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Note e discussioni L’antisemitismo nella cultura della destra radicale di Maria Teresa Pichetto È diffusa l’opinione che l’antisemitismo in Italia non abbia mai avuto radici profonde e che non sia mai arrivato in Italia a toccare la coscienza popolare. Nemmeno la persecu- zione razziale voluta dal fascismo potè in- fluenzare in modo significativo la sostanzia- le impermeabilità delhopinione pubblica del nostro paese a quel tipo di messaggio politi- co-ideologico; e anzi i provvedimenti fascisti furono fortemente avversati e assai spesso vanificati dalla solidarietà mostrata da ampi strati della popolazione nei confronti degli ebrei. Pur tuttavia il pericolo dell’antisemitismo sembra riaffacciarsi di quando in quando at- traverso il pensiero e l’attività di certe fran- ge della destra radicale e persino, a guardar bene in trasparenza, di quella parte della de- stra che si qualifica “moderata”, nel rispetto apparente delle regole democratiche, e che ufficialmente scinde le proprie responsabili- tà da qualsiasi atteggiamento indulgente ver- so le persecuzioni razziali o gli episodi recen- ti di antisemitismo. Sul piano strettamente politico, la componente dell’antisemitismo viene infatti celata o taciuta dalla destra par- lamentare (Msi) mentre costituisce uno degli elementi di punta di tutte le organizzazioni della destra extraparlamentare, da Ordi- ne Nuovo ad Avanguardia Nazionale, alle Squadre d’azione Mussolini, al Fronte na- zionale, ecc.; ma il diverso atteggiamento deriva dalla diversa tattica nel perseguire il disegno mirante a sovvertire il sistema de- mocratico. La mia ricerca si propone dunque di parti- re da una rapida analisi di fatti e segnali an- tisemitici, per poi risalire dai fatti stessi alla loro possibile matrice culturale e ideologica. Una prima significativa ripresa di propa- ganda e di attività antisemita in Italia è data- bile agli ultimi anni cinquanta, ad opera di gruppuscoli tutti più o meno direttamente legati al Msi. Senza che si possa configurare un disegno preciso ed organico, deve tutta- via essere citata una serie di episodi che spa- ziano dalla provocazione verbale o scritta fi- no al vero e proprio fatto criminoso e all’at- tentato1. Nel 1958 viene organizzata a Roma una marcia antisemita. Nel 1960 il quartiere ebraico della capitale è teatro di aggressioni e atti di violenza. Adolf Eichmann, proces- sato in Israele per il ruolo centrale da lui so- stenuto nella “soluzione finale del problema ebraico”, trova in Italia voci solidali che tendono a minimizzare i suoi delitti e a con- siderare il processo stesso come ingiusto e “montato” dagli ebrei. Qua e là nel Paese svastiche e simboli vari della destra radicale 1 Cfr. Angelo Del Boca, Mario Giovana, I figli del Sole", Milano, Feltrinelli, 1965 e D. Eiseraberg, Fascistes et nazis d ’aujourd’hui, Paris, 1963. “Italia contemporanea”, dicembre 1986, n. 165

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Note e discussioni

L’antisemitismo nella cultura della destra radicaledi Maria Teresa Pichetto

È diffusa l’opinione che l’antisemitismo in Italia non abbia mai avuto radici profonde e che non sia mai arrivato in Italia a toccare la coscienza popolare. Nemmeno la persecu­zione razziale voluta dal fascismo potè in­fluenzare in modo significativo la sostanzia­le impermeabilità delhopinione pubblica del nostro paese a quel tipo di messaggio politi­co-ideologico; e anzi i provvedimenti fascisti furono fortemente avversati e assai spesso vanificati dalla solidarietà mostrata da ampi strati della popolazione nei confronti degli ebrei.

Pur tuttavia il pericolo dell’antisemitismo sembra riaffacciarsi di quando in quando at­traverso il pensiero e l’attività di certe fran­ge della destra radicale e persino, a guardar bene in trasparenza, di quella parte della de­stra che si qualifica “moderata” , nel rispetto apparente delle regole democratiche, e che ufficialmente scinde le proprie responsabili­tà da qualsiasi atteggiamento indulgente ver­so le persecuzioni razziali o gli episodi recen­ti di antisemitismo. Sul piano strettamente politico, la componente dell’antisemitismo viene infatti celata o taciuta dalla destra par­lamentare (Msi) mentre costituisce uno degli elementi di punta di tutte le organizzazioni della destra extraparlamentare, da Ordi­ne Nuovo ad Avanguardia Nazionale, alle

Squadre d’azione Mussolini, al Fronte na­zionale, ecc.; ma il diverso atteggiamento deriva dalla diversa tattica nel perseguire il disegno mirante a sovvertire il sistema de­mocratico.

La mia ricerca si propone dunque di parti­re da una rapida analisi di fatti e segnali an­tisemitici, per poi risalire dai fatti stessi alla loro possibile matrice culturale e ideologica.

Una prima significativa ripresa di propa­ganda e di attività antisemita in Italia è data­bile agli ultimi anni cinquanta, ad opera di gruppuscoli tutti più o meno direttamente legati al Msi. Senza che si possa configurare un disegno preciso ed organico, deve tutta­via essere citata una serie di episodi che spa­ziano dalla provocazione verbale o scritta fi­no al vero e proprio fatto criminoso e all’at­tentato1.

Nel 1958 viene organizzata a Roma una marcia antisemita. Nel 1960 il quartiere ebraico della capitale è teatro di aggressioni e atti di violenza. Adolf Eichmann, proces­sato in Israele per il ruolo centrale da lui so­stenuto nella “soluzione finale del problema ebraico”, trova in Italia voci solidali che tendono a minimizzare i suoi delitti e a con­siderare il processo stesso come ingiusto e “montato” dagli ebrei. Qua e là nel Paese svastiche e simboli vari della destra radicale

1 Cfr. Angelo Del Boca, Mario Giovana, I figli del “Sole", Milano, Feltrinelli, 1965 e D. Eiseraberg, Fascistes et nazis d ’aujourd’hui, Paris, 1963.

“Italia contemporanea”, dicembre 1986, n. 165

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(Sam, Giovane Italia, Ordine Nuovo) im­brattano le sinagoghe e i cimiteri ebraici, do­ve appaiono scritte come “Ebrei ai forni” e “Hitler aveva ragione” . Vi è un forte au­mento di atti di intolleranza razzista nel­l’ambito di molte scuole romane; squadre fasciste armate di catene e bastoni aggredi­scono giovani di opposte opinioni e lasciano sul terreno delle aggressioni volantini con scritte razziste, come ad esempio: “Dachau e Buchenwald sono le tappe della nostra cul­tura” .

Fenomeni di questo tipo si intensificano tra il 1962 e il 1972, tanto da indurre Alfon­so di Nola a pubblicare una documentazio­ne2, raccolta da lui e da un gruppo di studio­si. Vi sono riportati 351 episodi di antisemi­tismo: scopo del lavoro, scrive Di Nola, è portare “un contributo al chiarimento di fe­nomeni di involuzione ideologico-politica che, nel colpire la minoranza ebraica, inci­dono più generalmente sulla dignità civile di tutti gli italiani” .

Nella dinamica del rinascente antisemi­tismo, l’anno 1962 assume particolari signi­ficati. È l’anno in cui si concludono i lavo­ri preparatori del Concilio Ecumenico Vati­cano II, aperto ufficialmente I’l l ottobre. La grande assise cattolica si appresta a ri­muovere dalle radici secolari pregiudizi di ordine religioso, che non poco hanno influi­to nel tempo sulla polemica antiebraica. Ma questo positivo cambiamento dell’atteggia­mento della chiesa cattolica nei confronti degli ebrei suscita violente reazioni nella destra radicale e la loro carica di antisemi­tismo influirà su tutto il decennio succes­sivo.

È del 1962, appunto, l’inizio della campa­gna antisemitica e antisionistica di un perso­naggio di spicco dalle destra radicale, Fran­co Freda, con l’opuscolo Gruppo di AR, ap­parso anonimo a Padova ma con prefazione

firmata da Freda stesso. Confluiscono in es­so, tramite fonti come Evola e Rassinier, dei quali parleremo più avanti, alcuni dei più in­sistiti luoghi comuni antiebraici: l’aggressio­ne ebrea in Palestina; la “menzogna” sul ge­nocidio nazista ai danni degli ebrei durante la seconda guerra mondiale; la “repulsione quasi fisica... per tutto quello che dicono i figli di Sion”; il ritratto dell’ebreo come de­tentore del potere politico attraverso il pote­re economico; la corruzione della stampa ad opera degli ebrei.

La curva del fenomeno ha un andamento ascendente fino agli inizi degli anni settanta, quando si assiste anche alla nascita di molte case editrici e librerie specializzate nel dif­fondere libri e opuscoli antisemitici, fra i quali spiccano le ristampe dei libri di Evola sul razzismo e i famigerati Protocolli dei Sa­vi Anziani di Sion.

Sul piano dell’azione concreta si registra­no punte di particolare intensità nei primi mesi del 1973. Nel gennaio di quell’anno scritte naziste compaiono a Roma e a Trieste in coincidenza con le udienze del processo Freda per la strage di piazza Fontana a Mi­lano; a Lecco estremisti di Avanguardia Na­zionale organizzano manifestazioni di piaz­za con slogans antisemitici; a fine febbraio 112 lapidi del cimitero israelitico di Saluzzo vengono divelte e spezzate; a marzo sono profanate una cinquantina di tombe ad Ac­qui Terme; il 28 aprile a Perugia compaio­no, sui muri di abitazioni e negozi di ebrei, scritte che inneggiano al fascismo e al nazi­smo, svastiche e insulti.

È una mappa piuttosto estesa e preoccu­pante. Come osserva Di Nola, il riemergere di stimoli antisemitici non può essere isolato dal contesto storico più articolato e com­plesso, perché essi rivelano “un male più ra­dicale ed oscuro della vita nazionale” e una crisi di tutti gli equilibri della società demo-

Alfonso Di Nola, Antisemitismo in Italia (1962-1972), Firenze, Vallecchi, 1973.2

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cratica. Sono infatti di quegli anni tentativi di destabilizzazione come la strage di piazza Fontana a Milano (1969), il fallito golpe di Valerio Borghese a Roma (1970), i fatti di Reggio Calabria manipolati dai neofascisti (1970), le stragi di Brescia e del treno Itali- cus (1974). I fenomeni tendono poi ad atte­nuarsi man mano verso gli anni ottanta, ma non scompaiono mai del tutto3; si rafforza, anzi, una corrente antisionistica, per cui di­viene un nuovo motivo antisemitico il prin­cipio sovente proclamato del non-diritto de­gli ebrei ad avere una loro patria. Infatti quell’antisemitismo che nella sua forma raz­ziale, sociale o religiosa era stato, negli ulti­mi trent’anni, rifiutato da quasi tutti i paesi del mondo, riaffiora oggi con sempre mag­gior frequenza sotto le spoglie dell’antisio- nismo.

Si tratta quindi di ricercare i filoni, le linee ideologico-culturali attraverso le quali l’an­tisemitismo, pur così estraneo — come si è detto — alla coscienza popolare italiana, ha potuto ritrovare forza e consenso presso cer­ti strati minoritari ma non per questo meno inquieti e pericolosi. Pur nella difficoltà di

delineare una sommaria mappa ideologica della destra radicale, che “costituisce una galassia variegata e composita di gruppi che si formano, dissolvono e ricostituiscono”4, sono tuttavia individuabili alcuni topoi ab­bastanza generalmente diffusi.“La radice comune è costituita dalle dottrine di Julius Evola, il cui pensiero ha una fun­zione fondamentale nell’aggregazione della destra radicale, e soprattutto dalla sua teoria del razzismo “spirituale”5.

È opportuna, su questo aspetto particola­re dell’antisemitismo, una chiarificazione, perché la distinzione tra il carattere “spiri­tualistico” del razzismo di Evola da quello biologico del nazismo fu sempre usata dai neofascisti come alibi per sminuire la carat­terizzazione antisemitica delle loro tesi e co­me lasciapassare “scientifico” dei vari edito­ri e diffusori dei libri di Evola. Non bisogna però dimenticare che fin dal 1937, quando si scatenò la polemica antiebraica con la pub­blicazione del libro di Paolo Orano Gli ebrei in Italia, sorse il problema di conciliare, nel­le teorie italiane della razza, le contradditto­rie concezioni del materialismo biologico e dell’idealismo spiritualistico.

3 A. Di Nola, Antisemitismo come, oggi, in “Il Ponte”, XXXIV, n. 2, 1978, pp. 1489-1497, e J. Mahor, L ’antisio- nisme, “Revue française de Science Politique”, 1984, avril.4 Franco Ferraresi, La destra radicale in Italia: forme ideologiche e esperienze organzzative, in Nuova destra e cul­tura reazionaria negli anni ottanta”, Atti del Convegno, Cuneo, 19-20 novembre 1982, p. 251; fra i numerosi studi sull’argomento cfr. P. Rosenbaum, Il nuovo fascismo. Da Salò ad Almirante, Milano, Feltrinelli, 1975; Giorgio Galli, La Destra in Italia, Milano, Gammalibri, 1983 e La Destra radicale, a cura di F. Ferraresi, Milano, Feltrinel­li, 1984. Per la dimensione internazionale del fenomeno cfr. A. De Benoist, Vista da destra, Napoli, Akropolis, 1981 e J. Nancini, Il pensiero negativo e la nuova destra, Milano, Mondadori, 1983.5 Julius Evola (1898-1974) fu autore di numerosissimi articoli e saggi; collaboré al “Regime fascista” di Farinacci, a “La Vita Italiana” di Preziosi e a “La difesa della razza” di Interlandi e a numerose altre riviste. I principali scritti evoliani sul razzismo sono: Tre aspetti del problema ebraico, nel mondo spirituale, nel mondo culturale, nel mondo economico-sociale, Roma, Ed. Mediterranee, 1936 (rist. AR, 1978); Il mito del sangue, Milano, Floepli, 1937 (rist. AR 1978); Sintesi di dottrina della razza, Milano, Hoepli, 1937 (rist. AR, 1977); Indirizzi per un ’educazione razzia­le, Napoli, Conte, 1941 (rist. AR, 1979); La civiltà occidentale e l ’intelligenza ebraica, in Gli ebrei hanno voluto la guerra Firenze, Vallecchi, 1942. Fra i molti studi su Evola da parte della Destra radicale cfr. Philip Baillet, Julius Evola e l ’affermazione assoluta, Padova AR, 1978 (trae origine da una conferenza tenuta a Parigi nell’aprile 1975 per inaugurare l’attività del Centre d’études doctrinales Evola) e Adriano Romualdi, J. Evola, l'uomo e l ’opera, Roma, Ed. Giovanni Volpe, 1971. Animata da Paolo Andriani, la Fondazione Julius Evola a Roma si propone di “difendere i valori di una cultura conforme alla tradizione” e pubblica i “Quaderni” che riprendono suoi brevi scritti; a Genova il Centro studi evoliani pubblica la rivista “Arthos” dedicata all’analisi del suo pensiero.

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Il libro di Orano, pubblicato a Roma nel­l’aprile del 1937, fu scritto, sostenne qualcu­no, per suggerimento di Mussolini allo scopo di saggiare le reazioni del popolo italiano al nuovo orientamento antiebraico, dovuto al riavvicinamento tra Roma e Berlino, e pre­parare il terreno alla legislazione antisemita del 1938. Il libro fu scherzosamente chiama­to “la bomba Orano”, sia perché inaspetta­to, sia per la larga risonanza e per le ampie recensioni che tutta la stampa gli dedicò. Egli giustificò questa sua improvvisa presa di po­sizione antisemita con i soliti luoghi comuni come l’ostentata penetrazione degli ebrei nel­la vita politica, le loro dottrine sovversive, la loro pretesa di dominio. L’anno successivo, poi, chiarì meglio il motivo della lotta antie­braica nell’Introduzione a una serie di scritti di Gayda, Pini, Rosemberg e altri, raccolti nel libro Inchiesta sulla razza (Roma, Pincia- na, 1938), ricercandolo essenzialmente negli scopi del sionismo, da lui considerato una degenerazione dell’ebraismo e una organiz­zazione incompatibile con i sentimenti di sin­cera lealtà dei cittadini di religione ebraica nei confronti della nazione italiana.

Nel corso del 1937 si ebbero numerose al­tre pubblicazioni che non si limitavano, co­me il libro di Orano, a trattare la questione ebraica dal punto di vista politico-sociale, ma prendevano in esame il vero e proprio problema della razza.

Lo spostarsi della polemica dall’antisemi­tismo ad un razzismo più spirituale che bio­logico traeva origine sia dalla necessità di ri­vendicare un minimo di autonomia e di ori­ginalità rispetto al razzismo nazista sia dal timore di Mussolini che un’azione ostile di­retta solo contro gli ebrei fosse difficilmente

accettabile per il popolo italiano: egli preferì quindi presentarla sotto una veste più imper­sonale che coinvolgeva gli ebrei in un conte­sto più ampio. Così, se da un lato vi erano i teorizzatori del razzismo in chiave biologica, come Cogni e Landra6, i quali, in linea con le dottrine naziste, sostenevano che la razza, cioè l’elemento indispensabile per la creazio­ne dei valori superiori della civiltà, dipendeva in primo luogo dal sangue, dall’altro lato Ju­lius Evola enunciava una teoria razzista origi­nale italiana fondata su basi spiritualistiche.

Contro un razzismo “volgare”, non scien­tifico, fondato su concezioni anche biologi­camente errate, Evola afferma il principio che la dottrina della razza, idea spiritual- mente e culturalmente rivoluzionaria, deve partire da una concezione totalitaria dell’uo­mo, inteso come veicolo e mezzo espressivo di forze, di principi superiori e nel cui spirito ha sede la razza, che possiede quindi un’esi­stenza nel mondo interiore prima di manife­starsi nel mondo esteriore. La razza è una forza profonda che si manifesta sia nell’am­bito corporeo (razza del corpo), sia nell’am­bito animico-spirituale (razza interna, razza dello spirito); quest’ultima è definita come un’energia formatrice, una visione del mon­do, un modo di essere di fronte alla realtà che qualifica i comportamenti e le scelte. Da questa concezione deriva che, indipendente­mente dalle radici fisico-antropologiche, gli aggettivi “semita” e “cristiano” definisco­no un’unica categoria che ha come caratteri­stiche comuni mercantilismo, debolezza, femminilità, pietà religiosa, vigliaccheria. Questa categoria è all’origine di tutti i mali presenti, perché ha determinato la crisi del­l’altra, diametralmente opposta e positiva,

6 G. Cogni, Il razzismo, Milano, Bocca, 1936 e I valori della stirpe italiana, Milano, Bocca, 1937; Piccola biblio­grafia razziale, a cura di G. Cogni e G. Landra, Roma, Casa ed. Ulpiano, 1939. Di Landra cfr. anche Scienza razza e scientismo, in “La Vita italiana”, LXI, 1943, febbraio, pp. 151-153 (in polemica con un articolo di Evola dallo stesso titolo uscito nel numero di dicembre 1942, pp. 556-563) e Razzismo biologico e scientismo. Per la scienza e contro i malinconici assertori di un nebuloso spiritualismo, in “La Difesa della razza”, V, 5 novembre 1942.

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quella della razza spirituale “aria, olimpica, settentrionale”, crisi che ha portato alla ci­viltà moderna, quella che si esprime oggi nella democrazia e nella libertà.

L’impegno politico dei nazifascisti attuali consiste quindi nell’arginare e nel cancellare la razza “semitica” , cristiana o ebraica che essa sia, per preparare la risurrezione della razza spirituale “aria o olimpica” . Questo programma risulta evidente nello “schema costituzionale per uno Stato”, pubblicato da Ordine Nuovo nel dicembre 1970 dove si legge fra l’altro: “In una concezione del mondo veduto come ordine, le differenze razziali hanno una rilevanza positiva. La forma interna della nostra cultura, dall’anti­chità greco-romana al medioevo germanico è in connessione diretta con la razza ariana” (p. 119).

In tutto il complesso panorama dei grup­pi, gruppuscoli e movimenti di varia struttu­ra e finalità un altro elemento unificante è dato dalla totale irrilevanza della cosiddetta “cultura fascista”, intesa come possibile ere­dità o continuità di pensiero derivata dal re­gime. Il fascismo è presente quasi soltanto come “nostalgia”, soprattutto come nostal­gia di potere, di un momento in cui la rivo­luzione fascista era riuscita a permeare le istituzioni, meglio ancora a farsi istituzione essa stessa. Ma Julius Evola riconosce che la cultura fascista non ha lasciato “nulla, ma proprio nulla” dietro di sé7.

Anche uno dei miti più qualificanti del fa­scismo, la romanità, viene da Evola sottopo­sto ad una critica severa, per aver voluto la cultura fascista contaminare l’etica della Ro­ma arcaica, espressione di un mondo eroico, di virile austerità e fermezza, con l’etica cri­stiana. Il mito della romanità svolge nel si­stema di Evola, già a partire dal primo testo politico, Imperialismo pagano del 1928, una funzione importante, viene poi ulteriormen­

te accentuata attraverso una più complessa organizzazione teorica nel 1934 in Rivolta contro il mondo moderno.

Nel primo testo citato, il cristianesimo è definito da Evola ‘Tanti-impero, l’analogo della rivoluzione francese di ieri, del bolsce­vismo e del comuniSmo oggi...; in esso tutto è incompatibile e contraddittorio con gli ideali, con la morale, con la visione del mondo e dell’uomo che può condurre una razza alla resurrezione dell’Impero... La razza latina rinnegherà aspramente ogni di­scendenza da questa cosa oscura, che dai bassifondi ebraici di Palestina è venuta a contaminarla”. Al di là di queste critiche, del resto, il mito della romanità è sprofon­dato nel ridicolo della retorica di regime.

Né, d’altro canto, può fare ancor presa oggi, se non in sparute frange oltranziste, il mito del combattentismo ad oltranza, deri­vato soprattutto dalla truce vicenda di Salò: lo sfascio vergognoso della Repubblica so­ciale, la fuga da Milano, tutt’altro che eroi­ca, della maggior parte dei gerarchi, non può essere certo oggetto di esaltazioni eroi­che. Manca anche quasi del tutto, tra i rife­rimenti culturali della destra radicale, il pen­siero di uomini che ebbero nella “cultura fa­scista” un ruolo importante, da Gentile a Rocco e Bottai, da F.T. Marinetti a D’An­nunzio. Restano echi di Prezzolini, di Soffi­ci, di Papini, naturalmente di Mussolini e di un marginale come Carlo Costamagna per la sua “teoria organica” dello Stato, ma non si può affermare che contribuiscano in qualche modo ad offrire idee-forza, nuclei di aggre­gazione e di elaborazione culturale.

Nel deserto ideologico lasciato dal fascismo, non deve dunque sorprendere che i miti at­torno ai quali la destra radicale tenta di or­ganizzare una propria visione del mondo, una propria capacità di convinzione e di

7 Julius Evola, Il cammino del Cinabro, Milano, Scheiwiller, 1963.

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proselitismo, siano piuttosto quelli che han­no radice nel nazionalsocialismo tedesco. In­tendo soprattutto far riferimento ai valori dell’etica guerriera, della disciplina, della mistica del dovere spinta ai limiti della sper­sonalizzazione, rintracciabili nel patrimonio mitologico nordico e più in generale ario, e di lì rozzamente filtrati nell’ideologia nazista e nelle istituzioni da essa prodotte, dalla Wehrmacht alla Hitlerjugend fino ai corpi di élite delle SS.

Nel pensiero di Evola confluiscono poi altri elementi come la concezione islamica della duplice guerra, la “piccola”, quella materiale, condotta contro il nemico o l’in­fedele, e la “grande guerra santa”, di ordine spirituale o interiore, condotta dall’elemen­to sovraumano dell’uomo contro gli istinti e le passioni; e ancora la mistica guerriera e la vita eroica della mitologia ariana. Nello scritto del 1940, La dottrina aria di lotta e di vittoria8, e in altri articoli, emerge l’esalta­zione dell’uomo-guerriero, per il quale l’a­zione ha già in sé un suo valore spirituale, al di là dei fini pratici che con l’azione si vo­gliono di volta in volta conseguire, contrap­posto all’uomo-mercante, al borghese la cui principale preoccupazione è il benessere. Se­condo Evola, l’uomo-guerriero è l’uomo ve­ramente “nuovo”, in cui si incarnano e si rinnovano continuamente i valori ideali del­la tradizione; l’uomo-mercante è tipico del mondo moderno, della sua decadenza, del suo materialismo.

Questo tipo di visione del mondo e della

vita contiene una sua profonda vena di raz­zismo che, oggi più o meno abilmente ma­scherata, risulta invece chiara nelle elabora­zioni ideologiche del fascismo. Basta, a questo proposito, consultare con qualche attenzione la rivista “La Difesa della raz­za” , per trovare un esplicito parallelo: razza eletta è quella guerriera, mentre proprio de­gli ebrei è il pacifismo borghese mercantili­stico. “Il più alto strumento di risveglio in­terno della razza”, scrive ad esempio Evola, “è la lotta, e la guerra la sua più alta espres­sione. Che il pacifismo e Tumanitarismo siano fenomeni solidali all’internazionali­smo, alla democrazia, al cosmopolitismo e al liberalismo, è cosa affatto logica. La vo­lontà di livellamento subrazziale insita nel­l’internazionalismo trova nell’umanitarismo pacifista il suo alleato”9. Ancora più esplici­tamente, per altri autori, espressione di que­sto internazionalismo e pacifismo è la bor­ghesia cosmopolita, gente senza razza, do­minata nel suo più profondo nucleo dagli ebrei, i quali, anche nei casi di peggior ne­cessità, non combattono. Infatti la guer­ra “è qualche cosa di assolutamente antiteti­co allo spirito ebraico... Anche quando l’e­breo impugna le armi, non lotta mai con quello scopo che spinge in guerra gli indivi­dui di un’altra razza, in quanto i giudei non cercano altra libertà se non quella dei loro commerci”10. In questa direzione molti sono gli antecedenti filosofico-letterari, da Jùn- ger a Pound, da Drieu La Rochelle a Cé­line.

8 J. Evola, La dottrina aria di lotta e di vittoria, Padova, AR, 1970 (e 1977) con introduzione di F. Freda (testo di una conferenza tenuta nella sezione di Scienza della Civiltà del Kaiser Wilhelm Institut a Roma nel 1940 e pubblica­ta a Vienna nel 1941); sullo stesso tema cfr. anche Metafisica della guerra, in “Diorama filosofico”, maggio-agosto 1935, riedito a cura di Mario Tarchi nel 1974.9 J. Evola, La razza e la guerra, in “La Difesa della razza”, II, n. 24, 1939 e inoltre: Psicologia criminale ebraica, II, n. 18, 1939; Gli ebrei e la matematica, III, n. 8, 1940 (entrambi da Sentinella d’Italia, 1976 e 1978); Mistica della razza in Roma antica, III, n. 14, 1940; La gloria della gente aria, III, n. 15, 1940; Le razze e il mito delle origini di Roma, IV, n. 16, 1941 (Sentinella d’Italia, 1977); Il triplice volto del razzismo, IV, n. 20, 1941; La razza e i capi, IV, n. 24, 1941.10 G. Pensabene, La borghesia e la razza, in “La Difesa della razza”, I, n. 1, agosto 1938; G. Cogni, Una gente senza eroi-, C.M., Un popolo senza eserciti e E. Canevari, Gli ebrei e la guerra, ivi, II, n. 1, 1938.

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Il mito della vita guerriera, dall’ascesi eroi­ca orienta poi altre scelte di riferimento del radicalismo d’oggi: come gli antichi ordini cavallereschi e, per venire a tempi più recenti, certe forme di fascismo atipiche e singolari, dalla Falange di José Antonio Primo de Ri ve­ra alla Guardia di Ferro o Legione dell’Ar­cangelo Michele, movimento agrario parami­litare, ferocemente antisemita, organizzato in comunità militante e combattente. Il suo ca­po, il romeno C. Codreanu, in un colloquio con Evola nel 1938, ne sottolinea l’impronta fortemente mistica e addirittura iniziatica, diversificandosi così sia dal fascismo sia dal nazionalsocialismo. Sacrificio, preghiera, vi­ta monastico-guerriera, politica come ascesi erano le parole d’ordine di Codreanu, da Evola definito “una delle figure più limpide e idealistiche dei movimenti nazionali”11.

Non tragga in inganno, qui e altrove, l’u­so della parola “nazionale”: il nazionalismo è infatti, per la destra radicale contempora­nea, fra le idee da rifiutare, insieme con l’e­gualitarismo, il comuniSmo e la democrazia. È proprio Evola a respingere con decisione il binomio nazione-popolo, nato dai principi della Rivoluzione francese e dai movimenti rivoluzionari in essi radicati (e, ovviamente, “fomentati dagli ebrei”). Risalendo attra­verso i secoli, Evola sottolinea come il na­zionalismo abbia avuto sempre effetti di­sgregatori: l’emergere delle monarchie na­zionali minò le fondamenta della civiltà feu- dale-imperiale, causando il declino dell’idea classica di “imperium” che in essa trovava pratica realizzazione.

L’esaltazione del Medioevo ghibellino, del Sacro romano impero in cui si fondevano armonicamente due tradizioni, la romana e

la germanica, rientra, nel pensiero di Evola, nella polemica contro una storiografia “pa­triottarda” di matrice liberal-massonica, tut­ta tesa ad attribuire caratteristiche original­mente nazionali agli aspetti, secondo lui, più contraddittori e problematici della storia ita­liana recente, dal Risorgimento alla Resi­stenza e alla Liberazione11 12.

Con violenza ancora maggiore Evola at­tacca il concetto di popolo contrapponendo ad esso quello di “razza”, quest’ultima inte­sa come élite. In sostanza, secondo Evola, le rivoluzioni borghesi hanno ridotto, attraver­so un astratto principio di libertà, il valore della persona concreta, annullandola nella massa: è la quantità che diventa protagoni­sta della storia. Di qui la condanna dei siste­mi democratici, ma anche di quei “regimi di ieri” che hanno in qualche modo concesso spazio alle spinte dal basso, non escluso il “ducismo” mussoliniano in cui si avverte una inclinazione “se non demagogica alme­no alquanto democratica ad andare verso il popolo, a non disdegnare il plauso della piazza”13.

A ben vedere, comunque, l’avversione per il popolo, la massa, altro non è se non un aspetto della più generale e radicale negazio­ne di ogni principio egualitario. L’immorta­le principio dell’uguaglianza e il suffragio universale sono un puro non senso e, di con­seguenza, sono un nonsenso tutte le istitu­zioni che da essi derivano: parlamenti, parti­ti, sindacati.

Il “vero” Stato dovrà eliminare gli orga­ni rappresentativi della democrazia per di­ventare invece organico e gerarchico, basato su una rappresentanza differenziata, per corpi.

11 J. Evola, Il fascismo visto da Destra. Con note su! I l l Reich, Roma, Volpe, 1979, p. 35 ( l a ed. 1964).12 J. Evola, Imperialismo pagano. Il fascismo dinanzi al pericolo euro-cristiano, Todi-Roma, Atanòr, 1928 (rist. Padova, AR, 1978) e Due imperatori, in “Bibliografia fascista”, 1938 e 1940 (rist. Padova, AR, 1977, a cura di C. Mutti).13 J. Evola, Fascismo, cit., p. 59; cfr. anche Gli uomini e le rovine, Roma, Volpe, 1953 e Cavalcare la tigre, Mila­no, Scheiwiller, 1961.

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Alla degenerazione democratica dell’Occi­dente, che trova la sua massima espressione negli Stati Uniti, si contrappone nel pensiero di Evola un altro male prodotto dall’eguali­tarismo, e cioè il comuniSmo, che trova la sua autentica incarnazione nell’Unione So­vietica. Di qui l’esaltazione dell’Europa qua­le unico possibile baluardo; un’Europa che deve riscattarsi e tornare ad essere soggetto della grande politica mondiale, unica depo­sitaria degli autentici valori della civiltà occi­dentale.

Nell’analisi evoliana svolta nel libro Gli uomini e le rovine (1953), testo fondamenta­le del pensiero della destra, sia la democra­zia sia il comuniSmo sono il prodotto di una pericolosa “internazionale ebraica” avente per obiettivo “la distruzione completa di tut­to ciò che nei popoli non-ebraici è tradizio­ne, casta, aristocrazia, gerarchia, come pure di ogni valore etico, religioso, supermateria­le” . Questa tesi, già molto diffusa durante il fascismo, era sostenuta da Evola ne\YIntro­duzione all’edizione del 1937 de I Protocolli dei Savi anziani di Sion, il famoso falso pubblicato per la prima volta in Italia nel 1921 da Giovanni Preziosi14, uno fra i più tenaci e feroci antisemiti italiani. Questo do­cumento era già stato diffuso, nel 1919-20, in Inghilterra, negli Stati Uniti, in Francia e Germania, con lo scopo di giustificare l’odio antiebraico e di screditare i movimenti poli­tici progressisti presentandoli come una astuta manovra dell’internazionale ebraica tendente alla conquista del mondo. Le idee centrali dei Protocolli erano che tutti gli av­venimenti e le ideologie che avevano condot­to l’Europa tradizionale al tramonto non erano casuali, ma obbedivano a un preciso

piano di distruzione elaborato da un’organiz­zazione ebraicomassonica. La sua azione si sviluppava su tre piani: venivano diffuse ideo­logie alle quali non si credeva affatto, come li­beralismo, egualitarismo, democrazia, comu­niSmo, ma che servivano per diffondere la sov­versione; in seguito si cercava di ottenere il do­minio della stampa internazionale e della cul­tura; e, in terzo luogo, si tendeva a controllare la finanza internazionale, cioè la massima par­te dell’oro del mondo. Evola sosteneva ancora che, quand’anche i Protocolli non fossero “autentici” essi erano però “veridici” in quan­to i principali rivolgimenti della storia contem­poranea e le fasi di un’opera sistematica e pro­gressiva di distruzione spirituale, politica e cul­turale corrispondevano pienamente con il pia­no in essi descritto.

Attraverso Evola, dopo il maggio 1968, il problema dell’Europa diventa il nucleo cen­trale delle riflessioni della destra radicale ita­liana. Una sintesi particolarmente significa­tiva è quella di Adriano Romualdi15, disce­polo o biografo di Evola, che rivela la crisi delle “piccole patrie” europee dopo il 1945, a confronto con le potenze mondiale di Usa e Urss e propone, come unica possibile alter­nativa ai miti internazionalistici della demo­crazia e del comuniSmo, un “nazionalismo europeo”. Romualdi fa riferimento ad alcu­ne pagine del Mein Kampf hitleriano, dove si esaltano i “valori occidentali” , la consape­volezza degli europei di essere portatori di una civiltà originale ed autonoma fondata sui valori dello spirito e si propone di ridare all’Europa padronanza dei propri destini.

Questi slogan, non a caso, appaiono an­che, alla fine degli anni sessanta, in docu-

14 Su Preziosi cfr. M.T. Pichetto, Aile radici dell’odio. Preziosi e Benigni antisemiti, Milano, F. Angeli, 1983.15 A. Romualdi, La destra e la crisi del nazionalismo, Roma, Ed. de “Il Settimo Sigillo”, 1973. Figlio del vice se­gretario del Msi, nato nel 1940 e morto in un incidente stradale nel 1973, fu discepolo di Evola, di cui scrisse la pri­ma monografia, già citata, e numerosi altri scritti su Nietzsche, sulla destra tedesca, sul fascismo, ecc. e curò e pub­blicò diversi testi per le edizioni AR; viene considerato “la più forte intelligenza della destra radicale (non cattolica) italiana dopo Julius Evola (D. Cofrancesco, La nuova destra dinanzi al fascismo, in Nuova destra, cit., p. 99).

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menti del Fuan, l’organizzazione universita­ria che fa capo al Msi, e sono il sintomo di un razzismo più ambiguo e strisciante, che non s’incentra più sulla condanna esplicita degli ebrei o sulla richiesta di provvedimenti antisematici ma che, nel porre l’accento sui predetti “valori occidentali”, sulla superiori­tà della civiltà europea, automaticamente comporta l’emarginazione e la sopraffazio­ne delle razze considerate inferiori. Nella stessa linea, anche se apparentemente con­tradditorio, è il sostegno offerto dalla de­stra radicale ai movimenti di liberazione et­nica e nazionale e ai popoli oppressi dall’im­perialismo, in primo luogo quelli islamici (Iran, Libia, Palestina), poi i Pellerossa d’America, gli Irlandesi, i Baschi, ecc. In particolare la solidarietà alla causa palesti­nese è in funzione antiebraica e antisionisti­ca: i palestinesi, portatori di “una visione eroica della vita”, sono presentati come op­pressi e Israele come simbolo dell’oppressio­ne capitalistica, ovviamente sullo sfondo consueto della congiura ebraica per il domi­nio del mondo. Significativa a questo pro­posito è l’affermazione di Medrano: “La lotta per l’unità islamica contro il sionismo, nemico mondiale dei popoli, non deve essere separata dalle lotte condotte da altri popoli, perché il sionismo è letteralmente planetario ed è presente, dalla sua base geopolitica di New York, dentro tutti i bastioni dell’impe- rialismo”16.

Il mito dell’Europa orienta anche, sia pu­re in modi e con sfumature diversi, le linee ideologiche di gruppi politici come Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale. Il primo nasce nel 1956, quando Pino Rauti e altri la­sciano il Msi per fondare appunto il Centro Studi Ordine nuovo. Le finalità indicate parlano chiaro sulla radice evoliana del mo­vimento: lotta totale e senza quartiere alla democrazia parlamentare partitica, “tomba

della libertà”; purificazione della cultura eu­ropea da tutte le influenze borghesi, pro­gressiste, matèrialiste; edificazione di un’Europa intesa come nazione autonoma, libera dai “colonialismi” sovietici e america­ni. E ancor, le consuete esaltazione della vi­ta eroica, del dominio delle élites in funzio­ne antidemocratica e antisocialista. Anche qui, se l’antisemitismo non è proclamato a tutte le lettere, non è difficile leggerlo in tra­sparenza.

Più rozza e superficiale è l’elaborazione ideologica dell’altro gruppo storico della de­stra radicale, Avanguardia Nazionale, la cui vocazione appare sin dall’inizio “operativa” nel culto dell’azione e della violenza, ls fon­dazione del movimento risale al 1960, per iniziativa di Stefano Delle Chiaie, ex segre­tario missino di Roma, e di un gruppo di dissidenti di Ordine Nuovo. Sciolta nel 1965, rifondata nel 1970, Avanguardia Na­zionale è protagonista di pestaggi all’Univer­sità di Roma, di azioni di guerriglia urbana durante la rivolta di Reggio Calabria; nel 1976, dopo un processo per ricostituzione del partito fascista, viene definitivamente sciolta dal ministero degli Interni. Il pricipa- le documento teorico del gruppo {La lotta politica di AN, Roma, s.d. ma 1974-75) ri­propone, a livello, come si è detto, alquanto superficiale, i consueti topoi del radicalismo di destra, con un’accentuazione rivelatrice del principio di diversità fra individui e fra stirpi, con l’ovvia conseguenza della necessi­tà di una gerarchia su basi rigidamente elita­rie. Anche per Avanguardia Nazionale l’uni­tà politica fondamentale, la Nazione indivi­duata come realtà etnica e culturale, deve es­sere intesa in senso ampio: non Italia ma Europa, l’Europa “di quelle generazioni che si chiamano e di cercano da oltre frontiera... per creare nella devozione e della difesa dei valori eterni della stirpe, una Nazione grani-

16 Antonio Medrano, Islam ed Europa, Padova, AR, 1978, p. 134.

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tica”, per riscattarsi ed opporsi sia al delirio marxista sia al conservatorismo borghese. Ancora una volta, questo “centralismo dei valori europei, di schietto sapore razzista, mal si concilia con le posizioni fortemente filo-arabe assunte da Avanguardia Naziona­le, in funzione antiisraeliana.

Assai diverso, a riguardo dell’Europa, è il pensiero di uno dei capi carismatici della de­stra radicale italiana, il già citato Franco Freda, fondatore delle edizioni AR di Pado­va, attualmente in libertà vigilata per l’at­tentato di piazza Fontana. Egli nopn na­sconde simpatie per il comuniSmo cinese (non a caso è stato definito “nazimaoista”) e auspica una disintegrazione totale del siste­ma borghese attuata attraverso la violenza, da qualunque parte essa provenga. In questa direzione egli propone un superamento del pensiero di Evola, di cui pure accetta i prin­cipi, sottolineandone l’ineguatezza operativa raffrontata alle esigenze dei tempi. Evola, secondo Freda, manca di senso politico ope­rativo e sarebbe attestato sulle posizioni del­la destra controrivoluzionaria di un De Mai­stre di un Bismarck, “senza comprendere che nel XX secolo occorrono anche dei Goebbels e dei Mao Tse-Tung” 17.

In La disintegrazione dei sistema (Padova, AR, 1970; ristampe nel 1978 e 1980) Freda attacca con estrema determinazione non sol­tanto il concetto di Europa ma tutta la tradi­zionale e la spiritualità del mondo occiden­tale, arrivando ad affermare che la sua posi­zione ideologica e la sua simpatia umana non assai più vicine al guerrigliero latino-a­mericano o al soldato nordvietnamita che non allo spagnolo, al “franzoso”, all“italio- ta”, al tedesco-occidentale infeudati agli Usa. Ovviamente, non mancano le punte polemiche in favore delle frange terroristi- che palestinesi né, ad ulteriore conferma del­la insistenza di certi topoi anche in questa

frangia di destra, le polemiche antisémite. Così Freda scaglia i suoi strali contro “l’Eu­ropa illuminista, l’Europa democratica e giacobina, l’Europa mercantilistica, l’Euro­pa del colonialismo plutocratico, l’Europa giudea o giudaizzata... L’Europa”, insiste Freda, “ha contratto tutte le infezioni ideo­logiche: dalPilluminismo al giacobinismo, alla massoneria, al giudaismo, al sionismo, al liberalismo, al marxismo” (pp. 25-28). È evidente qui il richiamo ad uno dei libri più noti durante i fascismo, pubblicato da Pre­ziosi nel 1941 (Milano, Mondadori e ristam­pato nel 1943 e 1944), dal titolo Giudaismo, bolscevismo, plutocrazia, massoneria. Que­sta ormai risaputa accozzaglia di “principi da combattere serve poi a Freda per affer­mare la necessità si abbattere con la violenza il mondo borghese-capitalista, per edificare sulle sue rovine il “vero Stato” , organizzato su base comunista, capace di garantire l’uni­tà organica del corpo sociale.

Abbiamo analizzato con qualche attenzione, sia pur nei limiti di questo breve excursus, la posizione di Freda, in quanto egli è stato il principale animatore di una casas editrice, la già citata “Edizioni AR” di Padova, che ha avuto un ruolo determinante nella circola­zione e della diffusione delle idee e dei prin­cipali informatori della destraradicale e della Nuova destra. Miti e personaggi di questo universo si riflettono infatti in una miriade di pubblicazione di case edistrici limitata, ma AR è di gran lunga il nucleo che esercita la maggior influenza. Ne sottende l’attività una concezione aristocratica, élitistica e raz­zista dell’editoria che considera il libro “un mezzo iniziatico” che deve trasformare ogni militante in pedagogo. Lo stesso termine AR, assunto programmaticamente, oltre ad essere la radice di Arioi, costituisce secondo l’editore, “l’elemento base, radicale, rintrac-

17 P. Baillet, J. Evola, cit., pp. 71-72.

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ciabile attraverso la comparazione linguisti­ca di vari idiomi indoeuropei, in parole che suggeriscono l’idea di valore, preminenza, dunque di nobiltà e di bene”18.

Il catalogo, le introduzioni ai volumi, le varie note editoriali (dia delle dizioni AR sia di quelle meno conosciute) individuano i principali filoni della destra radicale e in particolare quelli direttamente o indiretta­mente collegati con l’antisemitismo, un pri­mo, nutrito gruppo di opere riguarda i pro­tagonisti storici e le vicende del nazionali­smo, come ad esempio, J. Gòbbels, La con­quista di Berlino (AR, 1978); A. Hitler, Mein Kampf (Monfalcone, ed. La Sentinel­la d’Italia, 1969); Saint-Paulien (pseud, di M.Y. sicard), A Hitler: Memorie d ’oltre­tomba (ed. del borghese, 1970) con intro­duzione e note di De Turris e G. Giannet- tini.

A fianco delle opere de e sul nazismo si trovano quelle relative ai fascismi atipici, dove il posto d’onore spetta ovviamente alla Guardia di Ferro di C. Codreanu e alla con­cezione della politica come ascesi. Rientrano in questo filone i testi della Legione scritti dallo stesso Codreanu (// Capo di Cuib, AR, 1981; Guardia di Ferro, AR, 1972) e il Dia­rio dal Carcere (AR, 1970; ristampe nel 1974 e 1981), la cui Avvertenza anonima (di Fre­da?) e [Introduzione hanno un’impostazione decisamente antisemitica quando denuncia­no “l’intollerabile pressione esercitata dagli ebrei nel contesto nazionale dello Stato ru­meno”, dove hanno scatenato, negli anni

1919-21, attraverso la stampa da essi domi­nata, il disordine e la violenza. Per questo motivo, giustamente, “la Guardia di Ferro era impegnata nella lotta implabile contro la democrazia, il comuniSmo e contro l’e­braismo”.

Nel catalogo AR e delle altre case editrici (come Arthos di Carmagnolam Akropolis di Napoli, Il Basilisco di Genova, il Corallo di Padova, Edizioni Europa e Edizioni Medi- terranee di Roma, ecc.) sono presentati an­che molti titoli che esaltano l’etica del guer­riero, l’ascesi eroica, i valori della fedeltà o dell’onore, la mitologia indo-aria, cui si af­fiancano testi sull’esoterismo e sull’etica sa­murai. Fra le opere sull’Islam (come ad esempio vari scritti di Khomeyni e i Docu­menti della guerra sacra del popolo iraniano pubblicati dalle Edizioni All’ilnsegna del Veltro) Spicca la raccolta di scritti del Co­lonnello Gheddafi, curata da C. Mutti {Gheddafi templare di Allah, AR, 1975)19. la nazione islamica, definita “razza dello spiri­to”, viene esaltata perché persegue una rivo­luzione culturale contro “le idee capitalisti- che ed ebraico-comuniste” e contro l’impe­rialismo sionista e russo-americano”.

La solidarietà con la rivoluzione libica e con l’Islam in genere si accompagna, natu­ralmente, all’ostilità più accesa contro Israe­le e da questa si passa ai tempi più generali della lotta contro il potere “pluto-giudaico”. In questo ambito sono ristampato i testi classici del razzismo e dell’antisemitismo, dall’Ineguaglianza delle razze di A. de Gobi-

18 AR, Risguardo, 1980, p. 25 e M. Revelli, Panorama editoriale e temi culturali della destra militante, in Nuova destra, cit., pp. 49-74.19 Mutti, ex docente di ungherese e rumeno all’Università di Bologna, uno dei principali rappresentanti della cultu­ra d’ispirazione tradizionalista integrale sviluppatasi sulla linea di Evola, autore di saggi e articoli sulla tradizione islamica, stretto collaboratore e amico di Freda, lavorò attivamente alle Edizioni AR. Nel 1973 fondò l’Associazio­ne Italia-Libia, “rapidamente vietata per la pressione degli ambienti sionisti” (cfr. Giorgio Freda: “nazimaoiste” ou révolutionnaire inclassable?, Lausanne, 1978, p. 6: si tratta di un opuscolo curato dal Comité de solidarité pour Giorgio Freda). Collabora attivamente alla rivista “Totalité”, organo dell’integralismo neofascista d’impostazione evoliana che appoggia, in Europa e fuori, “i movimenti che agiscono nella direzione delle lotte di liberazione nazio­nale e popolare contro le oligarchie mondiali” .

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neau (Roma, ed. del Solstizio, 1972 e Pado­va, AR, 1977) e II mito del X X secolo di A. Rosemberg (Genova, Il Basilisco, 1981) a tutte le opere e articoli di Evola. Un ruolo importante svolgono ovviamente i già citati Protocolli dei Savi anziani di Sion, curati per AR nel 1971 da C. Mutti, riediti nel 1976 con il titolo Ebraicità ed Ebraismo e pubblicati da altre case editrici nel 1972 a cura di Ver- mijon (pseud, di Umberto Greco) dalla Sca- tolgraf di Roma e nel 1975 dalla Tip. Ed. Ca­tapano di Lucerà.

Nell’edizione del 1971 assume particolare rilievo l’Avvertenza, per il richiamo esplicito a Giovanni Preziosi e l’elogio alla sua opera. Il che tende a costituire un legame di conti­nuità fra l’antisemitismo di stampo fascista “istituzionale”, di cui il Preziosi fu senza dubbio esponente di primo piano (anche se isolato), e quello attuale. “Nei riguardi della figura di Preziosi” , si legge ne\YAvvertenza, “è doveroso manifestare il riconoscimento per un uomo di caratteri libero e coraggioso, il quale non solo alla propria esistenza diede uno stile fermo e intransigente di lotta, ma anche la propria morte seppe giustificare, commettendo suicidio nel momento della sconfitta delle forze cui egli era rimasto viril­mente fedele” . Preziosi, infatti, fuggendo il 26 aprile da Salò con la moglie e il figlio adottivo, raggiunse in modo fortunoso Mila­no; ma nella notte, temendo “l’inevitabile e implacabile vendetta ebrea” contro di lui che per trent’anni aveva combattuto l’ebrai­smo, si tolse la vita assieme alla moglie get­tandosi dalla finestra di una camera al quin­to piano. Questo gesto, stimato nobile e co­raggioso in confronto al comportamento tutt’altro che eroico degli altri gerarchi fa­scisti, deve aver suscitato la considerazione dei curatori delle edizioni AR. Questa stima emerge anche dalle dediche a Preziosi, “eroe e martire della libertà” che compaiono in al­tri libri, dall’attività di un Centro studi e do­cumentazione G. Preziosi che pubblicò e tradusse testi antisemitici e dal tentativo, poi

fallito, di creare nel 1981 un Comitato Gio­vanni Preziosi, per curare la composizione e la pubblicazione di uno studio sulla figuara e la sua opera.

Il tema della trama ebraica per il dominio mondiale, che sta alla base dei Protocolli, assume connotazioni e accentuazioni parti­colari soprattutto per ciò che concerne la problematica economico-finanziaria. In sin­tesi si ripetono, nelle argomentazioni della destra radicale, le tesi secondo le quali a vol­ta il potere occulto degli ebrei, attravero la manipolazione della finanza internazionale, permea di sé la politica: e si parla dunque di “occidentalismo giudeo-americano” o di “imperialismo cosmopolita giudeo-britanni- co” . Queste argomentazioni sono evidenti in particolare nelle Prefazioni a La guerra oc­culta di E. Malynski e L. De Poncis (Pado­va, AR, 1978), apparsa per la prima volta nel 1939 a cura di J. Evola con il sottotitolo Armi e fasi dell’attacco ebraico-massonico alla tradizione europea e già ristampato nel 1961 a Milano, Ed. “Le Rune”; o a quella del vecchio libro antisemitico, pubblicato nel 1938, L ’Ebreo internazionale di H. Ford (Padova, AR, 1971) dovesi cerca di dimo­strare come il piano denunciato nei Proto­colli abbia trovato negli Stati Uniti d’Ameri­ca il terreno più favorevole alla sua realizza­zione, confermando così con dati inequivo­cabili la sostanza ebraica della civiltà demo­cratico-borghese. Una stretta connessione tra dominio ebraico della finanza e occulto finanziamento di rivoluzioni e moti sovversi­vi è sostenuta in saggi come L ’alta finanza e le rivoluzioni di H. Conston (Padova, AR, 1971) o in Finanza e potere di J. Bochaca (AR, 1982), mentre la predisposizione etni­ca, biologica e culturale del popolo ebraico al capitalismo, inteso come elemento disgre­gatore, emerge dalle ristampe e scritti di W. Sombart quali Gli ebrei e la vita economica (1980) e Metafisica del capitalismo (1977), passi scelti preceduti da un saggio introdutti­vo di Mutti.

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Se tutte queste tesi non fanno che rispolve­rare ed aggiornare ormai vetusti luoghi co­muni dell’antisemitismo, particolari e nuove insidie, di carattere ideologico contiene la tendenza, detta del “revisionismo storico”, nell’ambito della quale, sotto il pretesto di un “fare storia obiettiva”, sottratto all’in­fluenza dei “vincitori”20, si tenta di porre in dubbio la persecuzione nazista degli ebrei, fino all’esito paradossale di negare addirit­tura (o almeno minimizzare) lo sterminio di sei milioni di persone, 1’esistenza di un pia­no preordinato, le camere a gas. È un filone che ha le sue radici fuori d’Italia, ma che la destra radicale non ha mancato di recepire.

Nel 1962 Freda, nel già citato opuscolo “Gruppo di A r”, scriveva di voler “rompere l’incantesimo della menzogna sugli episodi di genocidio compiuto dai nazisti contro gli ebrei” . Nel 1966, poi, a cura del “Centro studi Giovanni Preziosi” , veniva tradotto per l’editrice Le Rune di Milano da Menzo­gna di Ulisse di P. Rassinier. Il risvolto di copertina è tristemente eloquente: “Lo scrit­tore socialista P. Rassinier, ex deportato a Buchenwald, distrugge la leggenda di sei mi­lioni di morti e dei cosiddetti ‘crimini nazi­sti’ e svela la responsabilità dei deportati”. Nell’Introduzione poi il prof. Anton Do­mingo Monaco riesce a fare della cinica iro­nia sui sei milioni di vittime: ”In verità di sei milioni si può parlare solo facendo riferi­mento ai marchi che annualmente la Germa­nia versa nelle tasche degli israeliani miraco­losamente redivivi, i quali avidi e corrucciati rispuntano da tutte leparti. Chesia questa morale favola?” .

Le tesi fondamentali di Rassinier si posso­no così riassumere: mai i nazisti program­marono il genocidio, il numero delle vittime della deportazione è clamorosamente esage­rato, i più efferati crimini furono compiuti in realtà dagli stessi deportati e danno dei

loro compagni di prigionia. Su queste “rive­lazioni” Rassinier insiste in un’altra opera, Il dramma degli ebrei, edito in Italia nel 1967 dall’editrice Europa di Roma, dove si legge questa esplicita affermazione: “Mai in nessun momento le autorità qualificte del Terzo Reich hanno previsto e coordinato stermini di ebrei con questo mezzo [le came­re a gas] e non ve ne sono stati in modo as­soluto”. I libri di Rassinier incontrano il fa­vore della destra radicale: lo testimoniano numerose favorevoli recensioni, come quella su “Ordine Nuovo” nel dicembre 1970, quella a firma C. Federici su “Il Conciliato- re” nel gennaio 1971 o il breve opuscolo di L. Degrelle (un belga divenuto generale delle SS) dal titolo Lettera al Papa sulla truffa di Auschwitz, pubblicato dalle Ed. Sentinella d’Italia nel 1979.

Analoga operazione “revisionista” viene tentata da Giorgio Pisano in Mussolini e gli Ebrei (Milano, ed. Fpe, 1967): vi si afferma che, a dispetto dell’antisemitismo ufficiale del fascismo, Mussolini in realtà si adoperò, fra il 1938 e il 1945, a favore di centinaia di migliaia di ebrei in tutta Europa e che mai l’Italia fascista consegnò ai tedeschi degli ebrei: quelli deportati in Germania vennero tutti catturati dalle SS tedesche. A proposito dei campi di sterminio, Pisano scrive: “E chi del resto , in quei giorni, sapeva niente dei campi di eliminazione, dei forni crematori, e così via, ammesso e non concesso, lo ripetia­mo che tutte queste storie siano autenti­che?... Con ciò non voglio dire, sia chiaro, che gli ebrei non siano stati perseguitati. La persecuzione c’è stata, ma non nella propor­zione che si sostiene . Lo deduco dal fatto che non è possibile eliminare sei milioni di creature lasciando solo tracce minime. La documentazione, infatti, relativa ai massacri non è tale da suffragare la tesi dei ‘sei milio­ni di eliminati’”(pp. 175-177).

20 Cfr. la Conclusione (di Evola) a E. Malynski, L. De Poncins, La guerra occulta, cit., p. 200.

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Fortunatamente le “revisioni di questo ti­po, o altre come quella di R. Faurisson in Francia21, che ha dedicato diciotto anni allo studio del problema tentando, ovviamente invano, di dimostrare che nei Lager nazisti le camere a gas non sono mai esistite , non hanno avuto né potevano avere, alcuna pre­sa sull’opinione pubblica italiana. E tuttavia contro l’arma insidiosa di questa propagan­da è bene non abbssare la guardia. L’antise­

mitismo, che nasconde sempre l’odio per la libertà, per la democrazia per la ragione umana, è sempre in agguato, pronto a dif­fondere i propri germi, come dimostrano episodi anche recentissimi. E l’unico antido­to sicuro è quello della verità storica, della documentazione ampia e inattaccabile, della ricerca illuminata dalla ragione.

Maria Teresa Pichetto

21 R. Faurisson, Mémoire en défense contre ceux qui m'accusent de falsifier l ’histoire. La question des chambres à gaz, Paris, 1981; su questo argomento si veda anche A. Goldstaub, Nuova destra, cit., p. 176.

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La storia contemporanea attraverso le rivisteContributi ad un’indagine

“Italia contemporanea” ha ospitato sul fascicolo 163 (giugno 1986) alcuni materiali prodotti dal seminario organizzato nel febbraio 1986 dall’Istituto nazionale e dagli Istituti associati sui propri periodici. Scopo della pubblicazione non era solo quello di dar conto dell’iniziati­va, ma anche di contribuire a comporre un quadro di riferimento che documenti la condi­zione attuale delle riviste di storia contemporanea, verificandone esperienze e prospettive al termine di un periodo — dall’inizio degli anni settanta ad oggi — particolarmente ricco di indicazioni. Di qui l’opportunità, ribadita dal Comitato scientifico della rivista, di sviluppa­re il discorso raccogliendo valutazioni e giudizi espressi dai più significativi periodici del set­tore e dalle riviste che fanno comunque posto a contributi di storia contemporanea. In tale contesto “Italia contemporanea” è lieta di ospitare gli interventi di “Memoria”, “Movimen­to operaio e socialista”, “Passato e presente”, “Rivista di storia contemporanea”.

A l fine di facilitare la lettura comparata dei diversi interventi, si riporta la formulazione delle domande sottoposte a ciascuna rivista: 1) L ’ultimo quindicennio ha registrato il molti­plicarsi delle riviste di storia e soprattutto di storia contemporanea. Sin dove il fenomeno ri­flette un effettivo allargamento dello spazio scientifico della disciplina e dove chiama in cau­sa altri fattori? 2) Rispetto al quesito precedente quale risposta è venuta dalla tua rivista? I contenuti, la struttura per rubriche e le scelte editoriali complessive hanno offerto negli ulti­mi anni modificazioni significative in funzione di tale risposta? 3) Come la tua rivista si è posta il problema del mercato? Considerandolo a priori limitato agli utenti professionali o cercando di provocarne un allargamento, e in quali direzioni? 4) L ’attuale panorama delle riviste offre una immagine distintamente percepibile ed esauriente degli orientamenti preva­lenti nella contemporaneistica italiana? E sotto tale profilo qual è — o dovrebbe essere — il ruolo specifico di un periodico rispetto alle altre forme di comunicazione e presenza edito­riale?

Italia contemporanea”, dicembre 1986, n. 165

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“M emoria”

Anche se pubblica molti articoli su temi che interessano la contemporaneistica e la mag­gioranza delle componenti la redazione si occupa di storia, in particolare dei due ulti­mi secoli, per diverse ragioni “Memoria” non può essere considerata una rivista di storia contemporanea come le altre. Tutta­via, poiché ha in comune con queste ultime problemi relativi al mercato, alle vendite e all’immagine nonché a questioni di metodo­logia storica e di rapporti interdisciplinari, un accenno a quanto è condiviso, ma ancora di più a ciò che è differente, può forse offri­re un punto di vista eccentrico seppure non indifferente né troppo lontano dai principali problemi sollevati dalla proposta di discus­sione di “Italia contemporanea”.

Qualche breve informazione preliminare. Com’è noto, ciò che distingue struttural­mente la redazione di “Memoria” da quella di altre riviste è il fatto di essere tutta fem­minile, caratteristica che rappresenta una ben modesta consolazione quando si pensa che le donne presenti nei gruppi redazionali delle principali pubblicazioni di storia — italiane e non —, quando ci sono, non su­perano le quattro unità (così la “Rivista di storia contemporanea”; mentre la direzione di “Quaderni storici”, per fare un esempio di gruppo numericamente cospicuo, non ne conta nessuna). Nata come filiazione diretta del femminismo romano alla fine dei collet­tivi di autocoscienza degli anni settanta as­sieme ad altre iniziative affini (come l’altra rivista di cultura femminista “DWF”, il centro “Virginia Woolf” di Roma, ecc.), “Memoria” è un quadrimestrale edito da Rosenberg & Sellier che pubblica soltanto fascicoli monografici. Il primo numero è uscito all’inizio del 1981 e finora ne sono stati prodotti quindici. La distribuzione è li­mitata purtroppo a poche librerie a livello nazionale, comprese naturalmente le librerie delle donne le quali costituiscono, assieme

alle decine di centri culturali femministi nel paese, il principale luogo di diffusione della rivista.

Il pubblico è di natura mista; comprende donne impegnate politicamente nel femmi­nismo e quelle attente alle stimolazioni cul­turali che da questo emergono, oltre a colo­ro che sono interessate alla storia delle don­ne a livello professionale. Il numero degli abbonamenti è oscillante intorno alle tre quattrocento unità e in libreria si vende un altro migliaio di copie circa. Ma è difficile calcolare le vendite poiché la caratteristica principale di “Memoria”, come anche di al­tre pubblicazioni femministe, è quella di continuare a vendere i fascicoli anche molti mesi, e addirittura anni, dopo la loro usci­ta; di alcuni particolarmente appetibili, per esempio, ne sono state vendute oltre tremila copie nel corso di qualche anno (del numero uno sono state vendute più di venticinque- mila copie).

Questa peculiarità è un indicatore molto interessante ci dice dell’esistenza di ‘asincro- nie’, di scarti rispetto al tempo, presenti in alcune fette della produzione editoriale delle donne.

Chi legge e compera “Memoria” (lo stes­so vale per “DWF” e per altre pubblicazioni femministe a periodicità irregolare che con­tinuano a vendersi indipendentemente dalla loro data di uscita) si colloca in una dimen­sione temporale obliqua rispetto a quella che determina e regola la fruizione e la ven­dita delle altre riviste di storia.

Anche tra queste è possibile naturalmente riscontrare movimenti oscillatori nella dif­fusione di singoli numeri e nel successo di un fascicolo rispetto a un altro, ma la data di pubblicazione rimane per i lettori di tali riviste un fondamentale elemento non solo di contestualizzazione ma anche di motiva­zione all’acquisto, laddove per la maggio­ranza del pubblico di “Memoria” si tratta di un fattore per molti versi secondario.

Curiosamente anzi, ciò che finisce nel

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nostro caso per contare spesso di più rispet­to all’andamento delle vendite è un principio opposto a quello che regola di solito la buo­na riuscita commerciale delle altre riviste. Chi legge “Memoria” è soprattutto interes­sata alla ricerca di elementi che contribuisca­no alla fondazione di un soggetto femminile nella storia, e si trova quindi in un rapporto trasversale con l’insieme delle esperienze sto­riografiche che non si curano di questo. Va­le a dire che l’interesse di un pubblico fem­minista non è per il prodotto che offre gli esempi più sofisticati e aggiornati di trat­tazione di un certo tema ‘nel tempo’, ma quello che riesce a individuare gli elementi trans-temporali dell’oggetto di cui si occupa. L’asincronia delle vendite non è che il risvol­to esterno di una componente essenziale per l’articolazione dell’identità stessa della sto­ria delle donne — che costituisce l’oggetto specifico della rivista, come chiaramente in­dicato nel suo sottotitolo. E anziché essere ricollegabile a una stravaganza del mercato editoriale e di quello femminile in particola­re, è proprio questo il dato rilevante, la spia di una vocazione a forzare i limiti imposti dal calendario che ritma i tempi della novi­tà, della periodicità e della obsolescenza.

Si tratta infatti di una verifica molto cru­da e materiale di come la storia delle donne non sia simmetrica e speculare rispetto a quella tradizionale, né si costruisca o si mi­suri a immagine e somiglianza di questa ma anzi in opposizione a una storia neutra, in­differente al sesso dei suoi agenti, attori e in­terpreti, e occupi spazi trasversali, non con­tigui e in tempi dissonanti, in rapporto al territorio storico nel suo insieme.

Tenuto conto dei problemi qui appena ac­cennati, in che senso la presenza di “Memo­ria” si giustifica nel panorama delle riviste di storia e nel dibattito cui queste sono state invitate a partecipare? Per brevità mi limite­rò a indicare sommariamente soltanto pochi aspetti.

Il primo riguarda una questione che Ste­

phen Yeo, in un recente e stimolante artico­lo del “Journal of Contemporary History” (1986, n. 2) sui temi che caratterizzano il panorama attuale della storia contempora­nea inglese, ha succintamente riassunto nel­la domana: “Whose story?” — la storia di chi? Di quali protagonisti è portavoce e in­torno a cosa si è andata rinnovando la sto­ria contemporanea negli ultimi anni? Senza entrare nel merito della interessante argo­mentazione di Yeo, che meriterebbe di esse­re ripresa altrove in dettaglio, è evidente co­me la storia delle donne svolga un ruolo predominante nella proliferazione dei nuovi attori storici e in questo senso sia un’inter- locutrice essenziale nel dibattito che coin­volge le voci nuove e diverse presenti nel pa­norama attuale della storiografia. Tuttavia, in parte perché non completamente d’accor­do con Yeo, pur valutando gli elementi di indubbio interesse della sua analisi (la cadu­ta del possessivo maschile presente nel ter­mine history, per esempio), suggerirei di correggere la sua formula ponendo un inter­rogativo diverso, e cioè: la storia da dove? Quali sono i luoghi e ambiti dai quali pro­viene l’iniziativa degli operatori di storia? Questa domanda è forse più indicata per stabilire un importante principio di diffe­renziazione e identità all’interno delle sedi in cui si organizza il lavoro storico accade­mico e non (oltre alle riviste penso ai centri culturali, i musei, le mostre, i tanti spazi ur­bani e rurali che in questi anni sono stati in­vestiti dalle iniziative degli storici), ma so­prattutto consente di mettere in primo pia­no e valorizzare il punto dal quale si osserva la realtà e di individuare quali sono le aree bisognose di produzione di storia che sono state ripercorse dai nuovi attori. È infatti in un contesto di spazio orizzontale che “Me­moria” e la storia delle donne possono emergere come luogo in cui si svolge una specifica attività di critica, di continua mo­dificazione dei confini del territorio storico tradizionale da dove persone di sesso fem­

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minile possono parlare in quanto protagoni­ste autonome e interlocutrici ben identificate che guardano e descrivono un paesaggio di­verso.

Un secondo aspetto collegato a quanto detto sopra, e che mi sembra interessante sollevare in questa sede, riguarda il rapporto che la storia intrattiene con i diversi ambiti disciplinari.

L’esperienza di “Memoria”, che anche tra le persone della redazione accoglie studiose di altre discipline (due su otto), riflette in parte quanto la storia nel suo complesso è andata ormai ampiamente verificando in questi anni: l’adozione di strumentazioni provenienti da aree molto diverse è ormai, oltre che un dato di fatto, una necessità qua­si di sopravvivenza biologica per l’arricchi­mento e l’espansione dell’analisi storica. Ma al di là di queste petizioni di principio, sono in particolare i problemi che la storia delle donne deve affrontare per primi perché squisitamente attinenti alla costruzione della propria identità e aree di competenza a ri­chiedere l’immediato travalicamento degli steccati disciplinari. Penso in particolare alle domande cruciali intorno al ruolo della sog­gettività nel lavoro storico e al sesso di ap­partenenza di chi fa storia nel rapporto tra soggetto e oggetto di studio, quelle relative alla dinamica tra rappresentazione e au­to-rappresentazione e alla triade natura/cul- tura/storia; per ricordare soltanto qualche esempio tra i più rilevanti. Sono tutte que­stioni che chiamano direttamente in causa categorie elaborate in aree disciplinari sva­riate — dalla filosofia e psicanalisi alla se­miotica e retorica, dall’antropologia alla biologia e alle scienze naturali — e con le quali la storia delle donne deve misurarsi continuamente, pena la cancellazione dei tratti distintivi che ne compongono l’identi­tà. Ma queste costituiscono anche il terreno da cui emergono gli interrogativi fondamen­tali che essa pone alla storia nel suo com­plesso: una sfida ma anche uno stimolante

appello all’autoanalisi che quest’ultima è in­vitata a raccogliere.

Nata come tentativo di riflessione storica e analisi teorica del femminismo, “Memo­ria” è stata caratterizzata fin dall’inizio da un rapporto di scambio e collegamento co­stanti con l’attività politica di centri cultura­li, enti locali, iniziative parlamentari, che in­vece di affievolirsi, con il tempo si sono an­date rafforzando. Pochi o nulli sono stati invece i risultati ottenuti sul piano istituzio­nale, e la diffidenza di cui la storia delle donne — nonostante i maturi risultati rag­giunti e la pertinenza dei problemi metodo- logici che ha posto — continua a godere ne­gli ambienti accademici è ancora la nota pre­valente.

In tal senso quella femminista è per molti versi un’esperienza paradossale, che per am­piezza di risonanza e scarsità di legittimazio­ne è tra le più imponenti e durature verifica- tesi nella società italiana degli ultimi quindi­ci anni, e il cui effetto principale è quello di proporsi come una forma obbligata di mili­tanza intellettuale permanente. Non è azzar­dato quindi pensare che la storia delle don­ne, se continuerà ad alimentarsi dal fecondo equilibrio tra sperimentazione scientifica e pratica sociale, e con il progressivo raffina­mento delle proprie strumentazioni concet­tuali, possa costituire un ineliminabile punto di riferimento e confronto per tutte quelle diverse esperienze nel campo della storia contemporanea che dall’impegno politico e dall’attenzione ai cambiamenti socio-cultu­rali hanno tratto in passato tanti elementi di rinnovamento.

Da queste considerazioni, ci sembra evi­dente che “Memoria” si colloca, nel bene e nel male, proprio in quel crocevia misto di impegno politico e civile, interrogativi meto­dologici, adeguamento delle strumentazioni scientifiche, proliferazione delle sedi di di­scussione, che è in gran parte un patrimonio caratterizzante tutta la disciplina storica del­l’ultimo decennio.

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Ma l’esigenza di avviare un processo di ri­fondazione scientifica, su cui la storia con­temporanea è particolarmente impegnata, non è solo dettata dalla consapevolezza di assistere a grandi cambiamenti nei rapporti con la politica, e dalla diminuita influenza del fattore ideologico, che sono elementi chiave del mutato clima degli anni ottanta. In effetti, tra i motivi fondamentali alla base dell’attuale travaglio teorico, ma anche dei nuovi orizzonti che si aprono alla discussio­ne scientifica, è sicuramente da annoverare il protagonismo che la dimensione storica sembra di recente avere acquisito fuori della disciplina, vale a dire nel campo delle altre scienze.

La grande rivoluzione epistemologica del decennio, ai fini dell’individuazione dei ca­ratteri innovativi del discorso storico, pro­viene infatti soprattutto dalle cosiddette scienze esatte. Mi riferisco in particolare al ruolo che la storia ha assunto nelle ricerche biologiche sui sistemi viventi, nella discus­sione sulle teorie evolutive — per fare solo gli esempi più lampanti.

Questi, credo, costituiscono alcuni dei tratti esterni alla disciplina storica più im­portanti intervenuti nell’ultimo decennio e destinati a influenzare in maniera determi­nante la ripresa del dibattito storiografico. Si pensi, per fare un altro esempio, al pro­blema dell’evento e del caso, così come vie­ne affrontato da storici e da scienziati.

Non è possibile soffermarsi su una pro­blematica che è di grande complessità, e ba­sti soltanto una veloce menzione in questa sede. Ma certamente è in tale direzione che sono da ricercarsi le origini della mutata prospettiva metodologica, e dove sarebbe proficuo rivolgere la ricerca sulle rinnovate possibilità di rifondazione teorica del di­scorso storico.

Come corollario a quanto sopra, e per concludere. Mi sembra che l’attuale panora­ma delle riviste di storia rifletta in maniera soddisfacente il grande numero di interessi

diversificati emerso nell’ultimo decennio. L’unico grande assente, nel proliferare di te­state — e i tempi potrebbero ormai essere maturi per un’operazione in questo senso — è forse uno spazio destinato esclusivamente al dibattito teorico, in cui le inquietudini, travagli metodologici, interrogativi — al centro delle attuali preoccupazioni degli sto­rici — (alcuni dei quali sono stati qui accen­nati di sfuggita), possano trovare un’ade­guata sede di dibattito. E forse questa inizia­tiva avviata da “Italia contemporanea” po­trebbe costituire una stimolante occasione per un primo confronto in tale prospettiva. Dopo tutto, si tratta di uno dei compiti spe­cifici di comunicazione scientifica da parte di strumenti come quelli costituiti dalle ri­viste.

Paola Di Cori

“Movimento operaio e socialista”

La redazione di “Movimento operaio e so­cialista” ha avviato da qualche tempo una riflessione sul suo progetto scientifico, ma anche sulla forma-rivista (strutture, linguag­gi, pubblico) e quindi sul mercato. Lo sti­molo alla riflessione è venuto principalmen­te da una verifica e da una constatazione concernente il progetto sulla base del quale si era aggregato oltre dieci anni fa il gruppo che ancor oggi in gran parte ne dirige l’atti­vità, ed era stata avviata la nuova serie della rivista. Quel programma, che in breve consi­steva nel contribuire a innovare metodi e prospettive della vecchia storia del movi­mento operaio in direzione di una più ampia e articolata storia sociale, allargando corag­giosamente il territorio dello storico contem- poraneista, va considerato superato nel sen­so che il risultato appare largamente acquisi­to e l’obiettivo non è più, di per sé solo, di- scriminante e caratterizzante. Di qui la ne­cessità di una ridefinizione dei compiti, del­l’ambito di interessi, degli obiettivi che, sen-

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90 Renato Monteleone, Antonio Gibelli

za rinunciare al senso dell’esperienza passata e alla sua specificità (anzi riflettendo meglio su quanto, anche di implicito e di non com­piutamente sviluppato, essa conteneva) ridi­segni il profilo della nostra testata e la sua collocazione nel quadro delle riviste di storia contemporanea.

1 L’operazione appare come si vede tut- t’altro che facile, anche perché il panorama delle riviste si è arricchito e complicato, mentre la discussione metodologica si è fat­ta più articolata intrecciandosi su più ver­santi disciplinari e coinvolgendo questioni riguardanti lo statuto stesso del sapere stori­co. Inoltre, se Poriginario termine di riferi­mento polemico (che era però anche un ele­mento di identità), ossia la “storia del movi­mento operaio”, ha perso gran parte del suo significato, il suo abbandono puro e semplice implica il rischio evidente di af­fiancarsi alle altre riviste del settore (in ter­mini di sostanza e di immagine) senza ag­gettivi specificativi chiaramente percepibili, anche perché l’ambizione di fondo resta quella di un lavoro storico non segnato da connotazioni specialistiche esclusive (di te­ma, di metodo o di scuola).

Questa particolare congiuntura interna rende nello stesso tempo più urgente e più complesso il chiarimento sulle questioni di­rettamente o indirettamente sollevate da “Italia contemporanea”, chiarimento che non ha ancora raggiunto un livello soddi­sfacente. Ad esempio, il moltiplicarsi delle riviste di storia, e in particolare di storia contemporanea, non si presta a essere in­quadrato in una spiegazione univoca: alla base di singole iniziative in corso o prean­nunciate vi sono di volta in volta tendenze di “scuola”, esigenze di specializzazione tematica su campi che hanno registrato par­ticolari sviluppi (storia urbana, storia sa­nitaria), espressioni tradizionali di potere accademico, proiezioni di ipotesi politi­co-partitiche nel campo del lavoro culturale-

storiografico, opzioni di natura squisita­mente metodologica e di orientamento idea­le e così via. Si può tuttavia avanzare l’ipo­tesi che nel suo complesso il fenomeno ri­senta di un nuovo modo di praticare il lavo­ro storiografico e insieme del peso crescente (ancorché improprio) che sta conoscendo l’uso della storia nei più vari ambiti cultura­li e professionali. In particolare l’intreccio tra storia e comunicazioni di massa, e il ri­corso sempre più frequente da parte degli storici a questi mezzi (televisione, radio e giornali) ha abituato a forme di discorso che per struttura, dimensioni e tempi di ela­borazione si avvicinano di più alle caratteri­stiche dell’articolo che non a quelle classi­che del libro. Le riviste diventano così con­tenitori naturali di questo tipo di interven­ti, anche se l’insieme delle loro caratteristi­che prevalenti è assai lontano da quelle pro­prie dei media di massa, per cui continuano di fatto a rivolgersi a un pubblico di specia­listi.

2 La struttura delle riviste risente almeno in parte di questa loro collocazione ambiva­lente, almeno nei casi in cui la ristretta cir­colazione e l’incapacità di toccare un pub­blico colto in senso lato (oltre la cerchia dei cultori) vengono sentite come un limite o al­meno come un problema. Per quanto ri­guarda “Movimento operaio e socialista” , c’è stato il tentativo (per la verità più ri­spondente a considerazioni di natura scien­tifica e a propensioni di sensibilità storio­grafica che non a scelte riguardanti il poten­ziale mercato) di sviluppare temi e angola­zioni suscettibili sia di letture interdiscipli­nari (che costituiscono comunque un’aper­tura: pensiamo ad esempio al nostro fasci­colo su Lingua e fascismo, ma non solo) sia di raccogliere interessi al di fuori degli am­biti professionalmente qualificativi (pensia­mo al fascicolo Crimine e follia o a quello recente su Proletari in osteria). L’attenzione a tempi che riguardano la vita quotidiana,

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La storia contemporanea attraverso le riviste 91

le forme di sociabilità e di cultura, gli aspet­ti dell’esperienza vissuta, i mezzi e i modi della comunicazione, ha avuto tra gli altri questo risvolto, ed il riscontro in termini di diffusione è stato positivo.

Nondimeno non siamo mai usciti (né ab­biamo in sostanza preteso di farlo, con l’u­so di qualche scorciatoia) dall’ambito di una dimensione specialistica. Per quanto ri­guarda i linguaggi e le strutture espositive, abbiamo cercato di combattere le abitudini pedantesche e tutte le forme, tipicamente accademiche, di ridondanza, ma non siamo andati oltre questo semplice orientamento di stile. Nello stesso senso sono andati la raccomandazione (non sempre rispettata) per pezzi brevi e leggibili, e il ricorso (per la verità ancor troppo timido) all’iconografia quale fonte direttamente incorporata nella struttura del discorso e dell’argomentazione storiografica.

Per quanto riguarda l’articolazione delle rubriche, abbiamo adottato e mantenuto una ripartizione piuttosto tradizionale, co­munque giudicata adatta a mostrare meglio il lavoro storiografico nel suo farsi, anziché limitarsi a esibire direttamente i prodotti fi­niti. Non siamo riusciti tuttavia a raggiun­gere nella misura auspicata due obiettivi che consideriamo essenziali alla vitalità di una rivista: l’ampiezza e la varietà dell’infor­mazione critica da un lato, la vivacità e la tempestività del dibattito dall’altro. Ad esempio, per quanto riguarda le brevi se­gnalazioni si sconta sempre più la “concor­renza” del servizio fornito da periodici co­me “L’indice” o simili: un caso tipico di quella ambiguità di funzione e di quella contiguità con media di massa che caratte­rizza le riviste come le nostre. Ha finito così per prevalere — oltre ogni intenzione — un impianto monografico per temi che, se ha dato una forte impronta alla nostra presenza editoriale, ha ridotto quella periodicità e agilità del dibattito critico che dovrebbe sor­reggere la forma-rivista nella sua specificità.

3 Quanto al mercato, occorre distinguere tra mercato vero e proprio (abbonamenti e vendite) e pubblico dei lettori, come tra mer­cato privato e pubblico. La risoluzione dei si­stemi di riproduzione dei testi (fotocopie) in termini di rapidità, qualità e costi ha tagliato le gambe al mercato vero e proprio, che ha registrato una stasi relativa proprio mentre obiettivi riscontri sembravano indicare un al­largamento deciso dei lettori effettivi.Per questo stesso motivo (ed inoltre per la lievitazione dei costi di stampa e il moltipli­carsi delle testate) nel settore degli abbona­menti il mercato si è sviluppato in direzione di istituzioni (biblioteche, istituti universita­ri) mentre si è contratto in direzione dei pri­vati, con una tendenza che sembra difficile invertire almeno a breve termine.

4 II panorama delle riviste rispecchia in modo abbastanza fedele e esauriente le pre­dominanti tendenze dell’attuale storiografia italiana, tra le quali, peraltro, le linee di de­marcazione, specie sotto il profilo metodo- logico, sono oggi molto meno accentuate che nel passato.

Il collegamento con gli indirizzi della sto­riografia straniera sembra porsi con maggio­re evidenza sotto l’aspetto delle problemati­che inerenti alla storia sociale — anche in senso critico — dove all’originaria prevalen­za di suggestioni francesi si sono venute ag­giungendo, o perfino sostituendo, modelli tematici e metodologici di provenienza an­gloamericana.

In questo campo, il ruolo di una rivista periodica dovrebbe configurarsi come quello di tramite altamente specializzato verso le posizioni storiografiche più avanzate negli altri paesi, strumento di massima circolazio­ne delle idee, organo non solo di registrazio­ne passiva, ma anche di attiva promozione e di coordinamento degli studi storici in sede nazionale.

Renato Monteleone Antonio Gibelli

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92 Franco Andreucci, Gabriele Turi

“Passato e presente”

1 Se per “spazio scientifico” della discipli­na si intende una dimensione autonoma del­la contemporaneistica nell’ambito delle di­scipline storiche, è indubbio che questa è in Italia una acquisizione recente, che ha se­gnalato, sul piano accademico, la volontà di svecchiare un’ottica italocentrica che faceva perno sulle cattedre di storia del Risorgi­mento: un tentativo di rinnovamento che re­sta tuttavia ancora parziale, in assenza, fra l’altro, di significativi contatti culturali della storiografia contemporaneistica — a diffe­renza di quella medievale e di quella moder­na — con altre scienze della società.

All’origine di questo faticoso processo di modificazione, di cui la nascita di riviste di storia contemporanea o il riorientamento contemporaneistico di vecchie testate hanno costituito e costituiscono il segnale più evi­dente e lo strumento propulsivo più efficace, sono comunque, prima ancora di motivazio­ni scientifiche, i forti impulsi civili della fine degli anni sessanta: l’interesse per la storia contemporanea dei giovani del 1968 e di quanti cercarono di accompagnare con una riflessione sul recente passato quello che si presentava come un periodo di crisi e di svi­luppo del paese — significativi sono gli ac­centi con i quali fu presentato nel 1972 il pri­mo volume della Storia d ’Italia Einaudi — spiegano in larga misura la rinnovata e più ampia rivisitazione scientifica della storia italiana dell’ultimo secolo (non è un caso che le riviste di storia contemporanea sorte allora abbiano concentrato la loro attenzio­ne sul fascismo).

Con tutto ciò, il fenomeno cui assistiamo non è certo privo di ombre — in primo luo­go il rischio di un appiattimento sul versante dell’ideologia, nel momento in cui la storia ha accusato una battuta d’arresto come componente della cultura della sinistra ita­liana — e di limiti. Le vicende nazionali con­tinuano infatti ad esaurire quasi compieta-

mente l’orizzonte tematico degli studiosi ita­liani, mentre parlare di moltiplicazione delle riviste di storia contemporanea può trarre in inganno sulle fortune della disciplina, ove non si distingua fra quelle poche che hanno un consolidato respiro scientifico e un mercato nazionale, e le tante che, colle­gate a istituzioni o a enti locali, svolgono — spesso per la prima volta in molte zone del paese — una funzione di salvataggio della memoria storica e di educazione civile. Le energie sono tante, anche al di fuori del mondo universitario — che sta chiudendo ogni prospettiva di lavoro ai giovani storici —, ma troppo frammentate e prive del ne­cessario raccordo, mentre forte permane la chiusura “accademica” verso l’innovazione (“Storia contemporanea” ne è un tipico esempio).

2 “Passato e presente” è nata nel 1982, quando di molti dei problemi di cui si è par­lato ci si poteva ormai rendere conto abba­stanza facilmente, e ad essi ha cercato di da­re una risposta equilibrata, aperta all’inno­vazione e al tempo stesso tesa a salvaguarda­re i punti di arrivo della tradizione storio­grafica che si era richiamata a Gramsci in maniera non liturgica. L’editoriale del pri­mo numero proponeva, con una certa ambi­zione, un programma di lavoro che i primi dieci fascicoli della rivista hanno già comin­ciato a realizzare: al mantenimento di una concezione ampia della storia contempora­nea, sia dal punto di vista delle tematiche sia da quello della periodizzazione — tratto di­stintivo, quest’ultimo, rispetto alle altre rivi­ste contemporaneistiche —, si è accompa­gnata un’attenzione precipua per l’informa­zione storiografica e per l’intervento critico, nella convinzione che nella situazione attua­le della storiografia italiana fosse necessario mettere a confronto, con un atteggiamento aperto e non pregiudiziale, i più significativi orientamenti storiografici offerti dal pano­rama internazionale. Le rubriche di “Passa-

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to e presente”, concepite in vista di ipotesi di lavoro da “costruire”, e non come mero criterio di classificazione di un materiale ri­cevuto passivamente, hanno sollecitato alla riflessione e alla discussione un numero as­sai ampio di studiosi italiani e stranieri, han­no posto l’accento — avviando un incontro fra competenze e linguaggi diversi — sulla funzione dei mass media nella volgarizzazio­ne della storia e sul posto di questa nella cul­tura contemporanea, ed hanno cercato di scuotere l’atteggiamento di sfiduciata accet­tazione delle precarie condizioni in cui si trovano molte istituzioni preposte alla ricer­ca. Tempi più lunghi, e forze ben maggiori di quelle di una rivista, sono tuttavia neces­sari per orientare gli studi concreti, nelle te­matiche come nei metodi, nella direzione in­dicata nell’editoriale del n. 4 che, senza al­cuna pretesa assolutizzante, intendeva sug­gerire una scala di priorità nel quadro attua­le della storiografia.

3 II pubblico dei non specialisti è un obiet­tivo non raggiungibile, in misura significati­va, da parte di una rivista scientifica, che può considerare un successo una diffusione pari a quella di un volume di saggistica. Questo limite è dovuto non tanto alla con­correnza fra le testate — contenuta dal fatto che le riviste di storia, e di storia contempo­ranea, offrono “prodotti” molto differen­ziati —, quanto al numero sempre ristretto del pubblico colto interessato all’aggioma- mento e abituato a letture non episodiche, a una rete distributiva inadeguata e intempe­stiva (dalle librerie alle biblioteche), alla dif­ficoltà, per pubblicazioni in lingua italiana, di raggiungere il mercato estero. In questa situazione, presentandosi come un progetto culturale nuovo e senza supporti istituzionali esterni e in anni difficili per tutta l’editoria, “Passato e presente” si è posta l’obiettivo, che sembra finora raggiunto, di reggersi con le proprie gambe: cercando di valorizzare le funzioni proprie di una rivista — interveni­

re, discutere, informare, sollevare problemi — attraverso un numero ampio di rubriche e un’ancora piccola ma significativa innova­zione grafica (le fotografie), si è rivolta non solo agli studiosi di professione operanti nel­l’università e nelle altre istituzioni di ricerca, ma anche al mondo della scuola e ai cittadi­ni colti verso i quali si rivolgono oggi, a li­velli diversi e con esiti disuguali, sollecitazio­ni televisive e iniziative editoriali di alta di­vulgazione. La trasformazione della rivista da semestrale a quadrimestrale, nel 1985, in­dica come “Passato e presente” sia riuscita a trovare e a consolidare un proprio spazio fra le riviste italiane di storia.

4 II panorama della cultura storica italiana si riflette abbastanza chiaramente nelle rivi­ste, e in particolare vi si riflettono gruppi, scuole, tendenze in una dimensione orizzon­tale, a volte addirittura locale piuttosto che non raggruppamenti disciplinari, speciali- smi, collegamenti verticali fra aree del sape­re storico. Vi si riflette anche una sfasatura nello sviluppo in relazione con quello di al­tri paesi. Proprio quando fuori d’Italia Hi­story Workshop, Geschichte und Gesell- schaft, riviste specialistiche di storia orale o storia quantitativa promuovevano un rile­vante rinnovamento disciplinare, in Italia la storia contemporanea viveva un momento difficile e rischiava un isolamento dal pano­rama internazionale. Da questo punto di vi­sta, compito di una rivista — fra gli altri — dovrebbe essere quello di tenere viva la cu­riosità e l’informazione sugli sviluppi inter­nazionali della cultura storica non solo per offrire un servizio all’interno della corpora­zione degli storici, ma anche con lo scopo di accelerare ed estendere l’informazione verso il più ampio mondo della cultura sollecitan­do collane editoriali, o anche i massa me­dia, a un rapporto più equilibrato verso la storiografia non italiana: un rapporto curio­so e informato, appunto, e non invece —• come spesso capita di vedere — passivo al­

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le mode, o immobile in un presuntuoso iso­lamento.

Franco Andreucci Gabriele Turi

“Rivista di storia contemporanea”

1 L’aumento delle testate nel campo delle riviste di storia contemporanea verificatosi nell’ultimo quindicennio fotografa, per così dire, la situazione culturale, politica e socia­le del paese dentro il quadro internazionale. In particolare, “Storia contemporanea” e “Rivista di storia contemporanea”, nate quasi negli stessi mesi e, prima di quelle, numerose altre, sorte negli ultimi otto anni, rappresentarono il delinearsi, nel settore di­sciplinare, di due concezioni diverse e del lavoro storiografico e dei criteri di valuta­zione dei problemi e del rapporto tra mon­do “accademico” e società, e infine, e più in generale, del compito dello storico nelle battaglie civili, politiche e sociali del pro­prio tempo. Se per spazio scientifico della disciplina s’intende spazio tecnico, è forse difficile parlare di “allargamento”. Se per spazio scientifico s’intende invece la ricerca del campo su cui puntare per attingere an­che nella contemporaneistica quel grado di interdisciplinarità che era già allora in cam­mino, e con orizzonti internazionali, nei set­tori medievistico e modernistico, allora la risposta è sì. L’allargamento, fin dall’edito­riale del gennaio 1972, era stato individuato dalla Rsc nello sforzo di vedere la storia ita­liana nelle sue continuità e nelle sue rotture almeno dall’inizio dello Stato unitario e nel­le sue implicazioni economiche, sociali e po­litiche, partendo — e questo parve alla Rsc di fondamentale importanza — dal nodo centrale dello scontro tra fascismo e antifa­scismo per ripercorrere il cinquantennio precedente e l’allora trentennio seguente. Allargamento, per la Rsc, anche e non me­

no, sull’intera storia mondiale (questo cer­tamente facilitato dalla presenza di alcuni tra i maggiori esperti di storia non europea fra i membri della direzione e i collaborato­ri), ma sempre con l’ottica dei “movimenti di liberazione” dentro e contro le strutture dominanti delle “Potenze”. Allargamento dunque all’interno della storiografia italiana ma in strettissimo e contestuale e continuo riferimento alla storia del mondo.

2 La Rsc ha discusso a lungo, nel proprio interno, se i contenuti, la struttura per ru­briche e le scelte editoriali complessive do­vessero cambiare col cambiare del panora­ma generale italiano e internazionale della metà degli anni settanta. Le scelte del 1972 (assunte in realtà prima, nella fase di pro­gettazione, che durò dal 1968-1969 all’inte­ro 1971) corrispondevano a una precisa vo­lontà di restituire libertà alla storiografia contemporaneistica troppo influenzata dalla politica contingente o addirittura asservita ai partiti (non tanto, come si continua a di­re, alle ideologie, che nel senso più utilizza­bile della parola sono connaturali ad una storiografia che non voglia essere puro ser­vizio al potere o ai gruppi di unilaterale fa­ziosità o alla registrazione dell’esistente se­condo le mode più recenti e più effimere). Per questa fondamentale ragione, che ha trovato un’evidente accentuazione nel pro­cedere del paese, dal 1976 in poi, verso una sorta di partitocrazia sempre più invadente ed esclusiva, le scelte della Rsc non sono state nella sostanza mutate. Soltanto i con­tenuti specifici, a cominciare dai due nodi centrali citati prima, cioè fascismo-antifa­scismo e movimenti di liberazione nel mon­do, sono stati affrontati con contenuti ov­viamente via via più variegati, continuando ma anche meglio chiarendo quello sforzo di restituire la libertà alla storiografia iniziato nel ben diverso clima delle “speranze” degli ultimi anni sessanta e dei primi anni settan­ta. Sono stati più frequenti nell’ultimo de-

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cennio gli assaggi delle sollecitazioni del di­battito metodologico e della ripresa di topoi classici sulla concezione “filosofica” della storia e sul modo (modellistica, nomotetica, narrazione) di costruire e scrivere opere sto­riografiche: ma con la ferma convinzione che ogni punto di vista ha diritto di essere capito a fondo, prima di essere vagliato. In questo ambito, dunque, la Rsc ha mantenu­to il suo carattere di libera e aperta espres­sione di studiosi accomunati soprattutto dal desiderio di contribuire a favorire lo svilup­po del rapporto tra Stato e società verso una più profonda ma anche più agile condizione di più effettiva autonomia del singolo den­tro una più effettiva autonomia dei movi­menti, in un raffronto continuo con istitu­zioni meno lontane da questo obiettivo.

3 II problema del mercato era stato posto alPinizio, con molta chiarezza e con altret­tanta consapevolezza, come problema di al­largamento dei lettori dal campo degli spe­cialisti a quello dei politici, dei sindacalisti, dei militanti nei “movimenti”, degli inse­gnanti e degli studenti. Già da parte dei pro­motori della Rsc la scelta dell’editore, il quale ha lasciato sempre la più larga libertà al Comitato direttivo, era stata “mirata”, era stata cioè fatta in vista di questo scopo. Per un quinquennio circa il successo di ab­bonamenti e di vendite fu molto largo, certo il più largo fra le riviste scientifiche di storia contemporanea e, più in generale, di storia. Poi la curva si è abbassata, seguendo con si­gnificativa somiglianza l’andamento dell’in­teresse “di massa” per la storia. L’affinarsi della pratica interdisciplinare dentro la Rsc e l’estendersi, per opera dei suoi dirigenti, del­le sperimentazioni verso gli strumenti docu­mentari e i riferimenti metodologici (storia orale, spettacolo, fotografia, antropologia, psicologia sociale e, meno, letteratura) non sono stati sufficienti a fronteggiare un feno­meno che era e resta generale, ben più largo del campo storiografico. Perciò la Rsc non

ha sopravvalutato il crescere delle riviste contemporaneistiche, in gran parte limitate a campi ristretti o ispirate a impulsi locali (anche se, spesso, utilissimi a svegliare nuovi interessi di ricerca e a mobilitare e nobilitare la passione per la conoscenza del passato co­me elemento centrale del conoscere per fare nel presente). L’orizzonte globale (sottoli­neo “globale”) era ed è rimasto essenziale per la visione dei problemi e delle soluzioni, per la percezione della funzione di essa di fronte alla società, alla politica e alla cul­tura.

Per questa ragione, essendosi ristretto, anche numericamente, il mercato dei lettori politici e sindacalisti (rimasto peraltro esteso sia nel Centro sia nel Sud), l’attenzione è an­data con maggiore impegno al mercato dei cultori di altre discipline (seppure con fermo ancoraggio alle esigenze della disciplina) e si è mantenuta costante e più articolata nel mondo della scuola, dichiarata prioritaria fin dal primo numero. La didattica come strumento di collegamento con la ricerca e di traduzione compiuta di tecniche di inse­gnamento e di apprendimento della ricerca è stata ancor più nel centro delle preoccupa­zioni e dei progetti, se non sempre del “pro­dotto finito” . È tuttavia convinzione della Rsc che il mercato non deve essere allettato con forzature al consenso. Una rivista, e specialmente di storia contemporanea, deve offrire una linea di suggestioni sociali, poli­tiche, etico-sociali coerente e di lunga dura­ta, scegliendo temi e indicazioni che di volta in volta corrispondano allo svilupparsi della linea medesima. Continuità, novità, even­tuali rotture debbono essere segnate serban­do fedeltà a un’ispirazione originaria, quella che alla Rsc non sembra abbia perduto di giustezza, sebbene non sempre trovi realiz­zazioni adeguate. Con la consapevolezza che il passaggio dalla serietà scientifica alla di­vulgazione è pericoloso, e che il confine non deve essere superato verso la seconda se la prima si corrompe, anche per poco. Con

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l’attenzione a un linguaggio che eviti lo stuc­chevole specialismo, peggio, l’inaccettabile tecnicismo, del quale soffrono per la verità più altre discipline, ma anche la storiogra­fia. E con la cura di evitare quella che, per questo aspetto, è la reale situazione media dei prodotti storico-contemporaneistici, cioè la prolissità congiunta al sovraccarico della documentazione straripante e non seleziona­ta, vera e propria tabe d’un filologismo cro- nistico e diarroico che non riesce a farsi filo­logia, quella filologia rigorosa della quale hanno bisogno l’individuazione dei proble­mi e l’interpretazione concettualmente fon­data, entrambe perspicuamente sorrette dal­la più ampia sensibilità umana possibile. Pietas e finesse, insomma, come armi nella lotta quotidiana dello studioso col documen­to e col tema.

4 Da quanto fin qui detto già appare l’opi­nione della Rsc suO’immagine, che le riviste del settore offrono, degli orientamenti preva­lenti in Italia. Fotografia fedele del crescere — anche povero di novità o addirittura pieno di desideri e velleità — di ritorni a un passato che sembrava sepolto. Negli ultimi anni, mi­nore propensione (diversamente che nei mass-media e nella produzione di libri) per le sudditanze partitiche e maggiore cedimento alle ambizioni dei piccoli gruppi dell’ “acca­demia” (accademia più che scuola: magari

fosse!). Specchio, cioè, diretto della frantu­mazione degli indirizzi e dei prodotti storio­grafici per opera del clima privatistico, letale per l’entusiasmo pubblico degli anni sessan­ta e settanta. Quanto al rapporto con le sto­riografie straniere, la Rsc ha segnalato e “sente” in alcuni storici italiani il riemergere di punte di un vecchio crocianesimo privo della geniale umanità del grande vecchio, l’esplodere di gelosie un poco penose se non addirittura ridicole verso le grandi spinte francesi (invece di una rigorosa capacità di accogliere quanto di utile da esse sia venuto e venga per un humus storiografico incom­parabilmente più ricco e fecondo, ma in pie­na autonomia di orientamenti generali), l’in­seguire quasi sempre affannoso delle ultime (nel senso di più recenti) formule (così si do­vrebbero chiamare) dettate dalla storiogra­fia inglese e americana. Queste sono altre ragioni, oltre quelle ricordate nei punti 1, 2 e 3, per le quali la Rsc ha molto puntato sulla circolazione “internazionale” ma cercando sempre di scegliere problemi precisi (come, per limitarsi all’anno in corso, quello della “rappresentanza”, del quale si sono voluti cogliere riferimenti che il passato otto-nove­centesco offre all’attuale delicata e decisiva fase di transizione attraversata dallo stato dei partiti e dei potentati economici).

Guido Quazza

LA STORIA INSEGNATAProblem i proposte esperienze

L. Benigno, A. Brusa, G. DAgostino, A. Delmonaco, F. Farinasso, S. Guarracino, M. Gusso, I. Mattozzi, P. Paimeri, G. Perona,

G. Puppini, T. Sala.

Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, Milano, 1986