RINGRAZIAMENTO A tutti gli insegnanti della FIY e al...

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RINGRAZIAMENTO A tutti gli insegnanti della FIY e al supporto della mia famiglia. Vorrei dedicare questa piccola ricerca a colui che mi ha aperto il cuore e a coloro che lo mantengono fiorito 1

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RINGRAZIAMENTO

A tutti gli insegnanti della FIY

e al supporto della mia famiglia.

Vorrei dedicare questa piccola ricerca a colui che mi ha aperto il cuore

e a coloro che lo mantengono fiorito

1

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INDICE

1. PREMESSA

2. INTRODUZIONE

3. LE QUATTRO VIE DELLO YOGA

3.1 Cos'è lo yoga

3.2 Le quattro forme principali dello yoga

3.3L' unità nella diversità

4. LA FEDE E L'ABBANDONO

4.1. Classificazione della bhakti,

4.2. Amore è la base

4.3. Divinità personale- Dio assoluto

5. COLTIVARE LA DEVOZIONE IN PRATICA

5.1 I nove gradini della Bhagavata purana

5.2 Gli effetti dei nove gradini

6. ESPERIENZA PERSONALE

7. CONCLUSIONE

8. BIBLIOGRAFIA

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1. PREMESSA

Questa tesina è stata scritta nella conclusione del corso formativo dell'Istituto Superiore per la Formazione Insegnante Yoga

(ISFIY) a Padova organizzata dalla Federazione Italiana di Yoga (FIY). Gli insegnanti hanno chiesto agli allievi di far

influire nell'espresso le esperienze personali. Quindi comincio con un' analisi sul perché e sul come ho scelto il tema.

Per un lungo periodo ero indecisa di scrivere la tesi sulla devozione. Da un lato mi sentivo attirata dall'argomento,

soprattutto dopo una lezione sulla bhakti tenuta dal Professore Antonio Rigopoulos durante il corso quadriennale di

formazione yoga. Ma non solo, sarebbe stato anche un approfondimento da parte mia sulla questione stessa, sulla quale

avevo già scritto un breve elaborato durante il corso residenziale per diventare insegnante di yoga presso Vivekananda

Kendra, India, con il titolo: “Bhakti: emotion culture”. Quella tesina allora si focalizzava soprattutto sull'aspetto

emozionale nel bhakti yoga.

Quindi, da un lato attirata, e dall'altro piena di dubbi, data la mia esperienza limitata, di esserne all'altezza per confrontarmi

con un tema così vasto avendo paura di perdermi.

Dopo lunghi riflessioni ho scelto di continuare sulla strada già intrapresa inconsciamente anni fa, riassumendo in queste

righe ciò che dello yoga sento con più forza e verità dentro di me. La tesi che presento non vuole essere presunzione, ma

consapevolezza di essere solo all'inizio di una ricerca personale, la quale è mirata a comprendere la vivibilità terrena del

divino che lega insieme tutte le cose e che dà senso a tutto ciò che si vive.

2. INTRODUZIONE

Questa tesina tratta di un tema abbastanza trascurato nella nostra società: la devozione, che implica il concetto della fede.

La fede poi a chi o che cosa? Quindi subentra in primis l'aspetto del divino. In un certo periodo della mia vita mi sono

definita atea, rifiutando ciecamente ogni possibilità che possa esistere qualcos'altro che la materialità terrena. Questo

periodo è stato accompagnato anche da depressioni forti dai quali sono riuscita a uscirne grazie a una domanda che mi sono

auto-imposta: avere fiducia in una forza superiore o non avere fiducia in niente e nessuno? Come via d'uscita dal vortice ho

preferito la prima opzione, perché così la vita non sembrava più vuota e senza senso ma si era arricchita, non sentendomi

più abbandonata, ma guidata da una forza superiore. Non voglio dire con queste righe che ogni ateo è un depresso, ma mi

sto ricordando semplicemente alle mie esperienze. Anzi, come dice Dostoevskij: “Un ateo é talvolta più vicino a Dio di un

credente ”. Ed è proprio qui il fulcro della questione: un ateo, con un' etica ben radicata, può essere più vicino alla volontà

divina che un credente che non fa altro che ripetere ciecamente dei dogmi religiosi senza ricerca cosciente e senza impegno

personale di auto-miglioramento. In un percorso spirituale a maggior ragione sarebbe importante includere comportamenti

etici, rivedendo le proprie azioni sotto la luce dell'altruismo e proponendo così una via d'uscita dalle sofferenze. Il

praticante della bhakti, della devozione, cerca personalmente e coscientemente Dio, che non dovrebbe risultare come una

fede cieca, un' illusione o un'idea teorica. Questa fiducia nel divino é considerata addirittura salutare, perché porta oltre a

una salute fisica, anche a uno stato d'equilibrio psichico studiato sia dai psicoanalisti moderni che dai padri del deserto

cristiani, come anche dagli antichi praticanti di yoga. Concludendo vorrei citare il monaco Swami Chidananda che afferma

che è addirittura irrazionale pensare che Dio non esiste. Chidananda sostiene che non possiamo vedere Dio, ma possiamo

incontrarlo nello opere e parole dei santi dimostrandoci che Dio si è realizzato in loro. Sono pienamente d'accordo con lui

quando continua a sottolineare l'importanza che ognuno per conto suo esperisca il divino, personalmente, come hanno fatto

e fanno tutti i mistici del mondo.¹

¹ SRI SWAMI CHIDANANDA, “Realization through devotion”, Divine life society publication

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3. LE QUATTRO VIE DELLO YOGA

3.1 Cos'è lo Yoga

Il sostantivo yoga deriva etimologicamente dalla radice “yuj”, che significa legare insieme, congiungere, aggiogare, da cui

deriva altre sì il latino “iungere, iugum,” che ha la stessa origine indoeuropea; nei testi vedici viene utilizzato per

rappresentare il concetto l'immagine del carro di Surya (il Sole), tirato da cavalli le cui redini sono trattenute dalle mani del

cocchiere. Ciò esprime l’idea che lo sforzo di tali animali è unito, congiunto, coordinato. Da qui la traduzione di yoga con

“unione” che dà però una spiegazione parziale, discutibile e sicuramente errato se applicato allo yoga classico che è

radicalmente dualistico, cioè si trovano due principi metafisici alla base che non sono unificabili. Piuttosto si traduce Yoga

con ” disciplina psicofisica”, “controllo dei sensi”, “prassi meditativa”, ”legare assieme i fili della mente”.

Il vocabolo yoga indica sin dall’inizio un metodo, legato a tutta una serie di posture fisiche e di pratiche per il controllo del

respiro e della mente, che serve a disciplinare l’attività psichica. Nel corso di millenni si sono sviluppati in India una grande

varietà di tipi di yoga caratterizzati da una disciplina rigorosa e precisa con lo stesso scopo: di essere lo strumento

attraverso il quale si attinge la chiarezza della mente e la liberazione che, nella visione indiana, equivale al raggiungimento

di un piano di esistenza che trascende la condizione umana.

3.2 Le quattro forme principali dello yoga

In generale si considerano quattro forme di yoga come principali:

jnana yoga, raja yoga, karma yoga e bhakti yoga.

Jnana yoga è la disciplina della ricerca della vera conoscenza. L' analisi comincia con l'ascolto di un maestro che spiega gli

antichi testi, seguito dalla riflessione, dalla discussione con altri ricercatori e dal chiarimento dei punti oscuri. Attraverso l'

intelletto (buddhi), visto come uno strumento che porta alla libertà, si cerca di andare oltre i limiti mentali per scoprire la

conoscenza vera. Una domanda che un jnana yoghi dovrebbe porsi frequentemente durante il suo percorso è: chi sono?

Raja yoga è lo yoga del re (raja) - ci insegna come possiamo diventare i padroni dei nostri pensieri e sensi, capaci di

controllarli, mirando a uno stato di pace interiore e alla chiarezza mentale.

“Il re indica qualcosa dentro di noi molto più grande di ciò in cui ci identifichiamo normalmente. Raja può anche riferirsi

all'essere divino o al riconoscimento dell'esistenza di Ishvara (Signore). Nei Veda troviamo spesso il termine raja applicato

a Ishvara. Esistono però anche altre definizioni del raja yoga che non lo collegano a Ishvara. “ ¹

Lo hatha yoga è lo yoga comunemente conosciuto e praticato nell'occidente con i suoi esercizi fisici (asana), di respirazione

(pranayama). Questa via dello yoga dovrebbe essere praticato per culminare nel raja yoga come viene illustrato nel libro

Hatha yoga pradipika: ”Gli asana, i vari tipi di kumbhaka e le eccellenti pratiche, tutti debbono essere usati nell'esercizio

dello hatha, fino al raggiungimento del frutto, il raja yoga. ” ²

Gli yoga sutra del mitico Patanjali è un testo basilare dello raja yoga che ci offre oltre a delle definizioni dello yoga, dei

¹ ”Il cuore dello Yoga”, T. K.V. Desikachar, Ubaldini Editore, Roma, 1997, p162

² “Hatha Yoga Pradipika”, prima capitolo, verso 67

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consigli per una pratica personale e delle descrizioni degli stati mentali.

Karma yoga è lo yoga dell'azione.

“Nella vita dobbiamo agire, ma senza essere influenzati dai risultati delle azioni. Se i frutti dei nostri sforzi non

corrispondono alle aspettative, non dobbiamo rimanere delusi, perché lo sforzo è spesso imperfetto. Le nostre azioni non

dovrebbero mai essere determinate dalle aspettative.” 1

Il Karma yoga è quindi lo yoga dell'azione disinteressata ai frutti che seguono dall'azione. La meta sarebbe di riuscire ad

agire con uno spirito equanime in riguardo ai frutti, che essi siano considerati positivi o negativi. Facciamo tutto ciò che ci

compete, che dobbiamo fare, addirittura senza intenzione iniziale, non attaccandoci né alle azioni né alle loro conseguenze.

Il libro principale che accompagna il cammino di un praticante del karma-yoga è la Bhagavad-gita (Il canto del glorioso

Signore).

Bhakti yoga è la via dell'amore e della devozione diretta verso Dio. Ogni azione viene dedicata al Signore amato che

rappresenta guida e aiuto. In un ottica di abbandono il praticante della bhakti offre tutti i suoi pensieri e azioni al potere

superiore. In tutto ciò che si vede e in ogni essere umano si riconosce il divino, la verità. Si agisce, spinti dal desiderio di

servire Dio, tenendo il suo nome sempre in se e meditando su di lui.

La strada della devozione si trova espressa in particolar modo nella Bhagavad-gita (soprattutto nel XII capitolo), negli

aforismi di Narada e di Sandilya nei bhakti sutra di e nella Bhagavata Purana.

3.3 L'unità nella diversità

Anche se queste quattro forme principali dello yoga sono distinte le une dalle altre, non possono mai essere separate del

tutto. I grandi saggi hanno sempre affermato che tutte vie tendono a fondersi ed integrarsi.

“Purtroppo, queste classificazioni hanno assunto un'importanza eccessiva e fanno credere che vi siano reali differenze tra

le varie forme di Yoga. In realtà si tratta di un unica cosa vista da diverse prospettive. Se seguiamo con tutto il nostro

impegno una forma di yoga, stiamo progredendo lungo tutti i cammini dello yoga” ²

Tutti i vari approcci dello Yoga hanno in fondo la stessa meta: il raggiungimento della chiarezza mentale attraverso

trasformazioni della personalità, con un ammorbidimento dell'ego, che culmina nella trascendenza umana. E' un cammino

verso la liberazione che è segnato dalla sua gradualità e dall'accompagnato di una pratica ardua, rigorosa, precisa e costante

che varia nelle diverse vie.

Gli esempi seguenti cercano di illustrare l'inter-dipendenza dei diversi percorsi:

Così il maestro Sri Ramakrishna dice che “un puro bhakti yoghi conquista, senza cercarla, la conoscenza suprema che è

frutto dello jnana yoga; e viceversa il puro jnana yoghi proprio accede all'amore supremo che cerca il bhakti yoghi.” 3

Swami Shivananda Saraswati ritiene una pratica di raja yoga indispensabile in tutte le altre forme di yoga. ª

Il karma yoga per esempio può raggiungere una tale grandezza che un maestro dell'India moderna, Sri Aurobindo, lo

1 ”Il cuore dello Yoga”, T. K.V. Desikachar, Ubaldini Editore, Roma, 1997, p.163 ² idem p.168

3 “Imparo lo yoga”, André van Lysebeth, Mursia, 1975, p 6 ª idem

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considera uno yoga integrale, comprendente tutti gli altri. 1

“Non si può conoscere senza amare e non si può amare senza conoscere” 2

Bisogna rivelare l'importanza delle persone guide, i grandi maestri, che hanno raggiunto il culmine dell'evoluzione

spirituale, e che hanno la capacità di far fare ai ogni loro discepolo in ogni periodo del suo avanzamento la disciplina

particolare più appropriata.

Oltre i quattro grandi yoga e le loro varianti, esistono altri yoga autentici, tra i quali ricordiamo solo alcuni, come il japa

yoga, kriya yoga, mantra yoga, i yoga tantrici come lo hatha yoga al quale ci si riferisce in occidente, quando si parla di

yoga. Tutti possono essere praticati separatamente e svolgono una funzione importante negli yoga compositi.

Oggi, le esuberanti offerte dello yoga comportano spesso a uno stato di confusione, soprattutto nei primi avvicinamenti con

la disciplina. Questo disorientamento non viene diminuito con le invenzioni degli ultimi decenni, assurde e svelanti in

confronto a uno yoga tradizionale. Ci vuole una buona capacità di distinguere e di discernere per capire quale annuncio

porta alla Verità e quale no.

Riassumendo si può dire che “l'unità nella diversità” significa la possibilità di raggiungere il nostro centro più profondo

attraverso varie strade: attraverso la forza della mente, praticando la concentrazione o delle tecniche meditative, attraverso

le emozioni o con l'aiuto del' intelletto analizzando e discriminando. Ma tutte le vie validi dello yoga, pur avendo diverse

tecniche, hanno la stessa fine, che non si deve dimenticare durante il cammino: il raggiungimento della liberazione come

scopo della vita attraverso una costante auto-trasformazione, cioè auto miglioramento.

4. LA FEDE E L'ABBANDONO

4.1. Definizione e classificazione della Bhakti

Il termine bhakti, sostantivo femminile, deriva dalla radice “bhaj”, che ha il significato di separare, tagliare, apporzionare,

dividere. In origine si riferiva al fatto di separare e porzionare l'offerta resa alla divinità durante il rito sacrificale. Nel culto

antico la parte più cospicua dell'offerta veniva dedicata alla divinità e la parte restante che configurava come un resto di

grazia (prasada) veniva condiviso tra i sacerdoti che eseguivano il rito (brahmani) e la comunità dei fedeli. Si tratta di una

vera e propria comunione.

La traduzione è corretta con devozione, ma il termine implica anche una relazione intima che vive della condivisione,

un'amore condiviso tra il devoto e la divinità. La bhakti è la partecipazione dell'uomo alla natura divina, fondato sulla sua

grazia, e può essere intrapresa come un percorso evolutivo e graduale della persona. In India ci sono molte teologie e

declinazioni della bhakti e in tanti tradizioni gioca un elemento cruciale, essendo spesso accompagnata da tecniche

provenienti da altre forme di yoga. 3

Delle definizioni della bhakti ne esistono tantissime; per citare alcune:

1 “Imparo lo yoga”, André van Lysebeth, Mursia, 1975, p 6

2 “Hinduismo”, RIGOPOULOS ANTONIO, Editrice Queriniana, 2005, p 211

3 Dispense del 2°anno Isfiy del Professore Antonio Rigopoulos

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Swami Vivekananda sofferma che la bhakti è caratterizzata da una ricerca reale del Signore che inizia, continua e finisce

nell'amore. Lo stato ultimo della bhakti è raggiunto quando “l'amore, l'amante e l'Amato fanno uno”. 2

Swami Shivananda non ritiene la devozione come mira emozione o sentimento puramente intellettuale, ma anzi la

considera una vera scienza e disciplina; definisce la bhakti come “amore per la grazia dell' amore “, e “ l' amore puro , non

egoico “ ³

La meta della bhakti è la liberazione dal divenire samsarico, dal ciclo della rinascita e della morte.

La fine della bhakti è jnana- la vera conoscenza- che intensifica la devozione.

Durante il percorso del praticante la bhakti addolcisce il cuore, rimuove gelosia, odio, desideri, collera, egoismo, orgoglio,

arroganza, preoccupazioni, paure, tormenti mentali. Induce gioa, beatitudine, estasi divina, pace, conoscenza saggezza.

da Sri Swami Shivananda3

Per completare il quadro sullo bhakti yoga vorrei nominare alcune suddivisioni:

Il percorso spirituale della bhakti, altronde come tutti gli yoga, presuppone uno sviluppo graduale e progressivo. Si parte da

forme più semplici fino ad arrivare a forme più raffinate, incominciando da quelle piuttosto impure per andare verso quelle

più pure, passando da un'adorazione verso una divinità a una venerazione alla Realtà suprema. All'inizio sarà opportuno

appoggiarsi a tecniche che prevedono un aiuto esterno e concreto (di un oggetto), per poi rivolgersi a aiuti interni mentali,

fino ad arrivare all'ultimo a trascendere anche questi e con il non-attaccamento si arriva al Silenzio.

La bhakti in cui il nome e la forma ha fondamentale importanza è chiamata saguna bhakti (con qualità- devozione con

forma-) e la bhakti in cui c'è un trascendimento del nome e della forma è nirguna bhakti (senza qualità- devozione a Dio

senza forma).

“E' più facile aderire alla Realtà Assoluta se essa ha un volto di una divinità personale.

Nel Medioevo indiano le scuole devozionali che veneranno una divinità dette saguna (che venerano un Dio dotato di

qualificazioni o attributi, cioè un Dio personale) ebbero un successo maggiore di quelle dette nirguna ( che cantavano un

Dio privo di qualsiasi attributo o qualificazione) “ 4

Il perfezionamento della “scala devozionale” però termina nel privo di forma e nel privo di nome.

Quindi si distingue tra una bhakti inferiore, imperfetta (apara bhakti) da una bhakti superiore e perfetta (para bhakti).

Nel percorso spirituale della bhakti imperfetta, il devoto è intrisa d'attaccamento e invoca le divinità per interesse egoistico.

Osserva dei rituali e cerimonie, decorando degli immagini e offrendo dei fiori alla divinità per esempio.

La para bhakti è la forma più nobile, quando l'adepto più avanzato nella pratica, impara ad amare Dio in modo sempre più

disinteressato con uno spirito puro.. Si vede Dio in ogni cosa e in ciascuno, rendendosi conto della Sua trascendentalità.

Para bhakti è la purificazione perfetta dell'anima, raggiunta attraverso la rinuncia.

Le qualità di para bhakti sono descritte nel XII capitolo della Bhagavad-gita quando il glorioso Signore espone:

2 http://www.ramakrishna-math.org/

3 Insegnamenti di Swami Shivananda (http://www.dlshq.org/teachings/bhaktiyoga.htm)

4 “Bhagavad-gita”, a cura di Stefano Piano, San paolo, 1994, p214)

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13 Chi non odia creatura alcuna,

ma tutte le ama e ne ha compassione,

privo di attaccamento e di egoismo,

equanime nel dolore e nel piacere, paziente,

14 sempre contento, capace di controllarsi,

padrone di sé, risoluto,

con la mente e l'intelletto fissi su di me,

a me teneramente devoto- costui mi è caro.

15 Colui che il mondo non teme

e che non teme il mondo

che è libero da moti di gioia e d' insofferenza,

di paura e di ansia - costui mi è caro.

16 Colui che nulla si attende,

che è puro, esperto, impassibile, senza affanni,

che ha abbandonato ogni iniziativa interessata,

a me teneramente devoto - costui mi è caro.

17 Colui che non esulta né odia,

che non si rammarica e non brama,

che ha lasciato da parte così il bene come il male,

che mi è teneramente devoto- costui mi è caro.

18 Colui che è uguale col nemico e con l'amico,

nell'onore e nel disprezzo, nel freddo e nel caldo,

nel piacere e nella sofferenza,

libero da legami,

19 uguale verso il biasimo e la lode,

silenzioso, soddisfatto di qualunque cosa,

senza una dimora, con la mente ben salda,

pieno di tenera devozione- quest' uomo mi è caro.

20 Ma quelli che con fede, a me totalmente votati,

credono fermamente in queste parole di saggezza immortale

che ora ho enunciato e mi sono teneramente devoti

-costoro mi sono sommamente cari!¹

La Bhagavad-gita distingue tre tipi di fede collegati tra di loro in forma gerarchia partendo da un culto grossolana e

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grezzo raffinandosi fin ad arrivare a un'aspirazione pura.

Il glorioso Signore sofferma nel capitolo XVII :

2 Di tre tipi è la fede degli uomini,

a secondo della loro natura:

caratterizzato dal sattva, dal rajas,

e dal tamas. Ascolta!

3 Conforme alla sua intima natura

è la fede di ciascuno, o discendente di Bharata.

Fatto di fede è l'uomo:

quale è la sua fede, tale egli è.”

I tre guna (sattva, rajas, tamas) sono le caratteristiche e gli elementi costitutivi della Natura (pakriti). Il sattva è essenza,

bontà, purezza, e la sua caratteristica è la luminosità del bene.

Il rajas è opacità, torbidezza, in quanto indica propriamente il pulviscolo che fluttua nell'aria, offuscandone la limpidezza.

Il tamas è oscurità, che ricopre totalmente la conoscenza, rendendo negligenti e distratti nei confronti di essa.1

Riferendosi a una venerazione tamasica si intende una fede basata sulle azioni violenti e distruttive di un culto istintivo, con

dei sacrifici degli animali per esempio. Include la paura di una divinità terribile e l'aspirante è caratterizzato da un a fede

cieca (andha shraddha). Alcuni praticanti danno delle offerte sacrificali ai demoni o spiriti malvagi (bhutans, preta), per

placarli, in modo, che tolgano i malanni o disturbi . In alcuni parti è usanza di compiere offerte ai esseri demoniaci che

popolano il mondo della natura, gettando al suolo pallottole di cibo. Frequente è l'utilizzo di droghe e la ricerca

dell'aumento dei piaceri dei sensi.

Assieme con una fede rajasica emergono le facoltà cognitive di discriminazione e di comprensione. I sensi si aprono, ma

esistono ancora emozioni negativi come odio, avidità e gelosia. Come mezzi l'ipnosi è frequente. Il devoto chiede alla

divinità a soddisfare i propri piaceri egoistici e sensuali e a ottenere i frutti di ciò, come, per esempio, un benessere

materiale.

Il terzo modo di adorazione è la fede sattvica - la cui l'essenza è purezza, bontà e amore.

Il percorso porta a culminare in uno stato di beatitudine e di silenzio. Il non-attaccamento (vairagya) si è talmente raffinato

che il devoto non chiede più nulla in ricambio a Dio ma vive nella Sua grazia e nella Sua volontà.

La mente è pacificata e l'interdipendenza con le altre strade dello yoga diventa ancora una volta evidente, se confrontiamo

per esempio lo stato di silenzio dei pensieri, raggiunto con la bhakti, con la meta dello raja yoga, che è ”yogas citta vritti

nirodha”- yoga è la cessazione delle fluttuazioni della mente.

4.2. Amore è la base

1 “Bhagavad-gita-il canto del glorioso Signore”, PIANO STEFANO, San Paolo, 2005, p 232

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Nello yoga l'amore viene visto come un valore umano come anche come un' istinto negli animali. E' una forza che viene

espressa da ogni essere vivente e che e si manifesta come un elemento di gioia in tutto l'universo.

L'amore è sottoposto a uno sviluppo evolutivo, quindi si può allenarsi ad amare e soprattutto si più acquistare un

raffinamento della propria emozione affettiva affinché diventi un sentimento puro. A questo proposito sofferma Sri Swami

Shivananda che per primo nasce l'attrazione (raga), poi avviene la fede (shraddha) e poi la devozione (bhakti).1

Nel nostro linguaggio occidentale viene pronunciata in una solo una parola: l'amore. Ma l'oriente con la sua inclinazione di

precisare, suddivide in vari livelli di affettuosità in forma gerarchica, da percorrere in un cammino evolutivo:

un piano più grossolano, uno intermedio ed uno più raffinato.

Lo stadio più grossolano dell'amore è chiamato kama: l'amore inteso come desiderio, caratterizzato da piaceri e dispiaceri.

Nei rapporti con gli altri significa di accettare l'amicizia solo perché ci si aspetta di ottenere qualcosa in ritorno o si tenta di

“possedere” l'altra persona.

Nel piano intermedio si trova prema che significa amore con sacrificio in riguardo sia all'aspetto materiale della rinuncia,

non tralasciando la resa al proprio ego. Il “dare dal cuore” acquista sempre più d' importanza e dalle azioni compiute non

ci si attende più nulla in ricambio. Un apparente contraddizione è che il dare offre una soddisfazione talmente grande che la

mente si calma diventando silenziosa.

Lo stadio più raffinato dell'amore avviene dopo un' ulteriore purificazione di prema e si chiama bhakti, che significa quindi

amore con sacrificio e abbandono, devozione. Qui non si parla più di un amore terrestre e mondano come lo comprendiamo

noi, ma di un amore nel suo aspetto più fine, sublime e puro: l'Amore Universale.

La devozione è caratterizzata da cinque stati d'animo principali (panca-mahabhava). Sono cinque attitudini mentali con le

quali l'amore universale si esprime nelle relazioni umani seguendo le proprie inclinazioni naturali:

madhura bhava- sakhya bhava- vatsalya bhava- dasya bhava- shanta bhava.

Madhura bhava è la suprema dolcezza in un rapporto di coppia.

Sakhya bhava è il comportamento più puro di una amicizia.

Vatsalya bhava viene rappresentato nell'affetto e nella tenerezza tra madre/padre – figlio e viceversa.

Dasya bhava è l'attitudine mentale caratterizzata dalla dedizione e sottomissione che un devoto dovrebbe avere in confronto

al proprio maestro.

Shanta Bava è l'abilità sublime di calma, serenità e pace profonda.2

4.3. Divinità personale- Dio Assoluto

L'universo fatto di forma e nome

Secondo la tradizione indiana tutto l'universo è manifestato in nome e forma (nama, rupa). Questi a loro volta hanno come

sfondo la stessa Realtà, la stessa Essenza, perché dietro tutte le forme e nomi c'è l'aspetto universale-Dio. Non può neppure

esistere un' onda di pensiero nel microcosmo umano che rimane incondizionato da nome e forma. E siccome esiste lo credo

che le leggi del microcosmo sono le stessi del macrocosmo, si arriva alla conoscenza del macrocosmo attraverso la

1 www.dlshq.org/teaching/bhaktiyoga

2 “The science of Emotion culture-Bhakti yoga”, DR. H.R. NAGENDRA, Vivekananda yoga Prakashana, 2000

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conoscenza sul microcosmo.

“Per l'uomo vedico l'universo è una fitta rete di relazioni o magiche equivalenze gerarchicamente ordinate che sono

nascoste al profano.(...) La porzione più recente delle Veda, gli Upanishad (jnana-kanda) si concentra sull'attingimento di

quella suprema conoscenza relativa alle misteriose equivalenze tra il macrocosmo (divino e delle forze della natura) e il

microcosmo dell'essere psico-fisico umano.(...)

La ricerca di un principio a fondamento condurrà alla scoperta dell'equivalenza o, anche, identità più importante: quella tra

l'assoluto impersonale e trascendente a fondamento del cosmo: il Brahman- e il Sé individuale, di natura puramente

spirituale, fondamento dell'identità psico-fisica umana e del suo esserci nel mondo (l'atman, termine che traduce “soffio”)

(...) La suprema equivalenza/ identità atman- Brahman è proclamata nei “grandi detti” delle Upanishad. Se ne conoscono

in tutto dodici, da intendersi quali formule meditative che il maestro comunica al discepolo: per esempio, “Io sono il

Brahman”, o “questo sé è il Brahman” 1

“Dio non ha nome e ha tutti i nomi” 2

A un certo punto leggendo questo trattato possono sorgere delle domanda del tipo:

Chi venerare? A chi abbandonarsi? Come e cosa sacrificare?

Lo bhakti-yoga lascia la scelta al bhakta, al devoto che segue la bhakti, con quale attitudine e con quale immagine cercare

Dio, vedendo le proprie azioni come sacrifici per il Dio amato o per l'Amore universale, ricevendo in regalo la Sua grazia.

In anzitutto è opportuno differenziare i termini:

Dovremmo distinguere nelle filosofie indiane fra un Dio assoluto e un Dio personale- che da ora in poi chiamerò per

maggior chiarezza divinità personale. Nei prossimi capitoli cerco ad analizzare chi è questo Dio o chi sono le divinità.

Divinità personale

Il pantheon indiano ha una moltitudine di divinità:

Ne esistono le divinità vediche Indra, Vayu, Agni, Varuna, Prithivi venerati come simboli dei cinque elementi sottili (etere,

aria, fuoco, terra, acqua) che creano i cinque elementi più grossolano e terreni. Il bhakta che adora questi divinità vorrebbe

ottenere la realizzazione dei suoi piaceri e desideri. Dobbiamo però considerare che queste divinità stessi sono sottoposto

alla ruota samsarica del divenire, della morte e della rinascita, con cicli molto più lunghi rispetto a quelli umani.

Poi esiste la venerazione ai tre principali aspetti divini associati a numerosi concetti filosofici.

1 “Hinduismo”, Rigopoulos Antonio, Editrice Queriniana, 2005, p46

2 “L'Esicasmo- che cos'è e come lo si vive”, LE-LOUP, Gribaudi. Torino 2002, p. 90

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La forza cosmica tripartita esiste su tutti i piani dell'esistenza ed è chiamata trimurti (”avente tre forme”):

Brahma, il creatore, rappresenta la forza creativa;

Vishnu, il conservatore, simboleggia la forza d'equilibrio. Si è incarnato più volte nel mondo per ristabilire pace e

armonia, Krishna ad esempio è una incarnazione di Vishnu;

Shiva, il distruttore, rappresenta la forza dell'eliminazione e della morte;

Le tre forme divine si ritrovano anche negli umani esprimendosi in simboli.

Queste divinità (deva) possono acquisire altri nomi a secondo della caratteristica che stanno simboleggiando; così Shiva

sotto l'aspetto terribile e distruttivo si chiama Rudra.

Quindi un devoto può venerare nel suo particolar modo una singola divinità senza tuttavia negare l'esistenza delle divinità

accanto ad essa, spesso però viene sottolineata l'inferiorità delle altre. Per esempio nel Shivaismo, nel culto di Shiva, i

devoti ritengono Shiva come la divinità migliore e singola, essendo il supremo aspetto di Dio.

Dio assoluto

“Nessuno ha mai visto Dio” 1

Swami Chidananda ci espone come segue: noi abbiamo i nostri occhi attraverso i quali guardiamo tutto il tempo, ma i

nostri occhi non possono vedere gli stessi. Il medesimo succede con la nostra visione di Dio, Lui è così vicino ma non Lo

possiamo vedere.

Il Swami tiene presente che Dio è l'Essenza di ciò che è nascosto in ogni cosa: come il burro è latente nel latte, la legna

presente negli alberi e l'olio nei semi. La Realtà suprema dimora in noi come l'Essenza.

Afferma che grazie alla Sua presenza siamo coscienti di tutto ciò che succede al-di-fuori di noi, perché Dio è l'elemento

cosciente dentro di noi che è presente nei corpi di tutti, giacendo nel nostro cuore. 2

Il glorioso Signore ci spiega questo concetto in una metafora nella Bhagavad-gita, capitolo XIII:

2 Sappi che Io sono il conoscitore del campo

in tutti i campi, o discendente di Barata,

e quello che io considero vera conoscenza

è proprio la conoscenza del campo e del conoscitore del campo.

Il campo simboleggia il corpo umano e il conoscitore è la coscienza suprema. L'obiettivo di uno ricercatore yoghi sarebbe

quindi esserne cosciente del fatto che esiste un conoscitore che osserva il corpo. E questo osservatore è Dio.

Dio ci è molto più vicino di quello che pensiamo. Sta a noi a scoprire questo mistero, trasformando i valori in modo da

aprirci alla conoscenza di Dio. Questo è possibile grazie a delle tecniche yogiche, sempre viste in una luce di disciplina e

attraverso un percorso mistico ed evolutivo. Si può ad esempio fare esperienza del principio del conoscitore del campo

1 Gv 1,18

2 “Realization through devotion”, SRI SWAMI CHIDANANDA, Divine life society publication

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durante il processo meditativo.

“Conoscere e sperimentare Dio porta a uno stato di gioa suprema, che non dipende più né da oggetti esterni, né da

esperienze, né dalla percezione. E' una felicità descritta come piena e assoluta. Non fa parte del mondo dei fenomeni

dualistici, di gioa e sofferenza, ma è assoluta. Questa beatitudine però è un regalo divino, una grazia spirituale.”1

La via apofatica

“Dio é al di là di tutto, aldilà dell'essere, quale noi possiamo pensarlo, sentirlo, immaginarlo.

Si riesce solo a descriverlo con ciò che non é - la via apofatica. Egli non è infatti nulla di ciò che è.

Non che non lo sia in alcun modo, ma perché Egli E' al-di sopra di tutto ciò che è, al di sopra dell'essere stesso” 2

Camminare sulla via apofatica significa avere il senso del simbolo.

I nomi di Dio che noi usiamo (l'Infinito, l'Invisibile, Onnipresente, Padre, Creatore, ecc.) non lo descrivono, non lo

definiscono, forse lo indicano e lo disegnano da lontano. Quindi si cerca di comprendere Dio con delle descrizioni di ciò

che non è.

Alla domanda ”chi sono?” anche lo jnana yoghi risponde: “neti...neti..” : non sono né questo, né quello.

Attraverso l'intelletto si può scoprire che non si è il corpo perché lo si può osservare, né le emozioni che si possono vedere,

né i pensieri che si possono ispezionare. Il senso dell'identità viene messo in dubbio: e chi o cosa sono allora?

La risposta si trova nei versi della Bhagavad-gita sopra citati:

questa coscienza finissima che ha la potenzialità di osservare il corpo e i pensieri. Quel conoscitore del campo che ci fa

rendere conto che esiste qualcos'altro che non appartiene alla nostra personalità.

Approfondendo il tema della bhakti sorge inevitabilmente la domanda:

cosa è allora meglio: venerare una divinità o Dio nel suo aspetto universale?

Anche l'eroe della Bhagavad-gita, chiamato Arjuna, era perturbato di questo quesito e domanda (compito di un discepolo)

al suo maestro Krishna nel dodicesimo capitolo:

Arjuna disse:

1 Fra i bhakta che, perennemente uniti a Te in ispirito,

in questo modo ti adorano

e quelli che adorano l'Inalterabile, l'Immanifesto,

quali sono i più esperti nello yoga?

Il glorioso Signore disse:

1 “Realization through devotion”, SRI SWAMI CHIDANANDA, Divine life society publication, p.2

2 “L'Esicasmo- che cos'è e come lo si vive”, LE-LOUP, Gribaudi. Torino 2002, p.88

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2 Coloro che, dirigendo la mente su di Me

perennemente unite a Me in ispirito, mi adorano,

animati da una fede eccelsa,

quelli io considero i migliori adepti dello yoga.

3 Ma quelli che adorano l'Inalterabile,

Indescrivibile, Immanifesto,

Onnipresente e Inconcepibile,

che ha sede nel luogo più alto, immobile, fisso,

4 quelli che, soggiogando, l'insieme degli organi dei sensi,

sono equanimi in ogni circostanza,

e si rallegrano del bene di tutti gli esseri,

anch'essi davvero mi raggiungono.

5 Maggiore è la difficoltà di quelli

che hanno la mente assorta nell'Immanifesto,

giacché una meta immanifesta

con gran fatica è raggiunta da chi ha un corpo!

E' più facile aderire alla Realtà assoluta se essa ha un volto di una divinità personale:

per questo Krishna propone se stesso come unica meta e unico oggetto di fede da parte del credente.

Per un devoto la sua divinità prescelta è reale, gli è più vicina che il suo proprio corpo o la sua mente; non è una realtà

estratta, ma è un aiuto che esso si rappresenta in forma personale. Il devoto comincia a coltivare amore per la sua divinità,

dietro la quale giace l'aspetto Universale. Ma Krishna continua dicendo che anche quelli che venerano direttamente l'

Assoluto vengono liberati, però con maggior difficoltà, perché è difficile venerare un Dio che non ha né forma, né nome. E'

difficile per la nostra mente mantenere la concentrazione su un qualcosa Immateriale e Immutabile e la probabilità di

smarrimento è più grande. Quindi per motivi di debolezza mentale e sensibilità umana l'Assoluto deve essere rappresento

sotto forma personale.

E' per questo motivo che è importante la divinità personale, ista- devata, la divinità di scelta. Viene chiamato generalmente

“Ishvara" (il Signore), la divinità con una propria individualità, con degli attributi, con nome e forma (nama-rupa). E' dotato

di tutti i poteri, ma è allo stesso tempo trascendente, per dire che le qualità rappresentate derivano da una forza universale

che sta alla base pervadendo tutto.

“Quale Ishvara, il bhakta sceglierà come oggetto di adorazione? Pare che una sua scelta sia assolutamente libera. Adorate la

divinità che volete! Poco importa il nome che darete a Dio!

L'essenziale è che lo amiate con tutto il cuore!

La Divinità viene scelta per suscitare devozione. E' l'amore che divinizza.

E' la devozione che è per se stessa liberatrice.”1

Riassumendo si può dire che dietro tutte le forme e tutti i nomi esiste un'entità Suprema, l'aspetto Universale che è difficile

1 “L'Esicasmo- che cos'è e come lo si vive”, LE-LOUP, Gribaudi, Torino 2002, p143

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a cogliere se no con un linguaggio negativo, cioè con termini come: non visibile, non dicibile, infinito. Per la nostra mente

è faticoso immaginarsi una Realtà non legata ai sensi, cioè una Realtà non visibile, ma nello stesso momento

onnipervadente. L' aspirante che si trova senza punti di riferimento, dovrà quindi all'inizio ricorrere all'aiuto concreto ed

esterno scegliendo di venerare la propria divinità con sostitutivi o immagini; quindi è di aiuto praticare un culto di simboli,

affinché che la mente non si perda o si distragga.

Ma nel percorso della disciplina arriverà un momento in cui il devoto dovrà abbandonare perfino l'oggetto stesso della sua

devozione, della sua concentrazione, per poter realizzare ” l' Assoluto indifferenziato”, il Principio fondamentale, Dio.

Questa luce suprema è l'essenza di tutto e pervade tutto il mondo fenomenico e addirittura la divinità stessa.

L'Onnipresente può prendere qualsiasi forma dal momento che è privo di forma (nirguna). Ed è proprio qui il mistero alla

base della realtà.

Vorrei illustrare brevemente il percorso spirituale del maestro Sri Ramakrishna.

Egli ha vissuto e esperimentato il cammino della bhakti scoprendo così tre verità:

a) Le divinità esistono ed è possibile vederle e interagire con le divinità prescelte

acquisendo la realizzazione di quella divinità (Sakshatkara)

b) Tutte le strade della Bhakti sono vere!

Si può ottenere più realizzazioni (Sakshatkara) da diverse divinità prescelte.

c) Se si continua la strada dopo la realizzazione della divinità,

si arriva facilmente da Saguna a Nirguna Saksatkara e poi a Nirvikalpa Samadhi. 1

Leggendo la biografia di Ramakrishna (1886-1924), si nota che ha adorato diverse divinità. Ha cominciato a venerare Kali.

Dopo ardua disciplina e meditazione, ha realizzato la divinità nel momento in cui gli offri perfino la propria vita. Quindi ha

continuato a sperimentare la sua natura devozionale come servo (dasya bhava); venerando Rama si trasforma in Hanuman,

una scimmia. Alla fine voleva vivere l'attitudine della dolcezza in un rapporto d'amore, che va oltre la fisicità (madhura

bhava)– identificandosi con Radha che sta adorando Krishna.

Quindi con vari comportamenti ha realizzato l'amore in relazione ad una divinità e ha ottenuto il compimento di questa.

Ma è venuto il momento per Sri Ramakrishna in cui ha dovuto abbandonare l'adorazione della sua divinità personale, per

trascendere il mondo di forma e nome (saguna- con forma) e ad arrivare a una realizzazione senza forma ne nome (nirguna)

culminante nel nirvikalpa samadhi. ¹

La figura del guru

“Un anima può ricevere impulsi solo da altre anime e non da libri” 2

Solo l'intelletto sta approfittando leggendo libri e non lo spirito interiore. L'anima si ispira dagli esempi di santi viventi.

Nello yoga in generale, ma anche nelle altre tradizioni mistiche, il concetto di essere iniziato da una figura guida realizzata

è importantissimo e riveste un ruolo di primo piano in India. Un osservante che desidera fare progresso spirituale arriverà

ad un punto in cui si sentirà abbandonato; in un tale caso, una guida spirituale è fondamentale. Si dice “quando il campo è

1 “The science of Emotion culture-Bhakti yoga”, DR. H.R. NAGENDRA, Vivekananda yoga Prakashana, 2000

2 “The complete book of yoga: Karma , Bhakti , Raja , Jnana- Yoga “, SRI SWAMI VIVEKANANDA, Mahendra Kulasrestha Editor, 2009p 77,78

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pronto, i semi arrivano” per dire che quando l'anima sinceramente è pronta, il trasmettitore, il guru, deve arrivare. 1

In sanscrito guru è un aggettivo che significa “pesante” e per estensione “importante”(---)

Il termine designa la persona degna di rispetto, “pesante di prestigio”, o “pesante di dignità”. 2

Comunemente guru viene tradotto anche con “colui che porta alla luce” che delinea uno dei compiti di un maestro, cioè di

aprire gli occhi dell'aspirante. I compiti sia del guru che del devoto sono ben precisi.

I requisiti, che un maestro dovrebbe avere, sono senza' altro: una conoscenza dello spirito delle sacre scritture e un

insegnamento umile con amore per l'umanità, senza motivi egoistici in riguardo ai soldi, nome o fame. Inoltre dovrebbe

vivere in modo da dare un esempio agli altri essendo privi di vizi. Perché in un'anima impura non può giacere una luce

spirituale. Egli per primo deve fare ciò di cui sta parlando.

Un devoto (shishya) invece, dovrebbe essere posseduto da una sete per la conoscenza vera, di uno spirito di perseveranza e

di umiltà, avendo fiducia negli insegnamenti del maestro, coltivando purezza nei pensieri, nel parlare e nelle azioni. Chiede

al maestro di rimuovere l'attaccamento al proprio io, che è la causa della separazione da Dio. Il devoto vede nella figura del

proprio guru non semplicemente un uomo (o una donna), ma l'aspetto del guru viene universalizzato, riconoscendo in lui o

lei la presenza divina avendo realizzato la verità suprema. Quindi nulla è più santo ed autorevole del proprio maestro.

Così si legge nella Svetasvatara Upanishad :“Se hai devozione per Dio e la stessa devozione per tuo guru, la verità delle

sacre scritture si rivela.”

Vorrei menzionare il pericolo di cadere come preda nelle mani di un pseudo-guru. Ne esistono parecchi di truffatori

immersi nell'ignoranza che vivono con l'orgoglio nel cuore e che hanno la presunzione di guidare gli altri: “I ciechi stanno

guidando ciechi” afferma a questo proposito la Katha Upanishad. ² Occorre quindi stare attenti nella scelta della propria

guida utilizzando la forza di discernimento- viveka- la capacità di distinguere cosa o chi porta alla verità.

5. COLTIVARE LA DEVOZIONE IN PRATICA

Quanto è importante la teoria intellettuale, tanto è necessario sperimentare e applicare le idee sulla propria pelle e vivere i

principi idealistici.

Ci sono varie teologie della bhakti in India, perché la teologia dell’amore conosce svariate declinazioni. E così non esiste

una sola prassi in riguardo alla pratica della bhakti, ma svariate approcci per esercitarsi a sviluppare questa qualità di

amore- fiducia- abbandono.

Il Professore Antonio Rigopoulos ci ha illustrato, durante un incontro dell'Isfiy, la teologia vishnuita (vaisnava) della bhakti

espressa nella Bhāgavata Purāna. Vorrei riprendere i punti capitali di questa lezione, perché mi ha colpito profondamente

l'espresso del professore in riguardo alla pratica della scienza dell'amore, in quanto accessibile a tutti, in ogni momento e

accordabile con una vita mondana di tutti giorni.

La teologia vishnuita (nella quale si venera la divinità vishnu o una delle sue incarnazioni) è una delle più importanti per la

1 “The complete book of yoga: Karma , Bhakti , Raja , Jnana- Yoga “, SRI SWAMI VIVEKANANDA, Mahendra Kulasrestha Editor, 2009p 77,78

2 “Hinduismo”, RIGOPOULOS ANTONIO, Editrice Queriniana, 2005, p 213

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bhakti. Dobbiamo però ricordare che questa corrente nella bhakti non è l'unica, si tratta di una delle tre principali correnti

devozionali insieme con il shivaismo e il shaktismo.

Il tema della bhakti è enunciato in diverse opere come nella Bhagavad-gītā, negli aforismi di Nārada e di Sāndilya nei

Bhakti sutra e nella Bhagavata Purana. Il codificatore di quest'ultimo saggio è stato Rāmānuja (1017-1137), un

grandissimo teologo vishnuita vissuto nel pieno medioevo indiano. I principi fondamentali offerti nel Bhāgavata Purāna,

sono una sorta di manifesto della bhakti di estrema importanza, rappresentando un cammino pratico della strada

dell'abbandono. In esso troviamo i cosiddetti nove gradini o nove membra della bhakti, cioè il navāngāni (navā=nove,

anga=membra).

5.1. I nove gradini della bhagavata purana

Prima di affrontare i nove gradini è necessario fare una premessa: non dobbiamo commettere l’errore di pensare che i

gradini che stanno sotto, una volta saliti più in alto, devono essere considerati inutili. Anche se l’immagine della scala è

adatto, perché si passa da un inferiore ad un superiore, essa non è completamente esatta. I maestri sottolineano il fatto che

in fondo raggiungere la perfezione di ciascuno di questi nove, è in qualche misura, come aver raggiunto già lo stadio

supremo. Man mano che si sale la scala non si devono però dimenticare i scalini precedenti come livelli già superati.

Continuando sul cammino con un movimento di ascesa, i livelli superati si raffinano finché il praticante arriva alla

perfezione del percorso intrapreso. È un bagaglio che accompagna sempre il devoto e che si approfondisce in un processo

di santificazione dello yoghin.1

1. Sravana- l'ascolto

Il primo dei nove scalini è śravana dalla radice √śru, significa audizione, ascolto.

E' da notare che il primo gradino della via dell'amore è l’ascolto e non la lettura, non lo studio, non la meditazione. L’idea

è che ogni conoscenza ha origine dal saper ascoltare. La bhakti configurando un rapporto ovvero una comunione, è fondata

sulla preminenza dell’udito sulla vista.

In generale nella tradizione indiana la trasmissione orale è di notevole importanza e vive della recitazione. Il testo sacro,

che viene recitato e ascoltato in occasioni di rituali o di feste o nel proprio culto quotidiano, non è riducibile ad un libro, è

qualcosa che vive attraverso un passaggio di bocca in orecchio, nella sonorità del suono (śabda).

Secondo Swami Shivananda śravana significa ascoltare i giochi (lila) e le storie delle divinità vivendo gli ideali descritti

nei testi sacri. La mente dell'ascoltatore dovrebbe essere sincera e tralasciare la critica. Solo così si collega con dei nomi e

delle forme divine e perde l'attrazione nel mondo mondano finché non riesce più a pensare ad altro che ad oggetti divini.

Da non dimenticare, l'enorme importanza della parola, donata dal maestro al discepolo, che ha potuto e saputo riceverla e

ascoltarla. Ogni conoscenza, ogni santificazione, ogni comunione, si instaura in questa capacità di saper ascoltare, anche il

silenzio, oltre la parola.2

“L’ascolto nel suo significato più profondo è attenzione/consapevolezza. Quest'attenzione è rivolta sia alla propria

interiorità sia ad un ascolto pieno dell’altro. L’arte di ascoltare è qualcosa di capitale, ma di talmente semplice da risultare

difficilissimo, perché richiede uno sfondo di “tabula rasa” di se stessi. Nei rapporti umani, la capacità di attenzione significa 1 Dispense del secondo anno ISFIY del Professore Antonio Rigopoulos, Padova 2006-2010

2 Insegnamenti di Swami Shivananda (http://www.dlshq.org/teachings/bhaktiyoga.htm)

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liberare la mente in modo tale di essere completamente nell’ascolto dell’altro. Questo è difficile da applicare nelle relazioni,

perché in genere, mentre qualcuno sta parlando, si sta già pensando a quello che gli si può rispondere. L' ascolto è parziale

e in genere si sta vivendo rapporti di questo tipo: artificiali, fuggevoli, anche tra marito e moglie e a maggior ragione tra

persone che non si conoscono. Perché il guru, per esempio, attrae irresistibilmente? Perché essendo in sua presenza è come

se fosse tutto per i discepoli? Egli è capace di instaurare una comunione che ci si percepisce intuitivamente vera, profonda,

sincera, e ci si accorge che lui/lei sta veramente dando ascolto: la sua attenzione è piena.”

Riassumendo, per raggiungere il vero amore, meta ultima di questa scalata, sarà necessario affrontare già dal primo

gradino, un'attenzione particolare alla propria piccola voce interiore, la divinità e il prossimo.

Se śravana è il primo passo verso la santificazione, il suo contrario è il sinonimo del male e del peccato: la distrazione. Uno

yoghin cerca di essere sempre perfettamente consapevole. Se non c’è questa disponibilità e umiltà, non c’è niente e si

continua ad essere egocentrici. Anche se si riuscirebbe a raggiungere grande abilità nelle posture fisiche (āsana), sarà stato

tutto inutile, perché lo yoga si ridurrà ad una forma di ginnastica. 1

2. Kirtana- il canto di lode

Il secondo gradino è il kīrtana, che vuol dire “canto di lode” ed è un sinonimo di bhajan. Il canto gioioso si pratica durante

un culto nel tempio o fuori di esso, in cui l’elemento devozionale si rafforza nella lode attraverso il canto dei nomi delle

divinità. E' un straordinario mezzo che non a caso fa parte di tutti i riti religiosi. Molti maestri insistono sull’importanza del

canto comunitario nella pratica spirituale.

Può essere svolto naturalmente da soli, ma tipicamente il kīrtana si attua insieme, seguendo uno schema preciso ed è

accompagnato dalla musica, dal battere delle mani e dal ritmo dei tamburi. Spesso c’è una sorta di vergogna a cantare da

soli, ma il canto comunitario è in grado di superarla dando così più fiducia ai timidi. I l kīrtana è tipicamente corale e inizia

sempre con un omaggio reso alla divinità dal capo di elefante: Ganeśa, Signore delle schiere, perché egli è il rimuovitore

degli ostacoli lungo il cammino spirituale. ¹

Il secondo gradino fa aumentare la partecipazione del devoto: prima ascolta, poi canta e partecipa direttamente. Rimane

però questa dimensione non puramente individuale, perché sia nell’ascolto che nel canto si presuppone un altro, un tu

divino o umano. Quindi il kirtana rinforza questa dimensione relazionale, nella quale l'aderente rende grazie durante il

canto, che è considerato una forma sublime di devozione, dove la parola è messa al servizio della lode. Perché dall’ascolto

delle glorie di una divinità, dall’ascolto di un purāna o di qualche racconto sacro, non può che scaturire spontaneamente un

desiderio di lodare la divinità, un rendimento di grazia, desiderosi di comunione, perché si ama. Non c’è niente che l'adepto

chiede in cambio, non c’è un interesse egoistico ed è proprio questo che è ritenuto santificante, purificante in sommo grado,

l’azione per eccellenza, da cui tutte le altre azioni dovrebbero essere guidate.¹

“Durante i canti si crea un'atmosfera di festa, nella quale i diversi stati d'umore del devoto vengono ripresi lodando le

divinità con partecipazione emotiva, tale nostalgia o tenerezza, entusiasmo o dolcezza. Il canto comunitario è quindi anche

un mezzo di purificazione delle emozioni che inizia con il rendersi conto delle proprie attitudini mentali indotte durante

l'atto vero e proprio del canto. Le emozioni sono considerate pensieri molto potenti che si amplificano ripetendoli. Quindi

si può scegliere a concentrarsi durante il kirtana a certi valori positivi- come pace, tranquillità, amore, gioa, compassione-

intensificandoli durante la ripetizione continua e ritmica e facendo aumentare quindi questi sentimenti puri e nobili.

Le singole canzoni del canto comunitario si concludono con un ritmo che si sta rallentando sempre di più e con delle voci

1 Dispense del secondo anno ISFIY del Professore Antonio Rigopoulos, Padova 2006-2010

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che si abbassano gradualmente per terminare nel silenzio. Insieme alla chiusura del canto le emozioni vengono diffuse in un

silenzio pieno con uno stato mentale di beatitudine.

L'aderente cerca così di trasformare la sua personalità e il suo sistema dei valori, offrendo al divino la propria interiorità

così com'è - con i propri difetti e meriti, piaceri e dispiaceri, angosce, rabbie, ossessioni e dubbi - per giungere alla fine a

una devozione piena d'amore priva di egoismo.” 1

3. Smarana- la rammemorazione, il ricordo

Il terzo anga è smarana, il ricordo, rammemorazione del divino. E' di enorme importanza perché allude alla testimonianza

costante del divino e rimanda a un perfezionamento dell’attenzione /consapevolezza, esercitandosi in ogni momento e

situazione- una prassi che richiede tanto sforzo e pazienza.

Alla base c'è il riconoscimento della mente che lavora incessantemente, tutto il tempo, rincorrendo progetti, ricordi,

emozioni, fantasie, desideri, altalenante fra passato e futuro, raramente presente nel momento. Il turbinio dei pensieri è

persistente e può portare fatica, agitazione, stress, preoccupazioni, tensioni, nei casi peggiori ossessioni, nevrosi, paure

profonde. Secondo i maestri di yoga che hanno analizzato a fondo il comportamento della mente, l'uomo si crede padrone

della propria mente, ma in realtà, ne è per lo più schiavo.

La pratica di smarana, l'obiettivo di tenere sempre la mente al divino, viene facilitato con l'aiuto di strumenti mentali, per

esempio, una formula astratta, o una parola, o un'immagine che possano essere associati alla divinità, o al respiro, o al

passo o alla scrittura. Tutte queste tecniche diverse aprono semplicemente un accesso alla propria interiorità e allenandosi

nella interiorizzazione si crea un' intima comunione col divino.

In genere il devoto lo pratica in riferimento ad un nome particolare, tipicamente quello della propria divinità di elezione,

oppure al nome del maestro, oppure in riferimento a un mantra che il maestro li ha dato nell’iniziazione o utilizzando pure

uno dei grandi detti degli Upanishad. Anche una semplice sillaba può essere considerata somma, se pensiamo all'om.

La ripetizione della parola può essere eseguita cantata, vocale, mormorata (japa- mormorio) o silente (ajapa- senza parola).

La versione mentale è considerata la più nobile perché, da ultimo, fa scendere la mente al cuore giungendo alla pura

contemplazione nel perfetto silenzio. L’idea è che la mente dovrebbe sempre ripetere questo ricordo non meccanicamente

o distrattamente, ma con l'attenzione sul significato profondo e sulla gloria della divinità evocata o su un valore positivo.

Spesso la rammemorazione del nome è associata a una visualizzazione mentale di una forma (rupa). L'esercitante focalizza

su un determinato oggetto: un'icona della divinità medesima o del proprio maestro, un mandala, un' immagine sacra etc.

Un aspetto principale dello yoga che fa parte integrante della pratica meditativa è la concentrazione. Lo scopo sia delle

tecniche meditative che della rammemorazione nell'ambito della bhakti, è di raggiungere uno stato di attenzione, quello di

stato di “vuoto mentale”. Così Patanjali definisce lo yoga classico nelle Yoga-sutra: yogas citta vritti nirodha- yoga è la

cessazione delle fluttuazioni mentali- e la interdipendenza tra le varie strade dello yoga è di nuovo evidente.

La pratica può anche essere associata all’inspirazione e all’espirazione e si dice che alcuni arrivino a tale spontaneità nella

pratica che la rammemorazione del nome non è più meccanica, ma la parola è continuamente associata al respiro tanto da

divenire spontanea anche nel sonno.

La rammemorazione del nome non è praticata soltanto in India, poiché anche nella mistica islamica si può trovare un

equivalente, la pratica del dhikr. Anche nelle tradizioni della mistica cristiana si incrocia la stessa tecnica, la pratica

1 “The science of Emotion culture-Bhakti yoga”, DR. H.R. NAGENDRA, Vivekananda yoga Prakashana, 2000

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dell’esicasmo , con la preghiera del cuore, è alla base della spiritualità ortodossa, sia greca che russa.

Si tratta di una pratica che in tutte le tradizioni presenta lo stesso scopo, cioè quello della santificazione e di vivere alla

presenza divina nella quotidianità senza intermissioni, coltivando la ricerca della presenza di Dio ad ogni respiro. Per chi ha

raggiunto il vertice, grazie a un determinato metodo, la pratica del ricordo è diventata spontanea, non più meccanica, e

l'adepto ha raggiunto una consapevolezza tale da viverla durante tutta la giornata ed in qualsiasi attività quotidiana.

Un' altra possibilità è di associare la ripetizione della parola ad ogni passo, tecnica importante soprattutto per un pellegrino

che cammina. Il passo acquista una sensibilità nuova ovvero una gravità nuova, e viene santificato portando maggior

consapevolezza sia nel movimento che nel passo che non per questo deve essere rallentato.

Riassumendo, in questo terzo gradino c'è una sorta di svolta perché la perfezione della rammemorazione è creduta

purificante da ogni peccato e conducente alla liberazione. Lo scopo è di trascendere anche tutti i nomi e tutte le forme . Se

una persona ripete non meccanicamente, ma con consapevolezza, si santifica perfettamente, perché vive alla presenza del

divino, anche quando dorme, e non più nell’occorrenza cultuale del canto per esempio. Il ricordo costante permette al

bhakta, il praticante della bhakti, di rendersi ricettacolo e strumento della grazia divina, riconoscendo la presenza di Dio e

accorgendosi della sua Onnipresenza, sempre e in ogni circostanza.

4. Pada-sevana- il culto dei piedi

“Il quarto anga è chiamato pāda-sevana e rimanda alla pratica del culto templare, dove il rito del lavaggio dei piedi della

divinità o dei piedi del maestro costituisce il modello esemplare di servizio. In India è difficile esagerare l’importanza dei

piedi della divinità o dei piedi del maestro o della maestra perché i piedi sono considerati ricettacolo della potenza divina,

della śakti. Non si contano gli inni dedicati ai piedi divini, pāda, perché sono migliaia. Molto spesso il devoto chiede al

maestro come una delle grazie più sublime, di massaggiare, lavare o semplicemente toccargli i piedi.

Questo quarto anga, come del resto tutti gli anga, possono essere riferiti a due modalità: quella templare equella profana.

La prima modalità è più limitata, ma comunque importante in cui si avrà l’audizione del testo sacro (śravana), l’inno di

lode templare (kirtana), la rammemorazione del nome che si compie nel tempio (smarana) e la riverenza resa ai piedi della

divinità (pāda-sevana). La seconda fa riferimento a tutti gli anga nel momento profano, alla santificazione di tutti i momenti

della vita anche al di fuori del culto templare riconoscendo la presenza divina in tutti i piedi.

Ad un cristiano viene subito in mente la lavanda dei piedi di Gesù, il maestro con i dodici discepoli chiamati a rendere

onore. L’immagine della condivisione, come mangiare insieme, è la più utilizzata da Gesù per indicare il regno di Dio. Non

intende l’eucaristia, non tanto il momento formalizzato del ricevere l’ostia consacrata, ma come uno stare insieme, un

aggiungere un posto a tavola mangiando insieme fraternamente, con gioia. Questa è l’immagine che Gesù dà del regno di

Dio. Ecco nell’occasione dell’ultima cena Gesù fa questo gesto straordinario: lava lui i piedi ai discepoli e invita i discepoli

a fare così gli uni gli altri.

L’approfondimento del pāda-sevana sta nell’universalizzazione di questo gesto. Quando ci si accorge attraverso la pratica

dello smarana che Dio è ovunque, ecco allora che i piedi santi della divinità o del maestro non li trovo soltanto nel tempio,

ma sono i piedi che incontro in tutti gli esseri che incrocio. Rendere omaggio ai piedi di tutti è il modo per realizzare la

consapevolezza dell’onnipresenza di Dio. Questa capacità di discernere, di riconoscere la divinità concretamente in tutto e

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in tutti, questo è il fine ultimo della bhakti. “ 1

5. Arcana- il culto

“Arcana possiamo tradurlo con culto, cioè tutto il culto che viene reso alla divinità nel tempio. Come quinto gradino della

bhakti, significa che si partecipa innanzitutto alla vita templare quotidianamente, anche se è riferito al culto domestico. La

vita stessa è chiamata a diventare un momento di culto, consacrazione, non solo in riferimento ai piedi di tutti, al prossimo,

ma ogni attività è concepita come un atto d'adorazione. Ecco che l’atto più banale, come farsi la barba, lavarsi i denti o

svolgere qualsiasi lavoro, se è fatto con attenzione e soprattutto come offerta e dedizione, diventa esperienza di

santificazione.

C’è anche qui questa lettura a due livelli, quella istituzionale/templare di culto e quella che abbraccia tutta l’esperienza

umana, onde per cui nella bhakti non c’è più dicotomia, dualismo tra sacro/profano, dentro/fuori, esterno/interno, ma tutto è

santo. Non c’è contrapposizione tra solennità e divertimento. È molto difficile assumere questa consapevolezza perché noi

tutti distinguiamo tra sacro e profano. Gesù veniva rimproverato da chi non lo seguiva per essere un gaudente, uno che

stava con le prostitute, con i beoni con gli esattori delle tasse. Egli era segno di contraddizione ai suoi tempi, da tanti ben

pensanti era considerato molto negativamente e non a caso è stato messo in croce tra due ladri, perché si accompagnava,

diremo oggi, a persone dalla reputazione dubbia, extracomunitari e anche terroristi.

Nell'arcana il praticante non deve mai allontanarsi dalla riflessione sul significato profondo di ogni gesto, dalla purezza

dell'intenzione e dall'esercizio introspettivo. Il coltivare la presenza è possibile, anzi deve essere possibile in ogni

circostanza e questa è la grande sfida. Nel lutto, nel pianto, come nel riso e nell’occasione di festa, nel gioco come

nell’occasione più solenne di una messa. Qualunque cosa si stia facendo si dovrebbe vivere in una prospettiva di

consapevolezza, facendo attenzione a quello che si fa, a come si fanno le cose, rendendo grazie a tutti gli eventi che

avvengono in una prospettiva di raggiungere così la santificazione.” ¹

6. Vandana- il saluto reverente

“Il sesto gradino è chiamato vandana e vuol dire il saluto reverente, l’omaggio che si rende alla divinità o al guru

fisicamente prosternandosi, aggiungendo spesso ad ogni nome il namah. Questa pratica è considerata importantissima in

India perché è volta all’ammorbidimento/ annientamento dell’io. C’è chi pratica il pellegrinaggio compiendo il cammino

prosternandosi per chilometri. Una storiella zen, che comunque si può applicare all’India, racconta che un discepolo aveva

ottenuto l’illuminazione in virtù dell’inchinarsi ed era divenuto un santo in virtù della massimizzazione dell'umiltà.

Quando l'io diventa umile come la polvere della terra, come la polvere calpestata dai piedi della divinità, quello è cifra

dell’annientamento dell’io.

L’inchinarsi intende esprimere anche fisicamente la gratitudine, noi invece viviamo una vita ingrata. Ci aspettiamo sempre

qualcosa dagli altri e raramente tendiamo a donare. Pensate alla difficoltà che abbiamo nella nostra vita ad ammettere che ci

si è sbagliato. In genere diamo sempre una giustificazione al nostro comportamento, mai un riconoscimento semplice. Il

vandana ha tutto in sé, dalla difficoltà di rendersi conto dei propri peccati, alla vergogna.

L’atto di inchinarsi invece è il cuore della vita religiosa, ma ci sentiamo in disagio e imbarazzo, perché siamo ignoranti, non

abbiamo la sensibilità che tutta la vita che abbiamo ricevuto è un dono e dobbiamo ridonarla a nostra volta. Sta a noi di

1 Dispense del secondo anno ISFIY del Professore Antonio Rigopoulos, Padova 2006-2010

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creare un rapporto fiducioso nell'abbandono al Signore che sboccia nel riconoscimento dell'Onnipresenza: ogni cosa e ogni

persona sono degne di venerazione in quanto recano la sua immagine. “ ¹

7. D ā sya- il servo

Il settimo anga è quello chiamato dāsya, cioè della condizione di servo. Nella relazione io-tu, il devoto immagina se stesso

come servo della divinità, come in un rapporto tra un padrone e uno schiavo. Nell’epopea Mahabharata il paradigma del

dāsa è Hanumat, la divinità scimmia che esemplifica il modello del devoto, che vive una devozione tale con il suo maestro

Rama, sentendosi un servo in suo confronto. Il percorso dei nove gradini della bhakti prevede che ci sia un rapporto di

obbedienza come del servo con il padrone che naturalmente è propedeutico all’annichilimento dell’io. Il servo non discute,

ma obbedisce e non si sta a domandare il perché gli viene chiesta una certa cosa. Il rapporto tra l'Amato e il suo bhakta è

qui nettamente dualistico e impari: il Signore, posto in alto, impartisce gli ordini e il servo/schiavo, posto in basso, ai suoi

piedi, esegue; nel legame maestro-discepolo vi è una verticalità. ¹

8. Sakhya- l'amicizia

L’ottavo gradino è quello del sakhya, l’amicizia. Il rapporto maestro-discepolo diventa un rapporto tra amici. C’è una svolta

psicologica: il maestro rimane maestro, i discepoli rimangono discepoli, però la relazione diventa improvvisamente

orizzontale, non è più subordinata, ma i componenti si trovano sullo stesso piano.

C’è uno passo nell' evangelo di Giovanni dove anche Gesù dice “Io non vi chiamo più servi/discepoli, ma vi chiamo amici”

C’è una nuova intimità nella quale il rapporto dualistico rimane, ma l’io-tu si avvicinano, sviluppando un sentimento di

fiducia e amicizia e la distanza che separa il bhakta dalla sua divinità di scelta è quasi annullata. Idealmente il bhakta deve

coltivare il sentimento dell'amicizia a 360°. Egli non può temere nessun nemico poiché ovunque il suo sguardo si posi

incontra solo il divino. Suo unico nemico sarà allora l'ipocrisia o la tiepidezza, un cuore duro, mal disposto all'accoglienza.1

9. Saran ā gati- l'abbandono

“Il nono è chiamato śaranāgati che vuol dire abbandono. E' il culmine della bhakti che implica che qualsiasi sia il rapporto

o la circostanza ci si abbandona alla divina provvidenza con uno spirito di accettazione. Se arriva la malattia, se arriva la

fortuna o qualunque cosa, tutto è grazia e ci si abbandona alla divinità. Cessa persino il protagonismo dell’abbandono

dell’io (non c’è più il discepolo che dice “Io mi abbandono”), ma c’è solo l’atto di abbandonarsi perché in fondo anche il

culmine della bhakti è stato reso possibile solo grazie all’intervento divino. Anche lo sforzo del discepolo o il suo “io

personale” sono stati uno strumento di cui si è servito il Signore, perché in realtà il protagonismo dell'io non c’è mai stato.

Il rapporto io-tu è trasceso e è anche difficile parlare di śaranāgati, perché è oltre le parole, è oltre il pensiero. È una

condizione di perfetta apertura del cuore in cui l'intimità raggiunta con l'Amato si unisce in un abbraccio di suprema

tenerezza. Dal dualismo originario io-tu si giunge in una prospettiva in cui l'Amato e l'amante sono diventati una cosa sola,

prima come amici e poi in un abbraccio d’amore che è oltre il due e l’uno.“ ¹

5.2 Gli effetti dei nove gradini

1 Dispense del secondo anno ISFIY del Professore Antonio Rigopoulos, Padova 2006-2010

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“Se l'ego sempre divide e separa, l'amore crea ponti e unisce” 1

Nella visione spirituale della bhakti è fondamentale coltivare un rapporto con la divinità, col prossimo e con noi stessi.

L'ascolto sensibilizza all'interiorità, il canto è un modo per aprirsi nella comunicazione; la rammemorazione, il culto dei

piedi, il culto stesso e la prosternazione mirano al raggiungimento di una consapevolezza ininterrotta vedendo in tutto e in

tutti la presenza divina. Prendendosi cura di un'altra persona ci si rende conto che egli non è altro che il divino,

l'interdipendenza è chiara e il cerchio si chiude. L'adepto trova gioa nel servire e ogni azione diventa occasione per

coltivare l'amore.

“La pratica della rammemorazione se autentica e sincera, produce inevitabilmente degli effetti. In primo luogo

l'ammorbidimento/indebolimento dell'io. E' proprio da questo intenerimento che sgorga la vera fede, la fiducia nell'Amato,

che non è da confondersi con la credenza. Per fede si intende il vivere al cospetto di Dio. I frutti che ne derivano sono i

frutti del servizio (sheva) verso la propria divinità d'elezione, ma poi anche verso i propri simili, nei quali è riconosciuta la

Sua presenza.”

“Quando la mente è pacificata, il “piccolo io” scompare poco a poco e si apre all'Alterità” 2

Nella pratica della bhakti l' effetto è l'ammorbidimento dell'ego. E' difficile aderire alla verità più profonda, al vero

amore, se non viene purificato l'ego (ahamkara) che i yoghi definiscono “il senso del sé” o ” l' identificazione della propria

individualità”. Questa illusione del “piccolo io” è una delle cinque cause di sofferenza (klesa) afferma Patanjali nei yoga

sutra (II 3-9). Le altre quattro origini del dolore sono l'ignoranza (avidya), la paura della morte (abhinidvesa) e la coppia

degli opposti: la passione/l'attaccamento (raga) e l'avversione/repulsione (dvesa).

In riguardo all'aspetto dell'attaccamento Swami Chidananda enuncia che è la natura umana che trova piacere nelle cose

spontaneamente(...) Tutta la vita individuale -ogni giorno, dalla mattina alla sera- è un espressione continua di essere

compiaciuto e attaccato (raga); addirittura nel non-piacere (dvesa) viene espresso solo che il piacere.3

L'uomo viene istintivamente attirato da certi fenomeni e respinto da altri e vive così in una dualità che si alterna

continuamente. Sono sempre i gusti del momento che ci fanno intraprendere certi percorsi invece di altri. Dobbiamo

renderci conto che questi piaceri del momento cambiano continuamente, come tutto nel mondo fenomenico che è

sottoposto a un continuo mutamento, e quindi la sete di ottenere il piacere (e di evitare il non-piacer) non sarà mai dissetata

pienamente.

Nella Bhagavad-gita, il Signore glorioso ci spiega con una psicologia raffinata l'origine degli attaccamenti e le sue

1 “Hinduismo”, RIGOPOULOS ANTONIO, Editrice Queriniana, 2005, p 198

2 “L'Esicasmo- che cos'è e come lo si vive”, LE-LOUP, Gribaudi. Torino 2002, p 44

3 “Realization through devotion”, SRI SWAMI CHIDANANDA, Divine life society publication, p3

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conseguenze nel secondo capitolo.

62 Se l'uomo presta attenzione agli oggetti dei sensi

finisce per nascere in lui attaccamento per quelli;

dall'attaccamento nasce il desiderio,

dal desiderio scaturisce la collera;

63 dalla collera si origina lo smarrimento,

dallo smarrimento confusione nella memoria,

dalla perdita della memoria la rovina dell'intelletto:

con la rovina dell'intelletto l'uomo è perduto.

Quindi prestando attenzione agli oggetti esterni, sono i sensi a guidarci nelle nostre scelte secondo i loro piaceri o

dispiaceri, senza discernere se la decisione presa porta al bene o al comodo. Da qui nascono gli attaccamenti e i desideri

che comportano come conseguenza a delle emozioni che risultano disturbanti. E la catena continua fino all'annichilimento

dell'intelletto, buddhi, che si rivela come rovina completa dell'uomo. La rovina perché l'intelletto è considerato la parte più

nobile dell'uomo, più vicino alla coscienza suprema e per cui lo strumento eccelso per attingere al divino. Da questo

vortice il bhakti-yoghi cerca di liberarsi trasformando la propria personalità e le proprie passioni.

Swami Chidananda sostiene che nell'ambito della bhakti la soluzione per vincere raga e dvesa è di guidare le proprie

inclinazioni naturali in maniera giusta direzionandoli verso uno stato di purezza.1

Lo yoga propone diverse vie di salvezza, ma tutti implicano la rinuncia come una riduzione sana della propria personalità.

“ In tutte le religioni e tradizioni di yoga la rinunzia sta al centro. L'abbandono comincia quando l'anima si ritira dal mondo

mondano per entrare nelle sfere più profonde- nell'interiorità.

Nel karma-yoga per esempio l'idea è di abbandonare l'attaccamento ai frutti delle azioni, e non solo, consiglia di sacrificare

addirittura l'intento di agire.” 2

L'abbandono viene descritto nella bhagavad-gita nel dodicesimo capitolo come segue:

12 Migliore è infatti la conoscenza della pratica assidua e costante,

superiore alla conoscenza è la contemplazione,

superiore alla contemplazione è l'abbandono del frutto delle azioni;

conseguenza immediata dell'abbandono è la pace;

“Il compito del jnana yoghi è il più difficile. Parte con la premessa che tutto il mondo e l'universo è un illusione. Cerca di

intuire che tutto la conoscenza e tutte le esperienze sono nell'anima e non nella natura e quindi di tralasciare gli

attaccamenti alla natura stessa.” ²

Il raja-yoghi cerca di raggiungere uno stato di beatitudine controllando la fluttuazione dei propri pensieri attraverso la

1 “Realization through devotion”, SRI SWAMI CHIDANANDA, Divine life society publication, p3

2 “The complete book of yoga: Karma, Bhakti, Raja, Jnana Yoga “ , SRI SWAMI VIVEKANANDA, Mahendra Kulasrestha Editor, 2009, p 93

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contemplazione affinché cessino. Il praticante giunge così a uno stato di “vuoto mentale” che è pura consapevolezza priva

di sofferenza. La sua rinuncia può essere compresa come l'abbandono dell'attaccamento ai sensi, ai desideri e ai pensieri

stessi.

La Bhagavad-gita espone nel secondo capitolo:

64 Ma chi, padrone del sé, fruisce del mondo dei sensi

con i sensi privi di attrazione- avversione,

sottomessi alla sua volontà,

consegue una perfetta serenità. 65 Nella perfetta serenità si realizza per lui

la cessazione di tutte le sofferenze,

giacché in colui che ha l'animo sereno

rapidamente si stabilisce la consapevolezza.

66 Non c'è consapevolezza senza raccoglimento,

senza raccoglimento non c'è contemplazione,

senza contemplazione non c'è pace:

e per chi non ha pace come può esservi felicità?

71 Quell'uomo che, rinunciando a tutti i desideri,

vive privo di voglia di possesso,

di attaccamento e di egoismo,

giunge alfine alla pace.

“Di tutte le vie, la proposta della bhakti yoga, è la più naturale, perché nella bhakti invece di rinunciare a qualcosa, si ama.

La via dell'amore cerca di intensificare le inclinazioni piacevoli già preesistenti nella natura umana, per direzionarli in un

certo percorso d'amore; per esempio con l'amore verso i propri figli o l'amore verso la moglie o verso il proprio maestro” 1

L'abbandono nel bhakti yoga è inteso anche come l'offerta di tutti i pensieri (buoni e cattivi) al divino, la sacrificazione di

tutte le azioni al potere supremo, rendendosi strumenti del divino.

“Dov'è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore “ 2

Nella visione dello yoga, l'unico attaccamento valido ovvero permesso, è essere legato al raggiungimento della liberazione.

Il non attaccamento e il vero amore vanno sviluppati insieme gradualmente con dei mezzi seguenti secondo la Srimad

1“The complete book of yoga: Karma, Bhakti, Raja, Jnana Yoga “ , SRI SWAMI VIVEKANANDA, Mahendra Kulasrestha Editor, 2009, p 93

2 Mt 6, 21

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Bhāgavata 3

“Fede e reverenza,

ricerca della verità,

devozione alle pratiche spirituali,

adorazione delle grandi anime che hanno realizzato la Verità,

trovare gioia nella parola di Dio,

evitare la compagnia delle persone mondane,

imparare ad amare la solitudine,

non offendere alcuna creatura ad essere sinceri,

studiare le sacre scritture,

controllare i sensi,

vincere le passioni,

non parlare contro le religioni diverse della propria,

sopportare pazientemente le dualità della vita,

quali piacere e dolore, successo e fallimento,

cantare le lodi e la gloria di Dio.”

Il non- attaccamento può risultare quindi come un sacrificio: un sacrificio (dal latino sacrificium, sacer + facere, rendere

sacro) è comunemente noto come rinuncia ad un bene (cibo o animali), da parte di una comunità in favore di una o più

entità sovrumane, come atto propiziatorio o di adorazione. Nel lessico comune ha perso quest'accezione religiosa per

intendere in generale uno sforzo, la rinuncia a qualcosa in vista di un fine.4

Il sacrificio in India fu razionalizzato e viene anche oggi eseguito dai brahmani, e la sua esecuzione deve essere rigorosa.

“Nel periodo vedico, l'ideale era quello di poter vivere un'esistenza gioiosa, piena, e longeva. Il sacrificio era creduto lo

strumento per appagare tutti i desideri umani, ottenendo beni di ogni tipo, soprattutto materiali. L'elemento essenziale del

sacrificio vedico era il fuoco (agni). Il sacrificio domestico era (ed è tuttora) costituito principalmente da oblazioni offerte

nel fuoco dell'altare di casa. (...)

La visione dell'epoca vedica era fondamentalmente positiva cambiando però nel tardo vedico in una visione opposta: a

partire delle Upanishad (la parte più recente dei veda) la visione ontologica della vita cambia da un ottimismo in un

pessimismo: la vita viene percepita come un male. Vivere di per sé non costituisce un bene, ma è anzi fondamentalmente

un male, sofferenza (duhkha) dal quale ci si deve liberare.

I veda antichi costituivano una via di salvazione l'esecuzione dell'atto rituale esatto (karma-marga). Le upanishad, d'altro

canto, presentano piuttosto una via di salvazione attraverso l'attingimento della perfetta conoscenza (jnana-marga)”. 1

Nel periodo vedico il termine karman indicava in primo luogo rito sacrificale, l'azione perfetta. Per estensione il termine,

3 “Srimad Bhāgavata”, SRI SWAMI PRABHAVANANDA, Edizioni Vidyananda, S. Giustino 2001, p 52

4 Definizione presa da : http://it.wikipedia.org/wiki/Sacrificio1 “Hinduismo”, RIGOPOULOS ANTONIO, Editrice Queriniana, 2005, p 44 45 46; ² p52 ³p 209

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che ha il senso fondamentale di “fare”, verrà a designare qualsiasi tipo di azione. Nel corso dei secoli, ogni corrente

speculativa indiana ha sviluppato la propria dottrina del karman, che non è quindi omogenea o unitaria come

superficialmente si tende a ritenere.” ²

In generale si può dire che ogni azione è tripartita nella sua modalità: si possono eseguire azione sul piano mentale, vocale

e corporale. Ogni azione ha una causa e produce inevitabilmente un effetto che può essere positivo, negativo o neutro. Le

conseguenze delle esecuzioni si presentano nella vita attuale o nelle vite successive visto che la filosofia indiana ritiene che

siamo immersi in un ciclo infinito di morte e rinascita, samsara, dal quale ci si deve liberare. Non sono antitetiche, ma vita

e morte si coimplicano. Si cade nel vortice del samsara a causa di un'ignoranza originaria o una nescienza, avidya, la quale

a sua volta genera l'incatenamento all'azione, karman, a causa degli attaccamenti che nascono.

L'obiettivo alla base di tutte le filosofie indiane è la fuoriuscita del ciclo morte- rinascita visto come salvezza della

sofferenza.

“Il punto di arrivo coincide con l'attingimento della condizione di equanimità (sama, samatva), di una incommensurabile

pace e serenità per cui nulla è più fonte di turbamento. Le coppie di opposti si stemperano, svaporano. In India, l'abbandono

e il radicale venir meno di ogni attaccamento è – anche psicologicamente- alla base di ogni autentica conoscenza, jnana.

L'equanimità è perfetta allorché non si dia più alcun contenuto né d'attaccamento, raga, né d'avversione, dvesa.” ³

Nello bhakti yoga il sacrificio più alto e sublime è l'offerta del proprio corpo, dedicando la propria vita alla divinità. Non la

rinuncia alle azioni stesse, ma all'attaccamento delle azioni, abbandonarsi a Dio per diventare un Suo strumento d'amore.

“ O Madre, qui sono i miei vizi, qui le mie virtù.

Prendili tutte e due. Dammi solo amore puro di Te.

Qui la mia conoscenza, qui la mia ignoranza. Le stendo tutte e due ai tuoi piedi.

Qui è la purezza, qui l'impurezza. Prendili tutti e due.

Qui è il buono, qui il cattivo. Prendili tutte e due e dammi il tuo Amore puro.” 4 (preghiera di Ramakrishna)

Riassumendo, in tutte le vie dello yoga la vetta è di aderire a uno stato d'equanimità senza attaccamenti, né avversioni. Il

silenzio interiore è raggiungibile grazie a diverse pratiche: grazie alla contemplazione, all'agire disinteressato , alla vera

conoscenza o all'abbandono. La pace interiore nello bhakti yoga si può raggiungere attraverso i nove gradini tenendo

occupata la mente, purificandola e direzionandola verso la propria divinità, verso il guru o verso l'Immanifesto con un

sentimento di fiducia/abbandono.

6. ESPERIENZA PERSONALE4 “The science of Emotion culture-Bhakti yoga”, DR. H.R. NAGENDRA, Vivekananda yoga Prakashana, 2000

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“L'umiltà è la Verità. Essere ciò che si è, né di più, né di meno. Senza nulla aggiungere né togliere; perché vi è anche una

falsa umiltà che non è altro che orgoglio mascherato: ritenersi il peggiore, il più infame, il più grande peccatore significa

ancora accordare un eccessiva importanza al nostro piccolo <io>.”

Accettare il proprio humus, la propria dimensione terrena, le proprie grandezze e i propri limiti. Essere umile è

semplicemente essere uomo, non credersi Dio.“ 1

In queste affermazioni ritrovo due concetti che mi stanno occupando la mente negli ultimi anni.

Il primo aspetto è quello di creare una relazione positiva con me stessa; pur riconoscendo le mie debolezze essere grata per

tutto ciò che mi è stato donato. Il secondo aspetto invece mi porta a delle riflessioni sulla società odierna.

In questo capitolo vorrei indagare un po' su questi due argomenti confrontandoli con le mie esperienze e opinioni personali.

La Fiy teneva particolarmente a questo capitolo dell'esperienza personale, ma l'ho mantenuto apposto breve, perché

volevo piuttosto approfondire i pensieri della filosofia indiana che invece dare troppo peso alla mia esperienza che ritengo

limitata e sicuramente poco edificante rispetto al pensiero della tradizione. Cercherò di riassumere le mie esperienze e auto

riconoscimenti vedendo in queste righe un diario spirituale nel quale posso leggere anche un processo, un percorso di auto-

miglioramento.

E siamo già entrati nel primo aspetto, quello di creare un rapporto positivo e amorevole con me stesso. Perché spesso

piuttosto di esagerare nelle mie capacità, le diminuisco e svaluto nascondendomi dietro una timidezza. Ma in fondo anche

questa timidezza non è altro che proiettare l'ego in una direzione che aumenta con l'insicurezza e l'imbarazzo. Ritengo

anche che la mia autostima non si è sviluppata a sufficienza, a causa … saranno mille cause da trovare nel mio passato, ma

quello che per me conta di più adesso è andare oltre, cercando di tralasciare gli attaccamenti del passato che non

appartengono alla vera natura umana. Come ricercatrice della verità aspiro alla umiltà e come sopra citato, umiltà vuol dire

non aggiungere nulla, ma neanche togliere nulla: accettare! Accettare le preoccupazioni e le potenzialità nascoste dentro di

me come punti di partenza per una vita vissuta serenamente.

Non mi sono imposta un ideale facilmente raggiungibile, lo so, ma so che è la via giusta che mi da soddisfazione e fiducia.

Una fiducia nella vita ricercata da me. Dagli episodi della mia vita passata vorrei ricordarmi scomparsa della fiducia

durante il “periodo buio” che ho vissuto dopo la perdita di una persona cara in un incidente. Questa esperienza mi ha

costretto a confrontarmi con il tema della morte improvvisamente, da un giorno all'altro, a diciassette anni, un età in cui già

solo trovare l'orientamento è difficile, figuriamoci integrare il concetto della morte. Mi sentivo buttata controvoglia in un'

abisso segnato da una demoralizzazione senza fiducia in me, negli altri, nella vita, in Dio. Come conseguenza sono emersi

i dubbi sul divino, che tuttora tornano ogni tanto a turbarmi. Cresciuta in una famiglia cattolica praticante senza fanatismi,

sono stata educata con il concetto della fede fin da piccola. La devozione che sentivo dentro di me era addirittura così forte

che a nove anni volevo diventare prete da grande! Anni dopo, si oppone alle prime esperienza religiose, la mia formazione

umanistica, grazie alla quale ho scoperto una varietà di pensieri che mutavano attraverso i secoli. Da un lato la molteplicità

di visioni del mondo mi affascinava, ma contemporaneamente mi disorientava. Nello stesso periodo delle superiori,

percepivo le miserie sulla terra come grandi e tristi ingiustizie che un Dio buono non poteva permettersi di lasciarle

succedere. Quindi mi sono rifiutata di accettare qualsiasi credo mettendo in dubbio ogni esistenza al-di là. Questa

negazione del divino si è rafforzata con la conoscenza scientifica riducendo il concetto della fede come cieca credenza dei

1 “L'Esicasmo- che cos'è e come lo si vive”, LE-LOUP, Gribaudi, Torino 2002, p.64

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fanatici. Ero dell'opinione che ogni religione fosse da abolire, visto che si fanno tante guerre nel loro nome. Insomma, tante

critiche, incertezze e dubbi- tante domande e poche risposte.

A diciotto anni ho scoperto lo yoga. Ho incominciato a praticarlo per comprendere meglio il mistero della morte e perché

pensavo che con la meditazione si ottenesse la capacità di instaurare contatti con i morti.

Adesso lo yoga rappresenta per me una scienza che offre delle tecniche per conoscere meglio le proprie capacità, ma

soprattutto Sé stesso; questo Sè che non appartiene più alla personalità. Negli ultimi anni di apprendimento dello yoga

presso la federazione yoga ho imparato ad apprezzare una ricerca interiore di auto-introspezione che è un mezzo favoloso

per conoscersi. Conoscere appunto sia i propri limiti che le proprie potenzialità.

A un certo punto ho scoperto che è necessario rivedere i miei ideali e di modificare alcuni. Mi sono resa conto più volte

che stavo seguendo dei modelli che non fanno veramente parte di me, ma che erano auto-introdotte (o tv introdotti?) senza

riflessioni profonde e senza discernimento.

Grazie agli incontri di yoga che conduco io, ho potuto fare delle scoperta sul mio carattere e sulle mie visioni. Quattro anni

fa ho incominciato a condividere le poche conoscenza sullo yoga che ho con altri, anche per finanziarmi la formazione

preso la Fiy. Mi è chiaro che un insegnante di yoga utilizza certi comportamenti che, in un ambito di seduta di yoga vanno

benissimo, anzi sono considerabili. Ma i partecipanti pensano poi che l'insegnante si comporta continuamente in questo

modo, con questa visione faccio fatica ad identificarmi, perché semplicemente non corrisponde alla realtà. Ho chiarito sia a

me che ai partecipanti le idee: non sono una maestra illuminata, non sono sempre serena e pacifica, ma sono un essere

umano in ricerca di auto-miglioramento. Inoltre penso che la ricerca spirituale è una ricerca intima, delicata e personale che

può essere guidata da un maestro, o da una persona colta, ma non da me- che non mi ritengo pronta, e forse non lo sarò

mai. Questi riflessioni mi fanno dubitare se devo continuare a organizzare degli incontri di yoga; sicuramente devo trovare

un giusto approccio con l'insegnamento.

Tanti riconoscimenti del proprio carattere non sono rivelazioni gioiose, anzi possono ferire profondamente. Spesso, quando

mi rendo conto dei miei comportamenti, ritenuti sbagliati da me, mi colpevolizzo talmente tanto che perdo ogni stabilità.

Questo mi fa notare che non ho creato un rapporto amorevole con me stessa. Non ho ancora capito bene quanto, e se,

questo destabilizzarsi è necessario per il mio cammino spirituale. Gli insegnanti della Fiy ci hanno insegnato, che il primo

passo è riconoscere e poi è desiderabile creare una relazione di perdono con se stesso in modo che si crea la voglia di

cambiare nel meglio. La pratica dello yoga è per me anche un esercizio nel riconoscimento delle proprie debolezze,

perdonandosi per poi direzionare la vita alla santificazione.

Questo concetto della santificazione mi tiene occupata da poco la mente. Fino qualche anno fa non avrei mai pensato che

dovrei seguire una meta ultima nella vita. Invece mi sono trovata ad un certo punto, durante gli approfondimenti dell'Isfiy, a

dover confrontarmi con il concetto dell'illuminazione cambiando così il mio punto di vista. Se prima vedevo la liberazione

come una qualcosa lontanissima da me, neanche da pensare di raggiungere, oggi l' ho integrata nel mio percorso spirituale e

la vivo come potenzialmente possibile da raggiungere. Questa trasformazione, da un viandante senza meta, in una

ricercatrice con un obiettivo ben preciso, mi ha dato e mi da tuttora conforto, fiducia e stabilità. Mi sento coinvolta nel

progetto universale e non più esclusa.

“Un uomo che è cosciente della sua debolezza e dei suoi limiti sta soffrendo e quindi si rivolge con la preghiera alla sua

divinità personale che lo protegge, guida e benedice, concedendoli la grazia divina.” 1

Swami Chidananda consiglia di rivolgersi alla divinità quando ci si è reso conto delle proprie debolezze.

Da questo consiglio anch'io ho ritrovato nella preghiera un metodo di comunicazione con il divino e una possibilità di

abbandonare i miei sbagli per poi ricevere un perdono divino e non riempirmi con sensi di colpa. E' diventato un metodo

per creare una relazione più amorevole con me. Per riconoscere le proprie debolezze è importante allenarsi in una vigilanza

1 “Realization through devotion”, SRI SWAMI CHIDANANDA, Divine life society publication

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mentale.

Quando ho incominciato con lo yoga, la mia insegnate di allora non divideva mai fin dall'inizio la meditazione dagli

esercizi fisici- per fortuna, perchè l'abc della pratica yoghica è costituito dalla presenza mentale, per esempio coltivando la

nobile arte dell’ascolto. Per esercitarsi nell’udire dobbiamo essere capaci di far veramente spazio all’altro e quindi riuscire

a vincere la nostra distrazione e l'attaccamento al proprio essere, perché curare l'attenzione richiede grandi sforzi e in fondo

esige amore. Questa pratica ci fa capire che la premessa per conoscere e per amare è svuotarsi.

La mia ricerca di auto-miglioramento mi ha portato attraverso varie pratiche meditative. Durante il mio soggiorno in India

mi sono avvicinata alla meditazione buddhista, vipassana. La introspezione è un mezzo straordinario per conoscere la

propria interiorità che è talmente vasta da potersi smarrire. L'obiettivo della prassi contemplativa è di registrare i pensieri,

non attaccarsi, ma esserne consapevole: vederli scorrere, passare e svanire. La vetta dello yoga è quella di raggiungere uno

stato di tale consapevolezza ed esportarlo nella vita quotidiana: rendendosi conto della propria postura fisica e della propria

interiorità incessantemente. Intanto, con questa meta ben presente nella mente, cerco di allenarmi quanto posso con delle

pratiche meditative, anche se non riesco a praticare quotidianamente con regolarità. Cerco comunque di continuare con un

comportamento amorevole verso me stessa senza colpevolizzarmi di non praticare più spesso. In caso colpevolizzo mio

marito ;-)

Il fatto, al quale il prof. Antonio Rigopoulos non ha esistito a sottolineare, è che la pratica dello yoga, esercitata in modo

immaturo, conduce a un rafforzamento dell’io, e viceversa, la pratica matura, conduce ad un ammorbidimento dell’io. Mi

ricordo bene quando ho avuto il primo sospetto che anch'io era posseduta da un ego. Questo riconoscimento faceva parte

degli risvegli dolorosi. Era nel febbraio 2004 quando sono stata in India e ho frequentato il corso residenziale di un mese

per diventare insegnante di yoga presso il Vivekananda- Kendra in Bangalore. Mi ricordo che prima del corso mi ritenevo

una persona abbastanza priva di ogni egoismo, durante il corso mi domandavo cosa si intende per ego e dopo il corso ero

sicura che ero una persona pieno di egoismo dal quale dovevo liberarmi.

Con tristezza percepisco spesso il fatto che molti praticanti di yoga alimentano il proprio ego anziché indebolirlo, perché

sono talmente presi dallo yoga come ginnastica o pensano che lo yoga sia un qualcosa che riguarda solamente il proprio

corpo e la propria mente, anziché rivolgersi in una prospettiva di amore verso gli altri. “Questo è un rischio comunissimo e

molto grave, perché la disciplina di corpo e mente, che certamente riguarda me stesso, si riduce all’idea di un

perfezionamento personale isolato dal resto: ci sono io, c’è il mio perfezionamento e tutto il resto non conta. Questo però è

l’anticristo, è lo anti-yoga.” 1

La pratica dello yoga, se male intesa, produce quindi una sorta di irrigidimento dell’io, di una sua massimizzazione,

anziché di un suo ammorbidimento. “Perché il vero amore non è in riguardo al proprio essere. “ 2 Soprattutto nella via

dell'amore e dell'abbandono come è la bhakti, è importante aprirsi all'altro; l'altro in forma divina, ma anche in forma

umana. Non trovo sempre facile accogliere gli altri. Spesso preferirei chiudermi, isolarmi e fregarmi dei problemi altrui. Al

massimo mi ritrovo a criticare gli altri, cosa potevano fare meglio o cosa hanno sbagliato. Sono un giudice abbastanza

severo, anche con me stessa poi. Cerco spesso di convincermi quanto è importante una convivialità fraterna che poi non

risulta così difficile grazie alle mie bambine perché in loro è innato una continua ricerca del prossimo.

“Una persona non può sviluppare vera devozione per Dio se non ha soggetti di amore nel mondo.

Vairagya (il non- attaccamento) è il frutto di vero amore per Dio.“ 3

Non ci avevo pensato prima di leggere queste righe quanto è importante trovare nel mondo soggetti di amore. Quindi

1 Dispense del secondo anno ISFIY del Professore Antonio Rigopoulos, Padova 2006-2010

2 “Realization through devotion”, SRI SWAMI CHIDANANDA, Divine life society publication, p16

3 Insegnamenti di Swami Shivananda (http://www.dlshq.org/teachings/bhaktiyoga.htm)

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l'amore per le piante e gli animali, il prossimo, l'amore per le creature create da Dio, diventa importantissimo in quanto

fanno provare al ricercatore un sentimento puro. Più avanti questo amore deve essere purificato per essere direzionato verso

il divino, amare il divino, perché si diventa ciò che si ama. Ovviamente questi oggetti di attenzione, di amore, devono

essere trascesi senza attaccamenti (vairagya).

Questo concetto mi ha portato a delle tristi riflessioni pensando alla società, dove l'amore viene spesso sostituito dagli

oggetti. Un bambino di città ad esempio non troverà tante creature per amare, come piante ed animali, ma piuttosto degli

apparecchi, dei computer, delle strade asfaltate, facebook dove si coltivano le relazioni umane in modo virtuale.

A questo punto vorrei concludere il primo aspetto, che era quello di creare una relazione positiva con me stessa, per arrivare

al secondo aspetto: la società odierna. L'uomo moderno, oltre a togliersi ogni creatura viva da amare, si permette di

sovrapporsi alla provenienza divina. Egli si mette al centro degli avvenimenti, e si auto-accusa dicendo che tutti i

cambiamenti negativi nel mondo succedono a causa sua. L'umanità si crede Dio e in più pensa di poter ammazzare il

mondo. Se guardiamo a fondo però ci accorgiamo che in caso l'uomo può solo ammazzare se stesso come specie, ma non il

mondo. Tuttavia questa visione distorta induce una non essenza di Dio che ci guarda, ci protegge e torniamo al concetto di

mancanza di fede. Sto seguendo le notizie nei giornali e sul internet riguardo all'ecologia e al pensare di salvare il mondo.

La povera terra che viene distrutta dal mostro terribile che si chiama umanità. Veniamo ben indottrinati verso questa idea

luciferina di credere che l'uomo è un parassita sulla terra. Invece in una prospettiva religiosa è l'uomo ad essere la massima

espressione di Dio e il suo comportamento dovrebbe tener largamente in considerazione questo fatto in quanto è lui il

custode del creato. Non posso rinnegare che succedono delle guerre crudeli, che c'è uno sfruttamento disumano dei paesi

poveri in modo che noi ricchi possiamo vivere come dei re e delle regine nelle nostre villette, che animali vengono trattati

come degli oggetti, se non peggio. Indubbiamente c'è una grande ingiustizia nel mondo. Voluta da qualcuno? Non so

rispondere a questo. L'unica proposta che posso fare è che l'uomo dovrebbe vivere riconoscendo in se la propria natura

divina. “La mattina, quando ti alzi, ricordati che appartieni a Dio, mentre la sera, ricordati che Dio non ti appartiene.”

“M. Kazantzakis osserva che la nostra tendenza é di umanizzare Dio, mentre occorre invece deificare l'uomo e tutto

l'uomo.” 3 Per l'uomo in generale è difficile concepire qualcosa altro che se stesso, di non-umano. Quindi gli adepti

cercano degli immagini e degli ideali che vengono rappresentati in una divinità, che poi in verità sono impossibili a

delineare se non con attributi nettamente umani. Per così dire è un fatto di debolezza umana di credere che Dio avesse

qualcosa in comune con noi esseri terrestri. Invece è proprio l'incontrario: dovremmo renderci conto della perfezione divina

e prenderla come modello da imitare trovando in noi stessi dei valori divini.

Con le offerte spirituali esuberanti, mi trovavo spesso in difficoltà comprendere quale sia la strada giusta da seguire e

quale la sbagliata. Durante gli insegnamenti della Fiy ho imparato a valutare l'importanza della tradizione, seguire una

scuola che abbia alla base delle scritture sacre e tradizionali. Questo è uno dei mezzi più efficaci per discernere tra pratiche

teosofiche e di new age e tra pratiche che hanno una base solida.

Guardandoci intorno nella nostra società non racconto sicuramente niente di nuovo se dico che viviamo in un epoca in cui è

la pubblicità a darci dei dogmi precisi: a cosa ci è permesso pensare e quali ideali sono da seguire. Ci svegliamo nella realtà

dove il nostro principe (o la principessa) non profuma la mattina, come ci viene fatto vedere nelle telenovelle. I messaggi

veicolati dalla pubblicità sono spesso nascosti e mirano a stimolare la nostra parte più istintiva. Osservo che viviamo

un'esistenza fiabesca, di fantascienza, indottrinata dai mass-media, alla quale ci siamo fin troppo abituati. Partecipiamo a

tanti miracoli ogni giorno e li troviamo normali e ordinari e niente più ci meraviglia. Grazie agli scienziati e ai tecnici nelle

nostre modernissime case non manca nulla. Viviamo in un periodo in cui tante persone possono soddisfare i propri passioni

3 “L'Esicasmo- che cos'è e come lo si vive”, LE-LOUP, Gribaudi, Torino 2002, p 126

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e avarizie senza porsi limiti. Gli industriali prevengono tutti i minimi desideri e creano per nostro benessere e piacere

infiniti prodotti, sempre più gradevoli e spesso con una qualità minore sfruttando la parte più povera del mondo.

Nonostante tutta questa ricchezza e soddisfazione materiale siamo scontenti come ragazzini viziati. Tra le tante capacità che

l'uomo possiede vengono stimolati soprattutto- se non solo- i sensi e l'istinto- i valori umani come amore, verità, pace,

rettitudine, non-violenza vengono trascurati.

Alla religione e alla fede non viene lasciato spazio riducendo le esperienze mistiche come cambiamenti chimici o

elettronici del cervello. Questa svalutazione da ovviamente poca fiducia a credere nel proprio vissuto interiore. E pur

l'uomo moderno percepisce l'urgenza di aderire a quella saggezza interiore da cui si sente separato per ritornare a quella

forma originaria. Tale separazione causata dall'ignoranza originaria (che è la non-sapienza del divino- avidya) comporta a

una profonda sensazione di disagio, di dolore e un vuoto interiore che si cerca di riempire con delle dipendenze, con dei

beni materiali, identificandosi con altre persone, cadendo in depressioni, etc. La risposta a questo disagio secondo me

potrebbe essere la pratica della rinuncia, dovrebbe diventare di moda! C'è una necessità di rinuncia. Suona incomprensibile

nei nostri tempi dove soddisfare desideri è la cosa primaria e la rinuncia ai beni materiali è vista come miseria. “La

rinuncia come forma di resistenza” può perfino essere uno strumento politico come propone Matteo Gasser in una delle sue

canzoni. L'unico difetto nella pratica della rinuncia è che ci vuole tanta volontà ad eseguirla.

Gandhi disse ”Sii tu il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”.

7. CONCLUSIONE

Non posso negare la difficoltà che ho avuto all'inizio per strutturare la tesi e ringrazio in maniera particolare il Prof.

Rigopoulos che mi ha chiarito le idee ed aiutato ad ordinare i vari capitoli.

Mi sono accorta che ho affrontato in modo analitico un tema che in realtà viene praticato piuttosto all'incontrario: con delle

emozioni. Ma alla fine dei conti tutto è collegato e senza conoscenza non c'è amore e senza amore non c'è coscienza.

Non avrei approfondito questo tema, che mi è tanto caro, in modo così dettagliato, senza la possibilità di scrivere una tesi in

un ambito scolastico e devo ringraziare la federazione per questo. Con la stesura di questa tesi ho avuto la possibilità di

confrontare le varie strade dello yoga, paragonando i punti di coesione e differenza. Inoltre è stato un buon esercizio per

ampliare non solo il mio orizzonte cognitivo ma anche per allargare la mia coscienza della lingua italiana, essendo di

madrelingua tedesca.

A questo punto vorrei ringraziare tutti quelli che mi hanno aiutato a correggere la tesi.

8. BIBLIOGRAFIA

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