Post on 17-Feb-2019
Note e discussioni
L’antisemitismo nella cultura della destra radicaledi Maria Teresa Pichetto
È diffusa l’opinione che l’antisemitismo in Italia non abbia mai avuto radici profonde e che non sia mai arrivato in Italia a toccare la coscienza popolare. Nemmeno la persecuzione razziale voluta dal fascismo potè influenzare in modo significativo la sostanziale impermeabilità delhopinione pubblica del nostro paese a quel tipo di messaggio politico-ideologico; e anzi i provvedimenti fascisti furono fortemente avversati e assai spesso vanificati dalla solidarietà mostrata da ampi strati della popolazione nei confronti degli ebrei.
Pur tuttavia il pericolo dell’antisemitismo sembra riaffacciarsi di quando in quando attraverso il pensiero e l’attività di certe frange della destra radicale e persino, a guardar bene in trasparenza, di quella parte della destra che si qualifica “moderata” , nel rispetto apparente delle regole democratiche, e che ufficialmente scinde le proprie responsabilità da qualsiasi atteggiamento indulgente verso le persecuzioni razziali o gli episodi recenti di antisemitismo. Sul piano strettamente politico, la componente dell’antisemitismo viene infatti celata o taciuta dalla destra parlamentare (Msi) mentre costituisce uno degli elementi di punta di tutte le organizzazioni della destra extraparlamentare, da Ordine Nuovo ad Avanguardia Nazionale, alle
Squadre d’azione Mussolini, al Fronte nazionale, ecc.; ma il diverso atteggiamento deriva dalla diversa tattica nel perseguire il disegno mirante a sovvertire il sistema democratico.
La mia ricerca si propone dunque di partire da una rapida analisi di fatti e segnali antisemitici, per poi risalire dai fatti stessi alla loro possibile matrice culturale e ideologica.
Una prima significativa ripresa di propaganda e di attività antisemita in Italia è databile agli ultimi anni cinquanta, ad opera di gruppuscoli tutti più o meno direttamente legati al Msi. Senza che si possa configurare un disegno preciso ed organico, deve tuttavia essere citata una serie di episodi che spaziano dalla provocazione verbale o scritta fino al vero e proprio fatto criminoso e all’attentato1.
Nel 1958 viene organizzata a Roma una marcia antisemita. Nel 1960 il quartiere ebraico della capitale è teatro di aggressioni e atti di violenza. Adolf Eichmann, processato in Israele per il ruolo centrale da lui sostenuto nella “soluzione finale del problema ebraico”, trova in Italia voci solidali che tendono a minimizzare i suoi delitti e a considerare il processo stesso come ingiusto e “montato” dagli ebrei. Qua e là nel Paese svastiche e simboli vari della destra radicale
1 Cfr. Angelo Del Boca, Mario Giovana, I figli del “Sole", Milano, Feltrinelli, 1965 e D. Eiseraberg, Fascistes et nazis d ’aujourd’hui, Paris, 1963.
“Italia contemporanea”, dicembre 1986, n. 165
72 Maria Teresa Pichetto
(Sam, Giovane Italia, Ordine Nuovo) imbrattano le sinagoghe e i cimiteri ebraici, dove appaiono scritte come “Ebrei ai forni” e “Hitler aveva ragione” . Vi è un forte aumento di atti di intolleranza razzista nell’ambito di molte scuole romane; squadre fasciste armate di catene e bastoni aggrediscono giovani di opposte opinioni e lasciano sul terreno delle aggressioni volantini con scritte razziste, come ad esempio: “Dachau e Buchenwald sono le tappe della nostra cultura” .
Fenomeni di questo tipo si intensificano tra il 1962 e il 1972, tanto da indurre Alfonso di Nola a pubblicare una documentazione2, raccolta da lui e da un gruppo di studiosi. Vi sono riportati 351 episodi di antisemitismo: scopo del lavoro, scrive Di Nola, è portare “un contributo al chiarimento di fenomeni di involuzione ideologico-politica che, nel colpire la minoranza ebraica, incidono più generalmente sulla dignità civile di tutti gli italiani” .
Nella dinamica del rinascente antisemitismo, l’anno 1962 assume particolari significati. È l’anno in cui si concludono i lavori preparatori del Concilio Ecumenico Vaticano II, aperto ufficialmente I’l l ottobre. La grande assise cattolica si appresta a rimuovere dalle radici secolari pregiudizi di ordine religioso, che non poco hanno influito nel tempo sulla polemica antiebraica. Ma questo positivo cambiamento dell’atteggiamento della chiesa cattolica nei confronti degli ebrei suscita violente reazioni nella destra radicale e la loro carica di antisemitismo influirà su tutto il decennio successivo.
È del 1962, appunto, l’inizio della campagna antisemitica e antisionistica di un personaggio di spicco dalle destra radicale, Franco Freda, con l’opuscolo Gruppo di AR, apparso anonimo a Padova ma con prefazione
firmata da Freda stesso. Confluiscono in esso, tramite fonti come Evola e Rassinier, dei quali parleremo più avanti, alcuni dei più insistiti luoghi comuni antiebraici: l’aggressione ebrea in Palestina; la “menzogna” sul genocidio nazista ai danni degli ebrei durante la seconda guerra mondiale; la “repulsione quasi fisica... per tutto quello che dicono i figli di Sion”; il ritratto dell’ebreo come detentore del potere politico attraverso il potere economico; la corruzione della stampa ad opera degli ebrei.
La curva del fenomeno ha un andamento ascendente fino agli inizi degli anni settanta, quando si assiste anche alla nascita di molte case editrici e librerie specializzate nel diffondere libri e opuscoli antisemitici, fra i quali spiccano le ristampe dei libri di Evola sul razzismo e i famigerati Protocolli dei Savi Anziani di Sion.
Sul piano dell’azione concreta si registrano punte di particolare intensità nei primi mesi del 1973. Nel gennaio di quell’anno scritte naziste compaiono a Roma e a Trieste in coincidenza con le udienze del processo Freda per la strage di piazza Fontana a Milano; a Lecco estremisti di Avanguardia Nazionale organizzano manifestazioni di piazza con slogans antisemitici; a fine febbraio 112 lapidi del cimitero israelitico di Saluzzo vengono divelte e spezzate; a marzo sono profanate una cinquantina di tombe ad Acqui Terme; il 28 aprile a Perugia compaiono, sui muri di abitazioni e negozi di ebrei, scritte che inneggiano al fascismo e al nazismo, svastiche e insulti.
È una mappa piuttosto estesa e preoccupante. Come osserva Di Nola, il riemergere di stimoli antisemitici non può essere isolato dal contesto storico più articolato e complesso, perché essi rivelano “un male più radicale ed oscuro della vita nazionale” e una crisi di tutti gli equilibri della società demo-
Alfonso Di Nola, Antisemitismo in Italia (1962-1972), Firenze, Vallecchi, 1973.2
L’antisemitismo nella cultura della destra radicale 73
cratica. Sono infatti di quegli anni tentativi di destabilizzazione come la strage di piazza Fontana a Milano (1969), il fallito golpe di Valerio Borghese a Roma (1970), i fatti di Reggio Calabria manipolati dai neofascisti (1970), le stragi di Brescia e del treno Itali- cus (1974). I fenomeni tendono poi ad attenuarsi man mano verso gli anni ottanta, ma non scompaiono mai del tutto3; si rafforza, anzi, una corrente antisionistica, per cui diviene un nuovo motivo antisemitico il principio sovente proclamato del non-diritto degli ebrei ad avere una loro patria. Infatti quell’antisemitismo che nella sua forma razziale, sociale o religiosa era stato, negli ultimi trent’anni, rifiutato da quasi tutti i paesi del mondo, riaffiora oggi con sempre maggior frequenza sotto le spoglie dell’antisio- nismo.
Si tratta quindi di ricercare i filoni, le linee ideologico-culturali attraverso le quali l’antisemitismo, pur così estraneo — come si è detto — alla coscienza popolare italiana, ha potuto ritrovare forza e consenso presso certi strati minoritari ma non per questo meno inquieti e pericolosi. Pur nella difficoltà di
delineare una sommaria mappa ideologica della destra radicale, che “costituisce una galassia variegata e composita di gruppi che si formano, dissolvono e ricostituiscono”4, sono tuttavia individuabili alcuni topoi abbastanza generalmente diffusi.“La radice comune è costituita dalle dottrine di Julius Evola, il cui pensiero ha una funzione fondamentale nell’aggregazione della destra radicale, e soprattutto dalla sua teoria del razzismo “spirituale”5.
È opportuna, su questo aspetto particolare dell’antisemitismo, una chiarificazione, perché la distinzione tra il carattere “spiritualistico” del razzismo di Evola da quello biologico del nazismo fu sempre usata dai neofascisti come alibi per sminuire la caratterizzazione antisemitica delle loro tesi e come lasciapassare “scientifico” dei vari editori e diffusori dei libri di Evola. Non bisogna però dimenticare che fin dal 1937, quando si scatenò la polemica antiebraica con la pubblicazione del libro di Paolo Orano Gli ebrei in Italia, sorse il problema di conciliare, nelle teorie italiane della razza, le contraddittorie concezioni del materialismo biologico e dell’idealismo spiritualistico.
3 A. Di Nola, Antisemitismo come, oggi, in “Il Ponte”, XXXIV, n. 2, 1978, pp. 1489-1497, e J. Mahor, L ’antisio- nisme, “Revue française de Science Politique”, 1984, avril.4 Franco Ferraresi, La destra radicale in Italia: forme ideologiche e esperienze organzzative, in Nuova destra e cultura reazionaria negli anni ottanta”, Atti del Convegno, Cuneo, 19-20 novembre 1982, p. 251; fra i numerosi studi sull’argomento cfr. P. Rosenbaum, Il nuovo fascismo. Da Salò ad Almirante, Milano, Feltrinelli, 1975; Giorgio Galli, La Destra in Italia, Milano, Gammalibri, 1983 e La Destra radicale, a cura di F. Ferraresi, Milano, Feltrinelli, 1984. Per la dimensione internazionale del fenomeno cfr. A. De Benoist, Vista da destra, Napoli, Akropolis, 1981 e J. Nancini, Il pensiero negativo e la nuova destra, Milano, Mondadori, 1983.5 Julius Evola (1898-1974) fu autore di numerosissimi articoli e saggi; collaboré al “Regime fascista” di Farinacci, a “La Vita Italiana” di Preziosi e a “La difesa della razza” di Interlandi e a numerose altre riviste. I principali scritti evoliani sul razzismo sono: Tre aspetti del problema ebraico, nel mondo spirituale, nel mondo culturale, nel mondo economico-sociale, Roma, Ed. Mediterranee, 1936 (rist. AR, 1978); Il mito del sangue, Milano, Floepli, 1937 (rist. AR 1978); Sintesi di dottrina della razza, Milano, Hoepli, 1937 (rist. AR, 1977); Indirizzi per un ’educazione razziale, Napoli, Conte, 1941 (rist. AR, 1979); La civiltà occidentale e l ’intelligenza ebraica, in Gli ebrei hanno voluto la guerra Firenze, Vallecchi, 1942. Fra i molti studi su Evola da parte della Destra radicale cfr. Philip Baillet, Julius Evola e l ’affermazione assoluta, Padova AR, 1978 (trae origine da una conferenza tenuta a Parigi nell’aprile 1975 per inaugurare l’attività del Centre d’études doctrinales Evola) e Adriano Romualdi, J. Evola, l'uomo e l ’opera, Roma, Ed. Giovanni Volpe, 1971. Animata da Paolo Andriani, la Fondazione Julius Evola a Roma si propone di “difendere i valori di una cultura conforme alla tradizione” e pubblica i “Quaderni” che riprendono suoi brevi scritti; a Genova il Centro studi evoliani pubblica la rivista “Arthos” dedicata all’analisi del suo pensiero.
74 Maria Teresa Pichetto
Il libro di Orano, pubblicato a Roma nell’aprile del 1937, fu scritto, sostenne qualcuno, per suggerimento di Mussolini allo scopo di saggiare le reazioni del popolo italiano al nuovo orientamento antiebraico, dovuto al riavvicinamento tra Roma e Berlino, e preparare il terreno alla legislazione antisemita del 1938. Il libro fu scherzosamente chiamato “la bomba Orano”, sia perché inaspettato, sia per la larga risonanza e per le ampie recensioni che tutta la stampa gli dedicò. Egli giustificò questa sua improvvisa presa di posizione antisemita con i soliti luoghi comuni come l’ostentata penetrazione degli ebrei nella vita politica, le loro dottrine sovversive, la loro pretesa di dominio. L’anno successivo, poi, chiarì meglio il motivo della lotta antiebraica nell’Introduzione a una serie di scritti di Gayda, Pini, Rosemberg e altri, raccolti nel libro Inchiesta sulla razza (Roma, Pincia- na, 1938), ricercandolo essenzialmente negli scopi del sionismo, da lui considerato una degenerazione dell’ebraismo e una organizzazione incompatibile con i sentimenti di sincera lealtà dei cittadini di religione ebraica nei confronti della nazione italiana.
Nel corso del 1937 si ebbero numerose altre pubblicazioni che non si limitavano, come il libro di Orano, a trattare la questione ebraica dal punto di vista politico-sociale, ma prendevano in esame il vero e proprio problema della razza.
Lo spostarsi della polemica dall’antisemitismo ad un razzismo più spirituale che biologico traeva origine sia dalla necessità di rivendicare un minimo di autonomia e di originalità rispetto al razzismo nazista sia dal timore di Mussolini che un’azione ostile diretta solo contro gli ebrei fosse difficilmente
accettabile per il popolo italiano: egli preferì quindi presentarla sotto una veste più impersonale che coinvolgeva gli ebrei in un contesto più ampio. Così, se da un lato vi erano i teorizzatori del razzismo in chiave biologica, come Cogni e Landra6, i quali, in linea con le dottrine naziste, sostenevano che la razza, cioè l’elemento indispensabile per la creazione dei valori superiori della civiltà, dipendeva in primo luogo dal sangue, dall’altro lato Julius Evola enunciava una teoria razzista originale italiana fondata su basi spiritualistiche.
Contro un razzismo “volgare”, non scientifico, fondato su concezioni anche biologicamente errate, Evola afferma il principio che la dottrina della razza, idea spiritual- mente e culturalmente rivoluzionaria, deve partire da una concezione totalitaria dell’uomo, inteso come veicolo e mezzo espressivo di forze, di principi superiori e nel cui spirito ha sede la razza, che possiede quindi un’esistenza nel mondo interiore prima di manifestarsi nel mondo esteriore. La razza è una forza profonda che si manifesta sia nell’ambito corporeo (razza del corpo), sia nell’ambito animico-spirituale (razza interna, razza dello spirito); quest’ultima è definita come un’energia formatrice, una visione del mondo, un modo di essere di fronte alla realtà che qualifica i comportamenti e le scelte. Da questa concezione deriva che, indipendentemente dalle radici fisico-antropologiche, gli aggettivi “semita” e “cristiano” definiscono un’unica categoria che ha come caratteristiche comuni mercantilismo, debolezza, femminilità, pietà religiosa, vigliaccheria. Questa categoria è all’origine di tutti i mali presenti, perché ha determinato la crisi dell’altra, diametralmente opposta e positiva,
6 G. Cogni, Il razzismo, Milano, Bocca, 1936 e I valori della stirpe italiana, Milano, Bocca, 1937; Piccola bibliografia razziale, a cura di G. Cogni e G. Landra, Roma, Casa ed. Ulpiano, 1939. Di Landra cfr. anche Scienza razza e scientismo, in “La Vita italiana”, LXI, 1943, febbraio, pp. 151-153 (in polemica con un articolo di Evola dallo stesso titolo uscito nel numero di dicembre 1942, pp. 556-563) e Razzismo biologico e scientismo. Per la scienza e contro i malinconici assertori di un nebuloso spiritualismo, in “La Difesa della razza”, V, 5 novembre 1942.
L’antisemitismo nella cultura della destra radicale 75
quella della razza spirituale “aria, olimpica, settentrionale”, crisi che ha portato alla civiltà moderna, quella che si esprime oggi nella democrazia e nella libertà.
L’impegno politico dei nazifascisti attuali consiste quindi nell’arginare e nel cancellare la razza “semitica” , cristiana o ebraica che essa sia, per preparare la risurrezione della razza spirituale “aria o olimpica” . Questo programma risulta evidente nello “schema costituzionale per uno Stato”, pubblicato da Ordine Nuovo nel dicembre 1970 dove si legge fra l’altro: “In una concezione del mondo veduto come ordine, le differenze razziali hanno una rilevanza positiva. La forma interna della nostra cultura, dall’antichità greco-romana al medioevo germanico è in connessione diretta con la razza ariana” (p. 119).
In tutto il complesso panorama dei gruppi, gruppuscoli e movimenti di varia struttura e finalità un altro elemento unificante è dato dalla totale irrilevanza della cosiddetta “cultura fascista”, intesa come possibile eredità o continuità di pensiero derivata dal regime. Il fascismo è presente quasi soltanto come “nostalgia”, soprattutto come nostalgia di potere, di un momento in cui la rivoluzione fascista era riuscita a permeare le istituzioni, meglio ancora a farsi istituzione essa stessa. Ma Julius Evola riconosce che la cultura fascista non ha lasciato “nulla, ma proprio nulla” dietro di sé7.
Anche uno dei miti più qualificanti del fascismo, la romanità, viene da Evola sottoposto ad una critica severa, per aver voluto la cultura fascista contaminare l’etica della Roma arcaica, espressione di un mondo eroico, di virile austerità e fermezza, con l’etica cristiana. Il mito della romanità svolge nel sistema di Evola, già a partire dal primo testo politico, Imperialismo pagano del 1928, una funzione importante, viene poi ulteriormen
te accentuata attraverso una più complessa organizzazione teorica nel 1934 in Rivolta contro il mondo moderno.
Nel primo testo citato, il cristianesimo è definito da Evola ‘Tanti-impero, l’analogo della rivoluzione francese di ieri, del bolscevismo e del comuniSmo oggi...; in esso tutto è incompatibile e contraddittorio con gli ideali, con la morale, con la visione del mondo e dell’uomo che può condurre una razza alla resurrezione dell’Impero... La razza latina rinnegherà aspramente ogni discendenza da questa cosa oscura, che dai bassifondi ebraici di Palestina è venuta a contaminarla”. Al di là di queste critiche, del resto, il mito della romanità è sprofondato nel ridicolo della retorica di regime.
Né, d’altro canto, può fare ancor presa oggi, se non in sparute frange oltranziste, il mito del combattentismo ad oltranza, derivato soprattutto dalla truce vicenda di Salò: lo sfascio vergognoso della Repubblica sociale, la fuga da Milano, tutt’altro che eroica, della maggior parte dei gerarchi, non può essere certo oggetto di esaltazioni eroiche. Manca anche quasi del tutto, tra i riferimenti culturali della destra radicale, il pensiero di uomini che ebbero nella “cultura fascista” un ruolo importante, da Gentile a Rocco e Bottai, da F.T. Marinetti a D’Annunzio. Restano echi di Prezzolini, di Soffici, di Papini, naturalmente di Mussolini e di un marginale come Carlo Costamagna per la sua “teoria organica” dello Stato, ma non si può affermare che contribuiscano in qualche modo ad offrire idee-forza, nuclei di aggregazione e di elaborazione culturale.
Nel deserto ideologico lasciato dal fascismo, non deve dunque sorprendere che i miti attorno ai quali la destra radicale tenta di organizzare una propria visione del mondo, una propria capacità di convinzione e di
7 Julius Evola, Il cammino del Cinabro, Milano, Scheiwiller, 1963.
76 Maria Teresa Pichetto
proselitismo, siano piuttosto quelli che hanno radice nel nazionalsocialismo tedesco. Intendo soprattutto far riferimento ai valori dell’etica guerriera, della disciplina, della mistica del dovere spinta ai limiti della spersonalizzazione, rintracciabili nel patrimonio mitologico nordico e più in generale ario, e di lì rozzamente filtrati nell’ideologia nazista e nelle istituzioni da essa prodotte, dalla Wehrmacht alla Hitlerjugend fino ai corpi di élite delle SS.
Nel pensiero di Evola confluiscono poi altri elementi come la concezione islamica della duplice guerra, la “piccola”, quella materiale, condotta contro il nemico o l’infedele, e la “grande guerra santa”, di ordine spirituale o interiore, condotta dall’elemento sovraumano dell’uomo contro gli istinti e le passioni; e ancora la mistica guerriera e la vita eroica della mitologia ariana. Nello scritto del 1940, La dottrina aria di lotta e di vittoria8, e in altri articoli, emerge l’esaltazione dell’uomo-guerriero, per il quale l’azione ha già in sé un suo valore spirituale, al di là dei fini pratici che con l’azione si vogliono di volta in volta conseguire, contrapposto all’uomo-mercante, al borghese la cui principale preoccupazione è il benessere. Secondo Evola, l’uomo-guerriero è l’uomo veramente “nuovo”, in cui si incarnano e si rinnovano continuamente i valori ideali della tradizione; l’uomo-mercante è tipico del mondo moderno, della sua decadenza, del suo materialismo.
Questo tipo di visione del mondo e della
vita contiene una sua profonda vena di razzismo che, oggi più o meno abilmente mascherata, risulta invece chiara nelle elaborazioni ideologiche del fascismo. Basta, a questo proposito, consultare con qualche attenzione la rivista “La Difesa della razza” , per trovare un esplicito parallelo: razza eletta è quella guerriera, mentre proprio degli ebrei è il pacifismo borghese mercantilistico. “Il più alto strumento di risveglio interno della razza”, scrive ad esempio Evola, “è la lotta, e la guerra la sua più alta espressione. Che il pacifismo e Tumanitarismo siano fenomeni solidali all’internazionalismo, alla democrazia, al cosmopolitismo e al liberalismo, è cosa affatto logica. La volontà di livellamento subrazziale insita nell’internazionalismo trova nell’umanitarismo pacifista il suo alleato”9. Ancora più esplicitamente, per altri autori, espressione di questo internazionalismo e pacifismo è la borghesia cosmopolita, gente senza razza, dominata nel suo più profondo nucleo dagli ebrei, i quali, anche nei casi di peggior necessità, non combattono. Infatti la guerra “è qualche cosa di assolutamente antitetico allo spirito ebraico... Anche quando l’ebreo impugna le armi, non lotta mai con quello scopo che spinge in guerra gli individui di un’altra razza, in quanto i giudei non cercano altra libertà se non quella dei loro commerci”10. In questa direzione molti sono gli antecedenti filosofico-letterari, da Jùn- ger a Pound, da Drieu La Rochelle a Céline.
8 J. Evola, La dottrina aria di lotta e di vittoria, Padova, AR, 1970 (e 1977) con introduzione di F. Freda (testo di una conferenza tenuta nella sezione di Scienza della Civiltà del Kaiser Wilhelm Institut a Roma nel 1940 e pubblicata a Vienna nel 1941); sullo stesso tema cfr. anche Metafisica della guerra, in “Diorama filosofico”, maggio-agosto 1935, riedito a cura di Mario Tarchi nel 1974.9 J. Evola, La razza e la guerra, in “La Difesa della razza”, II, n. 24, 1939 e inoltre: Psicologia criminale ebraica, II, n. 18, 1939; Gli ebrei e la matematica, III, n. 8, 1940 (entrambi da Sentinella d’Italia, 1976 e 1978); Mistica della razza in Roma antica, III, n. 14, 1940; La gloria della gente aria, III, n. 15, 1940; Le razze e il mito delle origini di Roma, IV, n. 16, 1941 (Sentinella d’Italia, 1977); Il triplice volto del razzismo, IV, n. 20, 1941; La razza e i capi, IV, n. 24, 1941.10 G. Pensabene, La borghesia e la razza, in “La Difesa della razza”, I, n. 1, agosto 1938; G. Cogni, Una gente senza eroi-, C.M., Un popolo senza eserciti e E. Canevari, Gli ebrei e la guerra, ivi, II, n. 1, 1938.
L’antisemitismo nella cultura della destra radicale 77
Il mito della vita guerriera, dall’ascesi eroica orienta poi altre scelte di riferimento del radicalismo d’oggi: come gli antichi ordini cavallereschi e, per venire a tempi più recenti, certe forme di fascismo atipiche e singolari, dalla Falange di José Antonio Primo de Ri vera alla Guardia di Ferro o Legione dell’Arcangelo Michele, movimento agrario paramilitare, ferocemente antisemita, organizzato in comunità militante e combattente. Il suo capo, il romeno C. Codreanu, in un colloquio con Evola nel 1938, ne sottolinea l’impronta fortemente mistica e addirittura iniziatica, diversificandosi così sia dal fascismo sia dal nazionalsocialismo. Sacrificio, preghiera, vita monastico-guerriera, politica come ascesi erano le parole d’ordine di Codreanu, da Evola definito “una delle figure più limpide e idealistiche dei movimenti nazionali”11.
Non tragga in inganno, qui e altrove, l’uso della parola “nazionale”: il nazionalismo è infatti, per la destra radicale contemporanea, fra le idee da rifiutare, insieme con l’egualitarismo, il comuniSmo e la democrazia. È proprio Evola a respingere con decisione il binomio nazione-popolo, nato dai principi della Rivoluzione francese e dai movimenti rivoluzionari in essi radicati (e, ovviamente, “fomentati dagli ebrei”). Risalendo attraverso i secoli, Evola sottolinea come il nazionalismo abbia avuto sempre effetti disgregatori: l’emergere delle monarchie nazionali minò le fondamenta della civiltà feu- dale-imperiale, causando il declino dell’idea classica di “imperium” che in essa trovava pratica realizzazione.
L’esaltazione del Medioevo ghibellino, del Sacro romano impero in cui si fondevano armonicamente due tradizioni, la romana e
la germanica, rientra, nel pensiero di Evola, nella polemica contro una storiografia “patriottarda” di matrice liberal-massonica, tutta tesa ad attribuire caratteristiche originalmente nazionali agli aspetti, secondo lui, più contraddittori e problematici della storia italiana recente, dal Risorgimento alla Resistenza e alla Liberazione11 12.
Con violenza ancora maggiore Evola attacca il concetto di popolo contrapponendo ad esso quello di “razza”, quest’ultima intesa come élite. In sostanza, secondo Evola, le rivoluzioni borghesi hanno ridotto, attraverso un astratto principio di libertà, il valore della persona concreta, annullandola nella massa: è la quantità che diventa protagonista della storia. Di qui la condanna dei sistemi democratici, ma anche di quei “regimi di ieri” che hanno in qualche modo concesso spazio alle spinte dal basso, non escluso il “ducismo” mussoliniano in cui si avverte una inclinazione “se non demagogica almeno alquanto democratica ad andare verso il popolo, a non disdegnare il plauso della piazza”13.
A ben vedere, comunque, l’avversione per il popolo, la massa, altro non è se non un aspetto della più generale e radicale negazione di ogni principio egualitario. L’immortale principio dell’uguaglianza e il suffragio universale sono un puro non senso e, di conseguenza, sono un nonsenso tutte le istituzioni che da essi derivano: parlamenti, partiti, sindacati.
Il “vero” Stato dovrà eliminare gli organi rappresentativi della democrazia per diventare invece organico e gerarchico, basato su una rappresentanza differenziata, per corpi.
11 J. Evola, Il fascismo visto da Destra. Con note su! I l l Reich, Roma, Volpe, 1979, p. 35 ( l a ed. 1964).12 J. Evola, Imperialismo pagano. Il fascismo dinanzi al pericolo euro-cristiano, Todi-Roma, Atanòr, 1928 (rist. Padova, AR, 1978) e Due imperatori, in “Bibliografia fascista”, 1938 e 1940 (rist. Padova, AR, 1977, a cura di C. Mutti).13 J. Evola, Fascismo, cit., p. 59; cfr. anche Gli uomini e le rovine, Roma, Volpe, 1953 e Cavalcare la tigre, Milano, Scheiwiller, 1961.
78 Maria Teresa Pichetto
Alla degenerazione democratica dell’Occidente, che trova la sua massima espressione negli Stati Uniti, si contrappone nel pensiero di Evola un altro male prodotto dall’egualitarismo, e cioè il comuniSmo, che trova la sua autentica incarnazione nell’Unione Sovietica. Di qui l’esaltazione dell’Europa quale unico possibile baluardo; un’Europa che deve riscattarsi e tornare ad essere soggetto della grande politica mondiale, unica depositaria degli autentici valori della civiltà occidentale.
Nell’analisi evoliana svolta nel libro Gli uomini e le rovine (1953), testo fondamentale del pensiero della destra, sia la democrazia sia il comuniSmo sono il prodotto di una pericolosa “internazionale ebraica” avente per obiettivo “la distruzione completa di tutto ciò che nei popoli non-ebraici è tradizione, casta, aristocrazia, gerarchia, come pure di ogni valore etico, religioso, supermateriale” . Questa tesi, già molto diffusa durante il fascismo, era sostenuta da Evola ne\YIntroduzione all’edizione del 1937 de I Protocolli dei Savi anziani di Sion, il famoso falso pubblicato per la prima volta in Italia nel 1921 da Giovanni Preziosi14, uno fra i più tenaci e feroci antisemiti italiani. Questo documento era già stato diffuso, nel 1919-20, in Inghilterra, negli Stati Uniti, in Francia e Germania, con lo scopo di giustificare l’odio antiebraico e di screditare i movimenti politici progressisti presentandoli come una astuta manovra dell’internazionale ebraica tendente alla conquista del mondo. Le idee centrali dei Protocolli erano che tutti gli avvenimenti e le ideologie che avevano condotto l’Europa tradizionale al tramonto non erano casuali, ma obbedivano a un preciso
piano di distruzione elaborato da un’organizzazione ebraicomassonica. La sua azione si sviluppava su tre piani: venivano diffuse ideologie alle quali non si credeva affatto, come liberalismo, egualitarismo, democrazia, comuniSmo, ma che servivano per diffondere la sovversione; in seguito si cercava di ottenere il dominio della stampa internazionale e della cultura; e, in terzo luogo, si tendeva a controllare la finanza internazionale, cioè la massima parte dell’oro del mondo. Evola sosteneva ancora che, quand’anche i Protocolli non fossero “autentici” essi erano però “veridici” in quanto i principali rivolgimenti della storia contemporanea e le fasi di un’opera sistematica e progressiva di distruzione spirituale, politica e culturale corrispondevano pienamente con il piano in essi descritto.
Attraverso Evola, dopo il maggio 1968, il problema dell’Europa diventa il nucleo centrale delle riflessioni della destra radicale italiana. Una sintesi particolarmente significativa è quella di Adriano Romualdi15, discepolo o biografo di Evola, che rivela la crisi delle “piccole patrie” europee dopo il 1945, a confronto con le potenze mondiale di Usa e Urss e propone, come unica possibile alternativa ai miti internazionalistici della democrazia e del comuniSmo, un “nazionalismo europeo”. Romualdi fa riferimento ad alcune pagine del Mein Kampf hitleriano, dove si esaltano i “valori occidentali” , la consapevolezza degli europei di essere portatori di una civiltà originale ed autonoma fondata sui valori dello spirito e si propone di ridare all’Europa padronanza dei propri destini.
Questi slogan, non a caso, appaiono anche, alla fine degli anni sessanta, in docu-
14 Su Preziosi cfr. M.T. Pichetto, Aile radici dell’odio. Preziosi e Benigni antisemiti, Milano, F. Angeli, 1983.15 A. Romualdi, La destra e la crisi del nazionalismo, Roma, Ed. de “Il Settimo Sigillo”, 1973. Figlio del vice segretario del Msi, nato nel 1940 e morto in un incidente stradale nel 1973, fu discepolo di Evola, di cui scrisse la prima monografia, già citata, e numerosi altri scritti su Nietzsche, sulla destra tedesca, sul fascismo, ecc. e curò e pubblicò diversi testi per le edizioni AR; viene considerato “la più forte intelligenza della destra radicale (non cattolica) italiana dopo Julius Evola (D. Cofrancesco, La nuova destra dinanzi al fascismo, in Nuova destra, cit., p. 99).
L’antisemitismo nella cultura della destra radicale 79
menti del Fuan, l’organizzazione universitaria che fa capo al Msi, e sono il sintomo di un razzismo più ambiguo e strisciante, che non s’incentra più sulla condanna esplicita degli ebrei o sulla richiesta di provvedimenti antisematici ma che, nel porre l’accento sui predetti “valori occidentali”, sulla superiorità della civiltà europea, automaticamente comporta l’emarginazione e la sopraffazione delle razze considerate inferiori. Nella stessa linea, anche se apparentemente contradditorio, è il sostegno offerto dalla destra radicale ai movimenti di liberazione etnica e nazionale e ai popoli oppressi dall’imperialismo, in primo luogo quelli islamici (Iran, Libia, Palestina), poi i Pellerossa d’America, gli Irlandesi, i Baschi, ecc. In particolare la solidarietà alla causa palestinese è in funzione antiebraica e antisionistica: i palestinesi, portatori di “una visione eroica della vita”, sono presentati come oppressi e Israele come simbolo dell’oppressione capitalistica, ovviamente sullo sfondo consueto della congiura ebraica per il dominio del mondo. Significativa a questo proposito è l’affermazione di Medrano: “La lotta per l’unità islamica contro il sionismo, nemico mondiale dei popoli, non deve essere separata dalle lotte condotte da altri popoli, perché il sionismo è letteralmente planetario ed è presente, dalla sua base geopolitica di New York, dentro tutti i bastioni dell’impe- rialismo”16.
Il mito dell’Europa orienta anche, sia pure in modi e con sfumature diversi, le linee ideologiche di gruppi politici come Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale. Il primo nasce nel 1956, quando Pino Rauti e altri lasciano il Msi per fondare appunto il Centro Studi Ordine nuovo. Le finalità indicate parlano chiaro sulla radice evoliana del movimento: lotta totale e senza quartiere alla democrazia parlamentare partitica, “tomba
della libertà”; purificazione della cultura europea da tutte le influenze borghesi, progressiste, matèrialiste; edificazione di un’Europa intesa come nazione autonoma, libera dai “colonialismi” sovietici e americani. E ancor, le consuete esaltazione della vita eroica, del dominio delle élites in funzione antidemocratica e antisocialista. Anche qui, se l’antisemitismo non è proclamato a tutte le lettere, non è difficile leggerlo in trasparenza.
Più rozza e superficiale è l’elaborazione ideologica dell’altro gruppo storico della destra radicale, Avanguardia Nazionale, la cui vocazione appare sin dall’inizio “operativa” nel culto dell’azione e della violenza, ls fondazione del movimento risale al 1960, per iniziativa di Stefano Delle Chiaie, ex segretario missino di Roma, e di un gruppo di dissidenti di Ordine Nuovo. Sciolta nel 1965, rifondata nel 1970, Avanguardia Nazionale è protagonista di pestaggi all’Università di Roma, di azioni di guerriglia urbana durante la rivolta di Reggio Calabria; nel 1976, dopo un processo per ricostituzione del partito fascista, viene definitivamente sciolta dal ministero degli Interni. Il pricipa- le documento teorico del gruppo {La lotta politica di AN, Roma, s.d. ma 1974-75) ripropone, a livello, come si è detto, alquanto superficiale, i consueti topoi del radicalismo di destra, con un’accentuazione rivelatrice del principio di diversità fra individui e fra stirpi, con l’ovvia conseguenza della necessità di una gerarchia su basi rigidamente elitarie. Anche per Avanguardia Nazionale l’unità politica fondamentale, la Nazione individuata come realtà etnica e culturale, deve essere intesa in senso ampio: non Italia ma Europa, l’Europa “di quelle generazioni che si chiamano e di cercano da oltre frontiera... per creare nella devozione e della difesa dei valori eterni della stirpe, una Nazione grani-
16 Antonio Medrano, Islam ed Europa, Padova, AR, 1978, p. 134.
80 Maria Teresa Pichetto
tica”, per riscattarsi ed opporsi sia al delirio marxista sia al conservatorismo borghese. Ancora una volta, questo “centralismo dei valori europei, di schietto sapore razzista, mal si concilia con le posizioni fortemente filo-arabe assunte da Avanguardia Nazionale, in funzione antiisraeliana.
Assai diverso, a riguardo dell’Europa, è il pensiero di uno dei capi carismatici della destra radicale italiana, il già citato Franco Freda, fondatore delle edizioni AR di Padova, attualmente in libertà vigilata per l’attentato di piazza Fontana. Egli nopn nasconde simpatie per il comuniSmo cinese (non a caso è stato definito “nazimaoista”) e auspica una disintegrazione totale del sistema borghese attuata attraverso la violenza, da qualunque parte essa provenga. In questa direzione egli propone un superamento del pensiero di Evola, di cui pure accetta i principi, sottolineandone l’ineguatezza operativa raffrontata alle esigenze dei tempi. Evola, secondo Freda, manca di senso politico operativo e sarebbe attestato sulle posizioni della destra controrivoluzionaria di un De Maistre di un Bismarck, “senza comprendere che nel XX secolo occorrono anche dei Goebbels e dei Mao Tse-Tung” 17.
In La disintegrazione dei sistema (Padova, AR, 1970; ristampe nel 1978 e 1980) Freda attacca con estrema determinazione non soltanto il concetto di Europa ma tutta la tradizionale e la spiritualità del mondo occidentale, arrivando ad affermare che la sua posizione ideologica e la sua simpatia umana non assai più vicine al guerrigliero latino-americano o al soldato nordvietnamita che non allo spagnolo, al “franzoso”, all“italio- ta”, al tedesco-occidentale infeudati agli Usa. Ovviamente, non mancano le punte polemiche in favore delle frange terroristi- che palestinesi né, ad ulteriore conferma della insistenza di certi topoi anche in questa
frangia di destra, le polemiche antisémite. Così Freda scaglia i suoi strali contro “l’Europa illuminista, l’Europa democratica e giacobina, l’Europa mercantilistica, l’Europa del colonialismo plutocratico, l’Europa giudea o giudaizzata... L’Europa”, insiste Freda, “ha contratto tutte le infezioni ideologiche: dalPilluminismo al giacobinismo, alla massoneria, al giudaismo, al sionismo, al liberalismo, al marxismo” (pp. 25-28). È evidente qui il richiamo ad uno dei libri più noti durante i fascismo, pubblicato da Preziosi nel 1941 (Milano, Mondadori e ristampato nel 1943 e 1944), dal titolo Giudaismo, bolscevismo, plutocrazia, massoneria. Questa ormai risaputa accozzaglia di “principi da combattere serve poi a Freda per affermare la necessità si abbattere con la violenza il mondo borghese-capitalista, per edificare sulle sue rovine il “vero Stato” , organizzato su base comunista, capace di garantire l’unità organica del corpo sociale.
Abbiamo analizzato con qualche attenzione, sia pur nei limiti di questo breve excursus, la posizione di Freda, in quanto egli è stato il principale animatore di una casas editrice, la già citata “Edizioni AR” di Padova, che ha avuto un ruolo determinante nella circolazione e della diffusione delle idee e dei principali informatori della destraradicale e della Nuova destra. Miti e personaggi di questo universo si riflettono infatti in una miriade di pubblicazione di case edistrici limitata, ma AR è di gran lunga il nucleo che esercita la maggior influenza. Ne sottende l’attività una concezione aristocratica, élitistica e razzista dell’editoria che considera il libro “un mezzo iniziatico” che deve trasformare ogni militante in pedagogo. Lo stesso termine AR, assunto programmaticamente, oltre ad essere la radice di Arioi, costituisce secondo l’editore, “l’elemento base, radicale, rintrac-
17 P. Baillet, J. Evola, cit., pp. 71-72.
L’antisemitismo nella cultura della destra radicale 81
ciabile attraverso la comparazione linguistica di vari idiomi indoeuropei, in parole che suggeriscono l’idea di valore, preminenza, dunque di nobiltà e di bene”18.
Il catalogo, le introduzioni ai volumi, le varie note editoriali (dia delle dizioni AR sia di quelle meno conosciute) individuano i principali filoni della destra radicale e in particolare quelli direttamente o indirettamente collegati con l’antisemitismo, un primo, nutrito gruppo di opere riguarda i protagonisti storici e le vicende del nazionalismo, come ad esempio, J. Gòbbels, La conquista di Berlino (AR, 1978); A. Hitler, Mein Kampf (Monfalcone, ed. La Sentinella d’Italia, 1969); Saint-Paulien (pseud, di M.Y. sicard), A Hitler: Memorie d ’oltretomba (ed. del borghese, 1970) con introduzione e note di De Turris e G. Giannet- tini.
A fianco delle opere de e sul nazismo si trovano quelle relative ai fascismi atipici, dove il posto d’onore spetta ovviamente alla Guardia di Ferro di C. Codreanu e alla concezione della politica come ascesi. Rientrano in questo filone i testi della Legione scritti dallo stesso Codreanu (// Capo di Cuib, AR, 1981; Guardia di Ferro, AR, 1972) e il Diario dal Carcere (AR, 1970; ristampe nel 1974 e 1981), la cui Avvertenza anonima (di Freda?) e [Introduzione hanno un’impostazione decisamente antisemitica quando denunciano “l’intollerabile pressione esercitata dagli ebrei nel contesto nazionale dello Stato rumeno”, dove hanno scatenato, negli anni
1919-21, attraverso la stampa da essi dominata, il disordine e la violenza. Per questo motivo, giustamente, “la Guardia di Ferro era impegnata nella lotta implabile contro la democrazia, il comuniSmo e contro l’ebraismo”.
Nel catalogo AR e delle altre case editrici (come Arthos di Carmagnolam Akropolis di Napoli, Il Basilisco di Genova, il Corallo di Padova, Edizioni Europa e Edizioni Medi- terranee di Roma, ecc.) sono presentati anche molti titoli che esaltano l’etica del guerriero, l’ascesi eroica, i valori della fedeltà o dell’onore, la mitologia indo-aria, cui si affiancano testi sull’esoterismo e sull’etica samurai. Fra le opere sull’Islam (come ad esempio vari scritti di Khomeyni e i Documenti della guerra sacra del popolo iraniano pubblicati dalle Edizioni All’ilnsegna del Veltro) Spicca la raccolta di scritti del Colonnello Gheddafi, curata da C. Mutti {Gheddafi templare di Allah, AR, 1975)19. la nazione islamica, definita “razza dello spirito”, viene esaltata perché persegue una rivoluzione culturale contro “le idee capitalisti- che ed ebraico-comuniste” e contro l’imperialismo sionista e russo-americano”.
La solidarietà con la rivoluzione libica e con l’Islam in genere si accompagna, naturalmente, all’ostilità più accesa contro Israele e da questa si passa ai tempi più generali della lotta contro il potere “pluto-giudaico”. In questo ambito sono ristampato i testi classici del razzismo e dell’antisemitismo, dall’Ineguaglianza delle razze di A. de Gobi-
18 AR, Risguardo, 1980, p. 25 e M. Revelli, Panorama editoriale e temi culturali della destra militante, in Nuova destra, cit., pp. 49-74.19 Mutti, ex docente di ungherese e rumeno all’Università di Bologna, uno dei principali rappresentanti della cultura d’ispirazione tradizionalista integrale sviluppatasi sulla linea di Evola, autore di saggi e articoli sulla tradizione islamica, stretto collaboratore e amico di Freda, lavorò attivamente alle Edizioni AR. Nel 1973 fondò l’Associazione Italia-Libia, “rapidamente vietata per la pressione degli ambienti sionisti” (cfr. Giorgio Freda: “nazimaoiste” ou révolutionnaire inclassable?, Lausanne, 1978, p. 6: si tratta di un opuscolo curato dal Comité de solidarité pour Giorgio Freda). Collabora attivamente alla rivista “Totalité”, organo dell’integralismo neofascista d’impostazione evoliana che appoggia, in Europa e fuori, “i movimenti che agiscono nella direzione delle lotte di liberazione nazionale e popolare contro le oligarchie mondiali” .
82 Maria Teresa Pichetto
neau (Roma, ed. del Solstizio, 1972 e Padova, AR, 1977) e II mito del X X secolo di A. Rosemberg (Genova, Il Basilisco, 1981) a tutte le opere e articoli di Evola. Un ruolo importante svolgono ovviamente i già citati Protocolli dei Savi anziani di Sion, curati per AR nel 1971 da C. Mutti, riediti nel 1976 con il titolo Ebraicità ed Ebraismo e pubblicati da altre case editrici nel 1972 a cura di Ver- mijon (pseud, di Umberto Greco) dalla Sca- tolgraf di Roma e nel 1975 dalla Tip. Ed. Catapano di Lucerà.
Nell’edizione del 1971 assume particolare rilievo l’Avvertenza, per il richiamo esplicito a Giovanni Preziosi e l’elogio alla sua opera. Il che tende a costituire un legame di continuità fra l’antisemitismo di stampo fascista “istituzionale”, di cui il Preziosi fu senza dubbio esponente di primo piano (anche se isolato), e quello attuale. “Nei riguardi della figura di Preziosi” , si legge ne\YAvvertenza, “è doveroso manifestare il riconoscimento per un uomo di caratteri libero e coraggioso, il quale non solo alla propria esistenza diede uno stile fermo e intransigente di lotta, ma anche la propria morte seppe giustificare, commettendo suicidio nel momento della sconfitta delle forze cui egli era rimasto virilmente fedele” . Preziosi, infatti, fuggendo il 26 aprile da Salò con la moglie e il figlio adottivo, raggiunse in modo fortunoso Milano; ma nella notte, temendo “l’inevitabile e implacabile vendetta ebrea” contro di lui che per trent’anni aveva combattuto l’ebraismo, si tolse la vita assieme alla moglie gettandosi dalla finestra di una camera al quinto piano. Questo gesto, stimato nobile e coraggioso in confronto al comportamento tutt’altro che eroico degli altri gerarchi fascisti, deve aver suscitato la considerazione dei curatori delle edizioni AR. Questa stima emerge anche dalle dediche a Preziosi, “eroe e martire della libertà” che compaiono in altri libri, dall’attività di un Centro studi e documentazione G. Preziosi che pubblicò e tradusse testi antisemitici e dal tentativo, poi
fallito, di creare nel 1981 un Comitato Giovanni Preziosi, per curare la composizione e la pubblicazione di uno studio sulla figuara e la sua opera.
Il tema della trama ebraica per il dominio mondiale, che sta alla base dei Protocolli, assume connotazioni e accentuazioni particolari soprattutto per ciò che concerne la problematica economico-finanziaria. In sintesi si ripetono, nelle argomentazioni della destra radicale, le tesi secondo le quali a volta il potere occulto degli ebrei, attravero la manipolazione della finanza internazionale, permea di sé la politica: e si parla dunque di “occidentalismo giudeo-americano” o di “imperialismo cosmopolita giudeo-britanni- co” . Queste argomentazioni sono evidenti in particolare nelle Prefazioni a La guerra occulta di E. Malynski e L. De Poncis (Padova, AR, 1978), apparsa per la prima volta nel 1939 a cura di J. Evola con il sottotitolo Armi e fasi dell’attacco ebraico-massonico alla tradizione europea e già ristampato nel 1961 a Milano, Ed. “Le Rune”; o a quella del vecchio libro antisemitico, pubblicato nel 1938, L ’Ebreo internazionale di H. Ford (Padova, AR, 1971) dovesi cerca di dimostrare come il piano denunciato nei Protocolli abbia trovato negli Stati Uniti d’America il terreno più favorevole alla sua realizzazione, confermando così con dati inequivocabili la sostanza ebraica della civiltà democratico-borghese. Una stretta connessione tra dominio ebraico della finanza e occulto finanziamento di rivoluzioni e moti sovversivi è sostenuta in saggi come L ’alta finanza e le rivoluzioni di H. Conston (Padova, AR, 1971) o in Finanza e potere di J. Bochaca (AR, 1982), mentre la predisposizione etnica, biologica e culturale del popolo ebraico al capitalismo, inteso come elemento disgregatore, emerge dalle ristampe e scritti di W. Sombart quali Gli ebrei e la vita economica (1980) e Metafisica del capitalismo (1977), passi scelti preceduti da un saggio introduttivo di Mutti.
L’antisemitismo nella cultura della destra radicale 83
Se tutte queste tesi non fanno che rispolverare ed aggiornare ormai vetusti luoghi comuni dell’antisemitismo, particolari e nuove insidie, di carattere ideologico contiene la tendenza, detta del “revisionismo storico”, nell’ambito della quale, sotto il pretesto di un “fare storia obiettiva”, sottratto all’influenza dei “vincitori”20, si tenta di porre in dubbio la persecuzione nazista degli ebrei, fino all’esito paradossale di negare addirittura (o almeno minimizzare) lo sterminio di sei milioni di persone, 1’esistenza di un piano preordinato, le camere a gas. È un filone che ha le sue radici fuori d’Italia, ma che la destra radicale non ha mancato di recepire.
Nel 1962 Freda, nel già citato opuscolo “Gruppo di A r”, scriveva di voler “rompere l’incantesimo della menzogna sugli episodi di genocidio compiuto dai nazisti contro gli ebrei” . Nel 1966, poi, a cura del “Centro studi Giovanni Preziosi” , veniva tradotto per l’editrice Le Rune di Milano da Menzogna di Ulisse di P. Rassinier. Il risvolto di copertina è tristemente eloquente: “Lo scrittore socialista P. Rassinier, ex deportato a Buchenwald, distrugge la leggenda di sei milioni di morti e dei cosiddetti ‘crimini nazisti’ e svela la responsabilità dei deportati”. Nell’Introduzione poi il prof. Anton Domingo Monaco riesce a fare della cinica ironia sui sei milioni di vittime: ”In verità di sei milioni si può parlare solo facendo riferimento ai marchi che annualmente la Germania versa nelle tasche degli israeliani miracolosamente redivivi, i quali avidi e corrucciati rispuntano da tutte leparti. Chesia questa morale favola?” .
Le tesi fondamentali di Rassinier si possono così riassumere: mai i nazisti programmarono il genocidio, il numero delle vittime della deportazione è clamorosamente esagerato, i più efferati crimini furono compiuti in realtà dagli stessi deportati e danno dei
loro compagni di prigionia. Su queste “rivelazioni” Rassinier insiste in un’altra opera, Il dramma degli ebrei, edito in Italia nel 1967 dall’editrice Europa di Roma, dove si legge questa esplicita affermazione: “Mai in nessun momento le autorità qualificte del Terzo Reich hanno previsto e coordinato stermini di ebrei con questo mezzo [le camere a gas] e non ve ne sono stati in modo assoluto”. I libri di Rassinier incontrano il favore della destra radicale: lo testimoniano numerose favorevoli recensioni, come quella su “Ordine Nuovo” nel dicembre 1970, quella a firma C. Federici su “Il Conciliato- re” nel gennaio 1971 o il breve opuscolo di L. Degrelle (un belga divenuto generale delle SS) dal titolo Lettera al Papa sulla truffa di Auschwitz, pubblicato dalle Ed. Sentinella d’Italia nel 1979.
Analoga operazione “revisionista” viene tentata da Giorgio Pisano in Mussolini e gli Ebrei (Milano, ed. Fpe, 1967): vi si afferma che, a dispetto dell’antisemitismo ufficiale del fascismo, Mussolini in realtà si adoperò, fra il 1938 e il 1945, a favore di centinaia di migliaia di ebrei in tutta Europa e che mai l’Italia fascista consegnò ai tedeschi degli ebrei: quelli deportati in Germania vennero tutti catturati dalle SS tedesche. A proposito dei campi di sterminio, Pisano scrive: “E chi del resto , in quei giorni, sapeva niente dei campi di eliminazione, dei forni crematori, e così via, ammesso e non concesso, lo ripetiamo che tutte queste storie siano autentiche?... Con ciò non voglio dire, sia chiaro, che gli ebrei non siano stati perseguitati. La persecuzione c’è stata, ma non nella proporzione che si sostiene . Lo deduco dal fatto che non è possibile eliminare sei milioni di creature lasciando solo tracce minime. La documentazione, infatti, relativa ai massacri non è tale da suffragare la tesi dei ‘sei milioni di eliminati’”(pp. 175-177).
20 Cfr. la Conclusione (di Evola) a E. Malynski, L. De Poncins, La guerra occulta, cit., p. 200.
84 Maria Teresa Pichetto
Fortunatamente le “revisioni di questo tipo, o altre come quella di R. Faurisson in Francia21, che ha dedicato diciotto anni allo studio del problema tentando, ovviamente invano, di dimostrare che nei Lager nazisti le camere a gas non sono mai esistite , non hanno avuto né potevano avere, alcuna presa sull’opinione pubblica italiana. E tuttavia contro l’arma insidiosa di questa propaganda è bene non abbssare la guardia. L’antise
mitismo, che nasconde sempre l’odio per la libertà, per la democrazia per la ragione umana, è sempre in agguato, pronto a diffondere i propri germi, come dimostrano episodi anche recentissimi. E l’unico antidoto sicuro è quello della verità storica, della documentazione ampia e inattaccabile, della ricerca illuminata dalla ragione.
Maria Teresa Pichetto
21 R. Faurisson, Mémoire en défense contre ceux qui m'accusent de falsifier l ’histoire. La question des chambres à gaz, Paris, 1981; su questo argomento si veda anche A. Goldstaub, Nuova destra, cit., p. 176.
La storia contemporanea attraverso le rivisteContributi ad un’indagine
“Italia contemporanea” ha ospitato sul fascicolo 163 (giugno 1986) alcuni materiali prodotti dal seminario organizzato nel febbraio 1986 dall’Istituto nazionale e dagli Istituti associati sui propri periodici. Scopo della pubblicazione non era solo quello di dar conto dell’iniziativa, ma anche di contribuire a comporre un quadro di riferimento che documenti la condizione attuale delle riviste di storia contemporanea, verificandone esperienze e prospettive al termine di un periodo — dall’inizio degli anni settanta ad oggi — particolarmente ricco di indicazioni. Di qui l’opportunità, ribadita dal Comitato scientifico della rivista, di sviluppare il discorso raccogliendo valutazioni e giudizi espressi dai più significativi periodici del settore e dalle riviste che fanno comunque posto a contributi di storia contemporanea. In tale contesto “Italia contemporanea” è lieta di ospitare gli interventi di “Memoria”, “Movimento operaio e socialista”, “Passato e presente”, “Rivista di storia contemporanea”.
A l fine di facilitare la lettura comparata dei diversi interventi, si riporta la formulazione delle domande sottoposte a ciascuna rivista: 1) L ’ultimo quindicennio ha registrato il moltiplicarsi delle riviste di storia e soprattutto di storia contemporanea. Sin dove il fenomeno riflette un effettivo allargamento dello spazio scientifico della disciplina e dove chiama in causa altri fattori? 2) Rispetto al quesito precedente quale risposta è venuta dalla tua rivista? I contenuti, la struttura per rubriche e le scelte editoriali complessive hanno offerto negli ultimi anni modificazioni significative in funzione di tale risposta? 3) Come la tua rivista si è posta il problema del mercato? Considerandolo a priori limitato agli utenti professionali o cercando di provocarne un allargamento, e in quali direzioni? 4) L ’attuale panorama delle riviste offre una immagine distintamente percepibile ed esauriente degli orientamenti prevalenti nella contemporaneistica italiana? E sotto tale profilo qual è — o dovrebbe essere — il ruolo specifico di un periodico rispetto alle altre forme di comunicazione e presenza editoriale?
Italia contemporanea”, dicembre 1986, n. 165
86 Paola Di Cori
“M emoria”
Anche se pubblica molti articoli su temi che interessano la contemporaneistica e la maggioranza delle componenti la redazione si occupa di storia, in particolare dei due ultimi secoli, per diverse ragioni “Memoria” non può essere considerata una rivista di storia contemporanea come le altre. Tuttavia, poiché ha in comune con queste ultime problemi relativi al mercato, alle vendite e all’immagine nonché a questioni di metodologia storica e di rapporti interdisciplinari, un accenno a quanto è condiviso, ma ancora di più a ciò che è differente, può forse offrire un punto di vista eccentrico seppure non indifferente né troppo lontano dai principali problemi sollevati dalla proposta di discussione di “Italia contemporanea”.
Qualche breve informazione preliminare. Com’è noto, ciò che distingue strutturalmente la redazione di “Memoria” da quella di altre riviste è il fatto di essere tutta femminile, caratteristica che rappresenta una ben modesta consolazione quando si pensa che le donne presenti nei gruppi redazionali delle principali pubblicazioni di storia — italiane e non —, quando ci sono, non superano le quattro unità (così la “Rivista di storia contemporanea”; mentre la direzione di “Quaderni storici”, per fare un esempio di gruppo numericamente cospicuo, non ne conta nessuna). Nata come filiazione diretta del femminismo romano alla fine dei collettivi di autocoscienza degli anni settanta assieme ad altre iniziative affini (come l’altra rivista di cultura femminista “DWF”, il centro “Virginia Woolf” di Roma, ecc.), “Memoria” è un quadrimestrale edito da Rosenberg & Sellier che pubblica soltanto fascicoli monografici. Il primo numero è uscito all’inizio del 1981 e finora ne sono stati prodotti quindici. La distribuzione è limitata purtroppo a poche librerie a livello nazionale, comprese naturalmente le librerie delle donne le quali costituiscono, assieme
alle decine di centri culturali femministi nel paese, il principale luogo di diffusione della rivista.
Il pubblico è di natura mista; comprende donne impegnate politicamente nel femminismo e quelle attente alle stimolazioni culturali che da questo emergono, oltre a coloro che sono interessate alla storia delle donne a livello professionale. Il numero degli abbonamenti è oscillante intorno alle tre quattrocento unità e in libreria si vende un altro migliaio di copie circa. Ma è difficile calcolare le vendite poiché la caratteristica principale di “Memoria”, come anche di altre pubblicazioni femministe, è quella di continuare a vendere i fascicoli anche molti mesi, e addirittura anni, dopo la loro uscita; di alcuni particolarmente appetibili, per esempio, ne sono state vendute oltre tremila copie nel corso di qualche anno (del numero uno sono state vendute più di venticinque- mila copie).
Questa peculiarità è un indicatore molto interessante ci dice dell’esistenza di ‘asincro- nie’, di scarti rispetto al tempo, presenti in alcune fette della produzione editoriale delle donne.
Chi legge e compera “Memoria” (lo stesso vale per “DWF” e per altre pubblicazioni femministe a periodicità irregolare che continuano a vendersi indipendentemente dalla loro data di uscita) si colloca in una dimensione temporale obliqua rispetto a quella che determina e regola la fruizione e la vendita delle altre riviste di storia.
Anche tra queste è possibile naturalmente riscontrare movimenti oscillatori nella diffusione di singoli numeri e nel successo di un fascicolo rispetto a un altro, ma la data di pubblicazione rimane per i lettori di tali riviste un fondamentale elemento non solo di contestualizzazione ma anche di motivazione all’acquisto, laddove per la maggioranza del pubblico di “Memoria” si tratta di un fattore per molti versi secondario.
Curiosamente anzi, ciò che finisce nel
La storia contemporanea attraverso le riviste 87
nostro caso per contare spesso di più rispetto all’andamento delle vendite è un principio opposto a quello che regola di solito la buona riuscita commerciale delle altre riviste. Chi legge “Memoria” è soprattutto interessata alla ricerca di elementi che contribuiscano alla fondazione di un soggetto femminile nella storia, e si trova quindi in un rapporto trasversale con l’insieme delle esperienze storiografiche che non si curano di questo. Vale a dire che l’interesse di un pubblico femminista non è per il prodotto che offre gli esempi più sofisticati e aggiornati di trattazione di un certo tema ‘nel tempo’, ma quello che riesce a individuare gli elementi trans-temporali dell’oggetto di cui si occupa. L’asincronia delle vendite non è che il risvolto esterno di una componente essenziale per l’articolazione dell’identità stessa della storia delle donne — che costituisce l’oggetto specifico della rivista, come chiaramente indicato nel suo sottotitolo. E anziché essere ricollegabile a una stravaganza del mercato editoriale e di quello femminile in particolare, è proprio questo il dato rilevante, la spia di una vocazione a forzare i limiti imposti dal calendario che ritma i tempi della novità, della periodicità e della obsolescenza.
Si tratta infatti di una verifica molto cruda e materiale di come la storia delle donne non sia simmetrica e speculare rispetto a quella tradizionale, né si costruisca o si misuri a immagine e somiglianza di questa ma anzi in opposizione a una storia neutra, indifferente al sesso dei suoi agenti, attori e interpreti, e occupi spazi trasversali, non contigui e in tempi dissonanti, in rapporto al territorio storico nel suo insieme.
Tenuto conto dei problemi qui appena accennati, in che senso la presenza di “Memoria” si giustifica nel panorama delle riviste di storia e nel dibattito cui queste sono state invitate a partecipare? Per brevità mi limiterò a indicare sommariamente soltanto pochi aspetti.
Il primo riguarda una questione che Ste
phen Yeo, in un recente e stimolante articolo del “Journal of Contemporary History” (1986, n. 2) sui temi che caratterizzano il panorama attuale della storia contemporanea inglese, ha succintamente riassunto nella domana: “Whose story?” — la storia di chi? Di quali protagonisti è portavoce e intorno a cosa si è andata rinnovando la storia contemporanea negli ultimi anni? Senza entrare nel merito della interessante argomentazione di Yeo, che meriterebbe di essere ripresa altrove in dettaglio, è evidente come la storia delle donne svolga un ruolo predominante nella proliferazione dei nuovi attori storici e in questo senso sia un’inter- locutrice essenziale nel dibattito che coinvolge le voci nuove e diverse presenti nel panorama attuale della storiografia. Tuttavia, in parte perché non completamente d’accordo con Yeo, pur valutando gli elementi di indubbio interesse della sua analisi (la caduta del possessivo maschile presente nel termine history, per esempio), suggerirei di correggere la sua formula ponendo un interrogativo diverso, e cioè: la storia da dove? Quali sono i luoghi e ambiti dai quali proviene l’iniziativa degli operatori di storia? Questa domanda è forse più indicata per stabilire un importante principio di differenziazione e identità all’interno delle sedi in cui si organizza il lavoro storico accademico e non (oltre alle riviste penso ai centri culturali, i musei, le mostre, i tanti spazi urbani e rurali che in questi anni sono stati investiti dalle iniziative degli storici), ma soprattutto consente di mettere in primo piano e valorizzare il punto dal quale si osserva la realtà e di individuare quali sono le aree bisognose di produzione di storia che sono state ripercorse dai nuovi attori. È infatti in un contesto di spazio orizzontale che “Memoria” e la storia delle donne possono emergere come luogo in cui si svolge una specifica attività di critica, di continua modificazione dei confini del territorio storico tradizionale da dove persone di sesso fem
88 Paola Di Cori
minile possono parlare in quanto protagoniste autonome e interlocutrici ben identificate che guardano e descrivono un paesaggio diverso.
Un secondo aspetto collegato a quanto detto sopra, e che mi sembra interessante sollevare in questa sede, riguarda il rapporto che la storia intrattiene con i diversi ambiti disciplinari.
L’esperienza di “Memoria”, che anche tra le persone della redazione accoglie studiose di altre discipline (due su otto), riflette in parte quanto la storia nel suo complesso è andata ormai ampiamente verificando in questi anni: l’adozione di strumentazioni provenienti da aree molto diverse è ormai, oltre che un dato di fatto, una necessità quasi di sopravvivenza biologica per l’arricchimento e l’espansione dell’analisi storica. Ma al di là di queste petizioni di principio, sono in particolare i problemi che la storia delle donne deve affrontare per primi perché squisitamente attinenti alla costruzione della propria identità e aree di competenza a richiedere l’immediato travalicamento degli steccati disciplinari. Penso in particolare alle domande cruciali intorno al ruolo della soggettività nel lavoro storico e al sesso di appartenenza di chi fa storia nel rapporto tra soggetto e oggetto di studio, quelle relative alla dinamica tra rappresentazione e auto-rappresentazione e alla triade natura/cul- tura/storia; per ricordare soltanto qualche esempio tra i più rilevanti. Sono tutte questioni che chiamano direttamente in causa categorie elaborate in aree disciplinari svariate — dalla filosofia e psicanalisi alla semiotica e retorica, dall’antropologia alla biologia e alle scienze naturali — e con le quali la storia delle donne deve misurarsi continuamente, pena la cancellazione dei tratti distintivi che ne compongono l’identità. Ma queste costituiscono anche il terreno da cui emergono gli interrogativi fondamentali che essa pone alla storia nel suo complesso: una sfida ma anche uno stimolante
appello all’autoanalisi che quest’ultima è invitata a raccogliere.
Nata come tentativo di riflessione storica e analisi teorica del femminismo, “Memoria” è stata caratterizzata fin dall’inizio da un rapporto di scambio e collegamento costanti con l’attività politica di centri culturali, enti locali, iniziative parlamentari, che invece di affievolirsi, con il tempo si sono andate rafforzando. Pochi o nulli sono stati invece i risultati ottenuti sul piano istituzionale, e la diffidenza di cui la storia delle donne — nonostante i maturi risultati raggiunti e la pertinenza dei problemi metodo- logici che ha posto — continua a godere negli ambienti accademici è ancora la nota prevalente.
In tal senso quella femminista è per molti versi un’esperienza paradossale, che per ampiezza di risonanza e scarsità di legittimazione è tra le più imponenti e durature verifica- tesi nella società italiana degli ultimi quindici anni, e il cui effetto principale è quello di proporsi come una forma obbligata di militanza intellettuale permanente. Non è azzardato quindi pensare che la storia delle donne, se continuerà ad alimentarsi dal fecondo equilibrio tra sperimentazione scientifica e pratica sociale, e con il progressivo raffinamento delle proprie strumentazioni concettuali, possa costituire un ineliminabile punto di riferimento e confronto per tutte quelle diverse esperienze nel campo della storia contemporanea che dall’impegno politico e dall’attenzione ai cambiamenti socio-culturali hanno tratto in passato tanti elementi di rinnovamento.
Da queste considerazioni, ci sembra evidente che “Memoria” si colloca, nel bene e nel male, proprio in quel crocevia misto di impegno politico e civile, interrogativi metodologici, adeguamento delle strumentazioni scientifiche, proliferazione delle sedi di discussione, che è in gran parte un patrimonio caratterizzante tutta la disciplina storica dell’ultimo decennio.
La storia contemporanea attraverso le riviste 89
Ma l’esigenza di avviare un processo di rifondazione scientifica, su cui la storia contemporanea è particolarmente impegnata, non è solo dettata dalla consapevolezza di assistere a grandi cambiamenti nei rapporti con la politica, e dalla diminuita influenza del fattore ideologico, che sono elementi chiave del mutato clima degli anni ottanta. In effetti, tra i motivi fondamentali alla base dell’attuale travaglio teorico, ma anche dei nuovi orizzonti che si aprono alla discussione scientifica, è sicuramente da annoverare il protagonismo che la dimensione storica sembra di recente avere acquisito fuori della disciplina, vale a dire nel campo delle altre scienze.
La grande rivoluzione epistemologica del decennio, ai fini dell’individuazione dei caratteri innovativi del discorso storico, proviene infatti soprattutto dalle cosiddette scienze esatte. Mi riferisco in particolare al ruolo che la storia ha assunto nelle ricerche biologiche sui sistemi viventi, nella discussione sulle teorie evolutive — per fare solo gli esempi più lampanti.
Questi, credo, costituiscono alcuni dei tratti esterni alla disciplina storica più importanti intervenuti nell’ultimo decennio e destinati a influenzare in maniera determinante la ripresa del dibattito storiografico. Si pensi, per fare un altro esempio, al problema dell’evento e del caso, così come viene affrontato da storici e da scienziati.
Non è possibile soffermarsi su una problematica che è di grande complessità, e basti soltanto una veloce menzione in questa sede. Ma certamente è in tale direzione che sono da ricercarsi le origini della mutata prospettiva metodologica, e dove sarebbe proficuo rivolgere la ricerca sulle rinnovate possibilità di rifondazione teorica del discorso storico.
Come corollario a quanto sopra, e per concludere. Mi sembra che l’attuale panorama delle riviste di storia rifletta in maniera soddisfacente il grande numero di interessi
diversificati emerso nell’ultimo decennio. L’unico grande assente, nel proliferare di testate — e i tempi potrebbero ormai essere maturi per un’operazione in questo senso — è forse uno spazio destinato esclusivamente al dibattito teorico, in cui le inquietudini, travagli metodologici, interrogativi — al centro delle attuali preoccupazioni degli storici — (alcuni dei quali sono stati qui accennati di sfuggita), possano trovare un’adeguata sede di dibattito. E forse questa iniziativa avviata da “Italia contemporanea” potrebbe costituire una stimolante occasione per un primo confronto in tale prospettiva. Dopo tutto, si tratta di uno dei compiti specifici di comunicazione scientifica da parte di strumenti come quelli costituiti dalle riviste.
Paola Di Cori
“Movimento operaio e socialista”
La redazione di “Movimento operaio e socialista” ha avviato da qualche tempo una riflessione sul suo progetto scientifico, ma anche sulla forma-rivista (strutture, linguaggi, pubblico) e quindi sul mercato. Lo stimolo alla riflessione è venuto principalmente da una verifica e da una constatazione concernente il progetto sulla base del quale si era aggregato oltre dieci anni fa il gruppo che ancor oggi in gran parte ne dirige l’attività, ed era stata avviata la nuova serie della rivista. Quel programma, che in breve consisteva nel contribuire a innovare metodi e prospettive della vecchia storia del movimento operaio in direzione di una più ampia e articolata storia sociale, allargando coraggiosamente il territorio dello storico contem- poraneista, va considerato superato nel senso che il risultato appare largamente acquisito e l’obiettivo non è più, di per sé solo, di- scriminante e caratterizzante. Di qui la necessità di una ridefinizione dei compiti, dell’ambito di interessi, degli obiettivi che, sen-
90 Renato Monteleone, Antonio Gibelli
za rinunciare al senso dell’esperienza passata e alla sua specificità (anzi riflettendo meglio su quanto, anche di implicito e di non compiutamente sviluppato, essa conteneva) ridisegni il profilo della nostra testata e la sua collocazione nel quadro delle riviste di storia contemporanea.
1 L’operazione appare come si vede tut- t’altro che facile, anche perché il panorama delle riviste si è arricchito e complicato, mentre la discussione metodologica si è fatta più articolata intrecciandosi su più versanti disciplinari e coinvolgendo questioni riguardanti lo statuto stesso del sapere storico. Inoltre, se Poriginario termine di riferimento polemico (che era però anche un elemento di identità), ossia la “storia del movimento operaio”, ha perso gran parte del suo significato, il suo abbandono puro e semplice implica il rischio evidente di affiancarsi alle altre riviste del settore (in termini di sostanza e di immagine) senza aggettivi specificativi chiaramente percepibili, anche perché l’ambizione di fondo resta quella di un lavoro storico non segnato da connotazioni specialistiche esclusive (di tema, di metodo o di scuola).
Questa particolare congiuntura interna rende nello stesso tempo più urgente e più complesso il chiarimento sulle questioni direttamente o indirettamente sollevate da “Italia contemporanea”, chiarimento che non ha ancora raggiunto un livello soddisfacente. Ad esempio, il moltiplicarsi delle riviste di storia, e in particolare di storia contemporanea, non si presta a essere inquadrato in una spiegazione univoca: alla base di singole iniziative in corso o preannunciate vi sono di volta in volta tendenze di “scuola”, esigenze di specializzazione tematica su campi che hanno registrato particolari sviluppi (storia urbana, storia sanitaria), espressioni tradizionali di potere accademico, proiezioni di ipotesi politico-partitiche nel campo del lavoro culturale-
storiografico, opzioni di natura squisitamente metodologica e di orientamento ideale e così via. Si può tuttavia avanzare l’ipotesi che nel suo complesso il fenomeno risenta di un nuovo modo di praticare il lavoro storiografico e insieme del peso crescente (ancorché improprio) che sta conoscendo l’uso della storia nei più vari ambiti culturali e professionali. In particolare l’intreccio tra storia e comunicazioni di massa, e il ricorso sempre più frequente da parte degli storici a questi mezzi (televisione, radio e giornali) ha abituato a forme di discorso che per struttura, dimensioni e tempi di elaborazione si avvicinano di più alle caratteristiche dell’articolo che non a quelle classiche del libro. Le riviste diventano così contenitori naturali di questo tipo di interventi, anche se l’insieme delle loro caratteristiche prevalenti è assai lontano da quelle proprie dei media di massa, per cui continuano di fatto a rivolgersi a un pubblico di specialisti.
2 La struttura delle riviste risente almeno in parte di questa loro collocazione ambivalente, almeno nei casi in cui la ristretta circolazione e l’incapacità di toccare un pubblico colto in senso lato (oltre la cerchia dei cultori) vengono sentite come un limite o almeno come un problema. Per quanto riguarda “Movimento operaio e socialista” , c’è stato il tentativo (per la verità più rispondente a considerazioni di natura scientifica e a propensioni di sensibilità storiografica che non a scelte riguardanti il potenziale mercato) di sviluppare temi e angolazioni suscettibili sia di letture interdisciplinari (che costituiscono comunque un’apertura: pensiamo ad esempio al nostro fascicolo su Lingua e fascismo, ma non solo) sia di raccogliere interessi al di fuori degli ambiti professionalmente qualificativi (pensiamo al fascicolo Crimine e follia o a quello recente su Proletari in osteria). L’attenzione a tempi che riguardano la vita quotidiana,
La storia contemporanea attraverso le riviste 91
le forme di sociabilità e di cultura, gli aspetti dell’esperienza vissuta, i mezzi e i modi della comunicazione, ha avuto tra gli altri questo risvolto, ed il riscontro in termini di diffusione è stato positivo.
Nondimeno non siamo mai usciti (né abbiamo in sostanza preteso di farlo, con l’uso di qualche scorciatoia) dall’ambito di una dimensione specialistica. Per quanto riguarda i linguaggi e le strutture espositive, abbiamo cercato di combattere le abitudini pedantesche e tutte le forme, tipicamente accademiche, di ridondanza, ma non siamo andati oltre questo semplice orientamento di stile. Nello stesso senso sono andati la raccomandazione (non sempre rispettata) per pezzi brevi e leggibili, e il ricorso (per la verità ancor troppo timido) all’iconografia quale fonte direttamente incorporata nella struttura del discorso e dell’argomentazione storiografica.
Per quanto riguarda l’articolazione delle rubriche, abbiamo adottato e mantenuto una ripartizione piuttosto tradizionale, comunque giudicata adatta a mostrare meglio il lavoro storiografico nel suo farsi, anziché limitarsi a esibire direttamente i prodotti finiti. Non siamo riusciti tuttavia a raggiungere nella misura auspicata due obiettivi che consideriamo essenziali alla vitalità di una rivista: l’ampiezza e la varietà dell’informazione critica da un lato, la vivacità e la tempestività del dibattito dall’altro. Ad esempio, per quanto riguarda le brevi segnalazioni si sconta sempre più la “concorrenza” del servizio fornito da periodici come “L’indice” o simili: un caso tipico di quella ambiguità di funzione e di quella contiguità con media di massa che caratterizza le riviste come le nostre. Ha finito così per prevalere — oltre ogni intenzione — un impianto monografico per temi che, se ha dato una forte impronta alla nostra presenza editoriale, ha ridotto quella periodicità e agilità del dibattito critico che dovrebbe sorreggere la forma-rivista nella sua specificità.
3 Quanto al mercato, occorre distinguere tra mercato vero e proprio (abbonamenti e vendite) e pubblico dei lettori, come tra mercato privato e pubblico. La risoluzione dei sistemi di riproduzione dei testi (fotocopie) in termini di rapidità, qualità e costi ha tagliato le gambe al mercato vero e proprio, che ha registrato una stasi relativa proprio mentre obiettivi riscontri sembravano indicare un allargamento deciso dei lettori effettivi.Per questo stesso motivo (ed inoltre per la lievitazione dei costi di stampa e il moltiplicarsi delle testate) nel settore degli abbonamenti il mercato si è sviluppato in direzione di istituzioni (biblioteche, istituti universitari) mentre si è contratto in direzione dei privati, con una tendenza che sembra difficile invertire almeno a breve termine.
4 II panorama delle riviste rispecchia in modo abbastanza fedele e esauriente le predominanti tendenze dell’attuale storiografia italiana, tra le quali, peraltro, le linee di demarcazione, specie sotto il profilo metodo- logico, sono oggi molto meno accentuate che nel passato.
Il collegamento con gli indirizzi della storiografia straniera sembra porsi con maggiore evidenza sotto l’aspetto delle problematiche inerenti alla storia sociale — anche in senso critico — dove all’originaria prevalenza di suggestioni francesi si sono venute aggiungendo, o perfino sostituendo, modelli tematici e metodologici di provenienza angloamericana.
In questo campo, il ruolo di una rivista periodica dovrebbe configurarsi come quello di tramite altamente specializzato verso le posizioni storiografiche più avanzate negli altri paesi, strumento di massima circolazione delle idee, organo non solo di registrazione passiva, ma anche di attiva promozione e di coordinamento degli studi storici in sede nazionale.
Renato Monteleone Antonio Gibelli
92 Franco Andreucci, Gabriele Turi
“Passato e presente”
1 Se per “spazio scientifico” della disciplina si intende una dimensione autonoma della contemporaneistica nell’ambito delle discipline storiche, è indubbio che questa è in Italia una acquisizione recente, che ha segnalato, sul piano accademico, la volontà di svecchiare un’ottica italocentrica che faceva perno sulle cattedre di storia del Risorgimento: un tentativo di rinnovamento che resta tuttavia ancora parziale, in assenza, fra l’altro, di significativi contatti culturali della storiografia contemporaneistica — a differenza di quella medievale e di quella moderna — con altre scienze della società.
All’origine di questo faticoso processo di modificazione, di cui la nascita di riviste di storia contemporanea o il riorientamento contemporaneistico di vecchie testate hanno costituito e costituiscono il segnale più evidente e lo strumento propulsivo più efficace, sono comunque, prima ancora di motivazioni scientifiche, i forti impulsi civili della fine degli anni sessanta: l’interesse per la storia contemporanea dei giovani del 1968 e di quanti cercarono di accompagnare con una riflessione sul recente passato quello che si presentava come un periodo di crisi e di sviluppo del paese — significativi sono gli accenti con i quali fu presentato nel 1972 il primo volume della Storia d ’Italia Einaudi — spiegano in larga misura la rinnovata e più ampia rivisitazione scientifica della storia italiana dell’ultimo secolo (non è un caso che le riviste di storia contemporanea sorte allora abbiano concentrato la loro attenzione sul fascismo).
Con tutto ciò, il fenomeno cui assistiamo non è certo privo di ombre — in primo luogo il rischio di un appiattimento sul versante dell’ideologia, nel momento in cui la storia ha accusato una battuta d’arresto come componente della cultura della sinistra italiana — e di limiti. Le vicende nazionali continuano infatti ad esaurire quasi compieta-
mente l’orizzonte tematico degli studiosi italiani, mentre parlare di moltiplicazione delle riviste di storia contemporanea può trarre in inganno sulle fortune della disciplina, ove non si distingua fra quelle poche che hanno un consolidato respiro scientifico e un mercato nazionale, e le tante che, collegate a istituzioni o a enti locali, svolgono — spesso per la prima volta in molte zone del paese — una funzione di salvataggio della memoria storica e di educazione civile. Le energie sono tante, anche al di fuori del mondo universitario — che sta chiudendo ogni prospettiva di lavoro ai giovani storici —, ma troppo frammentate e prive del necessario raccordo, mentre forte permane la chiusura “accademica” verso l’innovazione (“Storia contemporanea” ne è un tipico esempio).
2 “Passato e presente” è nata nel 1982, quando di molti dei problemi di cui si è parlato ci si poteva ormai rendere conto abbastanza facilmente, e ad essi ha cercato di dare una risposta equilibrata, aperta all’innovazione e al tempo stesso tesa a salvaguardare i punti di arrivo della tradizione storiografica che si era richiamata a Gramsci in maniera non liturgica. L’editoriale del primo numero proponeva, con una certa ambizione, un programma di lavoro che i primi dieci fascicoli della rivista hanno già cominciato a realizzare: al mantenimento di una concezione ampia della storia contemporanea, sia dal punto di vista delle tematiche sia da quello della periodizzazione — tratto distintivo, quest’ultimo, rispetto alle altre riviste contemporaneistiche —, si è accompagnata un’attenzione precipua per l’informazione storiografica e per l’intervento critico, nella convinzione che nella situazione attuale della storiografia italiana fosse necessario mettere a confronto, con un atteggiamento aperto e non pregiudiziale, i più significativi orientamenti storiografici offerti dal panorama internazionale. Le rubriche di “Passa-
La storia contemporanea attraverso le riviste 93
to e presente”, concepite in vista di ipotesi di lavoro da “costruire”, e non come mero criterio di classificazione di un materiale ricevuto passivamente, hanno sollecitato alla riflessione e alla discussione un numero assai ampio di studiosi italiani e stranieri, hanno posto l’accento — avviando un incontro fra competenze e linguaggi diversi — sulla funzione dei mass media nella volgarizzazione della storia e sul posto di questa nella cultura contemporanea, ed hanno cercato di scuotere l’atteggiamento di sfiduciata accettazione delle precarie condizioni in cui si trovano molte istituzioni preposte alla ricerca. Tempi più lunghi, e forze ben maggiori di quelle di una rivista, sono tuttavia necessari per orientare gli studi concreti, nelle tematiche come nei metodi, nella direzione indicata nell’editoriale del n. 4 che, senza alcuna pretesa assolutizzante, intendeva suggerire una scala di priorità nel quadro attuale della storiografia.
3 II pubblico dei non specialisti è un obiettivo non raggiungibile, in misura significativa, da parte di una rivista scientifica, che può considerare un successo una diffusione pari a quella di un volume di saggistica. Questo limite è dovuto non tanto alla concorrenza fra le testate — contenuta dal fatto che le riviste di storia, e di storia contemporanea, offrono “prodotti” molto differenziati —, quanto al numero sempre ristretto del pubblico colto interessato all’aggioma- mento e abituato a letture non episodiche, a una rete distributiva inadeguata e intempestiva (dalle librerie alle biblioteche), alla difficoltà, per pubblicazioni in lingua italiana, di raggiungere il mercato estero. In questa situazione, presentandosi come un progetto culturale nuovo e senza supporti istituzionali esterni e in anni difficili per tutta l’editoria, “Passato e presente” si è posta l’obiettivo, che sembra finora raggiunto, di reggersi con le proprie gambe: cercando di valorizzare le funzioni proprie di una rivista — interveni
re, discutere, informare, sollevare problemi — attraverso un numero ampio di rubriche e un’ancora piccola ma significativa innovazione grafica (le fotografie), si è rivolta non solo agli studiosi di professione operanti nell’università e nelle altre istituzioni di ricerca, ma anche al mondo della scuola e ai cittadini colti verso i quali si rivolgono oggi, a livelli diversi e con esiti disuguali, sollecitazioni televisive e iniziative editoriali di alta divulgazione. La trasformazione della rivista da semestrale a quadrimestrale, nel 1985, indica come “Passato e presente” sia riuscita a trovare e a consolidare un proprio spazio fra le riviste italiane di storia.
4 II panorama della cultura storica italiana si riflette abbastanza chiaramente nelle riviste, e in particolare vi si riflettono gruppi, scuole, tendenze in una dimensione orizzontale, a volte addirittura locale piuttosto che non raggruppamenti disciplinari, speciali- smi, collegamenti verticali fra aree del sapere storico. Vi si riflette anche una sfasatura nello sviluppo in relazione con quello di altri paesi. Proprio quando fuori d’Italia History Workshop, Geschichte und Gesell- schaft, riviste specialistiche di storia orale o storia quantitativa promuovevano un rilevante rinnovamento disciplinare, in Italia la storia contemporanea viveva un momento difficile e rischiava un isolamento dal panorama internazionale. Da questo punto di vista, compito di una rivista — fra gli altri — dovrebbe essere quello di tenere viva la curiosità e l’informazione sugli sviluppi internazionali della cultura storica non solo per offrire un servizio all’interno della corporazione degli storici, ma anche con lo scopo di accelerare ed estendere l’informazione verso il più ampio mondo della cultura sollecitando collane editoriali, o anche i massa media, a un rapporto più equilibrato verso la storiografia non italiana: un rapporto curioso e informato, appunto, e non invece —• come spesso capita di vedere — passivo al
94 Guido Quazza
le mode, o immobile in un presuntuoso isolamento.
Franco Andreucci Gabriele Turi
“Rivista di storia contemporanea”
1 L’aumento delle testate nel campo delle riviste di storia contemporanea verificatosi nell’ultimo quindicennio fotografa, per così dire, la situazione culturale, politica e sociale del paese dentro il quadro internazionale. In particolare, “Storia contemporanea” e “Rivista di storia contemporanea”, nate quasi negli stessi mesi e, prima di quelle, numerose altre, sorte negli ultimi otto anni, rappresentarono il delinearsi, nel settore disciplinare, di due concezioni diverse e del lavoro storiografico e dei criteri di valutazione dei problemi e del rapporto tra mondo “accademico” e società, e infine, e più in generale, del compito dello storico nelle battaglie civili, politiche e sociali del proprio tempo. Se per spazio scientifico della disciplina s’intende spazio tecnico, è forse difficile parlare di “allargamento”. Se per spazio scientifico s’intende invece la ricerca del campo su cui puntare per attingere anche nella contemporaneistica quel grado di interdisciplinarità che era già allora in cammino, e con orizzonti internazionali, nei settori medievistico e modernistico, allora la risposta è sì. L’allargamento, fin dall’editoriale del gennaio 1972, era stato individuato dalla Rsc nello sforzo di vedere la storia italiana nelle sue continuità e nelle sue rotture almeno dall’inizio dello Stato unitario e nelle sue implicazioni economiche, sociali e politiche, partendo — e questo parve alla Rsc di fondamentale importanza — dal nodo centrale dello scontro tra fascismo e antifascismo per ripercorrere il cinquantennio precedente e l’allora trentennio seguente. Allargamento, per la Rsc, anche e non me
no, sull’intera storia mondiale (questo certamente facilitato dalla presenza di alcuni tra i maggiori esperti di storia non europea fra i membri della direzione e i collaboratori), ma sempre con l’ottica dei “movimenti di liberazione” dentro e contro le strutture dominanti delle “Potenze”. Allargamento dunque all’interno della storiografia italiana ma in strettissimo e contestuale e continuo riferimento alla storia del mondo.
2 La Rsc ha discusso a lungo, nel proprio interno, se i contenuti, la struttura per rubriche e le scelte editoriali complessive dovessero cambiare col cambiare del panorama generale italiano e internazionale della metà degli anni settanta. Le scelte del 1972 (assunte in realtà prima, nella fase di progettazione, che durò dal 1968-1969 all’intero 1971) corrispondevano a una precisa volontà di restituire libertà alla storiografia contemporaneistica troppo influenzata dalla politica contingente o addirittura asservita ai partiti (non tanto, come si continua a dire, alle ideologie, che nel senso più utilizzabile della parola sono connaturali ad una storiografia che non voglia essere puro servizio al potere o ai gruppi di unilaterale faziosità o alla registrazione dell’esistente secondo le mode più recenti e più effimere). Per questa fondamentale ragione, che ha trovato un’evidente accentuazione nel procedere del paese, dal 1976 in poi, verso una sorta di partitocrazia sempre più invadente ed esclusiva, le scelte della Rsc non sono state nella sostanza mutate. Soltanto i contenuti specifici, a cominciare dai due nodi centrali citati prima, cioè fascismo-antifascismo e movimenti di liberazione nel mondo, sono stati affrontati con contenuti ovviamente via via più variegati, continuando ma anche meglio chiarendo quello sforzo di restituire la libertà alla storiografia iniziato nel ben diverso clima delle “speranze” degli ultimi anni sessanta e dei primi anni settanta. Sono stati più frequenti nell’ultimo de-
La storia contemporanea attraverso le riviste 95
cennio gli assaggi delle sollecitazioni del dibattito metodologico e della ripresa di topoi classici sulla concezione “filosofica” della storia e sul modo (modellistica, nomotetica, narrazione) di costruire e scrivere opere storiografiche: ma con la ferma convinzione che ogni punto di vista ha diritto di essere capito a fondo, prima di essere vagliato. In questo ambito, dunque, la Rsc ha mantenuto il suo carattere di libera e aperta espressione di studiosi accomunati soprattutto dal desiderio di contribuire a favorire lo sviluppo del rapporto tra Stato e società verso una più profonda ma anche più agile condizione di più effettiva autonomia del singolo dentro una più effettiva autonomia dei movimenti, in un raffronto continuo con istituzioni meno lontane da questo obiettivo.
3 II problema del mercato era stato posto alPinizio, con molta chiarezza e con altrettanta consapevolezza, come problema di allargamento dei lettori dal campo degli specialisti a quello dei politici, dei sindacalisti, dei militanti nei “movimenti”, degli insegnanti e degli studenti. Già da parte dei promotori della Rsc la scelta dell’editore, il quale ha lasciato sempre la più larga libertà al Comitato direttivo, era stata “mirata”, era stata cioè fatta in vista di questo scopo. Per un quinquennio circa il successo di abbonamenti e di vendite fu molto largo, certo il più largo fra le riviste scientifiche di storia contemporanea e, più in generale, di storia. Poi la curva si è abbassata, seguendo con significativa somiglianza l’andamento dell’interesse “di massa” per la storia. L’affinarsi della pratica interdisciplinare dentro la Rsc e l’estendersi, per opera dei suoi dirigenti, delle sperimentazioni verso gli strumenti documentari e i riferimenti metodologici (storia orale, spettacolo, fotografia, antropologia, psicologia sociale e, meno, letteratura) non sono stati sufficienti a fronteggiare un fenomeno che era e resta generale, ben più largo del campo storiografico. Perciò la Rsc non
ha sopravvalutato il crescere delle riviste contemporaneistiche, in gran parte limitate a campi ristretti o ispirate a impulsi locali (anche se, spesso, utilissimi a svegliare nuovi interessi di ricerca e a mobilitare e nobilitare la passione per la conoscenza del passato come elemento centrale del conoscere per fare nel presente). L’orizzonte globale (sottolineo “globale”) era ed è rimasto essenziale per la visione dei problemi e delle soluzioni, per la percezione della funzione di essa di fronte alla società, alla politica e alla cultura.
Per questa ragione, essendosi ristretto, anche numericamente, il mercato dei lettori politici e sindacalisti (rimasto peraltro esteso sia nel Centro sia nel Sud), l’attenzione è andata con maggiore impegno al mercato dei cultori di altre discipline (seppure con fermo ancoraggio alle esigenze della disciplina) e si è mantenuta costante e più articolata nel mondo della scuola, dichiarata prioritaria fin dal primo numero. La didattica come strumento di collegamento con la ricerca e di traduzione compiuta di tecniche di insegnamento e di apprendimento della ricerca è stata ancor più nel centro delle preoccupazioni e dei progetti, se non sempre del “prodotto finito” . È tuttavia convinzione della Rsc che il mercato non deve essere allettato con forzature al consenso. Una rivista, e specialmente di storia contemporanea, deve offrire una linea di suggestioni sociali, politiche, etico-sociali coerente e di lunga durata, scegliendo temi e indicazioni che di volta in volta corrispondano allo svilupparsi della linea medesima. Continuità, novità, eventuali rotture debbono essere segnate serbando fedeltà a un’ispirazione originaria, quella che alla Rsc non sembra abbia perduto di giustezza, sebbene non sempre trovi realizzazioni adeguate. Con la consapevolezza che il passaggio dalla serietà scientifica alla divulgazione è pericoloso, e che il confine non deve essere superato verso la seconda se la prima si corrompe, anche per poco. Con
96 Guido Quazza
l’attenzione a un linguaggio che eviti lo stucchevole specialismo, peggio, l’inaccettabile tecnicismo, del quale soffrono per la verità più altre discipline, ma anche la storiografia. E con la cura di evitare quella che, per questo aspetto, è la reale situazione media dei prodotti storico-contemporaneistici, cioè la prolissità congiunta al sovraccarico della documentazione straripante e non selezionata, vera e propria tabe d’un filologismo cro- nistico e diarroico che non riesce a farsi filologia, quella filologia rigorosa della quale hanno bisogno l’individuazione dei problemi e l’interpretazione concettualmente fondata, entrambe perspicuamente sorrette dalla più ampia sensibilità umana possibile. Pietas e finesse, insomma, come armi nella lotta quotidiana dello studioso col documento e col tema.
4 Da quanto fin qui detto già appare l’opinione della Rsc suO’immagine, che le riviste del settore offrono, degli orientamenti prevalenti in Italia. Fotografia fedele del crescere — anche povero di novità o addirittura pieno di desideri e velleità — di ritorni a un passato che sembrava sepolto. Negli ultimi anni, minore propensione (diversamente che nei mass-media e nella produzione di libri) per le sudditanze partitiche e maggiore cedimento alle ambizioni dei piccoli gruppi dell’ “accademia” (accademia più che scuola: magari
fosse!). Specchio, cioè, diretto della frantumazione degli indirizzi e dei prodotti storiografici per opera del clima privatistico, letale per l’entusiasmo pubblico degli anni sessanta e settanta. Quanto al rapporto con le storiografie straniere, la Rsc ha segnalato e “sente” in alcuni storici italiani il riemergere di punte di un vecchio crocianesimo privo della geniale umanità del grande vecchio, l’esplodere di gelosie un poco penose se non addirittura ridicole verso le grandi spinte francesi (invece di una rigorosa capacità di accogliere quanto di utile da esse sia venuto e venga per un humus storiografico incomparabilmente più ricco e fecondo, ma in piena autonomia di orientamenti generali), l’inseguire quasi sempre affannoso delle ultime (nel senso di più recenti) formule (così si dovrebbero chiamare) dettate dalla storiografia inglese e americana. Queste sono altre ragioni, oltre quelle ricordate nei punti 1, 2 e 3, per le quali la Rsc ha molto puntato sulla circolazione “internazionale” ma cercando sempre di scegliere problemi precisi (come, per limitarsi all’anno in corso, quello della “rappresentanza”, del quale si sono voluti cogliere riferimenti che il passato otto-novecentesco offre all’attuale delicata e decisiva fase di transizione attraversata dallo stato dei partiti e dei potentati economici).
Guido Quazza
LA STORIA INSEGNATAProblem i proposte esperienze
L. Benigno, A. Brusa, G. DAgostino, A. Delmonaco, F. Farinasso, S. Guarracino, M. Gusso, I. Mattozzi, P. Paimeri, G. Perona,
G. Puppini, T. Sala.
Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, Milano, 1986