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di PAOLO SPERANZA

di mille chilometri, fino a trovare lavorocome “annuale” in una fabbrica di cucinea gas. Meglio di niente, finalmente un sala-rio sicuro, ma a prezzo della solitudine… Tre anni. Tanto bisognava aspettare perpotersi ricongiungere con la famiglia. MaNigro, come tanti altri, non riuscì a resi-stere. Dopo meno di due anni, nel gennaiodel ’63, si fece raggiun-gere dalla moglie e daifigli. E la sua storia finìsui giornali…Fu “Vie nuove”, diffusorotocalco vicino al Pci,a raccontare la vicendadi Francesco Nigro e lecondizioni dei nostriemigranti, chiamandoin causa il governo sviz-zero ma anche quelloitaliano, che abbando-nava al proprio destinoi connazionali (quasitutti del Sud) costretti a cercare lavoronella Svizzera, in Belgio, in Germania. Ilservizio di copertina del 23 gennaio del’64, a firma di Giovanni Cesareo, aveva untitolo ad effetto (Bambini banditi) ma pur-troppo calzante: nella ricca e “civilissima”Svizzera i figli dei lavoratori stranierierano considerati, e trattati, come clande-stini indesiderati.Il settimanale comunista fu il più attento,

in quegli anni, sui temi dell’emigrazione.Di lì a poco su “Vie nuove” sarebberocomparsi i primi, choccanti reportage sul-l ’emigrazione interna, soprattutto aTorino, con le inchieste di Saverio Vertonee Diego Novelli, che nel decennio succes-sivo, prima di diventare sindaco del capo-luogo piemontese, avrebbe scritto con

Ettore Scola la sceneg-giatura del film Trevico-Torino (1973). L’articolodi Cesareo uscì neglistessi giorni in cui “LaTribune de Genève”annunciava trionfalmen-te Grande successo dellasottoscrizione a favoredegli animali e si chiede-va, polemicamente,come fosse concepibileche nel Paese dellaCroce Rossa i bambinivenissero trattati come

banditi. Dalle lettere alla redazione, inve-ce, traboccava – dietro il perbenismo difacciata – un diffuso sentimento didisprezzo e xenofobia, che influenzavaanche i comportamenti della polizia: “E’drammatica già la situazione dei clande-stini, i quali – scrive Cesareo - vivono nelterrore permanente di essere scoperti (edè già una fortuna, in fondo: perché quan-do di questo terrore non soffrono, a causa

della loro ignoranza delle leggi, finisconoper consegnarsi nelle mani della polizia(…)”. La storia di Francesco Nigro, secondo ilgiornalista e sociologo palermitano, erauno degli esempi più clamorosi dell’atteg-giamento di “pura crudeltà burocratica”delle autorità locali nei confronti degli ita-liani. Ecco, in sintesi, la sua odissea:“Per quasi un anno, la donna e i bambinivissero clandestini, di baracca in baracca.Finalmente, ottenuto un “appartamento”nel villaggio di Carouge (il baraccamentomeglio organizzato del cantone diGinevra), Francesco pensò di mandare lamoglie a lavorare e chiese il permesso disoggiorno per tutta la famiglia, credendoche il fatto di avere una casa di due stan-ze e un lavoro fisso anche per la mogliegli desse il diritto di tenere i bambini.Dopo un mese gli giunse il decreto diespulsione, non solo per i bimbi maanche per la moglie. Francesco ricorse,ma non ci fu nulla da fare: la polizia andòalla fabbrica della moglie, ingiungendo alpadrone di licenziare la donna. Poi giunseuna minaccia di ritiro del passaporto: intutta fretta, non avendo i soldi per siste-mare i figli in un collegio in Francia,Francesco fu costretto a rimandaremoglie e figli al paese. I quattro sono par-titi quindici giorni fa”. Una scelta disumana ed assurda: appenatre mesi dopo, l’operaio avellinese avreb-be compiuto i suoi tre anni di soggiorno,potendo così far riunire la sua famiglia inpieno diritto. Perché, dunque, un’espul-sione così traumatica? Un interrogativoche appare ancora aperto ed attuale,nell’Italia “avanzata” di oggi, dalle “solideradici cristiane”, che affonda le navi deipoveri cristi e rinnega la sua storia diterra migrante.

hissà che cosa hannopensato Francesco Nigroe tanti suoi compagni dilavoro la prima volta chehanno visto il villaggio diCarouge, vicino Ginevra. Oddio, villaggio…un

baraccamento ben organizzato, ecco. Unodei migliori nella Svizzera degli anni ’60,nuova ”terra promessa” per milioni dilavoratori stranieri provenientidall’Europa del Sud: Grecia, Turchia,Spagna, Italia. Chi vi otteneva un alloggio,beninteso, poteva considerarsi un privile-giato: risparmiava un bel po’ di soldi (e diangherie) rispetto a chi viveva in unappartamento, e ancor più rispetto a tantiitaliani che si erano adattati a sopravvive-re in casette che somigliavano a un pol-laio, come in una celebre scena di Pane ecioccolata (1972), di Franco Brusati, conNino Manfredi, uno dei film più belli eincisivi sull’emigrazione italiana.Eppure Francesco e i suoi amici non devo-no aver provato una sensazione di appa-gamento alla vista di quei nuovi “apparta-menti”. Quelle baracche, non erano lestesse in cui avevano abitato per decennii loro padri, nei paesi devastati dal terre-moto del Vulture, nel 1930? E non somi-gliavano a quelle dell’area colpita da unaltro e più recente sisma, nel ’62? Era perquesto, per una baracca migliore, cheerano venuti fin là dall’Irpinia? E poi, acosa serviva aver conseguito quel “tra-guardo” se la baracca, pardon, la casa,era fredda e vuota senza il calore dellafamiglia?Francesco Nigro, emigrato in Svizzera daun paese dell’Irpinia, non riusciva a resi-stere lontano dalla moglie e dai tre figlio-letti. Era per loro che aveva percorso più

L’analisi

Siamo tuttistranieri

Toni Ricciardia pagine II

Il nuovo esodo

I giovaniin fuga

Manuela Concordiaa pagina III

Il bicentenario

Parzanesee Muscetta

Paolo Saggesealle pagina VI e VII

OttostorieCultura, personaggi e miti dell’Irpinia

Inserto domenicale di Ottopagine DOMENICA, 8 NOVEMBRE 2009

Gli irpini in Svizzera

Bambini banditi, era il titolo di un articolo apparsosul settimanale “Vie Nuove” negli anni ‘50.Racconta la storia di un irpino, Francesco Nigro,emigrato come tanti della provincia in Svizzera. E della sua odissea. Aveva tre figli, era riuscito a riunirsi a loro. I piccoli avevano vissuto per un anno da clandestini e pochi giorni prima della regolarizzazione sono stati espulsi. Vi ricorda qualcosa?

Quando eravamoclandestiniCos

os

“”

La storia di Nigro é uno degli esempi più clamorosi della crudeltà burocratica nei confronti degli italiani

Numero 2

A destra Francesco Nigro. Dopo un anno da clandestini isuoi figli sono dovuti tornare in tutta fretta in Italia. Sopra il vilaggio di baracche a Carouge, sobborgo diGinevra, dove vivevano i lavoratori italiani

approfittare dei miei beni o magarianche portarmeli via.Ma anche qui, c’è straniero e stranie-ro! Pare infatti che ci siano vari gradinella scala della “stranierità”, unasorta di tavolozza dei colori. Più lostraniero mi somiglia, meno è sospet-to.

iviamo in un’epocain cui lo straniero èdiventato un’osses-sione: “Abbiatetimore di lasciar

morire lo straniero in povertà: lostraniero che supplica è inviatodagli dei” ci avverte il poeta AndréChénier vissuto all’epoca della rivo-luzione francese (1762-1794). Unsecolo dopo, Maurice Barrès, espo-nente della destra storica francesce,(1861-1923) dichiara che “lo stranie-ro, come un parassita, ci avvelena”.Percepito come un pericolo per lacoesione della comunità che loaccoglie, lo straniero è sempre statosospettato di portare con sé gliingredienti per far saltare in aria l’i-dentità del paese in cui sbarca. Saràsempre malvisto e mal consideratoin ogni epoca e paese.Scrive Primo Levi in “Se questo è unuomo” che la convinzione che lostraniero è nemico “giace in fondoagli animi come un’infezione laten-te”. Siamo prevenuti. Lo straniero èuna figura che preoccupa, più cherassicurare. E questo da sempre.Verrebbe da pensare che con l’evo-luzione delle società, con il progres-so della comunicazione, lo stranierodebba essere accettato più facilmen-te. Macché! La paura, la vecchiapaura dei tempi della “guerra delfuoco” è ancora qui, ad accompa-gnarci e a osservarci. Potrebbe spa-rire se considerassimo che non esi-ste uno straniero assoluto, poichésiamo sempre stranieri rispetto aglialtri come loro sono stranieri rispet-to a noi. Non esiste una terra in cuinascano soltanto stranieri. È impos-sibile. Lo straniero è un cittadinoche si muove. Tutto dipende dallemotivazioni. Potrebbe venire da meper prendere la mia casa comepotrebbe intervenire per salvarmi sevengo attaccato o se stessi in peri-colo. Ma l’idea più diffusa è quelladell’invasore, quello che vorrebbe

Prova ne è che per molti decenni italia-ni, spagnoli e portoghesi sono emigratiin tutta Europa, ma soprattutto inFrancia, dove si sono notate dellepeculiarità significative, utili al quadrodel nostro ragionamento.

Di fatto, appartenere alla stessasfera della civiltà giudaico-cristianali ha aiutati a integrarsi e a passarequasi inosservati. Con gli africani egli arabi è un’altra faccenda. Con imusulmani, un’altra storia.L’integrazione non funziona più. Ilrazzismo è quasi istituzionale.L’immigrato è improvvisamentemalvisto. Non si cercherà di farvalere le sue qualità, i suoi contribu-ti, il suo lato positivo: si vedrà sol-tanto quello che disturba, quelloche dà fastidio e che allontana gliuni dagli altri. La sua religione èstigmatizzata. Le sue tradizionisono presentate come strane e bar-bare. Si fanno pochi sforzi per elimi-nare le distanze, le riserve e ilsospetto. Si troverà sempre un indi-viduo – venuto da fuori – per com-mettere un crimine spaventoso, unatto brutale che susciterà una gene-ralizzazione; si passerà da un attoisolato a un’azione collettiva e sidirà “i gitani sono tutti ladri e assas-sini”, oppure, diciamo “i romenisono tutti assassini e stupratori”.Proprio come, dopo la SecondaGuerra mondiale, dopo quanto eraaccaduto a Montecassino, ci fu rac-contato che i marocchini erano vio-lenti stupratori di donne. La gente sicostruisce, per rassicurarsi, imma-gini che mettono gli “altri” in cate-gorie caricaturali. È quello che stasuccedendo adesso in Europa. Unosquilibrato musulmano fanatico,che qualche anno fa, ha assassinatoun cineasta olandese ad Amsterdame il ministro dell’interno dei PaesiBassi ha cambiato la politica del-l’immigrazione mettendo in atto unaserie di dure restrizioni. Il male èstato fatto e tutta la comunità immi-grata deve pagare. Un proverbioarabo dice “un solo pesce guasto famarcire tutta la cassa”. Il concettodi ospitalità è cambiato. La parolagreca xenos rimanda a un patto pre-liminare, la xenia, che impegnava lacittà nei confronti degli stranieri.

L’Europa non rifiuta questo pattoma vi aggiunge condizioni e restri-zioni. Per una volta affrontiamo laquestione in Italia, specularmenterispetto ad altri paesi europei, traquesti, la Francia denota alcunesimilitudini ed alcune disparità cheandrebbero evitate nel nostropaese.Di fatto, negli ultimi anni, nuovapolitica di Nicolas Sarkozy in mate-ria d’immigrazione si è indurita: perimmigrare in Francia bisogna cono-scere la lingua francese; per riunirela propria famiglia, occorre dimo-strare con prove del Dna che i bam-bini sono effettivamente figli propri,ect. L’ospitalità ha le sue leggi e lostraniero che viene accolto ha deidoveri. Va da sé. Ma che fare quan-do lo straniero non è più una perso-na venuta da fuori ma chi è nato evive in Europa? Guardiamoci attor-no: quel giovane che parla italiano,dall’aspetto meticcio, nato aTorino, Napoli o magari ad Avellinoda genitori marocchini/senegalesi operuviani, è un cittadino italiano oè uno straniero, un immigrato?È esattamente il dramma che hadovuto affrontare la Francia con ifigli di immigrati, che non sono aloro volta immigrati perché nonhanno fatto “il viaggio”. Sono nati inFrancia, sono francesi ma portanonomi arabi e hanno la pelle un po’più scura dei normanni. Quandoquesti francesi di “seconda catego-ria” si sono rivoltati, nell’ottobre2005 (ricordiamo tutti le Banlieue),sono stati trattati come stranieri.Alcuni esponenti della destra fran-cese, chiesero che venissero “rispe-diti al loro paese”! I loro genitorisono stranieri, ma loro erano esono cittadini europei. Questo nonimpedì che fossero visti come stra-nieri, invasori, “barbari”. Nell’anticaGrecia era considerato barbaro chinon parlava la lingua della città. InFrancia, come d’altronde nel nostropaese, si nega a milioni di giovanil’appartenenza al panorama umanofrancese/italiano e la loro linguanon è considerata del tutto pura.L’epoca in cui viviamo, con le sueguerre e i suoi conflitti, favoriscegrandi spostamenti umani. Semprepiù persone (è di giovedì 5 novem-bre 2009 la notizia, trapelatadall’Ansa, che sono pronti più di700 milioni di africani a sbarcare inEuropa) fuggono le guerre e cerca-no di trovare una terra d’asilo. Lastoria dell’umanità è fatta di questeibridazioni.La mescolanza degli individui è ine-vitabile. Fino a poco tempo fa, laFrancia era il paese d’Europa cheaccoglieva il maggior numero di esi-liati ed esuli, come i nostri antifasci-sti. Ma i tempi cambiano.Sappiate che siamo sempre lo stra-niero dell’altro. Tutto dipende dadove ci si trova, quello che si fa eperché ci si è spostati. Un turistache viene a spendere il suo denaroè certo percepito come straniero,

per evitare gli errori francesi

osDomenica 8 novembre 2009II

NOIe gli altri

«Non esiste una terra in cui nascanosoltanto stranieri. E’ impossibile. Lostraniero è un cittadino che si muove»

«La paura dell’altro, la fissazione che sia una minaccia per la sicurezza

sono sensazioni irrazionali»

OttostorieCultura, personaggi e miti dell’Irpinia

Inserto domenicale di Ottopagine

di TONI RICCIARDIos

ma come una presenza positivaperché il suo soggiorno è limitato.Lo straniero che fa paura è quelloche viene a insediarsi, per rifarsiuna vita; spesso è povero e dispera-to. La povertà non è fotogenica. Maquell’uomo disperato potreste esse-re voi o potrei essere io. Nondimentichiamo mai che il destinonon è un fiume tranquillo né unaserata estiva con gli amici. Il desti-no è misterioso. Non si sa mai checosa ci riserva. La paura dell’altro,la fissazione che lo straniero siauna minaccia per la mia sicurezza,sono sensazioni irrazionali cheappartengono all’istinto animale.Siamo uomini: facciamo qualcosaper espellere dai nostri cuori questiistinti primordiali e nocivi! Perchéun giorno o l’altro, saremo noi a tro-varci sull’altro versante di questapaura e di questa esclusione, per-ché saremo diventati stranieri.

Siamo tuttiSTRANIERI

os

“”

L’idea più diffusa è quella dell’invasore, quello che

vorrebbe approfittare dei miei beni e magari portarmeli via

os

“”

Quell’uomo disperato potresteessere voi, potrei essere io. Non

dimentichiamo mai che il destino non è un fiume tranquillo

V

vo: trovare altrove quello che la pro-pria terra d’origine non può dare.Sono i giovani fra i 20 e i 35 anni chemaggiormente lasciano la nostraprovincia; a questo proposito, unindicatore utile è costituito dalladiminuzione di laureati negli ateneimeridionali. A parte qualche rara

uando lo spirito deigiovani si raffredda,tutta l’umanità batte identi; con questo afo-risma il celebre scrit-

tore francese Georges Bernanosinvitava a meditare su una realtà,quella dei giovani, che va contrap-ponendosi tra invisibilità e protago-nismo. Rispetto alle generazioniprecedenti, i giovani d’oggi sonoavvantaggiati sul piano materiale esociale ma il loro percorso dicostruzione di un’identità persona-le e sociale stabile è diventato piùfaticoso e problematico. Si nascenon solo in una famiglia, ma anchein un luogo: eppure l’appartenenzaterritoriale sembra essere diventatala più problematica. La nostra pro-vincia e così tutto il Mezzogiorno,nonostante tanti mutamenti, lasconfitta della miseria e la rotturadell’isolamento, non riesce ancoraa imboccare la via dello sviluppo. Inquesto senso c’è sempre da chie-dersi quanta parte delle difficoltàmeridionali provenga dalla storia,dalla qualità delle istituzioni, dagliambienti locali, dalla mentalitàcomune, da fattori che derivano dauna vicenda antropologica e cultu-rale trascurata in questi ultimidecenni; una vicenda che fa deglienti regionali o della stessa indu-strializzazione, nel sud Italia, istitu-zioni o processi molto diversi daquelli realizzatisi nel resto d’Italia.Non possiamo parlare di sottosvi-luppo ma di un non-ancora svilup-po che genera flussi migratori cosìcome li generava agli inizi deglianni ’50. L’ultimo rapporto dellaSvimez (Associazione per lo svilup-po dell’industria nel Mezzogiorno)denuncia un sud Italia sempre piùpovero, da cui i giovani continuanoa fuggire. Scoraggiati e con la vali-gia in mano, non sono gli stessi gio-vani disperati e malinconici mahanno in comune lo stesso obietti-

eccezione gli atenei meridionali sonooggetto di fuga da parte degli studentiche vanno alla ricerca del pezzo dicarta che vale di più. Gli atenei cam-pani sono i primi generatori di fuga dicervelli; in Irpinia assistiamo ad una

emigrazione giovanile di tipo intel-lettuale; i “migliori” sono condan-nati alla fuga per ottenere ed eser-citare una professione adeguataalle proprie aspettative. Non si trat-ta più, o meglio non solo, di unamanovalanza generica come acca-deva nel passato, sono i giovanidella potenziale classe dirigentemeridionale che fuggono dalla loroterra d’origine dopo averne utiliz-zato le risorse per qualificarsi.Sappiamo tutti che le regioni meri-dionali sono meno sviluppate esappiamo tutti che lo sviluppo èlegato in particolare a quelle atti-vità economiche legate alla cono-scenza, quindi se il sud, e di conse-guenza l’Irpinia, subisce una talesituazione è possibile che in futuronon riesca a svilupparsi proprioper la mancanza di personale ade-guatamente qualificato. Il lavoro,problema ormai cronico. La nostraprovincia fa molta fatica ad assor-bire nuova occupazione e si vivecosì nella società della precarietà.L’incertezza lavorativa è uno deiprincipali ostacoli al progettare eprefigurare il proprio futuro daparte di moltissimi giovani. L’attomigratorio sottende spesso dellemotivazioni e delle aspettativemolto forti la cui valutazione giusti-fica pienamente il doloroso, onero-so e molte volte tragico abbandonodella propria terra d’origine e deipropri cari. Negli ultimi anni, l’eco-nomia meridionale, ha nuovamentefatto segnare tassi di crescita infe-riori rispetto a quelli del centro-nord. Bisogna considerare cheanche a livello nazionale l’econo-mia del nostro Paese non sta attra-versando in questo periodo unafase di grande sviluppo; se però sipuò sostenere che l’economianazionale è ferma, quella delMezzogiorno mostra addiritturaevidenti e preoccupanti segni direcessione. L’economia meridiona-le risente particolarmente del fatto

Giovani in FUGAle ragioni del nuovo esodo

os Domenica 8 novembre 2009 III

LA NUOVAEMIGRAZIONE

«Sono soprattutto i giovani fra i venti e i trentacinque anni che lasciano la nostra provincia in cerca di lavoro»

«Gli atenei campani sono i primi generatori di fuga: in Irpinia

c’è una emigrazione intellettuale»

OttostorieCultura, personaggi e miti dell’Irpinia

Inserto domenicale di Ottopagine

di MANUELA CONCORDIAos

os

nuisce quello di natalità perché lanostra società non garantisce, allostato attuale, ai giovani, la possibi-lità di una vita fatta di certezze.Esiste un divario tra il Nord e ilSud del Paese destinato a persiste-re se non si interviene con politi-che strutturali; un intervento pub-blico, quindi, che operi a sostegnodell’economia merdionale. Unasituazione al limite del collasso,che non lascia spazio a sogni esperanze. Non c’è più la valigia dicartone, ma si parte con tanto ditrolley al seguito in fuga da unaterra d’origine che inizia a starstretta agli adulti figuriamoci aigiovani. I giovani sono consideratiil futuro della nostra società, madevono essere soprattutto il pre-sente e che siano un soggetto civi-co e sociale attivo nella loro terrad’origine e non pendolari a “lungoraggio” che ritornano di tanto intanto forse solo per non dimentica-re le proprie origini.

di essere stata colta dalla crisi inuna fase di particolare fragilità,mentre si stavano avviando pro-cessi di aggiustamento sia dal latodelle imprese che del bilancio pub-blico. Per invertire la rotta occorre-rebbe uno shock esterno alla loca-le economia; investimenti e nonpolitiche assistenziali. Il sud sispopola sia perché aumenta iltasso migratorio sia perché dimi-

IrpiniaPERCENTUALE DELLE ISCRIZIONI ANAGRAFICHE

DAL 2004 AL 2009FASCIA DI ETÀ 20 - 35 ANNI

23,00%

22,50%

22.00%

21,50%

21,00%

20,50%

“”

Per invertire la rotta servirebbeuno schock esterno alla locale

economia: investimenti e non politiche assistenziali

os

“”

L’ultimo rapporto Svimez denuncia un Sud sempre più povero da cui i giovani hanno ripreso a fuggire

Q

Del resto, i tempi sono maturi. Lacritica accademica ormai da alcu-ni decenni ha mostrato un mag-giore interesse e ha compiuto unparziale “mea culpa” rispetto aduna riduzione di Parzanese apoeta del villaggio e a poeta rea-zionario, definizioni che il poetadi Ariano non meritava assoluta-mente.In questa storia della fortuna edella sfortuna critica di Parzaneseun ruolo non secondario è statorecitato dall ’avell inese CarloMuscetta, che come l’altro irpino,De Sanctis, volle occuparsi, seb-bene non in modo sistematico, diquesto poeta del popolo in unbreve saggio del 1948 edito in“Letteratura militante” (Parentieditore, Firenze, 1953) e poi ripro-posto trentacinque anni dopo in“La poesia ital iana”, Vol. I I(Barocci editore, Roma, 1988).Il saggio, di per sé, è uno degliesempi “classici” della produzio-ne militante di Muscetta, in cuil’analisi rigorosa dell’autore simescola in un tutt’uno con riferi-menti polemici al dibattito politi-co-culturale contemporaneo.Subito, Muscetta, con un piglioironico che anche è tipico dellasua scrittura, rileva il paradossodella straordinaria fama delParzanese, i cui versi popolariavevano accompagnato, nell’ulti-mo secolo, la vita di tanti bambinidelle scuole “primarie” italiane,come testimoniano i ricordi digiovinezza evocati da FrancescoJovine, dallo stesso Muscetta, daGramsci o Croce. La fama delpoeta è assolutamente immotiva-ta per “questa ‘poesia’ - scriveMuscetta virgolettando la parolapoesia -, i cui valori estetici sonotenuissimi e quasi inesistenti”.Più interessante dell’aspetto este-tico - osserva Muscetta - è l’uso

P a r z a n e s epoeta conser-vatore e rivolu-zionarionell’esegesi diMuscetta e diMolinario

Paolo Saggese

Indubbiamente,con le quattrogiornate di stu-dio e di ricordo

dedicate a Pietro Paolo Parzanesee che si chiudono oggi, la Diocesidi Ariano Irpino - Lacedonia,insieme alla Provincia di Avellinoe all’Amministrazione comunaledi Ariano, ha ricordato degna-mente il grande poeta romanticoin occasione del bicentenariodella nascita.

sociale che di questa poesia siera fatto in Italia nell ’ultimosecolo, e che era stato già intui-to da Benedetto Croce. Infatti,Muscetta, pur riconoscendo le“buone intenzioni liberaleggian-ti”, che avevano ispirato il poetadurante il ’48, pur riconoscendoanche la rivolta morale e cultu-

Certamente, la ri f lessione diMuscetta va contestualizzata.Siamo nel 1948, quando il frontedele sinistre era contrapposto aquello democristiano e moderato;quindi, nella posizione ritenutatroppo cauta di Parzanese il criti-co riconosceva quella di molti ita-liani, che egli voleva stigmatizza-re. In tal modo, pur ammettendoalcune qualità dell’intellettuale,Muscetta si precludeva una cor-retta interpretazione diParzanese, collocandolo nel pano-rama culturale del Meridionenella prima metà dell’Ottocento.Una visione completamente diver-sa del poeta è offerta alcuni annidopo da Felice Molinario, nel suosaggio “La rivoluzione proletariadi Pietro Paolo Parzanese” (EIL -Editrice Italia Letteraria - Milano,1976). In questo saggio brillante, ametà strada tra riflessione stori-co-antropologica, critica letterariae analisi teologica anche sullacontemporaneità, con riferimenti

a Turoldo e Balducci, Fel iceMolinario af fronta tematichemolto varie, ma pone anche alcu-ni punti di discussione che rap-presentano un passo in avanti eun contributo alla chiarezza sullostudio sul Parzanese.Il Molinario, in particolare, tende

osDomenica 8 novembre 2009VIPersonaggi

«In questa storia della fortuna o sfortuna critica di Parzanese un ruolo di primo piano spetta a Muscetta»

«Molinario mette in evidenza il carattere vero dell’umanitarismo

parzanesiano nei confronti degli umili»

di PAOLO SAGGESEos

Il conservatorerivoluzionario

Parzanese

Certo, questo non basta, perchél’attenzione nei confronti del“buon canonico” - tale la defini-zione di Benedetto Croce - non sideve fermare al 2009, altrimentisi tratterebbe di semplice cele-brazione occasionale. È quindi unbuon inizio, ovvero solo l’iniziodi un percorso che dovrà portareal pieno inserimento di Parzanesenel Parnaso letterario italiano.

OttostorieCultura, personaggi e miti dell’Irpinia

Inserto domenicale di Ottopagine

os

“”

L’attenzione verso il “buon canonico” non si deve fermare

al 2009, altrimenti si tratterebbe di semplice celebrazione

os

“”

Molinario pone punti di discus-sione che rappresentano un

passo avanti per fare chiarezzasullo studio di Parzanese

os

“”

Muscetta pur riconoscendo unfondo di sincero umanitarismo

vedeva nella sua opera uno strumento della conservazione

rale del Parzanese di fronte aldegrado del clero di Ariano (la“canaglia petresca”), pur ricono-scendo “un fondo di sincero uma-nitarismo, che lo inclinava a uncaritatevole interesse per la‘disgregazione sociale’ delMezzogiorno”, vedeva nella suaopera uno strumento della conser-vazione. Infatti, lo scetticismo neiconfronti dei moti rivoluzionari,l’avversione verso qualsiasi formadi lotta di classe, verso “questicorrompitori delle menti, i quali sistudiano solamente di voler ricon-durre il mondo all’antica barbarie,attentando alla Religione, al lafamiglia e alla proprietà”, l’accet-tazione della realtà e l’attesa diuna giustizia ultraterrena rendeva-no questa poesia “oppiacea, con-solatrice di una servitù dell’anima,per sempre avvilita dalla violenzae ridotta a sperare luce di libertànell’oltretomba”.

By M

ancio

nel bicentenario della nascita

da Muscetta a Molinario

a mettere in evidenza non solo ilcarattere vero dell’umanitarismoparzanesiano nei confronti degliumili, la sua diversità rispetto alla“canaglia petresca” contempora-nea, e quindi il carattere profeti-co, in senso cristiano, della suavocazione poetica e della ragionestessa del suo fare poesia, masoprattutto egli sostiene che ilParzanese, attraverso la sua poe-tica degli umili, “si sente uno delpopolo, riporta il pensiero e imodi di pensare del popolo”.“Ma la gaffe più grave”, continuail Molinario, la si commette quan-

le, del semplice. Un Dio veracedunque: un Dio dal volto umano”.E sottolinea anche un altro carat-tere partigiano del poeta, quellodi essere sempre dalla parte deipoveri.Del resto, a proposito del ricco,Parzanese ha scritto: “Il loco sde-gnando, che il ciel gli avea dato, /Vendette la santa ricchezza delcore: / In altro mutando suo pove-ro stato, / Più Dio non conobbe,non ebbe più onore. / Che spinaha nel cor!”Dunque, e concludendo, purdivergendo in un punto fonda-mentale, dal momento cheMuscetta considera la poesia diParzanese “oppiacea”, mentreMolinario la considera “rivoluzio-naria”, entrambi convergono nelritenere Parzanese poeta delpopolo, poeta degli umili, poetache riscoprì un mondo e un mododi concepire la vita, che la culturaufficiale aveva sempre disprezza-to. E già questo basta per mostra-re un dato ormai incontrovertibi-le, che Pietro Paolo Parzanese fuun poeta sincero, un uomo liberoe giusto.

Muscetta: «A questo pioterrore

per il risveglio el proletariato, nel cuore

del Parzanesesi mescolava un fondo

di sincero umanitarismo,che lo inclinava

a un caritatevole interesse per la

‘disgregazione sociale’del Mezzogiorno. E proprio questo

suo sentimentalismo, equesta sua ingenuità

facevano dei suoi versi‘popolari’ un efficace

strumento di conservazione.Pure, se andiamo

a leggere le sue memorie, scritte con una

prosa d’insospettata,vigorosa classicità

(non per nulla egli fu uneloquente panegirista)

osserveremo come questa sua indole

mansueta recasse il sigillo di una sconfitta»

os Domenica 8 novembre 2009 VIIPersonaggi

«Per il poeta Dio é il Dio dei poveri e ai poveri Egli ha consegnato unapromessa di liberazione»

«Pur divergendo in un punto fondamentale Muscetta e Molinario

ritengono Parzanese poeta del popolo»

di CARLO MUSCETTAos

Il saggio di Muscettasul “buon canonico”

Ad Ariano il convegno“Giornate Parzanesiane»

Un saggio significativo nella storia dell’interpretazionemarxista di Pietro Paolo Parzanese è offerto dall’avelli-nese Carlo Muscetta, che, nel 1948, in un breve saggiodal titolo “Il ‘buon canonico’ Parzanese” (edito per laprima volta in “Letteratura militante”, Parenti editore,Firenze, 1953) delinea alcuni aspetti rilevanti della“poesia” e dell’ideologia del poeta di Ariano. Qui di seguito se ne offre un ampio stralcio:

“Una volta ebbi modo di ricordare un’osservazione, chein Italia si è letto più ‘Bertoldo’ che la ‘Bibbia’. C’è daaggiungere, e l’affermazione sembrerà ancor più peren-toria e scandalosa, ma io la credo fondatissima, che,da cent’anni a questa parte, i versi di Pietro PaoloParzanese sono stati letti o recitati da più italiani chenon la ‘Divina Commedia’ del famoso Dante Alighieri.Fate un po’ il conto, quanti milioni di bambini sia nellescuole primarie che in quelle ‘d’intrattenimento’ hannoripetuto le cullanti poesiole del canonico di ArianoIrpino. Ve ne ha parlato in certi suoi ricordi FrancescoJovine. E vorrei dire a mia volta come una trentina dianni fa, oltre a leggerle io, ne sentivo cantare da miasorella, e ho ancora nell’orecchio la musica fioca e unpo’ strascicata: ‘Sei povero, non semini e non mieti …’.Ma si potrebbero citare più illustri testimonianze, daCroce a Gramsci, il quale in una lettera amò ricordarealla madre come a cinque anni l’ammirasse per la suaabilità nell’‘imitare il rullo del tamburo quando declama-va: Rataplan’, ossia ‘Il vecchio sergente’. Popolarissimotra i ‘Canti del povero’ esso infatti appartiene alle piùgraziose immagini del piccolo mondo poetico ritratto dalParzanese con quella sua maniera intenerita e compas-sionevole, che tanto piacque al De Sanctis, da fargliparlare, per affettuosa generosità, di ‘poesia del villag-gio’. Naturalmente non c’è bisogno qui di restringerel’ovvio confine di questa ‘poesia’, i cui valori esteticisono tenuissimi e quasi inesistenti. Importa invececomprendere la funzione sociale che questa ‘poesia’ haavuto nel conformare vastissimi ceti del popolo allavolontà conservatrice della classe dominante. In questosenso va intesa la lode di Benedetto Croce, che tantoscalpore sollevò negli ambienti di preziosa letteratura,allorché, in polemica con gli ‘affezionati’ del Pascoli,disse che per ‘certi usi’ meglio del poeta romagnolovaleva la ‘poesia pratica’ del ‘buon canonico’Parzanese.Gli ‘usi’ di cui parlava il buon maestro idealista eranoesattamente quelli di cui si erano avvalsi da tempo ilCantù, il Tommaseo, ed altri compilatori di opere desti-

nate alla ‘educazione’ popolare. Usi del resto conformialle intenzioni del Parzanese e dichiarati onestamentenelle prefazioni delle sue più divulgate raccolte. A diffe-renza del Pascoli, nel buon canonico irpino erano affattoinesistenti certe irrequietezze pessimistiche, certi cupi etorbidi accenti di protesta o addirittura di rivolta allasocietà borghese. Chiaro, ben intonato e senza squilibri(come si compiaceva di notare il Croce) non solo nelgusto letterario, ma nella concezione della vita sociale,Parzanese esaltava indirettamente l’ordine costituito,allorché concludeva che ‘tutti portan la croce quaggiù’ ei poveri si devono docilmente rassegnare alla volontà diDio (come viene chiamata con ipocrita unzione lavolontà paternalistica della classe dominante). Eppure ilParzanese aveva spinto le sue buone intenzioni libera-leggianti, nel ’48, fino a sognar la repubblica; ma poiaveva ripiegato ad uno stato d’animo indifeso e prono;e nel ’51 non esitò a cantare un inno dal titolo ‘Gli ope-rai’, dove si leggono versi come questi:Fatichiamo! Ci tradisce chi ci chiama alla rapina,chi c’infiamma e invelenisceal tumulto e alla rovina,promettendo un’altra età,senza stenti e povertà.Dio ci fece quel che siamo:fatichiamo, fatichiamo!

Il buon canonico irpino era preoccupato che nel ’48 inGermania e in Francia la poesia rivoluzionaria avesseacceso ‘nei travagliati petti fiere passioni, che subitorompono in fiamma’. E perciò aveva voluto scrivere lesue poesie per ‘preservare le nostre plebi dal contagiodi coteste canzoni’. Era convintissimo di essere un apo-litico.[…]A questo pio terrore per il risveglio del proletariato, nelcuore del Parzanese si mescolava un fondo di sinceroumanitarismo, che lo inclinava a un caritatevole interes-se per la ‘disgregazione sociale’ del Mezzogiorno. E pro-prio questo suo sentimentalismo, e questa sua inge-nuità facevano dei suoi versi ‘popolari’ un efficace stru-mento di conservazione.Pure, se andiamo a leggere le sue memorie, scritte conuna prosa d’insospettata, vigorosa classicità (non pernulla egli fu un eloquente panegirista) osserveremocome questa sua indole mansueta recasse il sigillo diuna sconfitta: quei suoi canti di arrendevole mestiziaerano sorti dalla rassegnazione di una ‘mente chiara’ edi un ‘cuore dolce’, costretti a subire la tremenda roz-zezza di un ambiente e di una educazione triviale …”.

Sono iniziate giovedì scorso le “Giornate Parzenasiane”, dedicatealla celebrazione del bicentenario della nascita di Pietro PaoloParzanese. La manifestazione è stata organizzata dalla Diocesi diAriano - Lacedonia con il patrocinio di diversi enti, tra i quali ilcomune di Ariano Irpino. Un evento che è stato riteuto fondamentaleper ricordare l’illustre arianese.Ieri, alle 16,30, dibattito sul tema “Parzanese e la fede tragica”. Hamoderato i lavori la gornalista Donatella Trotta. Sono intervenutiCarmelo Dotolo, ordinario di teologia fondamentale presso laPontifica Università Gregoriana su “ ‘Colpevole è la sapienza chenon si diffonde…’: Teologia ed educazione in P.P.Parzanese” ; poiPasquale Giustiniani, ordinario di filosofia teoretica presso laPontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale su “Istanze filoso-fico - teoriche della produzione del Parzanese”; a seguire le comuni-cazioni di Michele Farisco: “Il retroterra filosofico del Parzanese”;Antonio D’Antuono : “Il Parzanese narratore”; Massimiliano Palinuro“L’omiletica del Parzanese”.Le celebrazioni si concludono oggi alle 19,30 nella BasilicaCattedrale con il Concerto di musiche popolari del XIX secolo suversi del Parzanese; il recupero e l’esecuzione sono ad operadell’Accademia musicale “G. Bellipanni”. Il concerto sarà a curadell’Associazione Circoli Culturali “P. Ciccone” con il patrocinio delComune di Ariano.

che il poeta “ha conclamato cheDio è il Dio dei poveri, e che aipoveri Egli ha consegnato unapromessa di liberazione che siconcretizza quotidianamenteall ’ insegna della Croce. Non acaso I Canti del povero inizianocon la poesia Dio. Un Dio vistocon gli occhi del povero, dell’umi-

OttostorieCultura, personaggi e miti dell’Irpinia

Inserto domenicale di Ottopagine

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La gaffe più grave la si commette quando si parla

dei contenuti oppiacei della poesia del Parzanese

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Non a caso I Canti del povero iniziano con

la poesia di Dio. Un Dio visto con gli occhi del povero

do si parla “dei contenuti oppia-cei della poesia del Parzanese”.Al contrario, lo studioso ritieneche il poeta, “per il fatto stessoche veniva elaborando una poeti-ca religiosa dal volto umano, inrealtà operava una rivoluzioneproletaria, molto più incisiva epositiva che non quella dei car-bonari risorgimentali”. Su questo punto, Molinario esa-gerava, in particolare nell’evoca-zione di una “rivoluzione proleta-ria” del Parzanese, tuttavia avevapienamente ragione nel sostenere

Fatichiamo! Ci tradisce chi ci chiama alla rapina,

chi c’infiamma e invelenisceal tumulto e alla rovina,

promettendo un’altra età,senza stenti e povertà.

Dio ci fece quel che siamo:fatichiamo, fatichiamo!

luogo di storia e cultura, stravolto dallaguerra. Avvalendosi delle musiche com-poste, proprio per la pièce, da MauroPagani, degli ammalianti suoni del sitar edello oud, di danze, canti, Scaparro è riu-scito a costruire uno spettacolo ricco dispunti, ammaliante, emozionante.Nell'economia del racconto si fondonoparola, musica e danza. A parlare sono glistessi costumi, metafora colorata e com-posita di una ricerca di armonia e dialogotra un passato e presente. Nello spettacolo il regista ha voluto attori,danzatori e musicisti tutti provenienti dalbacino del Mediterraneo fra i quali spiccala presenza di Eleonora Abbagnato, laprima ballerina dell'Ope'ra di Parigi che,con Adriana Borriello, coreografa irpinadello spettacolo, ha voluto affrontare unaparticolare sfida artistica legata ai nuovilinguaggi della danza contemporanea.Senza dimenticare la partecipazione diTadayon Pejman, prestigioso suonatorepersiano di oud e setar. Un tracciato bensegnato quello di Scaparro, che nondiventa una mera evocazione di un passa-to perduto tra la violenza e orrori di unaguerra, ma che infonde nello spettatore ildesiderio autentico di preservarne lamemoria come fonte di speranza percostruirvi un futuro, proprio dalla polveredi Bagdad. E Ranieri è quel cantastoriedolente e potente ad un tempo, capace direstituire intatto al pubblico il ''sentimen-to di Baghdad'', esprimendolo con quellaforza poetica e autorevole fisicità che soloi grandi mattatori della scena sannoavere. I volteggi eterei della Abbagnato fanno ilresto. La sua grazia e i suoi volteggi, avolte incalzanti, scandiscono i tempi diuno spettacolo unico. Applauditissimo.

n Irpinia soffia “Polvere diBagdad”. Polvere di pas-sato e presente, che siamalgama nell’operadiretta con passione daMaurizio Scaparro, conuno strepitoso MassimoRanieri e una straordina-

ria Eleonora Abbagnato. Applausi, ierisera, al teatro “Carlo Gesualdo” diAvellino per l’omaggio ai sogni perduti diuna Bagdad martoriata dalla guerra esmarrita tra le sue macerie. Si replicaquesto pomeriggio, alle 18,30. Platea gre-mita di spettatori accorsi da tutta laregione al comunale di Avellino per laprima campana, dopo il debutto assolu-to dello scorso giovedì al TeatroPiccolo Arsenale di Venezia, per l’in-tenso omaggio di Scaparro ai sogniinfranti di una Bagdad. Una sorpresa permolti lo spettacolo. In tanti si aspettava-no il canto di Ranieri. E’ stata invece, unagrande prova di attore, per uno spetta-colo di prosa, tra musica e danza. In pla-tea anche il primo cittadino, GiuseppeGalasso e l’assessore al bilancio e perso-nale, Guido D’Avanzo per assistere allapièce. Quello di Ranieri, cantastoriepotente e dolente, è un omaggio proprioa quella cultura intimamente oltraggiatadalla guerra.La favola della bella Sherazade che salvala vita e trova l'amore, grazie alla suaarguzia e capacità nel narrare storieavvincenti, fa da base alla storia. DalleMille e una notte Adonis ha creato lapoetica antologia portata in scena.Mentre Massimo Nava, lo scrittore egiornalista per molti anni corrisponden-te di guerra, ha il ruolo di narrare la vici-ne cronache della Bagdad di oggi, capo-

Ranierila notte di

osDomenica 8 novembre 2009VIII

Recitalal Gesualdo

Una grande prova d’attore per Ranierinello spettacolo di Scaparro “Polveredi Bagdad”. Si replica oggi, alle 18,30

Uno spettacolo emozionante e ricco dispunti. Deluse le aspettative di alcuni

spettatori che si aspettavano un concerto

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Inserto domenicale di Ottopagine

di COSTANZA VALENTEos

IMassimo Ranieriè un Sindbadche dal passatotorna nellaBaghdad marto-riata di oggi, evo-cata anche dallepiu' vicine ''crona-che'' scritte daMassimo Nava,lo scrittore egiornalista permolti anni corri-spondente diguerra daBaghdad.

(Foto Enrico De Napoli)