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PREFAZIONE
La prima volta che ebbi occasione di stare alla presenza di Swami
Krishnananda fui subito investito da una serie di domande: “Chi
sei, da dove vieni, perché sei qui?”. Le risposte sembravano ovvie:
“Mi chiamo Stefano, sono italiano, e sono qui per praticare la
meditazione”. “E perché vuoi meditare?”, mi sentii rispondere. Già,
perché volevo meditare? Sapevo di sentire uno stimolo interiore
all’evoluzione, ma perché la meditazione e a cosa volevo arrivare
attraverso di essa? Vediamo, lasciatemi pensare un attimo: “Perché
voglio arrivare a Dio”, mi sembrò la risposta che meglio potesse
esprimere i miei sentimenti e le mie intenzioni. “E perché vuoi
arrivare a Dio?”, mi chiese Swami Krishnananda, “Pensi forse che
Dio sia simpatico?”. A questo punto mi trovavo perso: mi rendevo
conto di avere un’idea piuttosto approssimativa non solo delle
ragioni che mi conducevano alla ricerca, ma anche della meta che
volevo raggiungere attraverso il metodo che avevo scelto.
Io, come forse la maggior parte degli occidentali che affrontano lo
Yoga con una preparazione prevalentemente autodidattica, mi
affacciavo alla ricerca da quel punto di vista
meccanicistico e determinista — in senso scientifico — che
caratterizza la Weltanschauung
occidentale. Per dirla in parole povere, ero convinto che bastasse
conoscere il metodo giusto per dare la scalata al regno dei cieli,
mentre in realtà stavo confondendo la mappa col territorio. Non mi
rendevo ben conto della complessità del problema che volevo
affrontare: in fondo stavo tentando di penetrare l’essenza stessa
di ciò che regge i fili dell’universo intero e di me medesimo, e
questo richiede ben più che qualche ora seduto a gambe incrociate e
qualche esercizio di concentrazione. Avevo letto gli Yogasutra di
Patanjali e credevo che bastasse seguire le indicazioni del grande
rishi come se si trattasse di un manuale d’istruzioni all’uso dello
spirito, senza preoccuparmi di operare quell’inversione di marcia
nel modo stesso di pensare che è il presupposto indispensabile per
poter interiorizzare dei precetti la cui essenza resterebbe,
altrimenti, barricata in un ermetismo fuori dalla portata della
logica comune.
Yoga, com’è risaputo, vuol dire unione, e il suo obiettivo finale è
quello di far emergere il nostro spirito in uno stato di comunione
col Tutto. È evidente che nessun altro strumento se non la totalità
del nostro essere, integrato nelle sue varie componenti e
concentrato su quest’unico obiettivo, potrebbe essere adeguato ad
un proposito così enorme. Ma come integrare tutti i diversi e
complessi aspetti che compongono la nostra personalità e dirigerli
all’unisono verso un obiettivo che in fondo sfugge alla nostra
comprensione? Come amare qualcosa che non si comprende? E come
comprendere qualcosa che non si riesce ad amare per via di una
carenza di insight, di visione interiore? Lo Yoga sostiene la
possibilità di realizzare ciò che il moderno pensiero filosofico ed
epistemologico dell’Occidente è venuto fin qui negando: la fusione
del soggetto con la cosa in sé. Lo spirito liberato può conoscere
il noumeno dal suo interno, ma perché ciò si renda possibile è
necessario un impulso proveniente dal più profondo di un’anima
incondizionatamente convinta della fattibilità di una simile
impresa. È chiaro che per giungere ad interiorizzare una visione
della realtà così distante sia dalle nostre dottrine che dai
resoconti quotidiani della mente e dei sensi, si rende
indispensabile una completa riconversione del nostro attuale modo
di pensare a partire dal concetto stesso di realtà
fenomenica.
Una chiara visione filosofica è il requisito di base per chiunque
tenti di intraprendere un qualsiasi cammino d’ascesi o, come vuole
lo Yoga, si accinga al Sadhana. In mancanza di solide fondamenta
razionali edificate con l’indispensabile collaborazione dei nostri
più profondi
sentimenti, cosa saremo in grado di rispondere ai nostri desideri
quando si ribelleranno alla
nostra volontà con tutta la forza delle nostre abitudini? Dove
andremo a cercare le nostre certezze quando gli inevitabili
ostacoli sul sentiero ci faranno sentire di aver imboccato un
vicolo cieco? È in momenti come questi che la filosofia oltrepassa
la funzione di musa della nostra ragione per trasformarsi in un
vero e proprio strumento di battaglia, una delle frecce più
accuminate all’arco di Arjuna. Questa breve opera di Swami
Krishnananda, nella quale vengono esposti e sintetizzati con
semplicità maieutica i punti essenziali del complesso universo
speculativo che sta alla radice dell’Ashtanga Yoga, vuole appunto
essere uno strumento nelle mani di coloro che si preparano ad
intraprendere il sentiero spirituale e non una semplice
dissertazione di carattere teorico. La profonda conoscenza della
filosofia occidentale consente inoltre all’autore di rendere
accessibile al nostro pensiero dei concetti che ci sembrerebbero
quantomeno astrusi se non venissero spiegati in termini a noi
accettabili, trasformando così un universo speculativo piuttosto
distante dal nostro in uno strumento della nostra evoluzione. Come
Swami Krishnananda è solito dire, la filosofia è simile ad una
tigre che ci salta addosso in un sogno: benchè sia fatta della
stessa sostanza evanescente dei sogni, ha il potere di
svegliarci.
I capitoli che costituiscono il corpo di questo volume sono parte
di un ciclo di conferenze dato dall’autore in occasione del corso
inaugurale della Yoga-Vedanta Forest Accademy presso la Divine Life
Society, in Muni-Ki-Reti, Rishikesh (India). Gli studenti che
partecipavano a questo corso, il primo offerto dall’Accademia dopo
la sua inaugurazione formale, non avevano molta dimestichezza col
retroterra di base della pratica dello Yoga, con i suoi fondamenti
filosofici, le sue implicazioni epistemologiche ed i suoi
presupposti psicologici. Si rendeva perciò necessario presentare un
tema così complesso in una forma abbastanza colloquiale, come
lezioni scolastiche piuttosto che conferenze formali, in modo da
poterlo adattare alle esigenze di studenti che si stavano appena
avvicinando a questo genere di studi. Quel certo tono di
informalità e familiarità tra insegnante e alunni permette quindi
una lettura più scorrevole di quel vasto e complesso argomento che
è la filosofia dello Yoga.
Swami Krishnananda è Segretario Generale della Divine Life Society,
un’organizzazione presente in diversi Paesi che fu fondata dal suo
Maestro, Sri Swami Shivananda, con lo scopo di riscattare l’essenza
dello spirito religioso e diffonderlo in maniera olistica
attraverso libri, conferenze, scuole di Yoga, opere di assistenza
ai poveri e agli infermi, e di tutto ciò che è in grado di
innalzare lo spirito dell’uomo attraverso la propria opera.
Universalmente considerato un Brahmanistha, ossia un Maestro che
oltre ad aver percorso il sentiero e raggiunto la liberazione è
anche in grado di trasmettere questa conoscenza tanto attraverso il
contatto che attraverso la parola, Swami Krishnananda viene anche
stimato come una tra le maggiori autorità viventi in materia di
Vedanta. Tra le sue opere si annoverano i commentari alle maggiori
Upanishad (Katha, Mandukya, Chhandogya, Brhadaranyaka, ed altre) e
a diversi testi classici quali il Panchadasi, la Bhagavad Gita e
gli Yogasutra di Patanjali, oltre a molti scritti divulgativi sullo
Yoga e il Vedanta in generale. Dell’autore sono già stati
pubblicati in italiano i titoli Breve storia del pensiero
filosofico e religioso dell’India (Ed. Mediterranee, Roma) e Lo
Yoga della meditazione (Ed. Il Punto d’Incontro, Vicenza).
UN DISCORSO PRELIMINARE
Noi tutti siamo qui con un certo proposito. Non è detto però che
abbiamo tutti un’opinione concorde su quale sia questo proposito.
Si presume che siate andati a scuola, e che siate passati
attraverso vari gradi d’istruzione. Siete persone colte, magari
anche erudite sotto diversi aspetti. Vi siete applicati ai vostri
studi, avete vissuto nel mondo, e siete ora giunti in un altro
posto per studiare qualcos’altro. Ed è quindi probabile che la
maggior parte di voi nutra l’idea che stiamo per intraprendere un
nuovo ‘corso di studi’, cosí come già avete studiato qualcos’altro
prima. “Oggi studio fisica qui, imparerò la chimica in qualche
altro posto, e per la biologia andrò in un terzo”: potrebbe essere
questa l’idea che molti di voi si fanno, e cioè che ci troviamo qui
per studiare un qualche argomento sul quale fino ad oggi non
eravamo ancora ben informati. Potrebbe trattarsi per esempio di
Yoga, un termine piuttosto diffuso di questi tempi. Potrebbe
trattarsi di Vedanta, oppure di religione, o anche di spiritualità,
o potrebbe essere l’arte di vivere in grazia di Dio, o chissà
cos’altro ancora. Ed eccolo trasformato in un ennesimo argomento
tra i tanti utili alla gente per un verso o per l’altro.
Tanto per cominciare si rende necessario decondizionare le nostre
menti prima di poter intraprendere qualcosa di positivo, che valga
davvero la pena. Non ci stiamo accingendo allo studio di nessun
argomento nel senso comune del termine. Non siamo qui per
studiare
filosofia, ché questa può essere studiata in qualsiasi altro posto,
in una scuola superiore o
un’università. E non sarebbe difficile, dal momento che non sono
certo professori e uomini di scienza che vi mancano. Ma non siamo
qui per avere ragguagli su una branca del sapere, se è questa la
vostra definizione di cultura. Si tratta invece di una cosa
completamente diversa, di carattere unico, della quale in passato
molte grandi anime, tanto in Oriente come in Occidente, ebbero una
visione. Il più recente esempio di questa categoria, almeno secondo
me, fu Swami Shivananda, il fondatore di questa istituzione.
Non si può certo dire che queste non fossero persone istruite, ma
la loro cultura era differente da quella alla quale di solito la
gente viene iniziata in qualità di persone erudite, conferenzieri,
professori, etc. Dobbiamo riorientare con un certo sforzo il nostro
modo di pensare, se vogliamo capire a fondo le intenzioni di questi
maestri. E lo sforzo è inevitabile, perché siamo nati in un mondo
affetto da certi pregiudizi duri a morire. Lo scopo delle sessioni
che abbiamo intenzione di tenere in questa sede è di scavalcare
questi binari preconcetti di pensiero, lo scopo è di effettuare
un’inversione di marcia nell’arte stessa di pensare. Potremmo più
propriamente dire che stiamo tentando di apprendere un modo di
pensare che si distacca un poco dall’ottica consueta del mondo. Il
modo di pensare normale lo conosciamo bene: io sono un americano,
io sono un indiano, io sono un uomo, io sono una donna, io sono un
uomo d’affari, io sono un insegnante, io sono ricco, io sono
povero, io sono felice, io sono infelice, questo è buono, quello è
cattivo — sono tutti punti di vista abituali nella vita di
chiunque.
Ecco, dunque, l’atmosfera in cui ci troviamo immersi nel mondo e
nella quale lavoriamo sodo ogni giorno, qualunque sia il lavoro che
svolgiamo nei vari campi della vita, per adattarci a questa cosa
caotica che ci si presenta davanti e che chiamiamo appunto col nome
di vita. Tutta la vostra giornata trascorre nel venire a
compromessi con le condizioni del mondo. Se fa freddo, vi mettete
il cappotto. Se fa caldo, vi togliete la giacca. Se avete fame, vi
concedete un pasto. Se siete stanchi, vi sdraiate. Se siete
arrabbiati, mostrate i denti. Tante cose diverse generano
differenti condizioni nelle nostre menti — le cosiddette
circostanze psicologiche — e si rende perciò necessario da parte
nostra un adattamento a queste fonti d’afflusso delle condizioni
ambientali. Lo sforzo è tutto qua: adattarci in qualche modo alle
condizioni del mondo, che si tratti di circostanze geografiche,
politiche, sociali o familiari. E lavoriamo sodo: ognuno di voi
lavora sodo. Ma per che cosa? In che direzione? Con che scopo? È un
particolare impulso proveniente dal nostro interno che ci stimola a
lavorare; e se non lo facciamo sentiamo dentro di noi una pulsione
subconscia minacciare d’estinzione la nostra stessa esistenza.
Potremmo morire se non lavorassimo: la nostra stessa esistenza
potrebbe venir soppressa dalle poderose condizioni della vita là
fuori.
I compromessi ai quali si giunge con la vita là fuori variano da
persona a persona. Ecco perché ciò che io faccio può non essere ciò
che voi fate nel corso della vostra giornata, e ciò che voi fate
può non essere ciò che altri fanno. Il fatto che ciascuno faccia
qualcosa non implica necessariamente che tutti facciano la stessa
cosa, nello stesso modo, ovunque nel mondo. La necessità di fare
qualcosa è, ad ogni buon conto, comune a tutti. Ciascuno sente il
bisogno di fare: che sia in una fabbrica o una cappella, in un
tempio o un negozio, ognuno fa qualcosa. La varietà nel fare sorge
per via del fatto che esiste varietà nelle condizioni psicologiche
in cui ci si viene a trovare. Le vostre azioni dipendono dalla
vostra struttura mentale, e le varie attività si trovano quindi
strettamente associate alla psicologia. Ciascuno è attivo, ma con
modalità differenti. La necessità d’essere attivo può essere
spiegata solo in termini di un impulso proveniente dalla propria
struttura psicologica. Studiando la vostra mente potrete apprendere
qualcosa circa il bisogno che sentite di lavorare nel mondo.
Perché dovreste fare un qualche lavoro? Lo sapete benissimo, e
ciascuno ha una propria risposta. È un mondo di duro lavoro quello
che ci sta di fronte, e noi dobbiamo per forza muoverci di pari
passo con le sue leggi. Non possiamo considerarlo come uno
sconosciuto, un estraneo, come qualcosa che non ci riguarda. Le
nostre pene non sono altro altro che i nostri cattivi compromessi
col mondo, con la vita, con tutto. L’emendamento di tali
inadeguatezze viene tentato attraverso il lavoro, l’attività,
l’iniziativa, il progettare, pianificare, etc. Tutti questi piani e
progetti d’ogni genere rappresentano dei metodi di personale
adattamento alle pressioni del mondo circostante. Farò qui cenno ad
alcuni fattori importanti che devono essere presi in considerazione
prima che tentiamo di scoprire cos’è in fin dei conti che ci si
aspetta da noi, che ragione abbiamo d’esistere, perché respiriamo e
mangiamo e tiriamo avanti, in un modo o nell’altro, in questo
mondo. Qual’è lo scopo a monte di tutto ciò?
C’è qualcosa che ci mantiene irrequieti ed ansiosi, qualunque sia
l’attività che stiamo svolgendo. L’esercizio delle nostre vocazioni
si fonda su una certa psicologia, ed ecco perché c’è varietà nelle
circostanze della vita, ecco perché abbiamo di fronte questo
pittoresco mondo di colori e suoni e movimenti che evoca differenti
tipi di emozioni e di reazioni in ciascuna singola persona. La vita
è attività, è lavoro. Nel momento stesso in cui pensate al vostro
vivere nel mondo, state pensando di fare qualcosa. E questo fare a
sua volta, come ho accennato, ha un rapporto vitale con i bisogni
della vostra personalità interiore, la mente, se così la volete
chiamare. Cercheremo di concentrare la nostra attenzione su cosa
questa mente sia, in maggior dettaglio, un po’ più avanti. Per il
momento accontentiamoci di definire questa cosa chiamata mente, con
la quale abbiamo una certa familiarità, come quella cosa che pone
un freno e che dà forma alle nostre attività. Le attività hanno una
psicologia alle loro spalle, ed ogni azione di qualsiasi genere ha
una condizione mentale a precederla.
Perché mai, ci si potrebbe chiedere, la mente deve pensare nel modo
in cui pensa e condurci in una certa direzione, verso il compimento
di un determinato lavoro, impegnarsi in una data attività? Il come
dell’attività della mente è chiamato psicologia. Come funziona?
Quali sono le varie diramazioni del movimento della psiche?
Psicologia è lo studio dettagliato delle multiformi trame e
attività della mente. Un soggetto molto vasto, lo studio della
mente. A meno che lo conosciate a fondo, non potrete avere piena
dimestichezza con le tecniche dell’attività nel mondo, e vi
ritrovereste perciò a fare delle cose che non sortiscono risultati
adeguati. Le attività risulterebbero in una serie di buchi
nell’acqua, di imprese inutili, un vagare attraverso vicoli ciechi,
senza alcuna idea su ciò che il futuro ci tiene in serbo, a meno
che vi sia una cognizione corretta del retroterra di tali attività,
ossia della psicologia umana. A meno che voi conosciate la vostra
mente, non potrete conoscere la natura delle opere che avete da
compiere né il fine verso cui tali opere sono dirette.
Ma perché la mente lavora in questa maniera? Perché io dovrei
pensare nel modo in cui proprio adesso sto pensando? Perché voi
pensate nel modo in cui pensate? Cos’è questo demone che opera
dentro di noi, separando l’uno dall’altro e pretendendo che uno
debba
pensare in un certo modo e un altro in maniera diversa? Perché mai
dev’essere così? Perché
tu devi pensare in quel modo ed io in questa maniera? Perché non
pensare assieme nello stesso modo? In che consiste l’impedimento?
Questo perché solleva un problema che va al di là del campo
conosciuto come psicologia.
Di solito questo settore è conosciuto come filosofia: il perché di
una cosa viene studiato in filosofia, il come di una cosa è
studiato in psicologia, e il cosa è l’effettiva pratica giornaliera
dell’attività. Al prendere in esame qualsiasi cosa, anche il minor
dettaglio, anche la più apparentemente insignificante appendice
della nostra vita, dobbiamo mantenere un approccio scientifico. E
cosa significa essere scientifici? Prendere la prima cosa per prima
e la seconda per seconda, senza mischiarle l’una con l’altra. Non
dovreste cominciare con la seconda mentre la prima rimane ignorata:
essere capaci di concepire le serie consecutive di qualsiasi tipo
di processo vuol dire essere scientifici.
Ma se vi mostrate incuranti delle serie e mancate un anello nella
catena di sviluppo del pensiero e dell’attività, in tal caso non
sareste scientifici. Ed è praticamente la stessa cosa che
essere logici: essere logici è anche essere scientifici, benchè vi
sia una piccola differenza nel
significato di questi due termini, sulla quale possiamo per il
momento sorvolare. Essere sistematici, essere pazienti, essere
osservatori, essere disponibili alla rettifica, tendere verso
formulazioni sempre più generalizzate d’idee, sforzarsi di
oltrepassare le limitazioni del corpo, della comunità,
dell’individualità, etc.: sono queste alcune caratteristiche di un
atteggiamento scientifico, l’approccio logico alle cose. La
filosofia è lo studio della vita con riferimento alle cause prime,
e non soltanto agli immediati antecedenti.
Siamo qui per fare alcune serie considerazioni sui caratteri
essenziali di ciò che in termini generali possiamo chiamare vita, e
che condizionano le molteplicità esteriori con le quali siamo
connessi. Le peculiarità esteriori sono espressioni delle
essenzialità interiori. Il tipo di alimento che io mangio dipende
dal tipo di fame che ho, oltre che dal modo in cui operano gli
organi fisiologici, da come funzionano il fegato, il pancreas, gli
intestini, etc. Altrettanto succede nel caso di qualsiasi
inclinazione interiore di genere mentale o psicologico. Un serio
atteggiamento contemplativo dev’essere rivolto a quei fattori che
vanno a costituire la struttura della nostra vita nel suo insieme,
nella quale si trovano inclusi vari aspetti come il geografico,
l’astronomico, il politico, il sociale, il personale, ed altri
ancora. Vi renderete conto di essere connessi a diversi fattori
anche mentre state qui, seduti al vostro tavolo. Siete seduti qui
con un tavolino di fronte, e siete al tempo stesso molte cose in
questo esatto momento. Siete un americano, un inglese, un maschio,
un professore, un uomo affamato, provate un’ansia rispetto al
vostro futuro, un desiderio di realizzare qualcosa, e molte altre
cose analoghe, che voi stessi neppure immaginate, vi stanno
condizionando. Questo non significa che voi pensiate costantemente
“io sono un tedesco, o un indiano, o un americano” e così via; ma
l’idea in sé non è stata estirpata dalla mente. Sta lì, tra le
quinte.
Come potete dimenticare che siete una donna o un uomo o che venite
da un certo posto, che siete cittadini del tal Paese? Potreste non
star costantemente rimuginando su simili idee, ma si trovano là, al
fondo di ogni tipo di pensiero generato dalla vostra mente e di
ogni approccio o punto di vista che essa possa concepire riguardo
alla vita. Allora, cos’è che siete veramente venuti a cercare? Non
certo lo studio di filosofia, psicologia o scienze economiche
inteso nel senso tradizionale del termine. State piuttosto cercando
di andare alle più profonde radici delle varie branche di studio
che chiamate scienze economiche o psicologia o filosofia, o sia
quel che sia, che sono poi tutte espressioni esteriori di un
bisogno interiore.
Tutto il nostro sforzo sembra consistere, dopotutto, nel liberarci
dai ceppi che ci incatenano come prigionieri tra le quattro mura.
Voi sapete di cosa son fatti questi ceppi. Ciascuno di voi conosce
la propria schiavitù. Si tratta d’un tipo di catena che vi ridona
la libertà solo a condizione che abbiate sufficiente consapevolezza
del modo in cui siete incappati nella vostra prigionia. Voi avete
problemi di visto e di passaporto, di condizioni economiche,
relazioni familiari e limitazioni corporali: tutte queste sono
catene, e non ve ne potete liberare tanto facilmente. Ma cosa ci ha
messo in questa situazione di sofferenza e ci mantiene sempre
irrequieti ed ignari del futuro? Ci sentiamo tormentati dal
passato, inquieti nel presente e ansiosi per il futuro. Risulta
allora ovvio che non siamo qui semplicemente come studenti di una
qualche branca del sapere che ci consenta di guadagnarci il pane
quotidiano. Siamo piuttosto alla ricerca di qualcosa che ci
mantenga sobri di mente, che ci dia pace, se così la volete
chiamare, in ogni circostanza. Quello che ci manca non è tanto il
pane quanto la pace dello spirito.
Questo non vuol dire che una persona che ha da mangiare in
abbondanza sia una persona dotata di sobrietà o pace dello spirito;
né è vero che una persona che soffre
fisicamente la fame non possa godere della pace dello spirito. Ciò
di cui siamo alla ricerca è
del tutto diverso da ciò che la gente generalmente pensa di cercare
nel mondo della quotidianità. Anche noi apparteniamo al mondo del
quotidiano, è vero. Non stiamo fuori dal mondo: siamo sulla terra,
ma stando sulla terra, stando al mondo, siamo seriamente impegnati
nella ricerca di qualcosa che non è semplicemente pane e un tetto e
una confortevole vita sociale e corporale. Questi sono solo
accessori di qualcos’altro, di cui in realtà siamo alla ricerca. Si
presume che non siate nella condizione di chi muore di fame: non
siete dei mendicanti. Avrete una soluzione adeguatamente
soddisfacente per il vostro pasto quotidiano, un posto decoroso per
dormire di notte, e dei vestiti per coprirvi. Suppongo che tali
faccende, che sono appunto le realtà fisiche della vita, non
rappresentino per voi delle serie difficoltà. Ma cos’è che non
avete? È quello l’importante.
C’è qualcosa dentro di noi che parla col linguaggio dell’ansia. C’è
qualcosa che non va esattamente come dovrebbe, nonostante abbiate
tutto in termini fisici o sociali. Siete persone socialmente
rispettabili, avete una situazione finanziaria indipendente: va
tutto bene a quanto sembra, ma voi non siete felici, concretamente
parlando, per una qualche ragione che non avete ancora trovato il
tempo di approfondire.
Siamo così occupati con l’enorme piena delle condizioni
atmosferiche là fuori che sembra ci venga impedito persino di
trovare il tempo per pensare. E non parliamo poi della capacità
stessa di pensare: essere o no capaci di pensare è tutt’un altro
paio di maniche. Ma avete almeno il tempo per pensare? Anche questo
manca. Siamo veramente persone molto occupate, ognuno di noi. E
sorge quindi il bisogno d’imparare anche l’arte di trovar tempo per
pensare nel modo corretto, perché la vostra vita non è altro che
una vita mentale e se la vita mentale viene ignorata non sarà la
vostra vita fisica e sociale a rendervi liberi. Sapete bene quanto
la vostra mente sia importante: non c’è quindi bisogno di stare
molto a dissertare sulla natura della mente e l’importanza del suo
funzionamento.
Nonostante tutte le comodità e gli splendori della vita fisica, a
che serve tutto lo sfarzo di questa terra se la mente non trova
pace? Potreste essere un re o una regina: che bello, una
meraviglia. Ma supponiamo che la mente non vi funzioni: che ne
direste? Capite bene cosa
questo significhi, e non può esistere inferno peggiore. Mettiamo
invece che la mente sia al
lavoro, ma nella direzione sbagliata: disgraziata condizione anche
questa. Ciò che cercate è, in effetti, qualcosa che si caratterizza
come prerequisito ai vostri bisogni fisici e alle vostre relazioni
sociali. Oggetto delle nostre sessioni di studio sarà dunque una
serie di approcci in direzione alle cause di quegli effetti che le
nostre vite interiori ed esteriori costituiscono.
La nostra vita, tanto interiore che esteriore, consiste di una
sequenza. non è una sostanza solida. La nostra esistenza non è come
dura pietra, immobile ed immutabile. È un flusso, una serie di
tendenze, movimenti, iniziative, etc. che si biforcano in pratica
nelle fasi
interiori ed esteriori. La vita in sé non è né interiore né
esteriore. È ovunque. Ma per
comodità la suddividiamo in interiore ed esteriore, così come
diciamo che stiamo dentro quando ci troviamo nella stanza.
Quest’idea del dentro sorge per via dei muri intorno. Se non ci
fossero i muri, non diremmo che stiamo dentro: ci considereremmo
semplicemente sulla superficie della terra. Ma siccome esiste una
consapevolezza dei muri ai quattro lati, c’è anche la
consapevolezza di un dentro e, all’inverso, la consapevolezza di un
fuori. Non esiste in realtà qualcosa come la vita interiore e la
vita esteriore, così come in realtà non esiste nessun interno o
esterno, a meno che ci sia un muro a separare l’interno
dall’esterno. Ma noi parliamo sempre di una vita interiore e una
esteriore come se esistessero realmente. Questa biforcazione, o
golfo altrimenti detto, tra la nostra vita interiore e quella
esteriore si deve ad un muro che sembra ergersi tra ciò che
chiamiamo interno e ciò che chiamiamo esterno. E anche questo muro
dev’essere preso in considerazione, e visto per quello che è.
Abbiamo qui dei muri fatti di mattoni: ma cos’è questo muro che ci
dà l’impressione di avere una vita interiore come distinta da una
esteriore? Tutto dev’essere messo in chiaro prima che ci accingiamo
ad intraprendere una qualsiasi cosa. Si: dobbiamo assicurarci che
tuto sia chiaro, e che non ci siano dubbi ed ossessioni nella
mente. Ho cominciato col dire che vi dovreste decondizionare ed
abbandonare gli abiti mentali preconcetti. Non dite “ho già letto
le Upanishad”; dimenticate le Upanishad per il momento, dimenticate
la Gita, dimenticate la Bibbia, dimenticate la vostra nazionalità,
dimenticate d’essere qualunque cosa al mondo. Ma ricordatevi che
siete spiriti in cerca di soluzioni a certi seri problemi che
tormentano le menti di tutti in modo unanime. I problemi di base
sono gli stessi dappertutto, per quanto differenti possano essere
le loro espressioni esteriori.
Le difficoltà quotidiane che affrontiamo nella nostra vita non sono
sempre le stesse. Ma si dovrà prendere atto che la causa
fondamentale che sta alla loro radice è in fondo una sola, e sempre
la stessa. Noi pensiamo come esseri umani, ed è questo in essenza
il nostro modo di
pensare. Esteriormente uno può pensare come un uomo e un’altra come
una donna; uno
pensa come un professore, un altro come un contadino tra i campi, e
così via. Queste non sono altro che forme estrinseche di modi di
vedere il mondo. Ma esiste invece quello che può essere definito
come il comun denominatore del pensiero normale, che è poi il modo
di pensare umano. Noi non pensiamo come un cane o un gatto, e non
ci muoviamo come un albero verso il sole. Noi non pensiamo come le
specie non umane. Noi pensiamo esclusivamente come esseri umani, e
non ci è dato di pensare in altro modo. E questa è di per sé una
grossa restrizione al nostro pensiero.
Ho prima accennato ad alcune delle limitazioni che ci impediscono
il pensiero generalizzato, ma il modo di pensare umano è in sé
stesso una schiavitù. Ecco perché vi è stato più volte ribadito che
l’intelletto è una barriera. Dovete aver già sentito dire che
l’intelletto è un ostacolo ad occupazioni superiori, e questo
perché l’intelletto è una dote dell’essere umano. Non è presente
nel lombrico o nel millepiedi: essi hanno altri istinti a loro
propri. E noi abbiamo una struttura peculiare al nostro interno che
chiamiamo col nome di intelletto, ragione, etc. Ci è stato ripetuto
centinaia di volte che questo è un ostacolo. Ma perché mai dovrebbe
essere un’ostacolo quando in definitiva è l’unica facoltà che
abbiamo? È un ostacolo perché è presente solo in un essere umano e
non può essere riscontrata altrove. Il modo di pensare, l’ottica di
altre specie sarà differente. E al fine di renderci possibile
l’accesso a una visione della vita d’ordine più generale non
dovremmo essere troppo attaccati a questa nostra dote chiamata
intelletto. Benchè ci sia d’aiuto, non è però sufficiente.
L’intelletto è sì una prerogativa speciale della razza umana, ma le
verità della vita non sono unicamente umane. Ci sono tante altre
cose al mondo che travalicano i valori umani, e noi non dovremmo
soggiacere all’idea di essere degli dèi, signori di questo pianeta.
Noi
dimostriamo, a volte, un orgoglio che ci esalta e ci fa sentire
come angeli che camminano su
questa terra e abbassano il loro sguardo su delle creature
subumane. Sono tutte nullità al nostro confronto, come se non
esistessero affatto. Noi siamo i padroni. Il mondo ci appartiene.
La Terra è proprietà dell’essere umano. Al provare simili
sentimenti diciamo: “Questa terra è mia!”. Ma come fa ad
appartenervi? Dio solo lo sa! E nonostante tutto avete la
sensazione che sia vostra: l’uomo che è in noi opera in maniera
imperiosa. Così quell’umanità in noi, mentre è una grande virtù per
tanti versi, finirà coll’essere un grosso impaccio in ultima
analisi. Il nostro carattere umano è solo un anello della catena di
sviluppo delle varie specie di vita del Creato. Esistono anche
facoltà più elevate, superiori alla ragione umana, che appartengono
a regni superumani di esistenza.
Sapete che il mondo non è fatto di soli esseri umani: ve ne sono
altri al di sotto e al di sopra di noi. Noi stiamo a metà, sospesi
in qualche punto della corda tesa tra la terra e il cielo. Stiamo
facendo un lungo viaggio. Non siamo a questo mondo in pianta
stabile come possessori permanenti di proprietà. Non siamo
proprietari di nulla. Siamo in un flusso che si muove, come ho già
detto. Il nostro è un perpetuo viaggio in avanti e noi non
possiamo, come disse un grande maestro, entrare nella stessa acqua
del fiume al momento successivo, perché nel momento successivo
entriamo in un’acqua diversa dello stesso fiume. Così pure
nell’attimo seguente non stiamo vivendo la stessa vita. Ci troviamo
ad ogni momento in una nuova vita nella quale incessantemente
entriamo, e la cosiddetta continuità della nostra personalità, che
ci fa sentire oggi gli stessi di ieri con la speranza che saremo
domani esattamente quello che oggi siamo, è dovuta ad una
limitazione nel modo in cui opera la mente, al ritrovarci vincolati
ad un insieme di caratteri peculiari nell’ambito di questo
movimento. L’abitudine della mente è di guardare attraverso un
piccolo foro, una stretta fessura. L’enorme distesa della vita,
della quale siamo una minima parte, resta fuori dalla portata della
nostra percezione a causa di certi difetti strutturali della
mente.
Ecco perché sentiamo di essere la stessa persona ogni giorno,
inconsapevoli del fatto che ci andiamo trasformando ad ogni nuovo
istante mentre ci dirigiamo verso qualcosa di completamente
differente, fino a che non avverrà un cambiamento catastrofico nel
corso del
quale la mente saprà che un mutamento reale ha avuto luogo. E
quella catastrofe è chiamata
morte. Noi muoriamo ad ogni istante, ma non ne siamo consapevoli
per via della capacità della mente di adattarsi un istante dopo
l’altro a questo piccolo cambiamento. E forse se la nostra mente
fosse in grado di adattarsi anche a quel tale cambiamento chiamato
morte, noi non sapremmo di star morendo. Non ci renderemmo neanche
conto che qualcosa è successo, proprio come non ci rendiamo conto
d’essere oggi differenti da come eravamo ieri. Ma la mente non è
fatta così: è talmente condizionata a questo corpo che la scissione
da esso le appare come una completa separazione dall’esistenza
stessa.
C’è una continuità, che è poi la vita, della quale facciamo parte,
e noi non siamo semplicemente Tizio, Caio o Sempronio qui seduti:
non è tutto qua. Se apriamo gli occhi alla verità dei fatti ci
accorgeremo con sorpresa d’aver vissuto fino ad oggi una vita
sconsiderata,
ed è ormai giunta l’ora d’essere seri con noi stessi. Il tempo a
nostra disposizione è breve e c’è così tanto da imparare, e
altrettanto da realizzare. Gli ostacoli sono troppi e non abbiamo
tempo per distrarci, dormire o ammazzare il tempo come se avessimo
davanti a noi l’eternità. Non possiamo prendere le cose con
leggerezza. La vita è preziosa, non possiamo prenderla per scherzo.
Ogni attimo di tempo è oro, perché ogni istante che passa non è
altro che una piccola diminuzione di quel lasso di tempo che è la
nostra vita. Ogni tocco di campana ci ricorda che abbiamo un’ora in
meno. Certo queste non sono cose piacevoli da sentirsi dire: tenace
dev’essere quindi il nostro sforzo per penetrare sempre più a fondo
in ciò di cui siamo alla ricerca.
Siate umili. Siate pazienti. Non cercate di farvi grandi, ma fatevi
piccoli, fino a diventare quasi una nullità, che è meglio per voi
che essere una grossa cosa in mezzo al mondo, un centro
d’attrazione di tutti gli sguardi. Una speranza c’è, e abbiate
quindi sempre
la certezza che otterrete ciò di cui avete bisogno. Ricordate
sempre tre cose:
1) Siate chiari rispetto a ciò che volete;
2) Siate sicuri che ciò che volete l’otterrete; non siate
tittubanti.
Affermate: “Si, l’otterrò certamente”, e
3) Date inizio a quello sforzo in questo stesso momento. Non dite
“domani”.
Asserite: “Adesso che tutto mi è chiaro, mi metterò al
lavoro”.
Se farete in modo di tener sempre presenti queste tre norme a
vostra guida, avrete sempre successo, e con qualsiasi cosa.
L’INTRICATA SITUAZIONE UMANA
Fate tre colonne: 1, 2, 3. Nella prima scrivete: ‘Cosa voglio?’.
Nella seconda: ‘Posso ottenerlo?’. E nella terza: ‘In che modo
ottenerlo?’.
Prendete ora la prima proposizione: cosa volete? Di cosa siete alla
ricerca? Cos’è che vorreste conoscere? Vi è sempre all’incirca la
stessa istanza implicita in tutte queste domande, alle quali si
cerca di dare una risposta nel sistema di studi comunemente noto
come filosofia. Tutto questo entra a far parte della colonna nr. 1,
che va sotto la voce filosofia.
Viene poi la seconda colonna: siete in grado di raggiungere la meta
alla quale conoscenza, ricerca, aspirazione e questionamento sono
diretti? L’analisi delle vostre particolari capacità nel perseguire
ciò di cui siete alla ricerca, ciò che volete, rientra nell’area di
competenza della psicologia. E questo va sotto la colonna nr.
2.
E veniamo infine alla terza sezione: qual’è il mezzo? Dando per
scontato che possediate la capacità, gli strumenti e le doti
necessari, che metodo adottare? Questo è l’aspetto pratico della
vostra ricerca. Vi sono quindi un aspetto filosofico, un aspetto
psicologico e un aspetto pratico da prendere in esame, tanto per
suddividere a grandi linee il nostro approccio a tutta la questione
della vita nel suo insieme.
L’oggetto dell’indagine filosofica propriamente detto è la natura
della Verità, della Realtà. È del tutto ovvio che non è di
irrealtà, di fantasmi, né di alcunché di transitorio che siamo alla
ricerca. È di qualcosa di sostanziale, di permanente che abbiamo
bisogno. E cosa può essere? Cosa intendete quando dite che una cosa
è permanente, che è poi lo stesso che dire che è reale? Argomento
della filosofia è appunto la ricerca della Realtà.
Passiamo quindi al secondo punto in discussione: la natura
individuale, la struttura della nostra personalità, l’indole delle
nostre doti. Sono le varie branche della psicologia, incluso ciò
che chiamiamo psicoanalisi, ad effettuare un’analisi complessiva
della struttura interna di cui siamo dotati in quanto individui
alla ricerca di una qualsiasi cosa. Le sintetizzeremo tutte nella
categoria generale che potremmo denominare analisi interna
dell’individuo.
Prendiamo adesso il terzo punto nella terza colonna: la via al
raggiungimento di questo ideale, la Realtà. Il metodo da seguire,
la sua applicazione, è ciò che qui fondamentalmente ci interessa,
ed è ciò a cui di solito ci si riferisce quando si parla di Yoga.
Yoga è pratica, sebbene preceduta da certi studi e discussioni
d’ordine filosofico e psicologico.
Che cos’è dunque questa Realtà di cui andiamo alla ricerca? Che
cosa intendiamo quando parliamo del Reale? Ebbene, se la domanda
viene posta in modo generico ad un profano, la risposta sarà
immediata: “Ciò che vedo con i miei occhi è reale”. E cos’è che
‘vedo con i miei occhi’? “Il mondo”. Ecco la realtà. Il mondo in
cui viviamo è ciò che veramente esiste, ossia l’oggetto che noi
consideriamo come reale. È un oggetto permanente: “Stava lì prima
che io nascessi, è lì adesso, e probabilmente sarà lì anche quando
io non ci sarò più. Il mondo è la mia realtà, e non mi è dato
d’immaginare un’altra qualsiasi realtà”.
Per quanto riguarda invece la sezione psicologia, se vi pongo la
domanda “Chi siete voi?”, ne verrà fuori una risposta semplice. “Io
sono Tal dei Tali”, “Così e cosà”, “Una
persona”, è la risposta che di solito s’ottiene. Se vi viene
chiesto “Chi siete voi?”, già sapete che tipo di risposta darete,
inevitabilmente. Potreste tutt’al più dare per implicito, come
sottinteso di fondo alla vostra risposta, il fatto che possediate
una mente, un intelletto, una ragione, una capacità di pensiero — e
questo è tutto. Uno non può andare al di là di queste semplici
definizioni di sé stesso. E se vi viene chiesto “Cos’è che dovreste
fare, qual’è l’aspetto pratico della vostra vita?”, anche in questo
caso la vostra sarà una risposta molto semplice, sbrigativa:
“Dobbiamo lavorare”, per il nostro proprio sostentamento, per
mantenere le relazioni col mondo, nel contesto della società umana,
e per svariate altre ragioni.
E questo è appunto l’approccio banale e ingenuo della persona
comune ai problemi della vita, ai suoi doveri e valori; ma tutto
ciò sfiora la questione solo in superficie, così come appena una
diagnosi inadeguata e antiscientifica può derivare dal mero
osservare il corpo di una persona o dal semplice passarvi sopra la
mano, senza andare ad indagare le complicazioni interne che hanno
dato origine al disagio della malattia. Noi veniamo stimolati alla
ricerca di cose per via d’un certo disagio che proviamo nella vita.
In caso contrario, nessun impulso alla ricerca sorgerebbe rispetto
a nulla.
Si guarda perciò all’insoddisfazione come alla madre di tutta la
filosofia. La filosofia è figlia di un riconoscere le inadeguatezze
che la vita reca con sé. Ci sono molti tipi d’insoddisfazione. Si
potrebbe scrivere un libro intero sul significato
dell’insoddisfazione, siccome praticamente tutto ci lascia
insoddisfatti. È difficile immaginarsi soddisfatti di qualcosa in
modo permanente, od anche per un periodo di tempo prolungato.
L’estate non ci soddisferà per molto tempo; l’inverno non ci farà a
lungo contenti. Nessuna situazione sarà in grado di soddisfarci per
un tempo durevole, lasciando allora spazio alle nostre
interminabili lamentele. Per strano che possa sembrare, c’è una
componente d’insoddisfazione insita nella struttra stessa del
nostro modo di stare al mondo. Come mai continuiamo inquieti e
bramosi per tutta la durata della nostra vita? Ognuno di voi, solo
per qualche istante, contempli mentalmente la propria vita dal
momento della nascita, per lo meno da quando riuscite a ricordare.
Siete mai stati soddisfatti? Siete sempre andati in cerca di
qualcosa e, una volta ottenutola, avete cominciato a desiderarne
un’altra. E in caso riusciate ad ottenere quest’ultima, ne vorrete
una terza, e così via.
Insomma, dov’è che questo carosello andrà a parare? Ci sarà mai
qualcosa in grado di lasciarci soddisfatti? Com’è che ci troviamo
in pugno al demone dell’eterna ricerca, perennemente a caccia di
qualcosa di cui non abbiamo una chiara nozione? Sono innumerevoli
le cose alle quali aspiriamo, in una quantità di modi diversi,
costantemente, per tutta la vita, dato che non abbiamo ancora
chiaro in mente ciò che in fin dei conti vogliamo. Stiamo solo
sperimentando delle situazioni: “Forse è questo che voglio, forse è
quello”. Ma quando finalmente ci arriviamo, ci rendiamo conto che
non sono quelle le cose che cercavamo di ottenere.
È come fare esperimenti con varie medicine, per poi scoprire che
nessuna fa al caso della nostra malattia. Abbiamo fatto esperimenti
con persone, cose, professioni, e tutte le altre varie
sfaccettature dei nostri desideri. Nessuna ci ha soddisfatto. Anche
oggigiorno non siamo soddisfatti, né voi, né io, né nessun altro. È
impossibile immaginare una situazione di completa soddisfazione,
nella quale non avremmo nulla da dire, nella quale forse non
avremmo neanche nulla da pensare, nella quale tutto sia compiuto
per sempre. Lo stato di compimento di tutte le cose è, in verità,
al di là della nostra stessa capacità immaginativa. Non possiamo
neanche immaginare se un tale stato, l’avere cioè tutto ciò di cui
abbiamo bisogno, sia mai possibile.
Ci sembra, a volte, che il nostro destino sia di passar a miglior
vita sconsolati con tutto. Se potessimo leggere nella storia delle
menti umane, sempre ammesso che una storia della psicologia umana
come tale possa essere tracciata, dovremmo constatare con sorpresa
come sia impossibile individuare anche un solo essere umano che
abbia lasciato questo mondo con genuina soddisfazione, a parte quei
pochi che sono il sale della terra. C’è sempre stato un vuoto, un
qualcosa d’incompiuto che ognuno s’è dovuto lasciare alle spalle.
Ciascuno va via lasciando qualcosa d’incompleto, che non sarà mai
portato a termine. Ecco il lato sgradevole delle cose, l’aspetto
infelice della vita, ritratto apparente di questo mondo che ci sta
dipinto innanzi.
Ma esiste in noi anche una certa intima essenza, confortante e
appagatoria, che però sfugge costantemente alla nostra presa. C’è
qualcosa dentro di noi, in ognuno di noi, che invariabilmente si
sottrae alla nostra osservazione. Non ci riesce di visualizzarlo
nonostante tutti i nostri sforzi, eppure persiste in noi quel
misterioso e tremendo qualcosa che continua a farci confidare in un
modo o nell’altro nella possibilità di un successo finale. Un
qualcosa di speciale, che ci fa continuare a sperare positivamente
nella praticabilità delle nostre imprese nella vita, fiduciosi in
una vittoria ultima — ecco il vanto della nostra personalità.
L’uomo è rimasto nel mondo quello sventurato essere sofferente di
sempre, è vero; ma è anche qualcosa di splendido, un maestoso ed
incomprensibile mistero, una combinazione di due contrari, se così
si può dire, che costituisce appunto il miracolo dell’uomo. Ogni
essere umano è in sé stesso un miracolo. Non è possibile arrivare a
conoscersi in modo completo: se ciò fosse possibile non staremmo a
correre in giro di qua e di là alla ricerca di cose. Esiste un
certo sfuggevole impedimento, in ragione del quale ci troviamo ad
inseguire le cose e tuttavia incapaci d’ottenerle: nonostante tutto
il nostro darci da fare, sembra che alla fine nulla ce ne venga.
Eppure non possiamo esimerci dal cercare, ed è questa un’altra
peculiarità. Da un certo punto di vista sembra che non otterremo
mai nulla, dal momento che nulla abbiamo ottenuto fino adesso, dopo
tanti anni di tribolazioni. Se dopo gli ultimi venticinque, trenta
o quarant’anni di ricerca e di sforzi ci sembra di non essere
approdati a nulla, che garanzia abbiamo di giungere a qualcosa di
soddisfacente in altri dieci anni? Forse trascorreranno anch’essi
nello stesso modo, se ne andranno come gli ultimi venticinque o
trenta. “Impermanente e privo di gioia, in verità, è questo mondo”
(anityam asukham lokam ).1
È veramente un quadro molto deprimente quello che ci si presenta.
Ma forse questo non è tutto, ci dice una voce che viene da dentro:
altrimenti non staremmo qui seduti ad ascoltare gente che parla in
una lingua stramba, alla ricerca di cose tanto vagheggiate per
foreste, colline e valli, in monasteri, templi, biblioteche, e
chissà dove altro ancora. C’è qualcosa dentro di noi che è senza
dubbio differente da ciò che scorgiamo con i nostri occhi. È questo
il nostro mistero, il nostro splendore, la nostra realtà e il
nostro conforto. Questo mistero che è in noi ci rende in qualche
modo felici, a dispetto di tutta l’infelicità della vita. Da una
parte siamo terribilmente infelici; dall’altra c’è una tendenza
nascosta ad una possibilità di successo e felicità permanenti che
ci fa cenno da una remota distanza. Questo scenario intrigante, che
è poi la forma in cui la vita ci si presenta, è materia
d’osservazione e studio della filosofia. Se l’argomento fosse
semplice come una mela che cade dall’alto non ci sarebbe stato
bisogno di ricerche, studi ed investigazioni. Si tratta invece di
una mescolanza di elementi contrastanti e fattori enigmatici, ed è
quindi necessaria un’intensa preparazione d’ordine tecnico se
vogliamo scandagliare le profondità di questi misteri.
Contemporaneamente ci si presenta un altro dilemma: abbiamo in noi
la capacità, siamo dotati degli strumenti necessari ad affrontare
queste indagini? O siamo solo degli eccentrici senza speranza
impegnati in una ricerca che non ha alcuna possibilità di riuscita?
Il problema sembra essere così imponente, e la nostra individualità
così piccina, da apparirci il più delle volte come un’impresa
disperata.
Ci fu un grande filosofo che elaborò un sistema di pensiero
innovatore, e che si pose tre domande nelle quali assommò ogni
problema della vita:
1) Che cosa ci è dato di conoscere? Cosa siamo nella condizione di
poter conoscere, nelle circostanze in cui ci troviamo?
2) Nelle circostanze di cui sopra, cosa dovremmo fare?
3) Una volta risposto alle prime due domande, in cosa potremmo
sperare alla luce dei fatti? Quale potrà essere il nostro fato, il
nostro destino, il nostro futuro?
Questi tre quesiti comprendono ogni altro genere di domanda che
possa venir formulata. Che cosa siamo in grado di conoscere? Cosa
dovremmo fare? In cosa ci è dato sperare? Tre grandi volumi furono
scritti da quel filosofo in risposta a queste tre domande. Siamo
sufficientemente equipaggiati per investigare il problema
dell’esistenza? E in questo caso, che metodi dovremmo adottare?
Questi ultimi andrebbero a costituire l’aspetto tecnico o anche
tecnologico della pratica.
Così come, prima di dare il via alla costruzione di un grande
edificio, un tempio, una cappella o un palazzo, uno ha di fronte a
sé un determinato progetto da eseguire — non si comincia
accumulando estemporaneamente del materiale in un posto qualsiasi:
prima di tutto si conduce un’osservazione e uno studio sulla natura
del suolo, del terreno, di che tipo di terra si tratta, qual’è la
sua inclinazione, e così via; l’area che dev’essere coperta, la
profondità a cui bisogna scavare, il materiale necessario, il
personale richiesto allo scopo, il tempo che occorrerà per
terminare il lavoro, etc. — allo stesso modo il metodo
dell’indagine filosofica è costituito da svariati argomenti di
studio tra loro attinenti. L’intera disciplina implica, al tempo
stesso, lo scopo a monte di tutte queste procedure, ovvero la
ragione per cui si costruisce l’edificio. Ed essa si trova tra le
quinte della mente durante l’intera esecuzione dell’attività, nel
caso specifico la costruzione dell’edificio. Noi pure abbiamo uno
scopo in mente, in quanto turisti che viaggiano da un posto
all’altro, o come studenti, o qualunque altra cosa ci consideriamo.
Agiamo perché abbiamo uno scopo, un proposito, lo perseguiamo e
lavoriamo per la sua realizzazione.
Uno studente occidentale col quale ho avuto occasione di parlare mi
diceva che in Occidente non ci si pone mai simili domande. “Noi non
ci soffermiamo affatto su quale sia il nostro scopo. Tiriamo avanti
giorno dopo giorno: abbiamo un trantran quotidiano che ci fa
svolgere di corsa la nostra routine, i nostri doveri, funzioni e
vocazioni. Ma qual’è lo scopo di
tutto ciò, alla fine dei conti? Certe domande non ce le poniamo:
sono cose che non vengono mai in mente alla gente”. “Può darsi che
non vengano poste coscientemente”, dissi io, “ma sono presenti come
componenti della radice basilare della vostra personalità.
Altrimenti il livello conscio non potrebbe operare in maniera
sistematica”. Che altro è il sistema, la logica, l’approccio
scientifico se non la concordanza della nostra attività conscia con
delle più profonde aspirazioni? Qualora si venisse a determinare
un’incongruenza tra le nostre attività conscie e le nostre mete
interiori, ci riveleremmo presumibilmente antiscientifici, illogici
e antisistematici. Quando esiste un’armonia tra lo scopo e
l’approccio effettivo, questo processo va sotto il nome di scienza,
logica e sistema.
1 Cfr. Bhagavad Gita - 9 : 33 (N.d.T.)
Dobbiamo anzitutto gettare le fondamenta delle nostre ricerche, ed
evitare eccessivi entusiasmi senza che prima vi sia la sicurezza
d’aver dato il passo giusto al momento giusto, in modo ben saldo,
con chiarezza e completezza. Come già si è accennato, i nostri
studi si andranno gradualmente assottigliando dalla filosofia alla
psicologia, e dalla psicologia alla pratica. Non entreremo in
dettagli pratici giusto all’inizio, così come non s’entra in una
casa prima d’averla costruita. La dobbiamo prima costruire,
dopodiché potremo entrarvi e rilassarci nel nostro salotto.
Non si dovrebbe essere troppo impazienti d’intraprendere esercizi
di respirazione o concentrazione od altro senza aver prima gettato
le fondamenta di queste ben note pratiche. Sono cose molto
semplici, a patto che la loro essenza venga compresa. Si sente
tanto parlare
di respirazione, meditazione, asana, etc., che finiscono col
suonare come bizzarrie all’orecchio
di una persona comune, e comunque cose di difficile esecuzione; e
tutto perché le loro fondamenta non sono state edificate in maniera
appropriata. Ci precipitiamo a praticare asana o meditazioni, o
allo studio di elevate letture, oppure ci ritiriamo in isolamento,
senza esserci preparati in maniera adeguata allo scopo. Se ci
veniamo poi a trovare impreparati, torniamo indietro
insoddisfatti.
Dobbiamo andarci piano, non c’è nulla di sbagliato nell’andar
piano, purchè siamo sicuri d’essere riusciti a dare per lo meno un
passo. Anche se è un unico passo che siamo riusciti a muovere in
questa vita, non ha importanza, sempre che ciò sia stato fatto con
efficacia e che non ci vediamo costretti un giorno a ritornare sui
nostri passi. Non c’è senso nel fare un salto in avanti di cento
passi per poi avere la disavventura d’essere costretti a tornare
indietro a causa d’una spinta retrograda dovuta al nostro
sprovveduto avventurismo. Muoviamoci quindi con calma e prudenza,
tenendo bene a mente ogni passo con la fermezza della fiducia in
noi stessi.
Abbiamo cominciato col dire che fondamento del pensiero è la
nitidezza con cui mettiamo a fuoco la natura della realtà della
quale siamo alla ricerca. Parliamo di realtà perché è ovvio che non
siamo interessati a nulla d’irreale; sembra un po’ un luogo comune,
di sin troppo facile comprensione. Ma, nonostante la risposta alla
domanda “cos’è ciò che chiamiamo Realtà?” sembri sorgere immediata
e semplice, ci renderemo conto che le nostre risposte risultano
ingannevoli al momento di andare un po’ più a fondo nella natura di
ciò che vediamo con i nostri occhi.
Ci sono solo due cose che vediamo in questo mondo: il mondo e noi
stessi. Non vi è null’altro. Se ci guardiamo attorno scorgiamo il
vasto universo dei fenomeni astronomici e delle estensioni
geografiche, e noi siamo qui, dei piccoli individui circondati da
un mondo imponente. Cos’altro possiamo vedere? “Io sono qui e il
mondo è là”. L’individuo e il mondo sono le realtà. Potremmo forse
dire, in modo generico, che concepiamo due realtà. Se questo è il
nostro concetto di ciò che è reale, e non c’è dubbio che noi siamo
alla ricerca di realtà, da una simile risposta o definizione ne
consegue che siamo in cerca o del mondo, o di noi stessi.
Dev’essere così per logica deduzione, perché come abbiamo detto
esistono solo due cose: ci siamo noi e c’è il mondo. Se noi
esistiamo in quanto realtà, o il mondo esiste in quanto realtà, noi
siamo alla ricerca dell’uno o dell’altro, oppure d’entrambi. Ma
poi, in effetti, non siamo riusciti a far nostri né l’uno né
l’altro. Per quanto possiamo rincorrerlo, il mondo mai ci
apparterrà. Noi non siamo padroni del mondo, e questo è evidente.
Il mondo non ci appartiene. E così cercando d’avere il mondo non
l’abbiamo ottenuto; e cercando noi stessi sembra che non siamo
riusciti ad ottenere un pieno controllo neanche sulla nostra stessa
persona. La morte è un esempio palese della nostra incapacità di
renderci proprietà di noi stessi. Nessuno voterebbe volontariamente
il proprio corpo alla distruzione: ci imbattiamo piuttosto in un
potere che ci coglie di sorpresa privandoci del nostro stesso
corpo, attraverso quel fenomeno chiamato morte. Benché vi siano
diverse altre evenienze a conferma della nostra mancanza di dominio
su noi stessi, questa è la prova decisiva, che sta lì con la sua
luce abbagliante a dirci che non abbiamo alcun diritto neanche sul
nostro stesso corpo. Che dire allora dei diritti sulle altre cose
del mondo?
Dunque, nel nostro andare in cerca di questo o quell’altro,
esternamente o internamente, non abbiamo ottenuto nulla — né il
mondo né noi stessi. Ci dev’essere, evidentemente, un errore
intrinseco alla ricerca stessa da noi intrapresa. Se la nostra
definizione di realtà è corretta, e se è altrettanto vero che è
esclusivamente di realtà che siamo in cerca, resta inesplicabile il
perché dovremmo uscire sconfitti da questa ricerca, che è purtroppo
quello che invece è successo. La conclusione alla quale
quest’analisi ci porta non può essere che una: abbiamo imboccato la
strada sbagliata. La nostra idea di realtà non è corretta, ed è per
questo che la nostra ricerca della cosiddetta realtà s’è andata
sviluppando nella direzione sbagliata. Non ci siamo mossi nel modo
giusto perché non abbiamo compreso cosa in effetti sia la
realtà.
Il nostro edificio filosofico va in frantumi, crolla e cade a pezzi
nel caso che la nostra ricerca della realtà, che è indagine
filosofica, affondi le sue radici in un’idea fondamentalmente
sbagliata della realtà stessa. Esistono, sulla base del tipo di
analisi che abbiamo fin qui condotto, due modi d’approccio alla
realtà: quello esterno e quello interno, l’oggettivo e il
soggettivo, come vengono chiamati. L’approccio oggettivo è in
genere quello della scienza: la fisica, la chimica, la biologia,
l’astronomia, etc. sono tutti esempi di un’indagine esteriore della
realtà. La ricerca interiore è stata fin qui prerogativa degli
psicologi, degli psicoanalisti e, infine, dei mistici di tutto il
mondo: sono gli scandagliatori dell’interiorità, piuttosto discosti
dall’investigatore esterno del tipo scientifico.
Al punto in cui siamo, cos’è che abbiamo scoperto con tutte queste
analisi esteriori e tutti questi approcci interiori? Cosa ci dice
la scienza dopo aver percorso il mondo in lungo e in largo in cerca
della realtà, e cosa ci dicono gli psicologi? Oggi come oggi ci si
presentano di fronte solo questi due canali d’indagine.
Nell’approccio esterno, che è poi quello scientifico, possiamo
includere anche gli studi letterari, le scienze politiche, e poi
storia, sociologia, estetica, etica, scienze economiche ed altre
analoghe discipline. Non che queste siano esterne nel senso in cui
lo sono la fisica o la chimica, ma lo sono in quanto studi
oggettivi condotti attraverso l’esperimento e l’osservazione. Nel
momento in cui impieghiamo la tecnica dell’osservazione e
dell’esperimento, stiamo procedendo col metodo dell’approccio
esterno alla realtà.
Dobbiamo dunque prendere atto di entrambi gli approcci. E questi si
sono rivelati esaudienti, o si sono trovati di fronte un muro oltre
il quale non hanno potuto procedere? Tutti questi metodi
d’approccio, tanto interiori che esteriori, si sono poi conclusi
con una risposta
definitiva a tutte le domande che la vita ci pone? O ci hanno
piuttosto portato in un vicolo
cieco, per lasciarci all’oscuro dopo averci condotto fino ad un
certo punto? Se le cose stanno davvero così, qualche errore
dev’essere stato commesso anche in questi approcci, esterni o
interni che siano. Dobbiamo allora darci il tempo di approfondire
almeno per sommi capi l’indagine su questi metodi d’approccio alla
realtà, in modo da poter fare il punto della nostra
situazione.
ALLE SOGLIE DELL’INDAGINE
Torniamo al punto in cui c’eravamo fermati, cioè ai metodi che
vengono usati per sondare la realtà. Esistono per noi a quanto pare
solo tre vie, o meglio tre strade maestre, lungo le quali
conduciamo le nostre osservazioni, e non ci riesce di pensare ad un
quarto metodo. Guardiamo fuori e proviamo a vedere cosa abbiamo
intorno; guardiamo dentro e tentiamo di scoprire cosa c’è al nostro
interno; spesso guardiamo anche verso l’alto e ci chiediamo cosa
c’è al di sopra di noi. È sempre stata questa l’impostazione di
tutti i ricercatori, nell’ambito scientifico come in quello
filosofico o religioso.
Abbiamo avuto occasione di constatare l’esistenza di un certo
abituale approccio oggettivo da parte della scienza, le cui attuali
conquiste sono senz’altro considerevoli, e che passa più o meno per
vangelo. Vediamo fino a che punto ha dato buoni risultati, prima di
prendere in considerazione altri metodi e vie d’approccio. Cosa sta
facendo la scienza? Qual’è il modo di procedere dello specialista
nel campo dell’osservazione e dell’esperimento? Chiunque cerchi di
scoprire la verità attraverso l’osservazione e l’esperimento può
essere definito uno scienziato, ed è anche quello che noi stessi
cerchiamo di fare nel nostro piccolo con l’atteggiamento che
assumiamo verso le cose del mondo. Gettiamo allora uno sguardo sul
mondo: cos’è che vediamo? Le nostre faccende nella vita sono in
massima parte oggettive, esteriori, materiali. Vediamo gli oceani,
vediamo i venti soffiare ed il sistema stellare, vediamo i cinque
elementi — Terra, Acqua, Fuoco, Aria, Etere. Cos’altro vediamo? Ci
fu un tempo in cui i nostri specialisti in materia conclusero che
il mondo consiste di cinque elementi, oltre ai quali null’altro ci
è dato di vedere. Nuovi progressi, come sappiamo, sono stati
compiuti in seguito, e sono andati ad aggiungersi a queste
osservazioni di base sui cinque elementi primordiali.
Siamo oggi partecipi dei grandi passi avanti della fisica
nell’indagare a fondo la struttura della materia, termine che sta
oggi a significare per noi l’insieme di tutti e cinque gli
elementi
— Terra, Acqua, Fuoco, Aria, Etere. Tutti insieme, essi
costituiscono la materia nella sua essenza, e la fisica ne esplora
la struttura. Di cos’è fatta la materia, di cosa si compone?
Inizialmente si pensava che la materia fosse composta dei cinque
elementi soltanto, ma
ulteriori esperimenti hanno poi dimostrato che la solida terra, per
esempio, è in realtà porosa, un dato di fatto che ci è oggi ben
noto. La terra non è una massa indivisibile; l’acqua è porosa,
l’aria è porosa, ed anche il fuoco si configura come una sequenza
di processi energetici. Nessuno dei quattro elementi visibili è in
effetti quella cosa dura o indivisibile che appare: sono tutte
sostanze composte, e non elementari. Una sostanza elementare è
indivisibile, un composto è divisibile. Gli elementi sono quindi
frazionabili, e non sostanze inscindibili: ecco ciò che è stato in
seguito scoperto.
Allora la nostra osservazione iniziale, che esistano cioè degli
elementi solidi, non era esatta. E se la materia è divisibile, in
cosa si divide? La si può scomporre in molecole, che vanno a
formare le sostanze chimiche. Queste, a loro volta, comprese quelle
che compongono i nostri stessi corpi, sono riducibili a certi
elementi chimici. Tutto ciò che vediamo sono fasci di molecole
chimiche ai quali i nostri corpi, così come qualsiasi altra cosa
sulla faccia della terra, possono essere ridotti. Le molecole
posseggono proprietà chimiche, e sono anch’esse costituite da
particelle più sottili dette atomi, un po’ più difficili da
penetrare di quanto non lo siano le sostanze chimiche. Scienziati e
filosofi hanno dato in passato le più svariate opinioni circa la
natura degli atomi. C’era chi pensava che gli atomi dell’elemento
Terra fossero differenti da quelli dell’elemento Acqua, e gli atomi
dell’elemento Acqua lo fossero a loro volta da quelli di Fuoco o di
Aria. Abbiamo avuto anche in India alcune scuole di pensiero che
credevano nella struttura atomica della materia, ed esse ritenevano
appunto che gli atomi differissero l’uno dall’altro, che l’atomo
dell’elemento Terra fosse diverso dall’atomo dell’elemento Acqua, e
così via. La ricerca non si sarebbe però esaurita qui: è oggi
risaputo che non esiste differenza intrinseca tra un atomo e un
altro. L’apparente differenza non va attribuita alla qualità
intrinseca dell’atomo, ma piuttosto all’ordinamento dei suoi
componenti. Così la Terra è diversa dall’Acqua, l’Acqua dal Fuoco,
e così via non perché la loro essenza atomica muti, ma perché sono
costituzionalmente ordinati in differenti strutture.
Ma tutto questo fa parte della fisica classica, ossia della fisica
che ci ha accompagnati fino all’epoca di poco posteriore alla
cosiddetta ‘era newtoniana‘, momento in cui la fisica classica
raggiunse il proprio apice e fu deciso, una volta per tutte, che la
materia era contenuta nello spazio, il quale veniva considerato
come ricettacolo del contenuto materiale. La grande scoperta fatta
da Newton fu la legge di gravità, la tensione esistente tra
segmenti di materia fra loro relazionati a causa della reciproca
massa e distanza.
Oggi però, sul finire del ventesimo secolo, veniamo inevitabilmente
a confrontarci con scoperte ancor più rilevanti che ci costringono
a formarci un quadro ben strano del mondo della materia, di fronte
al quale lo stesso Newton resterebbe sorpreso se si trovasse a
vivere ai giorni nostri. Ecco che neppure gli atomi sembrano più
esistere. C’è solo un flusso continuo di energia che non ci
permette demarcazioni nette tra terra, acqua, fuoco, aria ed etere.
Ma non siamo qui per discutere di scienza, ed un accenno a tutto
questo è stato fatto solo come una specie d’introduzione
preliminare alle modalità con le quali la scienza si è andata
muovendo nella sua ricerca della realtà. Il nostro interesse in
materia è d’ordine filosofico.
A cosa ci conduce infine tutto ciò? A che punto siamo dopo tutte
queste scoperte? Siamo più edotti oggi sulla natura della verità di
quanto lo eravamo all’epoca in cui ci veniva detto che tutto si
compone di soli cinque elementi nella loro forma fondamentale?
Stiamo meglio oggi dal punto di vista sociale, filosofico,
religioso, etico o spirituale per il semplice fatto di aver
scoperto un continuum di energia nell’universo al posto dei cinque
elementi primordiali? Il punto cruciale della questione continua ad
eludere la nostra presa. Le nostre ricerche non sono dirette a
scoprire ciò di cui la materia è costituita: non è questo che in
realtà ci interessa. Non ci è di nessun aiuto sapere ciò che un
altro possiede: voi potreste possedere qualsiasi cosa, e a me cosa
dovrebbe importare? Perché mai dovrei stare ad indagare sulle
vostre proprietà, il vostro conto in banca, le vostre relazioni
sociali e tutto il resto? Nulla me ne verrebbe, chiunque voi siate,
a meno che esista tra queste informazioni e la mia vita un qualche
nesso sul quale io stia investigando.
Che vantaggi ricaviamo da queste scoperte? Se il mondo è un
continuum di energia, a noi cosa ne viene? Stiamo forse meglio?
Sappiamo bene che siamo oggi nelle stesse condizioni, per quanto
riguarda le nostre vite personali e sociali, le nostre aspirazioni
e esigenze, nelle quali si devono essere trovati i nostri antenati
secoli addietro. E allora, dov’è il nocciolo della questione? Ecco
un punto che è stato per qualche motivo trascurato. È questo il
difetto di un approccio puramente scientifico di tipo sperimentale,
mentre il vantaggio delle scoperte scientifiche consiste invece nel
rapido sviluppo tecnologico dell’epoca in cui viviamo. Abbiamo
aereoplani velocissimi, sofisticati sottomarini e aggeggi d’ogni
sorta: sono tutte scoperte, invenzioni che derivano dalle nozioni
oggi acquisite sui componenti della materia. Ma tutto ciò, in fin
dei conti, non ci dispensa dal vivere in uno stato d’infelicità e
di ansia, per via del fatto manifesto che le nostre essenze non
trovano connessione con queste scoperte. Esiste, per dirla in
maniera più tecnica, come un abisso epistemologico tra il
conoscitore e il conosciuto. Il modello conoscitivo resta lo
stesso, oggi come qualche migliaio di anni fa. E qual’è il modello
conoscitivo al quale ci stiamo riferendo? È qui che lo studioso
deve concentrare la sua attenzione, dato che si tratta di un tema
un po’ insolito e forse di difficile comprensione, ed è qui che si
trova il nocciolo di tutta la questione.
La nostra vita è inseparabile dalla nostra esperienza. Ciò che
chiamiamo vita non è altro che esperienza, ed è questo un punto
importante da ricordare. E l’esperienza, di qualunque natura essa
sia, è inseparabile dalla consapevolezza di quell’esperienza. Non
esiste esperienza senza la relativa consapevolezza: siamo consci di
andare soggetti ad un processo o di trovarci in uno stato di
esperienza. Se la consapevolezza non è presente, non possiamo dirci
in uno stato qualsiasi d’esperienza: l’assenza di esperienza è
assenza della consapevolezza di ciò che sta accadendo. Ora, essendo
la nostra vita equivalente all’esperienza conscia, e volendo basare
la nostra ricerca della realtà sull’osservazione e l’esperimento
alla maniera della scienza, è nostro compito scoprire in che modo
lo scenario esteriore della Natura, così come si presenta ai nostri
occhi dal punto di vista della ricerca scientifica, è connesso alla
nostra vita personale.
Il mondo è altrettanto ingovernabile oggi di quanto lo era tanti
anni fa. Col semplice affermare che esiste nell’universo un
continuum di energia, invece che cinque elementi, non
abbiamo di certo migliorato le cose: significa in fin dei conti la
stessa cosa. E perché mai
dovrebbe voler dire la stessa cosa, perché non fa differenza?
Perché la nostra incongruenza col mondo rimane oggi la stessa di
ieri. Il nostro tormento è dovuto al fatto di trovarci defraudati
delle cose che definiamo reali o realtà. La terra e l’acqua, il
fuoco e l’aria non si trovano sotto il nostro controllo; e
l’immensità dello spazio ci lascia senza fiato.
Allo stesso modo non siamo oggi in grado di controllare gli atomi,
gli elettroni, le energie o le forze che dir si voglia, perché ci
troviamo al di fuori di essi. La nostra vita, per ricordarlo
nuovamente, è funzione della coscienza, e nella misura in cui la
nostra coscienza non è in rapporto con la realtà di cui siamo alla
ricerca, noi non ci troviamo in possesso di tale realtà; e nella
misura in cui non ne siamo in possesso, non abbiamo praticamente
nulla a che fare con essa. È come un tesoro che appartiene a
qualcun altro, del quale abbiamo solo informazioni teoriche e col
quale non esiste, in pratica, nessuna relazione. La nostra
separazione dalla realtà — e accontentiamoci per il momento della
definizione scientifica di realtà in quanto oggetti esterni, il
mondo che vediamo — è proporzionale alla nostra debolezza. La
nostra forza aumenta coll’intensificarsi del nostro controllo sulla
realtà, del nostro possesso della realtà.
Quanto più ci troviamo in possesso della realtà, tanto maggiore è
il potere che siamo in grado di esternare. E cosa s’intende per
possesso? Possedere un oggetto, possedere qualcosa a tutti gli
effetti pratici, significa essere ad esso costantemente collegati,
in maniera inseparabile. Vi farò un esempio di ciò che significa
potere, e di ciò che non significa. Noi esercitiamo un dominio
sugli arti del nostro corpo: io posso sollevare la mia mano a mio
piacimento, senza alcuna difficoltà. Pur essendo la zampa di un
elefante molto pesante, l’elefante è in grado di sollevare la
propria zampa. L’elefante può issare il proprio corpo intero,
nonostante il fatto che un centinaio di persone non bastino a
sollevare un elefante. Può darsi che io non sia capace di sollevare
il vostro corpo, ma voi lo potete; e voi potreste non riuscire ad
alzare il mio, ma io lo posso. Cos’è questo mistero? Da dove viene
questa forza con la quale io sono in grado di sollevare il mio
corpo e farlo camminare? Il motivo risiede nel fatto che la mia
consapevolezza è tutt’uno con la mia realtà, che è poi questo
corpo: non si trova al di fuori. E voi non potete sollevare il mio
corpo, né io il vostro, perché la vostra consapevolezza non è
collegata al mio corpo, né la mia al vostro. L’analogia è chiara e
semplice quanto basta.
Tutto si spiega col fatto che il potere equivale all’unione della
consapevolezza col suo oggetto. Il contenuto della coscienza non
dovrebbe trovarsi al di fuori della coscienza stessa, se è un
dominio effettivo quello che si vuole esercitare. Finchè il
contenuto resta all’esterno, la
coscienza non ne può assumere il controllo. Non c’è scienziato,
dunque, che possa controllare
l’universo o instaurare con esso una relazione sufficiente o
cospicua che sia, poichè lo scienziato rimane un burattino in mano
a quegli stessi poteri che viene a scoprire, e dei quali si rende
oggi conto d’essere parte inseparabile. Ma nonostante tutti i suoi
possibili difetti, la scienza ci ha risvegliato ad un’importante
verità: conoscere il mondo significa conoscere noi stessi. C’è da
restar sorpresi che sia proprio la scienza a metterci di fronte ad
una simile realtà. Eppure è proprio così: in qualche modo, potremmo
dire per caso, è andata ad inciampare su questo dato di
fatto.
Non ci è dato di conoscere l’universo a meno di conoscere noi
stessi. Mentre questa è una verità, lo è anche al tempo stesso il
suo contrario: non possiamo veramente conoscere noi stessi a meno
che conosciamo l’universo intero. Una cosa equivale all’altra. Ma
com’è che la scienza ci porta ad una simile conclusione? Il segreto
sta nella scoperta di un indivisibile continuum in Natura, al di
fuori del quale nessun individuo, né cosa alcuna, può esistere. Il
continuum spazio-temporale del cosmo della relatività, di cui gli
scienziati oggi parlano, include voi stessi, me stesso, e tutte le
cose. Nessuno può starne al di fuori. Non siamo che un mulinello in
quest’oceano di forza chiamato continuum spazio-temporale : come
potremmo conoscerlo se non conoscendo anche noi stessi, dal momento
che ne siamo parte integrante? E questo diviene ancor più evidente
se pensiamo al fatto che conoscere significa avere una
consapevolezza dell’accadimento; e la consapevolezza è un fattore
essenziale del nostro essere. Il nostro essere e la nostra
consapevolezza d’essere sono la stessa cosa, e non due cose
distinte.
Nel momento stesso in cui affermiamo d’esistere, diamo per
implicito d’essere consapevoli della nostra esistenza. L’esistenza
delle cose è inseparabile dalla coscienza dell’esistenza delle
cose. Visto che abbiamo stabilito che l’esistenza consiste d’un
flusso ininterrotto, intimamente inscindibile, senza alcuna
soluzione di continuità, conoscere l’universo vorrebbe dire essere
consci dell’universo. Ma in che maniera? Non si tratta qui del tipo
di consapevolezza del mondo che abbiamo attualmente: l’essere
consapevoli, ad esempio, dell’esistenza di una montagna di fronte a
noi. Non è questa la consapevolezza alla quale ci stiamo qui
riferendo.
Come abbiamo detto, la coscienza non può essere separata
dall’esistenza delle cose, e visto che l’esistenza delle cose è
stata definita come equivalente ad un flusso continuo ed
onnicomprensivo di processi ed energie, questa rivelazione approda
ad una conclusione così sorprendente da lasciarci sconcertati: ne
consegue che la conoscenza di una qualsiasi cosa equivarrebbe
all’essere cosmicamente consapevoli. Non possiamo conoscere una
sola cosa al mondo a meno che la nostra coscienza si risvegli
all’universalità. Non possiamo conoscere noi stessi, né un granello
di sabbia sulla riva del fiume, a meno d’essere onniscienti. E ciò
che la religione chiama Dio non è null’altro che questo stato di
coscienza, nel quale conoscere è uguale ad essere. Non è di questo
argomento che si occupano la scienza in generale o la fisica in
particolare, eppure ci hanno fatto approdare volenti o nolenti a
questa conclusione per via d’una forza matematica di deduzione
logica. Ecco uno dei grandi vantaggi che la scienza ci offre, a
fronte di tutti gli orrori che le sue aberrazioni tecnologiche
hanno invece generato.
Ma ciò che la scienza ci può suggerire non si esaurisce qui, dato
che finora abbiamo parlato solo di fisica, e la fisica non
rappresenta certo l’intero panorama scientifico. Chi studia scienze
sa che c’è dell’altro: esiste ciò che viene chiamato vita. Gli
esseri viventi sono diversi dalla materia inanimata. Il mondo della
fisica e della chimica è diverso da quello della vita e degli
esseri viventi. Oltre all’astronomia, alla fisica e alla chimica,
che si occupano più che altro di materia inorganica, vi sono le
scienze biologiche che studiano gli organismi viventi e cercano di
capire cosa sia la vita.
Abbiamo qui una cosa di raro interesse da osservare. Cos’è la
biologia? Cos’è lo studio della vita, degli esseri viventi, e
perché viene definito come scienza? Lo definiamo così perché siamo
soliti identificare la scienza col processo di osservazione ed
esperimento. E su cos’è che
i biologi hanno condotto le loro osservazioni ed esperimenti? Le
funzioni della vita: questo è il
loro campo di ricerca. La vita in sé non può essere però osservata.
Non posso vedere con i miei occhi la vita nelle persone che mi
stanno sedute di fronte: posso solo vedere movimenti e sintomi
della presenza della vita. E così anche la biologia, in quanto
scienza, è stata capace di spingersi solo fino al punto in cui
possono essere osservati i sintomi dell’esistenza della vita, ma
non la vita in sé. Non ci è dato di vedere la vita con alcun tipo
di apparecchio o strumento.
Ma come facciamo a sapere che un corpo vivo è differente da uno
morto, che un albero è diverso da una pietra? Lo sappiamo per via
di certi indizi della presenza di vita in ciò che
definiamo un corpo vivente, e che non sono presenti in ciò che
chiamiamo materia inerte. Ci
imbattiamo qui, di nuovo, in un difetto del procedimento
scientifico: ci ritroviamo ad aver già standardizzato i sintomi
della vita. Solo nel caso che il tale processo venga osservato, la
qualifica di vita viene attribuita. Abbiamo preso per buono questo
criterio di valutazione: abbiamo concluso che, per considerare una
cosa come vivente, essa deve possedere determinate caratteristiche.
Se queste non sono presenti, quella cosa viene da noi
considerata
inorganica. Questo però non è altro che un preconcetto del metodo
scientifico, e ne è appunto il difetto.
Perché mai dovremmo standardizzare i sintomi della vita? Questa
standardizzazione ci si ripresenta in continuazione, condizionata
com’è da certe definizioni che noi stessi formiamo nella nostra
mente. La mera constatazione dell’esistenza di determinati
movimenti nel mondo della materia non può venir equiparata alla
scoperta del segreto della vita. Prendiamo la questione di come la
vita abbia avuto origine, una domanda vecchia quanto il mondo.
Geologi e astronomi ci dicono che questa Terra ha avuto origine dal
Sole, cosa che viene praticamente accettata come un dato di fatto,
e che probabilmente è un fatto vero. C’era un tempo in cui la Terra
non esisteva. La Terra è un frammento della rovente massa del Sole,
staccatosi a causa del movimento centrifugo del Sole, come
ritengono alcuni, o con la tremenda frizione creatasi nella massa
solare per via della prossimità di un’altra stella che passava lì
vicino, secondo altri; ed è così che si suppone che questo pianeta
si sia venuto a formare. Due sono, insomma, le ipotesi che sono
state avanzate. Una ritiene che il Sole abbia subìto una
digressione nel movimento ad una velocità tremenda, durante la
quale se n’è staccato un frammento. La seconda sostiene che una
trazione gravitazionale esercitata da un’altra stella che
transitava nelle vicinanze del Sole ne abbia fatto staccare una
porzione, che s’è scagliata nello spazio a grande velocità con la
sua massa ardente, fuoco nella sua essenza. Il fuoco s’è poi andato
raffreddando in liquido, che gradualmente s’è solidificato in
terra: e la storia è tutta qua.
Ma in tutto ciò la vita dov’è? Non scorgiamo esseri viventi nel
quadro che ci viene proposto, solo fuoco e acqua e terra inanimata.
Ci dicono allora che la vita dev’essere giunta a noi da qualche
altro pianeta. D’accordo, ma sembra tanto la vecchia storia
dell’uovo e la
gallina: quale dei due sarà nato prima? E la nostra domanda resta:
come ha avuto origine la
vita? Dicendo semplicemente che è venuta da un altro pianeta non
abbiamo risposto alla domanda, dal momento che ne sorgerebbe subito
un’altra: “... e come ha avuto origine la vita lì?”. Potremmo dire
che è venuta da un terzo pianeta, e così via. Nessuno sa come la
vita abbia avuto origine: è a tutt’oggi un mistero.
Come possono degli esseri viventi scaturire dalle masse roventi
delle stelle? Si sentono raccontare casi di germi che si
autogenerano da acque stagnanti, insetti che sorgono da cumuli di
letame, e cose del genere. Com’è possibile? Si dice che gli
scorpioni siano stati generati dal
letame, o almeno questa è una teoria. Be’, gli scorpioni sono
dotati di vita, e il letame no.
Come può la vita derivare dalla non-vita? E così la biologia si
trova infine davanti uno schermo scuro, e la scoperta della vita
finisce in un modo o nell’altro col diventare un’inferenza
piuttosto che un’osservazione.
C’è gente che pensa che la biologia non sia una scienza esatta,
mentre la fisica e la chimica lo sono. La biologia non sarebbe una
scienza esatta perché i suoi procedimenti comportano una certa dose
di inferenza, dato che gli esperimenti e le osservazioni da soli
non sembrano essere sufficienti. Ma di che genere di inferenza si
tratta? Ci addentriamo qui nel profondo della biologia. Dobbiamo
comunque ricordarci che argomento della nostra discussione è
l’approccio oggettivo della scienza, per cercare di capire fin dove
ci ha condotti e a che punto ci costringe a fermarci, quali sono i
suoi eventuali difetti e perché in ultima analisi non può esserci
d’aiuto.
La fisica, la chimica e l’astronomia ci hanno lasciati a metà
strada, e pare che anche la biologia non possa far altro che
lasciarci in sospeso da qualche parte, non essendo in grado di
condurci oltre perché la vita è imperscrutabile. Noi non sappiamo
cosa significhi vita. Quando diciamo “io sono vivo”, cos’è che
vogliamo dire in realtà? Forse vogliamo dire che ci muoviamo.
Possiamo dire che un carro di buoi è un essere vivente solo perché
si muove? Un’automobile è forse viva? Col termine vita vogliamo
dunque intendere qualcosa di ben diverso dalla semplice
locomozione.
È assai difficile rispondere alla domanda “cos’è la vita?”. Se dico
“io vivo, io sono vivo”, voglio intendere una cosa del tutto
diversa dalla semplice locomozione del corpo. Qual’è allora il
punto cruciale nella ricerca biologica? Giungiamo qui ad una svolta
del tutto imprevista nel nostro approccio, e ci vediamo costretti
ad accettare il fatto che la vita corrisponde ad un’intenzionalità
nell’essere: essere vivi significa essere teleologicamente
consapevoli. Noi ci distinguiamo per dei movimenti intenzionali, e
non soltanto per dei movimenti meccanici come nel caso di
un’automobile o di un carro di buoi, che vanno in qualunque
direzione li si mandi e in un modo qualsiasi. I nostri movimenti
sono intenzionali, guidati, pregni di uno scopo, ed è questo che
s’intende per movime