Post on 06-Mar-2016
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Pif nasce a Milano nel 2001 però è untrentacinquenne di Palermo.Lo conosciamo per le botte che ha preso daicinesi ma non sappiamo che ha pulito i cessiin un ostello di Londra. Ci piacciono le sueinterviste interrotte ma non lo ricordiamonei panni di “Lupetto cittadino perfetto”.Perché prima della Iena Pif c’era soloPierfrancesco Diliberto, un ragazzo chesognava di diventare regista a Palermo e cheha rischiato di fare l’assicuratore a Frosinone.Mentre dorme, (a mezzogiorno!) arriva unatelefonata… che gli cambia la vita.Piffettopoli è il racconto di tante occasioniinseguite, di scelte cruciali e di incontriimportanti, come quello con Zeffirelli.E poi il rovescio delle medaglia e la fatica diun quasi V.I.P., come le strette di mano dichi, per strada, avvicina Pif perché lo hariconosciuto… forse!E la vita mondana?In discoteca gli offrono cocaina ma luicontinua a preferire l’aranciata.Gossip?Pif è stato un top model, un fidanzato dellaCanalis, un leghista orgoglioso e uncoraggioso accusatore di Andreotti.Non ci credete?
Foto in copertina e retro:© 2007 Giuseppe Castrovinci
Pierfrancesco Diliberto
LE FATICHE DI UN QUASI VIPzero91
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PIFFETTOPO
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V.I.P.
Pierfrancesco Diliberto è nato a Palermo nel1972, vive e lavora tra Milano e Roma.Dopo aver lavorato come runner ed assistentea film come “Un tè con Mussolini” di FrancoZeffirelli e “I Centopassi” di Marco TullioGiordana, è diventato autore e volto delleIene su Italia 1 e di altri programmi per SKY.Piffettopoli. Le fatiche di un quasi V.I.P. è ilsuo libro d’esordio.
www.zero91.com€10,00
PIFfettopol i
Sinceramente, non credo di essere mai stato iltipo adatto per una ragazza immagine.Molto banalmente non bevo, non fumo, non houn’auto di grossa cilindrata, (anzi non l’ho pro-prio l’auto), non mi vesto alla moda, non curo ilmio look, ho la forfora e quasi me ne vanto.Insomma, piccoli dettagli che una ragazzaimmagine sa cogliere.Soprattutto la forfora.
Copertina PIF:Layout 1 27-09-2007 12:35 Pagina 1
Introduzione
Io amo la Televisione.
Ho passato l’infanzia con Lei ed è stato bellissimo. Forse
erano altri tempi, ma sono stato bene. Sono cresciuto con i
robot dei cartoni animati giapponesi ma, fortunatamente,
non ho mai pensato di gettarmi dal balcone per volare e
agganciare i componenti, né di uccidere qualche mio com-
pagnetto per questioni d’onore o vendetta.
L’unica influenza negativa che ho avuto me la ricordo
bene perché sono stato per mezz’ora a pochi centimetri
dallo schermo, per capire cosa ci fosse esattamente tra uno
stacco d’inquadratura ed un altro.
E un’altra volta, intimidito, ho girato per un’oretta tutta
la stanza, alla ricerca di un posticino in cui la signorina
degli annunci non potesse vedermi.
In casa ero il più piccolo e quindi, in assenza dell’attua-
le tecnologia, venivo utilizzato - soprattutto da mia sorella
- come telecomando umano. Per fortuna, allora, c’erano
solo pochi canali e lo zapping ancora non esisteva.
Poi, finalmente, è arrivato Lui, il televisore a colori: un
Autovox, con un telecomando stretto e lungo e i bottoni
arancioni accanto allo schermo. Mi ricordo che il tecnico
memorizzò la frequenza di Italia Uno - che non si chiama-
va ancora così - sul tasto sette. Sarebbe rimasta su quel
7
Piffettopoli
PIERFRANCESCO DILIBERTO
PIFFETTOPOLI
LE FATICHE DI UN QUASI V.I.P.
zero91
© 2007 Pierfrancesco Diliberto© 2007 zero91 s.r.l., Milano
Printed in Italy
I Edizione Settembre 2007
ISBN 978-88-95381-01-5
www.zero91.com
PIERFRANCESCO DILIBERTO
PIFFETTOPOLI
LE FATICHE DI UN QUASI V.I.P.
zero91
© 2007 Pierfrancesco Diliberto© 2007 zero91 s.r.l., Milano
Printed in Italy
I Edizione Settembre 2007
ISBN 978-88-95381-01-5
www.zero91.com
Voglio dedicare questo libro
al mio televisore Autovox.
Se non avessi avuto Lui,
a quest’ora (forse)
farei l’assicuratore.
Voglio dedicare questo libro
al mio televisore Autovox.
Se non avessi avuto Lui,
a quest’ora (forse)
farei l’assicuratore.
Introduzione
Io amo la Televisione.
Ho passato l’infanzia con Lei ed è stato bellissimo. Forse
erano altri tempi, ma sono stato bene. Sono cresciuto con i
robot dei cartoni animati giapponesi ma, fortunatamente,
non ho mai pensato di gettarmi dal balcone per volare e
agganciare i componenti, né di uccidere qualche mio com-
pagnetto per questioni d’onore o vendetta.
L’unica influenza negativa che ho avuto me la ricordo
bene perché sono stato per mezz’ora a pochi centimetri
dallo schermo, per capire cosa ci fosse esattamente tra uno
stacco d’inquadratura ed un altro.
E un’altra volta, intimidito, ho girato per un’oretta tutta
la stanza, alla ricerca di un posticino in cui la signorina
degli annunci non potesse vedermi.
In casa ero il più piccolo e quindi, in assenza dell’attua-
le tecnologia, venivo utilizzato - soprattutto da mia sorella
- come telecomando umano. Per fortuna, allora, c’erano
solo pochi canali e lo zapping ancora non esisteva.
Poi, finalmente, è arrivato Lui, il televisore a colori: un
Autovox, con un telecomando stretto e lungo e i bottoni
arancioni accanto allo schermo. Mi ricordo che il tecnico
memorizzò la frequenza di Italia Uno - che non si chiama-
va ancora così - sul tasto sette. Sarebbe rimasta su quel
7
Piffettopoli
Introduzione
Io amo la Televisione.
Ho passato l’infanzia con Lei ed è stato bellissimo. Forse
erano altri tempi, ma sono stato bene. Sono cresciuto con i
robot dei cartoni animati giapponesi ma, fortunatamente,
non ho mai pensato di gettarmi dal balcone per volare e
agganciare i componenti, né di uccidere qualche mio com-
pagnetto per questioni d’onore o vendetta.
L’unica influenza negativa che ho avuto me la ricordo
bene perché sono stato per mezz’ora a pochi centimetri
dallo schermo, per capire cosa ci fosse esattamente tra uno
stacco d’inquadratura ed un altro.
E un’altra volta, intimidito, ho girato per un’oretta tutta
la stanza, alla ricerca di un posticino in cui la signorina
degli annunci non potesse vedermi.
In casa ero il più piccolo e quindi, in assenza dell’attua-
le tecnologia, venivo utilizzato - soprattutto da mia sorella
- come telecomando umano. Per fortuna, allora, c’erano
solo pochi canali e lo zapping ancora non esisteva.
Poi, finalmente, è arrivato Lui, il televisore a colori: un
Autovox, con un telecomando stretto e lungo e i bottoni
arancioni accanto allo schermo. Mi ricordo che il tecnico
memorizzò la frequenza di Italia Uno - che non si chiama-
va ancora così - sul tasto sette. Sarebbe rimasta su quel
7
Piffettopoli
tasto anche dopo, su qualunque telecomando di qualunque
televisore che ho posseduto.
Allora non lo sapevo, ma con il mio Autovox avrei con-
diviso momenti importanti della mia vita. Fino a tutta
l’adolescenza. Con Lui ho passato interi pomeriggi, serate
e nottate, mangiando il peggio che le industrie alimentari
mettevano in commercio. Con Lui ho visto passare miglia-
ia di programmi televisivi e di conduttori. Lui mi ha fatto
vivere bellissime emozioni: una su tutte - banale ma vero -
quella legata all’Italia dei Mondiali! Quelli del 1982 e, poi,
quelli del 1994, quando il mio Autovox era praticamente
alla fine dei suoi giorni: si era rotta una scheda e trasmette-
va solo in bianco e nero. Guardavo la finale Italia - Brasile
e mi sembrava di assistere alla finale dei mondiali del 1970,
in Messico, dove l’Italia perse 4 a 1, sempre contro il
Brasile. Adesso l’Autovox non funziona più, ma ho vietato
a mia madre di gettarlo via. Riposa nella mia stanza. E se lo
merita.
8
Pierfrancesco Diliberto
tasto anche dopo, su qualunque telecomando di qualunque
televisore che ho posseduto.
Allora non lo sapevo, ma con il mio Autovox avrei con-
diviso momenti importanti della mia vita. Fino a tutta
l’adolescenza. Con Lui ho passato interi pomeriggi, serate
e nottate, mangiando il peggio che le industrie alimentari
mettevano in commercio. Con Lui ho visto passare miglia-
ia di programmi televisivi e di conduttori. Lui mi ha fatto
vivere bellissime emozioni: una su tutte - banale ma vero -
quella legata all’Italia dei Mondiali! Quelli del 1982 e, poi,
quelli del 1994, quando il mio Autovox era praticamente
alla fine dei suoi giorni: si era rotta una scheda e trasmette-
va solo in bianco e nero. Guardavo la finale Italia - Brasile
e mi sembrava di assistere alla finale dei mondiali del 1970,
in Messico, dove l’Italia perse 4 a 1, sempre contro il
Brasile. Adesso l’Autovox non funziona più, ma ho vietato
a mia madre di gettarlo via. Riposa nella mia stanza. E se lo
merita.
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Pierfrancesco Diliberto
Una volta uscendo da un bar, dopo aver parlato per
mezz’ora, il barista mi ha salutato dicendomi: “Allora ci
vediamo Spriz!”. E ogni volta che passavo davanti, lui usci-
va dal locale e gridava: “Ehi, ho visto il servizio di ieri... sei
un grande Spriz!”.
Non ho mai avuto il coraggio di dirgli che non mi chia-
mo Spriz!
E questo a Pierferdy non succede.
Sono convinto, però, che alla fine siamo sempre noi a
dare un’identità al nome che portiamo e non il contrario.
Pensate a quanta gente si chiama allo stesso modo e a
quanto, queste persone, siano tra loro diverse. Conosco
almeno cinque Francesco, tre Antonio, un numero impre-
cisabile di Giuseppe e ancora Maria, Claudia, Federica.
Eppure, tra tanti omonimi, non trovo mai nessun punto
in comune.
Io sono un figlio degli anni ’70.
Sono nato in quel decennio. Ho maturato il mio senso di
giustizia guardando Goldrake e Zorro, giocare a “Space
Invaders” era una goduria e, in spiaggia, non c’erano anco-
ra i racchettoni.
C’erano i tamburelli però, con le palline da tennis.
In quel tempo, (detto così sembra biblico!) le bambine
si chiamavano quasi tutte Valentina e Francesca. Dal ‘75 in
poi c’è stato il momento di Federica e Chiara. Ovviamente
l’inossidabile Francesco ha battezzato tanti miei coetanei
11
Piffettopoli
L’importanza di chiamarsi Pif
Mi chiamo Pierfrancesco Diliberto.
Dal gennaio del 2001 lavoro allo show televisivo Le
Iene, un programma cult, ironico e irriverente (definizione
dei rotocalchi tipo “Verissimo”), di Italia Uno.
E proprio dal 2001, tutti mi chiamano Pif.
Ha cominciato Marco Berry, altra Iena cult, ironica e
irriverente, mentre prendevamo un pullman cult, ironico e
irriverente da Milano direzione Casablanca. Stavamo giran-
do uno dei miei primi servizi come autore.
Comunque sarete d’accordo anche voi: Pierfrancesco è
un bel nome ma bisogna avere molto carisma per riuscire a
farsi chiamare così per tutta la vita.
Invece, sin da quando ero piccolo, la gente non ha mai
imparato a chiamarmi “per esteso”.
C’era chi divideva il Pier da Francesco e il Di da Liberto
o chi, soffermandosi solo sul nome, teneva il Pier sacrifi-
cando il resto o aggiungendo una variabile: Pier
Ferdinando, Pier Luigi, Gian Piero, Piergiorgio.
Senza considerare le riduzioni con la “Y”.
Se Casini era diventato Pierferdy, io avrei potuto rime-
diare un Pierfrancy.
Pensavo che con Pif avrei risolto il problema.
E invece no! Pif diventa Bic, Cif, Gip, Paf, Beef...
10
Pierfrancesco Diliberto
Una volta uscendo da un bar, dopo aver parlato per
mezz’ora, il barista mi ha salutato dicendomi: “Allora ci
vediamo Spriz!”. E ogni volta che passavo davanti, lui usci-
va dal locale e gridava: “Ehi, ho visto il servizio di ieri... sei
un grande Spriz!”.
Non ho mai avuto il coraggio di dirgli che non mi chia-
mo Spriz!
E questo a Pierferdy non succede.
Sono convinto, però, che alla fine siamo sempre noi a
dare un’identità al nome che portiamo e non il contrario.
Pensate a quanta gente si chiama allo stesso modo e a
quanto, queste persone, siano tra loro diverse. Conosco
almeno cinque Francesco, tre Antonio, un numero impre-
cisabile di Giuseppe e ancora Maria, Claudia, Federica.
Eppure, tra tanti omonimi, non trovo mai nessun punto
in comune.
Io sono un figlio degli anni ’70.
Sono nato in quel decennio. Ho maturato il mio senso di
giustizia guardando Goldrake e Zorro, giocare a “Space
Invaders” era una goduria e, in spiaggia, non c’erano anco-
ra i racchettoni.
C’erano i tamburelli però, con le palline da tennis.
In quel tempo, (detto così sembra biblico!) le bambine
si chiamavano quasi tutte Valentina e Francesca. Dal ‘75 in
poi c’è stato il momento di Federica e Chiara. Ovviamente
l’inossidabile Francesco ha battezzato tanti miei coetanei
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Piffettopoli
L’importanza di chiamarsi Pif
Mi chiamo Pierfrancesco Diliberto.
Dal gennaio del 2001 lavoro allo show televisivo Le
Iene, un programma cult, ironico e irriverente (definizione
dei rotocalchi tipo “Verissimo”), di Italia Uno.
E proprio dal 2001, tutti mi chiamano Pif.
Ha cominciato Marco Berry, altra Iena cult, ironica e
irriverente, mentre prendevamo un pullman cult, ironico e
irriverente da Milano direzione Casablanca. Stavamo giran-
do uno dei miei primi servizi come autore.
Comunque sarete d’accordo anche voi: Pierfrancesco è
un bel nome ma bisogna avere molto carisma per riuscire a
farsi chiamare così per tutta la vita.
Invece, sin da quando ero piccolo, la gente non ha mai
imparato a chiamarmi “per esteso”.
C’era chi divideva il Pier da Francesco e il Di da Liberto
o chi, soffermandosi solo sul nome, teneva il Pier sacrifi-
cando il resto o aggiungendo una variabile: Pier
Ferdinando, Pier Luigi, Gian Piero, Piergiorgio.
Senza considerare le riduzioni con la “Y”.
Se Casini era diventato Pierferdy, io avrei potuto rime-
diare un Pierfrancy.
Pensavo che con Pif avrei risolto il problema.
E invece no! Pif diventa Bic, Cif, Gip, Paf, Beef...
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Pierfrancesco Diliberto
(io stesso sono una sua declinazione) che, insieme a
Giuseppe e a tutta la compagnia degli apostoli (Pietro in
testa, e anche il mio Pier viene da lì), ha segnato tutta una
generazione di trentacinque/quarantenni che oggi si chia-
mano tra loro ancora “ragazzi” ma che, a volte, non si ras-
segnano alla calvizie e ai peli bianchi.
Forse non si rassegnano neanche all’idea che, alla loro
età, i genitori già li tenevano in braccio, mentre molti di noi
- si, noi, è inutile che mi tenga fuori dal coro - girovaghia-
mo distratti in cerca della persona giusta da cui pretendere
tanto senza dare niente in cambio.
Per me la tv, che ha trasformato Pierfrancesco in Pif, è
stata un’opportunità. A volte, però, quello che vedo in tele-
visione scandalizza anche me. La volgarità a buon mercato,
l’approssimazione, l’intrusione, a gamba tesa, nella vita pri-
vata della gente, con la golosità dei dettagli più scabrosi e
con l’invidia di chi giudica i peccati perché non li commet-
te ma gli piacerebbe farlo.
Quella scatola luminosa, dunque, insieme a tutto que-
sto, contiene anche me. E ora vi racconto come ci sono
entrato.
12
Pierfrancesco Diliberto
(io stesso sono una sua declinazione) che, insieme a
Giuseppe e a tutta la compagnia degli apostoli (Pietro in
testa, e anche il mio Pier viene da lì), ha segnato tutta una
generazione di trentacinque/quarantenni che oggi si chia-
mano tra loro ancora “ragazzi” ma che, a volte, non si ras-
segnano alla calvizie e ai peli bianchi.
Forse non si rassegnano neanche all’idea che, alla loro
età, i genitori già li tenevano in braccio, mentre molti di noi
- si, noi, è inutile che mi tenga fuori dal coro - girovaghia-
mo distratti in cerca della persona giusta da cui pretendere
tanto senza dare niente in cambio.
Per me la tv, che ha trasformato Pierfrancesco in Pif, è
stata un’opportunità. A volte, però, quello che vedo in tele-
visione scandalizza anche me. La volgarità a buon mercato,
l’approssimazione, l’intrusione, a gamba tesa, nella vita pri-
vata della gente, con la golosità dei dettagli più scabrosi e
con l’invidia di chi giudica i peccati perché non li commet-
te ma gli piacerebbe farlo.
Quella scatola luminosa, dunque, insieme a tutto que-
sto, contiene anche me. E ora vi racconto come ci sono
entrato.
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Pierfrancesco Diliberto
- Perché non vieni per un po’ da me ad aiutarmi in agen-
zia?
Ero rimasto senza parole. Perché mia zia avendo biso-
gno d’aiuto chiamava me che stavo a Palermo e non sape-
vo niente di assicurazioni? Però avrei potuto guadagnare
dei soldi, perché no!
- Magari potrei venire questa estate!
- Beh, sai, potresti rimanere anche d’inverno...
“Sipario” era alla sigla finale. E in qualche modo rispec-
chiava la situazione della mia vita di artista. O presunta
tale.
La schiena incominciava a sudare freddo. Il divano non
riscaldava più ma era sempre maledettamente scomodo.
Avrei potuto bendarmi e rassegnarmi a quell’esecuzione.
I fucili erano già puntati sul mio “nulla da fare”, il plo-
tone era pronto a fare fuoco sul mio presente ed il mio pas-
sato.
Zia Gabriella mi stava offrendo un futuro, mi stava indi-
cando una strada. E se l’avessi imboccata, quella strada,
sarei diventato un assicuratore, avrei vissuto a Frosinone,
avrei parlato di bonus malus per il resto della mia vita.
Per carità, non c’è nulla di male per uno che vuole fare
l’assicuratore, ma qualcosa di male c’è se vuoi fare il regi-
sta. Chissà, forse sarei diventato quello che si dice “un
buon partito”.
Avrei scorrazzato per le vie della città con una spider
15
Piffettopoli
Sliding doors
Era un giorno di luglio del 1999. Avevo 27 anni.
Ero sdraiato su un divano di velluto verde, un divano
non pregiatissimo, scomodo per sdraiarsi soprattutto in
estate perché ti fa sudare la schiena.
Quel divano c’è ancora e - credetemi - non lo cambierei
per nulla al mondo. Mi ha visto crescere insieme
all’Autovox.
Era pomeriggio e stavo guardando Retequattro. Forse
“Sipario”, la rubrica in coda al Tg di Emilio Fede. Il gior-
no prima non avevo fatto nulla, quel giorno non avevo fatto
nulla, il giorno dopo non avrei fatto nulla.
Così, per non spezzare il ritmo...
Ad un certo punto, ho visto il cellulare illuminarsi e
squillare e ho guardato chi mi stava chiamando: 0775... .
“Che prefisso è? Ah, Frosinone!”
Ho dei parenti a Frosinone. I miei zii sono titolari di
un’agenzia della Sara Assicurazioni.
Perché stavano chiamando proprio me? Tanto valeva
rispondere:
- Ciao zia Gabriella, come va?
Dissi senza ancora capire cosa stava succedendo.
- Fai qualcosa in questo periodo?
- Niente di particolare zia.
14
Pierfrancesco Diliberto
- Perché non vieni per un po’ da me ad aiutarmi in agen-
zia?
Ero rimasto senza parole. Perché mia zia avendo biso-
gno d’aiuto chiamava me che stavo a Palermo e non sape-
vo niente di assicurazioni? Però avrei potuto guadagnare
dei soldi, perché no!
- Magari potrei venire questa estate!
- Beh, sai, potresti rimanere anche d’inverno...
“Sipario” era alla sigla finale. E in qualche modo rispec-
chiava la situazione della mia vita di artista. O presunta
tale.
La schiena incominciava a sudare freddo. Il divano non
riscaldava più ma era sempre maledettamente scomodo.
Avrei potuto bendarmi e rassegnarmi a quell’esecuzione.
I fucili erano già puntati sul mio “nulla da fare”, il plo-
tone era pronto a fare fuoco sul mio presente ed il mio pas-
sato.
Zia Gabriella mi stava offrendo un futuro, mi stava indi-
cando una strada. E se l’avessi imboccata, quella strada,
sarei diventato un assicuratore, avrei vissuto a Frosinone,
avrei parlato di bonus malus per il resto della mia vita.
Per carità, non c’è nulla di male per uno che vuole fare
l’assicuratore, ma qualcosa di male c’è se vuoi fare il regi-
sta. Chissà, forse sarei diventato quello che si dice “un
buon partito”.
Avrei scorrazzato per le vie della città con una spider
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Piffettopoli
Sliding doors
Era un giorno di luglio del 1999. Avevo 27 anni.
Ero sdraiato su un divano di velluto verde, un divano
non pregiatissimo, scomodo per sdraiarsi soprattutto in
estate perché ti fa sudare la schiena.
Quel divano c’è ancora e - credetemi - non lo cambierei
per nulla al mondo. Mi ha visto crescere insieme
all’Autovox.
Era pomeriggio e stavo guardando Retequattro. Forse
“Sipario”, la rubrica in coda al Tg di Emilio Fede. Il gior-
no prima non avevo fatto nulla, quel giorno non avevo fatto
nulla, il giorno dopo non avrei fatto nulla.
Così, per non spezzare il ritmo...
Ad un certo punto, ho visto il cellulare illuminarsi e
squillare e ho guardato chi mi stava chiamando: 0775... .
“Che prefisso è? Ah, Frosinone!”
Ho dei parenti a Frosinone. I miei zii sono titolari di
un’agenzia della Sara Assicurazioni.
Perché stavano chiamando proprio me? Tanto valeva
rispondere:
- Ciao zia Gabriella, come va?
Dissi senza ancora capire cosa stava succedendo.
- Fai qualcosa in questo periodo?
- Niente di particolare zia.
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Pierfrancesco Diliberto
1716
Pierfrancesco Diliberto Piffettopoli
non sono mai stato un ragazzo viziato, non ho mai goduto
troppo del superfluo e non ho mai dato niente per sconta-
to o dovuto.
Sapevo e so ancora adesso come vanno le cose in Italia.
Ma effettivamente stava piombando, anche nella mia
vita, il quesito che si fa ogni giovane artista: “E se mi offro-
no il posto fisso che faccio?”
Chiesi in giro consigli, come si fa quando già, intima-
mente, si conosce la risposta.
Il padre di una mia amica mi disse che - all’inizio- non
mi sarebbe piaciuto, ma che - con il tempo - mi sarei sicu-
ramente abituato.
Magari la presenza di un’impiegata graziosa avrebbe
reso la giornata più piacevole. Magari.
Per la noia, comunque, non mi sarei fidanzato.
Avrei visto il sesso femminile - le donne di Frosinone -
come uno stimolo in più per andare avanti nella vita.
Ancora adesso, qualche volta, mi capita di andare a trova-
re zia Gabriella in agenzia. La prima cosa che faccio è cer-
care tra i volti quello dell’impiegata che - magari - mi avreb-
be potuto rendere felice.
Magari.
La realtà era che il mondo delle assicurazioni non mi
avrebbe avuto. Mai.
Pensai a quel Pierfrancesco sedicenne, un ragazzino che
passava i suoi sabati pomeriggio alla centralina di montag-
(assicurata Sara) e la gente avrebbe detto: “Chi è quello?
Ah, si Diliberto delle Assicurazioni! Eh... voleva fare il
regista... se non fosse stato per sua zia. Lo ha salvato, quel
ragazzo!”.
Sarei andato spesso a Roma a “divertirmi”. Sarei stato
l’assicuratore simpatico, un po’ dinoccolato, che fa sempre
le battute quando deve venderti una polizza per la pensio-
ne integrativa.
Questo è quello che mi sarebbe successo se avessi accet-
tato, o almeno quello che pensavo potesse capitarmi.
A ventisette anni, quella telefonata inattesa doveva farmi
capire che era arrivato il momento di dare un senso e un
peso alle giornate.
Ma un senso che non avevo deciso io e un peso che non
potevo calibrare bene.
Non ho mai pensato che quella dell’assicuratore potesse
essere un’occupazione momentanea. Con il tempo, tutto si
sarebbe complicato. Con quale coraggio avrei potuto
lasciare uno stipendio sicuro? Con quali alternative poi?
Non avrei avuto il tempo per fare null’altro. Solo l’assicu-
ratore. Non tiro fuori la storia dell’importanza di un posto
di lavoro, soprattutto per un ragazzo del sud. Sarei un ipo-
crita perché, lo confesso, fino ad allora non ci avevo mai
pensato.
Avevo sempre vissuto alla giornata cercando e sognando
solo la mia felicità (neanche fossi stato Lapo Elkan). Però,
1716
Pierfrancesco Diliberto Piffettopoli
non sono mai stato un ragazzo viziato, non ho mai goduto
troppo del superfluo e non ho mai dato niente per sconta-
to o dovuto.
Sapevo e so ancora adesso come vanno le cose in Italia.
Ma effettivamente stava piombando, anche nella mia
vita, il quesito che si fa ogni giovane artista: “E se mi offro-
no il posto fisso che faccio?”
Chiesi in giro consigli, come si fa quando già, intima-
mente, si conosce la risposta.
Il padre di una mia amica mi disse che - all’inizio- non
mi sarebbe piaciuto, ma che - con il tempo - mi sarei sicu-
ramente abituato.
Magari la presenza di un’impiegata graziosa avrebbe
reso la giornata più piacevole. Magari.
Per la noia, comunque, non mi sarei fidanzato.
Avrei visto il sesso femminile - le donne di Frosinone -
come uno stimolo in più per andare avanti nella vita.
Ancora adesso, qualche volta, mi capita di andare a trova-
re zia Gabriella in agenzia. La prima cosa che faccio è cer-
care tra i volti quello dell’impiegata che - magari - mi avreb-
be potuto rendere felice.
Magari.
La realtà era che il mondo delle assicurazioni non mi
avrebbe avuto. Mai.
Pensai a quel Pierfrancesco sedicenne, un ragazzino che
passava i suoi sabati pomeriggio alla centralina di montag-
(assicurata Sara) e la gente avrebbe detto: “Chi è quello?
Ah, si Diliberto delle Assicurazioni! Eh... voleva fare il
regista... se non fosse stato per sua zia. Lo ha salvato, quel
ragazzo!”.
Sarei andato spesso a Roma a “divertirmi”. Sarei stato
l’assicuratore simpatico, un po’ dinoccolato, che fa sempre
le battute quando deve venderti una polizza per la pensio-
ne integrativa.
Questo è quello che mi sarebbe successo se avessi accet-
tato, o almeno quello che pensavo potesse capitarmi.
A ventisette anni, quella telefonata inattesa doveva farmi
capire che era arrivato il momento di dare un senso e un
peso alle giornate.
Ma un senso che non avevo deciso io e un peso che non
potevo calibrare bene.
Non ho mai pensato che quella dell’assicuratore potesse
essere un’occupazione momentanea. Con il tempo, tutto si
sarebbe complicato. Con quale coraggio avrei potuto
lasciare uno stipendio sicuro? Con quali alternative poi?
Non avrei avuto il tempo per fare null’altro. Solo l’assicu-
ratore. Non tiro fuori la storia dell’importanza di un posto
di lavoro, soprattutto per un ragazzo del sud. Sarei un ipo-
crita perché, lo confesso, fino ad allora non ci avevo mai
pensato.
Avevo sempre vissuto alla giornata cercando e sognando
solo la mia felicità (neanche fossi stato Lapo Elkan). Però,
pietà da parte di nessuno.
Per questo va applaudito sempre chi sale con onestà su
un palcoscenico, perché innanzitutto gli va riconosciuto il
coraggio di mettersi in gioco.
Spesso l’esibizione è un atto di grande generosità, c’è
qualcuno che mette mesi di prove, il sogno di sempre e la
sua stessa vita, nelle mani del pubblico.
È un talento, nel mestiere di vivere di un artista, quella
volontà di andare avanti senza sapere se riuscirà mai ad
arrivare da qualche parte. Rischiando il proprio “benessere”.
Io non so come finirà la mia vita. Adesso mi va bene,
magari domani - per un motivo o per un altro - andrà malis-
simo. Però di certo non mi pentirò mai di non essere diven-
tato un assicuratore, perché non avrei avuto il tempo di
vivere una vita diversa dalla mia.
Allora, grazie ancora a zia Gabriella per quella strada
non intrapresa e grazie alla sorte che mi ha dato due geni-
tori che mi hanno sempre assecondato senza forzature.
Per ora, lo dico sottovoce, sono anche felice.
DA LEGGERE NEL CASO DOVESSE ANDARMI MALE...Ma porca la vacca, ma chi me l’ha fatto fare!
Ero giovane e pensavo: “Cavolo, ormai ho ingranato!”
Vaffanculo!
Che cosa è successo? Che cosa non ho capito? Dovevo
partecipare a quel reality di merda... questa è la verità.
19
Piffettopoli
gio del padre mentre gli altri andavano in discoteca; pensai
che, proprio per rispetto nei confronti di quel ragazzino
che ero, non avrei dovuto accettare.
Mi dissi: “In tutti questi anni non ho mica scherzato!”.
È vero, la vita ha mille inciampi e mille in più ne avreb-
bero portato le mie speranze, ma non era una buona scusa
per mollare.
E quindi davanti a quella biforcazione della mia vita,
con una strada consumata su una spider con al fianco una
bella impiegata dell’assicurazione, scelsi l’asfalto sotto le
grandi ruote del pullman Palermo - Roma.
Quello dei viaggi della speranza, e del “Grazie, le fare-
mo sapere. Avanti un altro!”
In teoria aveva vinto la Passione, in pratica il Nulla! E vi
assicuro che non sto drammatizzando. Quando uno si lau-
rea in medicina, può far scrivere sulla porta Dott.
Pincopallino. Poi magari il signor Pincopallino non riusci-
rà mai a fare il medico e sarà costretto a fare un altro lavo-
ro, ma la gente non lo noterà o non lo farà mai pesare.
Il parcheggiatore continuerà a chiamarlo “Dottò”, per-
ché effettivamente è un dottore e la targa dietro la porta lo
dimostra.
Ma nessuno ha pietà per l’artista fallito.
Se ti va bene, se avrai successo, ti rispetteranno tutti,
anzi ti invidieranno.
Ma se il Destino ha un’idea diversa di te, non ci sarà
18
Pierfrancesco Diliberto
pietà da parte di nessuno.
Per questo va applaudito sempre chi sale con onestà su
un palcoscenico, perché innanzitutto gli va riconosciuto il
coraggio di mettersi in gioco.
Spesso l’esibizione è un atto di grande generosità, c’è
qualcuno che mette mesi di prove, il sogno di sempre e la
sua stessa vita, nelle mani del pubblico.
È un talento, nel mestiere di vivere di un artista, quella
volontà di andare avanti senza sapere se riuscirà mai ad
arrivare da qualche parte. Rischiando il proprio “benessere”.
Io non so come finirà la mia vita. Adesso mi va bene,
magari domani - per un motivo o per un altro - andrà malis-
simo. Però di certo non mi pentirò mai di non essere diven-
tato un assicuratore, perché non avrei avuto il tempo di
vivere una vita diversa dalla mia.
Allora, grazie ancora a zia Gabriella per quella strada
non intrapresa e grazie alla sorte che mi ha dato due geni-
tori che mi hanno sempre assecondato senza forzature.
Per ora, lo dico sottovoce, sono anche felice.
DA LEGGERE NEL CASO DOVESSE ANDARMI MALE...Ma porca la vacca, ma chi me l’ha fatto fare!
Ero giovane e pensavo: “Cavolo, ormai ho ingranato!”
Vaffanculo!
Che cosa è successo? Che cosa non ho capito? Dovevo
partecipare a quel reality di merda... questa è la verità.
19
Piffettopoli
gio del padre mentre gli altri andavano in discoteca; pensai
che, proprio per rispetto nei confronti di quel ragazzino
che ero, non avrei dovuto accettare.
Mi dissi: “In tutti questi anni non ho mica scherzato!”.
È vero, la vita ha mille inciampi e mille in più ne avreb-
bero portato le mie speranze, ma non era una buona scusa
per mollare.
E quindi davanti a quella biforcazione della mia vita,
con una strada consumata su una spider con al fianco una
bella impiegata dell’assicurazione, scelsi l’asfalto sotto le
grandi ruote del pullman Palermo - Roma.
Quello dei viaggi della speranza, e del “Grazie, le fare-
mo sapere. Avanti un altro!”
In teoria aveva vinto la Passione, in pratica il Nulla! E vi
assicuro che non sto drammatizzando. Quando uno si lau-
rea in medicina, può far scrivere sulla porta Dott.
Pincopallino. Poi magari il signor Pincopallino non riusci-
rà mai a fare il medico e sarà costretto a fare un altro lavo-
ro, ma la gente non lo noterà o non lo farà mai pesare.
Il parcheggiatore continuerà a chiamarlo “Dottò”, per-
ché effettivamente è un dottore e la targa dietro la porta lo
dimostra.
Ma nessuno ha pietà per l’artista fallito.
Se ti va bene, se avrai successo, ti rispetteranno tutti,
anzi ti invidieranno.
Ma se il Destino ha un’idea diversa di te, non ci sarà
18
Pierfrancesco Diliberto
20
Pierfrancesco Diliberto
Altro che artista, altro che sensibilità!
Che dicevo da giovane?
“Di vita ne abbiamo solo una”... e meno male!
Ora il salumiere come lo pago? Con un’intervista inter-
rotta? Che idiota!
Ma poi anche Mediaset, Le Iene andavano in onda solo
da trentasei anni, potevano ancora dare molto, perché
sospenderle!? Era ancora un programma giovane.
E adesso che faccio?
Mia zia è anche andata in pensione... porca la vacca!
Già mi vedevo con la spider in giro per Frosinone alta,
ad abbordare le nuove impiegate dell’ufficio sinistri.
Quelle del rinnovo tessere Aci, le avrei portate dietro un
Autogrill. Per coerenza! E prima di averci fatto sesso avrei
chiamato il carro-attrezzi, così, giusto per sapere se ero più
veloce io... o l’Aci!
Ma magari... se chiamo ora mia zia... magari è rimasto
un posto... le ho sottoscritto anche una pensione integrati-
va quando guadagnavo... qualcosa me la deve!
Cazzarola... va ancora in onda “Sipario”.
Questo divano è scomodo e fa sudare la schiena.
Vaffanculo!
20
Pierfrancesco Diliberto
Altro che artista, altro che sensibilità!
Che dicevo da giovane?
“Di vita ne abbiamo solo una”... e meno male!
Ora il salumiere come lo pago? Con un’intervista inter-
rotta? Che idiota!
Ma poi anche Mediaset, Le Iene andavano in onda solo
da trentasei anni, potevano ancora dare molto, perché
sospenderle!? Era ancora un programma giovane.
E adesso che faccio?
Mia zia è anche andata in pensione... porca la vacca!
Già mi vedevo con la spider in giro per Frosinone alta,
ad abbordare le nuove impiegate dell’ufficio sinistri.
Quelle del rinnovo tessere Aci, le avrei portate dietro un
Autogrill. Per coerenza! E prima di averci fatto sesso avrei
chiamato il carro-attrezzi, così, giusto per sapere se ero più
veloce io... o l’Aci!
Ma magari... se chiamo ora mia zia... magari è rimasto
un posto... le ho sottoscritto anche una pensione integrati-
va quando guadagnavo... qualcosa me la deve!
Cazzarola... va ancora in onda “Sipario”.
Questo divano è scomodo e fa sudare la schiena.
Vaffanculo!
Perché, come diceva il mio amico Costantino: “Tra non
fare un cazzo a Palermo e non fare un cazzo a Londra,
meglio non fare un cazzo a Londra”.
Per dare una svolta alla mia vita, avevo deciso che anche
io dovevo essere un po’ più europeo e poi in Inghilterra
sarei stato a mio agio. I londinesi mangiano male e vestono
peggio... esattamente come me.
Non sapevo, però, che allora la sterlina vinceva sulla lira
tre a zero e tutto costava maledettamente caro. Avrei dovu-
to trovare un lavoretto adeguato al mio talento, al mio valo-
re e alla mia reputazione.
Diventai un House Porter in un ostello di Notthing Hill
Gate. Le mie mansioni andavano dal cambio lampadine
delle stanze, all’estrazione dei peli dal buco della doccia.
Ne trovavo a ciuffi, a cespugli, a gomitoli, ed estraevo. Ma
lo facevo with class and elegance. Ho trascorso lì un altro
anno, di martedì in martedì, con i miei guanti di lattice, il
secchio e il “mop” bagnato.
Nel tempo libero giravo dei piccoli filmati con una
videocamera appoggiata precariamente su una mensola.
Inquadratura fissa e il futuro Pif che entrava e usciva di
scena con gag improvvisate intorno al WC. Capolavori
assoluti!
Un pomeriggio, però, è arrivata la telefonata.
Era Peppino.
- Piero, la prossima settimana ci aspetta Zeffirelli a Roma.
2322
Pierfrancesco Diliberto Piffettopoli
Un tè con Zeffirelli
Roma.
Per chi sta a Palermo è come sognare Las Vegas o la città
dalle mille occasioni. Soprattutto per chi vuole lavorare nel
cinema.
Nei miei ricordi, Roma resterà per sempre legata all’in-
contro con Franco Zeffirelli, il mio breve permesso di sog-
giorno nel mondo del cinema. Che Maestro!
Lo conosceva il mio amico Peppino e aveva promesso di
presentarmelo. Questo conferma che certe occasioni ti
capitano soltanto se hai le conoscenze giuste che ti fanno
bruciare le tappe...
Infatti, dalla promessa all’incontro, sono passati più di
due anni. Brucianti. Di settimana in settimana, ricevevo
tutte le rassicurazioni possibili che martedì avrei realizzato
il mio sogno. Per mesi, ogni lunedì ho preparato la mia vali-
gia e i pochi soldi per il posto in pullman. Intorno al primo
pomeriggio, arrivava sempre un laconico sms firmato
Peppino che rimandava tutto al martedì successivo. Alla
fine, esausto da quell’attesa, non disfacevo più il mio baga-
glio leggero. Aggiungevo solo una maglia per i mesi più
freddi o una t-shirt di cotone per quelli estivi. Un giorno,
così come mi trovavo, decisi di non aspettare più il miraco-
lo del martedì e di volare a Londra.
Perché, come diceva il mio amico Costantino: “Tra non
fare un cazzo a Palermo e non fare un cazzo a Londra,
meglio non fare un cazzo a Londra”.
Per dare una svolta alla mia vita, avevo deciso che anche
io dovevo essere un po’ più europeo e poi in Inghilterra
sarei stato a mio agio. I londinesi mangiano male e vestono
peggio... esattamente come me.
Non sapevo, però, che allora la sterlina vinceva sulla lira
tre a zero e tutto costava maledettamente caro. Avrei dovu-
to trovare un lavoretto adeguato al mio talento, al mio valo-
re e alla mia reputazione.
Diventai un House Porter in un ostello di Notthing Hill
Gate. Le mie mansioni andavano dal cambio lampadine
delle stanze, all’estrazione dei peli dal buco della doccia.
Ne trovavo a ciuffi, a cespugli, a gomitoli, ed estraevo. Ma
lo facevo with class and elegance. Ho trascorso lì un altro
anno, di martedì in martedì, con i miei guanti di lattice, il
secchio e il “mop” bagnato.
Nel tempo libero giravo dei piccoli filmati con una
videocamera appoggiata precariamente su una mensola.
Inquadratura fissa e il futuro Pif che entrava e usciva di
scena con gag improvvisate intorno al WC. Capolavori
assoluti!
Un pomeriggio, però, è arrivata la telefonata.
Era Peppino.
- Piero, la prossima settimana ci aspetta Zeffirelli a Roma.
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Pierfrancesco Diliberto Piffettopoli
Un tè con Zeffirelli
Roma.
Per chi sta a Palermo è come sognare Las Vegas o la città
dalle mille occasioni. Soprattutto per chi vuole lavorare nel
cinema.
Nei miei ricordi, Roma resterà per sempre legata all’in-
contro con Franco Zeffirelli, il mio breve permesso di sog-
giorno nel mondo del cinema. Che Maestro!
Lo conosceva il mio amico Peppino e aveva promesso di
presentarmelo. Questo conferma che certe occasioni ti
capitano soltanto se hai le conoscenze giuste che ti fanno
bruciare le tappe...
Infatti, dalla promessa all’incontro, sono passati più di
due anni. Brucianti. Di settimana in settimana, ricevevo
tutte le rassicurazioni possibili che martedì avrei realizzato
il mio sogno. Per mesi, ogni lunedì ho preparato la mia vali-
gia e i pochi soldi per il posto in pullman. Intorno al primo
pomeriggio, arrivava sempre un laconico sms firmato
Peppino che rimandava tutto al martedì successivo. Alla
fine, esausto da quell’attesa, non disfacevo più il mio baga-
glio leggero. Aggiungevo solo una maglia per i mesi più
freddi o una t-shirt di cotone per quelli estivi. Un giorno,
così come mi trovavo, decisi di non aspettare più il miraco-
lo del martedì e di volare a Londra.
- Non lo so Costa, tu?
- Giacca e cravatta... ovvio! La mette pure Peppino...
- Non se ne parla proprio...
- Piero, non farci fare una figura di merda... sono anni che
aspettiamo.
Ed erano anni che non annodavo una cravatta al collo.
Alla fine tirai fuori un mediocre completo, tutto sul mar-
roncino o, come dicevano i più sofisticati, sul beige.
Lo avevo comprato anni prima per l’inevitabile ciclo di
feste dei 18 anni dei miei amici. Non era proprio un capo
di sartoria, ma ci stavo ancora dentro con un certo orgo-
glio. Credevo di avere rassicurato tutti sul look.
Mi sbagliavo.
Altra telefonata. Sempre Costantino.
- Di che colore hai le calze?
- Che ti frega del colore delle mie calze. Ho le mutande
bianche. Pure questo t’interessa?
- Santo cielo. E le calze?
- Le ho tutte blu.
- Non le hai nere?
- No, solo calze blu.
- Lunghe o corte?
- Come le devo mettere?
- Stai scherzando, vero?
- Cort... no, lunghe... lunghissime!
La sera prima di partire, lessi, su un libro di Storia del
25
Piffettopoli
Di sicuro bluffava. Avevo una domanda per sgamarlo...
- Che giorno è l’appuntamento?
- Giovedì... perché?
Andai di corsa a fare il biglietto.
Era un lunedì pomeriggio ed il giovedì successivo avrei
incontrato Zeffirelli.
Quel giorno a Roma c’era anche Costantino. Era uno
studente fuori corso a Giurisprudenza, ma non sarebbe
mai diventato né giudice né avvocato. Piuttosto un pentito
di avere studiato legge. Tutti e due sognavamo di lavorare
nello spettacolo, in particolare io volevo sfondare nel
mondo del cinema mentre Costantino voleva lavorare per i
varietà televisivi.
Invece adesso io lavoro all’intrattenimento e lui fa l’edi-
tor per la fiction di Mediaset. Evidentemente abbiamo sba-
gliato qualcosa!
Quello stesso giorno, l’impareggiabile Peppino era riu-
scito a farci avere un paio di appuntamenti; il primo con
Michele Guardì, autore e regista di molte trasmissioni Rai
come “I fatti vostri”. Avete presente la voce del Comitato
che diceva: “Lodi! Lodi! Lodi!”? Si, proprio lui!
Il secondo incontro era, appunto, con il Maestro
Zeffirelli, nella sua storica villa sull’Appia Antica.
Il giorno prima della partenza ho sentito addosso la più
grande ansia da prestazione.
- Piero, come ti vesti per l’incontro?
24
Pierfrancesco Diliberto
- Non lo so Costa, tu?
- Giacca e cravatta... ovvio! La mette pure Peppino...
- Non se ne parla proprio...
- Piero, non farci fare una figura di merda... sono anni che
aspettiamo.
Ed erano anni che non annodavo una cravatta al collo.
Alla fine tirai fuori un mediocre completo, tutto sul mar-
roncino o, come dicevano i più sofisticati, sul beige.
Lo avevo comprato anni prima per l’inevitabile ciclo di
feste dei 18 anni dei miei amici. Non era proprio un capo
di sartoria, ma ci stavo ancora dentro con un certo orgo-
glio. Credevo di avere rassicurato tutti sul look.
Mi sbagliavo.
Altra telefonata. Sempre Costantino.
- Di che colore hai le calze?
- Che ti frega del colore delle mie calze. Ho le mutande
bianche. Pure questo t’interessa?
- Santo cielo. E le calze?
- Le ho tutte blu.
- Non le hai nere?
- No, solo calze blu.
- Lunghe o corte?
- Come le devo mettere?
- Stai scherzando, vero?
- Cort... no, lunghe... lunghissime!
La sera prima di partire, lessi, su un libro di Storia del
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Piffettopoli
Di sicuro bluffava. Avevo una domanda per sgamarlo...
- Che giorno è l’appuntamento?
- Giovedì... perché?
Andai di corsa a fare il biglietto.
Era un lunedì pomeriggio ed il giovedì successivo avrei
incontrato Zeffirelli.
Quel giorno a Roma c’era anche Costantino. Era uno
studente fuori corso a Giurisprudenza, ma non sarebbe
mai diventato né giudice né avvocato. Piuttosto un pentito
di avere studiato legge. Tutti e due sognavamo di lavorare
nello spettacolo, in particolare io volevo sfondare nel
mondo del cinema mentre Costantino voleva lavorare per i
varietà televisivi.
Invece adesso io lavoro all’intrattenimento e lui fa l’edi-
tor per la fiction di Mediaset. Evidentemente abbiamo sba-
gliato qualcosa!
Quello stesso giorno, l’impareggiabile Peppino era riu-
scito a farci avere un paio di appuntamenti; il primo con
Michele Guardì, autore e regista di molte trasmissioni Rai
come “I fatti vostri”. Avete presente la voce del Comitato
che diceva: “Lodi! Lodi! Lodi!”? Si, proprio lui!
Il secondo incontro era, appunto, con il Maestro
Zeffirelli, nella sua storica villa sull’Appia Antica.
Il giorno prima della partenza ho sentito addosso la più
grande ansia da prestazione.
- Piero, come ti vesti per l’incontro?
24
Pierfrancesco Diliberto
Era lui con una flemma felina che ci raggiungeva indossan-
do un pesante saio di lana con disegni messicani. Dopo i
primi convenevoli, ci confessò, candidamente, di averlo
fregato su un volo della British Arways.
Fece un breve fischio e arrivarono sei cani, tutti di razza
ma alcuni, comunque, di bellezza quanto meno discutibile.
Circondarono il Maestro che dispensava coccole e sguardi
inteneriti alle bestiole... i veri padroni di casa.
Naturalmente salirono anche loro sul divano, in partico-
lare dalla mia parte, sistemandosi dietro la testa, sotto
l’ascella sinistra e uno sulla pancia, quasi sotto il mento. Il
Maestro ebbe la delicatezza di chiedere:
- Per caso vi danno fastidio i miei bimbi?
Non solo rispondemmo in coro che ci piacevano, ma ci
lanciammo in una appassionatissima dichiarazione d’amo-
re verso la razza canina. Peppino sciorinò le prodezze del
suo pastore tedesco che però, al massimo, alzava la zampa.
E solo se gli andava. Costantino aveva rilanciato con il suo
shi tzu, un cane orientale da riflessione di dieci anni che pra-
ticamente non si era mai mosso dalla sua stanza. Nel senso
che il mio amico non ci pensava proprio a portalo fuori
neanche per cacca e pipì. Ma questo, al Maestro, non lo
aveva detto...
- E tu?
Mi aveva rivolto la parola...
- Io ho una gatta...
27
Piffettopoli
Cinema Italiano, che la madre di Zeffirelli aveva dovuto
scegliere per lui un cognome di fantasia. Il padre naturale,
a quanto pare, inizialmente non aveva riconosciuto il bam-
bino. Allora la donna, guardando il dipinto della Venere di
Botticelli, rimase colpita da un putto corpulento dal nome
Zaffiro che impreziosiva, sulla sinistra, un punto alto della
tela.
Per quella visione innocente e angelica, decise di chia-
mare suo figlio Franco Zeffirelli.
Cavolo, che storia.
Di lì a poco, il Destino si sarebbe incaponito. Poche ore
prima di stringere la mano al Maestro, passeggiavo per
Piazza di Spagna. Proprio lì, un venditore di cartoline cat-
turò la mia attenzione. Su quel banchetto improvvisato,
vidi una piccola stampa che ritraeva proprio il dipinto del
Botticelli. E su, in alto, il sinistro Zaffiro. Mi dissi che era
un segno del Destino e, con il cuore in gola, la comprai!
Arrivammo alla villona sull’Appia Antica tutti molto
emozionati. La segretaria ci fece accomodare nel salotto.
L’arredamento era ricco di mobili antichi e le foto, distri-
buite un po’ dappertutto, ritraevano Zeffirelli con delle
celebrità inarrivabili: da Ronald Reagan a Liz Taylor, da
Micheal Jackson già sbiancato a Maria Callas.
Il salotto dava su un grande giardino. Un paradiso di
piante e alberi robusti.
Dopo qualche minuto, sentimmo dei passi da lontano.
26
Pierfrancesco Diliberto
Era lui con una flemma felina che ci raggiungeva indossan-
do un pesante saio di lana con disegni messicani. Dopo i
primi convenevoli, ci confessò, candidamente, di averlo
fregato su un volo della British Arways.
Fece un breve fischio e arrivarono sei cani, tutti di razza
ma alcuni, comunque, di bellezza quanto meno discutibile.
Circondarono il Maestro che dispensava coccole e sguardi
inteneriti alle bestiole... i veri padroni di casa.
Naturalmente salirono anche loro sul divano, in partico-
lare dalla mia parte, sistemandosi dietro la testa, sotto
l’ascella sinistra e uno sulla pancia, quasi sotto il mento. Il
Maestro ebbe la delicatezza di chiedere:
- Per caso vi danno fastidio i miei bimbi?
Non solo rispondemmo in coro che ci piacevano, ma ci
lanciammo in una appassionatissima dichiarazione d’amo-
re verso la razza canina. Peppino sciorinò le prodezze del
suo pastore tedesco che però, al massimo, alzava la zampa.
E solo se gli andava. Costantino aveva rilanciato con il suo
shi tzu, un cane orientale da riflessione di dieci anni che pra-
ticamente non si era mai mosso dalla sua stanza. Nel senso
che il mio amico non ci pensava proprio a portalo fuori
neanche per cacca e pipì. Ma questo, al Maestro, non lo
aveva detto...
- E tu?
Mi aveva rivolto la parola...
- Io ho una gatta...
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Piffettopoli
Cinema Italiano, che la madre di Zeffirelli aveva dovuto
scegliere per lui un cognome di fantasia. Il padre naturale,
a quanto pare, inizialmente non aveva riconosciuto il bam-
bino. Allora la donna, guardando il dipinto della Venere di
Botticelli, rimase colpita da un putto corpulento dal nome
Zaffiro che impreziosiva, sulla sinistra, un punto alto della
tela.
Per quella visione innocente e angelica, decise di chia-
mare suo figlio Franco Zeffirelli.
Cavolo, che storia.
Di lì a poco, il Destino si sarebbe incaponito. Poche ore
prima di stringere la mano al Maestro, passeggiavo per
Piazza di Spagna. Proprio lì, un venditore di cartoline cat-
turò la mia attenzione. Su quel banchetto improvvisato,
vidi una piccola stampa che ritraeva proprio il dipinto del
Botticelli. E su, in alto, il sinistro Zaffiro. Mi dissi che era
un segno del Destino e, con il cuore in gola, la comprai!
Arrivammo alla villona sull’Appia Antica tutti molto
emozionati. La segretaria ci fece accomodare nel salotto.
L’arredamento era ricco di mobili antichi e le foto, distri-
buite un po’ dappertutto, ritraevano Zeffirelli con delle
celebrità inarrivabili: da Ronald Reagan a Liz Taylor, da
Micheal Jackson già sbiancato a Maria Callas.
Il salotto dava su un grande giardino. Un paradiso di
piante e alberi robusti.
Dopo qualche minuto, sentimmo dei passi da lontano.
26
Pierfrancesco Diliberto
Peppino erano silenziosi e perplessi e il dramma fu che
anche il Maestro rimase in silenzio e con la stessa perples-
sità dei miei amici. Cacchio, questo non era previsto.
- Perché su questa cartolina? Se vuoi ti do una mia foto-
grafia...
- Ma come Maestro... La Venere di Botticelli!
Gli avevo pure fatto l’occhiolino.
Ma lui sembrava non capire e, difatti, non poteva capi-
re, perché la storia che il suo cognome venisse dal putto di
Botticelli era una minchiata pazzesca!
In realtà sua madre - ma questo lo seppi dopo - andò a
registrarlo come Zeffiretti, colpita dal nome di un’aria
dell’Idomeneo di Mozart dal titolo “Gli zeffiretti gentili”.
L’impiegato dell’anagrafe, (figura che ha storicamente
influenzato la scelta dei nomi di migliaia di italiani con
distrazioni, errori e ostinazioni del tipo: “No, sua figlia non
può chiamarla Azalea perché non esiste la santa Azalea!”),
invece di scrivere Zeffiretti scrisse Zeffirelli.
Io, alla terza alzata di sopracciglio, capii la penosa figu-
ra (scusate l’espressione un po’ forte) di merda ma, non
potendo più recuperare, andai avanti senza dare alcuna
spiegazione. Prima di congedarci, il Maestro decise comun-
que di regalarci un libro delle sue scenografie teatrali... con
una dedica.
A me scrisse:
29
Piffettopoli
Pausa del Maestro...
- I gatti sono infidi. Belli ma infidi...
Naturalmente eravamo tutti d’accordo. I cani da salotto,
i miei amici ed io.
La verità è che se Zeffirelli, da sotto il saio, avesse tirato
fuori un pezzo di eternit per chiederci di mangiarlo, noi lo
avremmo fatto ringraziandolo della ricca merenda.
Dopo un brindisi, il Maestro fece delle domande ad
ognuno di noi. Era arrivato il mio momento, quello che
avevo provato davanti lo specchio e immaginato centinaia
di volte. Ero un fiume in piena. Senza esitazioni dichiarai la
mia passione per il cinema, per la regia e - con sprezzo del
pericolo - tirai fuori una videocassetta vhs, su cui avevo
registrato i miei cortometraggi.
Lui mi disse chiaramente di non dargliela perché tanto
non l’avrebbe vista. Mai.
Dopo due orette di discussione, arrivò il momento di
congedarci.
Ma come nella Ruota della Fortuna, io avevo ancora il
mio Jolly da giocare. Mi avvicinai al Maestro con un atteg-
giamento complice che gli altri non potevano capire e
allungai il mio Botticelli.
- Posso chiederle una dedica?
Ero sicuro che avrebbe capito: alla vista di quella Venere
avrebbe ripensato a sua madre e - commosso - mi avrebbe
dedicato un pensiero ed un ringraziamento. Costantino e
28
Pierfrancesco Diliberto
Peppino erano silenziosi e perplessi e il dramma fu che
anche il Maestro rimase in silenzio e con la stessa perples-
sità dei miei amici. Cacchio, questo non era previsto.
- Perché su questa cartolina? Se vuoi ti do una mia foto-
grafia...
- Ma come Maestro... La Venere di Botticelli!
Gli avevo pure fatto l’occhiolino.
Ma lui sembrava non capire e, difatti, non poteva capi-
re, perché la storia che il suo cognome venisse dal putto di
Botticelli era una minchiata pazzesca!
In realtà sua madre - ma questo lo seppi dopo - andò a
registrarlo come Zeffiretti, colpita dal nome di un’aria
dell’Idomeneo di Mozart dal titolo “Gli zeffiretti gentili”.
L’impiegato dell’anagrafe, (figura che ha storicamente
influenzato la scelta dei nomi di migliaia di italiani con
distrazioni, errori e ostinazioni del tipo: “No, sua figlia non
può chiamarla Azalea perché non esiste la santa Azalea!”),
invece di scrivere Zeffiretti scrisse Zeffirelli.
Io, alla terza alzata di sopracciglio, capii la penosa figu-
ra (scusate l’espressione un po’ forte) di merda ma, non
potendo più recuperare, andai avanti senza dare alcuna
spiegazione. Prima di congedarci, il Maestro decise comun-
que di regalarci un libro delle sue scenografie teatrali... con
una dedica.
A me scrisse:
29
Piffettopoli
Pausa del Maestro...
- I gatti sono infidi. Belli ma infidi...
Naturalmente eravamo tutti d’accordo. I cani da salotto,
i miei amici ed io.
La verità è che se Zeffirelli, da sotto il saio, avesse tirato
fuori un pezzo di eternit per chiederci di mangiarlo, noi lo
avremmo fatto ringraziandolo della ricca merenda.
Dopo un brindisi, il Maestro fece delle domande ad
ognuno di noi. Era arrivato il mio momento, quello che
avevo provato davanti lo specchio e immaginato centinaia
di volte. Ero un fiume in piena. Senza esitazioni dichiarai la
mia passione per il cinema, per la regia e - con sprezzo del
pericolo - tirai fuori una videocassetta vhs, su cui avevo
registrato i miei cortometraggi.
Lui mi disse chiaramente di non dargliela perché tanto
non l’avrebbe vista. Mai.
Dopo due orette di discussione, arrivò il momento di
congedarci.
Ma come nella Ruota della Fortuna, io avevo ancora il
mio Jolly da giocare. Mi avvicinai al Maestro con un atteg-
giamento complice che gli altri non potevano capire e
allungai il mio Botticelli.
- Posso chiederle una dedica?
Ero sicuro che avrebbe capito: alla vista di quella Venere
avrebbe ripensato a sua madre e - commosso - mi avrebbe
dedicato un pensiero ed un ringraziamento. Costantino e
28
Pierfrancesco Diliberto
Insomma, la domanda declinata su Zeffirelli era quanto
meno offensiva per il Maestro.
Come se, in questo mondo edonistico e consumistico,
non si faccia mai niente per niente e quindi il prima avesse
- comunque - un pegno da pagare per gratitudine.
Comunque, se ci avesse provato, io che cosa avrei dovu-
to fare?
Non ho fatto neanche in tempo a pensarci: i mesi sono
volati e non ho mai ricevuto nessuna torbida richiesta,
neanche una di quelle camuffate dal gioco innocente del
massaggino, dell’omino nero o di nascondino. Avete notato
come le potenziali zozzerie contengano spesso un grazioso
diminutivo?
Non avevo però ancora fatto i conti con il dopo.
Al mio ritorno, gli stessi amici facevano delle congettu-
re sostanzialmente intorno allo stesso quesito... col senno
del poi.
“Dimmi la verità Piero... Zeffirelli ci ha provato, vero?”
Ad onor del vero, la domanda ha sempre avuto i soliti
toni più spinti, con riferimenti che vanno dal salto della
cavallina alla pecora in calore.
In un momento, avevo realizzato come il mio posteriore
potesse essere considerato un potenziale oggetto del desi-
derio e non soltanto un morbido appoggio per la tazza del
cesso. Era inutile rispondere che non avevo dovuto pagare
alcun pegno. A quest’ora, invece di parlarvi della mia espe-
31
Piffettopoli
Nella speranza che i tuoi sogni si avverino, ti saluto.
A presto dunque!
Franco Zeffirelli
Durante il ritorno in taxi, fui accusato di non essere
stato molto incisivo nella richiesta di partecipare alla pro-
duzione del prossimo film del Maestro. La mia difesa era
tutta in quella dedica, in quel “A presto dunque!”.
Il mio ragionamento era: se avesse scritto solo “a pre-
sto”, allora l’augurio sarebbe stato solo di circostanza e non
mi sarei fatto delle illusioni... Ma con quel “dunque” evi-
denziava un cambio di tono evidente; insomma, dietro
c’era una promessa. Era chiaro, no? Ne ero sicuro! No, in
realtà non ero sicuro. Per niente.
Può un uomo vivere un anno intero con la speranza
appesa ad un semplice “dunque”?... Si, io lo feci.
E un giorno passai dal prestigioso ruolo di spurgadocce
ad assistente di Franco Zeffirelli. Non più a Londra.
Ma a Roma.
Quella permanenza nella Capitale si può facilmente
dividere in un prima e un dopo.
Nel senso che prima i miei amici mi chiedevano:
“Ma se Zeffirelli ci prova con te, tu che fai?”
In realtà l’interrogativo era sviluppato in maniera diver-
sa... un po’ più rozza... si parlava di fondoschiena... avete
capito no?!
30
Pierfrancesco Diliberto
Insomma, la domanda declinata su Zeffirelli era quanto
meno offensiva per il Maestro.
Come se, in questo mondo edonistico e consumistico,
non si faccia mai niente per niente e quindi il prima avesse
- comunque - un pegno da pagare per gratitudine.
Comunque, se ci avesse provato, io che cosa avrei dovu-
to fare?
Non ho fatto neanche in tempo a pensarci: i mesi sono
volati e non ho mai ricevuto nessuna torbida richiesta,
neanche una di quelle camuffate dal gioco innocente del
massaggino, dell’omino nero o di nascondino. Avete notato
come le potenziali zozzerie contengano spesso un grazioso
diminutivo?
Non avevo però ancora fatto i conti con il dopo.
Al mio ritorno, gli stessi amici facevano delle congettu-
re sostanzialmente intorno allo stesso quesito... col senno
del poi.
“Dimmi la verità Piero... Zeffirelli ci ha provato, vero?”
Ad onor del vero, la domanda ha sempre avuto i soliti
toni più spinti, con riferimenti che vanno dal salto della
cavallina alla pecora in calore.
In un momento, avevo realizzato come il mio posteriore
potesse essere considerato un potenziale oggetto del desi-
derio e non soltanto un morbido appoggio per la tazza del
cesso. Era inutile rispondere che non avevo dovuto pagare
alcun pegno. A quest’ora, invece di parlarvi della mia espe-
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Piffettopoli
Nella speranza che i tuoi sogni si avverino, ti saluto.
A presto dunque!
Franco Zeffirelli
Durante il ritorno in taxi, fui accusato di non essere
stato molto incisivo nella richiesta di partecipare alla pro-
duzione del prossimo film del Maestro. La mia difesa era
tutta in quella dedica, in quel “A presto dunque!”.
Il mio ragionamento era: se avesse scritto solo “a pre-
sto”, allora l’augurio sarebbe stato solo di circostanza e non
mi sarei fatto delle illusioni... Ma con quel “dunque” evi-
denziava un cambio di tono evidente; insomma, dietro
c’era una promessa. Era chiaro, no? Ne ero sicuro! No, in
realtà non ero sicuro. Per niente.
Può un uomo vivere un anno intero con la speranza
appesa ad un semplice “dunque”?... Si, io lo feci.
E un giorno passai dal prestigioso ruolo di spurgadocce
ad assistente di Franco Zeffirelli. Non più a Londra.
Ma a Roma.
Quella permanenza nella Capitale si può facilmente
dividere in un prima e un dopo.
Nel senso che prima i miei amici mi chiedevano:
“Ma se Zeffirelli ci prova con te, tu che fai?”
In realtà l’interrogativo era sviluppato in maniera diver-
sa... un po’ più rozza... si parlava di fondoschiena... avete
capito no?!
30
Pierfrancesco Diliberto
dopo vinse l’Oscar per un altro film) e Cher.
Le riprese incominciarono a Firenze, per poi proseguire
a San Gimignano e Roma, dove alloggiai a casa del
Maestro.
Potete immaginare come mi potessi sentire: dalla stan-
zetta divisa con altri tre ragazzi, dietro la cucina, in un
ostello a Londra, alla villona sull’Appia Antica, con le foto
di scena del film “Romeo e Giulietta” appese in bagno.
Di quella esperienza non mi scorderò due cose.
Innanzi tutto, i dopo cena con Zefffirelli: quando tutto
il suo entourage usciva o andava a guardare la televisione,
lui incominciava a raccontare, con l’aiuto di un bicchiere di
vino, gli anni passati. Questo, nel suo caso, voleva dire rida-
re vita - per qualche istante - a Visconti, Pasolini, alle feste
di compleanno organizzate a casa sua per Anna Magnani,
al suo primo incontro con Liz Taylor e Richard Burton.
Per uno che, come me, ama il cinema, era come sognare
ad occhi aperti.
La seconda cosa che mi ricordo è un po’ meno bella.
Come ho già detto, il Maestro era proprietario di diver-
si cani, di piccola taglia.
La madre di tutti questi cani, il capobranco matriarcale,
era Blanche, che era ovviamente la più cara al Maestro.
Lei era l’unica a poter venire sul set.
Generalmente le cure della “bestia sacra” erano affidate
all’assistente ufficiale, il quale vide subito in me la panacea
33
Piffettopoli
rienza televisiva, sarei sul terrazzo della villa del Maestro,
ad Amalfi, a guardare il tramonto con un cane di razza a me
sconosciuta.
Sinceramente: non credo che ci sia stato neanche una
frazione di secondo in cui il Maestro abbia pensato a me...
“con tenerezza”.
In più, bisogna sfatare la stupidissima convinzione che
tutti gli omosessuali siano disposti ad accoppiarsi con per-
sone del loro stesso sesso senza alcuna selezione in base a
gusti, fattezze, odori e pensieri..
Insomma, non ha senso pensare:
“Sei gay, quindi ti faresti qualunque uomo.”
La verità è che la mia unica preoccupazione - accanto a
Zeffirelli - era quella di non sfigurare in un ambiente di così
alto livello.
La troupe, infatti, era per metà italiana e per metà ingle-
se. L’operatore e l’assistente avevano lavorato con Ridley
Scott e Steven Spielberg, il fonico aveva appena finito l’ul-
timo film di Stanley Kubrick, il capo macchinista aveva
lavorato in “C’era una volta in America” di Sergio Leone,
il direttore della fotografia aveva vinto l’Oscar per “La mia
Africa”, Franco Zeffirelli era Franco Zeffirelli... e poi c’ero
io, Pierfrancesco Diliberto (non ancora Pif), che veniva
dall’ostello di Notthing Hill Gate.
Nel cast c’erano alcune tra le più brave attrici al mondo:
Joan Plowright, Maggie Smith, Judi Dench (che l’anno
32
Pierfrancesco Diliberto
dopo vinse l’Oscar per un altro film) e Cher.
Le riprese incominciarono a Firenze, per poi proseguire
a San Gimignano e Roma, dove alloggiai a casa del
Maestro.
Potete immaginare come mi potessi sentire: dalla stan-
zetta divisa con altri tre ragazzi, dietro la cucina, in un
ostello a Londra, alla villona sull’Appia Antica, con le foto
di scena del film “Romeo e Giulietta” appese in bagno.
Di quella esperienza non mi scorderò due cose.
Innanzi tutto, i dopo cena con Zefffirelli: quando tutto
il suo entourage usciva o andava a guardare la televisione,
lui incominciava a raccontare, con l’aiuto di un bicchiere di
vino, gli anni passati. Questo, nel suo caso, voleva dire rida-
re vita - per qualche istante - a Visconti, Pasolini, alle feste
di compleanno organizzate a casa sua per Anna Magnani,
al suo primo incontro con Liz Taylor e Richard Burton.
Per uno che, come me, ama il cinema, era come sognare
ad occhi aperti.
La seconda cosa che mi ricordo è un po’ meno bella.
Come ho già detto, il Maestro era proprietario di diver-
si cani, di piccola taglia.
La madre di tutti questi cani, il capobranco matriarcale,
era Blanche, che era ovviamente la più cara al Maestro.
Lei era l’unica a poter venire sul set.
Generalmente le cure della “bestia sacra” erano affidate
all’assistente ufficiale, il quale vide subito in me la panacea
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Piffettopoli
rienza televisiva, sarei sul terrazzo della villa del Maestro,
ad Amalfi, a guardare il tramonto con un cane di razza a me
sconosciuta.
Sinceramente: non credo che ci sia stato neanche una
frazione di secondo in cui il Maestro abbia pensato a me...
“con tenerezza”.
In più, bisogna sfatare la stupidissima convinzione che
tutti gli omosessuali siano disposti ad accoppiarsi con per-
sone del loro stesso sesso senza alcuna selezione in base a
gusti, fattezze, odori e pensieri..
Insomma, non ha senso pensare:
“Sei gay, quindi ti faresti qualunque uomo.”
La verità è che la mia unica preoccupazione - accanto a
Zeffirelli - era quella di non sfigurare in un ambiente di così
alto livello.
La troupe, infatti, era per metà italiana e per metà ingle-
se. L’operatore e l’assistente avevano lavorato con Ridley
Scott e Steven Spielberg, il fonico aveva appena finito l’ul-
timo film di Stanley Kubrick, il capo macchinista aveva
lavorato in “C’era una volta in America” di Sergio Leone,
il direttore della fotografia aveva vinto l’Oscar per “La mia
Africa”, Franco Zeffirelli era Franco Zeffirelli... e poi c’ero
io, Pierfrancesco Diliberto (non ancora Pif), che veniva
dall’ostello di Notthing Hill Gate.
Nel cast c’erano alcune tra le più brave attrici al mondo:
Joan Plowright, Maggie Smith, Judi Dench (che l’anno
32
Pierfrancesco Diliberto
Cercai la divina con gli occhi, avevo le pupille fuori dalle
orbite ma di Blanche, nessuna traccia.
Mantenere la calma. Ragionare.
In momenti come questi sono due le strade obbligate: la
prima è chiamare un’agenzia di viaggi, corromperla con del
denaro e comprare, sotto falso nome, un biglietto per il
Venezuela. Solo in quel modo sarei potuto sfuggire dalle ire
del Maestro.
Del resto, molti ex nazisti sono riusciti a rifarsi una vita
senza destare sospetti tra i vicini di casa.
Perché non avrei dovuto farcela anche io? La seconda
possibilità era quella di chiedere distrattamente alla signo-
ra delle pulizie se, per caso, avesse visto un cane.
- Si, è uscito!
Mantenere la calma. Ragionare.
Come se Blanche avesse preso la sua borsetta e il cappel-
lo, avesse salutato, magari dicendo: “Mi raccomando la
vasca. La pulisca bene.” Avevo una seconda domanda per
l’inserviente dell’albergo.
- Da che parte è andata?
La signora mi rispose che l’aveva vista uscire a destra...
indicando a sinistra.
A volte la morte si presenta sotto sembianze bizzarre.
Andai a destra, ma c’era un vicolo cieco.
Tornai indietro e, scendendo per le scale, incontrai un
altro signore che faceva le pulizie.
35
Piffettopoli
delle sue rotture di scatole. Il mio rapporto con lui era
come quello di Jean-Louis Trintignant e Vittorio Gassman
nel “Sorpasso”.
Fu così che mi furono affidate le mansioni più gratifi-
canti per un essere umano: andare a comprare le sigarette
e/o le bibite e affidarmi Blanche, la divina Blanche, l’ama-
tissima Blanche. Io e la cagnetta, con il tempo, familiariz-
zammo. La mattina ormai la piccola sapeva che ero io quel-
lo che doveva prenderla e portarla in auto.
Sembrava ammaestrata. Appena finivo di fare colazione,
lei saliva sul mobile per saltarmi in braccio. Spesso la
distanza si accorciava quando il Maestro le faceva fare cola-
zione direttamente sul tavolo, mettendole del latte in un
piatto.
Tutto andava liscio finché a Firenze, un giorno, si sfiorò
la tragedia.
Eravamo io e Blanche nella suite del Maestro. Io stavo
scalettando alcune scene girate il giorno prima. La divina
era seduta sul divano e tutto sembrava maledettamente
tranquillo.
Ma, si sa, le tragedie più grandi si consumano in un atti-
mo. E quel giorno, l’attimo stava per arrivare. Dopo aver
spento il televisore, mi spostai nell’altra stanza per prende-
re un’agenda.
In quel momento, entrò la signora delle pulizie. La porta
era rimasta aperta.
34
Pierfrancesco Diliberto
Cercai la divina con gli occhi, avevo le pupille fuori dalle
orbite ma di Blanche, nessuna traccia.
Mantenere la calma. Ragionare.
In momenti come questi sono due le strade obbligate: la
prima è chiamare un’agenzia di viaggi, corromperla con del
denaro e comprare, sotto falso nome, un biglietto per il
Venezuela. Solo in quel modo sarei potuto sfuggire dalle ire
del Maestro.
Del resto, molti ex nazisti sono riusciti a rifarsi una vita
senza destare sospetti tra i vicini di casa.
Perché non avrei dovuto farcela anche io? La seconda
possibilità era quella di chiedere distrattamente alla signo-
ra delle pulizie se, per caso, avesse visto un cane.
- Si, è uscito!
Mantenere la calma. Ragionare.
Come se Blanche avesse preso la sua borsetta e il cappel-
lo, avesse salutato, magari dicendo: “Mi raccomando la
vasca. La pulisca bene.” Avevo una seconda domanda per
l’inserviente dell’albergo.
- Da che parte è andata?
La signora mi rispose che l’aveva vista uscire a destra...
indicando a sinistra.
A volte la morte si presenta sotto sembianze bizzarre.
Andai a destra, ma c’era un vicolo cieco.
Tornai indietro e, scendendo per le scale, incontrai un
altro signore che faceva le pulizie.
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Piffettopoli
delle sue rotture di scatole. Il mio rapporto con lui era
come quello di Jean-Louis Trintignant e Vittorio Gassman
nel “Sorpasso”.
Fu così che mi furono affidate le mansioni più gratifi-
canti per un essere umano: andare a comprare le sigarette
e/o le bibite e affidarmi Blanche, la divina Blanche, l’ama-
tissima Blanche. Io e la cagnetta, con il tempo, familiariz-
zammo. La mattina ormai la piccola sapeva che ero io quel-
lo che doveva prenderla e portarla in auto.
Sembrava ammaestrata. Appena finivo di fare colazione,
lei saliva sul mobile per saltarmi in braccio. Spesso la
distanza si accorciava quando il Maestro le faceva fare cola-
zione direttamente sul tavolo, mettendole del latte in un
piatto.
Tutto andava liscio finché a Firenze, un giorno, si sfiorò
la tragedia.
Eravamo io e Blanche nella suite del Maestro. Io stavo
scalettando alcune scene girate il giorno prima. La divina
era seduta sul divano e tutto sembrava maledettamente
tranquillo.
Ma, si sa, le tragedie più grandi si consumano in un atti-
mo. E quel giorno, l’attimo stava per arrivare. Dopo aver
spento il televisore, mi spostai nell’altra stanza per prende-
re un’agenda.
In quel momento, entrò la signora delle pulizie. La porta
era rimasta aperta.
34
Pierfrancesco Diliberto
- Scusi, ha visto un cane?
- Si, è andato verso la reception.
L’ipotesi della telefonata all’agenzia si faceva sempre più
sensata.
Scesi alla reception:
- Scusate, avete visto un cane?
E loro, tranquillamente,
- Si, è uscito!
Forse era l’albergo della Walt Disney, dove i cani usciva-
no lasciando al portiere dell’albergo la chiave della stanza.
Mi precipitai per la strada immaginando il peggio: da
Blanche crocifissa a pancia in giù al centro della strada, a
Blanche violentata dietro gli Uffizi da un barboncino
bischero. Ma non la trovavo. Era finita!
Nella strada di ritorno, tenevo gli occhi bassi. Cercavo
un cucciolo che potesse - anche vagamente - somigliare alla
divina. Era un’idea stupida di un uomo disperato.
Ad un tratto, il miracolo.
Accanto all’entrata dell’albergo c’era l’ufficio della pro-
duzione. Dentro trovai Blanche in braccio all’assistente del
Maestro che mi guardava, senza muovere un ciglio, senza
un ghigno, senza un rimprovero, ma anche senza ridere.
Ho ripreso Blanche in braccio e, da quel giorno, l’ho tenu-
ta al guinzaglio anche se dovevo andare a fare pipì.
E comunque, un giorno voglio andare a vedere com’è
‘sto Venezuela.
36
Pierfrancesco Diliberto
- Scusi, ha visto un cane?
- Si, è andato verso la reception.
L’ipotesi della telefonata all’agenzia si faceva sempre più
sensata.
Scesi alla reception:
- Scusate, avete visto un cane?
E loro, tranquillamente,
- Si, è uscito!
Forse era l’albergo della Walt Disney, dove i cani usciva-
no lasciando al portiere dell’albergo la chiave della stanza.
Mi precipitai per la strada immaginando il peggio: da
Blanche crocifissa a pancia in giù al centro della strada, a
Blanche violentata dietro gli Uffizi da un barboncino
bischero. Ma non la trovavo. Era finita!
Nella strada di ritorno, tenevo gli occhi bassi. Cercavo
un cucciolo che potesse - anche vagamente - somigliare alla
divina. Era un’idea stupida di un uomo disperato.
Ad un tratto, il miracolo.
Accanto all’entrata dell’albergo c’era l’ufficio della pro-
duzione. Dentro trovai Blanche in braccio all’assistente del
Maestro che mi guardava, senza muovere un ciglio, senza
un ghigno, senza un rimprovero, ma anche senza ridere.
Ho ripreso Blanche in braccio e, da quel giorno, l’ho tenu-
ta al guinzaglio anche se dovevo andare a fare pipì.
E comunque, un giorno voglio andare a vedere com’è
‘sto Venezuela.
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Pierfrancesco Diliberto
Pif nasce a Milano nel 2001 però è un trentacinquenne di Palermo.Lo conosciamo per le botte che ha preso dai cinesi ma non sappiamo che ha pulito i cessi in un ostello di Londra. Ci piacciono le sue interviste interrotte ma non lo ricordiamo nei panni di “Lupetto cittadino perfetto”.Perché prima della Iena Pif c’era solo Pierfrancesco Diliberto, un ragazzo che sognava di diventare regista a Palermo e che ha rischiato di fare l’assicuratore a Frosinone. Mentre dorme, (a mezzogiorno!) arriva una telefonata… che gli cambia la vita.Piffettopoli è il racconto di tante occasioni inseguite, di scelte cruciali e di incontri importanti, come quello con Zeffirelli.E poi il rovescio delle medaglia e la fatica di un quasi V.I.P., come le strette di mano di chi, per strada, avvicina Pif perché lo ha riconosciuto… forse!E la vita mondana?In discoteca gli offrono cocaina ma lui continua a preferire l’aranciata.Gossip?Pif è stato un top model, un fidanzato della Canalis, un leghista orgoglioso e un coraggioso accusatore di Andreotti.Non ci credete?
Foto in copertina e retro:© 2007 Giuseppe Castrovinci
Pierfrancesco Diliberto
Le fatiche di un quasiV.I.P.
PIFfettopoli
zero91
Pierfran
cesco Dilib
erto
PIFFetto
Po
LI Le fatiche d
i un q
uasi V.I.P.
Pierfrancesco Diliberto è nato a Palermo nel 1972, vive e lavora tra Milano e Roma.Dopo aver lavorato come runner ed assistente a film come “Un tè con Mussolini” di Franco Zeffirelli e “I Centopassi” di Marco Tullio Giordana, è diventato autore e volto delle Iene su Italia 1 e di altri programmi per SKY. Piffettopoli. Le fatiche di un quasi V.I.P. è il suo libro d’esordio.
www.zero91.com€ 10,00
Sinceramente, non credo di essere mai stato il tipo adatto per una ragazza immagine.Molto banalmente non bevo, non fumo, non ho un’auto di grossa cilindrata (anzi non l’ho proprio auto), non mi vesto alla moda, non curo il mio look, ho la forfora e quasi me ne vanto.Insomma, piccoli dettagli che una ragazza immagine sa cogliere.Soprattutto la forfora