimi litici delle strutture vegetali. Alcuni batteri, come il
Bacillus subtilis, producono biofilm che proteggono la pianta da altri patogeni o favoriscono
l’adsorbimento di nutrienti stimolando il metabolismo vegetale e quindi il ciclo biogeochimico.
D’altra parte anche i microrganismi fitopatogeni producono biofilm proteggendosi dalle sostanze
antimicrobiche vegetali o ambientali, e da altri organismi. I biofilm hanno anche importanza nel ciclo
dell’azoto poiché si è visto che batteri nitrosanti e nitricanti del suolo e delle acque (Nitrosomonas,
Nitrobacter e Nitrospira) formano biofilm a comunità mista promuovendo la nitrificazione e
nitrosazione dell’ambiente.
Biodiversità microbica
Un ecosistema è un ambiente diversificato composto da habitat differenti nei quali, a loro volta,
trovano posto nicchie ecologiche ancora diverse tra loro. A questa suddivisione ambientale fa
riscontro anche una diversificazione delle specie viventi che abitano l’ecosistema.
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Le varie specie si distribuiscono preferenzialmente negli ambienti più consoni alle loro
caratteristiche. L’insieme delle specie viventi, e quindi anche del loro materiale genetico ereditario,
in un dato ecosistema rappresenta la diversità biologica – biodiversità - dell’ambiente. Questa
visione dell’ecosistema fotografa un sistema in cui la biodiversità è distribuita nello spazio, definisce
cioè una distribuzione geografica della biodiversità. L’esistenza dei cicli suggerisce che esiste però
anche una distribuzione temporale della biodiversità identificabile come l’avvicendamento di specie
viventi a seconda dell’andamento del ciclo ambientale. Quindi la biodiversità è anche una funzione
del tempo. Ma oltre ai cambiamenti ciclici esiste anche una deriva evolutiva più ampia che sposta
progressivamente il baricentro del ciclo in una direzione su scala temporale più ampia. Questa deriva
dipende dall’interazione di parametri ambientali di vario tipo, da quelli geologici a quelli antropici,
passando per quelli climatici, con i parametri biologici che a loro volta modificano l’ambiente:
l’evoluzione degli organismi viventi va insieme all’evoluzione dell’habitat lungo un cambiamento
inarrestabile.
In habitat diversi troviamo popolazioni di viventi diverse, cioè specie diverse, che contribuiscono alla
biodiversità negli ecosistemi. Sono quindi essenziali i concetti di specie e biodiversità e le loro
definizioni. Per quanto riguarda le specie che si riproducono sessualmente, la specie è l’insieme di
individui interfertili cioè che sono in grado di riprodurre individui a loro volta interfertili. La
biodiversità, questo caso, è l’insieme delle diverse specie. Più sono numerose e maggiore è la
biodiversità. Ogni specie può a sua volta essere rappresentata da una numerosità variabile a seconda
del numero di individui appartenenti alla stessa specie. Il concetto di interfertilità per definire la
specie non si può applicare per i viventi che si riproducono in modo asessuale come la maggior parte
dei microrganismi elementari quali batteri, lieviti, micro funghi, virus, fagi. In questo caso la specie si
può definire come un insieme di ‘ceppi’ con caratteristiche genotipiche e fenotipiche omogenee e
differenziabili da altri insiemi. Gli insiemi di individui che si possono classificare in base a delle
caratteristiche comuni si chiamano taxa. Si può quindi dire che, in generale, la biodiversità è la
diversità e la numerosità (numero di individui di un taxa) dei taxa presenti nell’habitat in
considerazione. La scienza che studia la classificazione degli organismi è la tassonomia, che definisce i
taxa e i principi di distribuzione degli individui nei gruppi tassonomici. I taxa sono organizzati
gerarchicamente in modo che ogni taxa di livello gerarchico superiore contenga i taxa di livello
inferiore. Ogni insieme di taxa di pari livello costituisce un gruppo con una denominazione in modo
da poter localizzare ogni taxa nel suo livello di classificazione. Dal più ampio al più ristretto, i taxa si
raggruppano nelle categorie decrescenti di Regno > Phylum o Divisione > Classe > Ordine > Famiglia >
Genere > specie. La specie, come ultimo taxa, si scrive in minuscolo. La specie è idealmente
composta da individui omogenei ma, come tutte le classificazioni, è arbitraria e ovviamente gli
individui della stessa specie non sono uguali tra loro, in quanto individui e non ‘cloni’ (per quanto i
cloni si possano considerare tra loro identici). Ad esempio, tra i microrganismi si possono individuare
dei raggruppamenti di livello intermedio tra la specie e l’individuo, chiamati ceppi e/o biovar. Anche
queste popolazioni contribuiscono alla biodiversità in quanto caratterizzati in modo rigoroso sulla
base di fenotipi e genotipi specifici. L’analisi della biodiversità a questi livelli di approfondimento è
resa possibile da pochi anni grazie allo sviluppo di tecniche analitiche molto potenti che traggono
origine dalle tecniche di sequenziamento del DNA. Oggi, queste tecniche consentono di sequenziare
in poco tempo e con poca spesa i genomi, soprattutto quelli batterici che sono particolarmente
ridotti di taglia. Oltre alla genomica, altre discipline ‘omiche’ hanno preso piede: trascrittomica,
proteomica, metabolomica e via dicendo. Queste discipline permettono di dare informazioni
sull’insieme degli elementi considerati. Quindi, se la genomica ci può dire quali sono tutti i geni che
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sono presenti nel DNA di un organismo, la trascrittomica ci può dire come (e quanto) tutti questi geni
vengono trascritti (espressi), la proteomica ci può dare tutte le proteine presenti nella cellula e la
metabolomica la composizione della cellula in termini di metaboliti. La potenza e il limite di queste
discipline sono che si applicano ad un individuo per cui il genoma che si porta a conoscenza è di
quello specifico individuo o clone che viene sequenziato e, come abbiamo visto, anche una specie
può essere composta da individui molto differenti tra loro. Per ottenere dei dati rappresentativi
bisogna quindi collezionare sequenze da più individui. D’altra parte, il sequenziamento individuale sta
aprendo le porte a nuove prospettive nel campo bio-medico con lo studio dei polimorfismi del
genoma degli individui (personal genomics) e la loro correlazione con le malattie genetiche. Inoltre la
disponibilità di dati omici permette anche di fare analisi funzionali su organismi altrimenti
sconosciuti, cioè di prevedere una fisiologia sulla base della presenza di determinati geni, della loro
espressione (trascrizione e traduzione) e funzionalità (presenza di metaboliti). Dal punto di vista della
genetica, della quale la genomica è un’evoluzione tecnologica, possiamo distinguere diversità di vario
livello tra gli individui di una specie e gli organismi di specie diverse. Le diversità minime sono i
polimorfismi dei singoli nucleotidi e le piccole mutazioni che differenziano in genere gli individui di
una specie. Da specie a specie le variazioni genetiche/genomiche diventano via via più estese ed
importanti man mano che ci si allontana dal punto di vista evolutivo: cambiano le sequenze dei geni,
anche se mantengono la stessa funzione; cambiano le sequenze degli elementi regolatori
dell’espressione genica; geni vengono persi, duplicati, acquisiti o cambiano funzione; intere porzioni
di genoma si riarrangiano, si perdono, si acquisiscono. La spinta evolutiva porta all’acquisizione di
diversità ma dall’altra parte la necessità funzionale trattiene verso la conservazione. La diversità
funzionale è un altro aspetto interessante dell’analisi delle popolazioni degli ecosistemi: la si può
considerare sia a livello di singoli geni/proteine che definiscano la possibilità o meno di effettuare, ad
esempio, una trasformazione chimica, sia a livello di organismi, che consenta loro di svolgere un
ruolo complesso nell’equilibrio ambientale. Grazie alla diversità funzionale, è possibile trovare
individui o gruppi tassonomici che svolgano funzioni differenti nello stesso taxon oppure individui
diversi o taxa diversi che svolgano la stessa funzione, come abbiamo visto per la produzione di CO2,
per il turnover di sostanza organica, per l’umificazione/deumificazione, per i cicli geobiochimici.
Per quanto riguarda lo studio della biodiversità microbica, le due operazioni di base sono la conta
degli individui e la loro identificazione, cioè la definizione dei loro gruppi di appartenenza. La conta,
in certi casi, si può limitare alla valutazione dell’abbondanza relativa nella popolazione totale. Gli
approcci metodologici si suddividono in quelli basati sul DNA e quelli non basati sul DNA. Questi
ultimi si differenziano a seconda che il microrganismo sia coltivabile (VC) o non-coltivabile (VNC). Se il
microrganismo è coltivabile, cioè si può far riprodurre in laboratorio con le metodologie standard
della microbiologia, si può seguire il metodo classico di isolamento, coltivazione in coltura pura e
identificazione del microrganismo. A differenza di quanto si potrebbe pensare, la maggioranza dei
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microrganismi campionati dall’ambiente (più del 90%) non sono però coltivabili, cioè non si può
ottenere una colonia su piastra, o una coltura liquida pura, composta dalla progenie della cellula
originaria. Le cause di non-coltivabilità sono varie: una volta sottratte al loro ambiente, le cellule
possono venire in contatto con sostanze tossiche o antimicrobiche. Ad esempio l’ossigeno, per noi
essenziale, è dannoso per molti microrganismi anaerobi, come gli anaerobi obbligati.
Cellule vive e cellule morte possono essere visualizzate al microscopio dopo incubazione con appositi
coloranti: il cloruro di tetrazolio colora cellule vitali, lo ioduro di propidio colora le cellule morte.
Questi coloranti possono essere usati, ad esempio, sui biofilm per identificare le cellule vive e quelle
morte. Quelle vive hanno un metabolismo redox attivo che riduce il tetrazolio in una forma
fluorescente. Un altro motivo di non-coltivabilità sono le esigenze sintrofiche con altri organismi che
non consentono di principio al microrganismo di riprodursi e generare una progenie se coltivato in
modo isolato in quanto carente di nutrienti essenziali. In altri casi è l’assenza di comunicazione che
impedisce la crescita. Infatti le molecole segnale del quorum sensing possono avere l’effetto di
bloccare/sbloccare il metabolismo di determinate specie che quindi proliferano solo se attivate da
segnali esogeni da altre cellule. Infine, alcuni organismi utilizzano delle strategie di colonizzazione
dell’ambiente non adatte alle condizioni di laboratorio, dove le concentrazioni dei nutrienti sono
solitamente elevate per consentire la produzione di biomassa. In linee generali, le strategie di
colonizzazione sono due. La strategia r, caratterizzata da un’elevata velocità di duplicazione,
consente uno sfruttamento ottimale dell’ambiente con ampie oscillazioni di biomassa a seconda
della disponibilità dei nutrienti; la strategia K, caratterizzata da basse velocità di crescita e lento
adattamento all’ambiente ma con una popolazione stabile nel tempo (dN/dt = rN(1 – N/K) = rN –
rN2/K). I ricchi terreni di laboratorio non ottimali per gli organismi K. Per le cellule non-coltivabili si
adottano metodi indipendenti dalla coltivazione, lavorando direttamente sul campione e analizzando
le cellule o i loro prodotti.
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Metodi non DNA dipendenti su campioni di cellula coltivabili per l’identificazione e la
caratterizzazione di colture pure di microrganismi sono l’utilizzazione del substrato (substrate
utilization, SU), il profilo di resistenza agli antibiotici (intrinsic antibiotic resistance profile, IAR) e la
citometria a flusso (flow cytometry, FC).
Il metodo SU, ad esempio il sistema Biolog®, consiste in micropiastre da 96 pozzetti contenenti
ciascuno un substrato differente e il colorante vitale violetto di tetrazolio. Il microrganismo viene
coltivato in coltura pura ed aggiunto ai pozzetti: se l’organismo è in grado di utilizzare il substrato
specifico presente nel pozzetto potrà riprodursi e il metabolismo attivo delle cellule in crescita potrà
essere facilmente visualizzato dallo sviluppo della colorazione violetta. Dato che la capacità di
utilizzare substrati diversi cambia da specie a specie, e talvolta anche all’interno di una specie i vari
ceppi possono avere capacità metaboliche differenti, la distribuzione dei pozzetti positivi alla crescita
nella piastra è in un certo senso specifica dell’organismo analizzato. Ciò consente di determinare un
profilo metabolico e di identificare l’organismo selezionato. Questo metodo può essere anche
utilizzato per caratterizzare comunità microbiche (community level physiological profile, CLPP): in
questo caso si identifica il profilo metabolico non del singolo organismo, ma dell’intera comunità
microbica.
Il metodo IAR permette di caratterizzare il microrganismo sulla base delle resistenze agli antibiotici.
E’ conosciuto anche come antibiogramma ed è il test analitico per determinare l’antibiotico più
adatto a combattere le patologie da microrganismi. La coltura del microrganismo viene spatolata su
una piastra Petri con terreno permissivo e successivamente vengono adagiati dischetti di carta sterile
imbibiti con antibiotici differenti. La piastra viene quindi incubata alla temperatura di crescita del
microrganismo che crescerà a confluenza sulla superficie della piastra tranne che intorno al dischetto
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contenente l’antibiotico per il quale è sensibile. La distribuzione ed il diametro degli aloni di
inibizione della crescita attorno ai dischetti risulterà caratteristica di ogni dato microrganismo.
La citometria a flusso si basa sulla dispersione di un raggio laser incidente su un campione di cellule
che transita in un capillare, ogni volta che la singola cellula passa davanti al raggio stesso. Questa
tecnica è molto potente e consente svariati tipi di analisi. In primo luogo, ogni impulso di scattering
viene registrato al passaggio di ogni singola cellula consentendo di contare il numero di cellule del
campione una per una, determinando la numerosità del campione. L’intensità dello scattering
anteriore (forward scattering) è proporzionale alle dimensioni delle cellule mentre l’intensità dello
scattering laterale (side scattering) è proporzionale all’irregolarità della forma della cellula. Dato che
ogni singolo evento di scattering, dovuto al passaggio di una singola cellula, viene registrato dalla
macchina anche come intensità dell’evento e ciò viene effettuato su tutte la cellule del campione che
fluisce attraverso il capillare, si può determinare non solo il numero di cellule nel campione, ma
anche quante cellule sono grandi o piccole e quante sono regolari e irregolari con grande precisione,
dato che la macchina registra un numero statisticamente significativo di eventi: decine o centinaia di
migliaia di eventi (cellule). Un’altra grande potenzialità di questo sistema di analisi della singola
cellula è la possibilità di registrare la fluorescenza emessa dalle molecole che compongono la cellula,
emessa in seguito all’eccitamento con la luce laser incidente (citofluorimetria): il side scattering può
essere separato da prismi nelle varie lunghezze d’onda e ogni singola emissione alla lunghezza
d’onda specifica registrata dalla macchina. Ogni tipo di componente cellulare (fluorocromo) avrà
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un’emissione caratteristica permettendo quindi di stabilire la quantità di queste molecole nella
cellula. Ad esempio si può stabilire la quantità di DNA della popolazione cellulare definendo
esattamente quale sia la percentuale di cellule che abbiano duplicato il proprio genoma e sia quindi
in fase di divisione cellulare. La citofluorimetria si può applicare a campioni con cellule di diversa
origine: se ne determina la numerosità, la forma e la dimensione, e si può determinare se alle
sottopopolazioni presenti si possa associare qualche emissione caratteristica di componenti specie-
specifici per stabilirne esattamente l’appartenenza.
Un certo numero di metodi molecolari si applicano su cellule non coltivabili: le analisi vengono fatte
direttamente sui campionamenti o su preparati da campionamenti e si analizzano DNA, RNA o altri
tipi di molecole presenti negli estratti e/o nelle cellule. L’ibridazione in situ con sonde marcate con
radioattivo (in situ hybridization, ISH) o con sonde legate a molecole fluorescenti (fluorescent in situ
hybridization, FISH) permette di identificare delle sequenze specifiche di acidi nucleici nel campione,
sia costituito da cellule, che da tessuti o da campioni ambientali. La marcatura radioattiva viene
visualizzata per autoradiografia e la fluorescenza tramite microscopio a fluorescenza. Si possono
usare anche anticorpi marcati per l’identificazione di proteine specifiche. Oltre alla presenza o meno
di specifiche molecole, se ne può anche determinare la posizione nel campione, ad esempio la
localizzazione cellulare, con grande precisione. Questa metodologia è semplice e rapida e si può
applicare utilizzando anche più sonde contemporaneamente in modo da evidenziare molecole
differenti sullo stesso campione. In seguito all’estrazione dei componenti cellulari DNA, RNA,
proteine o lipidi, da campioni ambientali contenenti cellule non coltivabili si possono effettuare
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analisi specifiche, come la ISH, o analisi globali che consistono nell’analisi di un’intera categoria di
componenti.
Un esempio di analisi globale è l’analisi metagenomica che consiste nell’analisi di tutti i genomi
presenti nel campionamento al posto dell’analisi dei genomi dei singoli organismi. In un campione
ambientale possono essere presenti cellule coltivabili e non coltivabili: se si procedesse
all’isolamento delle singole specie ed alla loro identificazione per estrazione del DNA, potremo
caratterizzare solo le specie coltivabili e le non coltivabili sfuggirebbero all’identificazione. L’analisi
metagenomica per clonaggio del DNA presente nel campione ambientale, senza passare per fasi di
coltivazione o arricchimento, consente di fotografare la composizione in DNA nel campione senza
introdurre alterazioni.
Il clonaggio viene fatto direttamente escludendo anche passaggi di amplificazione per PCR che anche
potrebbe eventualmente introdurre alterazioni ed errori. Il clonaggio diretto consente quindi di
valutare anche piccole differenze quantitative che diventano differenze significative. Per clonare il
DNA ambientale, estratto direttamente dal campionamento, si usano cromosomi batterici artificiali
(bacterial artificial chromosomes, BAC) che consentono il clonaggio di frammenti di DNA di grandi
dimensioni e che costituiscono una libreria genomica ambientale dove è possibile identificare cloni
con sequenze specifiche, ad esempio per ibridazione con sonde marcate, e successivamente
sequenziare gli inserti di DNA nei cloni positivi per identificare organismi, effettuare predizioni ed
analisi comparative tra ambienti, effettuare analisi filogenetiche o metaboliche tra organismi,
verificare trasferimenti orizzontali di DNA e altro.
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Alternativamente si possono clonare piccoli frammenti di DNA che verranno poi sequenziati e
allineati sfruttando le sovrapposizioni di sequenza. Gli allineamenti, una volta completati,
costituiranno i genomi interi dei microrganismi presenti nel campione, che potranno essere analizzati
e comparati.
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Ogni DNA ha un contenuto percentuale di coppie guanina-citosina (GC) caratteristico e variabile da
un organismo all’altro. Ad esempio un basso contenuto GC (<60%) è caratteristico dei batteri
nitrosanti e nitricanti, degli sporigeni e dei sulfurei; un contenuto medio (60-70%) lo troviamo nei
proteobatteri β e γ, negli zolfo-ossidanti e idrogeno-ossidanti, nelle pseudomonadi e negli
azotofissatori. Corineformi, attinomiceti e propionobatteri hanno invece un alto contenuto GC
(>70%). Per determinare il contenuto in GC, ci si basa sul fatto che l’assorbimento a 260 nm del DNA
a singolo filamento (single stranded DNA, ssDNA) è circa 35 volte più alto che quello del DNA a
doppio filamento (double stranded DNA, dsDNA) e sul fatto che la temperatura di fusione (melting)
del dsDNA aumenta proporzionalmente al contenuto in GC per via dell’aumento dei legami idrogeno
tra i filamenti di DNA.
Si segue quindi l’andamento dell’assorbimento a 260 nm in funzione della temperatura. Alla
temperatura di fusione si osserverà un deciso aumento di assorbimento che, nel punto di flesso,
definisce la temperatura di melting del DNA in questione e quindi il suo contenuto in GC. E’ un
metodo a bassa risoluzione che si può applicare a DNA specifici da microrganismi coltivabili oppure
su DNA da comunità microbiche a bassa biodiversità. Nel primo caso, il metodo consente di
ipotizzare attribuzioni filogenetiche (appartenenza a gruppi di organismi), nel secondo caso permette
di fare analisi comparative tra campioni ambientali e ipotizzare modificazioni globali della
popolazione microbica (arricchimento/impoverimento di gruppi di microrganismi).
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Un altro metodo che sfrutta le caratteristiche di associazione delle eliche del DNA è la cinetica di
riassociazione DNA-DNA (reassociation kinetiks, RK o C0t). Si basa sul fatto che il DNA a singolo
filamento si riassocia al suo filamento complementare, ad una data temperatura, secondo una
cinetica che dipende da vari fattori, incluso la ‘complessità’ del filamento. Questa complessità include
anche l’omologia di sequenza: la complessità è minima per filamenti esattamente complementari
(stessa sequenza) e aumenta, per filamenti che non hanno esattamente la stessa sequenza,
proporzionalmente con le differenze nella sequenza. Monitorando la riassociazione si può
determinare la differenza di sequenza tra filamenti e quindi la complessità di un campione.
Operativamente si denaturano DNA differenti, uno è il campione e l’altro è il DNA di riferimento: il
DNA di riferimento sarà marcato e in quantità molto minori in modo da rendere trascurabile la sua
riassociazione rispetto all’associazione eterologa col DNA campione. A tempi successivi si prelevano
dei campioni, si isola il DNA a singolo filamento, ad esempio passando i campioni su colonna di
idrossiapatite, e si misura nel tempo la diminuzione di DNA marcato a singolo filamento. La
concentrazione del DNA a singolo filamento segue l’equazione –dC/dt=kC2, dove C è la
concentrazione del filamento, t il tempo, e k è la costante di associazione, dipendente da vari fattori
(forza ionica, temperatura, lunghezza del filamento, complessità del filamento). Integrando avremo
1/C-1/C0=kt, dove C0 è la concentrazione iniziale del filamento. La percentuale di riassociazione
C/C0=1/(1+kC0t) determina il tempo al quale si verifica il 50% di riassociazione e dove il grafico di
riassociazione in funzione del tempo fa un flesso (C/C0=0,5) . Questo valore (C0t1/2) è proporzionale
alla complessità delle sequenze che si riassociano e cioè alla diversità tra sequenza di riferimento e
sequenza del campione. Esempi di campioni a complessità crescente sono un singolo frammento di
dsDNA, un genoma batterico singolo, un metagenoma da campionamento. Utilizzando sonde
marcate di riferimento, ad esempio una sonda di E. coli, e misurando i tempi di riassociazione si
valutano agevolmente le complessità dei campionamenti in termini di numero di genomi diversi
presenti e di conseguenza il numero di microrganismi diversi nel campionamento.
Alcuni metodi si basano sulla differente mobilità elettroforetica di molecole di DNA con piccole
differenze di sequenza e, di conseguenza, con piccole differenze strutturali. I primi due metodi
consistono in gel elettroforesi in gradiente denaturante (denaturing gradient gel electrophoresis,
DGGE) e in gel elettroforesi in gradiente di temperatura (temperature gradient gel electrophoresis,
TGGE). Questi metodi si basano sul fatto che il DNA a singolo filamento (ssDNA) ha una mobilità
elettroforetica molto minore del DNA a doppio filamento (dsDNA) e ogni molecola di dsDNA, a
seconda della forza dei legami che la tiene insieme, avrà delle condizioni di denaturazione specifiche.
Queste tecniche utilizzano come condizioni denaturanti l’alta temperatura o la presenza di composti
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denaturanti come l’urea o la formaldeide. A parità di lunghezza in basi, le condizioni specifiche di
denaturazione del dsDNA dipendono criticamente dalla sequenza di basi e dalla composizione in basi.
Effettuando l’elettroforesi in gradiente denaturante o di temperatura, la molecola strutturata
migrerà nel campo elettrico fino ad incontrare la condizione del gradiente – temperatura o
concentrazione dell’agente denaturante - dove sarà completamente denaturata ed il campo elettrico
non sarà più sufficiente per consentire la migrazione rapida. Nel caso il campione sottoposto ad
elettroforesi in gradiente sia eterogeneo, cioè composto da molecole con sequenze diverse, ogni
singola specie molecolare si fermerà nel punto di gradiente dove viene denaturata formando un
profilo di segnali caratteristico della composizione. I segnali, comunemente chiamate bande,
vengono visualizzati con un intercalante fluorescente come il bromuro d’etidio. Operativamente, il
campione ambientale viene amplificato per PCR in modo da ottenere una miscela di dsDNA
rappresentativa della biodiversità del campione. Le sequenze amplificate devono rispettare alcuni
principi fondamentali: devono essere abbastanza conservate nell’evoluzione, in modo da poter
disegnare dei primers ‘universali’ per l’amplificazione dal campione ambientale. Idealmente gli
amplificati devono avere la stessa lunghezza ma devono avere anche sequenze abbastanza differenti
da poter essere discriminati dalla tecnica analitica. La scelta della sequenza da amplificare – di solito
un gene - deve essere quindi un compromesso tra conservazione e divergenza. Un esempio tipico che
detiene queste caratteristiche è il DNA codificante per gli RNA ribosomali (rDNA), la cui sequenza
viene anche utilizzata per costruire gli alberi filogenetici. Gli amplificati vengono quindi frazionati per
elettroforesi su gel di poliacrilammide con gradienti di urea (tra 0 e 7M) o formaldeide (tra 0 e 40%) a
50-60°C, oppure su gel non denaturante di poliacrilammide con gradiente di temperatura. Questo
metodo si applica a cellule non coltivabili poiché l’amplificazione per PCR si può effettuare
direttamente dal campione ambientale.
Altri metodi basati sulla mobilità elettroforetica (o cromatografica) sono il test di mobilità degli
eteroduplex (heteroduplex mobility assay, HMA) e il polimorfismo conformazionale del singolo
filamento (single strand conformation polimorphism, SSCP). Nel primo si evidenzia la diversa mobilità
di molecole dsDNA formate da filamenti con sequenze non perfettamente complementari: il non
perfetto appaiamento dei filamenti genera delle torsioni e/o piegamenti della molecola che ne
rallentano la mobilità. Il campione ambientale eterogeneo, amplificato per PCR, viene denaturato in
presenza di un eccesso del campione di riferimento e rinaturato. In questo modo viene favorito
l’accoppiamento tra filamenti ‘ambientali’ e filamenti di riferimento (eteroduplex) che vengono
sottoposti ad elettroforesi o a cromatografia, utilizzando DNA di riferimento e amplificato marcati
opportunamente in modo da essere facilmente rilevati in eluizione. Le molecole dsDNA omoduplex
avranno una mobilità maggiore mentre le eteroduplex formeranno un profilo di bande più lente
caratteristico per divergenza e numerosità delle singole specie.
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La formazione degli eteroduplex si ottiene rinaturando lentamente i ssDNA. Se la rinaturazione
avviene velocemente, le molecole di ssDNA possono rinaturarsi internamente (self annealing)
formando delle strutture secondarie/terziarie dipendenti dalla presenza o meno di omologie interne
e appaiamenti. Ognuna di queste molecole ssDNA ripiegata avrà una mobilità elettroforetica o
cromatografica specifica e potrà essere separata e distinta dalle altre presenti nel campione, in
particolare rispetto al dsDNA di riferimento. Da notare che il ssDNA completamente denaturato ha
una mobilità molto diversa rispetto a quella del ssDNA self-annealed. Il potere di risoluzione di
questa tecnica è su frammenti corti di 100-440 basi e si può applicare a campioni di cellule non
coltivabili, in seguito ad amplificazione per PCR.
Un certo numero di analisi si basano sugli RNA ribosomali e sui geni che li codificano in quanto, come
abbiamo già detto, costituiscono un buon compromesso tra conservazione e divergenza. I geni che
codificano per gli RNA ribosomali sono sempre associati in operoni. Nei batteri, i geni sono il 16S
rDNA e il 23S rDNA. I due geni sono separati da una sequenza intergenica che può variare di
lunghezza da specie a specie. La conservazione di sequenza di questo locus è tale che si possono
sintetizzare oligonucleotidi da usare come primers universali per amplificare non solo i geni 16S e 23S
ma anche lo spazio intergenico.
L’amplificazione dei geni permette, dopo sequenziamento dei singoli amplificati, di determinare la
biodiversità del campione. L’amplificazione del tratto intergenico permette invece di lavorare
direttamente sul prodotto di PCR effettuando un frazionamento su gel o per cromatografia e
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determinare la diversità in lunghezza dei frammenti amplificati. Il metodo (automated ribosomal
intergenic spacer analysis, ARISA) permette di lavorare su campioni non coltivabili e ottenere una
valutazione della biodiversità anche se non è possibile individuare le specie corrispondenti ai singoli
amplificati.
Un metodo analogo consiste nell’amplificare il DNA ribosomale, ad esempio il 16S rDNA, utilizzando
uno dei due primer marcato. Il prodotto di PCR, che conterrà geni ribosomali di varia origine e
sequenza, viene tagliato con un enzima di restrizione. La sequenza riconosciuta dall’enzima di
restrizione, qualora presente, sarà posizionata differentemente nel gene a seconda della
conservazione della sequenza e saranno prodotti frammenti di varia taglia a partire dal terminale
marcato di uno dei primer. I frammenti possono essere dunque frazionati per elettroforesi o
cromatografia. Questo metodo (terminal restriction fragment length polymorphism, T-RFLP) è
applicabile direttamente su campioni ambientali anche non coltivabili.
Metodi analoghi si applicano alle cellule coltivabili. In questo caso, si estrae il DNA dal colture pure e
si amplificano geni conservati con primers universali, geni preferibilmente conservati in lunghezza ma
non in sequenza. I geni ribosomali sono anche in questo caso dei buoni candidati. Il 16S rDNA ha una
lunghezza conservata di circa 1450 coppie di basi. L’amplificato si può sequenziare e confrontare con
i database oppure si può sottoporre ad analisi con enzimi di restrizione che darà frammenti con taglia
differente. I frammenti frazionati per elettroforesi danno un profilo caratteristico, a seconda del tipo
di enzima utilizzato. Questa tecnica (amplified ribosomal DNA restriction analysis, ARDRA) si applica
anche a geni generici conservati in lunghezza ma non in sequenza (restriction fragment length
polymorphism, RFLP).
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Per quanto riguarda i microrganismi eucarioti lieviti e funghi, esistono delle tecniche di indagine simili
ai procarioti. Ad esempio, gli rDNA 18S, 5.8S e 26S sono arrangiati in operoni e gli operoni
raggruppati in clusters nei cosiddetti loci ribosomali. Ogni operone è separato da quello adiacente da
una sequenza intergenica non codificante non trascritta (inter-genic spacer, IGS) che varia in
sequenza e lunghezza da specie a specie. L’operone è un’unica unità trascrizionale. All’interno
dell’operone, i singoli geni 18S, 5.8S e 26S sono separati da sequenze interne trascritte (internal
transcribed spacers, ITS) che vengono escisse nella maturazione del trascritto. IGS e ITS possono
essere amplificati per PCR e analizzati per taglia elettroforetica.
Gli eucarioti sono caratterizzati dalla presenza di mitocondri, organelli che possiedono un proprio
DNA codificante per alcune delle funzioni respiratorie. La coltivazione dell’eucariote in condizioni
aerobiche permette di arricchire le cellule in mitocondri e la successiva estrazione di DNA risulterà
arricchita in DNA mitocondriale (mtDNA). L’uso di enzimi di restrizione che tagliano raramente nel
mtDNA e più frequentemente nel DNA cromosomale, o la purificazione dei mitocondri e successiva
estrazione di DNA e digestione enzimatica, permettono di ottenere dei profili di restrizione specie
specifici di lunghezza dei frammenti (mt-RFLP).
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Gli eucarioti hanno uno o più cromosomi di taglia variabile, anche nell’ambito di specie correlate o
nella stessa specie. L’insieme dei cromosomi, e la loro diversità, definisce il cariotipo di un organismo.
I cromosomi sono di taglia molto grande e necessitano di tecniche particolari per la loro separazione.
Per via elettroforetica, si possono usare gli apparati a campo variabile alternato con direzioni di 90° o
120°. Con questo modo (pulsed field gel electrophoresis, PFGE)si ottengono separazioni di
cromosomi composti da milioni di coppie di basi. I cromosomi, ottenuti da preparazioni di DNA
totale da cellule coltivabili, hanno dei profili elettroforetici specifici che mettono in evidenza
delezioni, duplicazioni, riarrangiamenti di grossa entità nei vari ceppi di una specie o tra specie
differenti. La stessa tecnica si applica per digestioni di cromosomi batterici con enzimi di restrizione
che producono pochi frammenti molto grandi.
Un'altra tecnica, applicabile sia ai procarioti che agli eucarioti, consiste nell’amplificazione casuale di
frammenti di DNA utilizzando un solo primer (random amplified polymorphic DNA, RAPD). Si utilizza
un primer corto (10-12 basi) di sequenza arbitraria e condizioni di amplificazione a bassa astringenza.
Il primer si appaierà in posizioni casuali, dove trova sufficiente omologia, su entrambi i filamenti e
verranno amplificati frammenti di taglia casuale ma specie specifica, a seconda della sequenza del
templato (il campione). Il metodo si applica a cellule coltivabili ma, date le condizioni operative, può
dare facilmente risultati variabili non sempre riproducibili.
Le tecniche di marcatura con isotopi stabili (stable isotope probing, SIP) o con bromo deossiuridina
(BrdU) sono metodi di identificazione delle popolazioni metabolicamente attive presenti nei
campionamenti. I campioni vengono incubati con substrati contenenti 13C o BrdU (analogo della
timidina): le cellule metabolicamente attive incorporano il carbonio pesante o la base azotata
modificata. Successivamente viene estratto il DNA dai campioni e analizzato. Nei campioni trattati
con 13C, il DNA viene frazionato su gradiente di cloruro di cesio che separa il DNA pesante da quello
leggero. Il DNA pesante viene isolato, amplificato per PCR, clonato e sequenziato permettendo
l’identificazione (per confronto con database genomici) delle specie attive. I campioni trattati con
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BrdU vengono frazionanti con anticorpi anti-BrdU (ad esempio su colonne coniugate con l’anticorpo
o con anticorpo coniugato a supporto). Una volta isolato il DNA che ha incorporato BrdU,
appartenente alla popolazione attiva, le specie possono essere identificate con i soliti metodi già
descritti.
Gli arrays di DNA sono strumenti sviluppati in seguito alla diffusione dei sistemi di sequenziamento e
alla disponibilità delle sequenze genomiche. La funzione originale degli arrays era quella di fare
l’analisi globale dei trascritti (analisi trascrittomiche) e cioè definire la risposta globale della cellula, in
termini di espressione di tutti i suoi geni, in seguito ad uno stimolo ambientale o all’inattivazione di
geni. I tipi principali di arrays sono il microarray e i DNA chip. Nel primo vengono sintetizzati
oligonucleotidi specifici per ogni gene dell’organismo e ciascun oligonucleotide viene fissato in
un’area specifica (spot) di un vetrino. Un vetrino contiene diverse migliaia di spot, uno per ogni gene,
e rappresenta quindi il genoma dell’organismo.
Nel DNA chip, l’oligonucleotide viene invece sintetizzato in situ sul vetrino, con delle macchine
automatiche in grado di generare spot gene-specifici ad alta densità utilizzando reazioni
fotochimiche. La densità di geni nel chip è molto più elevata che nell’array: milioni di spot per
vetrino. Il principio di funzionamento si basa sulla marcatura degli RNA (totali) di due campioni
differenti con fluorofori differenti (A e B) e di ibridazione competitiva dei diversi RNA sullo stesso
vetrino. Dopo fissaggio, il vetrino viene analizzato per emissione della fluorescenza: se il gene X è più
espresso nella condizione A che nella B, allora sarà prevalente la fluorescenza A e viceversa. Se
l’espressione è inalterata, la fluorescenza sarà intermedia. Questa tecnica permette quindi di
identificare tutti i geni relativamente sovraespressi e sottoespressi nei due campioni.
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I microarrays e chips si sono evoluti anche per altre applicazioni. Con l’aumento esponenziale delle
sequenze genomiche disponibili, si sono potuti costruire vetrini ‘a tema’, ad esempio contenenti
tutte le sequenze dei geni ribosomali (16S rDNA) conosciute. Questi vetrini sono adatti per
l’identificazione delle specie presenti in campioni ambientali e possono dare indicazioni sia
qualitative che quantitative a seconda di quale spot ibrida e quanto intenso è il segnale di
ibridazione.
Produzione di metano
Il metano viene utilizzato come gas combustibile, soprattutto per il riscaldamento ma, più
recentemente, anche come carburante per autotrazione alternativo ai derivati del petrolio. La
produzione di metano, e la sua dispersione nell’ambiente, ha anche delle implicazioni climatiche
importanti in quanto gas-serra in grado di trattenere le radiazioni infrarosse.
La storia del metano comincia con le osservazioni di Alessandro Volta sulla produzione di ‘aria
infiammabile’ dalle paludi sul Lago Maggiore (1976). Il ruolo dei microrganismi nella produzione di
metano è stato studiato da Antoine Béchamp (1868), medico e chimico francese contemporaneo di
Luis Pasteur. Alla fine del XIX secolo è stato introdotto l’uso della cellulosa come substrato per la
produzione di metano, e si è scoperta la produzione di metano anche da parte dei microrganismi nel
tratto gastrointestinale degli animali. In seguito alla digestione anaerobica dei substrati, è stata
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determinata la produzione di metano e altri metaboliti: CO2, H2, acetato, butirrato. Nel XX secolo
cominciano a essere delucidati i dettagli di processo, che risulta essere a due stadi: nel primo stadio
viene degradata la cellulosa a substrati più semplici che vengono successivamente utilizzati per la
metanogenesi vera e propria. Viene anche determinata la stechiometria della reazione (CO2 + 4H2 →
CH4 + 2H2O) a partire dalla CO2. Nel 1936 comincia l’era moderna della metanogenesi con
l’isolamento del primo microrganismo metanogeno Methanobacillus omelianskii e con i primi studi
sulla biochimica del processo, sull’enzimologia e fisiologia dei batteri metanogeni. Negli anni ’70 i
metanogeni vengono ascritti al dominio degli Archea e negli anni ’80 vengono elucidate le vie
metaboliche della metanogenesi con uno sviluppo esponenziale delle conoscenze. Nel 1996 viene
completata la sequenza genoma di Methanocaldococcus jannaschii.
Gli aspetti biochimici e metabolici della produzione microbica del metano cominciano con le
considerazioni sui substrati. Substrati, intesi come fonti di carbonio, diversi vengono trasformati con
metabolismi diversi. Si possono identificare tre tipi di substrati a seconda del metabolismo operante:
idrogeno e anidride carbonica (e formiato); metanolo e metilammine; acetato. Mentre l’anidride
carbonica deve essere necessariamente ridotta per dare metano, gli altri substrati a stato di
ossidazione intermedio possono essere disproporzionati e il potere riducente che si ottiene
dall’ossidazione può essere utilizzato per la concomitante riduzione a metano. Anche l’acido formico
ha un ruolo di fonte di potere riducente in quanto, in condizioni anaerobiche, l’enzima formiato liasi
consente l’equilibrio tra formiato e CO2. L’idrogeno prodotto è il potere riducente necessario alla
sintesi del metano.
HCOOH + H2O ↔ H2CO3 + H2
In ogni caso, un aspetto comune a tutti i metabolismi metanogeni è l’assoluta necessità di condizioni
anaerobiche. La reazione chimica per la sintesi di metano è la seguente:
CO2 + 4H2 → CH4 + 2H2O (ΔG0 = -33Kcal/mol)
La reazione è accoppiata al trasporto dei protoni attraverso la membrana citoplasmatica che, a sua
volta, consente la sintesi di ATP grazie al gradiente di protoni che si genera. Gli elettroni vanno invece
a ridurre la CO2 ma non vengono utilizzati i sistemi di trasporto degli elettroni tradizionali in quanto
nei metanogeni sono assenti citocromi e chinoni.
La biosintesi del metano richiede l’apporto di due sistemi fondamentali: il primo è la gestione del
substrato C1 ed il secondo è il sistema redox per la riduzione dei substrati C1. Il substrato CO2 ed il
prodotto finale metano vengono rispettivamente assimilati dall’ambiente e rilasciati nell’ambiente e
sono quindi liberi. Gli intermedi non sono liberi nella cellula ma vengono trasportati in forma legata a
molecole che fungono da trasportatori e/o attivatori di C1. Queste molecole svolgono la funzione di
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coenzima e sono di tre tipi: il Coenzima M, il metanofurano, la tetraidrometanopterina e la sua
analoga tetraidrosarcinapterina.
Il Coenzima M (2-mercaptoetanosulfonato γ, CoM-SH) utilizza il gruppo SH per legare e attivare i C1
con formazione di legami S-C. Il metanofurano (MF) è un derivato dell’amminometilfurano con una
lunga catena di sostituenti (a, b, c) che possono variare nella parte terminale dando origine a diversi
metanofurani (R-MF). Il gruppo amminico dell’amminoetilfurano lega e attiva il C1 tramite legame N-
C.
La tetraidrometanopterina (H4MPT o brevemente MP) e la tetraidrosarcinapterina (H4SPT)
contengono tetraidropterina con una catena laterale di sostituenti, incluso un glutammato nella
tetraidrosarcinapterina. Sono strutturalmente analoghi al tetraidrofolato e la sarcinopterina la
troviamo specificamente nei batteri del genere Methanosarcina. Attivano e legano C1 tramite il
legame con i due atomi di azoto in posizione 5 e 10. Sono indicati HN=MP=NH oppure HN<MP>NH in
modo da indicare gli atomi di azoto N5 e N10 impegnati nella struttura del coenzima tramite due
legami N-C.
I sistemi redox consistono di coenzimi in grado di ossidarsi e ridursi scambiando elettroni e/o atomi
di idrogeno. I coenzimi redox coinvolti nella produzione di metano sono il Coenzima B, il Coenzima
F420 e il Coenzima F430. Il Coenzima B (CoB, CoB-SH) è strutturalmente simile all’acido pantotenico e
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scambia elettroni utilizzando il gruppo terminale SH che viene ossidato quando impegnato in legami
S-S tra due molecole di CoB.
Il Coenzima F420 (F420) assorbe a 420 nm ed emette luce verde-blu, che è diagnostica per i
microrganismi metanogeni. Strutturalmente è analogo al Flavinamononucleotide (FMN) dal quale
differisce soprattutto per il sostituente al N10 e un carbonio in posizione 5. Gli elettroni vengono
scambiati per riduzione/ossidazione del carbonio in posizione 5 e dell’azoto in posizione 1,
similmente al FMN e al FAD. Il Coenzima F430 (F430) è invece costituito da un policiclo
tetraidropirrolico simile all’eme, ma con un atomo di nickel al posto del ferro. Oltre ai coenzimi
descritti, il trasferimento degli elettroni viene anche garantito dalle ferredossine, proteine ferro-zolfo
che possono stare in forma ossidata o ridotta.
La metanogenesi a partire da anidride carbonica e idrogeno (CO2 + 4H2 → CH4 + 2H2O) è la via
biosintetica dei metanogeni più comuni che si trovano in ambienti altamente riducenti biotici,
abiotici e antropici. L’anidride carbonica viene attivata e progressivamente ridotta in seguito al
legame con i cofattori trasportatori di C1: la troviamo in successione come gruppo formilico (CHO-R),
etilenico (CH2=R) e metilico (CH3-R). Viene infine liberata come metano gassoso. I trasportatori
metanofurano, tetraidrometanopterina e coenzima M intervengono nell’attivazione e riduzione del
substrato e gli enzimi operanti sono idrogenasi e reduttasi. Le idrogenasi e reduttasi intervengono
anche per rigenerare il potere riducente, che viene via via utilizzato, dei coenzimi F420, CoMSH e
CoBSH. Nella metanogenesi, il formiato non è un intermedio ma viene disproporzionato a CO2 e H2 e
poi metabolizzato.
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Nel primo passaggio, la CO2 è attivata dal MF e quindi ridotta a gruppo formilico da un enzima
idrogenasi/deidrogenasi che utilizza un cofattore redox non ancora identificato. Il formil-MF viene
quindi scambiato con la tetraidrometanopterina da una trasferasi. La formil-MP viene prima
deidratata con formazione di metenil-MP ciclica e quindi ridotta a metilen-MP da una deidrogenasi
F420 dipendente. Successivamente, per azione di una reduttasi F420 dipendente, si forma il metil-MP il
cui gruppo metilico viene scambiato da una trasferasi con il CoMSH e conseguente rilascio di MP. Il
gruppo metilico è infine ridotto e rilasciato come metano da una metil-reduttasi che utilizza CoBSH
come cofattore riducente. Nella riduzione finale, si passa anche per un intermedio F430Ni2+-CH3. La
rigenerazione CoMSH e CoBSH da parte di una reduttasi, avviene in una reazione associata alla
generazione di un gradiente di protoni transmembrana, con possibilità di sintesi di ATP. La resa
massima della metanogenesi lungo questa via è di 1 mole ATP/mole metano.
La metanogenesi da acetato (CH3COOH → CH4 + CO2) viene fatta solo da alcune specie dei due generi
Methanosarcina e Methanosaeta. Questa sintesi avviene in consorzi microbici e rappresenta solo la
parte finale di un insieme di trasformazioni concertate del materiale organico in decomposizione. La
prima parte del processo è la degradazione, in condizioni anaerobiche, dei polimeri organici da parte
di batteri fermentanti, con produzione di H2, CO2, HCOOH, CH3COOH e acidi grassi volatili a catena
corta come il butirrico e il succinico. Gli acidi sono successivamente ossidati da batteri acetogenici,
con produzione di acetato, H2 e formiato. Solo a questo punto può avvenire la sintesi di metano da
acetato da parte dei batteri metanogeni. In questi consorzi, il metano può essere sintetizzato anche
da CO2 e/o formiato da parte dei metanogeni prima descritti. Bisogna puntualizzare che la
metanogenesi può non essere l’unica trasformazione possibile: batteri anaerobi non-metanogeni
competitori possono produrre CO2 e H2 dall’acetato reso disponibile dai microrganismi delle fasi
precedenti del processo mentre la presenza di batteri acetogeni, che producono acetato da CO2, H2 e
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formiato, possono contribuire a fornire substrato per i metanogeni. Negli ambienti marini si trova
una prevalenza di batteri acetotrofi solfato-riduttori che non permette la produzione di metano da
acetato. In questi ambienti, il metano viene prodotto solo da formiato/CO2 o da metilammine. Si può
concludere che la produzione di metano da acetato non è comune, è fatta solo da pochi
microrganismi ed è criticamente dipendente dalle condizioni ambientali e dalla presenza o meno di
competitori metabolici.
Nella prima reazione della metanogenesi, l’acetato viene attivato per fosforilazione da un’acetokinasi
con consumo di ATP e successivamente trasferito come gruppo acetile al Coenzima A (CoASH) da una
fosfotransacetilasi. Il passaggio successivo è il passaggio importante della via metabolica, effettuato
da un complesso enzimatico CO deidrogenasi contenente Nickel, Ferro e zolfo, che si compone di
diverse funzioni enzimatiche. La funzione principale è il trasferimento del gruppo metilico, legato ad
un gruppo corrinoide, alla tetraidrosarcinopterina (formazione di metil-SP). In parallelo avviene il
rilascio di CO2 e il riciclo del CoASH. Inoltre, due atomi di idrogeno vengono estratti da una molecola
d’acqua e un enzima ferredossina recupera gli elettroni come potere riducente per riequilibrare lo
stato redox della via metabolica ed espelle i protoni nello spazio periplasmatico, a formare un
gradiente di protoni che la cellula potrà sfruttare per la sintesi di ATP. Il gruppo metilico attivato
viene poi trasferito da una trasferasi al cofattore CoMSH e successivamente ridotto da una metil-
reduttasi con rilascio di metano. In quest’ultimo passaggio il potere riducente è fornito dal CoBSH
che dimerizza con il Coenzima M rilasciato dalla reduttasi. I due coenzimi ridotti CoBSH e CoMSH
vengono rigenerati dalle idrogenasi/reduttasi rifornite dalla ferredossina. La resa energetica di
questa via metabolica è molto scarsa, considerando che viene impiegata una mole di ATP nel primo
passaggio per attivare l’acetato.
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Nei sedimenti marini e laghi salati si possono trovare batteri metanogeni metilotrofi in grado di
utilizzare residui di derivazione vegetale contenenti metanolo e metilammine (4CH3OH + → 3CH4 +
CO2 + 2H2O). Il metanolo è un substrato piuttosto raro; substrati metilati possono provenire anche
dalla betaina, una sostanza prodotta dai microrganismi alofili come osmoprotettore, i cui prodotti di
degradazione possono essere rilasciati in ambienti osmotici. Date le condizioni ambientali, questi
batteri sono in genere alofili e i metanogeni degli ambienti ipersalini sono tutti metilotrofi. La
presenza di solfati ambientali favorisce i batteri solfato riduttori rispetto ai metanogeni che utilizzano
idrogeno come fonte riducente per l’acetato o la CO2. I batteri metilotrofi metanogeni appartengono
alla famiglia delle Methanosarcinaceae: il substrato metanolo viene ridotto a metano (CH3OH + 2H →
CH4 + H2O) utilizzando il potere riducente ottenuto dall’ossidazione di una frazione del metanolo
disponibile (CH3OH + H2O → CO2 + 6H). In presenza di metanolo ed acetato, l’acetato viene utilizzato
solo quando il metanolo (o altri substrati preferiti) è esaurito (crescita diauxica). Il controllo sul
metabolismo dell’acetato è a livello trascrizionale ma anche a livello di attività enzimatica da parte
dell’idrogeno, generato dalla ossidazione del metanolo, sulla CO deidrogenasi. Affinché venga
utilizzato l’acetato, è quindi necessario che siano esauriti le fonti C1 e l’idrogeno: si osserverà quindi
una tipica crescita diauxica nel caso di fonti di carbonio miste.
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Nel primo passaggio, il gruppo metilico del metanolo o delle metilammine viene attivato dall’enzima
corrinoide, che passa da Co (I) a Co(III), con rilascio di acqua o ammoniaca/ammina. Un’altra metil-
trasferasi trasferisce successivamente il gruppo metilico al coenzima M riportando il corrinoide nello
stato ridotto (I). A questo punto, una parte del metil-SCoM viene ridotto dal CoBSH con rilascio di
metano e dimerizzazione dei coenzimi CoBS-SCoM, ad opera di una metil-reduttasi. Il potere
riducente viene fornito da ferredossine che accoppiano il trasferimento degli elettroni a quello dei
protoni attraverso la membrana citoplasmatica e conseguente possibilità di sintesi di ATP e
disponibilità di energia. Un’altra parte del metile attivato dal coenzima M viene invece trasferito alla
tetraidrometanopterina e quindi successivamente ossidato in passaggi corrispondenti al
metabolismo inverso di riduzione della CO2, utilizzando F420 e MF. Il potere riducente che si ottiene
per ossidazione del gruppo metilico va a compensare quello utilizzato dalle ferredossine per la
riduzione. Inoltre, la CO2 prodotta dal metanolo può essere riassimilata per fabbisogni biosintetici e
convertita in acetil-CoA.
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Si può riassumere la produzione di metano con l’osservazione che si tratta di un catabolismo molto
specializzato e che un limitato gruppo di cataboliti può essere utilizzato per la metanogenesi. Questi
substrati vengono principalmente prodotti da altri microrganismi dai quali i metanogeni dipendono.
Inoltre i metanogeni sono competitivamente svantaggiati rispetto ad altri microrganismi fermentanti
con richieste cataboliche meno stringenti e quindi in grado di utilizzare più substrati, anche più
complessi e di varia origine. I metanogeni sono essenzialmente alofili: anche in acque dolci, una certa
quantità di Na+ (1 mM) è necessaria allo sviluppo dei metanogeni e questo è correlabile al
coinvolgimento della forza H+/Na+ motrice nella produzione di energia metabolica. I batteri che
usano l’idrogeno come fonte di potere riducente si chiamano idrogenotrofi: i batteri che utilizzano
l’acetato, il prodotto finale preferito del metabolismo di tanti batteri, si chiamano acetotrofi. Alcuni
batteri metanogeni riescono a crescere, anche se lentamente, su monossido di carbonio,
estraendone gli elettroni grazie alla CO deidrogenasi.
Per quanto riguarda l’azoto e le sostanze azotate, si può osservare come l’assimilazione dell’azoto
elementare (fissazione) sia regolata in presenza di una fonte d’azoto più vantaggiosa come
l’ammoniaca o sali d’ammonio e non vi è quindi sintesi di nitrogenasi. Per quanto riguarda gli
amminoacidi, se ne osserva una sintesi costitutiva indipendente quindi dalla presenza di amminoacidi
esogeni. I metanogeni sono anche anaerobi stretti e si riproducono ottimalmente in assenza di
ossigeno anche se alcuni sono ossigeno-tolleranti, almeno per condizioni transitorie di ossigenazione.
Dal punto di vista delle variabili chimico-fisiche, si può affermare che il pH ottimale in genere è
neutro, salvo casi di metanogeni leggermente acidofili, come quelli isolati dalla torba, o alcalofili, ad
esempio quelli isolati da alcuni ambienti ipersalini. Le temperature ambientali dei metanogeni sono
molto variabili: si va dai 2-10°C dei sedimenti marini ai 100°C delle sorgenti geotermali. Abbiamo
quindi psicrofili, mesofili e termofili. Nei termofili abbiamo velocità di crescita e produzioni di
biomasse microbiche maggiori che negli altri tipi di metanogeni. Nei termofili, l’adattamento alle alte
temperature sembra associato all’espressione costitutiva di chaperonine e heat shock proteins
nonché alla presenza nelle proteine di sequenze amminoacidiche particolarmente adattive alle alte
temperature. Per quanto riguarda il DNA, non sembra che il carattere termofilo sia associato al
maggior contenuto in GC, quanto alla presenza di proteine histone-like che garantirebbero una
maggiore resistenza alla denaturazione termica del cromosoma. Infine, la stabilità termica delle
membrane ha anche un ruolo cruciale nella vitalità ad alta temperatura a causa delle tante attività
vitali dipendenti da funzioni di membrana. In questo caso la composizione delle molecole strutturali
della membrana gioca un ruolo determinante nella sua stabilità: fosfolipidi con legami etere, lipidi
tetraetere e lipidi isoprenoidi come vedremo sono caratteristici di questi organismi.
Il metano è un gas serra e costituisce 1.7 ppm dei gas atmosferici. La sua tendenza è all’aumento
soprattutto in seguito all’espansione dell’allevamento zootecnico degli animali. Per quanto riguarda il
ciclo del carbonio, la metanogenesi è una parte rilevante della mineralizzazione del carbonio
organico alla quale partecipa con un 1.6% del carbonio totale fissato per anno. I batteri metanogeni
sono organismi anaerobi e sono in competizione per il potere ricucente con altri microrganismi
anaerobi. In particolare sono competitori dei metanogeni i solfato riduttori, che accettano elettroni
da vari composti: acidi organici, alcoli, amminoacidi, aromatici e li trasferiscono al solfato, al solfito o
allo zolfo elementare; gli acetogeni, che riducono la CO2 ad acetato, utilizzando tante fonti di
carbonio diverse come potere riducente; i batteri ferrico riduttori, che riducono il Fe (III) a Fe (II)
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utilizzando H2, formiato e altri composti organici, quali acetato e composti aromatici, come donatori
di elettroni.
È importante considerare che il ferro (II) è la forma generalmente utilizzabile del ferro in natura. In
ambienti dove i substrati organici donatori di elettroni sono scarsi, la riduzione di ferrico e solfato
diventano favoriti anche termodinamicamente e inibiscono i produttori di metano. I metanogeni
occupano, di conseguenza, ambienti anaerobi privi di solfati, nitrati e metalli ossidati. L’idrogeno è la
fonte riducente principale dei metanogeni. L’idrogeno viene prodotto da altri microrganismi per
ossidazione dei composti organici e la sua concentrazione cambia a seconda della disponibilità dei
substrati organici. Ad esempio, nel fluido ruminale si trova una concentrazione basale di idrogeno 1.4
μM, che sale a 15 μM dopo il pasto. Altri ambienti tipici dei metanogeni sono i liquami e le risaie,
dove le concentrazioni sono però più basse : 203 e 28 nM, rispettivamente. Le concentrazioni di
idrogeno determinano anche l’attivazione dei metabolismi che lo utilizzano: la concentrazione soglia
per l’attivazione dei solfato riduttori è più bassa di quella necessaria per attivare i metanogeni e gli
acetogeni. Per quanto riguarda la competizione per l’acetato, anche la presenza di questo substrato
varia negli ambienti a seconda dell’apporto di sostanza organica che può essere discontinuo. Alte o
basse concentrazioni di acetato possono favorire metanogeni di diverse specie. Ad esempio, alte
concentrazioni (maggiori di 3-5 mM) favoriscono Methanosarcina; basse concentrazioni (meno di 1
mM) favoriscono Methanosaeta. In ogni caso i batteri riduttori di ferro e/o solfato sono forti
competitori acetotrofi dei metanogeni.
Habitat altamente riducenti, privi o carenti d’aria, sono gli ambienti dove si sviluppano i metanogeni:
suolo e materiale vegetale in decomposizione, sorgenti idrotermali, paludi, laghi e fiumi (acqua dolce
o salata), digestori anaerobi, tratto gastro-intestinale degli animali (rumine, intestino cieco). I questi
ambienti si stabiliscono associazioni simbiotiche con altri microrganismi o animali. Nel tratto
gastrointestinale degli animali l’apporto di materiale organico è elevato e determina un’elevata
carica microbica ed un metabolismo microbico molto attivo. Nel rumine si possono trovare 1010/ml
batteri, 106/ml protozoi e funghi anaerobi cellulolitici. L’attività metabolica di questi microrganismi
sul materiale ingerito abbassa drasticamente la disponibilità dell’ossigeno e consente, tra l’altro,
l’assimilazione dei prodotti del metabolismo microbico da parte del ruminante.
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Parte di questi prodotti, ad esempio la CO2 e l’acetato, sono il substrato per i metanogeni che
effettuano l’ossidazione anaerobica e la riduzione a metano. Il metano prodotto nel tratto
gastrointestinale è prodotto principalmente da metanogeni idrogenotrofi (Methanobrevibacter). La
produzione di metano nel tratto gastrointestinale è però ridotta rispetto alle potenzialità poiché la
pressione parziale di idrogeno nel tratto è troppo alta per favorire l’ossidazione anaerobica sintrofica
degli acidi grassi da batteri acetogeni, che potrebbero produrre substrati (acetato, CO2 e idrogeno)
per i metanogeni. La grande quantità di metano prodotto dal ruminante, 140 litri/giorno, è dovuta
essenzialmente alla grande quantità di alimento ingerito piuttosto che alla resa della produzione.
I digestori anaerobi sono gli impianti per la conversione di scarti organici in biogas, CO2 e metano. La
conversione avviene ad opera di consorzi microbici che intervengono in successione, ciascuno sui
prodotti del precedente. I polimeri polisaccaridici sono idrolizzati e parzialmente degradati a
zuccheri, acidi organici come lattato e acetato o etanolo da batteri anaerobi. Questi prodotti sono
substrati per altri organismi anaerobi che producono CO2, idrogeno ed acetato, a loro volta substrati
per la metanogenesi.
Anche i grassi vengono idrolizzati e successivamente ossidati anaerobicamente e convertiti in
metano. Questi ultimi due passaggi sono tipicamente lenti, come anche già visto per i passaggi
metabolici nel tratto gastrointestinale. I gas prodotti sono utilizzati nella combustione per produrre
energia da riciclare nell’impianto (calore) o da immettere sul mercato (elettricità). I sedimenti del
suolo e le acque dolci sono ambienti simili ai digestori, ma con un carico di sostanza organica molto
più basso che porta a basse concentrazioni di idrogeno ed acetato. Le temperature sono in genere
basse, meno di 15°C, e la scarsa presenza di azoto favorisce gli azoto fissatori, ad esempio nelle risaie,
che sottraggono potere riducente per fissare l’azoto. Inoltre la presenza di derivati dello zolfo
favorisce il metabolismo dello zolfo a scapito dei metanogeni. La produzione di metano è di
conseguenza piuttosto limitata dalle condizioni non ottimali. Anche negli habitat marini, la presenza
di zolfo favorisce l’ossidazione dei composti organici e la riduzione dello zolfo da parte dei
microrganismi solfato riduttori, con produzione di CO2 e acido solfidrico. In questi ambienti, il metano
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viene prodotto dai microrganismi metilotrofi che utilizzano metilammine e metilsolfuri come fonti di
carbonio. Molti metanogeni termofili e ipertemofili sono stati isolati da sorgenti geotermali,
caratterizzate da alte temperature e basse concentrazioni di ossigeno, poco solubile ad alta
temperatura. I queste sorgenti sono abbondanti la CO2, l’idrogeno e l’acido solfidrico, che
garantiscono la presenza di metanogeni idrogenotrofi.
I metanogeni appartengono al dominio degli Archea, un gruppo tassonomico distinto dai batteri
comuni (eubatteri) ed evolutivamente più vicino agli eucarioti. All’interno degli archebatteri, gli
archeobatteri appartengono al Phylum degli Euryarchaeota dove sono rappresentati da tre classi e
cinque ordini. Gli ordini sono caratterizzati da forme, strutture di parete e metabolismi comuni. I
Methanobacteriales hanno la parete cellulare di pseudomureina con le tipiche proteine o
glicoproteine di superficie (S-layer), che formano strutture superficiali cristalline, e sono riduttori di
CO2. I Methanococcales non hanno pseudomureina, hanno lo S-layer, sono riduttori di CO2,
ipertemofili, termofili e mesofili. I Methanomicrobiales non hanno pseudomureina, hanno lo S-layer,
sono riduttori di CO2, esistono in varie forme e dimensioni. I Methanosarcinales non hanno
pseudomureina, hanno lo S-layer e, in alcune specie, hanno la metanocondroitina, un
eteropolisaccaride di acido D-glucuronico e N-acetil galattosamina; utilizzano gruppi metilici, CO2 e
acetato. I Methanopyrales hanno la parete di pseudomureina e usano CO2 per la produzione di
metano.
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Dal punto di vista della morfologia cellulare, praticamente tutte le forme tipiche dei batteri sono
rappresentate dai metanogeni: cocchi, sarcine, bastoncelli, spirilli, discoidi, forme poligonali e
irregolari, queste ultime forse dovute alle caratteristiche della parete cellulare che, nei casi di
assenza di strutture rigide come la pseudomureina, può rivelarsi particolarmente malleabile.
73
La composizione della parete esterna, presenza o meno di pseudomureina, S-layer di proteine o
glicoproteine, presenza o meno di altri costituenti specifici, può essere correlata alla forma del
batterio. La parete di pseudomureina è uno strato esterno amorfo composto da un polimero
reticolato. Il polimero è costituito da N-acetil glucosamina (NAG) e acido N-acetil talosaminuronico
(NAT) uniti con legame 1-3β, legame diverso da quello della mureina batterica e resistente al
lisozima. Al residuo acido del NAT è legata una corta catena di amminoacidi in forma L, a sequenza
variabile ma con lisina in posizione 2 e L-alanina finale. Il gruppo NH2 della lisina scalza l’alanina finale
e forma i ponti incrociati di reticolazione del polimero NAG-NAT.
Una struttura tipica degli Archea è la membrana plasmatica, che si differenzia da quelle degli
eubatteri ed eucarioti, in questo caso più simili tra loro. La prima differenza è che il glicerolo dei
fosfolipidi è fosforilato in posizione 1 anziché 3. Inoltre i C2 e C3 sono impegnati in legami etere
invece che in legami estere come i C1 e C2 negli eubatteri e negli eucarioti. La parte lipofila del
fosfolipide è costituita da fitoli ramificati invece di acidi grassi lineari saturi e insaturi.
74
La molecola costituente tipica delle membrane degli archea (2,3 di-fitanil glicerolo dietere) si chiama
archeolo. Un’altra differenza rilevante è sulla struttura della membrana che negli eubatteri ed
eucarioti è costituita da un doppio strato mentre negli archea può essere costituita da un singolo
strato composto da gliceroli tenuti insieme da bifitoli, cioè dimeri di fitolo con gruppi idrossilici alle
estremità opposte. Questo costituente si chiama caldarcheolo (2,3 di-bifitanil glicerolo tetraetere).
Le membrane costituite da caldarcheolo hanno meno gradi di libertà di movimento termico: sono
quindi più rigide ed adatte alle alte temperature e sono tipiche dei termofili e degli acidofili. L’effetto
di fluidità di membrana che nei fosfolipidi eubatterici è causato dall’insaturazione delle catene
lineari, nei fosfolipidi degli archea si modula con la formazione di strutture cicliche tra i rami del
bifitolo. Uno o più cicli possono essere presenti. I costituenti delle membrane degli archea hanno
anche altre particolarità: sulla faccia esterna della membrana, il caldarcheolo non è fosforilato ma
glicosilato. Inoltre il bifitolo può formare legami etere sulla stessa molecola di glicerolo, formando
strutture ad anello. Le membrane degli archea sono composte, come negli altri organismi, anche del
50% di proteine con funzioni di permeasi, trasporto, funzioni biosintetiche, produzione di energia e
ATP.
La struttura generale interna della cellula di archea è simile a quella eubatterica: non c’è presenza di
nucleo e il DNA cromosomale è una singola molecola circolare dove anche l’arrangiamento dei geni
in operoni richiama quello degli altri batteri. Sono presenti anche elementi genetici
extracromosomali. I geni vengono espressi in trascritti policistronici come nei batteri. I trascritti sono
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instabili, cioè degradati rapidamente, e dotati di una coda corta di poliA: sono più simili a quelli
batterici e diversi da quelli eucariotici che sono invece dotati di lunghe code di poliA, modificati al
l’estremità 5’ (il cosiddetto ‘capping’) e stabili. Come nei batteri, i trascritti sono dotati di ribosomal
binding site (RBS), assente negli eucarioti, per il legame specifico del trascritto al ribosoma e
l’agevolazione dell’inizio della traduzione del messaggero.
Oltre a queste caratteristiche tipicamente batteriche, il cromosoma degli archea ha anche delle
caratteristiche eucariotiche: sono infatti presenti proteine (HMf, HMt, MC1) con funzioni istoniche di
legame e impacchettamento del DNA cromosomale che sono assenti nei batteri. La RNA polimerasi-
DNA dipendente è unica come batteri, ma è più complessa, costituita da 8-10 proteine, e più simile a
quella degli eucarioti che a quella batterica. Il promotore della trascrizione genica presenta un
elemento chiamato boxA, di sequenza TTTA(T/A)ATA simile a quella eucariotica, posizionato a –24/-
28) dall’inizio della trascrizione, similmente alla TATA box eucariotica, tipicamente posizionata a -25.
La presenza del boxB, caratterizzato da una sequenza conservata ATGC a +1 dall’inizio della
trascrizione, rende però il promotore archeale simile anche a quello batterico, dove troviamo le due
sequenze tipiche a -35 e -10. Nella sequenza terminatore della trascrizione troviamo negli archea
delle strutture a forcina (stem and loop) dovute a sequenze ripetute invertite, simili a quelle
batteriche oppure sequenze oligo-T. Per ciò che riguarda la traduzione del messaggero, si trova negli
archea che il primo codone corrisponde ad uno Start tRNA che carica metionina come eucarioti,
invece della formil-metionina caratteristica dei batteri. Nel 1996 è stato sequenziato il primo genoma
archeale appartenente a Methanococcus jannaschii, un termofilo e barofilo che vive a 85°C e 200
atm. Il genoma, che è caratterizzato da un contenuto in GC del 31%, è molto compatto e consiste di
1750 open reading frames (ORF: fasi di lettura) su 1665000 coppie di basi (bp). Da allora il numero di
genomi archeali sentenziati è aumentato notevolmente e attualmente (2014) sono più di 160.
76
I metanogeni vengono utilizzati negli impianti di produzione di biogas, impiegato a sua volta per la
produzione di elettricità e come combustibile. Gli impianti utilizzano materie prime di varia origine,
preferenzialmente scarti con la caratteristica che siano ricchi di sostanza organica, in modo da poter
riciclare produttivamente i rifiuti: letame, liquami fognari, scarti agricoli, scarti di industrie alimentari,
scarti di distillerie, rifiuti solidi urbani. Come catalizzatori di processo si utilizzano consorzi microbici,
opportunamente arricchiti in condizioni metano geniche, da letame, fanghi o sedimenti di acqua
dolce. Oltre al biogas prodotto e alle biomasse di scarto riciclate, il processo consente anche di
riciclare il biocatalizzatore che si produce durante il processo, cioè la biomassa microbica, ad esempio
come fertilizzante.
La produzione di biogas è in continuo aumento negli ultimi anni, anche se alcuni parametri di
processo ne limitano la diffusione, come la crescita lenta dei microrganismi in condizioni anaerobiche
che impone un limite alla velocità di produzione a causa della ridotta quantità di biomassa attiva
disponibile. Si possono studiare sistemi di fermentazione per ovviare almeno in parte a questi
inconvenienti, ad esempio aumentando la velocità di rifornimento del substrato senza diluizione o
dilavamento delle cellule microbiche o l’applicazione di sistemi di ‘trattenimento’ delle cellule. Ciò si
può ottenere con il riciclo del substrato e con cellule immobilizzate. Tra le alternative possibili ci sono
bireattori a letto fisso, con cellule immobilizzate su supporti di vetro, ceramica o plastiche, con
formazione di biofilm da parte del consorzio microbico; oppure bioreattori a letto espanso
fluidificato, dove il supporto è costituito da piccole (< 1 mm) particelle tenute in sospensione dal
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flusso del substrato. Questo sistema garantisce una elevata superficie di supporto disponibile per la
formazione del biofilm. Infine abbiamo i processo in letto di fango anaerobico a flusso invertito, dove
i batteri sono supportati ai granuli di fango.
In genere i processi avvengono in due stadi: nel primo stadio avviene la conversione anaerobica dei
substrati in acidi organici (acetato). È una fase veloce che consente la preparazione del terreno per il
secondo reattore dove avviene la metanogenesi con il consumo degli acidi organici: è la fase lenta
con lunghi tempi di ritenzione. Alcuni vantaggi si possono ottenere dai processi termofili, tra cui
un’alta velocità di reazione, bassi tempi di ritenzione, la pasteurizzazione del terreno con riduzione
del rischio di contaminazioni ed una minore viscosità del terreno. Inoltre l’elevata temperatura
consente un facile recupero del prodotto volatile. Tra gli svantaggi si possono elencare la maggiore
richiesta di energia per il riscaldamento del bioreattore e la scarsa stabilità del processo ed efficienza
della trasformazione. Bisogna ricordare anche che non si conoscono utilizzatori di acetato che
crescano oltre 65°C, quindi le massime temperature utilizzabili sono di 50-60°C. Un uso alternativo
dei metanogeni è la dealogenazione dei composti organici che può avere un ruolo importante nel
biorisanamento dei luoghi contaminati. La dealogenazione (R-X + 2H → RH + HX) è il primo passaggio
nella biodegradazione anaerobia dei composti organici alogenati operata da microrganismi di
ambienti metanogenici, ad esempio Desulfomonile tiedjei e Dehalobacter restrictus.
Produzione di idrogeno
Il carbone e i derivati del petrolio costituiscono circa l’80% dell’energia utilizzata dall’uomo. Come
noto ormai da decenni, i combustibili fossili hanno come risvolto negativo la caratteristica di non
rinnovabilità, almeno su scala antropica dei tempi. Un’altra criticità ecologica dei combustibili fossili è
la produzione di sostanze inquinanti a seguito della combustione, anche dovuta alla presenza di
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additivi. La prima sostanza prodotta da considerare è l’anidride carbonica, di per sé non tossica ma
dannosa per l’ambiente in quanto gas serra, che deriva dall’ossidazione (combustione) degli
idrocarburi. Altre sostanze nocive, dovute alla presenza di additivi o di altri componenti minoritari
rispetto agli idrocarburi, sono le anidridi solforose e gli ossidi d’azoto. A questi si aggiungono le
polveri sottili derivanti dall’accumulo di sostanze principalmente incombuste o parzialmente
combuste. Un combustibile alternativo ai derivati del petrolio, con emissioni teoricamente nulle, è
l’idrogeno la cui ossidazione produce esclusivamente acqua ed energia (H2 +1/2 02 → H2O + energia).
Attualmente l’idrogeno copre solo il 3% circa dell’energia utilizzata ed è usato solo nel settore
industriale. Le fonti attuali di idrogeno sono l’acqua e i combustibili fossili, in particolare i gas naturali
e le frazioni leggere del petrolio. Dai combustibili fossili si ricava circa il 90% dell’idrogeno. Per
estrarre l’idrogeno da queste fonti si sfruttano metodi termochimici o elettrochimici che consumano
energia e rendono quindi la produzione di idrogeno futile in termini della stessa energia ma anche di
materia prima. Anche dal punto di vista dell’inquinamento il processo di ottenimento di idrogeno da
queste fonti non è ottimale, anche se poi se ne ricava un combustibile pulito. Un processo di
produzione di idrogeno più pulito e conveniente è la trasformazione di biomasse, sia scarti di
produzioni agricole e industriali o appositamente coltivate, da parte di microrganismi
opportunamente selezionati da deiezioni, fanghi o effluenti. La presenza di idrogeno in natura è
molto scarsa poiché è una fonte di potere riducente ottimale e, qualora venga prodotta da qualche
microrganismo, viene rapidamente sfruttata da altri microrganismi sintrofici, ad esempio per la
metanogenesi: l’idrogeno prodotto dalle trasformazioni anaerobiche delle biomasse viene utilizzato
come fonte di potere riducente dai metanogeni. Peraltro ci sono vari tipi di microrganismi che
producono idrogeno. I due gruppi principali sono i batteri chemioeterotrofi fermentanti, che
eseguono una fermentazione ‘al buio’ di composti organici, e i microrganismi fotosintetici che
effettuano la fotoproduzione di idrogeno. A quest’ultimo gruppo appartengono sia procarioti (batteri
e cianobatteri) che eucarioti (microalghe). Gli eucarioti fanno la biofotolisi ossigenica dell’acqua
diretta o a due fasi. I procarioti fanno la fotofermentazione anossigenica da substrati organici e/o
inorganici (batteri anaerobi) oppure la biofotolisi indiretta dell’acqua, che è separata in fasi distinte:
due fasi temporali nei cianobatteri o due fasi separate spazialmente nei cianobatteri eterocistati.
79
Gli enzimi che producono idrogeno sono tre: la formiato-idrogeno liasi, la idrogenasi e la nitrogenasi.
La prima produce idrogeno e anidride carbonica dal formiato (HCOOH → CO2 + H2) ed è tipica delle
fermentazioni al buio. La seconda riduce il protone utilizzando elettroni di varia origine (2H+ + 2e- →
H2) e la terza accumula idrogeno se disaccoppiata dall’assenza di azoto. Esistono due tipi di
idrogenasi a seconda della funzione: quelle metaboliche, che producono o consumano idrogeno a
seconda che riducano il protone o ossidino l’idrogeno, e quelle regolative, che funzionano come
sensori dell’idrogeno. Le idrogenasi si possono classificare a seconda della struttura e composizione
del sito attivo: le idrogenasi [NiFe] presentano una subunità α con un sito attivo bimetallico Nickel-
Ferro e una subunità β con cluster Ferro-Zolfo per il trasferimento degli elettroni. Le idrogenasi
[FeFe] che sono monomeriche con sito attivo Ferro-Ferro e un cluster Ferro-Zolfo [4Fe4S] e le
idrogenasi [Fe] che non contengono il cluster Ferro-Zolfo.
Le idrogenasi [NiFe] sono il gruppo più numeroso, presente sia nei batteri che negli Archea. Le due
subunità α e β funzionano nell’ossidazione/riduzione dell’idrogeno e nel trasferimento degli
elettroni. Sono enzimi poco sensibili all’inibizione da parte del CO e O2. L’analisi della sequenza e
delle funzioni permette di classificarle in quattro gruppi.
Nel gruppo I troviamo enzimi di membrana che consumano idrogeno; nel gruppo II ci sono idrogenasi
citoplasmatiche con funzione di sensore o di ossidazione dell’idrogeno per la riduzione dell’azoto; al
gruppo III appartengono idrogenasi bidirezionali (consumo o produzione di idrogeno) o per il
consumo di idrogeno. Sono enzimi eteromultimerici citoplasmatici composti da idrogenasi e diaforasi
per il trasferimento degli elettroni. Gli elettroni vengono scambiati tramite NAD+, NADP+ o coenzima
80
F420. La idrogenasi e la diaforasi sono attività enzimatiche distinte. La diaforasi è caratterizzata da
cluster Ferro-Zolfo e media il trasferimento degli elettroni a o da un accettore/donatore metabolico
finale. Le idrogenasi del gruppo IV sono enzimi di membrana specializzati nell’ossidazione del gruppo
carbonilico da acetil-CoA o da formiato con produzione di idrogeno. Utilizzano ferredossina per
scambiare gli elettroni. Le idrogenasi [NiFe] sono presenti nei batteri, nei cianobatteri e negli Archea
metanogeni.
Le idrogenasi [FeFe] sono enzimi monometrici, costituiti dalle sola subunità catalitica, o dimerici. Si
trovano nei procarioti, quali clostridi e riduttori di solfato, e negli eucarioti, ad esempio nelle alghe
verdi Chlorella e Chlamydomonas: sono le uniche idrogenasi presenti negli eucarioti. Sono localizzate
nel citoplasma, periplasma o nei cloroplasti delle alghe e vengono utilizzate principalmente per la
produzione di H2 in condizioni anaerobiche come valvola di scarico del potere riducente cioè degli
elettroni in eccesso attivati dalla luce. Le idrogenasi [FeFe] utilizzano ferredossine, flavodossine o
citocromi per scambiare elettroni.
La idrogenasi [Fe] è un enzima particolare presente in alcuni Archea metanogeni e chiamata Hmd.
Questa idrogenasi permette la riduzione della CO2 a metano, in particolare catalizza nei metanogeni
la riduzione reversibile di metenil-tetraidrometanopterina (metenil-H4MPT+) a metilen-H4MPT,
utilizzando H2 e producendo H+. Questo enzima non catalizza però direttamente la reazione H+ + e-
→ ½ H2. Inoltre il ferro non è il catalizzatore redox.
81
Un altro enzima in grado di produrre idrogeno è la nitrogenasi. La reazione catalizzata dalla
nitrogenasi è la seguente:
N2 + 8H+ + 8e- + 16ATP → 2NH3 + H2 + 16ADP + 16Pi
In assenza di azoto, la nitrogenasi produce idrogeno consumando ATP:
8H+ + 8e- + 4ATP → 4H2 + 4ADP + 4Pi
La produzione di idrogeno secondo questa via è energeticamente dispendiosa ma molti
microrganismi che hanno l’enzima nitrogenasi, sia batteri che Archea, possono produrre idrogeno
durante la fissazione dell’azoto in assenza del substrato. Le nitrogenasi più comuni sono enzimi
Ferro-Zolfo costituite da eterotetrameri α2β2 per il legame e riduzione dell’azoto (enzima
dinitrogenasi). Le subunità sono di tipo FeMo (subunità α) o di tipo P-cluster (subunità β). Gli
elettroni per la riduzione sono forniti da ferredossina o flavodossina tramite l’enzima dinitrogenasi
reduttasi, composto a sua volta da omodimeri γ contenenti cluster Ferro-Zolfo [4Fe4S]. Il
trasferimento di elettroni è ATP dipendente.
Come accennato precedentemente, la produzione di idrogeno si può effettuare con processi al buio
o alla luce. Il processo al buio è semplicemente un processo fermentativo che non richiede apporto
di energia luminosa ma estrae energia dalla degradazione di composti chimici. Questo tipo di
processo presenta numerosi vantaggi che hanno promosso nuovo interesse sull’applicazione e
sviluppo di questa tecnologia. Innanzi tutto i microrganismi fermentanti e produttori di idrogeno
sono molto diffusi in natura e una grande varietà di vie metaboliche consentono l’accumulo di H2. I
substrati di fermentazione possono essere biomasse di scarto riciclate, quindi a basso costo e con un
vantaggio di abbattimento dell’impatto ambientale. La produzione, in termini di resa, è elevata e
continua. Il fatto di non essere luce-dipendente facilita di molto la tecnologia del processo in quanto
la luce, pur essendo disponibile e senza costo, è difficile da distribuire alle cellule e non è costante nel
tempo a causa del ciclo giorno/notte. Le vie metaboliche adatte alla produzione di idrogeno sono la
fermentazione acido-mista e quella del butanolo/propanolo.
82
La fermentazione acido-mista è tipica delle Enterobacteriaceae: il glucosio viene trasformato dalla
glicolisi in fosfoenolpiruvato e piruvato. Da questi intermedi metabolici, si ottengono gli acidi
dicarbossilici C4, in seguito a carbossilazione del fosfoenolpiruvato, e i metaboliti C2 acetato o
etanolo, in seguito a decarbossilazione del piruvato. I passaggi che producono potere riducente
utilizzabile per la produzione di idrogeno sono la glicolisi e la decarbossilazione del piruvato. Nella
glicolisi, la gliceraldeide fosfato deidrogenasi produce NADH/H+ che può essere utilizzato dalle
idrogenasi per produrre idrogeno. La decarbossilazione del piruvato da parte della piruvato-formiato
liasi produce formiato, a sua volta substrato della formiato-idrogeno liasi che produce idrogeno. E’
quindi essenziale la presenza di idrogenasi e liasi per consentire la produzione di idrogeno. Ma per
garantire una produzione sufficiente è anche necessario che le vie metaboliche che consumano
potere riducente siano inibite, come quelle del lattato, dell’etanolo e del succinato. La via del
succinato si può inibire, ad esempio, eliminando la CO2 e quindi impedendo la carbossilazione del
fosfoenolpiruvato.
L’altra via metabolica per la produzione di idrogeno è la fermentazione butirrica, presente sia nei
Clostridium che nelle Enterobacteriaceae. In questo caso l’enzima chiave è la piruvato deidrogenasi
che decarbossila ossidativamente il piruvato ad acetil-CoA e trasferisce gli elettroni alla ferredossina.
L’idrogenasi può, a questo punto, rigenerare ferredossina ossidata e trasferire gli elettroni
all’idrogeno ristabilendo l’equilibrio redox. L’acetil-CoA prodotto viene utilizzato dalla cellula per le
biosintesi e viene quindi ulteriormente modificato. Affinché la produzione di idrogeno sia rilevante,
bisogna impedire che il metabolismo a valle dell’acetil-CoA riassorba il potere riducente prodotto
dalla piruvato deidrogenasi. Le vie metaboliche che riutilizzano potere riducente sono varie: la
riduzione dell’acetato ad etanolo, la condensazione dell’acetil-CoA e riduzione a butirrato oppure la
riduzione fino a butanolo o isopropanolo. Un metodo per favorire l’accumulo di idrogeno è la
sottrazione dell’acetato dal terreno man mano che si forma, in modo da spingere la reazione di
decarbossilazione.
83
I processi fermentativi al buio più avanzati per la produzione di idrogeno utilizzano batteri del genere
Clostridium e si riescono ad ottenere alte rese (1.6 – 2.4 mol/mol glucosio) e alte produttività (15
l/lh). E’ interessante notare che il processo al buio è fino a 100 volte più produttivo della foto-
produzione, di cui si parlerà in seguito. Si possono usare anche microrganismi termofili che, a fronte
di minore produzioni, hanno il vantaggio di processi in cui viene favorito il recupero del prodotto
gassoso grazie alle alte temperature. La lista dei substrati utilizzabili per la produzione include scarti
di varia origine (scarti ortofrutticoli, potature, deiezioni, rifiuti domestici organici, scarti industriali di
zuccherifici, pastifici, conservieri e caseari), fanghi di depurazione delle acque e piante coltivate ad
hoc. E’ importante che i substrati siano in uno stato di ossidazione sufficientemente ridotto in modo
da fornire sufficiente potere riducente. I substrati preferiti sono quelli ricchi di carboidrati e
polisaccaridi. Nella sperimentazione di laboratorio si usa, come d’abitudine, il glucosio. A causa della
eterogeneità del substrato, in molti casi l’utilizzo di consorzi microbici invece delle colture pure
risulta più vantaggioso in quanto si mettono in gioco le potenzialità degradative di microrganismi
differenti su substrati differenti, in particolare le attività idrolitiche sui polimeri naturali che rendono
disponibili i monomeri più facilmente e rapidamente utilizzabili dai produttori di idrogeno. In
particolare si possono utilizzare consorzi microbici arricchiti di microrganismi fermentanti selezionati
per capacità metabolica elevata e attività idrogenasica elevata, ad esempio clostridi selezionati. Le
vie metaboliche dei clostridi per la produzione di idrogeno sono quella dell’acetato, con la piruvato
deidrogenasi e la [FeFe] idrogenasi per la ossidazione della ferredossina, e la NADH-Fd ossido
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reduttasi, che riossida il NADH/H+, generato ad esempio dalla glicolisi, producendo ancora
ferredossina ridotta.
A partire dall’acetil-CoA, abbiamo anche la via metabolica che porta al butirrato: questa via è favorita
rispetto alla produzione di acetato, anche se produce meno ATP, ma consuma NADPH/H+ ed è quindi
svantaggiosa per la produzione di idrogeno in quanto sottrae potere riducente. Ai fini produttivi,
bisogna quindi favorire la produzione dell’acetato e inibire il consumo di idrogeno e/o potere
riducente. Un sistema efficiente per favorire l’acetato e aumentare la produzione è la sottrazione del
biogas durante il processo e quindi la riduzione della pH2. Una elevata pressione di idrogeno favorisce
invece la produzione di metaboliti ridotti (etanolo, lattato, butanolo ecc) a scapito dell’idrogeno. Tra i
vantaggi della sottrazione del biogas, c’è anche la sottrazione della CO2, che contrasta la sintesi del
succinato e quindi riduce l’utilizzo di potere riducente a vantaggio della produzione di idrogeno.
Anche la sottrazione di acidi grassi volatili insieme al biogas favorisce la produzione in quanto
impedisce che gli acidi vengano ridotti ad aldeide e alcol con impiego di NADH/H+. Infine, il
monossido di carbonio è un inibitore volatile della idrogenasi. La resa teorica, cioè la conversione
totale del glucosio in idrogeno è 12 mol/mol:
C6H12O6 + 6H2O → 6CO2 + 12H2
Se si considera però il metabolismo dell’acetato, la resa teorica massima scende al 33%
dell’ossidazione totale del glucosio a CO2 con un valore massimo teorico di 4 mol/mol:
C6H12O6 + 2H2O → 2CH3COOH + 2CO2 + 4H2
Un altro problema della fermentazione al buio è la concomitante produzione di CO2 che interferisce
con il recupero dell’idrogeno essendo entrambi i prodotti gassosi. Altri gas che si possono trovare tra
i prodotti finali sono azoto, ammoniaca e acido solfidrico. Tra i vantaggi si possono elencare anche il
fatto che, essendo il metabolismo anaerobico, non c’è necessità di impianti di areazione e che alcuni
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metaboliti (prodotti secondari) possono avere un certo interesse applicativo. Il terreno di scarto della
produzione può anche essere riciclato come fertilizzante.
I bioreattori per la produzione di idrogeno si distinguono in bioreattori a compostaggio con substrati
solidi cellulosici o amidacei e in bioreattori con substrato liquido nei quali le cellule microbiche
vengono in genere immobilizzate su supporti di vario tipo: trucioli, sabbia, granuli di fango. Nella
prima fase del processo con substrato liquido si fa avvenire la crescita della biomassa microbica sul
supporto e successivamente viene rifornito il terreno per la produzione di idrogeno. Il bioreattore
può essere a letto fisso, dove il supporto con le cellule microbiche è fisso e percorso dal flusso di
substrato, o a letto fluido, dove le particelle di supporto vengono mantenute in sospensione e
miscelate dal flusso di substrato.
La produzione di idrogeno per via foto sintetica, o fotoproduzione, è una decomposizione dell’acqua
a ossigeno e idrogeno che non comporta produzione di gas serra:
2H2O + hν → 2H2 + O2 (ΔG=+237 kJ/mol)
La fotoproduzione di idrogeno viene fatta sia da procarioti che eucarioti ed è un fenomeno
conosciuto nei microrganismi fotosintetici fin dagli anni ’40. La reazione è fortemente endoergonica e
la velocità di produzione è lenta. Gli enzimi produttori di idrogeno sono le idrogenasi classiche, le
idrogenasi unidirezionali e le nitrogenasi. Gli elettroni attivati dalla luce vengono trasferiti alla
ferredossina. Da questo punto si possono avere due metabolismi differenti. Il primo è la produzione
diretta di idrogeno tramite idrogenasi [Fe-Fe] nelle alghe, tramite nitrogenasi nei cianobatteri o
tramite idrogenasi [Ni-Fe] NADH/H+ dipendente ancora nei cianobatteri. Il secondo è la produzione
indiretta, dove il potere riducente passa attraverso la sintesi di carboidrati (ciclo di Calvin) e
successiva ossidazione degli intermedi metabolici. In questo caso si sfrutta l’attività nitrogenasica
associata alla capacità delle alghe e dei cianobatteri di fissare l’azoto. Gli enzimi chiave sono dunque
86
le idrogenasi e le nitrogenasi: sono tutti enzimi sensibili all’ossigeno che non deve eccedere valori di
0.1%. La fotoproduzione di idrogeno avviene solo in ambiente anaerobico. Le idrogenasi
unidirezionali sono poco adatte alla produzione di idrogeno in quanto lavorano essenzialmente nella
direzione opposta, ossidando l’idrogeno e riducendo i cofattori redox. Sono enzimi Ni-Fe e
catalizzano la reazione:
1/2H2 + NAD+ → [H+ + e- ] → NADH/H+
Le idrogenasi classiche sono invece enzimi reversibili, anche se l’equilibrio è spostato verso lo stato
ossidato dell’idrogeno, con valori k2 maggiori di k1 (K2 = 5-6 K1). Sono enzimi Ni-Fe e catalizzano la
reazione:
k2
k1
1/2H2H+ + e-
Le nitrogenasi sono enzimi coinvolti nella fissazione dell’azoto tramite riduzione di azoto ad
ammoniaca. Catalizzano la reazione:
N2 + 8H+ + 8e- + 16ATP → 2NH3 + H2 + 16ADP + 16Pi
In assenza di azoto si ha la riduzione dei protoni ad idrogeno elementare, un processo che richiede
però un notevole consumo di ATP.
I processi di fotoproduzione di idrogeno utilizzano l’energia della luce per estrarre gli elettroni da
molecole donatrici: gli elettroni vengono quindi utilizzati per ridurre il protone e produrre idrogeno. I
processi cambiano a seconda della molecola donatrice che può essere l’acqua o altri composti
inorganici o organici ridotti. Nel caso dell’acqua avremo un processo di fotosintesi ossigenica in
87
quanto il prodotto di estrazione di elettroni dall’acqua porta alla produzione di ossigeno, protoni ed
elettroni. Questo processo produce energia e potere riducente che vengono utilizzati dal
microrganismo per l’organicazione della CO2 e quindi per la crescita. La produzione di idrogeno si può
ottenere in condizioni particolari, sia direttamente con la produzione simultanea di ossigeno, sia
indirettamente con produzione di ossigeno disaccoppiata nello spazio o nel tempo. La produzione
diretta è tipica delle microalghe, eucarioti fotosintetici unicellulari. Questi microrganismi sono dotati
di due foto sistemi (PSI e PSII) in grado di catturare la luce attraverso dei sistemi proteici (LHC)
contenenti clorofille e carotenoidi. Il fotone catturato estrae l’elettrone dai pigmenti fotoreattivi
P700 (PSI) e P680 (PSII). Il PSII è all’inizio della catena di trasporto degli elettroni: l’elettrone estratto
dal P680 viene trasferito in passaggi successivi a e da feofitina, coenzima Q, plastochinone, citocromo
B6-F e plastocianina. La plastocianina, a sua volta, trasferisce l’elettrone alla forma ossidata del P700.
La forma ossidata del P680 è invece ridotta dall’acqua grazie all’attività del complesso OEC (oxygen
evolving complex): il P680 è così disponibile per un nuovo ciclo e contemporaneamente si ha
produzione di ossigeno e protone. Il sistema di trasferimento di elettroni è un sistema di membrana e
i protoni prodotti dalla fotolisi dell’acqua si accumulano nel periplasma generando un gradiente che
la cellula utilizza per la fosforilazione dell’ADP e quindi producendo energia. L’elettrone estratto dal
P700 viene utilizzato per ridurre la ferredossina.
A questo punto possiamo avere due vie. La prima è quella che genera NADPH/H+, tramite la
ossidoreduttasi FNR, per le reazioni biosintetiche della cellula; la seconda è quella che genera
idrogeno, tramite l’attività di enzimi idrogenasi. Le reazioni biosintetiche di base fanno capo al ciclo
di Calvin e all’organicazione della CO2. I prodotti biosintetici, o le fonti di carbonio assimilate
dall’ambiente, sono intermedi che possono anche essere ossidati e gli elettroni possono
eventualmente rientrare nel sistema fotosintetico a livello del plastochinone per l’eventuale
produzione di idrogeno. Un tipico microrganismo in grado di produrre idrogeno attraverso la
fotoproduzione ossigenica è Chlamydomonas reinhardtii, una microalga contenente una idrogenasi
reversibile classe [Fe-Fe] con la quale sono stati effettuati i primi studi pioneristici di biofotolisi
diretta dell’acqua. Affinché si abbia produzione di idrogeno è necessario sottrarre gli elettroni
indirizzati al ciclo di Calvin ed eliminare l’ossigeno che viene prodotto per mantenerlo sotto ai livelli
di inibizione delle idrogenasi, che sono enzimi sensibili all’ossigeno. In genere il processo si porta
avanti in due fasi: la prima fase è al buio e in condizioni anaerobiche. In questa fase si promuove la
sintesi della idrogenasi. La seconda fase è alla luce e avviene la produzione di idrogeno. La frazione
produttiva della seconda fase viene rapidamente sopraffatta dall’assimilazione di CO2 con sottrazione
88
di potere riducente e dall’accumulo di ossigeno a concentrazioni inibitorie. Ciò richiede un reinizio
della fase buia. Il processo si può migliorare lavorando sull’attività di PSII per ridurre lo svolgimento
dell’ossigeno: la riduzione dei composti solforati nel terreno, ad esempio, porta all’inibizione
progressiva di PSII con riduzione concomitante di produzione dell’ossigeno. Questa condizione
genera uno stato di anaerobiosi alla luce con produzione sostenuta di idrogeno. Un altro sistema di
produzione di idrogeno dalla luce è quello della biofotolisi indiretta con separazione nello spazio o
nel tempo della produzione di ossigeno e idrogeno. Il sistema a due fasi con Chlamydomonas
reinhardtii si può già considerare una sorta di processo indiretto. Nella biofotolisi indiretta, dove si
possono utilizzare sia alghe che cianobatteri, durante prima fase si consente una crescita
fotoautotrofa in presenza di luce con accumulo intracellulare di composti ridotti del carbonio di
riserva. Durante seconda fase si utilizza il potere riducente endogeno accumulato nei substrati di
riserva per la produzione, alla luce, di idrogeno. Le fasi possono essere eventualmente reiterate.
La biofotolisi indiretta con separazione spaziale si può fare con cianobatteri filamentosi delle specie
Anabena o Nostoc. I filamenti di questi microrganismi sono composti da successioni di cellule
vegetative complete ogni tanto intercalate da cellule eterocistate. Queste ultime si formano in
carenza di azoto e sono cellule specializzate nella fissaggio dell’azoto molecolare. Lo sviluppo di
eterociste avviene a seguito di fenomeni differenziativi che includono la sintesi di nuovi componenti
della parete cellulare e la degradazione del PSII. Da ciò ne consegue che nelle eterociste non avviene
lo sviluppo di ossigeno e quindi l’ambiente è anaerobico e favorevole alla produzione dell’idrogeno.
Durante il differenziamento avviene anche la sintesi della nitrogenasi, l’enzima in grado di produrre
idrogeno se disaccoppiata dall’assenza di azoto dalla produzione di ammonio, e l’attivazione della
glicolisi. Quest’ultima produce energia (ATP) e potere riducente (NADH/H+) utilizzando intermedi
metabolici forniti dalle cellule normali tramite fotosintesi ossigenica e ciclo di Calvin. Il potere
riducente viene utilizzato per ridurre, tramite il cytB6-F, il P700 del PSI ossidato dalla luce:
cytB6-F[red] +P700+ → cytB6-F[ox] +P700 + H+
Il protone prodotto garantisce la disponibilità dell’ATP, necessario in elevate quantità per far
funzionare la nitrogenasi mentre il P700 viene riossidato dalla luce producendo un elettrone che
verrà catturato dalla ferredossina per sostenere l’attività della nitrogenasi.
89
La produzione di idrogeno da batteri eterocistati si può considerare un caso limite di fotolisi indiretta
dove lo svolgimento di ossigeno e di idrogeno sono spazialmente separati in cellule di tipo diverso. È
fondamentale per il processo di produzione dell’idrogeno che sia assente l’azoto. Infatti il ruolo
metabolico delle cellule eterocistate sarebbe la riduzione dell’azoto molecolare ad ammonio,
necessario alla sintesi degli amminoacidi nelle cellule vegetative normali. D’altra parte, la carenza
prolungata di azoto può causare il deterioramento cellulare e l’arresto della produzione di idrogeno.
Un altro inconveniente del processo è l’assimilazione ed il consumo dell’idrogeno prodotto da parte
delle idrogenasi di uptake per rendere disponibile il potere riducente al metabolismo cellulare.
Alcuni microrganismi, sono del tutto privi di PSII: sono i batteri anaerobi rossi/viola dei quali
Rhodobacter sphaeroides è un microrganismo modello. Questi batteri vengono utilizzati per la
produzione anossigenica di idrogeno o fotofermentazione; essendo privi di PSII, non producono
ossigeno dall’acqua e non presentano quindi i problemi di inibizione delle nitrogenasi e/o idrogenasi.
Questi microrganismi contengono quindi un solo foto sistema (PSI) caratterizzato da un pigmento
foto reattivo P870. Gli elettroni vengono ottenuti da composti organici di varia natura,
principalmente acidi organici quali l’acetato, il lattato o il butirrato, o da composti inorganici, quali
tiosolfati, solfiti o metalli ridotti come il ferro (II). Gli elettroni vengono trasferiti attraverso la catena
dei trasportatori di membrana fino al P870 e quindi alla ferredossina, in seguito ad attivazione da
parte della luce. Anche in questo caso, l’enzima chiave del processo è la nitrogenasi che, in carenza di
azoto, produce idrogeno. La richiesta energetica viene supportata dall’ossidazione dei substrati
organici attraverso il ciclo di Krebs (TCA) e dal gradiente protonico derivante dal trasporto di
elettroni. Per completare il quadro bisogna specificare che la presenza di idrogenasi di uptake se da
una parte consente di rifornire il metabolismo biosintetico di potere riducente, dall’altra sottrae
l’idrogeno prodotto dalla nitrogenasi riducendo di fatto la produzione netta di idrogeno.
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Riassumendo, i microrganismi fotosintetici per la produzione di idrogeno appartengono a tre gruppi
principali: le microalghe verdi, i cianobatteri e i batteri rossi non-sulfurei. Le microalghe, delle quali
un esempio è Chlamydomonas reinhardtii, sono eucarioti fotoautotrofi che usano la CO2 come fonte
di carbonio: hanno i due foto sistemi PSI e PSII e contengono clorofilla a e b. Come enzima
produttore di idrogeno hanno solo idrogenasi. I cianobatteri sono procarioti fotoautotrofi e azoto
fissatori. I cianobatteri sono caratterizzati da ampia diversità ecofisiologica, biochimica e morfologica
e i batteri eterocistati ne sono tipici produttori di idrogeno: hanno due foto sistemi e contengono
clorofilla a, carotenoidi e ficobiliproteine (ad esempio la ficocianina) per catturare la luce. La capacità
di produzione di idrogeno deriva dalla presenza sia di nitrogenasi che di idrogenasi reversibili o di
uptake. Le eterociste sono cellule prive di PSII in cui la nitrogenasi è attiva e l’ambiente è privo di
ossigeno. I batteri rossi sono procarioti fotoeterotrofi, che non usano quindi CO2 come fonte di
carbonio, e sono morfologicamente eterogenei: Rhodobacter sphaeroides ne è un esempio tipico.
Sono dotati di fotosistema singolo, incapace di scindere l’acqua ma capace di produrre ATP
utilizzando donatori organici di elettroni. Per catturare la luce, il fotosistema è dotato di
batterioclorofille a e b e carotenoidi; per produrre idrogeno, utilizzano nitrogenasi e idrogenasi
reversibili o di uptake.
A questi tre gruppi di microrganismi corrispondono tre tipi di processi di produzione: la fotolisi
ossigenica diretta, la fotolisi ossigenica indiretta e la foto fermentazione anossigenica. Ognuno di
questi processi ha le sue peculiarità cui corrispondono vantaggi o svantaggi. Ad esempio, il primo
processo non richiede ATP e non c’è consumo di prodotto da parte delle idrogenasi di uptake mentre
il secondo e il terzo sono protetti contro l’inattivazione enzimatica da ossigeno. Il primo e il secondo
non producono gas-serra (CO2) parallelamente allo svolgimento di idrogeno. Il terzo è caratterizzato
da produttività sempre più elevate del primo e del secondo e inoltre può essere sfruttato per
potenzialità parallele e contemporanee alla produzione di idrogeno quali la produzione di metaboliti
particolari o il disinquinamento da composti organici. Infine la fotofermentazione anossigenica ha
una minore richiesta energetica per le produzione di idrogeno, utilizzando dei prodotti di partenza
differenti:
H2O + hν → ½O2 + H2 (fotolisi dell’acqua ΔG°=+237kJ)
2H20 + C2H4O2 + hν → 2CO2 + 4H2 (fotofermentazione da acetato ΔG°=+75kJ)
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Sebbene la produzione di idrogeno da microrganismi sia teoricamente valida ed interessante, dal
punto di vista pratico e applicato presenta diversi problemi per cui finora sono state fatte e
sviluppate solo produzione su scala di laboratorio. Uno dei punti critici è l’efficienza di conversione
dell’energia luminosa in prodotto. Infatti si ottengono alte efficienze di conversione solo in
laboratorio, a basse intensità luminose. Alla luce solare, e quindi ad elevate intensità luminose,
l’efficienza dei foto sistemi specificamente diminuisce e di conseguenza l’efficienza di conversione si
abbassa. Valori tipici di efficienza sono 0.04-0.2% per la fotosintesi ossigenica e 0.3-0.5% per la foto
fermentazione, escludendo il contributo dell’energia chimica al processo. Queste rese di produzione
di idrogeno sono sensibilmente inferiori a quelle di conversione dell’energia luminosa in biomassa,
che raggiungono il 4%. Anche la mancanza di un sistema ottimale su cui lavorare contribuisce alla fine
alla mancanza dello sviluppo dei sistemi di laboratorio nella direzione della produzione su larga scala.
Produzione di biodiesel
Uno dei problemi cruciali nell’individuazione e sfruttamento delle risorse energetiche è la
rinnovabilità della fonte. I fenomeni fisici ambientali come la luce, il vento e le maree, sono fonti di
energia praticamente sempre disponibili per le quali il problema della rinnovabilità non si applica. La
fonte energetica principale è attualmente il petrolio e i derivati della sua lavorazione. Dato che il
petrolio viene generato nel sottosuolo dalla riduzione anaerobica dei composti organici su una scala
di tempi geologici, la sua produzione è ovviamente molto più lenta del suo consumo e viene quindi
considerata una fonte energetica non rinnovabile. La prospettiva dell’uso su larga scala di fonti
energetiche alternative, soprattutto nel campo dei carburanti, include quindi la possibilità di rinnovo
della fonte e quindi una velocità di produzione comparabile a quella del consumo. La produzione di
biocarburanti (bioetanolo e biodiesel) segue il principio della rinnovabilità della fonte in quanto
vengono prodotti dal metabolismo di organismi che sfruttano direttamente o indirettamente
l’energia solare: la produttività, cioè quanto carburante viene prodotto e in che tempi, dipende dalla
velocità metabolica dell’organismo, che nei microrganismi è particolarmente elevata, e dalla
possibilità di scalare il processo. L’energia solare, trasformata dal processo, viene conservata nel
composto chimico poi utilizzato come carburante. Nella produzione di bioetanolo, gli amidi e gli
zuccheri sono sintetizzati e accumulati dalle piante e, previa lavorazione, successivamente
trasformati dai microrganismi nella seconda fase del processo dove avviene la fermentazione alcolica
e la vera e propria produzione. Il biodiesel è una miscela di metil-esteri di acidi grassi a catena lunga
che derivano dall’idrolisi di trigliceridi e da acidi grassi di riserva di piante particolarmente ricche di
questi composti: prevalentemente palma, colza e soia. In questo caso, il processo avviene tutto nella
pianta ed è, da questo punto di vista, a una singola fase. Come per il bioetanolo, anche per la
produzione di biodiesel sussiste il problema della competizione per il suolo agricolo tra biocarburante
e fabbisogno alimentare, un problema particolarmente importante nel caso di suoli agricoli in paesi
poveri.
Dal punto di vista del processo, particolarmente rilevante è il bilancio energetico, cioè la quantità di
energia che si ricava dal carburante prodotto rispetto all’energia impiegata per produrre il
92
carburante. L’ordine di grandezza di questo bilancio è circa 0.5 e importanti sforzi e ricerche sono in
atto per migliorare questo fattore. Per quanto riguarda il bioetanolo si cerca ad esempio di utilizzare
al meglio gli zuccheri fermentabili o di rendere disponibili per la fermentazione anche substrati non
direttamente o facilmente fermentabili, come i substrati lignocellulosici, lavorando sia sui
microrganismi fermentanti che sulle piante fonti di substrati. Per quanto riguarda il biodiesel, una
concreta possibilità è data dall’uso delle microalghe al posto delle piante. Tra i vantaggi delle
microalghe troviamo la maggiore produttività, dovuta ai brevi tempi di duplicazione dei
microrganismi, e il maggiore accumulo di precursori del prodotto: i triacilgligeroli (trigliceridi) o TAG.
Infine, ma non ultimo, il non utilizzo di suolo agricolo. Ad esempio in un paese come la Gran
Bretagna, dove si consumano 25000 ML di diesel per anno, tenendo conto del contenuto in olio e
delle produzioni specifiche di pianta e alga, se ne ricava una esigenza di suolo agricolo di 17.5 Mha
per il biodiesel da colza e di solo di 0.6 Mha di area di coltivazione di alghe per soddisfare il
fabbisogno di carburante, se fosse tutto prodotto con tecniche bio. Da tener presente che la
superficie della Gran Bretagna è di 24 Mha, solo il 30% in più rispetto all’area richiesta dalla
coltivazione della colza.
Oltre a tutte le considerazioni fatte finora, c’è un altro fattore importante da tenere in
considerazione per valutare la convenienza e la fattibilità di un processo e precisamente il suo
bilancio energetico. Questo fattore è particolarmente rilevante nei casi in cui il prodotto del processo
è utilizzato a sua volta come fonte energetica. Il bilancio energetico si può valutare su vari livelli del
processo, dal generale al particolare, e include, per i processi microbiologici, l’analisi del ciclo vitale
che costituisce il cuore del processo produttivo su base biologica (Life-Cycle Analysis, LCA). Il
processo (micro)biologico è costituito da tre fasi principali: la crescita dell’organismo, la raccolta e/o
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estrazione del prodotto e la sua lavorazione per ottenere il prodotto finale. In ognuna di queste tre
fasi avremo una energia in ingresso ed una energia in uscita. In questo caso si intende con il termine
‘energia’ sia l’energia vera e propria, come il calore o la luce, sia il materiale utilizzato per allestire il
processo e quello che se ne ricava. Quindi, come energia in ingresso, dovremo considerare non solo i
nutrienti necessari per la crescita o i substrati per la biotrasformazione, ma anche tutta l’energia ed il
materiale impiegati per la costruzione ed il funzionamento dell’impianto di produzione nonché tutto
ciò che è stato speso per lo sviluppo della conoscenza e della tecnologia del processo: selezione degli
organismi impiegati, studio delle conoscenze di base, ottimizzazione della crescita e via dicendo.
Queste ultime spese costituiscono un investimento sul processo che verranno con tempo
ammortizzate dal ricavo, ma pesano in modo rilevante nell’avvio della produzione. Per la produzione
del biodiesel da microrganismi, oltre alle voci generali di energia di ingresso, abbiamo luce, anidride
carbonica e nutrienti che vengono trasformati nella prima fase (crescita). Nella seconda fase (raccolta
ed estrazione) abbiamo energia in ingresso e residui di biomassa in uscita, che possono essere
recuperati e riciclati nel bilancio energetico. In uscita abbiamo anche i trigliceridi che entrano nella
fase tre del processo (lavorazione) dove vengono trasformati in metil-esteri (biodiesel) utilizzando
ancora energia e metanolo. In uscita avremo il prodotto finale e gli scarti della fase tre,
principalmente il glicerolo, che può essere recuperato e riciclato, bilanciando il processo, o rilasciato
nell’ambiente.
Il punto cruciale della produzione di biodiesel, sia che si tratti di piante che di microrganismi (alghe),
è la sintesi dei triacilgliceroli (TAG). I TAG sono composti di riserva negli organismi, la cui sintesi passa
attraverso diverse vie metaboliche e diversi organelli. Il metabolismo autotrofo incomincia con
l’assimilazione della CO2 nei plastidi attraverso il ciclo di Calvin, utilizzando l’energia e gli elettroni
ricavati dall’energia luminosa. Il ciclo di Calvin produce triosi-fosfato, che possono anche derivare dal
metabolismo eterotrofo citoplasmatico, ad esempio quello degli zuccheri. Dai triosi-fosfato, la cellula
ottiene l’acetil-CoA che costituisce il metabolita di partenza per la sintesi degli acidi grassi che
vengono costruiti il un metabolismo ciclico in cui vengono aggiunti ad ogni giro due atomi di
carbonio. Il donatore di C2 è il malonil-ACP (ACP è l’acronimo di Acyl Carrier Protein), sintetizzato in
due passaggi da acetil-CoA e CO2 da parte della acetil-CoA carbossilasi che produce malonil-CoA, e
poi dalla malonil-CoA ACP aciltrasferasi, che trasferisce il malonile all’ACP. A questo punto, il malonil-
ACP serve da substrato alla sintasi, che trasferisce a sua volta un gruppo acile (C2) ad un acil-CoA
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(Cn) generando un 3-chetoacil-CoA (Cn+2) e liberando CO2. Il gruppo chetonico viene ridotto a
idrossile da una reduttasi; quindi viene eliminata una molecola d’acqua da una deidratasi, con
produzione di un enoil-ACP in quale viene a sua volta ridotto da una reduttasi con produzione di un
nuovo acil-CoA (Cn+2). Il potere riducente per le reduttasi è fornito da NADPH/H+ o NADH/H+.
Gli acidi grassi maggioritari, prodotti de novo attraverso questa via, sono C16 e C18 (palmitiol-ACP e
stearoil-ACP). Questi acidi grassi attivati vengono utilizzati dalla cellula per sintetizzare diacil-gliceroli,
e quindi fosfolipidi o glicolipidi per le membrane, oppure vengono indirizzati al reticolo
endoplasmatico sotto forma di acil-CoA. La sintesi dei TAG avviene nel reticolo a partire da glicerolo-
fosfato, a cui vengono trasferiti in successione due gruppi acilici da parte di enzimi trasferasi, con
sintesi di acido fosfatidico. Infine, l’acido fosfatidico viene defosforilato e il risultante diacil-glicerolo
viene acilato da enzima trasferasi con sintesi di triacil-glicerolo. I TAG prodotti vengono accumulati
dalle cellule sotto forma di particelle oleaginose (chiamati oil bodies, lipid bodies o lipid particles).
Gli organismi e microrganismi cosiddetti oleaginosi sono in grado di accumulare, in opportune
condizioni, elevate quantità di particelle oleaginose che costituiscono particelle di riserva energetica
per la cellule e l’organismo. Questi organismi sono i migliori candidati per la produzione di biodiesel.
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Nel caso di produzione con microrganismi, la scelta si orienta sulle alghe fotosintetiche. Le alghe
sono un gruppo di organismi molto eterogeneo: se ne valuta la numerosità in circa 300000 specie tra
cui troviamo sia le macroalghe pluricellulari che le microalghe unicellulari. Le alghe appartengono sia
ai procarioti che agli eucarioti. Tra le microalghe fotosintetiche eucariotiche di un certo interesse per
il processo di produzione di biodiesel ci sono le alghe rosse e verdi dei gruppi tassonomici
Rhodophyta e Chlorophyta, le alghe brune pluricellulari, cui appartengono le diatomee e le alghe
dinoflagellate, e le alghe brune unicellulari flagellate o eteroconti. Tra le procariotiche ci sono le
alghe blu-verdi (cianobatteri).
Le specie effettivamente utilizzate nei processi, anche se su scala di prova, sono le microalghe
unicellulari fotosintetiche eucariotiche. La messa a punto del processo parte da programmi di
campionamento e selezione di microrganismi basati sulla potenzialità produttiva e quindi velocità di
crescita e accumulo dei lipidi. Le specie più interessanti sono le alghe verdi, o clorofite,
Chlamydomonas reinhardtii, Dunaliella salina, Chlorella sp e Botryococcus brunii; le alghe unicellulari
con astuccio siliceo, note come diatomee, Phaeodactylum tricornutum e Thalassiosira pseudonana; le
microalghe flagellate (eteroconti) Nannochloropsis sp e Isochrysis sp. E’ importante sottolineare che
alcuni di questi microrganismi sono già utilizzati per altre produzioni, in genere prodotti finali ad alto
valore aggiunto con poca attenzione quindi al bilancio energetico. Di conseguenza, per alcuni aspetti
di crescita della biomassa, si possono applicare i metodi già utilizzati per le altre applicazioni, almeno
nei processi di prova e di fattibilità. Bisogna però considerare che il biodiesel è un prodotto a basso
valore aggiunto e che viene usato, a sua volta, per produrre energia. E’ quindi assolutamente
necessario un bilancio energetico positivo per giustificare lo studio del processo e la scalatura a
livello produttivo. A parte i sistemi di laboratorio di piccola scala, i metodi di coltivazione su larga
scala fanno impiego di bioreattori chiusi o aperti, quali vasche o canali.
Alcuni aspetti tecnologici rilevanti del processo, che possono essere determinanti nella scelta del tipo
di bioreattore e che vedremo in dettaglio in seguito, sono le contaminazioni del bioreattore da altri
organismi, il rifornimento del bioreattore di nutrienti e di fonte di carbonio CO2, la possibilità di
scalatura del processo a livello di produzione, la possibilità di intervenire sul processo manipolando
ed adeguando le condizioni colturali e infine il rifornimento e la distribuzione della luce alla biomassa
delle alghe. Alla fine della fase di produzione in bioreattore subentra la fase di raccolta della
biomassa, che può avvenire per filtrazione o sedimentazione, ed estrazione dei TAG dalla biomassa. Il
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rilascio di prodotto dalla biomassa avviene previa lisi enzimatica della parete cellulare e a questo
scopo può essere conveniente l’uso di mutanti di parete sensibili all’agente di lisi. A questo punto
avviene il rilascio dei TAG dai loro comparti cellulari (corpi oleaginosi) e dei fosfolipidi di membrana e
il processo deve essere messo a punto in modo da avvenire senza contaminazione da altre molecole,
quali acidi nucleici (DNA/RNA), clorofilla o altri contaminanti. I metodi classici di estrazione delle
sostanze lipidiche fanno uso di solventi, come l’esano o altri solventi organici analoghi, che però
devono essere evitati nella produzione di biodiesel su larga scala. La parte finale del processo è la
trans-esterificazione con metanolo degli acil-gliceroli in ambiente acido o basico:
TAG + 3 CH3OH → glicerolo + 3 RCOOCH3
Questa fase non presenta particolari difficoltà in quanto è un processo con basi industriali già
ampiamente collaudate e validate. I metilesteri costituiscono il biodiesel da mettere in commercio.
La composizione in acidi grassi dei TAG e dei fosfolipidi, per quanto riguarda la lunghezza della
catena carboniosa dell’acido grasso e il numero delle eventuali insaturazioni presenti, è variabile a
seconda dell’organismo utilizzato e delle condizioni di coltivazione. Il prodotto è quindi eterogeneo e
a composizione variabile e soggetto alla regolamentazione della legislazione dei carburanti. Il
processo deve essere quindi modulato in modo che il prodotto finale rientri nei parametri legislativi
affinché possa essere immesso sul mercato. Il glicerolo è un prodotto secondario molto importante,
soprattutto per la quantità paragonabile ai metilesteri, che può essere vantaggiosamente riciclato
come fonte di carbonio per altri processi microbici. In questi casi il glicerolo viene fosforilato e
ossidato a diidrossiacetone fosfato, con produzione di potere riducente, e indirizzato alla parte C3
della glicolisi. Alternativamente il glicerolo può essere ridotto, per scaricare potere riducente in
eccesso, a 1,3 propandiolo il quale viene secreto e non ulteriormente metabolizzato.
La scelta del tipo di bioreattore per la produzione di biodiesel da alghe si può orientare su sistemi
aperti (vasche) o sistemi chiusi (fotobioreattori). Ciascuna delle due alternative presenta
caratteristiche, vantaggi e svantaggi. Il sistema di coltivazione in vasca presenta un elevato rapporto
tra superficie e volume, con un grande vantaggio per la distribuzione della luce, ed è facilmente
rapportabile su larga scala. Inoltre è un sistema a bassa tecnologia con costi contenuti e bassi costi di
esercizio. D’altra parte la biomassa che si può ottenere è poca e le condizioni generali di processo
sono forzatamente variabili e poco controllabili. Ad esempio la temperatura non è costante a causa
del ciclo diurno/notturno di esposizione solare e dell’alternanza stagionale. La luce solare, fonte di
energia del processo, è anche variabile a causa della variabilità atmosferica che determina
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l’ombreggiamento. L’esposizione ambientale determina l’eventualità continua di contaminazione
delle vasche da organismi esogeni. Questo rischio si può ridurre, anche se non eliminare del tutto,
utilizzando condizioni colturali autoselettive, quali elevate concentrazioni saline, e alghe alofile come
microrganismi produttori. Inoltre il rifornimento e la distribuzione dei nutrienti e dell’anidride
carbonica può risultare problematico e non ottimale. La CO2, essendo gassosa, può anche portare
problemi di dispersione ambientale.
I fotobioreattori sono impianti di produzione chiusi che non presentano particolari problemi di
contaminazione ma hanno elevati costi di costruzione e di esercizio e, ovviamente, costi aggiuntivi
per la sterilizzazione dell’impianto. Il rifornimento dei nutrienti è facilmente ottimizzabile nel
fotobioreattore con conseguente elevata produzione e produttività di biomassa e di biodiesel. Un
aspetto critico del fotobioreattore è invece la distribuzione della luce alle cellule. Ciò comporta uno
studio particolare sulla geometria dell’impianto in modo da ottimizzare questo parametro, col
risultato di impianti con geometrie molto variabili: piastre, anelli o tubi, tutti realizzati in modo da
aumentare il rapporto superficie/volume e permettere a tutte le cellule di essere raggiunte dalla
luce.
La produzione di biodiesel si basa sulla fissazione della CO2 che rappresenta quindi il substrato
fondamentale del processo. Il costo e la fornitura su larga scala dell’anidride carbonica dipende
praticamente dalla disponibilità di poterla riciclare come prodotto di scarto di altre attività
produttive, in quanto la CO2 atmosferica non è sufficiente a garantire una produttività soddisfacente.
Un problema del riciclo della CO2 industriale è la possibile presenza di contaminanti tossici, come
anidridi e ossidi di zolfo o azoto, a seconda dell’origine del substrato. La somministrazione della CO2
all’impianto richiede energia e, come visto, l’uso di vasche comporta un problema di dispersione del
gas nell’ambiente con sottrazione di substrato al processo produttivo. Il terreno di coltura non
richiede particolari componenti nutrizionali in quanto le alghe che vengono impiegate sono
microrganismi autotrofi in grado di utilizzare componenti principali elementari (azoto, fosforo e
zolfo) e metalli largamente disponibili. Ad esempio, l’uso di acque di scarto e/o con fertilizzanti
azotati può essere un terreno completo e vantaggioso per il riciclo dei componenti da parte della
biomassa.
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Una parte importante del processo è quella finale (down stream) in quanto risulta particolarmente
dispendiosa anche dal punto di vista energetico e i metodi utilizzati correntemente su piccola scala
non sono convenienti se trasferiti su larga scala. Ad esempio la riduzione della quantità di biomassa
da lavorare per essiccamento e l’estrazione con solventi dei TAG dalla biomassa non sono
convenienti su larga scala. Sono invece convenienti il riciclo della biomassa umida residua dopo
l’estrazione dei TAG e del glicerolo dopo la esterificazione. La biomassa si può sia riciclare nello
stesso processo, come fonte di azoto e nutrienti da parte delle alghe in fase di produzione, sia in altri
processi, come fertilizzante o come fonte di nutrienti nella produzione di metano. Il glicerolo, come
già visto, può essere riciclato come fonte di carbonio dalle stesse alghe o da altri microrganismi.
Si può concludere che, nonostante le potenzialità e i miglioramenti di processo possibili, la
produzione di biodiesel da alghe non è ancora vantaggiosa con l’attuale tecnologia industriale
disponibile. Inoltre, per rendere il processo attraente e vantaggioso dal punto di vista energetico e
ambientale, bisogna svilupparlo anche dal punto di vista biologico e cioè dell’alga, lavorando
sull’ottimizzazione della crescita e sull’aumento del contenuto in TAG. Questi obiettivi mirano da una
parte all’incremento della quantità di biomassa prodotta e della resa in biomassa e dall’altra alla
riduzione della necessità di nutrienti per l’ottenimento del prodotto e alla riduzione della biomassa
residua alla fine del processo. L’aumento di produzione della biomassa si ottiene ottimizzando la
crescita del microrganismo e quindi puntando alla massima resa del processo. Il raggiungimento di
questo obiettivo ha un effetto positivo diretto sul bilancio energetico del processo (LCA) così come
descritto all’inizio in quanto contribuisce alla riduzione dell’energia in entrata e/o l’aumento di quella
in uscita come biomassa. Essendo il processo fotosintetico, non si può prescindere da considerazioni
sull’uso dell’energia luminosa da parte dei microrganismi per la produzione di biomassa. La prima
osservazione in proposito è che non tutta la luce solare incidente è utilizzata dai microrganismi: solo
il 48% della luce solare è attiva dal punto di vista della fotosintesi (PAR: Photosynthetic Activ
Radiation). Di questa porzione di luce attiva, 8 fotoni vengono utilizzati per ogni molecola di CO2
fissata, corrispondenti ad una resa fotosintetica del 12%. Considerando che una parte dell’energia
utilizzata per fissare la CO2 viene restituita con la respirazione (circa il 3%), ne risulta una resa teorica
massima di biomassa del 9% dell’energia luminosa. Nella pratica, sia in bioreattore che in vasca, le
massime rese in biomassa sono del 5-7% in condizioni ottimali di luce che, come vedremo,
corrispondono a luce di bassa o media intensità. Questi valori si traducono in 30-40 gr/m2 per giorno
di biomassa in colture in vasca (peso secco).
Per ottimizzare l’uso della luce da parte dei microrganismi in coltura si possono seguire due strade.
La prima è quella di intervenire sulla distribuzione della luce nel bioreattore, costruendo bioreattori
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di forma tale da aumentare il rapporto area illuminata/volume e introdurre sistemi di miscelazione
forzata delle cellule allo scopo di massimizzare l’esposizione delle cellule alla fonte luminosa. Le
geometrie studiate sono molteplici ma i costi di costruzione e l’energia spesa per la miscelazione
possono incidere eccessivamente sul bilancio del processo.
La seconda strada è quella della manipolazione della cattura della luce da parte del microrganismo e
della conversione della luce in biomassa. A questo proposito è immediato chiedersi quanta luce serva
alle cellule per la fotosintesi e come risponda l’apparato fotosintetico al dosaggio della luce. Solo una
parte della luce incidente viene catturata ed utilizzata in reazioni biochimiche per la produzione della
biomassa e per la respirazione (luce utile). Il resto della luce, la luce in eccesso, viene invece dispersa
in calore o in fluorescenza. La luce dispersa non è più utilizzabile nelle reazioni biosintetiche. Ciò
costituisce un indubbio vantaggio evolutivo per gli organismi che competono per la luce (una fonte di
energia) ma riduce anche drasticamente la penetrazione della luce utilizzabile nel mezzo di coltura
riducendo di conseguenza le capacità produttive delle cellule degli strati sottostanti. Si potrebbe
pensare di compensare questa caduta di energia disponibile aumentando la quantità di luce
incidente (intensità o energia luminosa). Di fatto questa azione risulta controproducente in quanto le
massime rese di conversione della luce in biomassa si osservano a basse intensità luminose mentre
ad alte intensità l’efficienza della conversione si riduce e si osserva anche fotoinibizione delle reazioni
fotosintetiche e danni al sistema di fotoricezione.
L’assorbimento della luce ed il trasferimento dei fotoni al centro di reazione è mediato da strutture
chiamate antenne, costituite da proteine (ficobiline) legate tramite un residuo SH a gruppi prostetici
cromofori quali ficoeritrina, ficocianina, alloficocianina e clorofilla. I cromofori assorbono il fotone e
lo restituiscono al cromoforo adiacente dello stesso tipo o di tipo differente, ma con energia di
attivazione più bassa (lunghezza d’onda maggiore), indirizzando progressivamente il fotone verso in
centro di reazione dove alla fine la clorofilla attivata trasferisce l’elettrone all’accettore, riducendolo,
e viene successivamente ridotta dal donatore di elettroni, che a sua volta si ossida. L’antenna è
all’esterno della membrana plasmatica ed è strutturata in modo tale che le proteine con i cromofori a
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più alta energia siano all’esterno dell’antenna e quelli a più bassa energia all’interno, verso il centro
di reazione, che è un complesso interno alla membrana plasmatica.
È interessante notare come la dimensione dell’antenna, intesa come numero di elementi, sia
inversamente proporzionale alla quantità di luce incidente e come la variazione di dimensione sia
reversibile con la variazione della luce. Una possibilità di aumentare le rese di conversione della luce
in biomassa è quella di ridurre le dimensioni dell’antenna in modo da ridurre la dispersione
dell’energia ed aumentare la penetrazione della luce.
La riduzione dell’antenna si può ottenere aumentando l’energia luminosa ma, come già detto,
l’elevata energia luminose causa bassa efficienza e fotoinibizione. Inoltre è un evento reversibile se si
passasse a basse energie per aumentare l’efficienza. La riduzione dell’antenna si può ottenere
riducendo la disponibilità dei nutrienti: in questo caso si potrebbe ottenere sia una riduzione del
contenuto in clorofilla e, come vedremo, anche un aumento del contenuto in TAG. Alternativamente,
si possono utilizzare o generare mutanti regolativi o strutturali della biosintesi dei componenti
dell’antenna che abbiano antenne difettose caratterizzate da elevate efficienze di conversione della
luce in biomassa anche ad elevate intensità luminose. Questo genere di mutanti sono stati studiati e
testati in laboratorio ma hanno mostrato problemi di ridotta fitness e competitività in vasca e quindi
di ridotta produttività globale. Infine la cattura e l’utilizzazione della luce può essere ottimizzata con
l’uso di colture miste di microrganismi che utilizzino lunghezze d’onda differenti in modo da ridurre la
percentuale di luce non utilizzata rispetto alla luce incidente.
Un’altra via di miglioramento del processo di produzione di biodiesel da microrganismi è quella che
persegue l’aumento del contenuto in TAG. La produttività del processo dipende sia dalla quantità di
biomassa ma anche dal contenuto percentuale in lipidi della singola cellula. In generale si può
affermare che la produttività in biomassa e il contenuto medio in lipidi delle cellule che costituiscono
la biomassa sono inversamente proporzionali. Ciò significa che in condizioni nutrizionali ottimali il
contenuto lipidico è più basso che in condizioni di carenza nutrizionale. Dato che i TAG sono nutrienti
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di riserva per la cellula, la risposta fisiologica alla carenza nutrizionale è l’accumulo, quando possibile,
di materiale di riserva.
La carenza nutrizionale in azoto e fosforo sono particolarmente adatte all’accumulo di TAG in quanto
un interferiscono con la fonte di carbonio. Quindi l’impoverimento del terreno di azoto e fosforo
induce condizioni di stress e riduzione della crescita con concomitante stoccaggio del carbonio sotto
forma di sostanze di riserva come i TAG. Alla base di questo fenomeno abbiamo la riduzione della
sintesi proteica cui fa seguito una riduzione della biomassa e un eccesso di fonte di carbonio. Si
possono seguire due strade per aumentare il contenuto in TAG: la prima è la manipolazione del
terreno e la seconda è la manipolazione dell’organismo. Per quanto riguarda il terreno, si può optare
per una riduzione del contenuto di azoto in presenza di CO2 favorendo la crescita autotrofica, oppure
si può stimolare la crescita eterotrofica con una fonte di carbonio aggiuntiva, ad esempio il glucosio,
in un terreno normale (CO2 e azoto) in modo da aumentare il rapporto C/N. Alternativamente si può
effettuare un processo bifasico in cui si abbia la produzione di biomassa con un terreno con rapporto
C/N ottimale nella prima fase seguito da una seconda fase in terreno con elevato rapporto C/N, in
modo da favorire l’accumulo di TAG. La manipolazione dell’organismo è più complessa. Il primo
punto è la scelta dell’organismo da utilizzare per la produzione, che deve naturalmente possedere le
vie biosintetiche dei TAG, ormai caratterizzate con un certo dettaglio. Le tecniche moderne di
sequenziamento dei genomi e la proteomica sono di aiuto in questa scelta in quanto consentono di
individuare esattamente l’organismo con la capacità metabolica di sintetizzare i TAG sulla base della
presenza dei geni biosintetici strutturali e degli enzimi corrispondenti. Una volta individuato
l’organismo, la conoscenza dettagliata del metabolismo del carbonio consente di studiare degli
interventi volti a migliorare la produzione dei TAG. Una possibilità è quella di indirizzare il flusso
metabolico del carbonio di riserva verso i TAG impedendo l’accumulo di composti di riserva
alternativi, ad esempio i carboidrati (oligosaccaridici e polisaccaridici), tramite l’uso di mutanti di
dette vie alternative. Una seconda possibilità è lo studio della biogenesi delle particelle oleaginose ed
i fattori in essa coinvolti. In particolare sono rilevanti gli effetti regolativi dipendenti da azoto e
fosforo sull’attività degli enzimi biosintetici e sull’espressione dei corrispondenti geni strutturali. Un
aiuto importante su questo argomento può derivare dallo studio dei cosiddetti microrganismi
modello E. coli, S. cerevisiae e varie piante. Per questi organismi sono a disposizione numerosi
strumenti di lavoro che facilitano notevolmente lo studio di vari aspetti della biosintesi TAG: studio
delle regolazioni enzimatiche, studio dei colli di bottiglia, studio delle compartimentazioni della
biosintesi. Una volta approfondite le conoscenze sugli argomenti selezionati è possibile il
trasferimento conoscenze alle alghe per tentare miglioramenti della produzione.
In conclusione si può affermare che la produzione di biodiesel da alghe fotosintetiche è un sistema
ancora marginale per la produzione di biocarburanti con le attuali possibilità tecnologiche e
ingegneristiche e si prospettano una serie di necessità di implementazione del processo: la
determinazione di bilanci accurati (LCA) di energia e dell’impatto ambientale per verificare la reale
sostenibilità del processo, la realizzazione di impianti pilota, la selezione e la costruzione di ceppi
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produttori ottimali e/o ottimizzati, l’opportunità di integrare gli aspetti biologici e ingegneristici del
processo. Infine un grosso impulso sarebbe dato dalla possibilità di affiancare, nello stesso processo,
la produzione di sostanze ad elevato valore aggiunto (esempio nutraceutici) al biodiesel, di per sé a
basso valore aggiunto.