Biblioteca di via Senato...Julius Evola e il Dada in Italia di vitaldo conte Le lettere dadaiste fra...

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n. 1 – gennaio 2016 la Biblioteca di via Senato Milano mensile, anno viii ISSN 2036-1394 SPECIALE CENTENARIO DADA (1916–2016) SPECIALE CENTENARIO DADA (1916–2016) Dada: iconoclastia della cultura di marco fioramanti Julius Evola e il Dada in Italia di vitaldo conte Le lettere dadaiste fra Evola e Tzara di gianfranco de turris Dada 1921: un’ottima annata di michele olzi La vita e il gesto oltre la Kultur di dario evola Eterna provocazione: le anime del Dadaismo di carmelo strano Il Dada, ovvero sull’indifferenza di giovanni sessa e romano gasparotti

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n. 1 – gennaio 2016

la Biblioteca di via SenatoMilanomensile, anno viii

ISSN 2036-1394

SPECIALE CENTENARIO DADA (1916–2016)

SPECIALECENTENARIO DADA (1916–2016)Dada: iconoclastiadella culturadi marco fioramanti

Julius Evola e il Dada in Italiadi vitaldo conte

Le lettere dadaiste fra Evola e Tzaradi gianfranco de turris

Dada 1921: un’ottima annatadi michele olzi

La vita e il gesto oltre la Kulturdi dario evola

Eterna provocazione: le anime del Dadaismodi carmelo strano

Il Dada, ovvero sull’indifferenzadi giovanni sessa e romano gasparotti

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Sommario4

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SPECIALE CENTENARIODADA (1916-2016)DADA: ICONOCLASTIA DELLA CULTURAdi Marco Fioramanti

SPECIALE CENTENARIODADA (1916-2016)JULIUS EVOLA E IL DADA IN ITALIAdi Vitaldo Conte

SPECIALE CENTENARIODADA (1916-2016)LE LETTERE DADAISTE FRA EVOLA E TZARAdi Gianfranco De Turris

SPECIALE CENTENARIODADA (1916-2016)DADA 1921: UN’OTTIMA ANNATAdi Michele Olzi

SPECIALE CENTENARIODADA (1916-2016)LA VITA E IL GESTO OLTRE LA KULTURdi Dario Evola

SPECIALE CENTENARIODADA (1916-2016)ETERNA PROVOCAZIONE: LE ANIME DEL DADAISMOdi Carmelo Strano

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SPECIALE CENTENARIODADA (1916-2016)IL DADA, OVVERO SULL’INDIFFERENZAdi Giovanni Sessa e Romano Gasparotti

IN SEDICESIMO – Le rubricheLE MOSTRE – RIFLESSIONI – LO SCAFFALE a cura di Luca Pietro Nicoletti e di Luigi Sgroi

EditoriaUNA RAFFINATASOPRACCOPERTA DA RECENSIREdi Massimo Gatta

In Appendice – FeuilletonL.E.X. LE BIBLIOTECHE PROFONDE di Errico Passaro

BvS: il ristoro del buon lettoreUNA ANTICA CASA DI PIANURA SULL’ARGINE DEL FIUMEdi Gianluca Montinaro

HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO

MENSILE DI BIBLIOFILIA – ANNO VIII – N.1/68 – MILANO, GENNAIO 2016

la Biblioteca di via Senato – Milano

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Biblioteca di via Senato

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Direttore responsabileGianluca Montinaro

Servizi GeneraliGaudio Saracino

Coordinamento pubblicitàInes LattuadaMargherita Savarese

Progetto graficoElena Buffa

Fotolito e stampaGalli Thierry, Milano

Immagine di copertinaMarcel Janco (1895-1984), Manifesto per una serata del gruppoDada (Zurigo, 1918)

Stampato in Italia© 2016 – Biblioteca di via SenatoEdizioni – Tutti i diritti riservati

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U n numero – questo de«la Biblioteca di via Senato» –dedicato al centenario Dada

(1916-2016). Un’occasione duplice: per conoscere

questo movimento artistico-letterario natonel pieno della I Guerra Mondiale. E perriflettere sulla sua immensa carica, da unlato distruttiva, dall’altro propositiva, che,innescata, ha attraversato, come unainarrestabile slavina, buona parte delNovecento.

Il rifiuto della ragione, l’umorismo, la stravaganza, l’estrema libertà creativa (a volte spinta sin all’eccesso) hannocontribuito a fare del movimento Dada unafucina di idee e progetti artistici che hanno‘contaminato’ l’intera Europa, rovesciandoogni espressione d’arte nel suo contrario piùnetto: la negazione, la non-arte.

Occasione, quindi. Ma pure spunto di reazione, di fronte a tutti quegli -ismiradicali che (allora come ora) attraversanoil nostro continente.

Gianluca Montinaro

Editoriale

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DADA: ICONOCLASTIADELLA CULTURA

Idee e uomini da Zurigo a Berlino

l’opera, semplice oggetto (osomma di oggetti) del quotidia-no, nel suo farsi tale. L’attimo incui l’immagine dell’oggetto im-prime per la prima volta la suaforma sulla retina è l’attimo Da-da, assoluto, che col tempo sispoglia della sua assolutezza ediventa ‘cosa’.

Il Dadaismo nasce a Zurigomercoledì 5 febbraio 1916. Inun freddo giorno d’inverno Hu-go Ball, scrittore, poeta e registateatrale e la sua futura moglie, lacabarettista Emmy Henningsaprono il Voltaire, (poi detto Ca-baret Voltaire) al n.1 della Spie-gelgasse. Il locale offriva uno

spazio per 50 persone. Il calendario prevedevaazioni legate a letture, esecuzioni musicali, poesiesonore e performance. Insieme alla coppia trovia-mo Hans Arp, Marcel Janco, Tristan Tzara, Ri-chard Huelsenbeck e altri svizzeri.

DADA A ZURIGO IN DIRETTA: BALL,HENNINGS, TZARA, GLAUSER

Attraverso i racconti di Friedrich Glauser,scrittore svizzero, veniamo a conoscere che Tri-stan Tzara, ebreo rumeno (all’anagrafe SamuelRosenstock), un omino snob dal volto tondo e le

ESSERE DADA

Quello dadaista è un mo-vimento radicale, an-tiartistico, antipoetico,

volto a esaltare l’aspetto sponta-neo, immediato, contradditto-rio, trotzkista dell’arte («in ognimomento, per vivere, Dada de-ve distruggere Dada»). Il gesto,sottile, istintivo, casuale, evi-denzia l’importanza fondamen-tale della scelta rispetto alla ca-pacità manuale. Dada segna nel-l’arte e nel costume un momen-to di libertà assoluta, capace diannullare il concetto di tempostorico e di causa/effetto con leesperienze artistiche del passa-to. Una rivoluzione totale, senza necessaria rico-struzione o trasformazione e inserimento di unnuovo potere, i dadaisti volevano la distruzionedell’essenza stessa del potere. Con l’avvento diDada l’arte si manifesta nella sua istantaneità: pu-ro prodotto intellettuale. È l’intenzione che fissa

SPECIALE CENTENARIO DADA (1916-2016)

Sopra: manifesto di inaugurazione del Cabaret Voltaire a

Zurigo (5 febbraio 1916), Berlino, collezione privata. Nella

pagina accanto: Raoul Hausmann, ABCD Ritratto dell’artista,

1923, photomontage (inchiostro di china, foto e carta

stampata, cm 40x28), Berlino, collezione privata

MARCO FIORAMANTI

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mani piccole, occhialetti dalla montatura in ossosul naso, aveva oltrepassato la frontiera con unpassaporto falso. Sfuggì alla richiesta di arruola-mento nell’esercito rumeno grazie alla compia-cenza di uno psichiatra: dementia precox. Dovendopresentarsi al tribunale medico di Berna, Tzara sifece accompagnare dal giovane Glauser. Lo psi-chiatra, quale prova della sua diagnosi, presentòalcune delle poesie del suo paziente che evidenzia-vano l’incapacità di un processo mentale logico.Durante la visita l’effetto fu strabiliante: faccia datonto, fili di bava gocciolante, incapacità di espri-mere concetti. Esonero immediato. Le frequenta-zioni tra Tzara e Glauser continuarono anche do-po e, durante una lunga passeggiata notturna, nel-la Bahnhofstrasse deserta, il poeta rumeno confidòall’amico la bramosia di creare un nuovo movi-mento artistico. Si ricordò di una visita a una ‘settaestetica’ di Bucarest, nella quale tutti dovevano es-sere rigorosamente vestiti uguali, di grigio, cap-pello compreso. La mente viaggiava e lui avrebbepotuto fare affidamento sulle sue vaste conoscen-ze all’estero, sia a Parigi che in Italia. Nel frattem-po, Hugo Ball apriva il Voltaire...

Fu Tzara a presentare Ball a Glauser, «frontealta e ampia, seminascosta dai capelli, che lasciava-

no scoperta una linea sottile e bianchissima sopral’arco delle sopracciglia». Accanto a Ball, l’im-mancabile moglie, Emmy Hennings, donna mi-nuscola e tremolante.

Nel marzo del 1917 si aprì la Galleria Dada,un grande appartamento affittato a Ball da taleCorray, produttore di cioccolata. Tappezzaronosubito le pareti con opere note (Kokoschka, Klee,Kandinskij, Feininger) fornite dalla rivista «DerSturm». L’obbiettivo era però quello di realizzare‘serate dadaiste’, che richiamavano sempre grandimasse di pubblico. Ball al pianoforte, Glauser coltamburello, «gli altri dadaisti vestiti in maglia ne-ra, ornati di maschere alte e inespressive, che sal-tellano e muovono le gambe a tempo, e grugnisco-no anche le parole». Emmy Hennings intona lasua Danza macabra su testo di Ball. Poi era il turnodi Tzara, «in tight nero, ghette bianche sulle scar-pette di vernice» e dei suoi versi dadaisti, recitatiin francese: praticamente si trattava di un susse-guirsi di parole, a volte erano titoli di quadri di uncatalogo... Un giovane della scuola di Laban dan-zava una poesia fonetica di Ball, apparentementepiù comprensibile.

La testimonianza di Glauser diventa fonda-mentale quando racconta il programma, il menù

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di una di quelle serate (tratto dal libro La fuga daltempo di Hugo Ball):

ISuzanne Perottet: Composizioni di Schoenberg, La-ban e Perottet (pianoforte e violino).Friedrich Glauser: Padre, Cose (versi).Léon Bloy: Exégèse des lieux-communs (traduzionee lettura di Friedrich Glauser).Hugo Ball: ‘Grand Hotel Metafisica’, prosa in costume.

IIMarcel Janco: Il Cubismo e i miei quadri.Suzanne Perottet: Composizioni di Schoenberg, La-ban e Perottet (pianoforte e violino).Emmy Henninhs: Critica del cadavere, Appunti.Tristan Tzara: ‘Froide lumière’, poème simultan, lupar sept personnes.

Ball annotava al riguardo: «Il poème simultanera concepito come un rinnovamento del coro mi-sto. Ciascuno dei sette personaggi doveva leggerela sua parte, che consisteva in rumori prodotti conla bocca (“Prrr, ssss, ay a ya, uuuuh”) tra i quali fio-rivano improvvise le parole; vi si mescolavano vec-chie canzoni (Sous les ponts de Paris), allora i rumoridiventavano un accompagnamento sommesso, ecome una cantilena liturgica una parte del coro re-citava parole accostate in modo arbitrario». Coltempo poi la Galleria Dada, nelle mani del soloBall, stava andando in crisi. Nacquero le diatribecon Tzara e presto si sarebbero separati.

DADA A BERLINO: L’IMPEGNO POLITI-CO. LE PAROLE DI GEORGE GROSZ

È del 1918 il primo manifesto dadaista berli-nese, scritto da Richard Huelsenbeck: in esso si dà

spunto all’esigenza di nuovi materiali nella pittu-ra. Poi Raoul Hausmann inserì l’idea e il concettodi ‘fotomontaggio’. Ma entriamo subito nel vivoattraverso le parole di George Grosz.1

Ammesso che noi artisti fossimo l’espressione diqualcosa, eravamo l’espressione del fermento,dell’insoddisfazione e dell’inquietudine. Ogni di-sfatta nazionale sfocia in un nuovo periodo, dà il làa un nuovo movimento. In un’epoca diversaavremmo benissimo potuti essere tanti flagellati oaltrettanti esistenzialisti. Huelsenbeck introdussea Berlino, dove io lo conobbi, il movimento dadai-sta. Dato che l’atmosfera a Berlino era diversa daquella di Zurigo, il Dadaismo vi assunse un colori-to politico. Conservò ancora il suo aspetto esteti-co, ma questo venne sospinto sempre più nellosfondo col sorgere della corrente politica anarchi-co-nihilista. Questo accadde in un momento incui tutti si attendevano la vittoria dei comunisti inGermania.

Non a caso è stato definito nihilismo allegroquesto dei dadaisti ‘tedeschi di Germania’, bambi-ni onnipotenti, artisti senza paracadute che af-frontavano la vita con una visione sarcastica basata

Nella pagina accanto da sinistra: un’immagine della prima

fiera internazionale Dada (Berlino, 1920);

Hugo Ball (1886-1927) e sua moglie Emmy Hennings.

In questa pagina, a destra: Tristan Tzara (1896-1963)

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sugli happening sfrontati come nelle operazionimordi-e-fuggi, verso una ricerca di ripristinareuna sorta di armonia e atmosfera infantile provo-catoria.

Tenevamo riunioni dadaiste e facevamo pagarel’ingresso pochi marchi: ma in cambio non dava-mo altro che banalità. Intendo dire che ci limita-vamo a insultare la gente intorno a noi. Le nostremaniere erano intollerabilmente arroganti. Dice-vamo: «Tu, pezzo di merda, laggiù, sì, tu conl’ombrello, cretino». Oppure: «Ehi, tu, là a de-stra, non ridere, cornuto». Se ci rispondevano,come facevano, naturalmente dicevamo, come siusa sotto le armi: «Chiudi il becco, o ti prendo acalci in culo».

Divennero presto conosciuti anche alla poli-zia che spesso irrompeva nelle riunioni notturne acausa delle frequenti risse.

Ci prendevamo gioco di tutto. Questo era il Da-daismo. Niente era sacro per noi. Il nostro movi-mento non era né mistico, né comunista, né anar-chico: Tutte queste correnti avevano qualche pro-gramma, ma la nostra era completamente nihili-sta. Sputavamo su tutto, noi compresi. Il nostrosimbolo era il nulla, il vuoto. Fino a qual puntofossimo l’espressione di una disperazione che nonconosce salvezza, non so dirlo. Non sto tentandodi dare o di provocare una spiegazione. Riferiscosemplicemente la mia esperienza. C’era qualchepazzo tra noi, per esempio un certo Johannes Baa-der che si supponeva sposato alla terra per qualcheforma mistica: mise insieme un enorme scartafac-cio che chiamava Dadacon. Consisteva in ritagli digiornale e fotomontaggi.

Grosz si divertiva a formulare slogan dei qua-li era molto orgoglioso «Dada oggi, Dada domani,Dada sempre», «La piccola parodia politica Dada

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Sopra da sinistra: George Grosz (1893-1959); George Grosz, Eclissi di sole, (1926), Huntington, Heckscher Museum, USA.

Nella pagina accanto, da sinistra: Hugo Ball ritratto mentre recita il poema sonoro Karawane; Friedrich Glauser (1896-1938)

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über alles», «Vieni da Dada se vuoi essere abbrac-ciato e messo in imbarazzo», «Dada vi prenderà acalci nel sedere e ci proverete gusto». Facevanostampare questi slogan su alcuni cartellini e poi at-taccati alle vetrine dei negozi sui tavoli dei caffè,sulle giacche dei camerieri... la gente cominciava aspaventarsi e a chiedersi chi fossero questi teppi-stelli e soprattutto perché lo facevano.

Noi dadaisti avevamo un’arte tutta nostra: Sichiamava ‘arte dell’immondizia’ o ‘filosofia del-l’immondizia’. Il capo di questa scuola d’arte Da-da era un certo Kurt Schwitters di Hannover. Lesue tasche erano sempre piene di cianfrusaglie.Racimolava tutto ciò che trovava per strada. Rac-coglieva aghi arrugginiti, vecchi stracci, spazzoli-ni da denti senza setole, cicche di sigaro, raggi diruote di biciclette, ombrelli rotti... tutto ciò che

era stato gettato. Poi metteva insieme tutto ciòsulla tela o su vecchi cartoni, fissando saldamenteogni cosa con corda e fil di ferro. Il risultato sichiamava Merzbilder (pittura dell’immondizia) eveniva esposto e anche venduto. Molti critici, chevolevano essere all’altezza dei tempi, lodavanoquesta truffa ai danni del pubblico: prendevanosul serio quest’arte.

Solo alcuni riuscivano a capire il legame pro-fondo che univa quell’arte alla normale esperienzaquotidiana…

NOTE1 Cfr. George Grosz, Un piccolo sì e un grande no, Milano, Longa-

nesi, 1975

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culturale. Ne rivendica il sensocomplessivo e la continuità fral’espressione artistica e il per-corso filosofico: «Nell’essen-ziale, sussiste una continuità at-traverso tutte le varie fasi dellamia attività».

Ne Il cammino del cinabro,sua autobiografia intellettuale,termina la parte dedicata al suopassaggio dadaista, con le se-guenti parole: «Non scrissi poe-sie né dipinsi più dopo la fine del1921». Nello stesso capitolo ri-sultano significative le afferma-zioni di Tristan Tzara, riportate

da Evola: «Che ognuno gridi: vi è un gran lavorodistruttivo, negativo, da compiere. Spazzar via, ri-pulire. Senza scopo né disegno, senza organizza-zione, la follia indomabile, la decomposizione».

«In Italia - scrive Evola - fui fra i primissimi arappresentare la corrente dell’arte astratta, inconnessione col dadaismo (conobbi personal-mente Tristan Tzara e altri esponenti del movi-mento)». Nell’esposizione dadaista a tre, con Gi-no Cantarelli e Aldo Fiozzi, alla Casa d’Arte Bra-gaglia, a Roma (aprile 1921), sono ben visibili i di-versi indirizzi presenti all’interno del gruppo (inFiozzi per esempio è esplicito il riferimento mec-canicistico). All’inaugurazione della mostra Evola

I l Dada italiano è ancora ca-rente di studi complessivi,risultando tuttora segreto,

rispetto alle altre aree geografi-che di espressione del movi-mento. Punto di partenza perchi volesse intraprendere unatale indagine rimane il lavoroartistico e poetico di Julius Evo-la (1898-1974), indicato come ilprincipale esponente in Italiadel Dada. La sua produzione co-stituisce una rilevante testimo-nianza, anche per le diverse etransdisciplinari letture.

Dada incarna un’espressio-ne sconfinante, con momenti, riflessioni ed esi-stenze differenti, all’interno del proprio svolgersi.Ma con una idea di sintesi e totalità finale, peral-tro presente in diversi aspetti e autori del movi-mento. Evola stesso rifiuta di distinguere e sepa-rare i momenti più significativi del suo percorso

SPECIALE CENTENARIO DADA (1916-2016)

Sopra: Julius Evola (1898-1974). La foto probabilmente è

stata scattata nel corso dell’esposizione dadaista presso la

Casa d’Arte Bragaglia (Roma, 15-30 aprile 1921). Alle

spalle si riconoscono due suoi dipinti.

Nella pagina accanto dall’alto: Julius Evola, La parola

oscura (1921), olio su cartone, Roma, collezione Canonico;

Stanislao Nievo (1928-2006), Fotoritratto di Evola, 1968

JULIUS EVOLA E IL DADA IN ITALIA

Una ‘espressione sconfinante’ fra arte, poesia e pensieroVITALDO CONTE

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tiene una conferenza, in cui presenta il Dada inItalia: oltre alla rivista mensile «Bleu» (che si pub-blica a Mantova e che uscirà in tre numeri), indicacome principali aderenti al movimento se stesso,Gino Cantarelli, Bacchi, Fiozzi, Vices-Vinci. Nelsuo intervento decreta, con toni fortemente pole-mici, l’esaurimento del Futurismo. Marinettiprende atto che, per la prima volta, si svolge unamanifestazione d’avanguardia esplicitamente di-chiarata come non futurista. Ma non è questo ilprimo attacco al padre fondatore del Futurismo:già nel gennaio dello stesso anno, su «Bleu», Evo-la aveva firmato, assieme a Cantarelli (che conFiozzi dirigeva la pubblicazione), una pesante ri-flessione contro Marinetti e il suo movimento:Dada soulève tout.

�L’esperienza pittorica e poetica dadaista di

Evola, pur breve nella temporalità, risulta intensa,anche negli aspetti intellettuali, presenti nellastessa pratica artistica. Esprime una testimonianzasingolare nell’ambito di un’astrazione che si co-struisce con il distacco da urgenze espressive. Ilsuo spiritualismo assoluto s’inserisce nello sparti-to dei linguaggi non-figurativi dell’avanguardiaeuropea del primo Novecento, i cui esiti risultanomolto ricettivi allo ‘spirituale nell’arte’ in diversisuoi protagonisti, fra i quali Kandinsky, Mon-drian, Malevic, Kupka e Ciurlionis, nonché in uncerto futurismo che fa capo a Ginna e Balla. Le“rappresentazioni” di Evola sono uno dei ‘gradizero’ di questa astrazione: con il suo lasciare ilpensiero-immagine della pittura per dedicarsi alla

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Dall’alto: Julius Evola, Dadalogie. Il manoscritto del testo,

in forma di manifesto, inedito all’epoca, è stato pubblicato

nel catalogo della mostra Scheiwiller a Milano. Immagini e

documenti (Milano, Biblioteca Civica di Palazzo Sormani,

1983); Julius Evola, Composizione n.3 (1919), disegno a

penna, (Roma, collezione privata)

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filosofia, con il suo intervenire nell’arte e con lasua indifferenza per il creare o non: «Non voglioconvincere nessuno. E ripongo la mia causa nellaforma senza vita, ripongo la mia causa nel nulla».

L’adesione al Dada è comunicata a Tzara neiprimissimi giorni del 1920. Evola, con gli scritti ela pittura, ne attraversa le contraddizioni fino a ri-svolti imprevedibili, condividendone la radicaleessenza nichilista, oppositiva a ogni valore acqui-sito dell’arte e della morale. La sua particolarità èanche quella di aderire al Dada (che rifiuta la for-mulazione di linguaggi stabiliti) per poi teorizzar-ne una possibile estetica ed esprimerne opere con

un intrinseco equilibrio e valore artistico, contra-riamente alle intenzioni del movimento.

Lo scritto giovanile Arte Astratta (compostoda una introduzione teorica seguita da dieci poemie quattro composizioni), pubblicato nel 1920 perCollection Dada (Zurigo), è da considerare la suaprima opera. È una raccolta di riflessioni, compo-sizioni poetiche, riproduzioni di quadri. Il contri-buto teorico abbozzato è significativo, sintomati-co dello spessore intellettuale dell’autore, oltreche essere testimonianza del tempo, ondeggiantefra desiderio di ordine e rottura: «Esprimere è uc-cidere. Dunque non si può né si deve esprimere».

Da sinistra: prima pagina della rivista «Bleau», n. 3, Mantova, 1921. L’articolo Note per gli amici è di Julius Evola, mentre

la xilografia Nudo di donna è di Ivo Pannaggi; copertina del catalogo Julius Evola e l’arte delle avanguardie tra Futurismo,

Dada e Alchimia, Roma, Fondazione Julius Evola, 1998: la mostra si svolse a Milano, a Palazzo Bagatti-Valsecchi, nel 1998

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tica che risulta anche immagine-concetto. Ac-compagnano, in maniera sotterranea, il suo proce-dimento di pensiero, che sottintende simultanea-mente quello esoterico e propriamente alchemi-co. Le composizioni astratte dei suoi Paesaggi inte-riori possono essere lette appunto come un “pen-sare”, attraverso la visione di spazi siderali: con ilcolore che assume pregnanza simbolica e con i ri-ferimenti a un percorso ermetico-alchemico.L’astrazione di Evola è mistica, in quanto la com-bustione alchemica ha come dinamica la purifica-zione spirituale. L’alchimia, in lui, diviene crea-zione, lettera-concetto e procedimento immagi-nale di pensiero, travalicando i confini fra le arti.

Evola vive la stagione artistica con totale par-tecipazione esistenziale: soglia di trascendimentoper ulteriori itinerari, usando le possibilità dellamente e dello spirito. Gli appare come l’approdoestremo dell’arte modernissima - cioè astratta - li-mite insuperabile del nichilismo artistico, non in-travedendo nell’ambito della forma, dopo Dada,alcuna possibilità di sviluppo. La sua significativaradicalità esprime certamente la conclusione delleistanze più profonde che avevano alimentato i mo-vimenti d’avanguardia. Le stesse categorie artisti-che sono negate, nella ricerca di passaggi verso leforme caotiche di una vita priva di razionalità, incui la contraddizione, il paradosso, il non senso ri-sultano elementi dominanti.

�Il transito dada di Julius Evola nella poesia è

espresso dai testi, compresi fra il 1916 e il 1922,che avrebbero formato la raccolta Ràaga Blanda edal poemetto a quattro voci La parole obscure dupaysage intérieur (tradotto dall’italiano in francesedall’autore insieme a Maria de Naglowska) cherappresenta il suo estremo approdo lirico.

L’autore, nell’introduzione a Ràaga Blanda,scrive che in questa poesia è visibile uno sviluppoche, a parte alcune non rilevanti incidenze futuri-ste, va dal decadentismo al simbolismo e dall’ana-

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In nome di una superiore libertà, denuncia l’aspi-ritualità di ciò che viene abitualmente consideratospirituale, auspicando il valore di un’estraneitàmistica, impassibile e dominatrice più che estatica.Per Evola l’arte astratta si costituisce sul principiodi un “formalismo assoluto” e sull’espressione diuna volontà cosciente, lucida, protesa a «portarsidi là dalla vita» e a non immergersi in essa. Può di-ventare così «un metodo dello spirito», in arte co-me altrove, proprio nel suo essere un metodoastratto, non pratico, della purità e libertà. Questaastrazione diviene posizione interiore che può es-sere ‘oggettivizzata’ nel linguaggio artistico e poe-tico.

Le visioni, che Evola affida alla sua pittura epoesia, pur appartenendo allo specifico linguag-gio usato, possiedono una comunicazione sineste-

Sopra: copertina del catalogo Julius Evola. Arte come

alchimia, mistica, biografia, Reggio Calabria, Iiriti Editore,

2005: la mostra (a cura di Vitaldo Conte) si tenne presso il

Castello Aragonese di Reggio Calabria, dal 2 dicembre

2005 al 6 febbraio 2006. Nella pagina accanto: Julius Evola,

La parole obscure (1921): disegno per la copertina del

poema a quattro voci

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15gennaio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano

logismo fino alla composizione dadaista. Inquest’ultima fase viene seguita la tecnica dellapoesia astratta e della cosiddetta “alchimia delleparole”, in cui queste ultime vengono usate nonsecondo il loro contenuto oggettivo ma soprattut-to secondo le valenze evocative, associate a fonemiinarticolati e accordate in modo vario. Le reitera-zioni di lettere partite da onomatopee futuristegiungono al Dada, attraverso la ritualità ermeticae il libero fonetismo, perdendo la funzione imita-tiva o allusiva per assumere quella di richiamareun suono intimo, ancestrale.

Le parole, disposte con apparente libertà, vi-vono in uno spazio determinato da linee conver-genti e divergenti, come se fossero cristallizzatedal pensiero. Una speciale chiaroveggenza ricreal’alchimia lirica nella dimensione oscura del sim-bolo. La selezione e combinazione evocativa delleparole, dissociate dal senso reale, e dei suoni espri-mono la sua poesia dada. Questa ricerca è rintrac-ciabile in altri autori del movimento, come nei te-sti di Hugo Ball che rileva «Dobbiamo tornare allapiù intima alchimia della parola, rinunciare allaparola in modo da poter conservare alla poesia ilsuo ultimo e più sacro rifugio».

Le possibili ‘illuminazioni’ evoliane propon-gono un mondo che dilata le possibilità sensorialie percettive della realtà, fino ai confini estremi delvivibile e dell’oltre. Il suo verso, edificandosi conimmagini che richiamano una musica interiore, siespande in coinvolgimenti plurisensoriali. Comeaccade in talune espressioni della poesia concreto-visuale e fonetica internazionale, specificatamentein quelle di vocazione magico-rituale.

Evola riprende la dimensione simbolista peresprimere una materialità linguistica autonoma:da utilizzare con il suo potere evocativo, attraver-so l’orchestrazione dei sensi, emergendo da grup-pi d’immagini apparentemente slegate (comenell’alchimia della parola di Rimbaud). Sostituiscel’iniziale astrattismo sentimentale con uno apas-sionale. La lirica non deve esprimere più nulla,

perché è comunicazione pura, libertà incondizio-nata, dominio dei mezzi d’espressione: entra inun’atmosfera assolutamente rarefatta, ossessio-nante di alogicità e di orgasmo interiore.

Nella lettera che Evola scrive a Tzara nel ’21,per accompagnare una copia del poemetto La pa-role obscure, questo viene definito «una specie didocumento di un episodio della mia vita». La vo-cazione trascendentale espressa dal testo poeticoha un percorso di ampliamento visivo nella coper-tina disegnata dall’autore stesso, riempita da spe-cifici segni che costruiscono la sua complessità.Questa poesia è da leggere anche come espressio-ne di un percorso di formazione: quello proteso

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16 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2016

verso una conoscenza sempre più approfonditadella tradizione ermetico-alchemica, la cui culturasi muove e relaziona fra Simbolismo, Futurismo,Dadaismo.

Nel ’63 l’autore, nella Prefazione alla ristam-pa, indicherà il livello dadaista di astrazione diquesta sua opera: «Il poemetto è ‘astratto’ solo incerti aspetti del testo, dove ho seguito la tecnicadella composizione o ‘alchimia’ dei puri valorievocativi, e non oggettivi, delle parole e anche disuoni. Per il resto, esso ha un ‘contenuto’ abba-stanza preciso».

Il poema esprime il compimento di quel-l’azione ‘anti-umana’ auspicata da Tzara nel suoManifesto del 1918. Raggiungere la pienezza del-l’astrazione può comportare il silenzio della paro-la poetica: esperienza in cui ‘entrano’ anche altridadaisti. A conclusione del rituale, scrive Evola aTzara, «inizierà la vita ultima, il 2° piano Dada.Ma ciò non appartiene più all’espressione», cioè

non appartiene più alla poesia: «Siamo fuori, ab-biamo esaurite tutte le esperienze, spremute tuttele passioni. Non è pessimismo: si tratta di aver ve-duto. Io, sono al di fuori».

Come lo stesso autore esplicita a Papini, sia-mo di fronte all’uomo «finito sul serio»: «Smettedi scrivere e ne ha abbastanza dell’intellettuali-smo; fa come fece un Rimbaud, taglia tutti i ponti,cambia essenzialmente di piano. Magari si ucci-de». Da quel momento Evola si dedicherà esclusi-vamente al pensiero filosofico. Il nuovo percorsocoincide con l’esaurimento di un periodo dell’arteitaliana d’avanguardia. Nel ’63 Evola fornirà unaspiegazione al riguardo: «L’arte astratta, nello sfo-ciare nel Dadaismo, rappresentò un limite, rag-giunto il quale non restava che da tacere, o da pas-sar oltre, o, nei casi estremi, di battere la via di unRimbaud o di coloro che posero fine alla propriavita». Ed Evola probabilmente ‘silenziò’ la parolapoetica per ‘finire’ il proprio sé umano.

Sopra da sinistra: Julius Evola (primo a destra), in tenuta militare, nel 1917; Evola, diciannovenne sottotenente di

complemento, comandante di sezione d’artiglieria, ritratto sul Monte Cimone, presso Asiago, nell’agosto del 1918

(© Archivio Fondazione J. Evola. Per gentile concessione)

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gennaio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 19

una qualsiasi altra cosa che ripro-ducesse gli originali accurata-mente incellofanati, fui obbligataa trascrivere, con santa pazienza ecrampi alle dita, le lettere».

Attingere alle fonti dirette èfondamentale per ricostruirequalsiasi avvenimento, dato che iltempo cancella o modifica i ricor-di. I trentuno documenti evoliani(purtroppo le lettere di rispostadi Tzara sono scomparse) nonsolo confermano i ricordi del fi-losofo tradizionalista sul periodoin cui era un giovane artistad’avanguardia ma arricchisconodi particolari significativi (sinoraignoti) la storia del Dadaismo ita-liano e sono determinanti percomprendere in quale clima psi-cologico personale e generale simuoveva l’Evola artista.

Tramite questa corrispon-denza gli storici dell’arte, adesempio, possono ricostruire,per così dire ‘in presa diretta’, ledate di certi avvenimenti. Fra essila famosa conferenza all’Univer-sità di Roma che adesso sappiamoessere avvenuta il 16 maggio

Se non fosse stato per la pas-sione, l’intuizione e la ca-parbietà di una giovane

laureanda dell’Università di Ro-ma, le lettere inviate da JuliusEvola a Tristan Tzara nel 1919-1923 sarebbero rimaste ignote, onote solo a una ristrettissima cer-chia di specialisti.

Nel 1989 Elisabetta Valentoche stava preparando una tesi suJulius Evola artista, incuriosita davari indizi, si recò a proprie spesea Parigi dove fra non poche diffi-coltà, dato che la notizia non erafacile da reperire - anche se que-sto può sembrare assurdo - seppeche esisteva un Archivio Tzarapresso la Fondation Jacques Douicet alla Biblioteca Sainte-Geneviève. Qui trovò le lettereevoliane ma, come lei ricorda,«non essendo possibile ottenerené fotocopie, né fotografie, né

SPECIALE CENTENARIO DADA (1916-2016)

A sinistra: ritratto di Julius Evola

(1898-1974).

Sopra: Robert Delaunay (1885-1941),

ritratto di Tristan Tzara, 1923

LE LETTERE DADAISTEFRA EVOLA E TZARA

Quando il ventenne Julius scriveva al padre del Dada…

Le “Lettere di Julius Evolaa Tristan Tzara (1919-1923)”, a cura di ElisabettaValento, sono state pubblica-te nel 1991 dalla FondazioneJ. Evola («Quaderno» n. 25).Saranno di nuovo ripropostein un volume dedicato inte-ramente all’Evola artista, inpreparazione per le EdizioniMediterranee nella collana“Opere di Julius Evola”.

GIANFRANCO DE TURRIS

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1921 e che sarà trasformata nel saggio Sul significatodell’arte modernissima (1925) e le precise date di pub-blicazione di Arte Astratta (agosto 1920) e del poe-metto La parole obscure du paysage intérieure che è del1921 e non del 1920, come sino ad allora si era cre-duto, nonché rettificare l’opinione che la mancatapubblicazione di questa opera di Evola da parte del-le Edizioni futuriste di “Poesia” non dipendesse dauna decisione dell’autore ma dal successivo ostraci-smo dell’editore - cioè Marinetti- dopo che Evola siera spostato su posizioni dadaiste (lettera del 7 di-cembre 1920), potendone anche avere una interpre-tazione autentica, quasi una decodificazione, del suosignificato profondo (lettera non datata, probabil-mente del novembre 1921). Inoltre gli storici del-l’arte hanno potuto conoscere, cosa sino ad allorasconosciuta, l’elenco completo dei suoi dipintiesposti nella prima personale alla Casa d’arte Braga-glia del gennaio 1920 (lettera del 7 febbraio 1920).Dalle lettera emergono anche informazioni per ibiografi: ad esempio che alla data del 1920 il venti-duenne Giulio Cesare Andrea Evola era ancora in-quadrato come tenente di artiglieria, ma pressol’Ufficio dello Stato Maggiore della Marina… sa-rebbe interessante capire con quali mansioni. Ed ec-co spiegato il motivo per cui alcuni testimoni del-l’epoca ricordano di averlo visto a passeggio per Ro-ma in divisa e mantello: non snobismo, quindi, maperché non era stato ancora smobilitato.

20 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2016

Sopra, dall’alto: Tristan Tzara, 7 manifestes dada, Parigi,

Editions du diorama, 1924, con dedica autografa a Julius

Evola; Maria de Naglowska, Malgré les tempêtes..., Roma,

P. Maglione & C. Strini, 1921, con dedica a Evola

(© Archivio Fondazione J. Evola. Per gentile concessione);

parte di lettera di Tristan Tzara a Francesco Meriano,

Zurigo 8 dicembre 1916. (Fondazione Primo Conti

Archivio Francesco Meriano). Nella pagina accanto,

da sinistra: Julius Evola, in una foto del 1935 circa

(© Archivio Fondazione J. Evola. Per gentile concessione);

Tristan Tzara, Astronomia-calligramma, 1916

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21gennaio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano

Le lettere sono importanti anche per gli stu-diosi del pensiero evoliano circa la ‘periodizzazione’dei suoi interessi che non procedevano per compati-menti stagni. Apprendiamo ad esempio che in pienofervore dada, nell’autunno 1920, Julius Evola stavalavorando a quello che sarebbe stato il suo primo li-bro ‘filosofico’, i Saggi sull’idealismo magico (Atanòr,1925), opera propedeutica all’altra assai più impe-gnativa, Teoria e fenomenologia dell’individuo assoluto,uscita in due toni (Bocca, 1927 e 1930), conclusa giànel 1924.

E infine soprattutto le ultime lettere a Tzarasono fondamentali per capire in che modo Evola in-tendesse il Dadaismo nel complesso del suo pensie-ro, che senso avesse e a cosa servisse nel suo ‘siste-ma’, e come si collegasse la filosofia dadaista conquella del taoismo e con la sua personale dell’Indivi-

duo assoluto che stava elaborando. E che significatodare all’annuncio del proprio suicidio che, nel corsodegli anni a venire, avrebbe sollevato non poche iro-nie e sarcasmi. Ma il giovane artista è chiaro: muoreuna persona e da lì spicca il volo un’altra. Il Dadai-smo servì al giovane Evola per porre le basi dellasuccessiva fase del suo pensiero. Questo «piano -scrive nella citata lettera della fine del 1921 - può es-sere il punto di partenza per una nuova vita e, dun-que, il suo punto più basso. Questa nuova vita è il re-gno dell’iperbole che, come la chiamavano i greci è‘Madre, sorella e figlia di se stessa’: è l’attività disin-teressata: ossia la libertà». Un’indicazione che JuliusEvola tenne presente sino al giorno della sua morte.

Su tutto ciò, se non avessimo le lettere cheEvola scrisse a Tzara, molto sarebbe ancora pocochiaro, anzi del tutto oscuro.

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gennaio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 23

SPECIALE CENTENARIO DADA (1916-2016)

ne Evola. Vediamo così quest’ul-timo, in qualità di pittore e poe-ta, contribuire attivamente, du-rante l’intero corso del 1921, al-la scena dadaista romana. Lostralcio della lettera a Tzara co-stituisce così uno dei momentisalienti nella diffusione di Dadain Italia. Allo stesso obbiettivopuntano gli sforzi perpetrati daEvola in quegli anni, nonché lasua stessa produzione artistica.A testimonianza di ciò troviamoappunto il suo componimentopoetico “a quattro voci”, La pa-role obscure du paysage intérieur.

Pubblicata ufficialmentetra il settembre e l’ottobre del1921, la poesia La parole obscuredu paysage intérieur - Poème àquatre voix3 è stata già introdottae interpretata durante più d’unodegli incontri organizzati daEvola.4 Così quando quest’ulti-mo scrive al fondatore del Da-daismo parlando della sua com-posizione ha già in programmaun’ulteriore presentazione dellasua opera in pubblico. In occa-

Quando nell’ottobre del1921 Julius Evola scrivea Tristan Tzara, le pri-

me parole che possiamo leggeredalla lettera sono:

Caro amico vi scrivo per sape-re se siete già rientrato a Pari-gi. Se sì, sarete molto gentilese me lo comunicherete, affin-ché possa inviarvi un poemache ho pubblicato La parole ob-scure du paysage intérieur, echiedervi qualche informazio-ne. Niente di nuovo da me.Stiamo per aprire presto lastagione Dada a Roma.1

Nonostante «l’apertura»della stagione Dada auspicatadal filosofo romano, i mesi pre-cedenti alla missiva vedono ilsusseguirsi di una serie di inizia-tive appartenenti al suddettomovimento d’arte d’avanguar-dia.2 Buona parte di queste ma-nifestazioni hanno in comune ilfatto di essere organizzate o diavere come protagonista il baro-

DADA 1921: UN’OTTIMA ANNATAMaria de Naglowska e il milieu dadaista in Italia

Sopra: Maria de Naglowska

(1883-1936), in una foto del 1928

circa. Nella pagina accanto:

frontespizio di un esemplare

della poesia Reste seul di Maria de

Naglowska. Stampato in 240 copie

(questa è la n. 18) nel 1918 a Ginevra,

il componimento venne ripubblicato

in Italia nella raccolta Malgré les

tempêtes... nel 1921 (Roma,

P. Maglione & C. Strini). Il disegno

a penna del frontespizio è della stessa

Maria de Naglowska

MICHELE OLZI

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sione della serata del 29 ottobre del 19215 Maria deNaglowska declama La parole obscure du paysage in-térieur presso le “Grotte dell’Augusteo”.6

“Le Grotte” consistono di alcuni locali rica-vati nei sotterranei del Mausoleo d’Augusto, iquali diventano, a partire dall’aprile del 19217 illuogo di ritrovo e di esposizione del “Cenacolod’arte dell’Augusteo” fondato da Arturo Ciacielliinsieme a Ugo Giannattasio, Anton Giulio Braga-glia, Enrico Prampolini, Luciano Folgore e Vin-cenzo Cardarelli.

Nonostante non si possa, ancora oggi, accer-tare tutti gli artisti e tutte le iniziative che abbianoaderito al Dada romano in quell’anno (1921),dell’evento alle Grotte dell’Augusteo e di un per-sonaggio in particolare non abbiamo dubbi al ri-guardo. La frase «Stiamo per aprire presto la sta-gione Dada a Roma» si riferisce qui, oltre che al fi-losofo romano, alla persona e opera della poetessa,giornalista e traduttrice Maria de Naglowska.

Oltre a leggere la poesia di Evola in occasionedella serata dadaista, la Naglowska collabora edi-

torialmente alla stessa pubblicazione de La paroleobscure.8

A questo punto una domanda è lecita, chi èquesta Maria de Naglowska? Come arriva a fre-quentare l’ambiente delle avanguardie nel 1921?

Marija Dmitrevna Naglovskaja9 nasce nel1883 a San Pietroburgo. Cresciuta ed educata inseno all’aristocrazia, decide verso i vent’anni di la-sciare la sua terra natia. Inizia così per lei un perio-do di viaggi e di peregrinazioni tra le capitali del-l’intera Europa. Alla fine degli anni Dieci è a Gine-vra, dove si cimenta nell’attività poetica e di gior-nalista.10 In seguito al verificarsi di circostanze av-verse, abbandona la Svizzera per l’Italia. Nel 1920arriva a Roma, dove si ritrova in condizioni econo-miche disastrose. Il fatto più paradossale è che,l’avvicinamento all’ambito e ai luoghi delle avan-guardie avviene proprio durante questa sua fase didisperazione. Scrive al riguardo uno dei figli dellaNaglowska, André: «il nostro domicilio divenne ilcaffè Aragno e il caffè Greco e noi dormivamo tal-volta da un amico, talvolta da un altro».11

24 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2016

NOTE1 Elisabetta Valento (a cura di), Lettere

di Julius Evola a Tristan Tzara (1912-1923), Roma, Fondazione Julius Evola,

1991, p. 42. La data esatta è il 24 ottobre

1921. 2 Il “Calendario della Grande Stagione

Dada Romana”, recante l’intero program-

ma dei luoghi, dei protagonisti e delle ini-

ziative previste per l’anno 1921, è stato

pubblicato prima parzialmente da Enrico

Crispolti, Dada a Roma. Contributo allapartecipazione italiana al Dadaismo in

«Palatino», luglio-settembre, 1968, pp.

295-296, e poi nel catalogo della mostra

Julius Evola e l’arte delle avanguardie -tra Futurismo, Dada e Alchimia, Milano,

Fondazione Julius Evola, 1998, pp. 105-

108.3 Julius Evola, La parole obscure du

paysage intérieur - Poème à quatre voix,

Zurich, Collection Dada, 1921.4 Cfr. nota 2, ci si riferisce specifica-

mente all’incontro previsto per il 15 giu-

gno 1921.5 Secondo la ricostruzione effettuata,

nella sua tesi di dottorato, da Valeria Pao-

letti, Dada in Italia. Un’invasione manca-ta, tesi di dottorato di ricerca conseguita

presso l’Università degli Studi della Tu-

scia, Viterbo, 2009, p. 74, disponibile onli-

ne all’indirizzo

http://hdl.handle.net/2067/1137.6 Per ulteriori approfondimenti ri-

guardanti i luoghi di ritrovo dei movi-

menti d’arte d’avanguardia a Roma ri-

mandiamo a Elisabetta Mondello, Am-bientazioni, cabaret, teatri tra futurismoe avanguardia, in «Roma moderna e con-

temporanea», anno II, n. 3, settembre-di-

cembre 1994, pp. 605-625 7 Cfr. Le ‘Grotte dell’Augusteo’. Un

nuovo cenacolo intellettuale, in «La Tribu-

na», Roma, 17 aprile 1921.8 Sulla copertina de La parole obscure

du paysage intérieur - Poème à quatrevoix (prendiamo come riferimento uno

dei novantanove esemplari numerati ap-

partenente alla “Collezione ’900 Sergio

Reggi”, depositato presso gli Archivi della

Parola dell’Immagine e della Comunica-

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25gennaio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano

Potremmo considerare la frequentazione diquegli ambienti da parte dell’autrice come una me-ra coincidenza, se non fosse che, a partire dal1921,12 la Naglowska incomincia a collaborare conil quotidiano «L’Italie».13 L’intellettuale di SanPietroburgo scrive per la rubrica dedicata alla ‘cul-tura e spettacoli’ nella capitale. Tra questi non tro-viamo solo le rassegne delle esposizioni artistichepresso il Caffé Greco, o della serie d’incontri su‘arte e occultismo’ tenuti dal pittore e scultore Ra-oul Molin dal Ferenzona tra il maggio e il giugnodel medesimo anno al Margutta,14 ma anche la re-censione della raccolta di poesie della Nostra, Mal-gré les tempêtes15 (raccolta che viene pubblicata pro-prio nel 1921 dalla casa editrice Maglione eStrini).16 Un piccolo inciso occorre a questo punto:nello stesso anno Arte Astratta17 di Julius Evola, fi-gura pubblicata da Collection Dada, a Zurigo. Inrealtà il barone l’ha fatta stampare, a sue spese,presso la medesima casa editrice che aveva pubbli-cato l’autrice russa.

Inutile dire che, oltre all’editore romano di

Evola, le poesie della Naglowska hanno molto dipiù in comune con la dimensione Dada in Italia.Malgré les tempêtes - Chants d’amour raccoglie l’in-tera produzione poetica della Naglowska e la deci-sione di pubblicarla solamente nell’anno crucialeper Dada, 1921, fornisce una certa visione sull’in-sieme e lo stile delle poesie. Ciò che lascia poi defi-nitivamente intravedere una vicinanza tra la Na-glowska e la corrente d’arte d’avanguardia è il ‘gio-co/sentire dada’ presente nei suoi componimenti.

Due casi possono ben esemplificare ciò: sitratta delle poesie Reste seul e Chant de l’île déserte.18

Se Reste seul si caratterizza per l’utilizzo di sineste-sie, metafore e percezioni che rivelano l’inconsi-stenza del vissuto umano, Chant de l’île déserte siconfigura a metà tra una pièce teatrale e una favolaaraba, in cui i personaggi (Un djinn, un poeta, ildramma, la poesia, la commedia) dialogano e si ri-mandano la parola l’un l’altro cercando di definirela natura del proprio essere, senza tuttavia mai riu-scirci (in quanto confinati appunto su un’isola de-serta).

zione Editoriale a Milano e visualizzabile

online all’indirizzo: http://apicesv3.no-

to.unimi.it/site/reggi/), subito dopo il ti-

tolo troviamo scritto «traduit de l’italien

par l’auteur et Maria de Naglowska».9 Come risulta dal fascicolo a nome di

«Elena Megeninoff» (sua zia) depositato

presso l’Archivio Centrale di Stato, divi-

sione ‘Affari Generali e Riservati’, a Roma,

e come riporta la voce biografica dedicata

alla poetesse russa, compilata dalla dot-

toressa Laura Piccolo per il Dizionario

Biografico dell’immigrazione russa in Ita-

lia, consultabile online all’indirizzo

www.russinitalia.it.10 Per ulteriori approfondimenti sulla

vita di Maria de Naglowska, rimandiamo

il lettore italiano a Michele Olzi, Per unastoria dell’Amore Magico, uno studio bio-bibliografico su Maria de Naglowska(1883-1936) in Hans Thomas Hakl (ed.),

Octagon: The quest for wholeness mirro-red in a library dedicated to religious stu-dies, philosophy and esotericism in parti-cular, Gaggenau, Scientia Nova, 2015-16.

11 André De Montparnasse, L’Apatride,

Lyon, s.e., 1956, p. 25.12 Ibid., p. 28; S. Alexandrian, op. cit., p.

6; Marc Pluquet, La Sophiale - Maria deNaglowska, Sa vie, Sa oeuvre, Paris, Ordo

Templi Orientis, 1993, p. 4.13 «L’Italie - Journal politique quoti-

dien», era l’edizione francese del quoti-

diano romano «Il Tempo», pubblicata dal

1873 al 1940.14 Maria de Naglowska, L’occultisme

apporte la joie, mais souvent aussi le mal-heur in «L’Italie - Journal politique quoti-

dien», 15 mai 1921, p. 5.15 M. de Naglowska, Malgré les tem-

pêtes in «L’Italie - Journal politique quoti-

dien», 6 octobre 1921, p. 3.16 Id., Malgré les tempêtes - Chants

d’amour, Roma, P. Maglione & C. Strini,

1921.17 J. Evola, Posizione teorica, 10 Poemi,

4 Composizioni, Zurich, Collection Dada,

1920.18 M. de Naglowska, ult. op. cit., p. 18.

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gennaio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 27

choc, allo stoss (colpo) e sottrarloalla storia dell’arte. Dada è choc, èstoss, è sorpresa. Non può essereincasellato come movimento ar-tistico nel senso dei manuali nécome movimento letterario oteatrale, neppure come movi-mento politico, ma come espres-sione del dissenso radicale a ogniconformismo. Dada contienetutto ciò, opera all’interno del-l’arte, della letteratura, del tea-tro, nella sfera del comporta-mento, è anti-arte ma agisce al dilà dell’arte. Fra apollineo e dio-nisiaco sceglie di sbilanciarel’azione verso Dioniso con uninedito «nichilismo attivo».1 Il

Cabaret Voltaire, fondato da Tzara, Ball, Janco e al-tri rifugiati a Zurigo, al civico 1 della Spiegelgasse,è una koinè sovranazionale, non classificabile comecorrente estetica, ma come specchio - spiegel - de-formante del reale. Dada agisce da specchio defor-mante. L’accusa che Platone muoveva all’arte mi-metica, illusionistica, era quella della sua sostanzia-le inutilità, sostituibile facilmente con uno spec-chio rotante che avrebbe semplicemente riprodot-to in immagine il reale. L’operazione di Dada, do-po due millenni di arte occidentale, fu quella diaprire radicalmente la crisi sulla funzione dell’arte

C afè Terrasse, Zurigo1916, la guerra mondia-le è già in corso, due si-

gnori giocano a scacchi. SonoLenin e Tristan Tzara. Entrambifuggono la guerra per motivi di-versi. Il primo per muovere allaguerra, una guerra di segno op-posto, il secondo semplicementeper evitarla. Entrambi giocanouna partita oltre le vite dei gioca-tori. Chi sarà il vincitore? Vincechi sa davvero scommettere sulcaso: la verità del gioco è nel casonon nella pura strategia matema-tica. Tzara è l’inventore di Dada,il movimento che afferma il casocome principio della vita, Leninè lo stratega del materialismo scientifico, un gran-de sogno che, come tutti i grandi sogni del Nove-cento si sono tramutati in grandi incubi. Occupia-moci di Tzara e del suo movimento, di cui ricorrequest’anno il centenario. Per comprendere Dada ela sua vitalità continua, occorre restituire Dada allavita, al caso, al gioco, all’eros, alle pulsioni, allo

SPECIALE CENTENARIO DADA (1916-2016)

Nella pagina accanto: Raoul Hausmann (1886-1971),

Dada vince, 1920. Sopra: frontespizio del primo e unico

numero di «Le coeur a barbe» (aprile 1922), “journal

transparent” pubblicato e diretto da Tristan Tzara

LA VITA E IL GESTOOLTRE LA KULTUR

Che cosa ha fatto Dada all’arte?DARIO EVOLA

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per ricercare le origini della condizione del fare ar-te. Non possiamo leggere Dada all’interno dellastoria dell’arte, ma possiamo chiederci «che cosa hafatto Dada all’arte?».

Quando nacque, nel 1916, Dada si affiancò aun movimento, il Futurismo già da tempo afferma-to. Il Futurismo si caratterizzava per due aspetti ec-cezionali: era il primo movimento estetico sostan-zialmente immateriale, presentando l’opera d’artepiù significativa con il celebre manifesto del 1909(pubblicato, con consumata perizia mediatica). Se-conda caratteristica del Futurismo era quella di agi-re programmaticamente sulla selezione di un pub-blico colto dell’alta borghesia metropolitana. Terzacaratteristica era la prevalente performatività de-clamatoria. La pittura più avanzata, come quella diBalla o di Boccioni, non si esauriva nel quadro, nelladimensione pittorica (come accade per altre avan-

guardie, come l’analitica o la sintesi cubista postim-pressionista), ma guarda già al di là della pittura.Inoltre Balla e Boccioni si trovarono a operare con-temporaneamente a Kazimir Malevic. Quest’ulti-mo aveva già chiuso i conti con la pittura mimeticoillusionistica esponendo nel 1915 il Quadrato nero sufondo bianco. Il pezzo in realtà era un ibrido: prove-niva da una scenografia della piece cubofutursta Vit-toria sul sole (1913) e venne esposto come una mo-derna icona a sottolineare che non rappresentavanulla ma che, come l’icona, era epifania, atto pre-sentativo.2

Con il Futurismo, il Cubofuturismo e soprat-tutto con Malevic, all’inizio del Novecento, la pit-tura ha aperto un passaggio inedito verso l’interro-gativo sull’immagine, verso la crisi della mimesis,della superficie pittorica. Con essi l’operazione ar-tistica diventa procedimento, non è scissa dal corpocome operatività progettuale. E la funzione artisti-ca non si esaurisce nella rappresentazione mimeti-co illusionistica ma si significa nella presentazione.La presentazione è declamazione, gesto, azionenello spazio e nel tempo. Dada supera l’arte comeprodotto della kultur occidentale, per attraversarel’artificio inteso come aspetto linguistico corporeoe come procedimento. Dada, con il Cabaret Voltaire,dichiara le proprie origini nel Kabarett tedesco, unibrido culturale caratterizzato dalla mescolanza diforme alte e basse della cultura, all’insegna dell’in-trattenimento, della satira e del rituale metropoli-tano. Impossibile collocare le origini di Dada in uncircoscritto ambito artistico o letterario. Fin dalprincipio il movimento si posiziona in una zonaambigua fra spettacolo, intrattenimento, comuni-cazione, azione, manifestazione, seguendo sempreun’idea di modalità performativa.3 Dada si pone co-me antiarte, di fatto opera una frattura nella culturaeuropea. L’arte non è più rappresentazione oespressione (pittorica, teatrale letteraria, poetica)ma viene addirittura vanificata nel gesto che rifiutaogni rimando a qualsiasi forma di realtà e di ideali-tà, nonché di concetti nozionistici come: eternità,

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Francis Picabia (1879-1953), Occhio cacodilato (1921), Parigi,

Musée National d’Art Moderne, Centre Georges Pompidou

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storia, assoluto... Dada risponde alle indicazioni diNietzsche secondo cui «solo come fenomeni esteti-ci l’esistenza e il mondo sono eternamente giustifi-cati».4 Dada percorre la via dell’iperbole. L’esage-razione del reale per eccesso. Non si tratta di una al-terazione della realtà al fine illusorio, come nel casodel Surrealismo ma, al contrario, la ricerca di unavia per dare credibilità al messaggio attraverso l’ec-cesso espressivo. Nel caso dell’atto performativo,operando nella sfera del sociale e delle relazioni inluoghi non necessariamente deputati all’arte ‘alta’,Dada smaschera la retorica falsificante del “buoncostume” sia borghese che della propaganda politi-ca e culturale, della moda, del prodotto del ‘reale’conformista e rivoluzionario. Contrariamente al-l’arte e alla cultura attuali, l’avanguardia storica hasaputo vincere sul proprio presente non adeguandol’estetica, ma sottoponendo l’inautentico del reale aiperbole, così da attuare un processo reattivo, e sot-traendosi quindi alla dimensione artistica e cultura-le istituzionalizzata. Ogni azione si svolge fuori da-gli schemi fin ad allora praticati e praticabili, la gal-

leria, il museo, il teatro. Dada opera con gli oggettiquotidiani e nell’ambito dei luoghi di ritrovo ‘bas-si’, come il cabaret. Mette in campo un armamenta-rio antropologico inedito, dalla maschera negra alladeclamazione disarticolata del linguaggio. La ma-schera non ha la stessa valenza di quella delle De-moiselles d’Avignon di Picasso di sette anni prima. Siricerca un senso del ‘primitivo’, come azione cor-porea e pulsionale, sessuale e dionisiaca, significan-te non come langue ma come parol poetica, parolache equivale al gesto.5 È significativo l’interesse diTzara per l’arte primitiva. Per Tzara l’espressione«cosiddetta primitiva» indica che il meccanismodella creazione artistica non riposa unicamente nel-l’invenzione delle forme ma nella possibilità. Le ar-ti arcaiche o primitive ci insegnano che «gli stili na-scono come necessità di espressione».6 Così comescoprirà Georges Bataille secondo cui il mondo pri-mitivo, con la sessualità e con il gioco, si oppone allaproduttività del lavoro, affermando dunque chel’espressione creativa primitiva è «superamento de-gli interdetti».7 L’azione di Dada è quella di di-

Tre copertine della rivista «Dada» (da sinistra: n. 1, luglio 1917; n. 3, 1918, con una xilografia a colori di Marcel Janco;

nn. 4-5, 1919, con un disegno di Francis Picabia)

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struggere il linguaggio come mezzo di comunica-zione, analizzando i codici e i sistemi di comunica-zione per frantumarli con l’uso di parole senza si-gnificato, fonemi cui corrispondono azioni perfor-mative mutuate dal balletto, dal gesto teatrale, agì-te in piccoli palcoscenici con scenografie rimediatee con costumi mutuati dalle figurazioni cubiste ecubofuturiste. Inoltre da Alfred Jarry si mutual’iconicità pura e lo sberleffo, la Patafisica come«scienza delle soluzioni immaginarie», e 8 da Ray-mond Roussel il gioco combinatorio della parolache diventa testo immaginario e scatenamento diassonanze.9 La poesia diventa così azione (poieo),non rappresentazione. Alla operatività della vitaquotidiana si oppone una meta-operatività che puòessere solamente performativa. Il caso e la combi-nazione sono l’unica alternativa alla produttivitàdel senso comune del lavoro, della fabbrica, del-l’arte stessa. Il manifesto, la declamazione, produ-cono eventi delegittimando l’arte mimetica e ri-portando la funzione artistica a evento in sé. L’uni-ca via è quella dell’arbitrio dell’artista, dell’indivi-duo assoluto liberato da ogni altra funzione. Inquesto senso vanno lette le serate dada a Zurigocon le danzatrici di Rudolf von Laban insieme alle

maschere africane e alle declamazioni di poemicomposti di puri fonemi. Gli storici dell’arte, os-sessionati dalla necessità di definizione, hanno, peresempio, motivato come opera d’arte il ready madedi Duchamp. In realtà Dada supera l’arte intesa co-me linguaggio della kultur. Dada è il superamentodella servitù della forma. Dada non ha lasciato ineredità teoria, tuttavia esiste una estetica dada sen-za una poetica. L’unica testimonianza teorica inquesto senso la si deve a Julius Evola che, coerente-mente, abbandonò poi ogni velleità di professioneartistica già nei primissimi anni Venti, preferendopercorrere la vita assoluta, come del resto farà Du-champ praticando il gioco degli scacchi come uni-ca chance della vita. Dada lascia piuttosto una eredi-tà di devianza:10 la vita contro la natura statica. Co-sì, dopo le iniziali esperienze di Zurigo, anche NewYork, Berlino, Colonia, Hannover, Parigi e Roma,nell’arco di meno di cinque anni, conobbero unmovimento sovranazionale che segnerà un puntodi non ritorno nell’esperienza artistica occidenta-le, una esperienza di devianza e di possibile segnatadall’iperbole e dal superamento stesso della di-mensione artistica come limite estremo al di là diogni conformismo.

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NOTE1 G. Lista, Dada e l’avanguardia, in:

AA.VV. Dada, l’arte della negazione, De Luca,

Roma 1994 pp.39-582 G. Di Giacomo, Malevic. Pittura e filo-

sofia dall’astrattismo al Minimalismo, Ro-

ma, Carocci, 2014.3 Cfr.: G. Ribemont Dessaignes, Storia

del Dadaismo, Milano, Longanesi, 1945; G.

R. Morteo e I. Simonis (a c. di), Teatro Dada,

Torino, Einaudi, 1969; H. Richter, Dada arte

e antiarte, Milano, Mazzotta, 1966; G. P. Po-

sani, Introduzione a T. Tzara Manifesti del

dadaismo e lampisterie, Torino, Einaudi,

1975; G. Hugnet (a c. di), Per conoscere l’av-

ventura Dada, Milano, Mondadori, 1972; L.

Valeriani, Dada, Zurigo, Ball e il Cabaret Vol-

taire, Torino, Martano, 1970; R. L. Goldberg,

Performance art from futurism to the pre-

sent, London, Thames and Hudson, 1999; V.

Magrelli, Profilo del dada, Bari, Laterza,

2006.4 F. Nietzsche, L’origine della tragedia,

Roma, Newton Compton, 1991, p. 134.5 In quegli stessi anni Ferdinand De

Saussure pubblica il Cours de linguistique

générale che raccoglie postume le lezioni di

un decennio a Ginevra.6 T. Tzara, Scoperta delle arti cosiddette

primitive, Milano, Abscondita, 2006, p. 36.

7 G. Bataille, Lascaux. La nascita dell’ar-

te, Milano, Abscondita, 2014, pp. 43-51.8 A. Jarry, Gesta e opinioni del dottor

Faustroll patafisica, Milano, Mondadori,

1976.9 D. Evola, Il inguaggio oggetto in Ray-

mond Roussel .Per una estetica dell’impos-

sibile in AA.VV., Progetto Raymond Roussel,

Roma, Lithos, 2003, pp. 43-53.10 Cfr. V. Conte, Attraversando Evola.

Cavalcare l’arte come pensiero in «Il Bor-

ghese», n. 1, gennaio 2015, p. 62;

C. Strano, Il segno della devianza, Mila-

no, Mursia, 2005.

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del 1916 (data di nascita di Da-da), Arp aveva militato, a Mona-co, nel Blaue Reiter, accanto aDelaunay e Kandinsky. Inoltre,aveva collaborato alla rivista«Der Sturm» nel clima espres-sionistico ‘tempestoso’ (tantoper stare nel significato di queltitolo) nel quale la pubblicazioneinsisteva. Dunque, antitradizio-ne, d’accordo, ma al pari di ognialtra esperienza astratta. Tra l’al-tro, la produzione successiva al-l’impegno dadaista - ad esempio,i papiers déchirés - ammicca allanatura.

�Una più decisa anima anti-arte fu il coetaneo

Kurt Schwitters (entrambi del 1887). Anima pro-fondamente dadaista, sulla sua astrazione impera ilpolimaterismo audace (materiali di scarto, anche)misto a casualità, elemento lontano da ogni ricer-catezza estetica e che fissa bene la distanza da Arp.Tensione alla perfezione, da parte del francese,work in progress, da parte del tedesco. Come accadecon i Merzbild e i Merzbau, fino al Merzdichtungen,una sorta di poesia fonetica. Nel 1923 pubblica ilprimo numero della rivista «Merz» e comincia ilprimo Merzbau, opera plastica ambientale che pia-

Vuoi vedere che, grattagratta, anche i dadaisti, inichilisti dell’arte, han-

no un’anima? Come Velásquez,Delacroix, o Ingres, Kupka. Ave-re un’anima? Semplice: palpita-re, pulsare in quello e per quelloche si fa. «Ma non professi l’an-tiarte…?» Risposta: «sì, ma l’ar-te la faccio comunque, magari amodo mio, ma la faccio». Una ri-sposta del genere avrebbe potutodarla anche Jean Arp, col suo visoasciutto da sbarbatello come lesue forme scultoree elementaridi piglio astratto. Un’esperienzarazionale ma in realtà basata suuna irrazionalità e una libera espressività compres-se. E poteva scoppiare, anche, questa esperienza, seintesa correttamente, e non come esperienzaastratta autoreferenziale. Infatti, pochi anni prima

SPECIALE CENTENARIO DADA (1916-2016)

Sopra: copertina della rivista «Natura Integrale»,

nn. 19-20, giugno-luglio 1982. Fascicolo dedicato al

Manifesto DAD, introdotto dal dialogo tra Pierre Restany

e Carmelo Strano: Dada ha perso la A. Ma il relitto DAD si

tramuta da larva in nucleo e si carica di positività.

Nella pagina accanto: Tristan Tzara, in una celebre

immagine del 1921 di Man Ray

ETERNA PROVOCAZIONE:LE ANIME DEL DADAISMO

Fino al 1980: il Dad e le due vie di DuchampCARMELO STRANO

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no piano si snoda lungo i piani della sua casa diHannover, con valori plastici legati al nonsense, al-lo horror vacui e al nichilismo di fondo proprio dibuona parte dei protagonisti del Dada. Tante re-sponsabilità in rapporto a tutto il Novecento, e ol-tre, verso l’arte ambientale e il polimaterismo. Ilpapier collé, da cui parte, costituisce solo un vagitoin rapporto al suo accanito impiego del polimateri-smo, con la complicità, e complicazione, del prin-cipio dell’objet trouvé fuso con la casualità.

�In cerca di esplosione del proprio essere, Hu-

go Ball, anima del Cabaret Voltaire e volano dell’in-tero movimento, dopo i pochi mesi di fervore zu-righese, implode verso la quiete religiosa. Ciò,sebbene avesse indicato in Kant il «nemico morta-le che ha messo tutto in mano all’intelletto e al po-tere», laddove «il nostro cabaret è un gesto». Ha

per complice la sua compagna Emmy Hennings,modella, cantante, poetessa e amica di letterati eartisti. La coppia aveva riparato a Zurigo, dai som-movimenti sociali di Berlino. La città svizzera èmeta e patria di rifugiati, dissidenti, sovvertitoridel racconto psicologico (Jung, Joyce), renitentialla leva, rivoluzionari, tra cui, uno per tutti, Le-nin che vive non lontano dal Cabaret. Serate esplo-sive, di ispirazione futurista, tra arte, musica, can-ti, poesie. Il tutto all’insegna della ribellione pro-fonda contro ogni establishment sociale, politico,culturale, spirituale, religioso. E invece: instabili-tà, lotta all’ordine logico costituito, fino all’esplo-razione ed esplosione del «boom boom persona-le». Si tratta della libera estrinsecazione dellaspinta emotiva, istintiva e pre-logica che eludel’impeccabile logica della comunicazione denota-tiva. Ne è patrocinatore il rumeno Tristan Tzara,poeta antipoetico che, con Ball, fonda il Dada, concontributi teorici sciolti e a sbotti.

�Il Dada di Colonia è invece animato da Max

Ernst, assieme ad Arp e Johannes Theodor Baar-geld. Quest’ultimo, poeta e pittore, tradisce il ri-gore etico della sua agiata famiglia ebraica, e con-tribuisce al movimento anche con la pubblicazio-ne della rivista «Der Ventilator». Ma c’è una pic-cola grande ‘anima’ tuffata nella rivoluzione so-ciale: Angelika Fick (attivo anche suo fratello Wil-ly), «Cometa del Dada di Colonia», moglie delpittore Heinrich Hoerle. Lascia un segno interes-sante, sebbene muoia di tubercolosi a 24 anni. Inrapporto alle sue spinte rivoluzionarie, neanche il

A sinistra e a destra: doppia parafrasi del duchampiano Nudo

che scende una scala: una dello stesso Duchamp, ritrattosi

mentre scende le scale, l’altra di Gerhard Richter (1932) che

insiste nello stesso tema, ma ribadendo i tradizionali canoni

della “bellezza della differenza” e della pittura; Man Ray

(1890-1976), Ritratto di Max Ernst (1935)

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Dadaismo la soddisfa. E fonda, con altri, il gruppo‘Stupid’: a favore del proletariato e dello sparta-chismo di Rosa Luxembourg (1919), ma suona disecessione alle orecchie di alcuni, tra cui Ernst.

Tra fine Ottocento e primi Novecento, scop-pia una condizione permanente di rivolgimento diogni idea, struttura e metodo di pensiero. Ha ma-trice nella rivoluzione industriale e nelle connessegaloppate della scienza e della tecnologia. E inve-ste tutto: il mondo esterno (società e il nuovo as-setto abitativo, lavorativo, economico), quello in-terno dell’individuo (la psicologia), l’impulso re-lativizzante provocato dall’esplosione delle variescienze, a partire dalla fisica quantica e nucleare.La dimensione tempo prende un’accelerazioneesponenziale senza ritorno che incide in tutte lesfere del vivere, comunitario e individuale. Gli ar-tisti quantomeno percepiscono questa condizio-ne. Finito il primo conflitto mondiale, vedono

scene di annientamento sociale, economico, fisi-co, morale. La disgregazione esterna si muove dipari passo a quella interna (psicanalisi). Vi si inne-sta l’influenza ‘negativa’, non priva di senso dimorte, di Hegel, Schopenhauer, Nietzsche. Ilprincipio di rivolgimento magnificato dai futuri-sti, con i dadaisti si traduce in negatività, in sotter-ranea depressione. La macchina? Sì, più bella del-la Vittoria di Samotracia, ma ora, dopo la guerra(già esaltata quale «igiene del mondo»), la mac-china fa sentire tutta la sua freddezza meccanica,di lamiera asciutta che frena persino il generalesenso del bello. E forse è il bisogno di una veritàpiù profonda a provocare l’abbattimento di ognicertezza e verità.

�Dada si agita sull’asse Zurigo-New York-Pa-

rigi. Con l’Armory show (1913), negli Usa appro-

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dano tante testimonianze dei fenomeni artisticieuropei, e anche premesse o primizie dada. Nel1915 vi arriva Duchamp e nasce il sodalizio conMan Ray e Picabia, intorno alla figura del fotogra-fo e animatore Alfred Stieglitz e ai mecenati e co-niugi Louise e Walter Arensberg. Ma nella Gran-de Mela non si insinua il nichilismo. Occorreaspettare l’Action Painting. Quanto a Parigi, allen-ta il suo charme: Aragon, Breton e Soupault già nel1918 avevano collaborato alla rivista dada; nellaVille Lumière, Tzara continua a pubblicare il suo«Bulletin Dada»; Breton rimugina il testo sul Sur-realismo; Picabia pubblica le riviste «Cannibale»e «Philaou-Thibaou». Ma a sottolineare Parigiquale epicentro del nuovo Dada è la nascita, lì,

della rivista «Littérature». Intorno a essa gravita-no tutti quanti: artisti, letterati pensatori. Fallisceil tentativo di rivitalizzare il movimento al “Con-gresso internazionale per la determinazione delledirettive e per la difesa della sperimentazione mo-derna” e, da lì a poco (1922), sarà lo stesso Tzara,in una sua conferenza a Weimar, a dichiarare la fi-ne di Dada, con l’arguta precisazione che esso «haprovato non già a distruggere l’arte e la letteraturama l’idea che di essa si aveva». Ma la vitalità di Da-da si riversa nel Surrealismo, a partire dal ruolo,ormai capitale, della casualità e, inoltre, con laconsapevolezza - ora - che si tratta di militare «auservice de la révolution».

Quanto al Dada svizzero-tedesco, buona par-

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Sopra da sinistra: Hans Arp, Tristan Tzara e Max Ernst, in una foto scattata a Zurigo nell’estate del 1918; Johannes Baader

(1875-1955), Autoritratto in casa (1918 circa), fotomontaggio

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te degli animatori si portano in Francia, a partiredai berlinesi toccati dalle reazioni autoritarie dellaNSDAP.

Intanto il solitario Duchamp (attivo fra NewYork e Parigi), con un occhio alla scacchiera e unoalla pietra filosofale, ironico e beffardo, asciutto eincisivo, la sua parte l’ha fatta alla grande, sovver-tendo l’estetica con la concezione della Beauté del’indifférence. Essendo ormai senza senso la dialet-tica bello/brutto si va anche perdendo l’aura del-l’opera d’arte. Meglio evitare, quindi, per Du-champ, l’emotività del pezzo unico e irripetibile,qualunque sia il giudizio dell’establishment esteti-co. Complessa la sua posizione d’artista, ma i prin-cipi sono chiari e distinti. Fino al paradosso. Comequando non essendo arrivata in tempo la sua Gio-conda coi baffi perché potesse essere pubblicata daPicabia, questi genialmente prende un’altra copiadel dipinto, vi appone i baffi e la pubblica a propriafirma.

�Oso dire che, con circa cinquant’anni di anti-

cipo, Duchamp ha offerto a Jacques Derrida unmetodo per raggirare la millenaria dialettica degliopposti e, a se stesso, il modo per oltrepassare ilrapporto bello/brutto. Semplicemente evitando-lo. Misconoscendolo. Ciò che conta è l’effetto sulfruitore. Sdegno? Ammirazione? Sta di fatto cheniente di questo più lo sfiora davanti a un oggettoche lascia indifferenti. Analogamente, il filosofofrancese avrebbe decostruito la roccaforte delladialettica degli opposti, eliminando la gerarchiadegli elementi costruttivi. Col chiudersi degli anniSettanta, attribuivo a Duchamp l’avvio di duecammini paralleli: quello della razionalità (Il Ma-cinino da caffè, Nudo che scende una scala, ecc.) equello della irrazionalità (misto tra il demoniacodecadentistico e il teosofico-alchemico che inner-va il ready-made). Sottolineavo, anche, la respon-sabilità di Dada di avere ispirato le correnti più vi-ve apparse in quegli anni, secondo una linea di

Poetica Strutturale Sistemica (ad esempio, il Mi-nimalismo) e una, più ‘polisensoriale’ (per dirlacon Duchamp), di Poetica Strutturale Deviante(ad esempio, il Nuovo Realismo). Con l’inizio de-gli anni Ottanta, finisce questa spinta di Dada.Presa coscienza di ciò, nel 1981, redigevo il Mani-festo Dad (Dada, che simbolicamente aveva persola ‘a’, era finito) pubblicato anche sulla rivista«Natura Integrale», fondata con Pierre Restany, eche, con quel numero, intenzionalmente cessava.Dada lasciava il posto a Dad, alle ragioni semiolo-giche di segno opposto proprie della nostra epoca.Ma quella grande esperienza rimane una provoca-zione latente, uno stato mentale possibile, come lacondizione classica e romantica.

Marcel Duchamp (1887-1968), in un celebre scatto

del 1930 circa

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presente, né l’esistente, né ciòche è già dato, astenendosi, nelcontempo, dal progettare e dalcostruire un ordine nuovo. La ci-fra di Dada sta nella fedeltà allapiù incondizionata indifferenza(rispetto al gusto, allo stile, al-l’esistente, al dato, a tutto ciò chec’è e potrebbe esserci). Il movi-mento non fu mai interessato ainaugurare l’ennesimo nuovo sti-le o modello artistico, ma semmaia prendersi gioco di qualsiasi sti-le, forma e di qualsiasi positivaproposta (vecchia o nuova che

fosse). La sua dimensione, quindi, non solo non è‘rivoluzionaria’ ma è la più sensibile al richiamo del-l’immemorabile tradizione, se per tradizione inten-diamo il mistero di quella potenza invisibile e inat-tingibile, la quale permane nel non potersi mai ripe-tere determinatamente e nel non identificarsi maiad alcunché di positivo e di dato. Tradizionale, inquesto senso, è ciò che può solo tradursi ed esseretradito ad indefinitum, nel suo essere senza tregua ri-cercato e sempre mancato.

Il critico Arturo Schwarz ha definito il Da-da l’unica avanguardia latrice di una effettiva ri-voluzione culturale mirata all’abolizione del-l’antinomia teoria-prassi. Nell’epoca della suariproducibilità tecnica, l’opera d’arte deprivata

L a storia del movimentodadaista si è sviluppatain sintonia con la crisi

storico-politica del primo No-vecento. Nel febbraio 1916,mentre accadevano i fatti dellaI Guerra Mondiale, a Zurigo,al n. 1 della Spigelgasse, vennefondato il movimento dada.Nella stessa tranquilla strada,al civico 12, viveva un distintosignore russo, Lenin: è corret-to quindi dire che la dimensio-ne ‘rivoluzionaria’ sia consu-stanziale al dadaismo?

Ritengo che a proposito di Dada si tenda adabusare del termine “rivoluzionario”. In senso pro-prio, ogni rivoluzione - che si giustifica sempre apartire da una concezione dialettica della realtà edella storia, nonché sulla base di una logica dicoto-mica, oppositiva ed escludente - mira a scardinare ead abbattere il vecchio ordine, per sostituirlo con unordine totalmente nuovo. Il pensiero messo all’ope-ra da Dada, invece, nel suo sospendere e mettere traparentesi - senza negarla - ogni logica tanto quantoogni anti-logica, non nega affatto né il passato, né il

SPECIALE CENTENARIO DADA (1916-2016)

Nella pagina accanto: Marcel Janco (1895-1984), Manifesto

per una serata del gruppo Dada (Zurigo, 1918).

Sopra: Francis Picabia (1879-1953), Ritratto di TristanTzara (1918), acquarello, collezione privata

IL DADA, OVVERO SULL’INDIFFERENZA

Intervista al filosofo Romano GasparottiGIOVANNI SESSA

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dell’aura, perde in valore ‘cul-turale’ ma acquisisce una nuo-va carica espressiva. È correttosostenere che in Dada ciò è av-venuto con l’abolizione dellanozione statica dell’opera a fa-vore di un’esperienza, umana eartistica, sempre in fieri?

Sarebbe troppo logicamen-te sensato attribuire al Dada loscopo di perseguire l’abolizionedell’antinomia tra teoria e prassi,proprio per il carattere ‘finalistico senza scopo’ cheesso attribuisce al ‘gioco dell’arte’. A partire dalprogetto annunciato da Tristan Tzara di «distrug-gere l’arte con l’arte», il Dadaismo mostra nel mo-do più disincantato come non già l’arte nuova, ben-sì tutta l’arte degna di questo nome, non è realizza-zione di significativa progettualità soggettiva né siidentifica mai totalmente con gli oggetti mondanicon cui può avere a che fare. Il carattere evenemen-ziale, non intenzionale e insensato del processo ar-tistico è talmente condotto sino all’estremo dal Da-daismo, da esigere, alla fine, addirittura lo svuota-mento di ogni determinato pensare, per sprofonda-re nei vortici di quella totale assenza di pensiero, incui si custodisce la possibilità di ogni pensiero pen-sante e pensato. Dada invita a la-sciarsi andare al più gratuito deigiochi, giocandosi a oltranza il‘non-luogo’ dell’assoluto vuotodi pensiero. Da questo punto divista, al movimento dadaista siaddice ciò che, nel 1919, scrisse ilgrande ballerino Vaslav Nijinskya proposito del danzatore quale«filosofo che non pensa» (e che,proprio in quanto non pensante,è veramente filosofo). Del resto,tutta la grande danza del pensiero

- tanto occidentale quanto orien-tale - non è forse un folle attod’amore nei confronti dei tre-mendi abissi del non pensare?

Facendo invece riferi-mento al valore del ‘frammen-to’, il Dada ne colse l’ambigui-tà, esemplificata nel Readyma-de e in altre produzioni di Du-champ. Si pensi a L.H.O.O.Q.del 1919, l’opera nella qualeMonna Lisa diviene uomo. Ildadaismo sembra così averraccolto il lascito ideale di

‘un’altra filosofia d’Occidente’, antica, fiumecarsico del contemporaneo, che dice - con Leo-pardi - le cose non essere mai qual che sostengo-no di essere. Concorda?

Il punto è proprio qui! Il readymade, al di là ditutte le interpretazioni che ha suscitato, mostra chele cose, a tutti i livelli, compreso quello artistico, nonsono mai quello che manifestano e dicono di essere.E che solo il puro gioco indifferente dell’arte può, divolta in volta, simbolicamente mostrare ciò! Senzaesprimerlo e ben lungi dal comunicarlo. Al di là diogni feticismo sia dell’oggetto che del significato.Disse Duchamp che gli oggetti dell’arte non sonoche «miraggi»: indubitabilissimi nel loro apparire,ma aventi la medesima obiettiva icasticità di un mi-

raggio… Per concludere con unasintesi: per l’esperienza dada,l’arte non ha soggetto - l’artista èsolamente il medium dell’eventoartistico (peraltro potenzialmen-te raffinabile dai fruitori) -, nonha oggetto - che è solo un mirag-gio - né produce alcunché di nuo-vo. Bensì può momentaneamen-te insorgere come puro donogratuito, del tutto disinteressatoe indifferente rispetto a ogni suasignificabilità.

40 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2016

Romano Gasparotti (1959)insegna Fenomenologia del-l’immagine presso l’Accademiadi Belle Arti di Brera, a Milano.È autore di numerosi saggi evolumi, fra i quali: “I miti dellaglobalizzazione” (2003); “Fi-gurazioni del possibile” (2007);“Filosofia dell’eros” (2007);“L’inganno di Proteo” (2010);“Il quadro invisibile” (2015)

Vaslav Nijinsky (1889-1950), ritratto

mentre si esibisce nella Gisèle

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gennaio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 41

L E M O S T R E – R I F L E S S I O N I – L O S C A F F A L E inSEDICESIMO

P rima della grande mostra curatada Fernando Mazzocca e MariaCristina Gozzoli nel 1983, la

pittura di Francesco Hayez non godevadi particolari consensi. Su di lui gravavala “sfortuna dell’accademia” nellastoriografia artistica novecentesca, sucui appena allora si cominciava atogliere il velo, e non poco contava ilgiudizio severo di Giulio Carlo Argan,che pure inaugurava la sua Artemoderna con un Canova “illuminista”che non consentiva di salvare il piùgiovane pittore veneziano, che pure invita si era molto giovato del sostegno

entusiasta accordatogli dal maestro diPossagno. Si provava ancora un certofastidio per una pittura di storia intrisadi valori melodrammatici, in piùoccasioni avvicinabile con naturalezzaalle opere messe in scena dal teatromusicale e da Giuseppe Verdi inparticolare. Era quello scartosentimentale, talvolta non privo dienfasi, che non si poteva conciliare conle utopie razionali di democrazia,sebbene Hayez fosse stato indicato daGiuseppe Mazzini, durante l’esilio,come emblema di pittore“democratico”. Si trattava dunque di

ridisegnarle linee portanti di un trattodi storia dell’Ottocento, secondo i modidella più avanzata storiografia di queglianni: brevi introduzioni e lungheschede che instaurassero con le opereun dialogo concreto e tenacementefilologico fino a farne un motivo dimilitanza culturale. Era inquell’occasione che molti dei quadri diHayez, per la prima volta studiati conlo stesso rigore riservato alla pitturaantica, recuperavano i lunghissimi everbosi titoli con cui figuravano neicataloghi delle esposizioni dell’epoca,eloquenti quanto allo spirito delquadro di storia come un moderno“fermo immagine” con commentodidascalico.

Va da sé che allora il maestroveneziano non era ancora il pittore deIl bacio, quanto quello delRisorgimento nelle mentite spoglie

a cura di luca pietro nicoletti

LA MOSTRA/1APPUNTO PER FRANCESCO HAYEZ Alle Gallerie d’Italia di Milano

gennaio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 41

L E M O S T R E – R I F L E S S I O N I – L O S C A F F A L EinSEDICESIMO

P rima della grande mostra curatada Fernando Mazzocca e MariaCristina Gozzoli nel 1983, la

pittura di Francesco Hayez non godevadi particolari consensi. Su di lui gravavala “sfortuna dell’accademia” nellastoriografia artistica novecentesca, sucui appena allora si cominciava atogliere il velo, e non poco contava ilgiudizio severo di Giulio Carlo Argan,che pure inaugurava la sua Artemoderna con un Canova “illuminista”che non consentiva di salvare il piùgiovane pittore veneziano, che pure invita si era molto giovato del sostegno

entusiasta accordatogli dal maestro diPossagno. Si provava ancora un certofastidio per una pittura di storia intrisadi valori melodrammatici, in piùoccasioni avvicinabile con naturalezzaalle opere messe in scena dal teatromusicale e da Giuseppe Verdi inparticolare. Era quello scartosentimentale, talvolta non privo dienfasi, che non si poteva conciliare conle utopie razionali di democrazia,sebbene Hayez fosse stato indicato daGiuseppe Mazzini, durante l’esilio,come emblema di pittore“democratico”. Si trattava dunque di

ridisegnarle linee portanti di un trattodi storia dell’Ottocento, secondo i modidella più avanzata storiografia di queglianni: brevi introduzioni e lungheschede che instaurassero con le opereun dialogo concreto e tenacementefilologico fino a farne un motivo dimilitanza culturale. Era inquell’occasione che molti dei quadri diHayez, per la prima volta studiati conlo stesso rigore riservato alla pitturaantica, recuperavano i lunghissimi everbosi titoli con cui figuravano neicataloghi delle esposizioni dell’epoca,eloquenti quanto allo spirito delquadro di storia come un moderno“fermo immagine” con commentodidascalico.

Va da sé che allora il maestroveneziano non era ancora il pittore deIl bacio, quanto quello delRisorgimento nelle mentite spoglie

a cura di luca pietro nicoletti

LA MOSTRA/1APPUNTO PER FRANCESCO HAYEZAlle Gallerie d’Italia di Milano

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la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 201642

della storia medievale e rinascimentale.Non a caso, nel 1983 faceva dacopertina una riproduzione del grandeI profughi di Parga del 1826-31. Prestotuttavia la prospettiva si sarebberovesciata, e Il bacio, nella primaversione del 1859 oggi a Brera, checampeggia sulla copertina delpoderoso catalogo 2015 curato ancorauna volta da Mazzocca per la mostraalle milanesi Gallerie d’Italia, sarebbediventata l’icona, logorata dal suostesso successo, dell’amore romantico.Eppure altri, ben prima degli storicidell’arte, si erano accorti del potenziale“frappant” di quella tela, a partiredall’esplicito omaggio tributatogli daLuchino Visconti, il cui occhio sensibileera planato con intelligenza sullapittura italiana dell’Ottocento, in unafamosa scena di Senso. Oppure, fra lenote di costume, la semplicità eimmediatezza di quell’immagine, cosìvicina ad un’apprensione visiva di inizioDuemila, erano risultate chiare aldirettore artistico della Perugina, che la

utilizzò per decorare le scatole delfamoso cioccolatino inventato da LuisaSpagnoli e che, grazie ad Hayez, da“cazzotto” veniva ribattezzato in“bacio”. Tutto questo, però, fa partedell’Hayez “mediatico”, tralasciandoinvece la ricchezza di temi e motivipresentati dalla bellissima e ricchissimamostra promossa dalle Gallerie, da cuiemerge l’inequivocabile statura delpittore, dotato di un virtuosismo maiostentato, quanto esibito con lanaturalezza di un prodigio che si dà percompiuto per mezzo del disegno:anche nei momenti di più buiasfortuna, i suoi dipinti si sarebbero fattinotare per un livello di qualità (nonsolo di bravura) con pochi precedenti epochi possibili confronti.

Fino alla fine della sua carriera,Hayez non dimentica i modi e lepratiche della pittura di antico regime,e anche a Milano, che gli darà fortunae successo consentendogli di ritrarrefra i più notabili dell’epoca, da Manzonia Rosmini, non si dimenticherà mai

della sua formazione sull’esempio deimaestri veneti. Non è di poco conto seancora in tarda età ricordava convivezza, nelle memorie dettate nel 1869a Giuseppina Negroni Prati Morosini, laPresentazione di Maria al tempio diTiziano come una delle più grandifolgorazioni avute visitando leveneziane Gallerie dell’Accademia. Oancora, nei pochi cimenti giovanili conla difficile arte dell’affresco, tradiscenella gamma di tenerezze cromatiche eluministiche, il tirocinio sui modelliveronesiani e soprattutto tiepoleschi.Ed è tipicamente veneto, infine, ilricorso, frequente nei primi anni, allapratica di veloci oil sketch dipresentazione o di memoria, quasi auso di bottega, di proprie invenzioni.Del resto Hayez diventa presto pittoredi fama, richiestissimo dai collezionistie più di una volta spinto a replicareproprie composizioni per committentidiversi: è il caso, prima di tutti, propriodel Bacio, il cui prototipo del 1859vede una replica con varianti

la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 201642

della storia medievale e rinascimentale.Non a caso, nel 1983 faceva dacopertina una riproduzione del grandeI profughi di Parga del 1826-31. Prestotuttavia la prospettiva si sarebberovesciata, e Il bacio, nella primaversione del 1859 oggi a Brera, checampeggia sulla copertina delpoderoso catalogo 2015 curato ancorauna volta da Mazzocca per la mostraalle milanesi Gallerie d’Italia, sarebbediventata l’icona, logorata dal suostesso successo, dell’amore romantico.Eppure altri, ben prima degli storicidell’arte, si erano accorti del potenziale“frappant” di quella tela, a partiredall’esplicito omaggio tributatogli daLuchino Visconti, il cui occhio sensibileera planato con intelligenza sullapittura italiana dell’Ottocento, in unafamosa scena di Senso. Oppure, fra lenote di costume, la semplicità eimmediatezza di quell’immagine, cosìvicina ad un’apprensione visiva di inizioDuemila, erano risultate chiare aldirettore artistico della Perugina, che la

utilizzò per decorare le scatole delfamoso cioccolatino inventato da LuisaSpagnoli e che, grazie ad Hayez, da“cazzotto” veniva ribattezzato in“bacio”. Tutto questo, però, fa partedell’Hayez “mediatico”, tralasciandoinvece la ricchezza di temi e motivipresentati dalla bellissima e ricchissimamostra promossa dalle Gallerie, da cuiemerge l’inequivocabile statura delpittore, dotato di un virtuosismo maiostentato, quanto esibito con lanaturalezza di un prodigio che si dà percompiuto per mezzo del disegno:anche nei momenti di più buiasfortuna, i suoi dipinti si sarebbero fattinotare per un livello di qualità (nonsolo di bravura) con pochi precedenti epochi possibili confronti.

Fino alla fine della sua carriera,Hayez non dimentica i modi e lepratiche della pittura di antico regime,e anche a Milano, che gli darà fortunae successo consentendogli di ritrarrefra i più notabili dell’epoca, da Manzonia Rosmini, non si dimenticherà mai

della sua formazione sull’esempio deimaestri veneti. Non è di poco conto seancora in tarda età ricordava convivezza, nelle memorie dettate nel 1869a Giuseppina Negroni Prati Morosini, laPresentazione di Maria al tempio diTiziano come una delle più grandifolgorazioni avute visitando leveneziane Gallerie dell’Accademia. Oancora, nei pochi cimenti giovanili conla difficile arte dell’affresco, tradiscenella gamma di tenerezze cromatiche eluministiche, il tirocinio sui modelliveronesiani e soprattutto tiepoleschi.Ed è tipicamente veneto, infine, ilricorso, frequente nei primi anni, allapratica di veloci oil sketch dipresentazione o di memoria, quasi auso di bottega, di proprie invenzioni.Del resto Hayez diventa presto pittoredi fama, richiestissimo dai collezionistie più di una volta spinto a replicareproprie composizioni per committentidiversi: è il caso, prima di tutti, propriodel Bacio, il cui prototipo del 1859vede una replica con varianti

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Media Italia S.p.a. Agenzia media a servizio completoTorino, Via Luisa del Carretto, 58 Tel. 011/8109311 [email protected]

Milano, Via Washington, 17 Tel. 02/480821Roma, Via Abruzzi 25, Tel. 06/58334027

Bologna, Via della Zecca, 1 Tel. 051/273080

Media Italia S.p.a. Agenzia media a servizio completoTorino, Via Luisa del Carretto, 58 Tel. 011/8109311 [email protected]

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44 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2016

aneddotico-narrative nel 1861 e ancoranel 1867.

Ma soprattutto, il vero trattofondante della pittura di Hayez è unaportentosa abilità di mano, fondata suldisegno ma, all’occorrenza, vibrante dipennello. Alla base, infatti, vi è unassoluto controllo dei registri pittorici,capace di modulare stesure più fuse,tornite da una regia luministica fatta diombre digradanti ma esatte e visibili, emomenti di maggior libertà di polso. Lodice bene il confronto fra le dueversioni di Romeo e Giulietta, piùmetallica nella tela di Villa Carlotta(1823), più calda e pittoricanell’edizione in collezione privataveneziana (1833). Del resto, come tuttii pittori veneti, Hayez ha un debole peri panneggi, di cui sa restituirel’epidermide e la morbidezza conqualche concessione talvolta allasprezzatura.

Ci si potrebbe addentrare nelpelago delle letture iconologiche, magli studi hanno già detto molto sullefonti visive e letterarie, sui messaggicriptati di contenuto risorgimentaleche si insinuano fin nell’abbinamentodei personaggi (i colori delle bandiereitaliana e francese con cui vestono idue amanti del Bacio) o nelle effigi diGiacomo e Filippo Ciani nascoste sottole vesti degli apostoli, o fra gli astantidelle grandi scene di storia. Su questo,però, esiste molta efficace bibliografiaanche divulgativa, come il folgorante eappassionato libretto monografico, piùvolte ristampato, dedicato sempre daMazzocca nel 2003 appunto al Bacio.

Vale la pena di riflettere, invece, sulmerito delle opere, sull’impaginazione

teatrale dei grandi e affollati quadri distoria, fatti per prolungate eravvicinate perlustrazioni entro le qualiscovare di volta in volta una testa dicarattere, un aneddoto, un dettaglio:uno per tutti, il soldato scalzo allespalle di Pietro l’eremita nel grandedipinto del 1827-1829. Il racconto sisvolge come un palco in cui ipersonaggi si affacciano alla ribalta, inprimo piano, dove deve avvenire lascena madre della rappresentazione. Equesto vale per i quadri di storia comeper quelli biblici, e persino per lefortunate scene ambientate a Venezia: isuoi personaggi, ora, sono come attoricalati in una parte, da interpretare conspirito melodrammatico. Ci si accorgepoi che Hayez rimescola e rifondemotivi nuovi e motivi attinti dallastoria dell’arte: con una certaimpressione si coglie che il gestodell’Odalisca del 1839 rimanda a quellodella Fornarina di Raffaello di tre secoliprima. Si potrebbe dire lo stesso per ungenere come il ritratto, il più fedele adeterminati schemi e modelli e alla lororiproposizione secondo un codiceformale e sociale.

Ma soprattutto, merita soffermarsisul quadro di figura, a partire da unaprova di bravura, anche se forse nonesente da retorica, come l’Ajace Oileodel 1822. È un quadro nato in rispostaai detrattori che lo accusavano di

dipingere solo scene molto affollateper incapacità di padroneggiare asufficienza il dettato anatomico: Hayezlo realizza in quindici giorni, comeconsuetudine nelle sfide di abilità frapittori all’epoca in voga, realizzandouna figura nuda grande al vero fattaatteggiare in una posa che esibissel’evidenza tornita della muscolatura intensione, non senza cura verso lamorbidezza di certe pieghe della carne.Ad uno sguardo ravvicinato, poi, sinota, unico caso fra le opere in mostra,che nel trattamento pittorico del nudoHayez usa una tessitura analoga altratteggio incrociato dei disegnid’accademia (di cui una bella selezioneè stata presentata da Francesca Valliall’Accademia di Brera) che seguel’andamento dei volumi muscolari. Iltratteggio, che non compare invece neipiù rapidi e vibranti studi preparatoriper i dipinti, aiuta a meglioaccompagnare una modulazionechiaroscurale del corpo che sia solida esensibile, capace, nei nudi femminili, diraggiungere dei picchi di esplicitasensualità. Non è il caso, naturalmente,delle immagini, pur non prive di sottileprovocazione, de La meditazione (1851)o di Tamar (1847) o di Rebecca alpozzo (1848), ma nelle bangnati comela grande Betsabea al bagno del 1833,e del disegno a inchiostro e rialzi inbiacca tratto da questo (ancoraun’autoreplica), oggi nelle raccolte delCastello Sforzesco di Milano. È evidenteche il tema biblico è del tuttomarginale negli interessi del pittore: èprincipalmente un pretesto per unarappresentazione su grande formato,intima e sensualissima, di un nudo

HAYEZ

MILANO, GALLERIE D’ITALIA –PIAZZA SCALA

7 novembre - 21 febbraio 2016

44 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2016

aneddotico-narrative nel 1861 e ancoranel 1867.

Ma soprattutto, il vero trattofondante della pittura di Hayez è unaportentosa abilità di mano, fondata suldisegno ma, all’occorrenza, vibrante dipennello. Alla base, infatti, vi è unassoluto controllo dei registri pittorici,capace di modulare stesure più fuse,tornite da una regia luministica fatta diombre digradanti ma esatte e visibili, emomenti di maggior libertà di polso. Lodice bene il confronto fra le dueversioni di Romeo e Giulietta, piùmetallica nella tela di Villa Carlotta(1823), più calda e pittoricanell’edizione in collezione privataveneziana (1833). Del resto, come tuttii pittori veneti, Hayez ha un debole peri panneggi, di cui sa restituirel’epidermide e la morbidezza conqualche concessione talvolta allasprezzatura.

Ci si potrebbe addentrare nelpelago delle letture iconologiche, magli studi hanno già detto molto sullefonti visive e letterarie, sui messaggicriptati di contenuto risorgimentaleche si insinuano fin nell’abbinamentodei personaggi (i colori delle bandiereitaliana e francese con cui vestono idue amanti del Bacio) o nelle effigi diGiacomo e Filippo Ciani nascoste sottole vesti degli apostoli, o fra gli astantidelle grandi scene di storia. Su questo,però, esiste molta efficace bibliografiaanche divulgativa, come il folgorante eappassionato libretto monografico, piùvolte ristampato, dedicato sempre daMazzocca nel 2003 appunto al Bacio.

Vale la pena di riflettere, invece, sulmerito delle opere, sull’impaginazione

teatrale dei grandi e affollati quadri distoria, fatti per prolungate eravvicinate perlustrazioni entro le qualiscovare di volta in volta una testa dicarattere, un aneddoto, un dettaglio:uno per tutti, il soldato scalzo allespalle di Pietro l’eremita nel grandedipinto del 1827-1829. Il racconto sisvolge come un palco in cui ipersonaggi si affacciano alla ribalta, inprimo piano, dove deve avvenire lascena madre della rappresentazione. Equesto vale per i quadri di storia comeper quelli biblici, e persino per lefortunate scene ambientate a Venezia: isuoi personaggi, ora, sono come attoricalati in una parte, da interpretare conspirito melodrammatico. Ci si accorgepoi che Hayez rimescola e rifondemotivi nuovi e motivi attinti dallastoria dell’arte: con una certaimpressione si coglie che il gestodell’Odalisca del 1839 rimanda a quellodella Fornarina di Raffaello di tre secoliprima. Si potrebbe dire lo stesso per ungenere come il ritratto, il più fedele adeterminati schemi e modelli e alla lororiproposizione secondo un codiceformale e sociale.

Ma soprattutto, merita soffermarsisul quadro di figura, a partire da unaprova di bravura, anche se forse nonesente da retorica, come l’Ajace Oileodel 1822. È un quadro nato in rispostaai detrattori che lo accusavano di

dipingere solo scene molto affollateper incapacità di padroneggiare asufficienza il dettato anatomico: Hayezlo realizza in quindici giorni, comeconsuetudine nelle sfide di abilità frapittori all’epoca in voga, realizzandouna figura nuda grande al vero fattaatteggiare in una posa che esibissel’evidenza tornita della muscolatura intensione, non senza cura verso lamorbidezza di certe pieghe della carne.Ad uno sguardo ravvicinato, poi, sinota, unico caso fra le opere in mostra,che nel trattamento pittorico del nudoHayez usa una tessitura analoga altratteggio incrociato dei disegnid’accademia (di cui una bella selezioneè stata presentata da Francesca Valliall’Accademia di Brera) che seguel’andamento dei volumi muscolari. Iltratteggio, che non compare invece neipiù rapidi e vibranti studi preparatoriper i dipinti, aiuta a meglioaccompagnare una modulazionechiaroscurale del corpo che sia solida esensibile, capace, nei nudi femminili, diraggiungere dei picchi di esplicitasensualità. Non è il caso, naturalmente,delle immagini, pur non prive di sottileprovocazione, de La meditazione (1851)o di Tamar (1847) o di Rebecca alpozzo (1848), ma nelle bangnati comela grande Betsabea al bagno del 1833,e del disegno a inchiostro e rialzi inbiacca tratto da questo (ancoraun’autoreplica), oggi nelle raccolte delCastello Sforzesco di Milano. È evidenteche il tema biblico è del tuttomarginale negli interessi del pittore: èprincipalmente un pretesto per unarappresentazione su grande formato,intima e sensualissima, di un nudo

HHAAYYYAYEEZZ

MILANO, GALLERIE D’ITALIA –PIAZZA SCALA

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gennaio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 45

femminile immerso in una luce calda ecarezzevole. Il definitiva, Betsabearisponde al tipo della bagnante coltadall’osservatore nel momento diimmergersi o di uscire dall’acqua. Se sivolesse chiamare in causa la teoriadell’assorbimento di Fried, Betsabea èuna bagnante che non si accorge dellapresenza dell’osservatore,comportandosi a prescindere daquesto, diversamente da quel velo ditimidezza che si trova negli occhi dellaBagnante del 1859.

Ma Hayez, che pure ci si accorgeessere molto vicino alle convenzioni eallo spirito del nudo moderno, avevafatto un salto nel rapporto fra dipintoe modello nudo in posa che avevaprovocato qualche sconcerto. Avevafatto discutere, per esempio, il solido,morbidissimo ma tornito nudo di spalleche ritraeva la ballerina CarlottaChabert presentato nel 1830 comeVenere che scherza con due colombe. Aditurbare parte dei visitatori di Breraera il fatto che la donna non fossestata sufficientemente idealizzata perpoter essere a buon diritto identificatacon una Venere e non con una donnain carne ed ossa, con i seni piccoli e lenatiche sode che non potevano passareinosservate. Ma il gioco diprovocazione era nelle corde di Hayez,come ricorda nelle memorie, in cuigiocano sia le dimensioni ragguardevolidella tela, degne del quadro mitologico,sia la nitidezza così sfacciata di questonudo, di terga oltretutto, troppo veroper poter essere tenuto in quelladistanza irraggiungibile delle immaginiastrattamente ideali: questa Venere,anzi, sembra mostrarsi proprio perché

l’osservatore si avvicini a lei non solocon lo sguardo.

Ma dalle Memorie si capisce ancheche per Hayez il rapporto con ilmodello aveva un ruolo centrale, tantoda dichiarare la necessità di trovare divolta in volta un modello che avesse lecaratteristiche fisiche giuste perimpersonare un personaggio dellastoria o della mitologia, cioè un corpovero adatto a impersonare un carattere

astratto, quasi calando le “anticheforme” nel tempo presente. Era il casodell’imponente Sansone della galleriaPalatina di Palazzo Pitti a Firenze:«figura grande al vero e forse più,avendo avuto la fortuna d’unbellissimo modello il quale presentavatutte le antiche forme della sculturagreca […] credo di essere riuscito arendere una figura con quel caratterenobile e forte che portava il soggetto».

gennaio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 45

femminile immerso in una luce calda ecarezzevole. Il definitiva, Betsabearisponde al tipo della bagnante coltadall’osservatore nel momento diimmergersi o di uscire dall’acqua. Se sivolesse chiamare in causa la teoriadell’assorbimento di Fried, Betsabea èuna bagnante che non si accorge dellapresenza dell’osservatore,comportandosi a prescindere daquesto, diversamente da quel velo ditimidezza che si trova negli occhi dellaBagnante del 1859.

Ma Hayez, che pure ci si accorgeessere molto vicino alle convenzioni eallo spirito del nudo moderno, avevafatto un salto nel rapporto fra dipintoe modello nudo in posa che avevaprovocato qualche sconcerto. Avevafatto discutere, per esempio, il solido,morbidissimo ma tornito nudo di spalleche ritraeva la ballerina CarlottaChabert presentato nel 1830 comeVenere che scherza con due colombe. Aditurbare parte dei visitatori di Breraera il fatto che la donna non fossestata sufficientemente idealizzata perpoter essere a buon diritto identificatacon una Venere e non con una donnain carne ed ossa, con i seni piccoli e lenatiche sode che non potevano passareinosservate. Ma il gioco diprovocazione era nelle corde di Hayez,come ricorda nelle memorie, in cuigiocano sia le dimensioni ragguardevolidella tela, degne del quadro mitologico,sia la nitidezza così sfacciata di questonudo, di terga oltretutto, troppo veroper poter essere tenuto in quelladistanza irraggiungibile delle immaginiastrattamente ideali: questa Venere,anzi, sembra mostrarsi proprio perché

l’osservatore si avvicini a lei non solocon lo sguardo.

Ma dalle Memorie si capisce ancheche per Hayez il rapporto con ilmodello aveva un ruolo centrale, tantoda dichiarare la necessità di trovare divolta in volta un modello che avesse lecaratteristiche fisiche giuste perimpersonare un personaggio dellastoria o della mitologia, cioè un corpovero adatto a impersonare un carattere

astratto, quasi calando le “anticheforme” nel tempo presente. Era il casodell’imponente Sansone della galleriaPalatina di Palazzo Pitti a Firenze:«figura grande al vero e forse più,avendo avuto la fortuna d’unbellissimo modello il quale presentavatutte le antiche forme della sculturagreca […] credo di essere riuscito arendere una figura con quel caratterenobile e forte che portava il soggetto».

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S C O P R I S U B E L L I S S I M A . C O M I L N U O V O M O N D O D I

S C O P R I S U B E L L I S S I M A . C O M I L N U O

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gennaio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 47

S i deve al gusto eccentrico di uneditore collezionista comeFranco Maria Ricci l’avvio della

fortuna storiografica contemporanea diAdolfo Wildt (1868-1931). È dallepagine patinate e lussuose della suarivista, “FMR”, e poi da unamonumentale monografia a firma diPaola Mola per le stesse edizioni, infatti,che a partire dagli anni Ottanta si èricominciato a parlare dello scultoremilanese e la sua fama ha ripresoquota. Un lungo silenzio era calato sudi lui, nel secondo dopoguerra, per la“colpa” di aver realizzato una delle piùfortunate e riuscite effigi scultoree diBenito Mussolini: tanto era bastata peroscurare uno dei più significativi,eccentrici e singolari maestri dellascultura italiana del Novecento. Eppurein vita, pur fra periodi di difficoltà e distenti, non gli erano mancate occasionidi notevole consenso: una fra tuttel’incontro con il mecenate prussianoFranz Rose, che, folgorato dalla suaopera, nel 1894 decide di fargli uncontratto di esclusiva per acquistarnetutte le opere, e che durerà fino allamorte del collezionista nel 1913.

Estraneo alle avanguardie, Wildt simuove sostanzialmente su un binariopersonalissimo ed eccentrico,continuamente in dialogo con lascultura del passato, fra citazionipuntuali e picchi di invenzionevisionaria che ne fanno “l’ultimosimbolista”. Su questo dialogo con l’arte

antica, anzi, era imperniata la mostra diForlì del 2012, immediatamenteprecedente a quella all’Orangerienell’estate del 2015, riproposta a Milanoa cavallo fra 2015 e 2016. È proprio allabase di questa rilettura più recente dellavoro di Wildt il suo rapporto con imaestri del Rinascimento (basterebbe latestina di Augusto Solari del 1919,facilmente imparentabile con certeteste di fanciulli fra Mino da Fiesole eDesiderio da Settignano) o del Seicento(la citazione puntuale da Bernini nellabellissima e pulitissima Santa Lucia del1926), fra scultura e pittura. Ancora aParigi, faceva un certo effetto il piccoloe prezioso Vesperbild di Cosmè Turaoggi al Correr in dialogo con il Wildtpiù duro ed ascetico: se il confrontopoteva non rivelarsi filologicamenteserrato, indubbiamente un comunesenso dell’anatomia forzata in sensoespressionistico li poteva accomunare.

Ora, abbandonate fonti e maestri,nella tappa milanese di via Palestrol’opera di Wildt si presenta nel suopurissimo e altero, se non propriamentemaniacale virtuosismo che ne faceva unassoluto maestro, come recita il titolo diun suo fortunato e bellissimo libretto,

de L’arte del marmo. Egli è semprestato, infatti, un grande maestro nelcantiere della scultura, cosciente dellamateria nella sua struttura e nella suasuperficie, fedele al mestieretradizionale, portato a livelli altissimi dicomplessità formale ed esecutiva, mapronto alla logica delle repliche e dellevarianti: è questo, per esempio, il sensodelle due versioni de la Vedova (Atte)del 1892, presentate in fila insieme allasua fonte di ispirazione diretta dellavestale canoviana, oppure delle treversioni della Maschera dell’idiota inmarmo (appartenuta a Dannunzio) o inbronzo. Repliche in più colori esoprattutto in più materiali, infatti,potevano dare letture diverse dellamedesima forma, come sapeva bene, sututt’altro pianeta della scultura, il suocontemporaneo Medardo Rosso.

Fa una certa impressione, poi, se sipensa che il suo Vir temporis acti,l’elegante e violenta reintepretazionedel Torso del Belvedere in chiave eroica,ma non priva di delicatezze come icapezzoli a bocciolo fiorito, è del 1911,nella stessa Milano in cui UmbertoBoccioni cercava di unire nella stessascultura una testa antigraziosa e un

LA MOSTRA/2IMPALPABILI TORMENTIAdolfo Wildt a Milano

Adolfo Widt, Vir temporis acti, Collezione Ricci

ADOLFO WILDT (1868-1931). L’ULTIMO SIMBOLISTA

MILANO, GALLERIA D’ARTEMODERNA MILANO

27 novembre -14 febbraio 2016

gennaio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 47

S i deve al gusto eccentrico di uneditore collezionista comeFranco Maria Ricci l’avvio della

fortuna storiografica contemporanea diAdolfo Wildt (1868-1931). È dallepagine patinate e lussuose della suarivista, “FMR”, e poi da unamonumentale monografia a firma diPaola Mola per le stesse edizioni, infatti,che a partire dagli anni Ottanta si èricominciato a parlare dello scultoremilanese e la sua fama ha ripresoquota. Un lungo silenzio era calato sudi lui, nel secondo dopoguerra, per la“colpa” di aver realizzato una delle piùfortunate e riuscite effigi scultoree diBenito Mussolini: tanto era bastata peroscurare uno dei più significativi,eccentrici e singolari maestri dellascultura italiana del Novecento. Eppurein vita, pur fra periodi di difficoltà e distenti, non gli erano mancate occasionidi notevole consenso: una fra tuttel’incontro con il mecenate prussianoFranz Rose, che, folgorato dalla suaopera, nel 1894 decide di fargli uncontratto di esclusiva per acquistarnetutte le opere, e che durerà fino allamorte del collezionista nel 1913.

Estraneo alle avanguardie, Wildt simuove sostanzialmente su un binariopersonalissimo ed eccentrico,continuamente in dialogo con lascultura del passato, fra citazionipuntuali e picchi di invenzionevisionaria che ne fanno “l’ultimosimbolista”. Su questo dialogo con l’arte

antica, anzi, era imperniata la mostra diForlì del 2012, immediatamenteprecedente a quella all’Orangerienell’estate del 2015, riproposta a Milanoa cavallo fra 2015 e 2016. È proprio allabase di questa rilettura più recente dellavoro di Wildt il suo rapporto con imaestri del Rinascimento (basterebbe latestina di Augusto Solari del 1919,facilmente imparentabile con certeteste di fanciulli fra Mino da Fiesole eDesiderio da Settignano) o del Seicento(la citazione puntuale da Bernini nellabellissima e pulitissima Santa Lucia del1926), fra scultura e pittura. Ancora aParigi, faceva un certo effetto il piccoloe prezioso Vesperbild di Cosmè Turaoggi al Correr in dialogo con il Wildtpiù duro ed ascetico: se il confrontopoteva non rivelarsi filologicamenteserrato, indubbiamente un comunesenso dell’anatomia forzata in sensoespressionistico li poteva accomunare.

Ora, abbandonate fonti e maestri,nella tappa milanese di via Palestrol’opera di Wildt si presenta nel suopurissimo e altero, se non propriamentemaniacale virtuosismo che ne faceva unassoluto maestro, come recita il titolo diun suo fortunato e bellissimo libretto,

de L’arte del marmo. Egli è semprestato, infatti, un grande maestro nelcantiere della scultura, cosciente dellamateria nella sua struttura e nella suasuperficie, fedele al mestieretradizionale, portato a livelli altissimi dicomplessità formale ed esecutiva, mapronto alla logica delle repliche e dellevarianti: è questo, per esempio, il sensodelle due versioni de la Vedova (Atte)edel 1892, presentate in fila insieme allasua fonte di ispirazione diretta dellavestale canoviana, oppure delle treversioni della Maschera dell’idiota inmarmo (appartenuta a Dannunzio) o inbronzo. Repliche in più colori esoprattutto in più materiali, infatti,potevano dare letture diverse dellamedesima forma, come sapeva bene, sututt’altro pianeta della scultura, il suocontemporaneo Medardo Rosso.

Fa una certa impressione, poi, se sipensa che il suo Vir temporis acti,iil’elegante e violenta reintepretazionedel Torso del Belvedere in chiave eroica,ma non priva di delicatezze come icapezzoli a bocciolo fiorito, è del 1911,nella stessa Milano in cui UmbertoBoccioni cercava di unire nella stessascultura una testa antigraziosa e un

LA MOSTRA/2IMPALPABILI TORMENTIAdolfo Wildt a Milano

Adolfo Widt, Vir temporis acti, Collezione Ricciii

ADOLFO WILDT (1868-1931). L’ULTIMO SIMBOLISTA

MILANO, GALLERIA D’ARTEMODERNA MILANO

27 novembre -14 febbraio 2016

Page 50: Biblioteca di via Senato...Julius Evola e il Dada in Italia di vitaldo conte Le lettere dadaiste fra Evola e Tzara di gianfranco de turris Dada 1921: un’ottima annata di michele

48 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2016

infisso di finestra: sono due pianeti chenon possono né vogliono in alcunmodo comunicare, ma che esprimono levie inquiete dell’inizio del secolo. QuestoVir, di cui si conservano solo versioniparziali con brani più o meno ampidell’originale distrutto daibombardamenti di cui fu vittima lacollezione Rose, aiuta a capire molto delmondo ascetico e volitivo di Wildt: unguerriero sferzato dal tempo e daldestino, a cui allude lo scudiscio chebatte sul suo petto e disegna sul suovolto una smorfia di dolore.Un’anatomia marcata, quasi violenta,incollata sullo scheletro, tanto che, a

una vista posteriore, non solo èevidente la spina dorsale, ma alcunecostole affiorano sotto le scapole. Nonc’è psicologia nel dolore raffigurato daWildt, ma un contrasto di forze piùgrandi, caricate nelle espressioni egravate sul fisico di possenti semideivessati dalla sfortuna, o una diafanararefazione spirituale che non ha nullaa che fare con i moti dell’animo. È unmondo più alto, più netto, titanico esimbolico, fatto di immagini cheincarnano il concetto di anima, o ilconcetto di dolore, tradotti in mascherealla stregua, forse, dell’operawagneriana. Non per nulla, il

capolavoro tragico della sua carriera fudedicato a Parsifal, una figura avvitatain un’eccezionale torsione manieristadefinita anche, in modo eloquente, ilPuro folle. Sono maschere, poi, i duevolti di Carattere fiero Anima gentile.Una maschera è anche Il prigione daidenti serrati e digrignanti del 1915, acui l’artista ha tagliato di netto lacalotta cranica per serrare l’attenzionesull’espressione del volto, resa ancorapiù stridente dalla politezza riflettente,quasi di porcellana, con cui tratta ilmarmo dandogli una intonazione caldache sa rendere soffusa la luce chescivola sulle forme. È proprio il modo diaffrontare le superfici che permette dicapire che la base fondante di Wildtscultore è soprattutto nel disegno. È unnesso evidentissimo, per esempio, nelleprove di rilievo stiacciato, in cui realizzaun profondo sottosquadro per dividerela figura dal fondo, ma lo stesso mododi marcare i profili delle figure, dicaricare le espressioni del volto e diaccentuare o prosciugare l’anatomia,affonda le sue radici in un’idea graficadella scultura, ulteriormentesottolineata dall’uso di minute epreziose dorature. Non mancanopiccole eleganze - che negli anniNovanta hanno indotto a chiamare incausa, senza i dovuti distinguo, lefinezze preziose e sofisticate (ma nonascetiche) dell’Art Nouveau - come icapelli ondulati tagliati a scodella eappiccicati al cranio di Vir temporis acti,o la cuffia della minuta,apparentemente fragile L’anima e la suaveste (1916), che nasconde unacapigliatura dorata fatta per

Adolfo Wildt, Ombra

48 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2016

infisso di finestra: sono due pianeti chenon possono né vogliono in alcunmodo comunicare, ma che esprimono levie inquiete dell’inizio del secolo. QuestoVir, di cui si conservano solo versionirrparziali con brani più o meno ampidell’originale distrutto daibombardamenti di cui fu vittima lacollezione Rose, aiuta a capire molto delmondo ascetico e volitivo di Wildt: unguerriero sferzato dal tempo e daldestino, a cui allude lo scudiscio chebatte sul suo petto e disegna sul suovolto una smorfia di dolore.Un’anatomia marcata, quasi violenta,incollata sullo scheletro, tanto che, a

una vista posteriore, non solo èevidente la spina dorsale, ma alcunecostole affiorano sotto le scapole. Nonc’è psicologia nel dolore raffigurato daWildt, ma un contrasto di forze piùgrandi, caricate nelle espressioni egravate sul fisico di possenti semideivessati dalla sfortuna, o una diafanararefazione spirituale che non ha nullaa che fare con i moti dell’animo. È unmondo più alto, più netto, titanico esimbolico, fatto di immagini cheincarnano il concetto di anima, o ilconcetto di dolore, tradotti in mascherealla stregua, forse, dell’operawagneriana. Non per nulla, il

capolavoro tragico della sua carriera fudedicato a Parsifal, una figura avvitatallin un’eccezionale torsione manieristadefinita anche, in modo eloquente, ilPuro folle. Sono maschere, poi, i duevolti di Carattere fiero Anima gentile.Una maschera è anche Il prigione daidenti serrati e digrignanti del 1915, acui l’artista ha tagliato di netto lacalotta cranica per serrare l’attenzionesull’espressione del volto, resa ancorapiù stridente dalla politezza riflettente,quasi di porcellana, con cui tratta ilmarmo dandogli una intonazione caldache sa rendere soffusa la luce chescivola sulle forme. È proprio il modo diaffrontare le superfici che permette dicapire che la base fondante di Wildtscultore è soprattutto nel disegno. È unnesso evidentissimo, per esempio, nelleprove di rilievo stiacciato, in cui realizzaun profondo sottosquadro per dividerela figura dal fondo, ma lo stesso mododi marcare i profili delle figure, dicaricare le espressioni del volto e diaccentuare o prosciugare l’anatomia,affonda le sue radici in un’idea graficadella scultura, ulteriormentesottolineata dall’uso di minute epreziose dorature. Non mancanopiccole eleganze - che negli anniNovanta hanno indotto a chiamare incausa, senza i dovuti distinguo, lefinezze preziose e sofisticate (ma nonascetiche) dell’Art Nouveau - come icapelli ondulati tagliati a scodella eappiccicati al cranio di Vir temporis acti,iio la cuffia della minuta,apparentemente fragile L’anima e la suaveste (1916), che nasconde unacapigliatura dorata fatta per

Adolfo Wildt, Ombra

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gennaio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 49

scanalature meridiane (che Casoratiscultore non parta da qui oltre che daArturo Martini?). Eppure il raffinato,pauperistico lavoro di Wildt disegnatorenon è immediatamente confrontabilecon la scultura: i suoi delicatissimidisegni a grafite con dorature, fatti inpunta di matita con un impeccabilecontrollo nel modulare la pressione delsottilissimo tratto, arricchisconopiuttosto l’immaginario wildtiano diquelle invenzioni difficilmentetrasferibili tridimensionalmente. Unesempio per tutti è L’ombra del 1913:cinque figure nude camminano incerchio sotto un grande anello scuro dacui fioriscono cinque arbusti flessuosi,carichi di pomi e magre foglioline.

Eppure i tempi moderni nonriescono a restare del tutto fuori dalsuo mondo. Per il ritratto del pilotaArturo Ferrarin (1929), per esempio,pensa ad un’erma cava dagli occhiforati - di cui resta famosal’impressionante vista posterioreinteramente dorata come un’urnamodernista - ma poi calca sul suo capoberretto e occhiali da pilota che loriportano immediatamente al suotempo. È forse il solo caso riscontrabiledi un aggiornamento iconografico amotivi attuali: per il busto di VittorioEmanuele III, per esempio, non avevaesitato a cingere il capo del re di alloro,denudando le spalle come si confàall’atemporale nudità degli eroi. Eppure,anche quando copre d’oro il marmo elo smaterializza, la preziosità quasiimpalpabile della scultura di Wildt nonè mai del tutto apollinea o pacificata:una profonda, sottile inquietudine èentrata, leggera come un filo d’oro,anche nell’Empireo mistico.

È consueto, ormai, un certoscetticismo quando si senteannunciare una nuova mostra

dedicata agli Impressionisti o a singolimaestri di quella tendenza: la minacciadella mostra blockbuster si riaffacciafacendo temere un rapporto inversofra la fama dell’artista e la qualità delleopere in prestito. Non è il caso dellabella mostra di Monet organizzata allaGAM di Torino a cura di Guy Cogeval,Xavier Rey e Virginia Bertone, che purerisulta essere stata la mostra piùvisitata del 2015.

Non lo è per la sobrietà e leggibilitàlineare del percorso, studiato conattenzione sensibile, e non lo è per lacompattezza e qualità del gruppo didipinti che sono venuti a sud delle Alpi.Si tratta di una mostra che radunainfatti un folto gruppo di opere dalle

collezioni del museo d’Orsay, madistribuite normalmente su più sedi delmuseo o in deposito presso altreistituzioni anche fuori Parigi. Si haquindi l’occasione di vedere opere checomunque difficilmente si potrebberovedere vicine. Andando più a fondo,poi, si potrebbe riflettere sul gusto esulle scelte operate dai musei statalifrancesi: il più grande museo al mondodedicato alla pittura francesedell’Ottocento si trova a non averdocumentato la stagione più tarda delmaestro nell’inoltrato Novecento.Eccettuate le grandi tele panoramichedelle Ninfee in pianta stabileall’Oragerie, e giustamente inamovibili,il Monet presentato dalle collezioni delMuseo d’Orsay e raccontato dallamostra torinese non è il pittore delleserie, dei covoni e dei ponti giapponesi,

LA MOSTRA/3RIFLESSIONI SU MONETA Torino alla GAM

Régates à Argenteuil (1872), olio su tela, Paris, Musée d’Orsay, © RMN-Grand Palais (musée

d’Orsay) / Patrice Schmidt

gennaio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 49

scanalature meridiane (che Casoratiscultore non parta da qui oltre che daArturo Martini?). Eppure il raffinato,pauperistico lavoro di Wildt disegnatorenon è immediatamente confrontabilecon la scultura: i suoi delicatissimidisegni a grafite con dorature, fatti inpunta di matita con un impeccabilecontrollo nel modulare la pressione delsottilissimo tratto, arricchisconopiuttosto l’immaginario wildtiano diquelle invenzioni difficilmentetrasferibili tridimensionalmente. Unesempio per tutti è L’ombra del 1913:cinque figure nude camminano incerchio sotto un grande anello scuro dacui fioriscono cinque arbusti flessuosi,carichi di pomi e magre foglioline.

Eppure i tempi moderni nonriescono a restare del tutto fuori dalsuo mondo. Per il ritratto del pilotaArturo Ferrarin (1929), per esempio,pensa ad un’erma cava dagli occhiforati - di cui resta famosal’impressionante vista posterioreinteramente dorata come un’urnamodernista - ma poi calca sul suo capoberretto e occhiali da pilota che loriportano immediatamente al suotempo. È forse il solo caso riscontrabiledi un aggiornamento iconografico amotivi attuali: per il busto di VittorioEmanuele III, per esempio, non avevaesitato a cingere il capo del re di alloro,denudando le spalle come si confàall’atemporale nudità degli eroi. Eppure,anche quando copre d’oro il marmo elo smaterializza, la preziosità quasiimpalpabile della scultura di Wildt nonè mai del tutto apollinea o pacificata:una profonda, sottile inquietudine èentrata, leggera come un filo d’oro,anche nell’Empireo mistico.

È consueto, ormai, un certoscetticismo quando si senteannunciare una nuova mostra

dedicata agli Impressionisti o a singolimaestri di quella tendenza: la minacciadella mostra blockbuster si riaffacciafacendo temere un rapporto inversofra la fama dell’artista e la qualità delleopere in prestito. Non è il caso dellabella mostra di Monet organizzata allaGAM di Torino a cura di Guy Cogeval,Xavier Rey e Virginia Bertone, che purerisulta essere stata la mostra piùvisitata del 2015.

Non lo è per la sobrietà e leggibilitàlineare del percorso, studiato conattenzione sensibile, e non lo è per lacompattezza e qualità del gruppo didipinti che sono venuti a sud delle Alpi.Si tratta di una mostra che radunainfatti un folto gruppo di opere dalle

collezioni del museo d’Orsay, madistribuite normalmente su più sedi delmuseo o in deposito presso altreistituzioni anche fuori Parigi. Si haquindi l’occasione di vedere opere checomunque difficilmente si potrebberovedere vicine. Andando più a fondo,poi, si potrebbe riflettere sul gusto esulle scelte operate dai musei statalifrancesi: il più grande museo al mondodedicato alla pittura francesedell’Ottocento si trova a non averdocumentato la stagione più tarda delmaestro nell’inoltrato Novecento.Eccettuate le grandi tele panoramichedelle Ninfee in pianta stabileall’Oragerie, e giustamente inamovibili,il Monet presentato dalle collezioni delMuseo d’Orsay e raccontato dallamostra torinese non è il pittore delleserie, dei covoni e dei ponti giapponesi,

LA MOSTRA/3RIFLESSIONI SU MONETA Torino alla GAM

Régates à Argenteuil (1872), olio su tela, Paris, Musée d’Orsay, © RMN-Grand Palais (musée

d’Orsay) / Patrice Schmidt

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dei pioppeti e delle ninfee(eventualmente, è il pittore delle seriesulla Cattedrale di Rouen), ma quellodegli anni più militantidell’Impressionismo. Ed è una pittura,per molti aspetti, più legata allatradizione dell’Ottocento che proiettatoin avanti vero logiche concettualmentenovecentesche: pittore di quadrisingoli, insomma, che non ha ancorafatto sua la logica delle varianti sulmotivo. In una cosa Monet èconcettualmente un maestro con ipiedi nella modernità novecentesca:come molti artisti del “secolo breve”,egli è artista “tipologico”, la cui identitàè consegnata ad un certo modo dilavorare ed a gruppi (o serie) di opere edi soggetti, ma non a singoli capolavorisenza i quali una narrazione che lo

riguarda sarebbe mutila o addiritturaorfana. Il quadro di qualità, nel suocaso, spicca per tenuta espressiva, manon esiste nella sua carriera un dipintoche valga come quadro eponimoseguito da opere di minor peso: nontante prove più o meno riuscite inattesa del capolavoro isolato, ma operesingole ed equivalenti che possonoogni volta essere il capolavoroemblematico e rappresentativo per

decifrare la ricerca del pittore.Lo stesso accadrà con l’informale

una volta finita la seconda guerra: nonper nulla uno degli interpreti più lucididi quel momento, Clement Greenberg,evidenzierà un nesso forte fra lapittura dell’ultimo Monet e l’actionpainting americana, non senza bennote ricadute museali a distanza.

Rispetto a tutto questo Monet è unprecursore, ma non escluderei chequesto sia dovuto a una certa frenesiada parte sua. Ne cade vittima, forse, lagrande Colazione sull’erba, tanto caraa Francesco arcangeli, che l’artistalascia parzialmente incompiuto. È unquadro con il raro pregio di far capirecome lavorasse il pittore e di qualistrategie adottasse ma no a mano chel’elaborazione del dipinto dicomplicava. Ci si accorge per esempioche Monet abbozzava l’opera apennello per sommi capi, andando poiad ispessire progressivamente lamateria aggiungendo le ombre esoprattutto le luci, andando via viaaumentando nello spessore dellastesura: lo si nota bene osservando lafigura di sinistra, in abito ocra, che staentrando nella scena.

Sono noti gli interessi di Monet perla luce e per la sua fugaceregistrazione sulla tela. Ma quello dicui ci si accorge visitando la mostra diTorino e la varietà di modi di condurreil quadro da parte dell’artista, dalleopere in cui sono più scoperte le sueradici ottocentesche, nel solco di Corot,fino a rimontare, come fece notare a

la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2016

MONET DALLE COLLEZIONIDEL MUSÉE D’ORSAY E DELL’ORANGERIE

TORINO, GALLERIA CIVICA D’ARTEMODERNA E CONTEMPORANEA

2 ottobre 2015 - 31 gennaio 2016

Le déjeuner sur l’herbe (entre 1865 et 1866),

olio su tela, Paris, Musée d’Orsay, © RMN-

Grand Palais (musée d’Orsay) / Benoît Touchard

50

dei pioppeti e delle ninfee(eventualmente, è il pittore delle seriesulla Cattedrale di Rouen), ma quellodegli anni più militantidell’Impressionismo. Ed è una pittura,per molti aspetti, più legata allatradizione dell’Ottocento che proiettatoin avanti vero logiche concettualmentenovecentesche: pittore di quadrisingoli, insomma, che non ha ancorafatto sua la logica delle varianti sulmotivo. In una cosa Monet èconcettualmente un maestro con ipiedi nella modernità novecentesca:come molti artisti del “secolo breve”,egli è artista “tipologico”, la cui identitàè consegnata ad un certo modo dilavorare ed a gruppi (o serie) di opere edi soggetti, ma non a singoli capolavorisenza i quali una narrazione che lo

riguarda sarebbe mutila o addiritturaorfana. Il quadro di qualità, nel suocaso, spicca per tenuta espressiva, manon esiste nella sua carriera un dipintoche valga come quadro eponimoseguito da opere di minor peso: nontante prove più o meno riuscite inattesa del capolavoro isolato, ma operesingole ed equivalenti che possonoogni volta essere il capolavoroemblematico e rappresentativo per

decifrare la ricerca del pittore.Lo stesso accadrà con l’informale

una volta finita la seconda guerra: nonper nulla uno degli interpreti più lucididi quel momento, Clement Greenberg,evidenzierà un nesso forte fra lapittura dell’ultimo Monet e l’actionpainting americana, non senza bennote ricadute museali a distanza.

Rispetto a tutto questo Monet è unprecursore, ma non escluderei chequesto sia dovuto a una certa frenesiada parte sua. Ne cade vittima, forse, lagrande Colazione sull’erba, tanto caraa Francesco arcangeli, che l’artistalascia parzialmente incompiuto. È unquadro con il raro pregio di far capirecome lavorasse il pittore e di qualistrategie adottasse ma no a mano chel’elaborazione del dipinto dicomplicava. Ci si accorge per esempioche Monet abbozzava l’opera apennello per sommi capi, andando poiad ispessire progressivamente lamateria aggiungendo le ombre esoprattutto le luci, andando via viaaumentando nello spessore dellastesura: lo si nota bene osservando lafigura di sinistra, in abito ocra, che staentrando nella scena.

Sono noti gli interessi di Monet perla luce e per la sua fugaceregistrazione sulla tela. Ma quello dicui ci si accorge visitando la mostra diTorino e la varietà di modi di condurreil quadro da parte dell’artista, dalleopere in cui sono più scoperte le sueradici ottocentesche, nel solco di Corot,fino a rimontare, come fece notare a

la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2016

MONET DALLE COLLEZIONIDEL MUSÉE D’ORSAY E DELL’ORANGERIE

TORINO, GALLERIA CIVICA D’ARTEMODERNA E CONTEMPORANEA

2 ottobre 2015 - 31 gennaio 2016

Le déjeuner sur l’herbe (entre 1865 et 1866),

olio su tela, Paris, Musée d’Orsay, © RMN-

Grand Palais (musée d’Orsay) / Benoît Touchard

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gennaio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 51

suo tempo Arcangeli, alla pittura dipaesaggio olandese del Seicento: loscarto sarà nel passaggio dalla gammadei bruni a quella dei colori squillanti,dalle ombre di terra bruciata alleombre blu. Dall’uno all’altro, però, noncambia il modo di concepire il dipinto,disegnando a pennello con un colorescuro e riempiendo poi con i colori piùchiari. Lo si vede molto bene nei riflessisull’acqua, in cui meglio si distingue lasequenza delle operazioni: prima itratti più scuri, poi mano a mano cheaumenta lo spessore della pittura eccoarrivare le luci più chiare, fino allapittura di tocco evidente. Ognipennellata, spesso, è in dialogo conquella che gli sta accanto ma ne restaseparata, quasi in un precorri mentoancora espressionista del futurodivisionismo, e condotto totalmente inchiave emotiva. È il procedimento checonsente, del resto, di cominciare unquadro all’aperto e di finirlo in studio,annotando sul posto tutto quello che ènecessario al risultato finale. Maquesto, per altro verso, porta a unasorta di disfacimento della formaall’interno della materia: il disegno, ol’abbozzo, è già pittura e non piùchiaroscuro, e l’effetto che ne deriva èfortemente retinico piuttosto cheplastico. Solo la veduta del parlamentodi Londra in controluce, con cuiefficacemente si chiude la mostra, è undipinto di tessitura polita e compatta:qui la trama è così fitta e vibrante cheviene da pensare a Monet accarezzarecon il pennello la tela, in modo da dareall’insieme un effetto ovattato.

Sarebbe legittimo chiedersi, aquesto punto, per quale ragione fareuna mostra di Monet proprio a Torino.

Un buon motivo, in partenza, sarebbe ilfatto che si tratta della città italianaancora oggi più francofila. Questo ledarebbe già una patente di legittimitàin competizione con Venezia, cittàamata dal pittore e più volte dipinta eper due volte teatro, nel corso dellaBiennale, di importanti esposizioni chelo riguardano (un’importante personaleretrospettiva nel 1932 e una paretenell’importante mostra degliImpressionisti del 1948). Del resto,alcune delle opere presentate in questamostra erano già state in Italia inoccasione delle due manifestazionilagunari, e sottotraccia rievocano unrapporto con il Monet su cui la criticaitaliana si è misurata maggiormente.Ma una ragione più profonda legaTorino e Monet in un’occasionemancata. Lo si apprende dal bel saggiodi Virginia Bertone sulla fortunanovecentesca del pittore fra 1932 e

1962, argomento che meriterebbe unintero libro. Dagli archivi della GAM èinfatti emerso il tentativo da parte diVittorio Viale, mitico direttore deimusei civici torinesi nel dopoguerra, diassicurare nel 1958 un’opera delmaestro alla erigenda galleria d’artemoderna. La sede che ancora oggiospita il museo avrebbe aperto ibattenti nel 1959. A Viale, chedesiderava fortemente avere in quelmuseo una saletta dedicata agliImpressionisti, viene segnalata lapresenza presso un mercante di Parigidi un dipinto, a fronte delle difficoltàoggettive di reperimento di sue opere,che poteva valer la pena di assicurare aTorino. Quella scelta corrispondeva aldesiderio di Viale di offrire alla città unmuseo di respiro internazionale che,senza dimenticare le proprie radiciregionali, si aprisse ad esempi emodelli stranieri. L’Impressionismo,oltretutto, funzionava piuttosto benecon una lettura della storia dell’artemoderna che contemplava linee etendenze che oggi godono di minorefortuna, fra il cosiddetto “astratto-concreto” di Lionello Venturi e gliartisti della seconda École de Paris, adoggi visibili in Italia solo per meritodella lungimiranza di Viale.

L’acquisto, per motivi non del tuttochiari, non va in porto, e il piccolodipinto di Renoir acquistato nel 1952non troverà più un compagno diparete in museo.

Questa mostra, in qualche modo,inconsapevolmente risarcisce losmacco di allora, e riconferma il meritodi un museo che ancora, per moltiaspetti, mantiene un ruolo pilota e faparlare di sé.

Essai de figure en plein-air: Femme à

l’ombrelle tournée vers la droite (1886), olio

su tela) Paris, Musée d’Orsay, © RMN-Grand

Palais (musée d’Orsay) / Hervé Lewandowski

gennaio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 51

suo tempo Arcangeli, alla pittura dipaesaggio olandese del Seicento: loscarto sarà nel passaggio dalla gammadei bruni a quella dei colori squillanti,dalle ombre di terra bruciata alleombre blu. Dall’uno all’altro, però, noncambia il modo di concepire il dipinto,disegnando a pennello con un colorescuro e riempiendo poi con i colori piùchiari. Lo si vede molto bene nei riflessisull’acqua, in cui meglio si distingue lasequenza delle operazioni: prima itratti più scuri, poi mano a mano cheaumenta lo spessore della pittura eccoarrivare le luci più chiare, fino allapittura di tocco evidente. Ognipennellata, spesso, è in dialogo conquella che gli sta accanto ma ne restaseparata, quasi in un precorri mentoancora espressionista del futurodivisionismo, e condotto totalmente inchiave emotiva. È il procedimento checonsente, del resto, di cominciare unquadro all’aperto e di finirlo in studio,annotando sul posto tutto quello che ènecessario al risultato finale. Maquesto, per altro verso, porta a unasorta di disfacimento della formaall’interno della materia: il disegno, ol’abbozzo, è già pittura e non piùchiaroscuro, e l’effetto che ne deriva èfortemente retinico piuttosto cheplastico. Solo la veduta del parlamentodi Londra in controluce, con cuiefficacemente si chiude la mostra, è undipinto di tessitura polita e compatta:qui la trama è così fitta e vibrante cheviene da pensare a Monet accarezzarecon il pennello la tela, in modo da dareall’insieme un effetto ovattato.

Sarebbe legittimo chiedersi, aquesto punto, per quale ragione fareuna mostra di Monet proprio a Torino.

Un buon motivo, in partenza, sarebbe ilfatto che si tratta della città italianaancora oggi più francofila. Questo ledarebbe già una patente di legittimitàin competizione con Venezia, cittàamata dal pittore e più volte dipinta eper due volte teatro, nel corso dellaBiennale, di importanti esposizioni chelo riguardano (un’importante personaleretrospettiva nel 1932 e una paretenell’importante mostra degliImpressionisti del 1948). Del resto,alcune delle opere presentate in questamostra erano già state in Italia inoccasione delle due manifestazionilagunari, e sottotraccia rievocano unrapporto con il Monet su cui la criticaitaliana si è misurata maggiormente.Ma una ragione più profonda legaTorino e Monet in un’occasionemancata. Lo si apprende dal bel saggiodi Virginia Bertone sulla fortunanovecentesca del pittore fra 1932 e

1962, argomento che meriterebbe unintero libro. Dagli archivi della GAM èinfatti emerso il tentativo da parte diVittorio Viale, mitico direttore deimusei civici torinesi nel dopoguerra, diassicurare nel 1958 un’opera delmaestro alla erigenda galleria d’artemoderna. La sede che ancora oggiospita il museo avrebbe aperto ibattenti nel 1959. A Viale, chedesiderava fortemente avere in quelmuseo una saletta dedicata agliImpressionisti, viene segnalata lapresenza presso un mercante di Parigidi un dipinto, a fronte delle difficoltàoggettive di reperimento di sue opere,che poteva valer la pena di assicurare aTorino. Quella scelta corrispondeva aldesiderio di Viale di offrire alla città unmuseo di respiro internazionale che,senza dimenticare le proprie radiciregionali, si aprisse ad esempi emodelli stranieri. L’Impressionismo,oltretutto, funzionava piuttosto benecon una lettura della storia dell’artemoderna che contemplava linee etendenze che oggi godono di minorefortuna, fra il cosiddetto “astratto-concreto” di Lionello Venturi e gliartisti della seconda École de Paris, adoggi visibili in Italia solo per meritodella lungimiranza di Viale.

L’acquisto, per motivi non del tuttochiari, non va in porto, e il piccolodipinto di Renoir acquistato nel 1952non troverà più un compagno diparete in museo.

Questa mostra, in qualche modo,inconsapevolmente risarcisce losmacco di allora, e riconferma il meritodi un museo che ancora, per moltiaspetti, mantiene un ruolo pilota e faparlare di sé.

Essai de figure en plein-air: Femme à

l’ombrelle tournée vers la droite (1886), olio

su tela) Paris, Musée d’Orsay, © RMN-Grand

Palais (musée d’Orsay) / Hervé Lewandowski

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52 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2016

L a pittura di Valentino Vago e lascultura di Stefano Soddu siincontrano per la prima volta

nella mostra presso Colleoni Proposted’arte di Bergamo. L’esposizione vuoleproporre accostati, attraverso unascelta di opere storiche e una selezionedi lavori recenti dei due artisti, duemodi, in nome dell’astrazione, diintendere il rapporto fra arti visive etensione spirituale: due proposte che,pur con storie e linguaggi distinti,possono efficacemente interagire consuggestivo effetto d’insieme.

Entrambi, da un punto di vistapuramente concettuale, sono arrivati afondare il loro lavoro su unadimensione di forte vocazioneambientale, in un caso per via didisseminazione (Soddu) nell’altro dirarefazione (Vago). A monte è infatti undesiderio di ridurre il linguaggio ai suoitermini essenziali e disadorni, necessaria una maggiore concentrazionespirituale dell’immagine. Non a caso,infatti, la pittura di Vago ha trovato lasua ideale compiutezza nella pitturamurale (specialmente nei luoghi diculto), mentre la scultura di Soddu hatrovato la sua piena identità nellainstallazione. Ma al contempo, mentresi allargano su spazi dilatati, sia illavoro di Vago sia quello di Sodduperdono limiti netti e definiti: per ilprimo la parete è uno sconfinamentorispetto alla tela in uno spazio di cuialtera la percezione attraverso

un’immersione cromatica; per ilsecondo, invece, l’interazione con lospazio lo porta di volta in volta a unareinvenzione e ad un riadattamentodell’installazione al luogo. Un ulteriorepunto di contatto, poi, si incontraproprio girando questa mostra: icumuli di polvere colorata delleinstallazioni di Soddu possono apparirecome un rispecchiamento delle ampie edigradanti campiture di Vago, specie lepiù accese e infiammate: per entrambiil colore provoca un punto luminosointenso e, in ultimo, spirituale.

Ma il punto fondamentale, chesegnala la maggiore distanza fra i due,sta sul problema della materia, che perSoddu ha una solida gravitazione alsuolo, senza smaterializzarsi come lapittura di Vago. Questa distanza,tuttavia, non rende il dialogo fra due

artisti di generazione così distanti menoricco e produttivo. Materia solida chegravita al suolo e rarefazione cheprocede verso la smaterializzazione,dunque, arrivano a toccarsi. I punti didistanza, sotto il profilo fenomenologico,restano evidenti: un pieno dominio delvisivo da una parte (Vago) eun’operazione concettuale che sonda irapporti fra immagine e parole s,soprattutto, sulla parola in immagine(Soddu). Questo, tuttavia, non impedisceun efficace rapporto dialetticoall’insegna della semplificazione eriduzione, seppur raggiunta in un casoper via di togliere (Vago) nell’altra pervia di sintesi. Il passo successivo, chedarebbe a questo dialogo un sigillodefinitivo, li vedrebbe all’opera su scalaambientale, laddove la pittura sfonda iconfini del quadro e la scultura irrompenel vuoto circoscritto dei volumiarchitettonici.

Bisogna quindi interrogarsi sulsignificato ultimo del rapporto fra arte espiritualità di fronte a istanzeaniconiche. Messa fra parentesil’esigenza didascalica, l’immagine sacra èdiventata soprattutto esperienza delsacro: l’indicibile è luce e colore, in sensoromantico, o spazio e architettura inaccezione arcaizzante. In entrambi i casiricerca l’infinito, un’immagine che lamente umana non sa contenere eraffigurare: esiste, ma è un’emanazioneirradiante di luce che, talvolta, filtra dauna ferita.

LA MOSTRA/4SPIRITO E MATERIAStefano Soddu e Valentino Vago

STEFANO SODDU E VALENTINO VAGO

BERGAMO, COLLEONI PROPOSTE D’ARTEhttp://www.colleoniarte.com/

5 novembre - 31 gennaio 2016

52 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2016

L a pittura di Valentino Vago e lascultura di Stefano Soddu siincontrano per la prima volta

nella mostra presso Colleoni Proposted’arte di Bergamo. L’esposizione vuoleproporre accostati, attraverso unascelta di opere storiche e una selezionedi lavori recenti dei due artisti, duemodi, in nome dell’astrazione, diintendere il rapporto fra arti visive etensione spirituale: due proposte che,pur con storie e linguaggi distinti,possono efficacemente interagire consuggestivo effetto d’insieme.

Entrambi, da un punto di vistapuramente concettuale, sono arrivati afondare il loro lavoro su unadimensione di forte vocazioneambientale, in un caso per via didisseminazione (Soddu) nell’altro dirarefazione (Vago). A monte è infatti undesiderio di ridurre il linguaggio ai suoitermini essenziali e disadorni, necessaria una maggiore concentrazionespirituale dell’immagine. Non a caso,infatti, la pittura di Vago ha trovato lasua ideale compiutezza nella pitturamurale (specialmente nei luoghi diculto), mentre la scultura di Soddu hatrovato la sua piena identità nellainstallazione. Ma al contempo, mentresi allargano su spazi dilatati, sia illavoro di Vago sia quello di Sodduperdono limiti netti e definiti: per ilprimo la parete è uno sconfinamentorispetto alla tela in uno spazio di cuialtera la percezione attraverso

un’immersione cromatica; per ilsecondo, invece, l’interazione con lospazio lo porta di volta in volta a unareinvenzione e ad un riadattamentodell’installazione al luogo. Un ulteriorepunto di contatto, poi, si incontraproprio girando questa mostra: icumuli di polvere colorata delleinstallazioni di Soddu possono apparirecome un rispecchiamento delle ampie edigradanti campiture di Vago, specie lepiù accese e infiammate: per entrambiil colore provoca un punto luminosointenso e, in ultimo, spirituale.

Ma il punto fondamentale, chesegnala la maggiore distanza fra i due,sta sul problema della materia, che perSoddu ha una solida gravitazione alsuolo, senza smaterializzarsi come lapittura di Vago. Questa distanza,tuttavia, non rende il dialogo fra due

artisti di generazione così distanti menoricco e produttivo. Materia solida chegravita al suolo e rarefazione cheprocede verso la smaterializzazione,dunque, arrivano a toccarsi. I punti didistanza, sotto il profilo fenomenologico,restano evidenti: un pieno dominio delvisivo da una parte (Vago) eun’operazione concettuale che sonda irapporti fra immagine e parole s,soprattutto, sulla parola in immagine(Soddu). Questo, tuttavia, non impedisceun efficace rapporto dialetticoall’insegna della semplificazione eriduzione, seppur raggiunta in un casoper via di togliere (Vago) nell’altra pervia di sintesi. Il passo successivo, chedarebbe a questo dialogo un sigillodefinitivo, li vedrebbe all’opera su scalaambientale, laddove la pittura sfonda iconfini del quadro e la scultura irrompenel vuoto circoscritto dei volumiarchitettonici.

Bisogna quindi interrogarsi sulsignificato ultimo del rapporto fra arte espiritualità di fronte a istanzeaniconiche. Messa fra parentesil’esigenza didascalica, l’immagine sacra èdiventata soprattutto esperienza delsacro: l’indicibile è luce e colore, in sensoromantico, o spazio e architettura inaccezione arcaizzante. In entrambi i casiricerca l’infinito, un’immagine che lamente umana non sa contenere eraffigurare: esiste, ma è un’emanazioneirradiante di luce che, talvolta, filtra dauna ferita.

LA MOSTRA/4SPIRITO E MATERIAStefano Soddu e Valentino Vago

STEFANO SODDUE VALENTINO VAGO

BERGAMO,COLLEONI PROPOSTE D’ARTEhttp://www.colleoniarte.com/

5 novembre - 31 gennaio 2016

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gennaio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 53

decenni il direttore del sitoarcheologico di Palmira e a esso hadedicato la sua vita, con studi,ricerche e anche con tanti lavori direstauro e ricostruzione, finalizzatialla tutela e alla valorizzazione.Quando ho avviato la Missionearcheologica congiunta italo-siriana aPalmira, nel 2007, il professore era giàin pensione, ma naturalmentecontinuava a interessarsi di tuttoquanto accadeva nel sito. Veniva atrovarci, sul cantiere di scavo o inmuseo, per conoscere il nostro lavoroe informarsi di quanto stavamofacendo. Naturalmente, parlare con luiera di enorme interesse per tutti noi, ei suoi consigli e suggerimenti eranopreziosi. Khaled al-Asaad era lamemoria storica di Palmira.

Quale è stata la reazione delpopolo siriano, dopo la sua uccisione?

Non lo so, non ho notizie alriguardo. Quando la notizia è statabattuta dalle agenzie di stampa ditutto il mondo, lo scorso agosto, cisono state alcune comunicazioni viamail, nell’ambito della comunitàscientifica internazionale, con icolleghi siriani, espressione del dolore,

Poche settimane prima deitragici attentati perpetrati aParigi da terroristi fanatici

legati all’Isis, il mondo aveva appreso- attonito - della pubblica esecuzionedell’archeologo Khaled al-Asaad,comminata dal sedicente califfo AbuBakr al-Baghdadi e dai suoi seguaci.L’accusa era quella di tradimento, peraver tentato di salvare l’immensopatrimonio artistico della città sirianadi Palmira, dichiarata dall’Unesco(grazie proprio al lavoro di Khaled al-Asaad) Patrimonio dell’Umanità nel1980. Dopo essere statoripetutamente torturato, e nonavendo rivelato ai suoi aguzzini oveaveva messo al sicuro dalla folliaiconoclasta dei guerriglieri dell’Isisalcune opere d’arte e reperti

archeologici, Khaled al-Asaad -secondo quanto riferito dal«Guardian» - fu trascinato in piazza edecapitato davanti alla folla. Il suocorpo venne lasciato esposto alcunigiorni, come monito.

«la Biblioteca di via Senato»,inorridita di fronte a questa barbarie,ha incontrato Maria Teresa Grassi,docente di Archeologia pressol’università di Milano e direttrice dellaMissione Archeologica Italo-Siriana diPalmira.

Professoressa Grassi, sappiamoche lei ha conosciuto personalmenteKhaled al-Asaad. Cosa ricorda di luisotto il profilo umano eprofessionale?

Khaled al-Asaad è stato per

di luigi sgroi

RIFLESSIONI L’UCCISIONE DI UN ARCHEOLOGOE LA FOLLIA DELL’ISISIntervista a Maria Teresa Grassi, direttricedella Missione Archeologica Italo-Siriana

Sopra: il teatro di Palmira. A sinistra:

un'immagine delle rovine di Palmira.

gennaio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 53

decenni il direttore del sitoarcheologico di Palmira e a esso hadedicato la sua vita, con studi,ricerche e anche con tanti lavori direstauro e ricostruzione, finalizzatialla tutela e alla valorizzazione.Quando ho avviato la Missionearcheologica congiunta italo-siriana aPalmira, nel 2007, il professore era giàin pensione, ma naturalmentecontinuava a interessarsi di tuttoquanto accadeva nel sito. Veniva atrovarci, sul cantiere di scavo o inmuseo, per conoscere il nostro lavoroe informarsi di quanto stavamofacendo. Naturalmente, parlare con luiera di enorme interesse per tutti noi, ei suoi consigli e suggerimenti eranopreziosi. Khaled al-Asaad era lamemoria storica di Palmira.

QQuuaallee èè ssttaattaa llaa rreeaazziioonnee ddeellppooppoolloo ssiirriiaannoo,, ddooppoo llaa ssuuaa uucccciissiioonnee??

Non lo so, non ho notizie alriguardo. Quando la notizia è statabattuta dalle agenzie di stampa ditutto il mondo, lo scorso agosto, cisono state alcune comunicazioni viamail, nell’ambito della comunitàscientifica internazionale, con icolleghi siriani, espressione del dolore,

Poche settimane prima deitragici attentati perpetrati aParigi da terroristi fanatici

legati all’Isis, il mondo aveva appreso- attonito - della pubblica esecuzionedell’archeologo Khaled al-Asaad,comminata dal sedicente califfo AbuBakr al-Baghdadi e dai suoi seguaci.L’accusa era quella di tradimento, peraver tentato di salvare l’immensopatrimonio artistico della città sirianadi Palmira, dichiarata dall’Unesco(grazie proprio al lavoro di Khaled al-Asaad) Patrimonio dell’Umanità nel1980. Dopo essere statoripetutamente torturato, e nonavendo rivelato ai suoi aguzzini oveaveva messo al sicuro dalla folliaiconoclasta dei guerriglieri dell’Isisalcune opere d’arte e reperti

archeologici, Khaled al-Asaad -secondo quanto riferito dal«Guardian» - fu trascinato in piazza edecapitato davanti alla folla. Il suocorpo venne lasciato esposto alcunigiorni, come monito.

«la Biblioteca di via Senato»,inorridita di fronte a questa barbarie,ha incontrato Maria Teresa Grassi,docente di Archeologia pressol’università di Milano e direttrice dellaMissione Archeologica Italo-Siriana diPalmira.

PPrrooffeessssoorreessssaa GGrraassssii,, ssaappppiiaammoocchhee lleeii hhaa ccoonnoosscciiuuttoo ppeerrssoonnaallmmeenntteeKKhhaalleedd aall--AAssaaaadd.. CCoossaa rriiccoorrddaa ddii lluuiissoottttoo iill pprrooffiilloo uummaannoo eepprrooffeessssiioonnaallee??

Khaled al-Asaad è stato per

di luigi sgroi

RIFLESSIONIL’UCCISIONE DI UN ARCHEOLOGOE LA FOLLIA DELL’ISISIntervista a Maria Teresa Grassi, direttricedella Missione Archeologica Italo-Siriana

Sopra: il teatro di Palmira. A sinistra:

un'immagine delle rovine di Palmira.

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54 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2016

divenuta, tra II e III sec. d. C., tappaobbligata su una delle grandi viecommerciali che univano Oriente eOccidente. E forse definirei il ‘tesoro’maggiore che Palmira ci ha lasciato ineredità la rielaborazione in formeoriginali della cultura occidentale(mediterranea, greco-romana) eorientale (oltre l’Eufrate).

Per fare un esempio di tale culturaartistica, che cosa si potrebbemenzionare?

Tra le opere d’arte più note diPalmira vorrei ricordare i rilievifunerari, di cui si possono ammirarealcuni esemplari anche in grandicollezioni museali, come ad esempio ilLouvre, il British Museum o i MuseiVaticani (solo per citarne alcuni). Ipalmireni costruivano grandi tombecollettive, dove venivano sepolti tutti imembri di un clan e quindi dovetrovavano posto anche centinaia didefunti, ognuno dei quali era depostoin un loculo chiuso da una lastra dicalcare in cui era scolpito il suoritratto. Questa straordinaria galleriadi immagini ci presenta una opulenta,

del cordoglio, e anche della rabbiaimpotente verso un crimine cosìodioso.

Posso immaginare le stessereazioni in quanti lo conoscessero, matemo che, in un Paese devastato dauna tremenda guerra civile da quasicinque anni e dove ormai quasi ognifamiglia ha subito perdite dolorose,questo genere di notizie sia all’ordinedel giorno e forse - drammaticamente- non abbia lo stesso impatto che haavuto nei paesi occidentali.

Chi ha ucciso Khaled al-Asaad, eperché ?

Le notizie le ho ricavate anch’iodalle agenzie di stampa internazionali,che parlano dell’uccisione a operadello Stato Islamico che ha occupatobuona parte del territorio siriano. Perquanto riguarda i motivi della suauccisione, io credo che il principale siastato quello - ancora una volta - diattirare l’attenzione di tutti i media.Dopo l’occupazione nel maggioscorso, Palmira non era più stata alcentro dell’attenzione; l’assassinio diKhaled al-Asaad l’ha riportata inprima pagina.È stato anche detto chesi voleva fargli rivelare il nascondigliodove parte dei reperti mobili diPalmira potrebbero essere stati messiin salvo. Nessuna di queste notizie èperò verificabile con sicurezza.

Nel caso di Palmira, motivo delrigetto e della distruzione delle opered’arte è, di fondo, solo la culturaiconoclasta del mondo musulmano, oanche altro?

Mi pare che, nell’attuale contestostorico, il motivo di queste distruzioni

vada ricercato soprattutto in unadeviata (ma purtroppo efficace)strategia di comunicazione, unacomunicazione globale, planetaria, chearriva a tutti. È difficile stabilire qualepeso abbia l’ideologia, in particolarequando si parla di ‘distruzione degliidoli’. La storia racconta che tantevolte ci si è accaniti, anche con grandeviolenza, sulle immagini diculture/tradizioni/religioni ‘altre’, perspazzare via l’altro, per cancellarlo, per farlo dimenticare. La storiaracconta, ma purtroppo non insegnanulla.

Quali sono, a suo giudizio, i tesoripiù importanti di Palmira ?

È difficile stilare un elenco ditesori. Vorrei invece sottolinearel’importanza di Palmira nel suocomplesso, non solo perché è statauna grande metropoli dell’ImperoRomano d’Oriente, ma anche per lostraordinario contesto ambientale chene ha determinato lo sviluppo el’ascesa, e cioè la grande oasi deldeserto siriano, quasi a metà stradatra Mesopotamia e Mediterraneo,

Sopra: Khaled al-Asaad, davanti a un sarcofago rinvenuto a Palmira

54 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2016

divenuta, tra II e III sec. d. C., tappaobbligata su una delle grandi viecommerciali che univano Oriente eOccidente. E forse definirei il ‘tesoro’maggiore che Palmira ci ha lasciato ineredità la rielaborazione in formeoriginali della cultura occidentale(mediterranea, greco-romana) eorientale (oltre l’Eufrate).

PPeerr ffaarree uunn eesseemmppiioo ddii ttaallee ccuullttuurraaaarrttiissttiiccaa,, cchhee ccoossaa ssii ppoottrreebbbbeemmeennzziioonnaarree??

Tra le opere d’arte più note diPalmira vorrei ricordare i rilievifunerari, di cui si possono ammirarealcuni esemplari anche in grandicollezioni museali, come ad esempio ilLouvre, il British Museum o i MuseiVaticani (solo per citarne alcuni). Ipalmireni costruivano grandi tombecollettive, dove venivano sepolti tutti imembri di un clan e quindi dovetrovavano posto anche centinaia didefunti, ognuno dei quali era depostoin un loculo chiuso da una lastra dicalcare in cui era scolpito il suoritratto. Questa straordinaria galleriadi immagini ci presenta una opulenta,

del cordoglio, e anche della rabbiaimpotente verso un crimine cosìodioso.

Posso immaginare le stessereazioni in quanti lo conoscessero, matemo che, in un Paese devastato dauna tremenda guerra civile da quasicinque anni e dove ormai quasi ognifamiglia ha subito perdite dolorose,questo genere di notizie sia all’ordinedel giorno e forse - drammaticamente- non abbia lo stesso impatto che haavuto nei paesi occidentali.

CChhii hhaa uucccciissoo KKhhaalleedd aall--AAssaaaadd,, eeppeerrcchhéé ??

Le notizie le ho ricavate anch’iodalle agenzie di stampa internazionali,che parlano dell’uccisione a operadello Stato Islamico che ha occupatobuona parte del territorio siriano. Perquanto riguarda i motivi della suauccisione, io credo che il principale siastato quello - ancora una volta - diattirare l’attenzione di tutti i media.Dopo l’occupazione nel maggioscorso, Palmira non era più stata alcentro dell’attenzione; l’assassinio diKhaled al-Asaad l’ha riportata inprima pagina.È stato anche detto chesi voleva fargli rivelare il nascondigliodove parte dei reperti mobili diPalmira potrebbero essere stati messiin salvo. Nessuna di queste notizie èperò verificabile con sicurezza.

NNeell ccaassoo ddii PPaallmmiirraa,, mmoottiivvoo ddeellrriiggeettttoo ee ddeellllaa ddiissttrruuzziioonnee ddeellllee ooppeerreedd’’aarrttee èè,, ddii ffoonnddoo,, ssoolloo llaa ccuullttuurraaiiccoonnooccllaassttaa ddeell mmoonnddoo mmuussuullmmaannoo,, ooaanncchhee aallttrroo??

Mi pare che, nell’attuale contestostorico, il motivo di queste distruzioni

vada ricercato soprattutto in unadeviata (ma purtroppo efficace)strategia di comunicazione, unacomunicazione globale, planetaria, chearriva a tutti. È difficile stabilire qualepeso abbia l’ideologia, in particolarequando si parla di ‘distruzione degliidoli’. La storia racconta che tantevolte ci si è accaniti, anche con grandeviolenza, sulle immagini diculture/tradizioni/religioni ‘altre’, perspazzare via l’altro, per cancellarlo, per farlo dimenticare. La storiaracconta, ma purtroppo non insegnanulla.

QQuuaallii ssoonnoo,, aa ssuuoo ggiiuuddiizziioo,, ii tteessoorriippiiùù iimmppoorrttaannttii ddii PPaallmmiirraa ??

È difficile stilare un elenco ditesori. Vorrei invece sottolinearel’importanza di Palmira nel suocomplesso, non solo perché è statauna grande metropoli dell’ImperoRomano d’Oriente, ma anche per lostraordinario contesto ambientale chene ha determinato lo sviluppo el’ascesa, e cioè la grande oasi deldeserto siriano, quasi a metà stradatra Mesopotamia e Mediterraneo,

Sopra: Khaled al-Asaad, davanti a un sarcofago rinvenuto a Palmira

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gennaio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 55

silenziosa e serena comunità diuomini sdraiati per sempre abanchetto con ricche vesti ricamate diorigine orientale oppure abbigliatiall’occidentale (con tunica e mantello)e di donne con sfolgoranti gioielli (ingran parte di tipologie diffuse anchein Occidente, ma esibiti in grandequantità, secondo la tradizioneorientale).

Prevedete qualche altra missionein Siria? Avete qualche progettoarcheologico particolare a Palmira oaltrove?

Purtroppo, per il momento, non èassolutamente possibile programmarealcuna missione in Siria dove, vorreiricordare, erano numerosi i progetti

nuove scoperte, nuove domande enuovi orizzonti.

Ci tolga una curiosità : la Veneredi Cirene, restituita alla Libia diGheddafi e poi scomparsa, secondolei, che fine ha fatto?

Io spero che sia finita dimenticatain qualche oscuro magazzino, magariben imballata e rivestita di stracci, inuna brutta cassa di legno, senzacartellini né numeri di inventario néindicazioni di alcun genere. È così chespesso, nel passato, tante opere d’arteimportanti si sono salvate (penso allaSeconda Guerra Mondiale e alle operenascoste per sfuggire alle razzienaziste). Un oblio passeggero (spero),in cambio della salvezza.

italiani nell’ambito del patrimonioculturale. Si è interrotta, tra le altre,anche l’importante missione a Ebla delprof. Matthiae, che operava nel sitoda 50 anni. Io e tutti i colleghicoltiviamo la speranza di potertornare, un giorno, in Siria, maquando, dove e come, non è possibileattualmente neppure immaginarlo.Nel frattempo, io continuo a lavorarein Italia, sempre nell’ambitodell’archeologia romana, in un piccolocentro fondato dai Romani a nord delPo nel II sec. a. C., Bedriacum (attualeCalvatone, in provincia di Cremona).Sono molto legata anche a questoscavo (l’anno prossimo saranno 30anni che ci lavoro) che, a ogni nuovacampagna sul campo, riserva sempre

P rofessore di Archeologia del-le Province Romane, MariaTeresa Grassi insegna presso

l’Università degli Studi di Milano. Hapartecipato, dal 1980, alle attività diricerca, di studio e didattiche dellaSezione di Archeologia dell’Ateneomilanese (attualmente nel Diparti-mento di Beni Culturali e Ambienta-li), in particolare agli scavi degli abi-tati romani di Angera (Va) e di Calva-tone-Bedriacum (Cr), di cui è diret-tore dal 2005. Nel 2007 ha organiz-zato la Missione Archeologica con-giunta italo-siriana PAL.M.A.I.S., dicui è direttore, che opera nel quar-tiere sud-ovest di Palmira-Tadmor,in Siria.

I suoi interessi principali riguar-dano la romanizzazione della Cisal-

pina e i rapporti tra Celti e Romani;la cultura materiale di età romana,in particolare la ceramica; la numi-smatica; i rapporti tra centro e peri-ferie nell’Impero Romano, con par-ticolare riferimento all’Africa e allaSiria.

È autrice di alcune monografie

(sui Celti in Italia, sugli Insubri, sullaLombardia, sulla ceramica a vernicenera) e di numerosi articoli scientifi-ci. Ha pubblicato inoltre alcune ope-re di carattere divulgativo (le guidearcheologiche di Libia e Tunisia).

MARIA TERESA GRASSI

Maria Teresa Grassi, a Palmira

gennaio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano 55

silenziosa e serena comunità diuomini sdraiati per sempre abanchetto con ricche vesti ricamate diorigine orientale oppure abbigliatiall’occidentale (con tunica e mantello)e di donne con sfolgoranti gioielli (ingran parte di tipologie diffuse anchein Occidente, ma esibiti in grandequantità, secondo la tradizioneorientale).

PPrreevveeddeettee qquuaallcchhee aallttrraa mmiissssiioonneeiinn SSiirriiaa?? AAvAveettee qquuaallcchhee pprrooggeettttooaarrcchheeoollooggiiccoo ppaarrttiiccoollaarree aa PPaallmmiirraa ooaallttrroovvee??

Purtroppo, per il momento, non èassolutamente possibile programmarealcuna missione in Siria dove, vorreiricordare, erano numerosi i progetti

nuove scoperte, nuove domande enuovi orizzonti.

CCii ttoollggaa uunnaa ccuurriioossiittàà :: llaa VVeVeVVeVeVeVVeVV nneerreeddii CCiCiCiCiCCirreennee,, rreessttiittuuiittaa aallllaa LLiibbiiaa ddiiGGhheeddddaaffii ee ppooii ssccoommppaarrssaa,, sseeccoonnddoolleeii,, cchhee ffiinnee hhaa ffaattttoo??

Io spero che sia finita dimenticatain qualche oscuro magazzino, magariben imballata e rivestita di stracci, inuna brutta cassa di legno, senzacartellini né numeri di inventario néindicazioni di alcun genere. È così chespesso, nel passato, tante opere d’arteimportanti si sono salvate (penso allaSeconda Guerra Mondiale e alle operenascoste per sfuggire alle razzienaziste). Un oblio passeggero (spero),in cambio della salvezza.

italiani nell’ambito del patrimonioculturale. Si è interrotta, tra le altre,anche l’importante missione a Ebla delprof. Matthiae, che operava nel sitoda 50 anni. Io e tutti i colleghicoltiviamo la speranza di potertornare, un giorno, in Siria, maquando, dove e come, non è possibileattualmente neppure immaginarlo.Nel frattempo, io continuo a lavorarein Italia, sempre nell’ambitodell’archeologia romana, in un piccolocentro fondato dai Romani a nord delPo nel II sec. a. C., Bedriacum (attualeCalvatone, in provincia di Cremona).Sono molto legata anche a questoscavo (l’anno prossimo saranno 30anni che ci lavoro) che, a ogni nuovacampagna sul campo, riserva sempre

P rofessore di Archeologia del-le Province Romane, MariaTeresa Grassi insegna presso

l’Università degli Studi di Milano. Hapartecipato, dal 1980, alle attività diricerca, di studio e didattiche dellaSezione di Archeologia dell’Ateneomilanese (attualmente nel Diparti-mento di Beni Culturali e Ambienta-li), in particolare agli scavi degli abi-tati romani di Angera (Va) e di Calva-tone-Bedriacum (Cr), di cui è diret-tore dal 2005. Nel 2007 ha organiz-zato la Missione Archeologica con-giunta italo-siriana PAL.M.A.I.S., dicui è direttore, che opera nel quar-tiere sud-ovest di Palmira-Tadmor,in Siria.

I suoi interessi principali riguar-dano la romanizzazione della Cisal-

pina e i rapporti tra Celti e Romani;la cultura materiale di età romana,in particolare la ceramica; la numi-smatica; i rapporti tra centro e peri-ferie nell’Impero Romano, con par-ticolare riferimento all’Africa e allaSiria.

È autrice di alcune monografie

(sui Celti in Italia, sugli Insubri, sullaLombardia, sulla ceramica a vernicenera) e di numerosi articoli scientifi-ci. Ha pubblicato inoltre alcune ope-re di carattere divulgativo (le guidearcheologiche di Libia e Tunisia).

MARIA TERESA GRASSI

Maria Teresa Grassi, a Palmira

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56 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2016

Paolo Grillo, “L’aquila e il giglio.1266: la battaglia di Benevento”,Roma, Salerno Editrice, 2015, pp. 136, 12 euro

La battaglia di Benevento del1266 è comunemente presentatacome una sorta di malvagio scherzodel destino ai danni di Manfredi, ilfiglio dell’imperatore Federico II, chevenne sconfitto dalle forze di Carlo

d’Angiò, cheriuscì in talmodo aimpadronirsidel Regno diSicilia. Apartire dallanarrazione‘guelfa’ degli

eventi, che spiegava la clamorosaquanto imprevista vittoria di Carlocon la sacralità della sua missione,voluta dal papa e benedetta da Dio,ha replicato una versione ‘ghibellina’,appoggiata dall’autorità dantesca, conl’immagine del Manfredi «biondo,bello e di gentile aspetto».

Si tratta però di un’immaginedeformata che quest’opera di PaoloGrillo (professore di Storia medievalepresso l’università di Milano) voglionocorreggere, restituendo tutta lacomplessità di una vicendaimpossibile da ridurre alle letturenazionaliste/ regionaliste oclericali/anticlericali del secolopassato.

“Comedia di Dante con figuredipinte”, a c. Luca Marcozzi, Roma, Salerno Editrice, 2015, pp. 132, 60 euro

L’esemplare della Commedia con ilcommento di Cristoforo Landino,pubblicato a Venezia da Pietro Piasi nel1491 e conservato presso la Casa diDante in Roma, presenta a corredo deltesto un ricco apparato di postille e difigure dipinte che illustrano i passaggisalienti del poema di Dante. Il fittomistero che ha a lungo circondato illoro autore solo in anni recenti si èdissolto per far emergere la figura diAntonio Grifo, poeta e cortigianoveneziano vissuto negli ultimi anni delQuattrocento a Milano, nell’ambienteraffinato della corte di Ludovico ilMoro. Grifo è ricordato per l’amiciziacon Leonardo e per la sua attività dipoeta lirico e commentatore di Dante.Il commentario che qui si propone - acura di Luca Marcozzi - è a corredodella riproduzione in facsimiledell’opera e illustra dettagliatamentetutte le figure dipinte sui margini dellaCommedia (quasi quattrocento, cui siaggiungono centinaia di decorazioni

minori e motivifloreali).Arricchiscono ilcommentarioun’approfonditaintroduzioneall’opera eall’autore e

LO SCAFFALEPubblicazioni di pregio più o meno recenti,fra libri e tomi di piccoli e grandi editori

alcune tavole di confronto cheillustrano il rapporto delle figure delGrifo con l’arte della propria epoca econ la tradizione iconografica dellaCommedia.

“Il cibo negli ex libris”, a c. di Gianfranco Schialvino,Milano, Biblioteca NazionaleBraidense, 2015, pp. 96, 10 euro

Il raffinato volumetto Il cibo negliex libris (tirato in 500 esemplari) è il

catalogodell’omonimamostra tenutasinei prestigiosispazi dellaBibliotecaBraidense diMilano, dal 20aprile al 17maggio 2015, inconcomitanza

con l’Esposizione Universale. Sfogliare quest’opera, curata con la

consueta perizia da GianfrancoSchialvino, è un’occasione per un brevema gratificante viaggio nell’universodegli ex libris (in questo caso aventicome soggetto principale il cibo, temadi Expo Milano) che ormai da tempo«non sono più solo un marchio diproprietà apposto da un bibliofilo suivolumi della propria biblioteca maartistica forma di espressionepersonale, specchio del gusto e dellacultura del proprietario».

56 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2016

Paolo Grillo, “L’aquila e il giglio.1266: la battaglia di Benevento”,Roma, Salerno Editrice, 2015, pp. 136, 12 euro

La battaglia di Benevento del1266 è comunemente presentatacome una sorta di malvagio scherzodel destino ai danni di Manfredi, ilfiglio dell’imperatore Federico II, chevenne sconfitto dalle forze di Carlo

d’Angiò, cheriuscì in talmodo aimpadronirsidel Regno diSicilia. Apartire dallanarrazione‘guelfa’ degli

eventi, che spiegava la clamorosaquanto imprevista vittoria di Carlocon la sacralità della sua missione,voluta dal papa e benedetta da Dio,ha replicato una versione ‘ghibellina’,appoggiata dall’autorità dantesca, conl’immagine del Manfredi «biondo,bello e di gentile aspetto».

Si tratta però di un’immaginedeformata che quest’opera di PaoloGrillo (professore di Storia medievalepresso l’università di Milano) voglionocorreggere, restituendo tutta lacomplessità di una vicendaimpossibile da ridurre alle letturenazionaliste/ regionaliste oclericali/anticlericali del secolopassato.

“Comedia di Dante con figuredipinte”, a c. Luca Marcozzi, Roma, Salerno Editrice, 2015,pp. 132, 60 euro

L’esemplare della Commedia con ilcommento di Cristoforo Landino,pubblicato a Venezia da Pietro Piasi nel1491 e conservato presso la Casa diDante in Roma, presenta a corredo deltesto un ricco apparato di postille e difigure dipinte che illustrano i passaggisalienti del poema di Dante. Il fittomistero che ha a lungo circondato illoro autore solo in anni recenti si èdissolto per far emergere la figura diAntonio Grifo, poeta e cortigianoveneziano vissuto negli ultimi anni delQuattrocento a Milano, nell’ambienteraffinato della corte di Ludovico ilMoro. Grifo è ricordato per l’amiciziacon Leonardo e per la sua attività dipoeta lirico e commentatore di Dante.Il commentario che qui si propone - acura di Luca Marcozzi - è a corredodella riproduzione in facsimiledell’opera e illustra dettagliatamentetutte le figure dipinte sui margini dellaCommedia (quasi quattrocento, cui siaggiungono centinaia di decorazioni

minori e motivifloreali).Arricchiscono ilcommentarioun’approfonditaintroduzioneall’opera eall’autore e

LO SCAFFALEPubblicazioni di pregio più o meno recenti,fra libri e tomi di piccoli e grandi editori

alcune tavole di confronto cheillustrano il rapporto delle figure delGrifo con l’arte della propria epoca econ la tradizione iconografica dellaCommedia.

“Il cibo negli ex libris”,a c. di Gianfranco Schialvino,Milano, Biblioteca NazionaleBraidense, 2015, pp. 96, 10 euro

Il raffinato volumetto Il cibo negliex libris (tirato in 500 esemplari) è il

catalogodell’omonimamostra tenutasinei prestigiosispazi dellaBibliotecaBraidense diMilano, dal 20aprile al 17maggio 2015, inconcomitanza

con l’Esposizione Universale. Sfogliare quest’opera, curata con la

consueta perizia da GianfrancoSchialvino, è un’occasione per un brevema gratificante viaggio nell’universodegli ex libris (in questo caso aventicome soggetto principale il cibo, temadi Expo Milano) che ormai da tempo«non sono più solo un marchio diproprietà apposto da un bibliofilo suivolumi della propria biblioteca maartistica forma di espressionepersonale, specchio del gusto e dellacultura del proprietario».

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59gennaio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano

gante protagonista quando sitratterà per lui di ‘trafficare’ conquelli per i libri di Andrea Ca-milleri.5 E proprio il concetto di‘soglia’, nel saggio di Genette,verrà riutilizzato da Nigro, nel-la recensione a Calasso, quandoscrive: «Il riuso narrativo di unavecchia recensione finì per sov-vertire, in questo modo, i tradi-zionali confini del libro, le suefrontiere. Sottrasse la copertinaalla sua funzione di ‘soglia’. Laportò ‘dentro la narrazione’. Nefece l’immagine conclusiva,nella quale venivano a risolversile direzioni tematiche del tessu-to narrativo».6

Portare dentro la narrazio-ne la copertina è forse il sognodi ogni grafico; e in fondo que-sta emancipazione porta la co-pertina a ‘rendere libero’ il li-bro.7

Ma da dove parte Nigro,chi convoca in quella recensio-ne? Ai primi di luglio del ’35l’editore Bemporad di Firenzepubblicava America primo amoredi Mario Soldati, dopo che lo

Editoria

re’ critiche. E tutto ciò recen-sendo un libro di Roberto Ca-lasso che conteneva una sceltadei suoi risvolti di copertina peraltrettanti volumi Adelphi.3

Siamo quindi, seguendo la le-zione di Genette,4 nel più puroparatestuale: sopraccoperta, co-pertina, risvolto.

Quel risvolto di copertinadi cui lo stesso Nigro sarà ele-

Una raffinata sopraccopertada recensire

Gli 80 anni di America primo amore di Mario Soldati

Solo la raffinata lettura cri-tica di Salvatore SilvanoNigro poteva rimettere in

gioco a distanza di tanti anni, fa-cendole interagire in un mecca-nismo finissimo e perfetto, l’ar-te di Carlo Levi, la scrittura diMario Soldati e la critica di Ma-rio Praz. Tutti convocati intor-no alla domanda, insieme sibil-lina ed elegante, se sia «lecitorecensire una copertina».1 ENigro precisava: «O meglio:maneggiare l’immagine dellacopertina di un libro, comechiave di lettura del libro stes-so?».2 E convocando il grandeanglista, Nigro esplicitamenteaffermava la necessità di guar-dare meglio e più in profonditàad aspetti del paratestuale chegiustamente potevano nascon-dere inedite e suggestive ‘lettu-

MASSIMO GATTA

Nella pagina accanto: America primo

amore, sovraccoperta originale di

Carlo Levi, Firenze, Bemporad, 1935.

Qui sopra: America primo amore,

copertina di Carlo Levi, Milano,

Oscar Mondadori, 1976

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60 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2016

scrittore torinese aveva vana-mente atteso da Bompiani unarisposta per la pubblicazione:«Bene, Bompiani mi ha fattoaspettare un mese e poi lo ha ri-fiutato. Tra le ragioni non dettec’erano naturalmente motivipolitici. In un capitolo parlavoapertamente del mio filosemiti-smo»;8 del resto Bompiani nonera nuovo a queste censure o au-tocensure editoriali per motivipolitici, ricordiamo nel 1941 ilcaso della ristampa de La Ma-scherata di Moravia.9

�L’edizione originale edita

da Bemporad10 è rivestita da unasplendida sopraccoperta11 inrosso e azzurro, opera di CarloLevi, realizzata in un pomerig-gio del maggio del ’35 (o del’34?12): «una diavolessa distesa icui contorni ripetono quelli de-gli Stati Uniti, contorni ripresi

NOTE1 Per l’esattezza si tratta della sopracco-

perta, e non della copertina, della prima edi-

zione di America primo amore di Mario Sol-

dati (Firenze, Bemporad, 1935), una brossu-

ra riquadrata con fregio, cfr. Lucio Gambet-

ti, Franco Vezzosi, Rarità bibliografiche delNovecento italiano. Repertorio delle edizio-ni originali, Milano, Sylvestre Bonnard,

2007, p. 880. Da notare, inoltre, che sia Sol-

dati che Levi utilizzeranno nei loro scritti

(vedi oltre) il termine “copertina”. Cfr. anche

l’ottimo saggio di Ilaria Crotti, che qui molto

opportunamente recupera il termine “so-

vraccoperta”, Carlo Levi interprete di Solda-ti: appunti per una sovraccoperta, in Mar-

cello Ciccuto, Alexandra Zincone (a cura di),

I segni incrociati. Letteratura italiana del

‘900 e arte figurativa, Viareggio, M. Baroni,

1998, v. 1, pp. 685-698; più in generale vedi

sul tema Giovanna Zaganelli, Letteratura incopertina. Collane di narrativa in bibliotecatra il 1950 e il 1980, Bologna, Lupetti, 2013 e

Storie in copertina. Protagonisti e progettidella grafica editoriale. Con bozzetti e illu-strazioni, presentazione di Ambrogio Bor-

sani, Pavia, Edizioni Santa Caterina, 2014

A sinistra: Mario Soldati in un

disegno di Fulvio Bianconi, 1959.

A destra: Mario Soldati (1906-1999)

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61gennaio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano

più sopra dove la diavolessa siconfonde in una selva di gratta-cieli. «Era bellissima», dice Sol-dati a Lajolo.

Quasi vent’anni dopo il ce-lebre artista e scrittore torinesericorderà l’episodio ne La coper-tina dell’America.13

Intanto quella copertina diLevi non sfuggì all’occhio assolutodi Praz che, nella recensione14

che farà al romanzo di Soldati,coglierà in essa (ignorandoneperò, o dovendone ignorare, ilnome dell’autore, come ricor-dava Soldati nel ’76) suggestionimiltoniane («fosforeggiante diriferimenti miltoniani», precisaNigro15).

E lo scrittore torinese se nericorderà al punto di giovarsene,‘ritagliando’ un tassello della re-censione e inserendolo in Storiadi una copertina (scritto a Tellaroil 4 gennaio del ’7616), aggiun-gendolo alla fine della ristampanegli Oscar Mondadori del ’7617

dove, in omaggio a Levi a un an-no dalla morte, la Mondadoriutilizzò proprio l’illustrazionedella sopraccoperta originale

[Quaderni del Master di editoria, 7].2 Salvatore Silvano Nigro, Il mondo in

un risvolto, «Il Sole 24 Ore-Domenica», 12

ottobre 2003.3 Roberto Calasso, Cento lettere a uno

sconosciuto, Milano, Adelphi, 2003.4 Cfr. Gérard Genette, Soglie. I dintorni

del testo, a cura di Camilla Maria Cederna,

Torino, Einaudi, 1989.

5 Rimando quindi al raro L’arte del ri-svolto. Dieci note di Salvatore Silvano Nigroper dieci libri di Andrea Camilleri, con testi di

Andrea Camilleri (Il risvolto dei risvolti, pp.

5-8) e Salvatore Settis (Alette, pp. 9-12), Pa-

lermo, Sellerio editore [ma Officine Grafi-

che Riunite di Palermo], dicembre 2007,

edizione f. c. per gli amici della Sellerio,

stampata in 300 copie numerate a mano in

numeri arabi, più 20 in numeri romani, con-

tenenti ciascuna un’acquaforte originale di

Edo Janich, numerata e firmata dall’artista,

tirata al torchio su carta Hahnemühle e su

carta Cina, dalla Stamperia Calcografica di

Venezia. Vedi anche Italo Calvino, Il libro deirisvolti, a cura, e con una Nota (p. V) di Chia-

ra Ferrero, Torino, Giulio Einaudi Editore,

novembre 2003, edizione f. c. stampata in

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del ’35.18

Era questo il «riuso narra-tivo di una vecchia recensione»di cui scriveva Nigro. Il ricordoche ne fece Soldati («dramma-

62 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2016

1000 copie numerate a macchina ed Elio

Vittorini, I risvolti dei Gettoni, a cura di Ce-

sare De Michelis, Milano, Libri Scheiwiller,

1988. 6 Salvatore Silvano Nigro, Il mondo in

un risvolto, cit., corsivo mio.7 Cfr. Jhumpa Lahiri, La copertina non fa

il libro, lo rende libero, «la Repubblica», lune-

dì, 8 giugno 2015, pp. 32-33. Sul binomio li-

bro/libertà rimando scontato è a Luciano

Canfora, Libro e libertà, Roma-Bari, Laterza,

1994, seconda ediz. ivi, 2005.8 Davide Lajolo, Conversazione in una

stanza chiusa con Mario Soldati, Milano,

Frassinelli, 1983, p. 48; la citazione è ora in

Salvatore Silvano Nigro, Viaggio nella“stanza chiusa” della scrittura di “Americaprimo amore”, in Mario Soldati, America

primo amore, a cura di Salvatore Silvano Ni-

gro, Palermo, Sellerio, 2003 [La memoria,

569], pp. 299-300 [versione che riprende,

correggendone gli errori, quella mondado-

riana del ’76, ristampata nel ’90 con l’ag-

giunta di una ulteriore nota introduttiva,

oltre quella di Raboni, firmata da Laura Ba-

rile]. L’edizione Sellerio contiene la riprodu-

zione fuori testo della sovraccoperta di Levi

Sopra da sinistra: copertina dell’edizione Sellerio, 2003, nuova ediz. 2014;

copertina dell’edizione originale Bemporad, 1935.

Nella pagina accanto da sinistra: Mario Soldati, Il profumo del sigaro toscano,

Bologna, Ogni uomo è tutti gli uomini Edizioni, 2010; Album di Mario Soldati,

Palermo, Sellerio, 2006, ediz. non venale in 1500 copie

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63

tizzazione teatrale», seguendoNigro), pur nella concisione, èdi estrema eleganza narrativa e,nell’immagine della polizia po-litica fascista recatasi a casa di

Levi per arrestarlo,19 si intrave-dono in filigrana gli stessi echiesiziali e dolorosi della ‘visita’compiuta dall’Ovra nell’abita-zione di Edoardo Persico, la sera

di quel tragico 10 gennaio del’36 (ci muoviamo negli stessi an-ni del libro di Soldati), così co-me Camilleri è riuscito quasirabdomanticamente a immagi-

gennaio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano

del ’35 e, in copertina, il ritratto di Soldati di-

pinto da Levi; l’edizione è stata ristampata

nel 2014.9 Vicenda per la quale rimando a Giorgio

Fabre, Sul caso Moravia, «Quaderni di sto-

ria», n. 42, luglio-dicembre 1995, pp. 181-

196, e Idem, L’elenco. Censura fascista, edi-toria e autori ebrei, Torino, Zamorani, 1998,

p. 399 sgg. Utile sul tema è anche il saggio di

Alessandra Grandelis, Alberto Moravia eValentino Bompiani: una storia attraverso ilcarteggio, «Studi Novecenteschi», XLI, n. 88,

luglio-dicembre 2014, pp. 499-529.10 Per le prime edizioni di Soldati riman-

do a Roberto Cicala, Su alcune prime edizio-ni di Mario Soldati. Appunti di storia edito-riale (con riproduzioni), in Mario Soldati traluoghi e memoria. Inediti, testimonianze,

studi e immagini, «Microprovincia», n. 51-

52, Novara, Interlinea, 2013-2014.11 Qui Nigro utilizza, in rapida succes-

sione, sia il termine “copertina” che il cor-

retto “sopraccoperta”, cfr. Salvatore Silvano

Nigro, Viaggio nella “stanza chiusa” dellascrittura di “America primo amore”, cit., p.

301.12 Sulla possibile retrodatazione di un

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narla, descrivendola dettagliata-mente nel suo libro.20

Levi riuscirà a completareil disegno, con le scritte in rossodel titolo del libro e dei nomidell’autore e dell’editore Bem-porad, prima di essere arrestato.Sarà questo il suo ultimo atto ar-tistico prima del carcere: «Carloaveva già intinto nel rosso ilpennello: ma lo posò e si mise,

invece, a sfogliare, a osservareuno dopo l’altro quegli abbozziche aveva fatto il giorno primaper prova della scritta: scelse idue o tre migliori, li mise benein vista su un altro cavalletto.Adesso non c’era più tempo persbagliare e rifare. La perfezioneera senz’altro necessaria. Lascritta doveva essere definitiva.Carlo alzò il braccio, socchiusegli occhi, e cominciò, tranquillo,come scivolando e accarezzan-do, a tracciare il mio nome».21

64 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2016

anno cfr. Salvatore Silvano Nigro, Viaggionella “stanza chiusa” della scrittura di“America primo amore”, p. 302.

13 Ne «La Fiera Letteraria» di Umberto

Fracchia, 29 novembre 1954, ora in Mario

Soldati, America primo amore, cit., pp. 293-

295; cfr. Salvatore Silvano Nigro, Viaggionella “stanza chiusa” della scrittura di“America primo amore”, cit., p. 301, ma il cri-

tico indica anche la data “28 novembre

1954”, ibidem, p. 322.14 Mario Praz, rec. a America primo

amore, «La Stampa», 13 luglio 1935; ristam-

pato in Idem, Cronache letterarie anglosas-soni, v. II, Cronache inglesi e americane, Ro-

ma, Edizioni di Storia e letteratura, 1951, pp.

276-279.15 Salvatore Silvano Nigro, Il mondo in

un risvolto, cit., identica formula utilizzata

in Idem, Viaggio nella “stanza chiusa” dellascrittura di “America primo amore”, cit., p.

304. Ma il grande critico virerà, più corret-

tamente, in ambito dantesco e petrarche-

sco quella prima suggestione praziana: “La

fantasia mitologica della copertina stringe

il libro sugli avvisatori danteschi (e non mil-

toniani, come pretende una recensione di

Praz) della prosa di Soldati”, Salvatore Sil-

vano Nigro, Addio…diletta America, in Ma-

rio Soldati, America primo amore, cit., p. 13;

“America primo amore espone calchi dan-

teschi e petrarcheschi. Li esibisce, trepidi. E

li fa risuonare negli aloni dell’allusività let-

teraria”, Idem, Viaggio nella “stanza chiusa”della scrittura di “America primo amore”,cit., p. 319.

16 Una prima redazione dello scritto, col

titolo Il diavolo nella mansarda, era stata

pubblicata sulla rivista «Galleria», XVII, n. 3-6,

maggio-dicembre 1967, pp. 277-282, nu-

mero monografico su Carlo Levi, a cura di Al-

do Marcovecchio, cfr. Salvatore Silvano Ni-

gro, Viaggio nella “stanza chiusa” della scrit-tura di “America primo amore”, cit., p. 302.

17 Numero 650 della Collana. In prece-

denza il libro era stato ristampato a Roma

da Einaudi nel ’45 [Saggi, 66], in una “nuova

edizione aumentata”, da Garzanti nel ’56

[Saggi], edizione nuovamente rivista: “[…]

L’edizione Garzanti ricontrolla grafie e pro-

nunce […]”, Salvatore Silvano Nigro, Viag-gio nella “stanza chiusa” della scrittura di

“America primo amore”, cit., p. 319; e infine,

con ulteriore “manutenzione”, da Monda-

dori nel ’59, ’61 e ’67 [Narratori italiani, 61] e

infine dalle edizioni Emme, nel ’75 [I pome-

riggi, 10].18 Storia di una copertina di Soldati è

ora ristampata in Idem, America primoamore, cit., pp. 271-280. La ristampa mon-

dadoriana del ’76 aveva una introduzione di

Giovanni Raboni.19 “[…] Verso le otto avevano finito. Dis-

sero a Carlo di prendere un po’ di bianche-

ria: segno che lo arrestavano. Subito, intan-

to, lo avrebbero portato allo studio di piazza

Vittorio: la perquisizione doveva continua-

re là. Con loro andai anch’io. Ci andavo a …

prendere la mia copertina. Ma come avrei

fatto per la scritta, che ancora mancava, e

Carlo certamente non avrebbe potuto ese-

guirla lì per lì, in presenza di poliziotti, prima

di essere condotto in prigione?”, Mario Sol-

dati, Storia di una copertina, cit., p. 276.20 Andrea Camilleri, Dentro il labirinto,

Milano, Skira, 2012.21 Mario Soldati, Storia di una coperti-

na, cit., pp. 277-278.

Carlo Levi (1902-1975)

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66 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2016

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67gennaio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano

In Appendice - Feuilleton

L.E.X. Le biblioteche profonde

IV capitoloERRICO PASSARO

RIASSUNTO DELLEPUNTATE PRECEDENTI“Lupo” è il guardiano di unabiblioteca clandestina nel Deep Web. Ha paura. Contatta Victor Stasi, agente diLEX, la branca dei servizi segretiitaliani di cui è informatore. Stasi scende nel Web profondo per incontrarlo, ma “Lupo” non risponde: è finito nelle manidel misterioso Abel Kane.

V ictor Stasi contro AbelKane. Una leggendanera dei Servizi del

suo Paese. Un cacciatore impla-cabile. Una garanzia nell’acqui-sire tutte le copie in circolazio-ne di libri scomodi per far spari-re la verità. Uno specialista nel“ritirare” dalla circolazione inemici dello Stato.

Stasi aveva bisogno di par-

lare con il generale Bonera. Ilsuo capo. Il capo di L.E.X.

Fu ricevuto subito, nono-stante il minimo preavviso.Non era da lui.

Le pareti bianche del suoufficio di Forte Braschi esalta-vano la luce, che sembrava scor-rere lungo le superfici. Un bra-no di musica classica - la Sinfo-nia n. 1 in mi minore di Sibelius,se Stasi non errava - si diffonde-va nell’aria.

Bonera l’attendeva in piedidi fronte alla finestra panorami-ca, le mani intrecciate dietro la

A sinistra: il generale Bonera

(illustrazione di Anna Emilia Falcone,

espressamente realizzata per

«la Biblioteca di via Senato»)

schiena. Si intuiva che, sottol’uniforme perfettamente stira-ta, l’uomo era fatto di materialesolido: muscoli in rilievo comeil plastico di una catena mon-tuosa; tendini elastici; veneemergenti. I capelli scolpiti almillimetro dicevano di lui più dimille curricula.

Bonera guardava il pano-rama cittadino con un sorrisoassente sulle labbra.

Senza voltarsi, fece cennoall’ospite di sedersi. Stasi si tra-sportò su una poltrona e rimasein attesa.

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So tutto - disse, prima an-cora Stasi parlasse.

Il generale usava semprepoche parole per esprimersi. Ilsuo roccioso riserbo era prover-biale, né si curava di piacere aipropri sottoposti.

Abel Kane è una superspia,ma si pensava ritirato a vita pri-

vata - si spiegò il superiore. -Sembrava sparito dalla facciadella terra, visto che aveva unalista di precedenti penali lungaun chilometro ed era inseguitoda vari ordini di cattura interna-zionali. Era stato anche presodalla CIA, ma poi è stato rila-sciato dietro intervento di un

non meglio precisato governooccidentale.

- Un vero angioletto - dis-se, ironico, Stasi.

Di fronte alla solita irrive-renza di Stasi, Bonera lasciò cor-rere. Si voltò e lo fronteggiò, in-combendo su di lui.

- Ora, si da il caso che siariapparso da un momento all’al-tro. Si avvale di elementi incen-surati per svolgere incarichi mi-nori, ma agisce in prima personaquando ritiene sia il caso. Comecon “Lupo”

- Perché non ne so nulla?Ottenne in risposta uno

sguardo di traverso. Bonera eraancora in collera con Stasi peruna precedente insubordinazio-ne... l’ultima di tante, in verità.

Non era il caso di prenderequell’informazione per oro co-lato, prima delle opportune ve-rifiche. Non è la prima volta cheinfo fantasiose e ritenute veritie-re si rivelano una bufala.

Lo spionaggio era l’arte ditrarre in inganno usando pezzidi verità.

Ma le sorprese non eranofinite.

- Qui c’è lo zampino dellaLoggia - lo pietrificò Bonera.

La Loggia. Il Sistema deisistemi. Un organismo crimina-le con ramificazioni ovunque.Un nemico invisibile i cui piani

68 la Biblioteca di via Senato Milano – gennaio 2016

Victor Stasi (illustrazione di Anna

Emilia Falcone espressamente realiz-

zata per «la Biblioteca di via Senato»)

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69gennaio 2016 – la Biblioteca di via Senato Milano

LEX aveva intralciato più di unavolta.

- Non dirà sul serio? - tra-secolò Stasi. - Non ha senso -,ma subito si morse la lingua:erano quei modi irriguardosiche lo facevano bacchettare dalcapo un giorno sì e l’altro pure.

- Solo loro potevano per-mettersi di rimettere Kane incarreggiata - rifletté ad alta voceBonera, guardandolo di sbieco.Tornò ad affacciarsi alla finestrapanoramica.

La pratica Loggia era unavicenda contorta che durava damolti anni. Se “Lupo” era finitonel loro mirino...

- Ho cercato il mio infor-matore nelle biblioteche clan-destine del Web - non s’impedìdi dire. - Purtroppo…

Bonera non lo lasciò finire.- Lo so. Ma Kane ha eletto

il suo rifugio in una bibliotecareale, la Nazionale Greca diAtene. È lì che andrà.

Stasi provò a interloquire,ma Bonera, sempre con le spalleal suo ospite, gli fece segno di ta-cere.

- Non col suo nome. Ope-rerà in supernero. Si spacceràper il professor Elio Valeri, unconsulente legale in materia ditutela della proprietà intellet-tuale.

Non era la prima volta cheStasi si spogliava della sua iden-tità di ufficiale per assumerequella di un altro soggetto.

- Il suo nome in codice sarà

“Manuzio”. - Appoggi?- Nessun nome, nessuna

domanda. Saprà in loco chi è ilsuo contatto.

- Questo è lo schema - pro-grammò Bonera. - Dovrà appu-rare se “Lupo” è ancora vivo esalvarlo. Se, come temo, Kane

ha strappato al Nostro le infor-mazioni che gli servivano e si èdisfatto del suo corpo, dovrà ac-quisire le prove del fatto e cattu-rare Kane. Vivo o morto.

- Il problema non sussiste.Io finisco quello che inizio. Enon mi fermerò fino a quandonon avrò preso Kane.

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Nella capanna, giusto sottol’argine, davanti al cana-le, vive la famiglia Sonci-

ni. Da sempre sono lì, abitanti diquella terra piatta e allucinata, cheallunga fra Ferrara e Rovigo, nelcomplesso mondo del delta pada-no. Una terra che appare fra abba-cinati riflessi solatii e sfuma nellanebbia che sale dall’acqua: universometafisico di storie circolari, che ri-voluzionano nell’eterno delle sta-gioni, sempre uguali eppure sem-pre diverse.

Dei Soncini è quella capannabianca, con rigoglioso pergolato,come degli Scacerni sono i gloriosie vetusti San Michele e Paneperso,le due «macine natanti» proprietàdei protagonisti del monumentaleIl mulino del Po (romanzo che la Bi-blioteca di via Senato possiede nellaprima edizione, stampata a Milano,da Mondadori, nel 1957) di Riccar-do Bacchelli.

«Nella vastità molle e potentedel fiume serpeggiante, qua un go-mito, là un ciglio d’argine, altroveun lembo di golena boscosa» le vi-cende si intrecciano. Fatti di vita. Edi cucina. Nella bianca capanna,come sui mulino del Po, batte ungrande cuore. Maria Grazia e Pier-luigi Soncini, insieme a mammaWanda (moglie del compianto Era-

fiume. Lo sanno bene i Soncini chedi questo piatto senza fine cono-scono ogni scorcio. Mentre MariaGrazia e mamma Wanda scrutanola linea dell’orizzonte dalle ampiefinestre della cucina, Pierluigi po-trà far arrivare in tavola, dalla can-tina, tante bottiglie di pregio. Co-me una grande bollicina italiana,dalla Franciacorta. Oppure unodei vini meno conosciuti che si pos-sano incontrare nell’italico mondoenologico: il locale Fortana del Bo-sco Eliceo. Vino mosso, ricco diacidità e scarso di tannino, il Forta-na del Bosco Eliceo ha una partico-larità unica: è allevato senza por-tainnesto. La fillossera, che stragefece in tutta Europa agli inizi delNovecento, non riuscì mai a intac-care l’apparato radicale di questeviti che affondano nelle sabbie.

Intanto, fra luci diafane, riflessiequorei e vapori di nebbia, intornoalla capanna, i contadini con gestiarcani continuano a sarchiare, qua-si ricamando, i campi marroni.Non c’è fretta, in questo universometafisico di storie circolari. San-no bene come l’agricoltura null’al-tro sia che «l’arte di saper aspetta-re». Come ugualmente sanno iSoncini: non ci sono segreti in cu-cina, ma gesti sapienti e la pazienzadel tempo debito.

BvS: il ristoro del buon lettore

clio), tutti i giorni raccontano ilpassato di queste lande salmastre.Qui, non solo «il pane è la vita degliItaliani». Tante altre succulentipietanze prendono forma, rega-lando soddisfazioni e gioie: comel’anguilla ‘arost in umad’ (steccatacon aglio e rosmarino) accompa-gnata da calda e soffice polentabianca o la granceola con maioneseespressa. Ma anche ‘i sapori di unapasseggiata nel delta del Po’ (piattocomplesso che raccoglie molechefritte, gamberettini di laguna al va-pore e cefalo alla brace) o, in sta-gione di caccia, la magistrale perni-ce rossa con fegato grasso e spu-gnole.

«Dove men si pensa rompe ilPo», ammonisce Lazzaro Scarcer-ni, contemplando il corso del vasto

GIANLUCA MONTINARO

Ristorante La Capanna di EraclioVia per le Venezie, 21Codigoro (Fe)Tel. 0533/712154

Una antica casa di pianurasull’argine del fiume

‘La Capanna di Eraclio’ e i mulini di Bacchelli

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VITALDO CONTEVitaldo Conte è

docente di Storia del-l’Arte Contemporaneaall’Accademia di BelleArti di Roma.

Fra i suoi libri:l’antologia Nuovi Se-gnali (1983), Disper-sione (2000), Anomaliee Malie come Arte(2006), SottoMissioned’Amore (2007), Pul-sional Gender Art(2011).

Fra le mostre cu-rate: Anteprima XIVQuadriennale, JuliusEvola, Mistiche bian-che, DonnaArte, ErosParola d’Arte. Poeta (li-neare, verbo-visuale),artista e performer concentinaia di pubblica-zioni, eventi, mostre inItalia e all’estero.

GIANFRANCO DE TURRIS

Ha lavorato in Raidal 1983 al 2009, comevice-caporedattore deiservizi culturali delGiornale Radio. Haideato e condotto latrasmissione di appro-fondimento culturaleL'Argonauta, con cuiha vinto nel 2004 ilPremio Saint-Vincentdi giornalismo. Si oc-cupa di politica cultu-rale da un lato e di let-teratura dell'Immagi-nario dall'altro, scri-vendo di questi argo-menti su quotidiani,settimanali e mensili,nonché su enciclope-die e dizionari, dirigen-do riviste e collane, cu-rando l' edizione e l'in-troduzione di centina-ia fra romanzi e saggi,e pubblicando unaquindicina di libri. È di-rettore responsabiledella rivista «Antares».

DARIO EVOLA Insegna Estetica

all’Accademia di BelleArti di Roma.

Laureato al DAMSdi Bologna, ha conse-guito il Dottorato allaSapienza di Roma, do-ve ha insegnato Storiadell’Arte.

È membro del co-mitato scientifico delMuseo Laboratorio diArte ContemporaneaUniversità La SapienzaRoma e del Consigliodi Presidenza della So-cietà Italiana di Esteti-ca. Ha collaborato aiservizi culturali dellaRAI e di numerosi pe-riodici e quotidiani.

Autore di saggisull’estetica, il teatro,le arti visive, il cinema.

MARCO FIORAMANTI

È nato a Roma, nel1954. Pittore e perfor-mer, con soggiorni al-l’estero e ricerche sulcampo in Cina, Tibet,Marocco e sullo scia-manismo in Nepal.

Dall’82 sperimen-ta materiali differentisul recupero dei segni,comportamenti e ritid’iniziazione delle cul-ture ancestrali. Pubbli-cistica (edizioni cono-scenza): AA.VV., Comescrivere un testo(2012); Conversazionicon l’arte contempo-ranea I (2013), II(2015), in e-book.

Svolge l’attività diredattore (settore cul-tura). Nel 2007 crea edirige la rivista NightItalia.

MASSIMO GATTAMassimo Gatta

(1959) ricopre l’incari-co, dal 2001, di biblio-tecario presso la Bi-blioteca d’Ateneodell’Università degliStudi del Molise doveha organizzato diversemostre bibliografichededicate a editori, edi-toria aziendale easpetti paratestuali dellibro (ex libris).

Collabora alla pa-gina domenicale de «IlSole 24 Ore» e al perio-dico «Charta».

È direttore edito-riale della casa editriceBiblohaus di Macerataspecializzata in biblio-grafia, bibliofilia e “librisui libri” (books aboutbooks), e fa parte delcomitato direttivo delperiodico «Cantieri».

Numerose sono lesue pubblicazioni e isuoi articoli.

MICHELE OLZIMichele Olzi

(1987) si laurea inScienze Filosofichepresso l'Università de-gli Studi di Milano.

È membro dellaSocietà Italiana Storiadelle Religioni (SISR) edella European Societyfor the Study of We-stern Esotericism (ES-SWE).

Collabora con larivista «Conoscenza».

È intervenuto aconvegni internazio-nali organizzati dal CE-SNUR e dalla ESSWE.

Ha collaboratocon Hans Thomas Haklalla pubblicazione: Sa-tanism: A Reader, (Ox-ford, Oxford UniversityPress, 2016).

ERRICO PASSAROErrico Passaro

(1966) è ufficiale del-l’Aeronautica Militareesperto in materie giu-ridiche.

Giornalista escrittore, ha pubblica-to oltre millesettecen-to articoli, dieci ro-manzi, centoventi rac -conti, fra cui il “triple-te” per le collane daedicola Mondadori: labianca (Zodiac, Uranian. 1557; La Guerra del-le Maschere, Mille-mondi Urania n. 58), lagialla (Necropolis, Su-pergiallo n. 39), la nera(L.E.X. - Law Enforce-ment X, Segretissimo,n. 1591; L.E.X. - Opera-zione Spider, Segretis-simo n. 1610; L.E.X. -Inverno arabo, Segre-tissimo n. 1611).

GIOVANNI SESSAGiovanni Sessa

(1957), è docente di fi-losofia e storia nei licei,già assistente presso lacattedra di Filosofiapolitica della facoltà diScienze Politiche dellaSapienza di Roma e giàdocente a contratto diStoria delle idee pressol’Università di Cassino.

Numerosi sono isuoi scritti, alcuni deiquali apparsi sulle rivi-ste «Letteratura-Tradi-zione»; «Palomar» e «ilBorghese».

Fra i suoi volumi siricordano: Trascen-denza e gnosticismo inE. Voegelin, Caratterignostici della modernapolitica economica esociale; Il maestro del-la Tradizione. Dialoghisu Julius Evola.

LUIGI SGROILuigi Sgroi (Mila-

no, 1961) lavora in am-bito artistico, interes-sandosi alle “vie delcorpo”. Spazia dal tea-tro d’avanguardia, almimo classico, al bud-dhismo zen e, dal1990, alle varie formedello yoga.

CARMELO STRANOFilosofo, critico

arti visive e letterarie.Riconoscimenti nelmondo.

Tra le sue teorie:l’Estetica del quotidia-no, la Nuova Classicità,la Docile Razionalità, laN o n - I m p l o s i v i t à ,l’Opera Ellittica, la De-vianza linguistica.

Ordinario di Este-tica (per chiara famaUniversità di Catania).

Dagli anni ‘80 in-daga la nostra epocacon attenzione allemarginalità.

Curatore di mo-stre internazionali.

Autore di svariatilibri; innumerevolisag gi, articoli: riviste,Corriere della Sera, LaRepubblica, Il Sole 24Ore.

LUCA PIETRO NICOLETTI

Luca Pietro Nico-letti, storico dell’arte,si interessa di arte ecritica del SecondoNovecento in Italia e inFrancia.

Ha pubblicato:Gualtieri di San Lazza-ro. Scritti e incontri diun editore italiano aParigi (Macerata 2013).

GIANLUCA MONTINARO

Gianluca Monti-naro (Milano, 1979) èdocente a contrattopresso l’universitàIULM di Milano. Storicodelle idee, si interessa airapporti fra pensieropolitico e utopia legatialla nascita del mondomoderno. Collabora allepagine culturali delquotidiano «il Giorna-le». Fra le sue monogra-fie si ricordano: Letteredi Guidobaldo II dellaRovere (2000); Il car-teggio di Guidobaldo IIdella Rovere e Fabio Ba-rignani (2006); L’epi-stolario di LudovicoAgostini (2006); Fra Ur-bino e Firenze: politica ediplomazia nel tramon-to dei della Rovere(2009); Ludovico Ago-stini, lettere inedite(2012); Martin Lutero(2013); L’utopia di Poli-filo (2015).

H A N N O C O L L A B O R ATO A Q U E S TO N U M E R O� �

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La qualità delle migliori nocciole e il cacao più buono danno vita ad una consistenza

e ad un bouquet di sapori inimitabile.

Ferrero Rocher è quel dolce invito che ti regala un momento prezioso,

perfetto da condividere

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