Post on 02-May-2015
INTELLETTUALI E CITTA’
LA CITTA’ HA BISOGNO DI CULTURA
A partire dall’anno Mille nell’Italia centro-settentrionale si assiste
alla formazione dei comuni, ovvero città-stato autonome sul
piano politico ed economico, che si distaccano dal potere
dell’Impero tedesco, ma sono molte volte in lotta tra di loro. Tale
esigenza di autonomia era dovuta alla ripresa economica che
aveva comportato la nascita di una nuova classe sociale, la
borghesia. Quest’ultima ambiva al potere politico all’interno del
comune e ciò faceva nascere un bisogno crescente di cultura,
sia per le esigenze pratiche di questa classe sociale (conoscere
le leggi, saper leggere e far di conto…), sia per l’egemonia
politica cui essa aspirava, in quanto era necessario saper gestire
l’uso della parola per affermare le proprie idee e difendere i
propri diritti.
IMPORTANZA E RUOLO DELL’INTELLETTUALE NEL COMUNE
È all’interno di questo scenario politico che si afferma la figura
dell’intellettuale-cittadino. Egli partecipa alla vita politica, vive
con passione le tensioni e i conflitti all’interno della sua città e
nello stesso tempo ha bisogno di affermarsi e di distinguersi
dalle masse proprio grazie al suo sapere: inserisce se stesso
all’interno di una élite di persone colte, che danno lustro al
comune, il quale, a sua volta, ad esse fa riferimento per compiti
amministrativi e politici.
IMPORTANZA E RUOLO DELL’INTELLETTUALE NEL COMUNE
L’intellettuale può essere semplicemente un chierico che,
attraverso le omelie in volgare durante le celebrazioni liturgiche,
trasmette una cultura religiosa al popolo di ogni ceto sociale, ma
può essere anche un laico, un clericus vagans ad esempio, che
ha rinunciato per qualche motivo alla vita monastica, ma
possiede una buona cultura e così vaga di città in città
intrattenendo la popolazione con prediche, discorsi, racconti di
ogni genere: giullari e cantastorie sono figure d’intellettuali che
esercitano la loro arte nelle piazze comunali, affrontando temi
profani e rivolgendosi in volgare ad un pubblico anch’esso laico.
Un ruolo importante lo rivestono anche gli artisti che
abbelliscono i luoghi di culto con le loro opere pittoriche e
scultoree (Biblia pauperum), attraverso cui un pubblico per lo
più analfabeta è in grado di conoscere le verità di fede.
Gli intellettuali possono anche essere semplici borghesi che
hanno imparato a leggere e a scrivere per le loro necessità, ma
che non conoscono il latino, come mercanti e bottegai, oppure
sono uomini di legge come giudici e notai, dotati di una solida
preparazione giuridica, ma anche retorica; in altri casi esercitano
professioni pubbliche, come quella di insegnante o precettore.
La loro produzione è destinata per lo più a trasmettere un sapere
pratico, indispensabile alla vita comunale, ma mira anche ad un
fine edonistico, quello di intrattenere e dilettare il pubblico.
IMPORTANZA E RUOLO DELL’INTELLETTUALE NEL COMUNE
I generi letterari più diffusi sono testi specifici, di carattere
didattico o enciclopedico, satire, novelle che trasmettono
esempi edificanti ai cittadini, poemi cortesi-cavallereschi
o liriche amorose, testi politici da cui si desumono la
passione e l’attaccamento alle vicende della propria città.
I GENERI LETTERARI
I CENTRI DI PRODUZIONE E DI DIFFUSIONE DELLA CULTURA
I luoghi di produzione della cultura all’interno del comune sono
molteplici e in essi l’intellettuale svolge un ruolo fondamentale.
La città è il luogo delle occasioni, del dibattito, dello scambio di
idee, un ambiente aperto e stimolante. Un centro di cultura sono
le “copisterie”, dove vengono trascritti a mano i testi, destinati
successivamente alle “biblioteche” private o pubbliche,
prevalentemente di proprietà della Chiesa. Quest’ultima
pertanto conserva un ruolo di primaria importanza nella
diffusione e nella produzione della cultura.
I CENTRI DI PRODUZIONE E DI DIFFUSIONE DELLA CULTURA
Con la nascita di intellettuali laici nel nuovo contesto urbano, si
creano tuttavia anche altri centri di cultura, come le scuole e
soprattutto le università: si affermano in questo periodo non solo
scuole private, ma anche pubbliche, aperte a tutti coloro che
hanno la possibilità di frequentarle; le università, in particolare,
nascono come libere associazioni tra studenti e docenti, sorte
intorno alla figura di intellettuali prestigiosi e rappresentano il
massimo grado di formazione culturale.
Essendo il comune una realtà aperta e dinamica, anche la piazza
diventa centro di cultura, preposta non solo a scambi di natura
commerciale, ma anche di idee e di informazioni, ai dibattiti e,
soprattutto, luogo in cui “giullari” e “cantastorie” possono
esercitare la loro arte.
I GRANDI E LA CITTA’
Nella realtà del comune l’Italia può vantare le “tre corone”, tre
dei più grandi scrittori del nostro panorama letterario: Dante,
Petrarca e Boccaccio. Non solo essi si sono formati nel contesto
cittadino, da questo hanno ricevuto stimoli ed esperienze umane
e intellettuali importanti, ma contemporaneamente alla città
hanno offerto cultura, ciascuno secondo il proprio contributo,
personale ed originalissimo, che ha fatto compiere un balzo
decisivo al nostro sapere e alla nostra civiltà.
I GRANDI E LA CITTA’
Il loro rapporto con la città è stato ovviamente diverso, perché
diverso è stato il contesto in cui sono vissuti; tutti e tre inoltre
hanno fatto esperienza della città non solo in quanto comune,
ma anche come spazio della corte nascente, di cui però hanno
avuto una maggiore o minore consapevolezza.
DANTE ALIGHIERI OVVERO L’INDISSOLUBILE LEGAME CON
FIRENZE
La città e la sua politica erano per l’intellettuale la base e la sua
primaria fonte di ispirazione. Egli non era soltanto un
osservatore critico e uno spettatore passivo, ma parte
integrante della sua città. Questo fu il legame che unì Firenze e
il suo più illustre concittadino: Dante Alighieri. Il poeta, nato nel
1265, fece convergere gran parte del suo interesse verso la
città, impegnandosi su più fronti nella complessa situazione
dell’epoca: se fuori di dubbio senza Firenze Dante non sarebbe
Dante, senza di lui neppure Firenze potrebbe essere la stessa.
DANTE ALIGHIERI OVVERO L’INDISSOLUBILE LEGAME CON
FIRENZE
FIRENZE TRA IL 1200 E IL 1300:IL CONTESTO STORICO
La Firenze di Dante era un comune dei più potenti, ma anche dei più agitati. La presenza di banche numerose e molto attive la rendeva ricca ed ambita. La sua economia era organizzata secondo la suddivisione in Arti, associazioni di mestiere che tutelavano gli interessi della borghesia cittadina e ne garantivano la rappresentanza nel parlamento. Ma la vita comunale, anche se ben organizzata e fiorente sul piano economico, era animata da forti tensioni e da continue rivalità. Erano quotidiani gli scontri tra le varie famiglie nobili (i magnati), tra nobili e borghesi e tra popolo grasso e popolo minuto, ulteriori stratificazioni della borghesia.
FIRENZE TRA IL 1200 E IL 1300:IL CONTESTO STORICO
In più Firenze, a causa delle sue notevoli risorse economiche, era anche vittima di attacchi esterni e di mire espansionistiche, che vedevano spesso la Chiesa come protagonista. A ciò si aggiungeva la lotta fra i due schieramenti politici più diffusi dell’epoca: i guelfi e i ghibellini, sostenitori rispettivamente del Papa e dell’imperatore. A Firenze la tensione politica si complicava ulteriormente a causa della divisione dei guelfi in Bianchi e Neri. I primi sostenevano il potere del pontefice solo sul piano spirituale ed erano capeggiati dalla potente famiglia dei Cerchi, mentre i secondi, capeggiati dai Donati, sostenevano sia il potere spirituale che quello politico del Papa.
FIRENZE TRA IL 1200 E IL 1300:IL CONTESTO STORICO
Tra i Bianchi emergevano Dante ed un altro concittadino illustre, suo amico personale: Guido Cavalcanti. Le due fazioni governarono Firenze, alternandosi, fra esili e problematici ritorni. Nel 1301 il Papa Bonifacio VIII, alleandosi con i Neri e con Carlo di Valois, rovesciò con forza il governo dei Bianchi e condannò Dante, che ricopriva allora la carica di priore, all’esilio e alla confisca dei beni.
FIRENZE TRA IL 1200 E IL 1300:IL CONTESTO STORICO
Il cammino di Dante, contrassegnato dall’amore per il sapere e
per la sua città, difficilmente avrebbe imboccato la strada della
politica. Nel 1293 infatti erano stati emanati a Firenze gli
“Ordinamenti di giustizia” di Giano della Bella che escludevano la
nobiltà dalle cariche pubbliche, in quanto richiedevano che si
fosse iscritti ad un’Arte, ovvero ad una delle associazioni
riservate alla borghesia. Allora Dante, di origini presumibilmente
nobili, entrò a far parte dell’Arte dei medici e degli speziali. Da
questo momento cominciò la sua diretta esperienza politica, che
lo portò a ricoprire cariche importanti, ma lo condusse anche alla
traumatica esperienza dell’esilio. Dante diventò priore nel 1300
in una situazione critica per Firenze.
L’ESPERIENZA POLITICA DI DANTE
Il suo amore per la città, il senso profondo della giustizia e la ricerca
incessante della pace tra i concittadini, fece si che si adoperasse con ogni
mezzo per garantire l’ordine e la serenità. Mandò in esilio anche il suo
amico e compagno di partito Guido Cavalcanti, poiché aveva attentato
alla vita di Corso Donati, capo della fazione avversa. Nel 1301 cominciò
forse il periodo più buio della sua vita: con i guelfi neri al potere, sostenuti
dal papa Bonifacio VIII e da Carlo di Valois, fu mandato in esilio e fu
costretto a cercare rifugio ed appoggio nelle principali corti d’Italia.
Tuttavia, seppure testimone di questa realtà emergente, Dante non era
ancora consapevole della svolta decisiva e senza ritorno che la nascita
delle Signorie avrebbe costituito per la storia d’Italia ed era
completamente immerso nell’ottica della realtà comunale e dei
particolarismi cittadini, che egli pensava ancora di superare inserendoli
nel contesto di una monarchia universale, dal potere fortemente
accentrato.
L’ESPERIENZA POLITICA DI DANTE
Nelle Epistole e nel De Monarchia troviamo dunque i suoi accorati
appelli affinché si favorisse la discesa in Italia di Arrigo VII,
l’imperatore tedesco, che nel 1310 avrebbe potuto trasformare in
realtà il suo sogno universalistico, ma il progetto fallì tre anni dopo.
Anche la possibilità di tornare a Firenze, offertagli dai concittadini a
condizione di pubbliche scuse, non ebbe seguito. L’orgoglio di Dante,
exul immeritus, prevalse sul desiderio del ritorno, costringendolo
quindi a trascorrere il resto della vita da ospite illustre nelle varie
corti d’Italia, ma sempre con la potente nostalgia dell’“ovile”. Dante
morì nel 1321 presso i Da Polenta a Ravenna, ma Firenze fu
condannata a dolersi in eterno della lontananza del proprio figlio più
celebre, se è vero che in Santa Croce edificò per lui una tomba che,
pur vuota, testimonia perennemente l’unione indissolubile tra il
sommo poeta e la città natale.
L’ESPERIENZA POLITICA DI DANTE
Il tema politico è dominante in tutta la produzione
di Dante e in qualunque prospettiva esso venga
posto, il poeta finisce sempre per tornare a
discutere di Firenze. Alla politica egli dedica un
intero trattato: il De monarchia. Nell’opera, scritta
in latino nel 1310, in occasione della discesa di
Arrigo VII, è contenuto tutto il suo pensiero. Egli
prende in considerazione la situazione dell’Italia del
1300, dilaniata dai continui contrasti interni ai
comuni e dalle guerre tra le signorie.
LA CENRALITA’ DI FIRENZE NELLA PRODUZIONE DANTESCA
Dante sostiene che la causa di tutto ciò sia la
mancanza di un potere accentrato e universale,
l’unico che possa eliminare i particolarismi
cittadini, causa prima di lutti e ingiustizie; la
discesa di Arrigo VII gli appare così come un
disegno provvidenziale, un’occasione da non
perdere ed è nell’urgenza di questo evento che
scrive di getto il trattato e alcune lettere
appassionate, rivolte ai signori d’Italia, ad Arrigo e
agli “scellerati” fiorentini, affinché non ostacolino,
ma favoriscano, la discesa dell’imperatore tedesco,
nell’interesse comune e nel rispetto della volontà
divina.
LA CENRALITA’ DI FIRENZE NELLA PRODUZIONE DANTESCA
Ma il binomio indissolubile tra il problema politico e
Firenze raggiunge il vertice poetico nella Commedia, a
cui tra l’altro egli affida segretamente il compito di
aprirgli nuovamente le porte della sua città. Già nel
primo canto dell’Inferno il poeta parla tra le righe di
politica. Le tre fiere che incontra all’inizio del suo
cammino, quando tenta di salire il colle, e cioè la
lonza, il leone e la lupa, oltre a simboleggiare tre
peccati capitali, possono rispettivamente essere
l’allegoria di Firenze, attraente ed ambita come la
lonza, ma fonte di perdizione, della casa reale di
Francia, che aspirava superbamente a primeggiare in
Europa e della curia romana, sempre insoddisfatta del
proprio potere e avida fino alla rovina di sé e
dell’intero universo cristiano.
LA CENRALITA’ DI FIRENZE NELLA PRODUZIONE DANTESCA
Dante profetizza anche un simbolico veltro che
ucciderà la lupa e che potrebbe essere, se interpretato
in chiave morale, o Dante stesso (missionario in
quanto poeta prescelto da Dio) o il papa Benedetto XI,
successore di Bonifacio VIII, mentre in chiave politica o
il già citato Arrigo VII, oppure Cangrande della Scala,
suo protettore ed estimatore.
Anche nel canto sesto si torna a parlare di Firenze, nel
girone dei golosi, quando il poeta incontra Ciacco, suo
concittadino. Questo dannato, oltre a predire gli
avvicendamenti politici al governo della città, la
dipinge come luogo moralmente corrotto, a causa
della superbia, dell’invidia e dell’avarizia che dividono
gli animi; di uomini onesti ce ne sono molto pochi e
non vengono ascoltati.
LA CENRALITA’ DI FIRENZE NELLA PRODUZIONE DANTESCA
Ma il dibattito politico raggiunge il culmine nel
decimo canto, tra le tombe infuocate degli eretici.
Qui Dante incontra il capo dei ghibellini di Firenze,
Farinata degli Uberti. I due sono protagonisti di
un’appassionata discussione su meriti e difetti dei
rispettivi partiti, accesa al punto da cancellare
qualunque altro sentimento umano; quando però
arrivano a toccare il delicato tasto dell’amore per
la patria, i due avversari, entrambi esuli per motivi
politici, si sciolgono, mostrandosi leali e fedeli al
punto da anteporre al proprio interesse la salvezza
della città.
LA CENRALITA’ DI FIRENZE NELLA PRODUZIONE DANTESCA
FRANCESCO PETRARCA: L’INTELLETTUALE CITTADINO DEL
MONDO
FRANCESCO PETRARCA: L’INTELLETTUALE CITTADINO DEL
MONDO Francesco Petrarca nacque ad Arezzo, il 20 luglio 1304 e morì la
notte tra il 18 e il 19 luglio del 1374. Per tutta la sua vita fu diretto
spettatore della cattività avignonese, lo spostamento della sede
papale da Roma ad Avignone. Interessi politici ed economici, seguiti
al “braccio di ferro” tra Filippo IV il Bello, re di Francia, e papa
Bonifacio VIII, spinsero nel 1309 il papa Clemente V, fedelissimo al
sovrano francese (e non intenzionato a lasciarsi coinvolgere nelle
innumerevoli lotte presenti in Italia), a trasferirsi in Provenza. Questo
evento durò circa settant’anni ed espose la Chiesa a critiche severe,
favorendo il degrado politico e morale di Roma e dell’Italia, nonché il
disorientamento della cristianità tutta. Ad Avignone, e precisamente
alla corte papale, Petrarca osserva con occhio attento i mutamenti
storici, se ne fa portavoce e ne critica contemporaneamente i rischi e
le storture.
FRANCESCO PETRARCA: L’INTELLETTUALE CITTADINO DEL
MONDO
Ormai però egli non è più l’intellettuale cittadino che partecipa
attivamente alla vita politica del suo Comune, come Dante o,
addirittura, come Boccaccio per una parte della sua vita:
Petrarca guarda con maggior distacco allo svolgersi dei fatti; al
contrario di Dante è cosciente che il sogno di un impero
universale è ormai tramontato per sempre sotto i colpi delle
monarchie nazionali e, per quanto riguarda l’Italia delle Signorie;
non rimpiange quel sogno, anche se non rinuncia a dare giudizi e
consigli, ma oramai riflette tutte le caratteristiche tipiche di un
intellettuale cortigiano, non però legato ad un preciso ambiente
cittadino, ma cosmopolita.
FRANCESCO PETRARCA: IL RAPPORTO CON LE CORTI E LA
POLITICA
Il poeta proveniva da una famiglia benestante: il padre, Ser
Petracco, svolgeva l’attività di notaio a Firenze, poi, in cerca di
stabilità economica, si trasferì presso la corte papale ad
Avignone.
Subito il giovane Petrarca entrò a contatto con una realtà nuova
e più aperta: l’arrivo di scrittori e dotti provenienti da tutta
Europa presso la curia papale favoriva il confronto e il dibattito,
unito alla conoscenza che si accumulava nelle numerose
biblioteche private e al fiorente mercato letterario. Questi
elementi portarono il poeta lontano dalla scuola e dalle
università, più orientato sull’interscambio personale all’interno di
circoli selezionati e sul contatto diretto con i libri.
FRANCESCO PETRARCA: IL RAPPORTO CON LE CORTI E LA
POLITICA
Sotto la spinta influente del padre, Petrarca intraprese gli studi
giuridici che lo portarono prima a Montpellier e poi a Bologna;
infine, capita la propria “vena letteraria”, egli si dedicò
completamente alla ricerca di testi classici, che lo impegnò per
tutta la vita. Infatti, nel corso degli anni vagò per le diverse corti
d’Italia, come Milano, dove lavorò per i Visconti, Venezia, Padova,
Parma. Per questo motivo il poeta rappresentò una nuova figura
d’intellettuale, non più legato ad una sola città.
FRANCESCO PETRARCA: IL RAPPORTO CON LE CORTI E LA
POLITICA
Nelle corti con cui venne a contatto, non ebbe rapporti
istituzionali con il signore, ma restò più che altro un ospite
illustre, il quale aveva cara la sua libertà e la sua indipendenza,
conquistate anche attraverso la decisione di farsi chierico,
prendendo i voti minori che non lo obbligavano a prendersi cura
delle anime. Questo gli permetteva di beneficiare delle rendite
ecclesiastiche, senza problemi di natura economica e gli dava la
possibilità di dedicarsi pienamente al suo amatissimo otium
letterarium.
FRANCESCO PETRARCA: IL RAPPORTO CON LE CORTI E LA
POLITICA
L’esercizio letterario fu comunque per lui uno strumento
per fare politica; infatti, anche se non si occupò
direttamente di essa, come Dante, scrisse delle denunce
destinate soprattutto alla Chiesa, come testimoniano i
sonetti antiavignonesi contenuti nel Canzoniere e la
raccolta di lettere Sine nomine, in cui critica aspramente la
corruzione della Curia presso la quale era stato ospite per
molti anni.
FRANCESCO PETRARCA: IL RAPPORTO CON LE CORTI E LA
POLITICA
Altro impegno politico molto a cuore al poeta, fu l’approvazione
data a Cola di Rienzo, incaricato dal Papa nel 1347 di ristabilire la
pace tra le nobili e potenti famiglie romane e l’ordine in città,
compromesso dallo spostamento della Curia. Il poeta ispirato
dagli stessi ideali e dallo stesso culto della Roma classica, inviò
varie lettere a Cola, esortandolo a perseverare nel suo intento. Si
mise anche in viaggio per raggiungere Roma e per porsi al suo
fianco, ma la notizia della trasformazione in tirannide del suo
governo, lo portò a desistere dai suoi propositi.
FRANCESCO PETRARCA: L’AMORE PER L’ITALIA
Pur essendo vissuto molti anni in Francia, Petrarca provò un
amore costante per quell’Italia che gli diede i natali e la cultura;
infatti, dedicò importanti considerazioni alla sua patria nella
famosa lettera (contenuta nelle Familiares) indirizzata a Dionigi
da Borgo San Sepolcro, meglio nota come “L’ascesa al monte
Ventoso” in cui confessa di provare nostalgia per quella nazione
che lo ha ripagato con la massima onorificenza data allora ai
poeti: l’incoronazione avvenuta in Campidoglio nel 1341. L’Italia
di cui parla il Petrarca non è una entità politica, che allora
sarebbe stato impensabile, ma una entità culturale, la culla di
quella classicità alla quale egli fa costante riferimento. E’
pertanto l’universalità del sapere il basamento su cui poggia e
che permette il cosmopolitismo del Petrarca.
FRANCESCO PETRARCA: CITTA’ E CAMPAGNA
Lo spirito irrequieto del poeta e la sua ansia di viaggiare si
contrappongono tuttavia alla necessità di chiudersi nella propria
interiorità. I suoi frequenti ritiri in Valchiusa, negli anni successivi
alla sua crisi spirituale, esaltano il bisogno della solitudine,
consumata al cospetto della natura e delle sue bellezze, nelle
conversazioni con pochi amici e nella costante lettura dei suoi
libri. Nel sonetto Solo e pensoso i più deserti campi (contenuto
nel Canzoniere) la natura diventa “schermo” (protezione), nella
quale il poeta si rifugia per allontanarsi dalla gente e quindi dal
clamore e dalla confusione della città, luogo di corruzione morale
e politica; sceglie così la campagna, idealizzata come locus
amoenus, con cui stabilisce un rapporto intimo e confidenziale.
BOCCACCIO: CITTA’ REALE E CITTA’ IDEALE
BOCCACCIO: CITTA’ REALE E CITTA’ IDEALE
Boccaccio vive un doppio rapporto con la realtà cittadina, in
relazione ai due momenti fondamentali della sua vita: la
permanenza a Napoli e il ritorno a Firenze. La città, dunque,
vissuta come corte, in quanto coincide con la stagione della
giovinezza e della spensieratezza, viene ad essere per lo
scrittore una idealità, sempre rimpianta e vagheggiata nelle sue
opere, mentre la città comunale, in quanto coincide con la
maturità, le avversità della vita e l’assunzione delle proprie
responsabilità, si delinea come realtà effettiva, piena di rischi,
ma anche di occasioni, dove l’uomo mette alla prova le sue
capacità.
BOCCACCIO: CONCILIAZIONE DI CORTESIA E MASSERIZIA
Nato nel 1313 a Certaldo, Boccaccio vive tutta la sua vita in un
contesto cittadino; compie infatti i suoi studi a Firenze e nel
1327, ancora adolescente, si trasferisce a Napoli, in quanto il
padre era socio della prestigiosa banca dei Bardi, che nel
capoluogo campano aveva una sua filiale. Qui entra in contatto
con la corte angioina che egli frequenta come ospite,
continuando comunque a vivere la realtà concreta della società
borghese da cui proviene. L’ambiente cortigiano è molto
stimolante sul piano culturale e gli trasmette valori (liberalità,
magnanimità, misura) e stili di vita (culto della raffinatezza e
delle belle maniere). Resta però pur sempre un mondo ideale con
cui Boccaccio non si identifica mai del tutto.
BOCCACCIO: CONCILIAZIONE DI CORTESIA E MASSERIZIA
Quando poi nel 1340 egli è costretto a tornare a Firenze a causa
del fallimento della banca dei Bardi, sperimenta un ambiente
dove la liberalità della corte lascia il posto al culto del denaro,
all’invidia, alla superbia, all’avarizia. Patisce le ristrettezze
economiche, deve cercare appoggio presso vari signori,
assumere incarichi per il Comune e nel 1360 prova perfino
l’amarezza di essere sospettato d’aver congiurato contro le
istituzioni cittadine e viene sollevato dalle missioni affidategli. La
fortuna, che tanta parte avrà nel Decameron, mette così alla
prova il suo valore e la sua tenacia.
BOCCACCIO: CONCILIAZIONE DI CORTESIA E MASSERIZIA
Due città, due ambienti, due modi diversi di vivere, eppure
questo dualismo è lui stesso, è il tratto qualificante della sua
esperienza e Boccaccio cerca di mettere d’accordo questi due
mondi apparentemente così distanti; lo fa conciliandone i valori
di fondo: l’ideale cortese e la masserizia (tipica di una società
mercantile). Ammira infatti la liberalità , la magnanimità e la
misura che contraddistinguono la società di corte, ma si pone un
problema fino ad ora ignorato: la necessità di basi materiali per
l’attuazione di quegli stessi valori. Egli infatti conosce bene
l’incidenza del denaro nella vita reale. L’unica soluzione è quella
di accordare la “generosità disinteressata nel donare” con
l’oculata amministrazione dei propri beni, senza i quali l’esercizio
della liberalità risulta impossibile.
BOCCACCIO: CONCILIAZIONE DI CORTESIA E MASSERIZIA
Federigo degli Alberghi, protagonista di una famosa novella del
Decameron (V, 9), è il perfetto rappresentante di questa fusione
degli ideali cortesi e dei valori della borghesia urbana.
Innamorato “di una gentil donna”, Monna Giovanna, Federigo
sperpera per lei tutto il proprio denaro, ma proprio quando si
trova di fronte all’occasione di onorarla, non può farlo, perché,
portato all’estremo paradosso il suo ideale cortese, è rimasto
povero. La novella appartiene però alla giornata che ha per tema
le storie d’amore a lieto fine e si conclude con il matrimonio di
Giovanna e Federigo (divenuto grazie a lei “miglior massaio”),
che simboleggia l’avvenuta fusione dei due ideali.
BOCCACCIO: CONCILIAZIONE DI CORTESIA E MASSERIZIA
Come Federigo, anche Cisti fornaio (Decameron, VI, 2) incarna la
possibilità di conciliare questi diversi valori, anche se vive questo
evento nel modo inverso rispetto a quello del nobile fiorentino: Cisti è
infatti un borghese che però possiede le belle maniere e le virtù
cortesi. Lo dimostra nel voler offrire a Messer Geri Spina,
ambasciatore del Papa a Firenze, il suo miglior vino. Il fornaio è
rispettoso nei confronti del nobile, perché consapevole della
differenza di classe sociale e così non lo invita direttamente, ma con
uno stratagemma spinge lui a farlo. Questa novella evidenzia un altro
aspetto dello stesso problema: la conciliazione di questi due mondi
può avvenire solo su un piano ideale, ma non nella realtà effettiva
dove classi superiori e classi subalterne non possono fondersi, in
quanto la società rimane anche per Boccaccio sostanzialmente
statica, com’è nella mentalità medievale alla quale lo scrittore è
ancora profondamente ancorato.
IMPORTANZA DELLA CITTA’ NEL DECAMERON
Fortemente legata alla realtà medievale è anche l’importanza
che ha per Boccaccio la città; la corte è ancora e solo il luogo
dell’idealizzazione e della perfezione, mentre l’ambiente
cittadino comunale-mercantile è il vero protagonista del
Decameron; lo dimostra il fatto che nella “cornice” l’allegra
brigata di giovani si rifugia in campagna e in una bella villa
signorile vive secondo lo stile della corte, mentre Firenze è
battuta dalla peste che miete vittime e distrugge la socialità. La
città ideale è isolata nel locus amoenus della campagna, mentre
la città reale vive la drammaticità della storia.
IMPORTANZA DELLA CITTA’ NEL DECAMERON
Quest’ultima è però il vero centro dell’interesse, perché questa è per
il Boccaccio il luogo della vita effettiva, dove si svolgono gli scambi,
gli incontri, le occasioni positive o negative dispensate dalla fortuna;
per Andreuccio da Perugia, altro personaggio famoso del Decameron
(II, 5) la “grande” città di Napoli diventa il luogo della formazione,
mentre la “piccola” Perugia è solo il luogo di partenza e quello in cui
si fa ritorno dopo aver imparato dai propri errori, in un processo lungo
e accidentato. Egli è infatti inesperto ed imprudente al suo arrivo, ma
l’industria lo porta a terminare con successo il viaggio, nonostante gli
ostacoli incontrati lungo il cammino. All’interno della città è poi la
piazza, come punto di ritrovo e di confronto, il simbolo prevalente
della socialità che assume in Boccaccio un’importanza fondamentale.
L’INTELLETTUALE E LA CORTE
L’INTELLETTUALE E LA CORTE
Nel '400 e nel '500 il centro per
eccellenza di produzione e diffusione
della cultura è la corte: siamo ancora
in città, ma le istituzioni repubblicane
hanno lasciato il posto ad un potere
accentrato nelle mani del signore. La
partecipazione dei cittadini alla vita
politica, il dibattito, il confronto che
avevano caratterizzato la vita
comunale si sono spenti e ogni
decisione, ogni iniziativa, ogni forma di
cultura prendono vita per volere e per
necessità del signore.
L’INTELLETTUALE E LA CORTE
Intellettuali, artisti, amministratori, consiglieri diventano
funzionari della corte, in essa trovano protezione e lavoro e il
signore a sua volta si fa mecenate, si compiace di circondarsi di
nomi prestigiosi che rendono illustri lui e le sue imprese,
conferendogli addirittura prestigio politico. Gli intellettuali con le
loro opere hanno il compito di esprimere in forma compiuta e
perfetta gli ideali dell’élite colta che si raccoglie nella corte. La
città a sua volta si arricchisce, grazie al mecenatismo del signore,
di opere d’arte straordinarie, che la rendono unica nella sua
bellezza e che testimoniano nei secoli il fervore culturale di
un’epoca che ha segnato come non mai la storia della nostra
civiltà.
LA CULTURA A CIRCOLO CHIUSO:LA CORTE COME SOCIETA’ IDEALE
Il pubblico a cui lo scrittore si rivolge è composto
principalmente da cortigiani, quindi la cultura di corte è a
circolo chiuso, in quanto prodotta da un intellettuale per altri
intellettuali. Questi, di conseguenza, tendono ad isolarsi dalla
realtà e a disprezzare il mondo esterno e ciò determina il loro
progressivo allontanamento dalla società effettiva e la
distanza dei valori che essi elaborano da quelli delle masse.
LA CULTURA A CIRCOLO CHIUSO:LA CORTE COME SOCIETA’ IDEALE
Quella di corte si presenta come una società perfetta e alquanto
idealizzata: infatti è questa la tendenza prevalente del classicismo
del tempo. Un esempio di ciò è rappresentato dalla letteratura di
carattere comico-parodico nella quale si cimenta anche una delle
voci più significative nel panorama storico-artistico del secondo
Quattrocento: Lorenzo de’Medici, “ago della bilancia” nell’Italia
dell’epoca, grande mecenate e poeta egli stesso . Scrive tra l’altro
la Nencia da Barberino che riproduce le lodi cantate da un
contadino alla pastorella di cui è innamorato, con l’intento di
ridicolizzare la convenzionale figura del pastore innamorato e
quindi la realtà popolare. Ciò è presente anche nei Beoni, in cui il
Magnifico ritrae alcuni famosi bevitori della Firenze contemporanea.
Il tutto è espresso con gusto parodico e grottesco.
LA CULTURA A CIRCOLO CHIUSO:LA CORTE COME SOCIETA’ IDEALE
Alla corte di Lorenzo passano intellettuali come Pico della
Mirandola, Marsilio Ficino, Angelo Poliziano, Luigi Pulci ed anche
Michelangelo Buonarroti e Leonardo da Vinci; lavorano per lui
pittori come Antonio Pollaiolo, Filippino Lippi, Sandro Botticelli,
e poi scultori, come Andrea del Verrocchio e architetti, come
Giuliano da Sangallo.
A testimonianza della magnificenza e della centralità della cultura
toscana, Lorenzo il Magnifico, con la collaborazione di Angelo
Poliziano, produce la Raccolta Aragonese, un insieme di liriche
nate nell’area toscana dal '200 in avanti, inviata
apparentemente come dono, ma in realtà con un fine politico,
agli Aragonesi dominatori dell’Italia meridionale.
LA CULTURA DI CORTE
Nella cultura umanistico-rinascimentale trionfa una concezione
edonistica: si ricercano infatti l’eleganza e la raffinatezza nei
costumi e le belle forme del vivere. A tal fine lo stesso Poliziano
nella ballata I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino tende a
suscitare piacere in chi legge, tramite la descrizione della
primavera, della donna e del colore dei fiori: verde, rosso, azzurro
e giallo sono quelli evocati, gli stessi usati di preferenza dai pittori
dell’epoca. Ciò che inserisce inequivocabilmente il testo nella
cultura di corte è l’esaltazione del giardino, simbolo di piacere, di
bellezza e di svago, ma allo stesso tempo di chiusura. Infatti esso
è emblema dell’élite di cui si è discusso ed è anche metafora
della vita, nella quale è bene non farsi sfuggire nessuna delle
occasioni di gioia e di diletto, visto che il tempo inesorabilmente
se ne va.
LA CULTURA DI CORTE
La cultura nella corte ha anche un fine encomiastico: ciò che
gli intellettuali cercano di fare è anche celebrare la grandezza
del signore, per renderla visibile (e temibile) all’esterno. Le
opere commissionate all’artista esaltano le imprese, specie
quelle militari, la famiglia, le gesta del signore, sia agli occhi
dei sudditi per ottenerne il consenso e l’obbedienza, sia agli
occhi degli altri potenti a fini politici. Tale aspetto è chiaro nel
poemetto Stanze per la giostra del magnifico Giuliano scritto
da Angelo Poliziano il quale intendeva cantare la vittoria di
Giuliano de Medici, fratello di Lorenzo, in una giostra d’armi.
AMBIGUITA’ DEL RAPPORTO TRA INTELLETTUALE E CORTE
A corte l’intellettuale può dedicarsi a tempo pieno alla propria
arte, senza preoccupazioni di natura economica. Ciò che fa gli
può dare fama e prestigio ed anche ricchezza, tuttavia il suo
rapporto con il signore può anche essere molto ambiguo. La
dipendenza economica può costituire un’arma a doppio
taglio, perché da un lato lo libera da preoccupazioni pratiche,
ma dall’altro lo vincola e lo rende vulnerabile. Inoltre a lui il
signore spesso affida compiti di carattere amministrativo,
incarichi diplomatici o altro e anche questo finisce poi per
limitare il suo otium e per distrarlo dalla sua prevalente
occupazione.
AMBIGUITA’ DEL RAPPORTO TRA INTELLETTUALE E CORTE
Infine, proprio in quanto la cultura di corte ha un fine
encomiastico, l’intellettuale non può permettersi la piena
libertà di pensiero e di espressione, ma deve stare attento a
non offendere chi lo protegge e a non urtarne la suscettibilità.
Per questo spesso troviamo opere convenzionali, che
ricalcano le orme già tracciate da altri sia sul piano stilistico
che contenutistico e si alienano ogni forma di originalità.
AMBIGUITA’ DEL RAPPORTO TRA INTELLETTUALE E CORTE
A ciò si deve aggiungere che, se fino alla prima metà del
Cinquecento l’intellettuale ha ancora un margine di libertà
dentro la corte, a partire dalla seconda metà si trova ridotte
molte delle sue prerogative, per effetto di eventi storici di
rilievo, quali la crisi economica che si farà sentire in Italia
come nel resto dell’Europa e che convincerà principi e sovrani
a ridurre le spese (la cultura ne risentirà per prima), e
l’avvento della Controriforma che imporrà un severo controllo
su ogni espressione culturale e renderà gli intellettuali nelle
corti ancor meno liberi di esprimersi e ancora più cauti nella
elaborazione delle loro opere.
AMBIGUITA’ DEL RAPPORTO TRA INTELLETTUALE E CORTE
Se un Ariosto nel primo Cinquecento poteva ancora rivolgersi agli Estensi suoi
protettori con un tono ironico e distaccato e stabilire con fermezza quali
fossero i limiti dei suoi servigi entro la corte (ciò gli era consentito anche dal
fatto che egli, essendo chierico, aveva delle rendite personali che non lo
rendevano del tutto dipendente sul piano economico), un grande poeta come
Torquato Tasso fu addirittura ossessionato dall’idea che il suo capolavoro, La
Gerusalemme liberata, non fosse conforme alla morale controriformistica e alle
regole compositive dettate dalla Poetica di Aristotele. Così, da nome illustre
egli finì per diventare un ospite scomodo per la corte degli Estensi che
esercitavano il loro potere come “gonfalonieri della Chiesa” e non potevano
permettersi di alloggiare e proteggere un sospettato di eresia. Da qui il triste
peregrinare del poeta che dovette vivere la sconfortante esperienza del
carcere e dell’ospedale psichiatrico, finché non suscitò la pietà del Papa
Clemente VIII che lo sostenne nell’ultimo, tristissimo periodo della sua vita.