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International Journal of Psychoanalysis and Education IJPE (versione italiana) n° 1, vol. I, anno I ISSN 20354630 (riferito alla versione telematica pubblicata all’indirizzo www.psychoedu.org)
Organo ufficiale dell’Associazione di Psicoanalisi della Relazione Educativa (copyright © APRE 2006)
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LE BASI PSICODINAMICHE DEL FANATISMO RELIGIOSO E DI ALCUNI TIPI DI RELIGIOSITÀ’
Luigi Silvano Filippi
(psichiatra, psicoterapeuta, emerito Psichiatria Università La Sapienza)
Nota: contributo pubblicato anche sul sito‐web dell’ASSOCIATION INTERNATIONALE D'ETUDES MEDICO‐PSYCHOLOGIQUES ET RELIGIEUSES (AIEMPR) all’indirizzo telematico: www.aiempr.org Abstract Il fanatismo può riguardare qualunque umana realtà (sport, politica, professione, ecc.). Nelle forme conclamate è espressione di un disturbo della personalità, ancora più evidente nel fanatismo religioso. Perciò l'autore espone le linee generali di sviluppo della personalità, comuni a tutte le culture, rilevando ‐ alla luce della psicologia del profondo (psicoanalisi) ‐ che la formazione di un disturbo di personalità è dovuto ad una profonda disarmonia della relazione individuo‐ambiente, specie nei primi anni di vita. L'apporto della psicoanalisi consente di spiegare i dinamismi psichici (scissione, diniego, proiezione, identificazione proiettiva, formazione reattiva, razionalizzazione ecc.) che sono alla base dell'atteggiamento fanatico, in particolare religioso. Favorendo la crescita interiore e umana globale, nostra e altrui, anche attraverso una più equa distribuzione dei beni materiali e culturali ed una più effettiva partecipazione all'esercizio del potere ‐ su scala mondiale ‐, si potrebbero realizzare i cambiamenti necessari a prevenire la formazione di personalità fanatiche.
1. Introduzione
1.1. Fanatismo, fondamentalismo, integralismo
Non è facile comprendere il mondo interiore di un individuo che noi definiamo fanatico. Si tratta
di una persona che aderisce incondizionatamente ad una realtà ideale o concreta, che la difende con
cieca passione e che perciò è impermeabile al dubbio e intollerante delle posizioni altrui.
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L’etimologia (dal latino fanum, luogo sacro, tempio - il contrario è profanum -) lo indica come
“ispirato dalla divinità”; tuttavia tale atteggiamento può riferirsi non solo all’ambito religioso, ma ad
ogni umana realtà: sport, politica, attività professionale ecc. Quando riguarda la religione, esso
risulta ancor più radicato, in quanto si dà delle motivazioni sacrali, la cui profondità, come vedremo,
è maggiore delle altre.
Si confonde spesso il fanatismo con il fondamentalismo o con l’integralismo. Queste tre parole
sono spesso usate come sinonimi, poiché fondamentalismo ed integralismo sfociano per lo più nel
fanatismo; tuttavia, in uno studio su quest’ultimo, è bene precisare la differenza che vi è tra questi
tre atteggiamenti psicologici. Del fanatico abbiamo già detto; il fondamentalista è in sostanza un
“conservatore”, che sostiene la realizzazione immutabile dei principi fondamentali di una
determinata dottrina (o religione o partito politico ecc.); l’integralista invece vorrebbe che la propria
dottrina o ideologia fosse attuata integralmente in tutti gli ambiti della vita, individuale e sociale. E’
possibile, tuttavia, anche se raro, che il fondamentalista e l’integralista sostengano le proprie idee
senza fanatismo.
1.2. Natura e cultura. Concetto di personalità
A completamento della descrizione fenomenologica qui accennata, occorre esaminare
brevemente gli apporti che provengono dalla psicologia evolutiva (dello sviluppo psichico) e dalla
psicologia del profondo (psicoanalisi). Naturalmente, rivolgendosi questo studio a un vasto arco di
lettori non specialisti, saranno esposti i concetti più generali, riguardanti l’essere umano di qualsiasi
cultura: fermo restando che la cultura (l’ambiente) esercita un ruolo fondamentale nella formazione
della personalità. Infatti il vecchio dilemma natura-cultura (se è il patrimonio genetico oppure
l’ambiente a influire maggiormente sulla formazione della personalità di ogni individuo) è di fatto
superato dai moderni studi di genetica, che dimostrano che un gene può “esprimersi” solo se
l’ambiente favorisce tale espressione.
S’intende per personalità il sistema integrato e sufficientemente stabile delle varie componenti
di una persona, l’unità dinamica in cui si integrano (e non si giustappongono né si sommano) i tre
aspetti - biologico, psicologico e sociale - sotto i quali può essere esaminato ogni individuo (Cesa
Bianchi, Massimini & Poli, 1989): in definitiva l’insieme stabile dei suoi modi di sentire, di pensare,
di agire e di reagire nei confronti di se stesso e degli altri.
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Vediamo come si svolge lo sviluppo psicoaffettivo dell’individuo, che porta, appunto, alla
formazione della sua personalità.
2. Sintesi dello sviliuppo psicoaffettivo
2.1. Linee generali di sviluppo psicoaffettivo
Nei primi mesi dopo la nascita (e verosimilmente verso la fine della vita intrauterina: cf. Liley
1972) il neonato vive se stesso come fuso simbioticamente con la realtà esterna, rappresentata
all’inizio dalla figura materna. Egli non ha alcuna sensazione di essere distinto da detta realtà.
Questa sensazione di essere l’unica realtà esistente gli conferisce un senso di onnipotenza, le cui
tracce - inconsce - potranno trovarsi in numerose condizioni della vita adulta (tra cui quella del
fanatismo).
Poco alla volta, a partire dal 3° mese di vita extrauterina, l’azione delle prime frustrazioni da
parte dell’ambiente, insieme alle sensazioni provenienti dai suoi stessi organi ed apparati
produrranno una iniziale percezione di essere distinto dal mondo esterno. Inizierà cioè il processo di
“individuazione-separazione” (Mahler, Pine & Bergman, 1975), che porterà il bambino ad una
prima consapevolezza di se stesso.
Per diventare persona matura egli dovrà conquistare la libertà interna - e, quanto è possibile,
quella esterna - attraverso una faticosa e complicata evoluzione, che, se ben riuscita, lo porterà, da
una parte ad una sufficiente coscienza di sé, dei suoi diritti e dei suoi doveri, dall’altra, ad una
capacità di rapporto e interazione con gli altri, con un reciproco arricchimento interiore (Erikson
1950, 1964; Ancona, 2001).
Oggi è pressoché unanimamente ammesso che in questo processo di crescita è fondamentale una
interazione il più possibile armoniosa individuo-ambiente, soprattutto nei primi anni di vita.
Occorre aver presente che queste linee generali di sviluppo sono comuni a tutte le culture: queste
accentuano l’uno o l’altro fattore o possono considerare completata l’evoluzione psicoaffettiva una
volta raggiunta una certa caratteristica, che per un’altra cultura può non essere altrettanto rilevante,
o addirittura essere considerata “deviante”. Un relativismo culturale “critico” (non ingenuo) deve
tener conto di ciò.
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2.2 Gratificazioni e frustrazioni nel processo di sviluppo
Va notato che lo sviluppo psichico e affettivo non è un processo lineare, ma per lo più è un
susseguirsi di progressi e di regressi, sia per l’influsso dei fattori biologici e psicologici individuali,
sia per l’azione esercitata dall’ecosistema del soggetto, in particolare dai vari gruppi (familiare,
scolastico ecc.) in cui egli si troverà via via inserito.
Purtroppo accade spesso che una maturità soddisfacente sia tutt’altro che raggiunta, anche
quando il soggetto non presenti sintomi patologici conclamati e perfino sembri aver conseguito un
discreto adattamento sociale ed una buona posizione, in quanto, per azione dei “meccanismi di
adattamento e di difesa” egli può mascherare i blocchi verificatisi nel suo sviluppo psicoaffettivo.
Infatti per passare dai comportamenti propri di una fase più immatura a quelli successivi occorre
che il bambino riceva dall’ambiente, al tempo giusto e nella misura per lui giusta, le gratificazioni
proprie di quella fase e le frustrazioni necessarie e compatibili con la sua individuale tolleranza. E’
per questo che S. Freud (1932, p. 149) afferma che l’educatore deve trovare una strada tra Scilla
del lasciar fare e Cariddi del divieto frustrante. Se infatti le frustrazioni superano il suo individuale
limite di tolleranza, per non sentirle il soggetto metterà automaticamente in opera i suoi dinamismi
difensivi (le “rimuoverà”), sottraendo così alla crescita elementi importanti della sua vita psichica: e
più precoci saranno le rimozioni, più deleteri saranno i loro effetti sullo sviluppo psicoaffettivo.
Se sarà saturato nei suoi bisogni fisici e affettivi, il soggetto si staccherà serenamente da
godimenti più infantili, in ciò aiutato dalle proporzionate frustrazioni: altrimenti rimarrà “fissato”
(bloccato) alle fasi di sviluppo non superate; invece, in caso di interazione armoniosa con
l’ambiente, scoprirà soddisfazioni via via più mature, fino a giungere a quelle relative ai valori
morali e spirituali, come il piacere dell’arte, dell’amicizia, della politica intesa come uso del potere
per il bene di tutti (della polis = città-stato), della religiosità non infantile ecc.
Si noti che non solo una carenza, ma anche un eccesso di gratificazioni produce lo stesso effetto
di blocco dello sviluppo psico-affettivo, in quanto l’individuo non riesce a staccarsi da gratificazioni
eccessive, che lo hanno come "sedotto". Il distacco è per lui una frustrazione intollerabile, ed egli
nella vita andrà sempre in cerca di esse, spostando inconsciamente tale bisogno su "oggetti"
(persone o cose) che simbolicamente gli rappresentino tali gratificazioni.
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2.3. Livello di sviluppo di gran parte dell’umanità
E’ evidente che un gran numero di persone non raggiunge un sufficiente grado di maturità psico-
affettiva, o perché la situazione ambientale (povertà, guerre, ripetute catastrofi naturali ecc.) è causa
di frustrazioni eccessive che bloccano lo sviluppo, o perché il bambino è caratterizzato da bisogni
psicofisici superiori alla media, sicché dei genitori mediamente dotati non sono in grado di
soddisfarli, oppure perché i genitori sono essi stessi immaturi, sicché non possono corrispondere alle
esigenze anche normali del figlio: a parte il fatto che particolari frustrazioni possano essere
esplicitamente inflitte al bambino, in alcune culture, con la conseguenza che egli accumuli molta
aggressività, diventando per esempio un accanito guerriero.
Su scala mondiale dobbiamo constatare che l’organizzazione delle attuali società è ben lontana
da quella equa distribuzione dei beni materiali e culturali, da quella partecipazione alla gestione del
potere (sia pure nelle forme rappresentative possibili) che permetterebbero uno sviluppo umano più
completo. La maggior parte delle persone, infatti, lotta per la stessa sopravvivenza - problema di cui
oggi peraltro si diffonde sempre più la consapevolezza - e subisce i condizionamenti di chi possiede
il potere economico, politico, sociale (restandone a sua volta condizionato), trasmettendo perciò ai
propri figli tale precarietà.
2.4. Cenni su alcuni apporti significativi alla psicologia evolutiva
Molti autori, nel solco aperto su questi studi da S. Freud, hanno approfondito questo o
quell’aspetto dello sviluppo psicoaffettivo. Basterà citare, nell’impossibilità di citarli tutti, M. Klein
e la “Scuola inglese” da lei iniziata, che hanno ribadito l’importanza del primo anno di vita: primo
anno fondamentale, per es., anche per R.A. Spitz, per E.H. Erikson ecc.; D. W. Winnicott, che ha
unito la sua esperienza di pediatra a quella di psicoanalista, per fare acute osservazioni sulla
relazione madre-bambino, sulla importanza dell’holding, del mirroring e dell’handling relativi al
piccolo bambino, per una buona formazione del Self (della consapevolezza e dell’immagine di sé)
ecc.; H. Hartmann, che ha sviluppato il filone della “psicoanalisi dell’Io”, partendo da un’intuizione
dell’ultimo Freud; E.H. Erikson, che ha diviso il ciclo vitale, dalla nascita alla morte, in otto fasi e
come vedremo ha approfondito il concetto di “principio di attualità”; e via dicendo.
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Un cenno particolare merita J. Bowlby, che dopo una lunga e notevole esperienza psicoanalitica è
approdato alla teoria dell’attaccamento (1969-1980). Sviluppando questa teoria, Bowlby ritiene
che, oltre agli impulsi di conservazione, libidici e aggressivi, studiati da Freud, vi sia un impulso di
attaccamento, che comincia nei primi giorni di vita e serve ad assicurare la sopravvivenza
dell’essere umano. Dopo una fase di preattaccamento o di interesse indifferenziato per l’adulto,
verso i sei mesi di vita inizia l’attaccamento vero e proprio, che dura tutta la vita - essendo nelle fasi
successive e poi nella vita adulta “trasferito” (spostato) sul partner o su altre realtà - e che è
caratterizzato dalla comparsa dell’angoscia di separazione. Dalle vicissitudini dell’attaccamento,
soprattutto nelle fasi iniziali dell’esistenza, deriva il benessere psichico oppure la psicopatologia
dell’individuo.
2.5. Nota sul concetto di scienza
E’ opportuno notare che quando un corpo dottrinale, coerente al suo interno, consente di
spiegare, prevedere, modificare la realtà osservata e inoltre può essere comunicato agli altri (e, per
le scienze cosiddette esatte, può essere all’occorrenza falsificato, cioè confutato, sec. K. Popper,
1963), ci troviamo di fronte ad una interpretazione di detta realtà che costituisce una verità
scientifica. Si tratta di una verità incompleta, che può essere integrata con altre letture della stessa
realtà, in attesa di essere ulteriormente approfondita: tuttavia essa è molto utile per le applicazioni
tecnologiche o cliniche e per il progresso della scienza. Così i fisici adoperano, per spiegare la realtà
della luce e condurre i loro esperimenti, il modello ondulatorio (onde elettromagnetiche) e quello
corpuscolare (fotoni), che non sono in contraddizione tra loro, ma anzi sono complementari. Perciò
non deve meravigliare la varietà di teorie sullo sviluppo psicoaffettivo e sul funzionamento della
psiche umana.
Ricorderemo che nell’ambito delle scienze umane il criterio popperiano della "falsificabilità" non
può essere applicato, essendo il vissuto del soggetto - e la relazione interpersonale attraverso cui si
manifesta - unici e irripetibili: non essendo riproducibile sperimentalmente, non può essere
eventualmente confutato, ma ciò non esclude che sia certo. Perciò gli epistemologi moderni hanno
molto attenuato la distinzione tra scienze umane e scienze “esatte”, anche alla luce del “principio di
indeterminazione” di Heisenberg (che ha evidenziato anche in queste ultime l’influsso
dell’osservatore sul risultato della ricerca).
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2.6. Crescita psicologica e livelli motivazionali
Dal punto di vista della “motivazione” (cioè della/delle forze che mettono in moto e regolano la
condotta umana), lo sviluppo psicoaffettivo può essere sintetizzato dicendo che il soggetto all’inizio
della vita è mosso dal bisogno del piacere immediato (il principio di piacere), con enorme
produzione di aggressività distruttiva, per sé e per gli altri, se tale piacere non è conseguito.
Successivamente il bambino si rende conto che non può fare tutto ciò che vuole, che la
soddisfazione di un desiderio può portare a un dispiacere e impara a dilazionare la soddisfazione
istintivo-affettiva immediata, scoprendo d'altronde altri piaceri più evoluti: il suo comportamento è
dunque motivato dal principio di realtà. Infine, se ha superato questi livelli motivazionali,
l’individuo può percepire il senso ed attuare i valori morali fondamentali, ciò che comporta la
capacità di amare l’“altro” per se stesso, non principalmente per i vantaggi affettivi o pratici che ne
derivano, e di inserirsi quanto è possibile armoniosamente nella società. E’ il livello del principio di
attualità, dizione coniata da S. Freud ed elaborata da E.H. Erikson (1964), il quale lo concepisce
come capacità di partecipazione, libera (o da rendere tale) da qualsiasi “acting-out” difensivo o
offensivo.1
Notare il parallelismo tra i tre livelli qui sopra descritti e i tre livelli delle motivazioni
propriamente dette (Ancona, 1962): 1) motivi fisiologici, omeostatici, (dal greco hómoios = simile e
stásis = stabilità), in quanto mirano alla riduzione del bisogno per conservare all’ambiente interno
una stabilità sempre uguale. Essi sono innati (fame, sete, caldo, freddo, comportamento sessuale e
parentale ecc.). Da essi derivano motivi acquisiti, per soddisfare tali esigenze, per esempio: bisogno
di abitazione, di lavoro retribuito ecc.; 2) motivi esploratori, antiomeostatici, psicofisiologici, i quali
esprimono il bisogno di stimolazioni che rompano l'equilibrio e sono rivolti al mondo esterno, per
esplorarlo e conquistarlo. Ne derivano motivi secondari, psichici, con connotazioni sociali:
autonomia, affermazione di sé, appartenenza, potere, esperienza di amore ecc.; 3) motivi conoscitivi,
1 Per acting-out s’intende ordinariamente il passaggio all’azione senza previsione delle conseguenze, anziché l’elaborazione interiore di un determinato fatto o sentimento. Così si dice che un soggetto “agisce” la sua aggressività, quando ha un comportamennto di fatto aggressivo, di cui probabilmente non è consapevole
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psichici, volti al conoscere, al ricercare la verità delle cose. Da questi derivano la ricerca del senso
delle cose e i motivi legati ai valori spirituali e morali.2
Va ribadito che non si può passare genuinamente al livello successivo se nel corso dello
sviluppo non si sia compiuta adeguatamente l’esperienza emotiva del livello antecedente, cioè se
non siano state soddisfatte, nella misura giusta per ciascun individuo, le esperienze fisiche, cognitive
e affettive proprie degli stadi precedenti. Perciò, come si è già accennato, il bambino che non abbia
potuto soddisfarsi debitamente al livello del “piacere”, rimarrà attaccato alle soddisfazioni mancate
anche quando l’età cronologica non lo comporti più e perfino da adulto, e non riuscirà a passare al
livello della “realtà”; così, per percepire e vivere al livello dei valori, il soggetto deve aver
sperimentato in misura sufficiente le soddisfazioni legate alla conquista e alla integrazione nella
realtà fisica e sociale, con la conferma dell’autostima, del sano senso di sé che ne deriva. Solo allora
infatti potrà accorgersi che al di là di queste soddisfazioni ve ne sono delle altre, quelle che S. Freud
(1929, p. 79[della Standard Edition…]) definiva “più fini ed elevate” e che sono legate ai valori
umani, per cui l’altruismo, il lavoro produttivo, la collaborazione e lo scambio con gli altri, la
conquista del bene perché è bene possono essere realizzati, anche contro il conformismo sociale dei
più e contro gli interessi personali.
In conclusione ogni umana attività è motivata simultaneamente da più motivi, parte
coscienti, parte inconsci (infantili). Il costante intreccio, a livello cosciente e inconscio, di tali
motivazioni tra loro e con gli influssi dell’ambiente, insieme alla possibilità di regressione o di
crescita, ci mostra la complessità dei motivi che guidano il comportamento degli individui e dei
gruppi e come sia importante il livello di evoluzione psichica e umana globale conseguita. Questo
incide sul concetto di “normalità” dell’essere umano.
2.7. Il concetto di “normalità”. I segni principali della patologia mentale
Non è un problema semplice, quello della “normalità” umana: si può seguire un criterio
nomotetico, che confronta l'individuo con la “legge o norma” (in greco: nómos) statistica o ideale:
questo tuttavia può risultare arbitrario; oppure un criterio idiografico (dal greco ídios = proprio,
2 Il sommo poeta italiano Dante Alighieri mette in bocca ad Ulisse, che esorta i suoi marinai a varcare le “Colonne d’Ercole” (lo stretto di Gibilterra) queste parole: “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza” (Divina commedia, Inferno, XXVI, 119-120).
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particolare), che constata che ogni individuo è unico e irripetibile: quest’ultimo è più utilizzato dalle
Scienze umane.
Forse, più che di normalità, per l’essere umano conviene parlare di "maturità", cioè del livello
motivazionale raggiunto: la persona matura ha raggiunto un sufficiente equilibrio tra motivazioni
egocentriche e motivazioni altruistiche e valoriali. Come vedremo, ciò è legato a una buona
strutturazione dell'Ego o Io. Il soggetto maturo dunque è capace di investire i desideri nel mondo
esterno (anziché ristagnare nel narcisismo), sa accettare e migliorare la realtà, coesistendo con
l’umana insicurezza e sa cogliere il senso dei valori umani fondamentali (il buono, il giusto, il
vero, il bello). Ricorderemo che Freud diceva che la persona normale è quella capace di amare e
lavorare (lieben und arbeiten).3
Notare che quello di maturità è un concetto-limite, poiché non si potrà mai raggiungere
pienamente, anche se si può crescere tutta la vita: la persona matura accetta emotivamente di
essere... più o meno immatura.
Quali sono allora, in pratica, i segni della patologia mentale? Essi sono (Reda, 1981,
Preface): 1) una sofferenza soggettiva, per esempio quella dell'angoscia, della depressione,
dell'ossessività ecc.; oppure 2) un comportamento improduttivo o dannoso, a sé o agli altri, per
esempio nella mania, nell'autolesionismo ecc.; oppure 3) l’assenza di libertà interiore. Essi per lo
più sono, in misura maggiore o minore, intrecciati tra loro e sono espressione di problemi emotivi
non risolti, specie nell’infanzia.
Si è accennato al fatto che una sufficiente maturità psichica è legata ad una buona organizzazione
dell’Ego o Io, cioè delle attività psichiche “razionali”. Vediamo più da vicino la struttura del sistema
psichico ed i suoi dinamismi, come ci viene presentato dalla psicoanalisi.
3. Sintesi della struttura del sistema psichico e i suoi dinamismi
3.1. I tre gruppi di attività psichiche umane
Le attività psichiche dell'essere umano, in continua interazione tra loro e con l'ambiente, possono
essere distinte in tre gruppi: la sfera istintivo-affettiva, la sfera razionale, quella delle norme interiori
(acritiche) di comportamento.
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1) la sfera istintivo-affettiva. Senza di essa non troveremmo interesse a nulla: essa infatti
comprende le pulsioni istintuali, le passioni, i sentimenti; in essa sono radicate le emozioni. E’ la
parte della nostra psiche più strettamente legata al patrimonio genetico, al funzionamento soprattutto
dei sistemi nervoso, endocrino, immunitario. Freud la chiamò Es, pronome neutro tedesco o Id,
pronome neutro latino (= ciò), per indicare tale stretto legame con la componente materiale,
biologica della nostra realtà.
Vi sono in noi due grandi gruppi di istinti e sentimenti:
a) la libido, che è la tendenza alla soddisfazione delle pulsioni istintuali, sentita come tendenza al
piacere, alla gioia, all'amore, alla vita e che nella persona adulta trova la massima espressione nella
sessualità, fisica e affettiva insieme. La libido è investita, oltre che nel mondo esterno, anche sul
soggetto stesso. Questo amore per se stessi va con il nome di narcisismo ed entro giusti limiti è
molto utile alla vita, sostenendo la coscienza di sé e l’autostima; superando certi limiti, dà origine a
tipi di personalità narcisiste. Per queste è come se gli altri non esistessero, riemergendo i nuclei di
“onnipotenza”, di unicità e totalità delle prime fasi dell’esistenza, con tendenza alla patologia, come
quando si vede nella presenza dell’“altro” una minaccia alla propria sopravvivenza. Ciò è reso oggi
più frequente dal pluralismo culturale e dalle diseguaglianze economiche e sociali delle nostre
società. Si comprende come il narcisismo sia una caratteristica costante della personalità fanatica (v.
avanti). 4
b) l’aggressività, che è la tendenza ad “aggredire” (in senso etimologico, cioè a conquistare: dal
latino ad = verso e gradi = avanzare) la vita, che nella persona adulta comporta la capacità di
difenderla di fronte ad eventuali minacce. L'impiego costruttivo di questa ci porta a fare la mossa
giusta al momento giusto, nel modo giusto: più è sviluppata l’“aggressività costruttiva”, meno
grande è l’“aggressività distruttiva” o ostilità, che tra l’altro è propria degli stadi infantili di
sviluppo. Anche l’aggressività, oltre che nel mondo esterno, può essere investita sul soggetto stesso,
dando origine a condizioni più o meno serie di depressione o di altra patologia, psichica o
psicosomatica.
Tutte le passioni e i sentimenti si collocano nell'uno o nell'altro gruppo: da un buono sviluppo
della libido e dell'aggressività e da una buona armonizzazione tra loro e con le altre componenti
dell'apparato psichico dipendono sia la tonalità affettiva di base, sia la maturità psicoemotiva.
3 Citato da E.H. Erikson (1963, p. 265 dell’ediz. inglese). 4 Nel gruppo dela libido possiamo anoverare anche l’impulso di conservazione.
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Occorre accennare alla condizione di ambivalenza (amore e ostilità simultanei verso lo stesso
“oggetto”), che è normale nelle prime fasi dell’esistenza, ma si ritrova frequentemente anche nella
vita adulta. Ad essa è dovuta l’espressione: “Non posso vivere con te, non posso vivere senza di te”.
Poeti ed artisti l’hanno ben descritta: si veda ad esempio il poeta latino Catullo,5 che inizia una sua
ode appunto con le parole “odi et amo” , (ti) odio e (ti) amo.
2) la sfera razionale ( Ego o Io) comprende i giudizi, le percezioni, le volizioni, la memoria ecc.,
cioè tutte le attività “razionali” umane, in relazione alle quali egli organizza idee, parole, azioni, e
quanto è possibile sentimenti, con logica, ordine, senso del tempo e dello spazio.
A dette attività razionali spetta il compito di esercitare la mediazione tra le richieste istintivo-
affettive, la realtà ambientale, le norme acritiche di comportamento assimilate nella infanzia e la
scala di valori morali che il soggetto si è scelti, ad opera dell'Io stesso (se ha raggiunto una maturità
e una libertà interiori sufficienti per percepire e realizzare tali valori). L'Io esercita tale mediazione
o attraverso un ragionevole soddisfacimento di tali richieste, o mediante il controllo cosciente di
esse, oppure proibendosi automaticamente di sentirle, cioè attraverso l'impiego inconscio dei
“meccanismi di adattamento e di difesa”. Dal grado e dal tipo di organizzazione dell'Io dipendono la
maturità del soggetto, la sua libertà interiore e la sua “autenticità” (la corrispondenza tra ciò che si
manifesta a livello cosciente e i suoi contenuti inconsci), il suo equilibrio emotivo e la sua capacità
di ristabilirlo nei momenti di crisi, cosi come la sua capacità di fronteggiare l'ansia, il senso di colpa
e gli altri sentimenti spiacevoli. Dal punto di vista della struttura psichica, si può pertanto affermare
che tutte le manifestazioni nevrotiche, psicotiche o caratteriali sono dovute ad una insufficiente o
distorta organizzazione o ad una destrutturazione dell'Io.
3) la sfera delle norme assimilate acriticamente (Super-ego o Super-io) comprende le norme e i
valori assimilati quasi senza accorgersene sin dalla prima infanzia, attraverso i premi e i castighi dei
genitori ed educatori e attraverso l'atmosfera socio-culturale in cui si è stati immersi. Il Superio è
fonte di moralismo, non di moralità, in quanto è portatore di istanze morali interiorizzate
nell’infanzia, perciò acritiche, che condizionano l’individuo più o meno pesantemente: la
trasgressione di esse produce infatti il penoso sentimento di colpa. E' chiaro che una vera moralità
comporta invece la capacità di scegliere con sufficiente libertà interiore dei valori e di viverli con
una scelta continuamente rinnovata e priva di rigidezza. Essa è legata, come già accennato, a un
buono sviluppo dell'Io, che peraltro può far propri ed elaborare criticamente le norme e i valori
5 Caius Valerius Catullus (83 - ∼53 a.C.), Carmina, n. 85.
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proposti dal Superio. Un Super-io arcaico, particolarmente esigente, costringe ai meccanismi di
scissione ben studiati dalla Klein nelle prime fasi dell’esistenza, come vedremo.
Il Superio è indispensabile per la formazione della personalità, poiché costituisce una guida
automatica al comportamento, sempre preferibile all'insicurezza derivante dalla mancanza di guida.
Esso ha dunque una grande importanza nella genesi degli atteggiamenti e dei comportamenti del
soggetto anche adulto: è un reale successo dei genitori ed educatori e del soggetto stesso la
formazione di un Superio equilibrato. Il Superio, come si è accennato, agisce con la minaccia del
senso di colpa, e occorre grande maturità per sottrarsi al condizionamento di tale penosissima
sensazione quando autentici valori umani (etici, sociali, religiosi ecc.) richiedano di opporsi alle
norme superegoiche.
L' Ideale dell'Io costituisce una parte piu o meno cospicua del Superio e minaccia il soggetto con
sensi di vergogna, più che di colpa.
Conviene accennare al concetto di Sé. S’intende per Sé (Self) la consapevolezza di se stessi,
l'immagine (cosciente e inconscia ) che il soggetto ha di se stesso; e poichè la persona è costituita di
istanze istintivo-affettive, di attività razionali e di senso “morale” (Es, Ego e Superego), tutti e tre
questi gruppi di funzioni entrano a far parte del Sé, insieme alla rappresentazione del proprio corpo.
Di conseguenza l'identità del soggetto sarebbe la parte consapevole di tale immagine; il Sé
comprenderebbe in più la parte inconscia (cf. Filippi, 1991, with exhaustive bibliography).
3.2. I meccanismi di adattamento e di difesa
Si è più volte accennato a tali dinamismi psichici, oggi accettati da un gran numero di autori,
anche non strettamente psicoanalisti: poiché sono impiegati, in misura maggiore o minore, da tutti e
sono di grande importanza per comprendere i contenuti inconsci del fanatismo, è opportuno
esaminarli da vicino. Ne sono state descritte alcune decine (cf., tra gli altri, White & Gilliland,
1975): alcuni sono difese dagli effetti di altre difese. Ne esamineremo i principali (A. Freud, 1936;
Klein, 1946).
I meccanismi di adattamento e di difesa sono le operazioni mentali subliminari (inconsce)
mediante le quali ci difendiamo da vissuti sgradevoli non sentendo questi né le loro cause.
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Detti vissuti sgradevoli sono anzitutto: ansia (angoscia), senso di colpa, senso di vergogna (ansia
= paura senza oggetto, cioè minaccia vaga di qualcosa di spiacevole che ci può accadere, a
differenza della paura, in cui si teme qualcosa di reale; senso di colpa, sentimento penoso e acritico
di aver commesso una colpa; 6 senso di vergogna, che è provocato dal non riuscire ad essere
all'altezza del nostro “Ideale dell'Io”, che è una “parte” del Super-io).
Abolendo la percezione di realtà interiori o esterne, i dinamismi difensivi producono una certa
alienazione, che altera più o meno la percezione della realtà e il corretto funzionamento psichico,
con quello che ne consegue: al di là di certi limiti, infatti, si sconfina nella patologia. Il sintomo
patologico sarebbe infatti una “formazione di compromesso” tra forza delle pulsioni (in special
modo l’aggressività) e forza delle difese.
L'ideale sarebbe che coesistessimo con i suddetti vissuti sgradevoli, senza operare
automaticamente per non sentirli e senza disorganizzarci emotivamente, ma anzi, all’occorrenza,
risolvendo opportunamente gli eventuali problemi reali che hanno stimolato tali vissuti. E poiché la
fonte principale di ansia è il conflitto tra Es (pulsioni, bisogni, desideri) ed Io (attività razionali),
ancora una volta l'ideale sarebbe che esercitassimo il controllo di pulsioni e desideri
consapevolmente, senza ridurci a non sentirli. Ciò è proprio di un Io sufficientemente maturo, poco
difensivo: ciò che, come sappiamo, deriva da un'ottimale interazione con l'ambiente.
Alcuni meccanismi difensivi li abbiamo usati sin dalla nascita e altri sono meno arcaici. Conviene
ribadire l’importanza delle cultura, sia sullo sviluppo dell’Io, sia sul favorire l’impiego di alcuni
anziché di altri meccanismi di difesa (una cultura psicologicamente più “arcaica” favorirà l’impiego
di difese più primitive).
3.2.1. Principali meccanismi di adattamento e di difesa. Si noti per inciso che, anche se per molti
autori le terapie strettamente psicoanalitiche, cioè basate sull’analisi delle difese e sull’insight, non
sono adatte per tutte le culture (Prince, 1980; Tseng, 1999), tuttavia la conoscenza dei dinamismi
difensivi inconsci è indispensabile per comprendere il funzionamento mentale dell’essere umano di
qualsiasi cultura, così pure per eventuali trattamenti conseguenti (Kareem & Littlewood, 1992;
Bartocci, 2000).
6 Notare che S. Freud (1929, p. 131) distingue il senso di colpa dal “rimorso”, che è la consapevolezza matura di aver commesso qualcosa di sbagliato, per cui si sente dispiacere.
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La difesa più studiata da S. Freud è la rimozione (repression), cioè l’abolizione di sentimenti,
desideri, pensieri che producono, appunto, ansia o senso di colpa ecc. Anche funzioni biologiche
possono essere rimosse, per esempio funzioni motorie o sensitive, come avviene nelle paralisi e
anestesie “da conversione” [conversion with motor or sensory deficit] (un tempo detta isterica) o
anche tutte le attività che ci mettono in relazione con il mondo esterno, come si verifica nella
lipotimia o svenimento. Può essere affievolita o abolita la consapevolezza di sé
(depersonalizzazione: il soggetto si domanda “Chi sono?”) o la percezione della realtà
(derealizzazione: la persona si domanda “Che succede?” “Dove mi trovo?”). Spesso
depersonalizzazione e derealizzazione si verificano insieme.
L'introiezione è il dinamismo per cui il bambino assume come parti di sé (la rappresentazione di)
oggetti del mondo esterno, per difendersi dall'angoscia di separazione da essi oppure dalla minaccia
che essi costituiscono alla propria unicità e “onnipotenza”. Tali operazioni contribuiscono alla
formazione delle strutture psichiche del soggetto: notevole l’influsso della cultura sugli elementi
introiettati, che nell’adulto possono contribuire alla formazione di personalità fondamentaliste o
integraliste o francamente fanatiche.
L’introiezione è molto vicina alla identificazione, per cui il soggetto si immedesima in un’altra
persona e vive come accaduto a sé quanto riguarda altre persone. Un impiego moderato di
quest’ultimo dinamismo è l'unico mezzo che abbiamo per comprendere da dentro gli altri, “metterci
nei loro panni”. L’identificazione può avvenire per amore o per paura: quest’ultima è
l'identificazione con l'aggressore, per cui, diventando l’aggressore stesso, aboliamo la distanza da
lui, sicché questi non ci fa più paura: anzi noi possiamo mettere paura a lui. Ciò spiega perché
talora ci si metta dalla parte del più forte, anche senza voler essere esplicitamente opportunisti;
aiuta a spiegare l’elezione “plebiscitaria” di politici come Hitler, Mussolini ecc.
La proiezione consiste nell’attribuire nostri sentimenti scomodi ad altri. Si verifica quando il
soggetto, per evitare il penoso senso di colpa, attribuisce agli altri per esempio l’aggressività, come
nella favola del poeta latino Fedro: Il lupo e l’agnello;7 oppure quando si sente “giudicato”
dall’ambiente di lavoro o comunque dagli altri: non si accorge che in realtà è lui stesso che si
giudica male, e attribuisce tale giudizio al mondo esterno. E’ dunque alla base della persecutività
7 Phaedrus, Fabulae, n. 2 (Lupus et agnus): sulla riva di un ruscello il lupo, che “cercava la lite”, dà la colpa all’agnello di intorbidirgli l’acqua, nonostante che fosse il contrario, dal momento che egli beveva più a monte e l’agnello più a valle.
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(fermo restando che il cosiddetto mobbing, cioè una reale aggressività verso una determinata
persona può esistere effettivamente, da parte dei colleghi o dei superiori).
La razionalizzazione consiste nell’impiego di un ragionamento, più o meno capzioso, con cui il
soggetto si dà una spiegazione, per esempio per giustificarsi di un fatto che gli produce sensi di
colpa. Così nell’altra favola di Fedro: La volpe e l’uva.8 La razionalizzazione dimostra come l’essere
umano sia un essere razionale, ma non sempre ragionevole, come quando (anche in buona fede) usa
il ragionamento, non per cercare, ma per coprire o alterare la verità delle cose.
La razionalizzazione raggiunge un elevato grado nella intellettualizzazione, che è l’impiego di
discorsi teorici per non sentire emozioni o sentimenti. Si accompagna infatti a isolamento, come
quando si descrivono scene macabre o comunque altamente emotigene con indifferenza.
L’isolamento (isolation of affect) consiste infatti nell’isolare da un fatto o da una idea la relativa
carica emotiva (che viene poi spostata su altro). Lo spostamento (displacement) è l’indirizzare un
sentimento o una emozione relativa ad una data realtà su un’altra realtà, meno “pericolosa”
affettivamente. Per esempio non versare una lacrima per il decesso di un familiare (isolamento) e
poi piangere a dirotto per la morte di un animale domestico. Lo spostamento rientra nei fenomeni
di transfert, presenti in ogni relazione interpersonale significatica.9
La regressione consiste nel tornare a modi di funzionamento mentale più arcaici, come per
rifugiarsi nell'infanzia, di fronte a frustrazioni o traumi. E' il caso del bambino piccolo che ha
acquistato il controllo degli sfinteri ma che, se nasce un fratellino o sorellina, torna a perdere le
urine e le feci, quasi a dire: “Io sono il piccolo, di me dovete aver cura!”. Distinguere dalla
regressione al servizio dell'Io (Kris, 1950), che è propria di un Io ben strutturato, che può
permettersi di regredire senza destrutturarsi, come nel sogno, nell’orgasmo sessuale, nella creazione
artistica, nella fantasia creativa, nell’attività mistica ecc.
Notare che la somatizzazione (conversione) - la difesa per cui, come si è già accennato, il
soggetto “converte” l’ansia rimossa in sintomo somatico, producendo cefalee, vomito, scariche di
diarrea, coliche varie ecc. - è simile alla regressione al “linguaggio d’organo”, con cui il piccolo
8 Phaedrus, Fabulae, n. 79 (De vulpe et uva): la volpe si consola del fatto di non aver potuto prendere l’uva, troppo alta, dicendosi che tanto non ne valeva la pena, poiché era acerba. 9 S'intende per transfert l'indirizzare per esempio verso lo psicoterapeuta, il medico ecc. i sentimenti o i conflitti rimasti nell'inconscio nei confronti delle figure significative dell'infanzia. Il transfert può esere amoroso, ostile o ambivalente. (Il controtransfert è la risposta emotiva dell'operatore al transfert del soggetto.)
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bambino o comunque il malato “psicosomatico” esprime le sue paure o rabbie o in generale le sue
emozioni.
La fissazione si verifica quando, dinanzi a situazioni troppo piacevoli o troppo spiacevoli il
soggetto blocca il suo sviluppo psicoaffettivo, restando ancorato a modi di funzionamento mentale o
alla ricerca di godimenti più immaturi, per non perdere certe soddisfazioni infantili o per non
rischiare sofferenze maggiori. Il funzionamento mentale può sembrare più maturo, perché il
soggetto ha sviluppato altre difese, utili alla vita, per esempio la razionalizzazione.
Mediante il diniego [denial] il soggetto nega a se stesso certe realtà o emozioni spiacevoli: per
esempio il paziente oncologico, che “denega” l’importanza di certi sintomi e si sottopone ad
indagini solo quando la malattia è molto avanzata. Sono evidenti gli effetti giuridici ed etici di tale
dinamismo sull’autenticità (genuinità, verità) di un dato discorso o realtà. Il soggetto infatti, pur
essendo in buona fede, non sa quello che fa: vi è una notevole discordanza, spesso percepibile anche
ai profani, tra manifestazioni esterne e mondo inconscio del soggetto. Questa difesa spiega tra l’altro
la differenza tra il moralismo (la persona è rigida e, pur in buona fede, ce l'ha con le proprie
pulsioni, denegate) e la moralità genuina, che è coerente, ma comprensiva del’umana debolezza. Il
moralismo può essere presente nel fanatismo.
La negazione [negation] consiste nel pensare o verbalizzare una frase in forma negativa, per
esempio “questa persona non mi ricorda mio padre”, mentre, di fatto, il soggetto l'ha ricordato, sia
pure per negare ciò. Non confondere con il diniego.
La scissione (splitting), ben studiata da Melanie Klein e dalla sua Scuola attraverso l’analisi dei
bambini piccoli con la tecnica del gioco, è il dinamismo inconscio - paragonabile ad una rimozione
in senso verticale - per cui separiamo gli aspetti positivi da quelli negativi di una determinata realtà
e deneghiamo gli uni oppure gli altri. In tal modo detta realtà è percepita come tutta buona o tutta
cattiva: perciò la scissione è alla base della idealizzazione nel bene e nel male (svalutazione
[devaluation]), situazione caratteristica del fanatismo.
E poiché è proprio dell’inconscio generalizzare, funzionare secondo la legge del “tutto o niente”,
si spiega il perché della emarginazione e della persecuzione dei “diversi”: se tutto il male sta in essi,
ne deriva che tutto il bene sta in noi, che fuori di noi (della nostra ideololgia, religione ecc.) c’è solo
il male, e il male va estirpato. Così si spiegano lo sterminio degli ebrei durante la seconda guerra
mondiale e i vari genocidi perpetrati nella storia anche recente dell’umanità o la demonizzazione di
certe società o di certe nazioni. Occorre infatti una notevole maturità per integrare in un unico
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vissuto gli aspetti positivi e negativi del reale, senza scissioni, nell'accettazione emotiva del fatto
che la stessa realtà “buona” è anche “cattiva”, cioè dell'intima commistione, praticamente in tutte le
cose umane, degli aspetti positivi e negativi, gradevoli e sgradevoli, amorosi e ostili ecc.
Per comprendere meglio il dinamismo della scissione, dobbiamo rifarci all'età neonatale.
Infatti il sistema psichico del piccolo bambino è pressoché indifferenziato, sicché egli
simultaneamente ama e odia la madre (il suo seno). Ciò è causa per lui di una notevole angoscia (a
causa di un Super-io particolarmente rigido, che lo rimprovera, per così dire, della componente
ostile presente nel suo sentimento verso la madre). Per fronteggiare tale angoscia il suo Io primitivo
mette in opera il meccanismo appunto della scissione dell'odio dall'amore; poi proietta il primo
sulla madre stessa e si sente perseguitato da lei, ed è così che si originano le arcaiche angosce
paranoidi (posizione schizo-paranoide della Klein); infine si identifica con la madre vissuta come
cattiva, in modo simile a quanto abbiamo visto per la “identificazione con l'aggressore”, e si sente
cattivo egli stesso, capace di danneggiare l'oggetto d'amore, perciò colpevole: colpevole anche delle
frustrazioni oggettive e soggettive che la madre gli procura e che egli attribuisce alla punizione
della propria “cattiveria” (posizione depressiva della Klein). Si è così attuato un altro dinamismo
difensivo, l'identificazione proiettiva, che resterà un'operazione mentale fondamentale della vita
psichica.
L'identificazione proiettiva è dunque il dinamismo inconscio per cui, dopo averle scisse,
attribuiamo ad altri delle “parti” (delle realtà psichiche) nostre. Si tratta di parti scomode, come
l'ostilità per il seno materno di cui sopra, ma può trattarsi anche di parti positive. Per approfondirne
il concetto, conviene rifarci a una interpretazione della empatia (dal greco en = dentro, páthos =
affetto, cioè “sentire dentro”), che consiste nell'immedesimarsi, nel “mettersi nei panni”, ad
esempio, di una persona bisognosa d'aiuto. E' come se noi attribuissimo a lei le nostre parti deboli,
per noi scomode, e poi le conoscessimo in lei attraverso la identificazione con essa. Lo stesso può
accadere per le nostre parti valide. Si tratta dunque di una forma invertita di conoscenza (parziale)
dell'oggetto, che cioè parte dal soggetto anziché dalla realtà esterna e che contribuisce a spiegare la
soggettività della percezione, nota anche agli antichi filosofi: se contenuta entro giusti limiti, è
utilissima nella relazione con gli altri.
Nelle relazioni interpersonali significative, in particolare nei fenomeni di transfert e di
controtransfert, vi è un continuo intreccio di reciproche identificazioni proiettive; altrettanto nel
“colpo di fulmine” amoroso o ostile e in genere nei fenomomeni affettivi di innamoramento.
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Particolarmente importante è l’identificazione proiettiva nel fanatismo: il soggetto scinde dentro
di sé il bene dal male (gli aspetti buoni, amati, da quelli cattivi, odiati, non riuscendo ad accettarli
simultaneamente in un unico vissuto); poi proietta (attribuisce) il bene, l’amore ad una idea o
squadra sportiva ecc. e si identifica con essa, sì da “amarla” e da sentirsi amato e investito
dall’obbligo di difenderla come se fosse egli stesso. Rispetto all’odio, che pure è in lui, anche nei
confronti dell’oggetto d’amore, egli impiega un’altra difesa, la formazione reattiva.
La formazione reattiva [reaction formation] consiste nel trasformare nel loro opposto delle
pulsioni o dei sentimenti vissuti come riprovevoli. Così l'ostilità è trasformata in amore e l'amore in
ostilità, ma vi è qualcosa nel comportamento del soggetto che mostra anche ai profani che non si
tratta di sentimenti genuini: come quando una madre “soffoca” di cure eccessive un figlio o giunge
ad aprire le lettere di una figlia ormai grande “per aiutarla”. Se mantenuta entro certi limiti, la
formazione reattiva è un dinamismo utile alla vita, per esempio facilitando i sentimenti di amicizia
anziché di rivalità verso persone dello stesso sesso. Al di là di certi limiti è un dinamismo
pericoloso, poiché la pulsione originaria (negli esempi dati, l’ostilità, causata dai propri conflitti
infantili non risolti), raggiunge egualmente i suoi scopi, benché camuffata, mentre il soggetto - che è
buona fede - è al riparo dai gravi sensi di colpa che essa gli procurerebbe, se cosciente: quale madre
iperprotettiva o quale padre ipersevero “per il bene del figlio/a” ammetterebbero, fuori di un setting
analitico, che invece lo/la danneggiano? Non si è consapevoli infatti che alla base
dell'iperprotezione, come del fanatismo, del cosidetto “accanimento terapeutico” ecc., vi è anche un
sentimento di ostilità, così come dietro una eccessiva severità, un sentimento di attrazione, vissuti
come colpevoli. (Si noti, per inciso, che la formazione reattiva è anche alla base della identificazione
con l’aggressore.)
Abbiamo lasciato per ultima la sublimazione, che è il dinamismo “difensivo” più adattivo. E’
l’operazione mentale inconscia per cui l'oggetto e il fine della pulsione libidica e aggressiva
vengono sostituiti da altre realtà, più consentanee con i valori del soggetto e della società. Diventa
invece un vero e proprio meccanismo di difesa quando l'individuo trova la maniera di soddisfare
egualmente delle pulsioni inammissibili, ma al riparo dai sensi di colpa e dalla riprovazione della
società: come il violento che divenga pugile professionista. Si parla allora di pseudosublimazione. I
rapporti tra rimozione, pseudosublimazione e sublimazione sono illustrati dal noto paragone
freudiano del corso d'acqua e della diga: se sbarriamo la strada a un fiume con una diga (rimozione
o altre difese), questa dovrà diventare sempre più alta e robusta, cioè il soggetto dovrà investirvi
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sempre più energie, sottraendole alla vita e diventando sempre più rigido e chiuso in difesa; a un
certo punto si formeranno dei rivoli laterali incontrollati, cioè il soggetto soddisferà libido e
aggressività in modo improprio (pseudosublimazione); se poi la diga crolla, si avrà una inondazione,
cioè il soggetto “all'improvviso” si scompenserà, con la comparsa di sintomi psicopatologici o con
una repentina, spesso violenta soddisfazione istintuale (che va col nome di abreazione): si pensi ai
delitti sessuali o alle stragi compiute da persone fino a quel momento “esemplari”.
Restando nel paragone, la soluzione ottimale è far defluire l'acqua attraverso canali diversi dal
corso originario, ma proficui, per l'irrigazione, per la produzione di energia elettrica ecc.: è la
sublimazione vera, attraverso la quale il soggetto investe le energie pulsionali nell'arte, nella ricerca
scientifica, nell'amicizia, nelle attività altruistiche, nella religione vissuta in modo non infantile ecc.
Ovviamente nell'essere umano concreto si svolgeranno tutte queste operazioni mentali,
proporzionatamente alla sua maturità: investimento delle pulsioni nella realtà, in modo infantile e
adulto; controllo cosciente di esse; rimozioni ecc.; pseudosublimazioni; sublimazioni. Conviene
ricordare l’osservazione di E. Glover (1939), che lo avvicina agli autori della psicoanalisi dell’Io,
che una vera libertà di scelta è effettivamente operante nel gruppo dei meccanismi di sublimazione,
sicché in tali casi l’interferenza dell’inconscio subisce di fatto una notevole riduzione. Occorre
infatti aver presente che il filone di “psicoanalisi dell’Io”, portato avanti da H. Hartmann (1939) e
altri, ha sviluppato una intuizione dell’ultimo Freud (1937, p. 240). ). Essi infatti affermano
l’“autonomia dell’Io”, nel senso che le attività razionali non sono un derivato del conflitto tra
istinto (Es) e ragione (Ego), come a lungo S. Freud aveva pensato, ma hanno una matrice autonoma
(“conflict-free”). L’Io “autonomo”, conflict-free, avrebbe la capacità di delibidinizzare e
deaggressivizzare le pulsioni, per convogliarne le energie su altre mete e altri fini, ma anch’esso,
per svilupparsi bene, ha bisogno di una interazione con l’ambiente ottimale.
4. Tipi di religiosità e loro possibili basi psicoanalitiche
4.1. Comportamenti religiosi e psicologia del profondo
Riepilogando, ricordiamo che nell’essere umano ogni atto o comportamento è motivato
simultaneamente da motivazioni coscienti (adulte) e inconsce (infantili): queste ultime tendono a
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soddisfare bisogni o desideri non saturati nell'infanzia, camuffandoli per mezzo dei meccanismi di
difesa. In altre parole, dati gli umani limiti, noi agiamo sempre per motivi simultaneamente
egocentrici (infantili, inconsci) e realistici e valoriali: più il nostro Io avrà potuto svilupparsi, più
questi ultimi prevarranno rispetto ai primi.
Ciò si verifica, ovviamente, anche nei comportamenti religiosi, che dal punto di vista psicologico
non differiscono dagli altri comportamenti dell’individuo.10 Vi è dunque una vasta gamma di
modalità, che vanno dalle più infantili (magiche, interessate ecc.) alle più adulte (realistiche e
disinteressate, oblative). Conviene accennare ad alcune di esse, anche per un confronto con la
religiosità fanatica.
La dimensione religiosa di un individuo sufficientemente maturo, ben descritta da G.W.Allport
(1950), può essere intesa come una sintesi unitaria che dà senso all'esistenza, rispondendo ai grandi
perché dell'essere umano e consentendo una più corretta relazione con la vita e con il cosmo: essa
spesso coincide con una pratica religiosa, individuale e di gruppo, su cui concorda, tra gli altri,
anche E. Fromm (1950).
Come è noto, la religiosità è ubiquitaria; in più, in tutte le religioni è presente un’attività
“mistica”, che è l’immersione nelle realtà spirituali attraverso la contemplazione e che il mistico
vive come esperienza di un rapporto unitivo con Dio: essa può dar luogo a stati di coscienza
particolari, non patologici, come l’estasi, che può essere interpretata come una “regressione a
servizio dell’Io”, cui si è già accennato.
Ricorderemo che per C.G. Jung (1938) l’idea di Dio entra a far parte degli archetipi, cioè di quei
contenuti dell’inconscio collettivo che egli ritiene siano innati.
Allport (1950) distingue la religiosità in “estrinseca” ed “intrinseca”. Quella estrinseca è un
mezzo per raggiungere dei fini, sia pure spirituali o di benessere psichico o sociale: dal punto di
vista psicoanalitico essa costituisce un sistema “difensivo” (di razionalizzazioni, proiezioni ecc.) che
protegge il soggetto dall'ansia, dal senso di colpa ecc., alla stessa stregua di una ideologia, di
un’attività di volontariato esercitata più per motivi egocentrici che altruistici e via dicendo. La
religiosità intrinseca invece considera la religione un fine, un bene in se stessa, da conquistarsi
anche con sacrificio e, se occorre, anche contro il vantaggio personale: è realizzata da personalità
che, ormai sappiamo, hanno superato il principio di piacere, cioè il bisogno della soddisfazione
immediata ed hanno affinato il principio di realtà, cioè la percezione e l’adattamento realistico alla
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propria e all’altrui realtà, per giungere al principio di attualità di E.H. Erikson. Dati gli umani limiti,
per lo più nell’atteggiamento religioso di ogni individuo vi è una coesistenza, maggiore o minore,
dell’una e dell’altra forma di religiosità.
4.2. Tipi più frequenti di comportamenti religiosi
Vi sono tante tipologie quanti sono i tratti di carattere, perciò innumerevoli: più rigide ed
esagerate sono le tipologie, più possono essere segno di una latente patologia della personalità
(ricordare che nell’adolescenza le esagerazioni sono quasi fisiologiche). Proveremo a descriverne le
più frequenti, osservando che spesso sfumano l’una nell’altra e che vi sono elementi comuni a più di
una. Più tali tratti sono rigidi ed esagerati, più possono essere la spia di un disturbo latente della
personalità.
La religiosità magica (superstiziosa) è dovuta alla persistenza dell’atmosfera magica infantile, in
cui la realtà è popolata di fantasmi, benevoli o spaventosi, protettivi o malvagi: il soggetto infatti,
incolpevolmente, risolve nella religiosità la sua personalità ansiosa, il suo costante bisogno di
protezione. Notare che nell’essere umano vi è una esigenza profonda di misterioso, di qualcosa che
vada al di là del sensibile (come è dimostrato tra l’altro dal pullulare di sette e di pratiche magiche),
e ciò predispone alla religiosità. Comunque, da alcuni soggetti la religione può essere vissuta quasi
come un mondo incantato, nel quale forze preternaturali o soprannaturali intervengono di continuo
negli avvenimenti umani.
Nella religiosità dubbiosa la persona è tormentata dal dubbio e può giungere a mettere in
discussione ogni sua azione, anche religiosa (ossessione del dubbio). Si tratta allora di un disturbo
ossessivo conclamato, la scrupolosità patologica; quanto meno si tratta di soggetti portatori di tratti
di carattere ossessivi, legati ad un Super-io esigente, perfezionista, che favorisce una perenne
sensazione di aver sbagliato ed obbliga ad un’osservanza scrupolosa delle regole e dei riti.
Vicina a questa è la tipologia autopunitiva: il soggetto è dominato dai sensi di colpa e dal
bisogno di espiazione, la cui origine è nell'aggressività “orale” (cioè della prima fase di sviluppo,
che abbiamo incontrato parlando degli studi della Klein), ma che il soggetto razionalizza,
attribuendone l'origine alle norme morali e religiose. E’ collegata ad un nucleo depressivo, risalente,
appunto alla “posizione depressiva” kleiniana, che tuttavia può esitare – per ipercompenso – in una
condizione ipomaniacale (dal punto di vista religioso, “trionfalista”). Riguardo a questo tipo di
10 Anche coloro che, come i cristiani, confidano nell’aiuto della “Grazia” divina, sanno che questa ordinariamente non
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religiosità, non occorre ricordare i benefici effetti – sia fisici che psichici – del digiuno e delle altre
pratiche ascetiche.
Nella religiosità formalista troviamo l'osservanza formale delle regole e dei riti - per
consuetudine o per incapacità o impossibilità di sottrarsi alla pressione sociale - ma “senza anima”:
il soggetto fa inconsciamente largo uso del dinamismo difensivo dell’isolamento (isola la carica
emotiva ed anche i contenuti valoriali dalle pratiche osservate), sicché è poco permeabile al
“sentimento” religioso.
La tipologia legalista è simile alla precedente, con una osservanza letterale della norma e con
un’accentuata paura della trasgressione, della punizione che potrà derivare da quest’ultima.
Anch’essa è dovuta ad un Super-io severo, che non perdona le eventuali trasgressioni (sappiamo che
la trasgressione è doverosa, quando sono in gioco degli autentici valori umani11). Ovviamente il
legalista teme il cambiamento, il progresso, assumendo spesso un atteggiamento conservatore, che
può scivolare nel fondamentalismo.
Una variante del legalismo è la tipologia moralista, legata cioè al moralismo, che è
l’esasperazione, talora persecutoria, della morale, per cui si valutano astrattamente le situazioni e
non caso per caso, con buonsenso. Come abbiamo visto, il moralismo intransigente è legato alla
lotta inconscia contro le proprie pulsioni, che si presentano come riprovevoli e sono attribuite
(proiettate) sul mondo esterno: una morale genuina, come già detto, sa comprendere l'umana
fragilità e sa attendere i tempi di crescita delle persone. Naturalmente il soggetto moralista spesso fa
uso del dinamismo difensivo della razionalizzazione, dando al proprio atteggiamento una
giustificazione di carattere religioso.
Si incontra talvolta una religiosità individualista: la persona afferma di essere religiosa, ma di
vedersela direttamente con Dio, per cui rifugge dall’appartenenza a una “confessione” e non tollera
attività o manifestazioni collettive. Per lo più il soggetto è individualista anche nella vita: a livello
profondo vi è una “angoscia del legame”, legata a una esperienza infantile di legame angosciante,
vissuta in famiglia, che è stata rimossa e viene trasferita (spostata) sui possibili legami della vita
adulta.
altera le dinamiche umane. 11 Oltre al buonsenso, per i cristiani vale la parola del Cristo: “Il Sabato (la legge) è per l'uomo, non l'uomo per il Sabato” (Vangelo di Marco, 2, 27). Occorre un Io molto robusto e armonioso per andare contro i propri sensi di colpa, quando lo richiedano importanti valori umani.
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Talora la religiosità assume un aspetto trionfalista, proprio di chi vanta di continuo la supremazia
della propria religione. Esso è dovuto a residui di onnipotenza infantile, spesso difensivi rispetto ad
un nucleo depressivo profondo: il trionfalismo è legato ad un “falso Sé” ipertrofico [emphasized]
(Winnicott, 1965), a una falsa immagine di sé, individuale o di gruppo. Il soggetto, per lo più in
buona fede, è incapace di tollerare la sofferenza depressiva, nei confronti della quale ha eretto una
difesa “maniacale”; né sopporta la frustrazione dell'insicurezza, che, nella condizione umana, si
accompagna alla fede religiosa genuina. Egli ha bisogno di “certezze”, trovate nella religione come
potrebbero trovarsi, dal punto di vista psicologico, in una fede politica o sociale ecc. Notare che
l’aspetto rassicurante della Fede non mette al riparo dall’angoscia, come dimostra di continuo
l’esperienza clinica. L’atteggiamento trionfalista può associarsi a continui attacchi (verbali) verso i
“diversi”, fino a scivolare nel fanatismo.
Di segno opposto è l’atteggiamento relativista acritico, proprio di chi, pur dichiarando di
appartenere a una data confessione, ritiene che una religione valga l’altra, sicché di fatto non
definisce la sua identità religiosa. Per lo più è collegato a un disturbo globale della identità, dovuto a
“fissazioni” (blocchi) precoci nel corso dello sviluppo psicoaffettivo.
Anche l'ateismo può essere un atteggiamento “religioso”, legato a conflitti inconsci non risolti
(Lepp, 1961): per es. può avere come origine l'ostilità non smaltita verso uno o entrambi i genitori,
trasferita su Dio oppure scissa, nel senso che la madre (oppure il padre) è il genitore buono, mentre
Dio è quello cattivo.
Naturalmente esistono persone dalla religiosità matura: in esse non prevale il bisogno di
protezione, né l’osservanza acritica delle norme e dei riti, né la tendenza a sopraffare i “diversi”.
Godendo di una organizzazione dell'Io forte e armoniosa, il soggetto è capace di coesistere con
l'insicurezza e il rischio della fede religiosa; è capace di aprirsi al mondo esterno (anziché restare
chiuso in se stesso), accettando e migliorando debitamente la realtà, propria e altrui, anche religiosa;
essendo in grado, come ormai sappiamo, di cogliere il senso dei valori morali fondamentali (il
buono, il giusto, il vero, il bello), è in continua ricerca della verità e, quanto è possibile, si comporta
nella vita in modo coerente con ciò in cui crede.
5. Le radici psicoanalitiche del fanatismo
Riepilogando quanto è stato anticipato lungo tutta l’esposizione, possiamo dire che gli elementi
inconsci che la psicologia del profondo ritrova nella persona fanatica (che aderisce ciecamente e
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passionalmente ad una data realtà ed è intollerante dell’“altro”) sono anzitutto un robusto nucleo di
narcisismo, che è collegato con una serie di operazioni mentali inconsce “difensive”: scissioni,
dinieghi, identificazioni proiettive, formazioni reattive, razionalizzazioni ecc. Tali elementi sono
diversamente mescolati nei singoli individui, sia come tipo di operazioni mentali che come intensità
di esse. Al di là di certi limiti essi sconfinano nella patologia conclamata, dando origine a
personalità paranoicali (persecutive) o sadiche (che provano piacere nell’aggredire, nel distruggere)
o ossessivo-compulsive (più frequenti nell’integralismo) ecc.
Molti studi psicologici o sociologici sono stati fatti sul fanatismo (vedi, per esempio, Taylor &
Ryan, 1988). Ricorderemo che vari autori (è impossibile citarli tutti) hanno studiato dal punto di
vista psicoanalitico la personalità del fanatico: rifacendosi a personaggi della letteratura (Bolterauer,
1975) o chiedendosi se il fanatismo sia una malattia del sacro (Richard & Guindon, 1996), o
approfondendo gli aspetti narcisistici di tale personalità (Armengol, 1997; Hernández & Trepat,
1996), o esponendo l’estrema difficoltà, per tale tipo di personalità, di fare degli insights, cioè delle
genuine prese di coscienza (Sor & Senet de Gazzano, 1988); o ancora spiegandola
psicoanaliticamente sotto il profilo delle relazioni oggettuali,12 servendosi anche della nota tabella di
W.R. Bion13 (Beà, Escarrà & Gomis, 1996); oppure studiando, con l’aiuto di un apposito
questionario, se può parlarsi di “tratti settari” per la sua personalità (Axtotegi & Font i Rodon, 1996)
o indagando l’influsso dell’educazione religiosa sulla persona di giovani dell’Andalusia, per
coglierne gli eventuali tratti fondamentalisti, servendosi di una Scala ben validata degli stessi autori
(Trechera & Domínguez Morano, 2001); e via dicendo.
Tutti gli studi concordano nell’affermare che questa condizione psicologica è il risultato di uno
sviluppo psico-affettivo comunque distorto; inoltre nella famiglia del fanatico il rapporto con il
figlio o la figlia (prima da parte della madre, poi del padre o di altre autorità) spesso è stato poco
tenero o anche violento.. Tutto ciò ha portato - per lo più incolpevolmente – al costituirsi di una
12 Sono le relazioni tra gli “oggetti interni” del soggetto, cioè tra le varie rappresentazioni interiori della realtà, con la relativa carica emotiva. E’ ovvio che più il soggetto è maturo, più le sue rappresentazioni della realtà corrispondono alla realtà stessa, e viceversa. 13 Come è noto, Bion a proposito degli elementi originari dell’attività psichica parla di funzione alfa e di elementi beta: questi sarebbero le sensazioni enterocettive (provenienti dall’intestino), propriocettive (provenienti da tutto il corpo) ecc. e le tensioni primordiali, anteriori alla mentalizzazione (simbolizzazione), perciò alla possibilità di una rappresentazione oggettuale, cioè alla formazione di “oggetti interni” nella psiche del neonato. La funzione alfa li trasformerebbe appunto in rappresentazioni mentali, in sogni, in pensieri ecc., se il bambino trova nella madre un adeguato “contenitore” di tali elementi frammentari. L’accumulo di elementi beta, più o meno abbondante a seconda della “bontà” del rapporto con la madre, è intollerabile per il piccolo bambino e l’eccedenza viene “evacuata” attraverso l’identificazione proiettiva, l’acting-out, le allucinazioni, i disturbi psicosomatici ecc. Nella sua tavola Bion mostra le correlazioni tra questi elementi e le altre attività psichiche, rappresentando tali fattori mediante delle sigle (cf. Bion, 1963).
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personalità disarmonica, “difensiva” da una tremenda angoscia arcaica e da un senso di vuoto
depressivo. E’ il motivo per cui l’Io della persona fanatica, proprio per le intense difese, appare
come “forte”, ma appunto nella sua difensività mostra la sua precarietà (se le sue difese, che hanno
costituito una “corazza caratteriale” - Reich, 1933 - crollassero, il soggetto si destrutturerebbe).
Il nucleo narcisistico arcaico conferisce al soggetto un senso di onnipotenza, di esclusività
esistenziale, con la mancanza di percezione della realtà e dei diritti dell’“altro”. Questo, nei casi più
gravi, è vissuto - per il fatto di esistere - come una minaccia a tale onnipotenza, a tale unicità, sicché
va annientato: tanto più che in genere, per proiezione, ad esso viene attribuita un’aggressività che è
in realtà la propria e che rafforza la sensazione di minaccia. Dunque al di là di certi limiti tale
situazione psicologica assume l’aspetto della persecutività francamente paranoicale (il soggetto si
sente perseguitato, ma non può accorgersi che chi lo perseguita è se stesso, la sua stessa
aggressività, proiettata).
L’aggressività distruttiva trova in genere un sistema di argomentazioni razionali
(razionalizzazioni) per giustificarsi, e ciò rinforza la struttura difensiva della persona fanatica.
La persistenza di un Super-io arcaico, kleiniano, particolarmente rigido ed esigente, che alimenta
scissioni, identificazioni proiettive, formazioni reattive ecc., conferisce spesso al fanatico anche le
caratteristiche di moralista, di fondamentalista, di integralista e simili. Inoltre per identificazione
proiettiva con una data realtà, la persona fanatica “diviene” tale realtà, sicché si sente investito della
missione di difenderla e propagarla (si sentirebbe terribilmente in colpa se non lo facesse). Tutto ciò
nasconde una carenza di veri ideali e di proficua creatività, una sorta di nichilismo psicologico.
L’intreccio reciproco di identificazioni proiettive ecc. è inoltre alla base della solidarietà tra i
membri di un gruppo fanatico e della obbedienza al capo, costituendo (finché durano) un costante
rinforzo al sistema difensivo di ciascuno.
Conviene ribadire che l’atteggiamento fanatico (che è dovuto soprattutto ad automatismi, di cui
occorre tener conto per una valutazione etica), può riferirsi ad ogni ambito della vita, cioè può
riguardare ogni umana realtà: politica, sport, scuola di pensiero o professionale di appartenenza ecc.
Quando riguarda la religione, esso risulta ancor più strenuamente strutturato, in quanto si dà delle
motivazioni sacrali: queste offrono un sistema di razionalizzazioni apparentemente inoppugnabili a
sostegno degli altri dinamismi psichici più arcaici. Del resto l’osservazione di molti comportamenti
individuali e sociali e l’esperienza clinica dimostrano come il sacro abbia realmente le sue radici nel
profondo dell’essere umano; si è già ricordato che C.G. Jung sostiene la radicazione nell’inconscio
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(collettivo) del fattore religioso, che entrebbe a far parte degli “archetipi” umani, ed altri autori, che
per brevità non si citano, fanno osservazioni simili.
Alla luce di tali osservazioni si può comprendere meglio come motivi di valore, insieme a
razionalizzazioni, idealizzazioni (che danno tra l’altro la certezza di benefici ultraterreni e terreni),
uniti a una forte carica di auto- ed eteroaggressività (spesso alimentata da condizioni di vita molto
frustranti), alimentino la formazione reattiva che trasforma la paura della morte in “eroismo”
suicida-omicida.
Si comprende facilmente come le stesse dinamiche, di segno contrario, siano alla base del
fanatismo antireligioso.
La rigidità e l’intreccio delle difese della persona fanatica non deve scoraggiarci nel cercare di
trovare delle linee di soluzione a tale serio problema.
6. Linee di intervento per una possibiler evoluzione
6.1. La crescita verso una maturità umana globale
Se, come si è ripetutamente osservato, la personalità fanatica è il risultato di una disarmonica
crescita interiore del soggetto, tutto ciò che conferisce ad uno sviluppo psicoaffettivo ed umano
globale dell’individuo e dei gruppi costituisce la prevenzione e il rimedio per tale condizione.
Vanno dunque incoraggiate tutte le iniziative che promuovano la presa di coscienza, la
partecipazione, il dialogo, che cioè favoriscano la crescita dell’Io. In alcuni ambienti saranno
possibili attività più propriamente tecniche, come le esperienze individuali e di gruppo ispirate
psicoanaliticamente, per ottenere cambiamenti strutturali della personalità. Ciò anzitutto per gli
operatori sociali, la cui professione è basata sulla relazione interpersonale (genitori, insegnanti,
medici, psicologi, psichiatri, assistenti sociali, mediatori sociali ecc.): dalla qualità della loro
relazione con gli utenti dipendono i risultati positivi della loro attività.
E’ certo una impresa impossibile su scala planetaria, per ora, ma si possono subito intensificare
gli interventi perché divenga sempre più estesa l’attuazione di queste tecniche, ma soprattutto la
diffusione di una mentalità che favorisca una interazione armoniosa individuo-ambiente. Infatti un
bambino le cui figure genitoriali si facciano carico sin dalla prima infanzia, in modo
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individualizzato, di lui, guidandolo con amore e con coerenza, soddisfacendo correttamente i suoi
bisogni, lodando i suoi successi e incoraggiando i suoi sforzi, consolandolo negli insuccessi o negli
errori in quanto eventi normali dell’esistenza, riprendendolo debitamente se si comporta male e non
evitandogli le frustrazioni sostenibili, un tale bambino crescerà in modo sicuro verso la maturità, con
un minimo di operazioni “difensive” e di motivazioni egocentriche ed un massimo di percezione
adeguata della realtà e del mondo dei valori umani. Ciò comporterà il rispetto e l’accettazione
dell’“altro”: la diversità non solo non farà più paura, ma sarà considerata una fonte di possibile
arricchimento interiore.
Occorre convincersi che una umanità più giusta nella distribuzione dei beni materiali e culturali è
fonte di vantaggi e di soddisfazioni per tutti: i sacrifici necessari per realizzarla, come la rinuncia a
piccole comodità a favore di chi non ha nulla, il riconoscimento di un’autorità sopranazionale che
sovraintenda a tale più equa distribuzione dei beni e via dicendo sono piccola cosa, rispetto ai
benefici che tutti ne trarremmo. Inoltre tale giustizia planetaria eliminerebbe una importante
razionalizzazione che sostiene una fascia di fanatismo.
Si dirà che una tale “rivoluzione culturale” è pura utopia, ma senza un po’ di utopia nessuno si
impegnerebbe fattivamente per realizzare un ideale.
Inoltre può sembrare un paradosso, ma il cambiamento che non può essere attuato di colpo su
scala mondiale, possiamo da subito attuarlo in noi stessi.
6.2. Il cambiamento possibile
Se io cambio – e ciò sarebbe insieme causa ed effetto di una crescita interiore - per la forza
dell’esempio (cioè per imitazione o, se vogliamo, per identificazione proiettiva) diffondo tale
maggiore maturità psicoaffettiva e morale, cioè produco intorno a me una modesta ma sicura
crescita umana globale.
Una conferma ci viene dalla teoria relazionale dei sistemi (vedi, per es. Watzlawick, Weakland
& Fisch, 1974). Se io voglio cambiare il mio ecosistema (i vari sistemi a cui appartengo) è
sufficiente che cambi me stesso: cambiando un membro del sistema, cambiano le relazioni
interpersonali, perciò cambia il sistema. E tale nuova reltà, se si verifica in più centri, può propagarsi
a macchia d’olio: più numerose sono questi centri di cambiamento, più presto potranno fondersi e
dare origine a modi di vita più “umani”.
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Vengono in mente le parole con cui S. Freud inizia Das Unbehagen in der Kultur, quando si
rammarica che l’essere umano di solito misuri con falsi metri e aspiri al potere, al successo, alla
ricchezza, sottovalutando i veri valori della vita (1929, p. 64). Se invece io divengo più attento a
gustare le soddisfazioni provenienti dai valori spirituali, come la bontà, la verità delle cose, la
mansuetudine, l’arte (Armengol, Fontova & Gomis, 1996), il perdono, se sono più disponibile a fare
i sacrifici necessari per amare genuinamente, più capace di accettare gli umani limiti miei e altrui, se
interpreto le sofferenze della vita, anche le più grandi, come un invito alla riflessione sulla
condizione umana: parallelamente mi esercito nelle virtù umane universali, quelle socratiche della
rettitudine, della saggezza, della forza d’animo (il coraggio), della moderazione, che sono il migliore
antidoto al fanatismo e alle altre disarmonie della personalità.
Ci si può chiedere: è possibile una umanità senza fanatismo, senza violenza omicida? Forse non è
vicina, ma se la crederemo possibile (Cassiers, 1996), lavoreremo ed animeremo il lavoro in tale
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