Post on 18-Feb-2019
QOHELET*
1. QUESTIONI STORICO‐LETTERARIE
«Qohelet, nel suo ufficio di obiettore, esprime la resistenza di Israele a qualunque tentati‐vo di trovare rifugio in un mondo parallelo; il suo messaggio agisce come una medicina, libe‐rando il saggio da una certa pompa e dalla responsabilità di essere un agente della storia uni‐versale».1 Questa frase di P. Beauchamp proietta la lettura del piccolo libro di Qohelet (appe‐na l’1% della Bibbia ebraica) su uno sfondo ermeneutico che non intende addomesticare la carica provocatoria del pensiero del saggio.
Le valutazioni complessive sul Qohelet sono davvero discordi: egli è stato descritto come predicatore della gioia ma, spesso, anche scettico, deluso dall’esperienza, contestatore, ac‐cusatore di una facile felicità, cinico, ribelle, solitario, disgustato dal mondo, sentinella criti‐ca, teologo insensibile, maestro del sospetto, razionalista della sapienza, agnostico e persino ateo. Insomma, nonostante le dimensioni ridotte, il piccolo scritto suscita numerosi interro‐gativi, che meritano di essere analizzati.
1.1. AUTORE
In ebraico, qōhelet è un participio femminile della radice verbale qhl («radunare») da cui deriva anche qāhāl, cioè «assemblea». In epoca persiana questo participio potrebbe compor‐tare una sfumatura intensiva e significare «colui che chiama a raccolta l’assemblea».2 Nella versione greca Qohelet diventa ekklēsiastḗs che rinvia direttamente alla parola greca ekklēsía («assemblea, comunità»): l’Ecclesiaste sarebbe colui che prende la parola in un’adunanza. Quanto al senso preciso della parola possiamo parlare di uno pseudonimo che indica sia l’ufficio, sia il soggetto che svolge, pensando a una scuola sapienziale o a un pubblico più ampio (Qo 12,9), la funzione di convocare il raduno.
In Qo 1,1 l’autore si presenta come figlio di Davide e re su Gerusalemme, mentre in 1,12 si aggiunge che egli è re d’Israele in Gerusalemme: secondo la narrazione, soltanto Davide e Sa‐lomone regnarono a Gerusalemme su tutte le dodici tribù di Israele. Insomma il lettore si trova davanti a un nuovo caso di attribuzione pseudoepigrafica di uno scritto sapienziale al re saggio per antonomasia (Salomone) come già visto per Proverbi e, come si annoterà, per il Cantico dei Cantici. Qualche informazione in più sull’autore ci giunge dall’epilogo del libro (12,9‐14)3 che insieme all’introduzione è chiaramente opera di un editore:4 «Oltre a essere
* S. PINTO, Qoelet, in S. PINTO, I segreti della Sapienza. Introduzione ai Libri sapienziali e poetici, San Paolo,
Cinisello Balsamo 2013, 107‐134. 1 P. BEAUCHAMP, L’Uno e l’Altro Testamento, Paideia, Brescia 2000, 150. 2 Simili parole ebraiche venivano utilizzate per indicare uffici o funzioni; mediante un ampliamento secon‐
dario si riferivano al titolare di tale ufficio o funzione, come nel caso di sōferet, «ufficio di scriba» o «scriba». 3 L’epilogo (Qo 12,12) potrebbe contenere una piccola critica nei confronti di Ben Sira: «In Qo 12,12 proba‐
bilmente un secondo epiloghista [il primo si ritrova nei vv. 9‐11] aggiunge un ulteriore ammonimento, diretto contro quei molti libri che si scrivono, ma che non meritano di essere letti. L’atmosfera sembra essere quella della Gerusalemme del II secolo a.C. e si ha quindi l’eco di un probabile dibattito intorno a quali testi dovessero costituire il bagaglio dei giovani allievi della Gerusalemme del tempo, futuri funzionari pubblici» (MAZZINGHI, Il Pentateuco sapienziale, 137).
4 La sua mano si ritrova anche in altri luoghi del libro: nel titolo (1,1) e nei primi versetti (1,2‐3), in 7,27 in
cui si menziona l’autore e, come indicato, nell’epilogo.
98 Qohelet
un sapiente, Qohelet insegnò anche la scienza al popolo; ascoltò, meditò e scrisse molte massime» (Qo 12,9).
A proposito della paternità salomonica dello scritto, vale la pena di ricordare che per la tradizione ebraica Salomone avrebbe scritto il Cantico in gioventù, i Proverbi nella maturità e Qohelet nella vecchiaia (Shir Hashirim Rabbah 1,1); per la tradizione patristica, coloro che progrediscono nella vita di fede iniziano leggendo Proverbi, avanzano con Qohelet e giungo‐no alle vette della perfezione solo con il Cantico: da una sapienza prettamente umana (Pro‐verbi) l’uomo, con Qohelet, si abitua a considerare vanità tutto quello che si fa sulla terra per giungere, infine, alla sublime unione con Dio espressa dal Cantico dei Cantici.5
1.2. DATAZIONE E LINGUA6
Gli studiosi concordano su una datazione successiva all’esilio babilonese (587‐539 a.C.), perché sia la grammatica che il lessico sono tipicamente postesilici. Numerosi sono gli ara‐maismi; solo per citarne alcuni: il pronome relativo še («che», «colui che»; compare 68 volte sulle 89 del più comune ’ăšer); kebār («già») in 1,10; pēšer («spiegazione») in 8,1. Inoltre, al‐cuni termini possono assumere sfumature diverse rispetto all’ebraico classico: ḥôṭe’ non sa‐rebbe il peccatore ma il fallito, lo sfortunato (2,26; 8,12; 9,2) in contrapposizione con il ṭôb che non indicherebbe più il buono ma, appunto, il fortunato, colui che è felice.
La presenza di termini persiani (pardēs, «parco, orto» in 2,5; pitgām, «sentenza, editto» in 8,11) e l’ebraico molto simile a quello della Mishnà (27 sono gli hapax legomena rispetto all’Antico Testamento, che invece compaiono nella Mishnà), portano alla conclusione che lo sfondo nel quale collocare il pensiero di Qohelet sia il III secolo a.C., cioè il periodo in cui l’ellenismo dei Lagidi d’Egitto reggeva politicamente Gerusalemme e in cui l’amministrazione centrale favoriva l’aristocrazia locale palestinese ben disposta verso l’ellenismo. L’assenza di richiami alle persecuzioni dei Giudei da parte di Antioco Epifane III e alla rivolta dei Maccabei (164 a.C.), fa propendere per il 250 a.C. circa come possibile data di composizione. Circa il luogo, non si è arrivati a conclusioni condivise, anche se la maggior parte degli studiosi pro‐pende per Gerusalemme.7
1.3. STRUTTURA E GENERE LETTERARIO
Non è facile risolvere la questione dell’organizzazione del libro e la sua unitarietà è stata messa in discussione a causa delle contraddizioni interne. In 2,15‐16, per esempio, si dice che la sorte dello stolto e quella del giusto sono identiche, anche se in altri passi è asserita la superiorità della sapienza (cfr. 2,13; 7,11.19; 9,16‐18); in 2,17 il saggio dice che prese in odio la propria vita, preferendo, tuttavia, in 9,4 essere un cane vivo che un leone morto, e invi‐tando, comunque, in 11,7‐10 al suo godimento. Così come a proposito del tema della gioia:
5 Si veda, per esempio, ORIGENE, Commento al Cantico dei Cantici, Città Nuova, Roma 41997, 56‐57. Sulla dif‐
ficoltà nella lettura del libro e sulla necessità dell’interpretazione spirituale, Gregorio di Nissa così si esprime: «Ci apprestiamo a spiegare l’Ecclesiaste, un libro la cui utilità è pari alla fatica necessaria per interpretarlo; ora che il nostro intelletto si è già esercitato nella riflessione di Proverbi [...], ecco che a coloro che hanno progredi‐to tanto da poter accedere agli insegnamenti più perfetti si offre l’ascesa a quest’altro libro della Scrittura [...]. L’insegnamento di Proverbi è come un esercizio che allena e predispone la nostra anima all’agone dell’Ecclesiaste» (Omelie sull’Ecclesiaste, Città Nuova, Roma 1990, 39‐40).
6 Sulla lingua rimandiamo alla ricca discussione offerta da C.‐I. SEOW, Ecclesiastes. A New Translation with
Introduction and Commentary, Yale University Press, New Haven ‐ London 1997, 11‐21. 7 Per G. Bellia non sarebbe stato scritto a Gerusalemme (come comproverebbe il tardivo inserimento nel
canone ebraico): cfr. «Il libro del Qohelet e il suo contesto storico‐antropologico», in G. BELLIA ‐ A. PASSARO (edd.), Il libro del Qohelet. Tradizione, redazione, teologia, Paoline, Milano 2001, 176.
Qohelet 99
essa è vanità (2,2‐3.10‐11), eppure viene descritta come un dono che viene da Dio (2,24‐26; 3,12‐14; 5,19).
Molti studiosi se la cavano ipotizzando una struttura poliedrica: il libro, a motivo delle sue ripetizioni, segue un percorso che per alcuni è dialogo‐polemico. Qohelet intesse un dia‐logo fittizio con altri autori che egli cita nel corpo del testo, con l’intenzione di confutare la sapienza tradizionale. Secondo questa ipotesi, perciò, le contraddizioni interne al libro si spiegherebbero come la menzione diretta delle tesi di coloro ai quali il saggio si oppone. Si è anche pensato di riconoscere delle aggiunte redazionali al libro che intendono mitigare, per esempio, la visione della vita non troppo religiosa di 8,11‐12a («Non si emette subito la sen‐tenza contro le azioni del malvagio, il cuore dell’uomo è pronto a fare il male. Per di più, il peccatore che fa il male cento volte ha lunga vita») con 8,12b‐13 («Tuttavia ho capito anche questo: sarà felice chi teme Dio, proprio perché lo teme, ma non sarà felice il malvagio e i suoi giorni non si allungheranno come un’ombra, perché egli non teme Dio»). Tale approccio al testo, come nell’ipotesi precedente del dialogo polemico, crea più problemi di quanti ne risolva perché ogni studioso potrebbe arbitrariamente ritrovare le «sue» glosse e riscrivere il «suo» Qohelet.
Segnalo due ipotesi di strutturazione senza avere la pretesa di risolvere la questione ormai diventata «l’enigma della sfinge».8
a) La prima ipotesi è di A.G. Wright9 e si fonda su considerazioni numeriche a partire dalla parola hebel («vanità»). Se tutti riconoscono un prologo (1,1‐11) e un epilogo in cui si parla di Qohelet in terza persona (12,9‐14), l’autore individua una cesura nel corpo del libro in base alla occorrenza di «vanità» e di «inseguire il vento» ripetuti svariate volte in 1,12–6,9 con l’intenzione di segnalare la presenza della fine di una sezione. In 6,9, cioè, il testo si divi‐derebbe in due parti, ciascuna di 111 versetti. La seconda parte, analogamente alla prima, è dominata dalla ripetizione di una fraseologia («trovare/non trovare» e «sapere/non sapere») che segna la sezione 6,10–11,6. La parte finale del libro è occupata dal poema sulla giovinez‐za e sulla vecchiaia (11,7–12,8). A.G. Wright spiega i fattori numerici che sono entrati in fun‐zione. Il valore numerico della parola chiave hebel è 37, il numero delle volte che hebel ricor‐re nel libro (se si prescinde da 9,9). Questo vocabolo è ripetuto tre volte in 1,2 dando così il numero 111 (= 37 x 3), cioè il numero dei versetti che compongono la prima metà del libro.
b) La seconda proposta di strutturazione è stata avanzata da A. Bonora10 e si fonda sulla ripetizione del ritornello: «Anche questo è hebel»:
1,1 Titolo 1,2 Motto programmatico 1,3‐11 Frontespizio: l’uomo nel cosmo e nella storia 1,12–2,26 Pseudo Salomone e la sua esperienza 3,1–4,16 La società umana e le sue contraddizioni 4,17–6,9 Le istituzioni della società 6,10–8,14 Qohelet e la sapienza tradizionale 8,15–12,7 Invito alla gioia e all’azione 12,8 Motto programmatico 12,9‐14 Epilogo
8 Così A.G. WRIGHT, «The Riddle of the Sphinx. The Structure of the Book of Qohelet», in Catholic Biblical
Quarterly 30(1968), 313‐334. 9 Cfr. A.G. WRIGHT, «The Riddle of the Sphinx Revisited: Numerical Patterns in the Book of Qohelet», in
Catholic Biblical Quarterly 42(1980), 38‐51. 10 Cfr. A. BONORA, «Qohelet», in BONORA ‐ PRIOTTO, Libri sapienziali e altri scritti, 78.
100 Qohelet
La prima proposta sembra nascere da una lettura a posteriori più che dall’esplicita volontà dei redattori (che avrebbero dovuto fare un minuzioso e organico lavoro di stesura): è accat‐tivante perché gioca sulla simbologia numerica così importante nella tradizione ebraica me‐dievale, ma aiuta poco a interpretare il senso profondo del libro. La seconda sembra da pre‐ferire perché presenta alcuni elementi formali ricorrenti (il ritornello «anche questo è hebel», il motto programmatico) che scandisce le principali sezioni tematiche dell’opera.
Mancando una sostanziale convergenza sull’unità del libro, anche per la questione del ge‐nere letterario non si ravvisa unanimità di pareri sull’esistenza di una principale forma lette‐raria. Nell’opera non è difficile ravvisare proverbi sciolti (1,15.18.14; 3,20; 4,5‐6.13; 5,27,16‐17; 8,1; 9,2.8), paragoni (2,13; 7,6; 9,12), poemi (1,4‐7; 3,1‐8; 12,1‐7) e una piccola parabola (9,14‐15). Una prima sezione del libro (fino a 3,15) può appartenere al testamento regale, ti‐pico della letteratura del Vicino Oriente Antico, perché il saggio veste gli abiti del re di Geru‐salemme.11 Altri suppongono il genere «diatriba» sul modello dei pensatori stoico‐cinici (IV secolo a.C.).12 Tale genere si caratterizzava per il tono polemico e provocatorio dell’oratore, il ricorso all’ironia e al sarcasmo per esprimere l’indignazione suscitata dalla stoltezza umana, per biasimare energicamente il vizio e l’immoralità e per lo spiccato ricorso alla sentenza. In verità ciò che maggiormente accomuna Qohelet con questo genere è l’aspetto etico e il dia‐logo tra il retore (in questo caso lo scrittore) e un interlocutore. Per altri autori, infine, il libro è una raccolta di esortazioni e ricordi autobiografici di tipo diaristico, di aforismi formulati in prima persona, di pensieri filosofici di un esistenzialista ante litteram.
2. LINEE TEOLOGICHE «In Qohelet si riscontra un atteggiamento eclettico rispetto al materiale teologico dell’An‐
tico Testamento: egli sceglie gli elementi che gli sono utili e passa sotto silenzio gli altri; inol‐tre intese secondo una nuova prospettiva e impose un diverso andamento alle idee che con‐divideva con l’Antico Testamento».13 Questa constatazione aiuta a cogliere la portata della teologia racchiusa nel libro del Qohelet offrendo una chiave di lettura biblica che permette di collocare il pensiero del saggio sulla scia della tradizione da un lato, evidenziando la libera reinterpretazione operata nei suoi confronti dall’altro.
Evidenziamo di seguito le principali tematiche teologiche.
a) Vanità delle vanità. «Vanità delle vanità, dice Qohelet, vanità delle vanità, tutto è vani‐tà» (1,2). Questa frase ha segnato interi trattati di una certa morale cristiana che denunciava l’eccessiva mondanità della vita, sebbene questo significato morale (vanità contrapposto a sobrietà) non sia immediatamente palese. Hebel («vanità») ricorre 73 volte nella Bibbia ebraica e ben 38 in Qohelet. Il suo significato letterale è «vapore», rinviando a qualcosa di in‐consistente ed evanescente, al soffio di vento (cfr. Is 57,13) ed è spesso accostato all’attività umana: i giorni dell’uomo sono soffio (cfr. Sal 39,6‐7; 62,10; Gb 7,16), così come i suoi pro‐getti e le sue azioni (cfr. Sal 94,11; Gb 9,29; Is 49,4). Hebel sono anche gli idoli (cfr. Dt 32,21; Ger 2,5; 14,22). Nelle occorrenze in Qohelet hebel si attesta sia come conclusione di
11 «Il testamento regale ha la propria origine nelle antiche istruzioni egizie; faraoni e visir tramandavano in
forma autobiografica la loro visione del mondo e delle cose come lascito intellettuale che potesse giovare ai giovani di famiglia patrizia aspiranti alle cariche dell’amministrazione dello stato» (MORLA ASENZIO, Libri sapien‐ziali, 156).
12 Cfr. N. LOHFINK, Qohelet, Morcelliana, Brescia 1997, 26; cfr. anche V. D’ALARIO, Il libro del Qohelet. Struttu‐
ra letteraria e retorica, EDB, Bologna 1992, 231‐235. 13 MORLA ASENZIO, Libri sapienziali, 168.
Qohelet 101
un’esperienza fatta e analizzata sia come valutazione relativa alla fugacità della vita (cfr. Qo 6,12; 7,16; 9,9; 11,8.10). Il termine non esprime una considerazione di tipo estetico contrap‐ponendo ciò che è frivolo e frutto di vanità con ciò che, al contrario, sarebbe essenziale e se‐rio. Sin dall’inizio dall’antichità si inaugura un’ermeneutica che conferisce al sostantivo hebel un senso metafisico: la traduzione greca dei Settanta è mataiótēs («vanità, menzogna, futili‐tà») e lo stesso Girolamo rende con vanitas. Su questa scia gli studiosi moderni hanno reso hebel con «assurdo, caduco, inutile, fumo, non senso, zero, nulla, disillusione, vuoto». Forse quest’ultimo termine può coniugare, meglio di «nulla», la portata esistenziale e filosofica con la concretezza della lingua ebraica.
La costruzione superlativa «vanità delle vanità» sembra simile a quella di «Cantico dei Cantici» o «santo dei santi»:14 se, però, per queste due espressioni si può rendere il superla‐tivo con «il più bello dei canti» e con «il luogo santo per eccellenza», la formula «vanità delle vanità» sarebbe da rendere con «interamente, del tutto vano, vuoto», riconoscendo una formula di intensificazione che rafforza un significato negativo. Tale formula, posta all’inizio dell’opera, ha il valore di un vero e proprio slogan o di una «sigla simbolica di Qohelet»,15 giacché si ritrova anche alla fine (12,8) come espressione della volontà dell’editore di rac‐chiudere il libro sotto questa frase.
b) La ricerca del nuovo. Le due espressioni «sotto il cielo» e «sotto il sole» – spesso ripetu‐te nel libro – non sono sinonimiche. Il maestro, infatti, riesce a percepire che sotto il sole, cioè fino al punto limite che l’uomo può raggiungere, non c’è novità sostanziale circa i moti che governano l’universo. La sua saggezza vorrebbe spingersi oltre ma è frustrata nelle sue aspirazioni e, concentrandosi solo sulle vicende sotto il sole, non può che constatare il parzia‐le fallimento del lavoro sapienziale. Il maestro, in effetti, si rende conto che esistono delle realtà che sfuggono al controllo degli uomini e che, all’interno della ricerca, frustrano ogni desiderio di piena conoscenza: «Ciò che è storto non si può raddrizzare e quel che manca non si può contare» (1,15). È bene fare una prima precisazione. Il saggio non cade nel disfat‐tismo né nel relativismo assoluto, secondo il quale non esistono parametri di valutazione cer‐ti e immutabili; tuttavia, Qohelet precisa che la fatica posta in essere nello studio non è sem‐pre proporzionata ai risultati e che spesso l’unica mercede è la sofferenza: «Dove c’è molta sapienza, c’è molto tormento, e se si aumenta il sapere, si aumenta il dolore» (1,18). Provo‐ca, infatti, sofferenza constatare l’esistenza e la permanenza della contraddizione dentro di sé e attorno a sé.
Ma, allora, con quale autorità il maestro può salire in cattedra se alla fine l’unico esito dello sforzo conoscitivo è il fallimento? A cosa serve essere saggi? La risposta giunge dallo stesso saggio: «Non c’è di meglio per l’uomo che mangiare e bere e godersela nelle sue fati‐che; ma mi sono accorto che anche questo viene da Dio» (2,24). Il cammino di ricerca ha dunque portato il maestro d’Israele a una conclusione: «Temi Dio e osserva i suoi comanda‐menti, perché questo per l’uomo è tutto» (12,13). Dopo che Qohelet ha ascoltato ogni cosa, ha ricercato e scrutato ciò che umanamente è possibile osservare, approda a un’afferma‐zione teologica e antropologica che – per quanto minimalista – è una reale professione di fe‐de, riconducendo a Dio l’intera vita morale e intellettiva.
Qohelet non è, quindi, un fedele disincantato, né un edonista che incoraggia il godimento sfrenato della vita: per questa sua profondità, pur tra le critiche dei più devoti, è stato accolto
14 Questa costruzione si ha quando ci sono due sostantivi identici e il secondo è al plurale. Il senso di questa
espressione tipicamente ebraica è quello di esprimere un’idea al superlativo. 15 RAVASI, Qohelet, 21.
102 Qohelet
nel canone ebraico tra i libri che «sporcano le mani», cioè ispirati.16 La lettura di Qohelet nel‐la liturgia sinagogale durante la festa delle Capanne (Sukkôt), esprime, già a partire dal XII se‐colo, la reale ricezione di questo scritto sapienziale, per quanto provocatorie rimangano – anche per il più disincantato lettore moderno – le sue pagine. Le sue considerazioni abbrac‐ciano i doni che procedono da Dio, per cui anche le piccole e ordinarie gioie sono segno della sua benevolenza. Restano, tuttavia, le aporie del pensiero di Qohelet con le sue amare consi‐derazioni: egli non nasconde – come ogni buon docente – le sfide della vita poste in evidenza dalla lettura dialettica della realtà, ma è conscio che la sapienza si esprime, precipuamente, nella maturazione di una visione della vita che può scorgere, davanti all’ambivalenza e alle contraddizioni, la forza insita in ogni avvenimento. Questo momento può essere percepito dal cuore umano come un semplice tratto di un’esistenza superficiale e rassegnata, oppure può rivelarsi come tempo buono, favorevole e, seppur misteriosamente, fecondo in ordine al conseguimento della felicità.
c) Il metodo. Qohelet è il primo sapiente d’Israele a parlare della propria ricerca attraverso uno stile autobiografico: «Io, Qohelet, sono stato re d’Israele in Gerusalemme. Mi sono pro‐posto di investigare e di riflettere, per mezzo della sapienza, su tutto ciò che avviene sotto il cielo. Questa è un’occupazione gravosa che Dio ha dato agli uomini, perché in essa si tormen‐tino» (1,12‐13). Egli penetra in profondità il senso delle cose attraverso lo studio del mondo e delle leggi che lo governano. Il metodo è di natura dialettica: confronta le teorie, legge, ap‐profondisce, confuta alcuni assiomi (12,9). Il suo lavoro è profondo e faticoso («troppo studio affatica il corpo»: 12,12) sebbene gli procuri anche delle soddisfazioni; ha le caratteristiche della moderna ricerca intellettuale che procede per ipotesi, verifiche e successiva critica dei risultati ottenuti in vista della migliore formulazione della tesi. Il saggio comprende che spes‐so la realtà si presenta nella sua contraddittorietà, al punto da preferire le mezze misure e da dissuadere dagli estremi: «Non essere troppo scrupoloso né saggio oltre misura. Perché vuoi rovinarti? Non essere troppo malvagio e non essere stolto. Perché vuoi morire?» (7,16‐17; cfr. anche Pr 26,4‐5).
Il poema sul tempo (Qo 3,1‐15) esprime significativamente il metodo sapienziale di Qo‐helet: attraverso una serie di quattordici coppie si richiamano – appaiandole l’una accanto all’altra – le realtà essenziali che cadono sotto i sensi dell’uomo: c’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per abbracciarsi e un tempo per astenersi dagli abbracci ecc. Cogliere le antitesi e tenerle unite, rispettando le tensioni tra realtà opposte, è sapienza. È sapienza saper accettare questo limite legato al tempo: ciò che si può cogliere, valutare e persino gustare, sono i tempi parziali della vita, non la durata del complessivo scorrere né l’interezza del progetto divino (anch’esso oggetto di esplorazione), perché «solo Dio riporta sempre ciò che è scomparso» (3,15). Perciò, se è vero che il tempo vissuto qui e ora – pur tra tensioni – è buono, la realtà ultima rimane incomprensibile o solo parzialmente disponibile all’intelligenza del ricercatore. Solo Dio possiede l’intera visione del mondo, sebbene egli ab‐bia posto nel cuore umano il mistero dell’eternità senza che l’uomo riesca a cogliere l’unità del disegno.
Ma anche questo desiderio di totalità − sebbene sia bloccato in una lettura terrena e oriz‐zontale perché per Qohelet non c’è la vita oltre la morte – resta fuori dalla portata dell’essere umano. All’uomo è dato, però, di cogliere il tempo opportuno (‘ēt) nel generale accadere de‐gli eventi (zeman) comune a tutti (3,1). Detto in altri termini: il Signore, quindi, ha fatto ogni cosa in un krónos, ma ha dato di cogliere la bellezza delle singole cose nel suo kairós (3,11). La sapienza consiste nell’accogliere questo tempo bello e nel prendere coscienza della sua
16 Sulla discussione circa la canonicità di Qohelet rimandiamo a VÍLCHEZ LÍNDEZ, Qoèlet, 91‐100.
Qohelet 103
vocazione a trascendere il singolo momento, aprendosi a una visione della vita legata a oriz‐zonti più ampi.
d) La sapienza. Qohelet è in cerca della sapienza. Il termine si ritrova nei cc. 1–2 e 7–10, cioè non se ne parla diffusamente. Egli fu un sapiente illustre, nel senso che ne conseguì una misura considerevole più di chiunque altro lo abbia preceduto senza, tuttavia, goderne a pie‐no. Per Qohelet il risultato della sua ricerca è, in buona sostanza, deludente: ammette che il vantaggio del saggio sullo stolto è che il primo ha gli occhi in fronte, cioè ha coscienza di sé e di ciò che gli accade attorno, anche se alla fine entrambi faranno la stessa fine (2,13‐14). La sua accezione di sapienza è quella classica – di regola di vita e di comportamento – ma a che serve essere sapienti se troppo sapere affatica il corpo (12,12)? Anche la sua sapienza è vani‐tà? Egli non arriva ad asserire ciò ma si comprende tutta la frustrazione nel mancato raggiun‐gimento di quella padronanza delle leggi della vita che ogni sapiente vorrebbe conseguire. È vero che la sapienza è più sicura del denaro (7,11‐12) e che conferisce un potere più stabile di quello dei regnanti; è forza che può salvare dagli eserciti (anche se colui che ha salvato la città con la sua sapienza viene subito dimenticato e messo da parte: 9,14‐18). Possiamo dire che la sapienza conferisce un potere assimilabile a quello dell’incantatore di serpenti: l’abilità di non farsi mordere schivando il veleno dell’animale (10,10). Ma nonostante tutto ciò, nean‐che il sapiente porta la sua sapienza nello še’ôl (9,10).
e) Il profitto. Il termine ebraico yitrōn compare dieci volte nel libro e quindi ha una sua im‐portanza. Per Qohelet, se tutto è vanità, è perché non scorge alcun profitto per l’uomo che si affatica sotto il sole. Anche perché la morte giunge inesorabilmente vanificando ogni sforzo e ogni pena umana. Se la sapienza classica lodava il laborioso e deplorava il pigro, il vantaggio del primo sul secondo non sembra più essere, in ultima analisi, così evidente: dove starebbe il rea‐le profitto, si domanda Qohelet, considerando che la morte costringe ad abbandonare tutto (beni, figli, fama, ecc.) ad altri? Come e più di Giobbe, egli denuncia l’ingenuità con cui è formu‐lata la teoria della retribuzione. Davanti a un pensiero troppo ottimistico e naïf, esageratamen‐te distante dalla vicenda degli uomini, egli fa esperienza della complessità della vita e delle di‐namiche che determinano il suo corso. Interroga criticamente il sistema chiuso di una certa teologia retributiva, incapace di dialogare con l’ambiguità dell’esperienza. Non individuando al‐cuna prospettiva ultraterrena e imprigionato nell’orizzonte terreno, non può che constatare l’illusorietà di una vita spesa alla ricerca della sapienza senza mai raggiungerla.
f) La gioia e la sofferenza. Queste considerazioni non gettano nella disperazione il saggio ma ne ridimensionano fortemente le attese di gloria e benessere che, secondo i canoni della sapienza tradizionale, dovrebbero rendere pienamente felice la vita dei giusti. Per tale ragio‐ne Qohelet per sette volte menziona le gioie che egli considera buone, incoraggiandone il godimento e invitando a interpretarle come dono di Dio: mangiare, bere e godere del lavoro (2,24; 3,12‐13.22; 5,17; 8,15), la propria sposa (9,9) e la giovinezza in genere (11,9). Il conce‐dersi ai piaceri ha portato alcuni autori a considerare il saggio come un edonista. Ciò non sembra corrispondere al vero in quanto egli professa un castigato equilibrio nei confronti del‐la vita non incoraggiando mai gli eccessi.17 Potremmo dire che, a fronte delle delusioni – la fatica umana non porta a nulla (2,12‐23; 5,12‐16), l’uomo ignora il proprio futuro (3,1‐15) e l’agire divino (8,16–9,6), l’ingiustizia regna e resta impunita (3,16‐21; 8,10‐14), la ricchezza
17 In questo senso notiamo che la frase di Qohelet «non essere troppo giusto... non essere troppo stolto»
(7,16‐17) è stata spesso interpretata come la ricerca del giusto mezzo: «È chiaro che Qohelet consiglia in mora‐le una via di mezzo, un’aurea mediocritas, ma poiché la sua problematica è diversa da quella di Orazio e da quella di Aristotele, è certo che egli non vuole affatto dire né che ogni virtù è media tra due vizi, né che bisogna rinunciare alla virtù eroica» (P. SACCHI, Ecclesiaste, Paoline, Roma 1971, 185).
104 Qohelet
non giova (5,9‐19) e la vita è troppo breve (11,7–12,7) – «ciò che Qohelet consiglia, in tanto sfacelo della vita umana, è non lasciar passare le poche gioie semplici e immediate del mo‐mento presente; però non predica affatto il godimento sfrenato né gli eccessi, ma suggerisce di restare ben incollati al presente, senza lasciarsi sfuggire quella parte di felicità, per quanto minuta, che Dio ci manda».18
BIBLIOGRAFIA
BELLIA G. ‐ PASSARO A. (edd.), Il libro del Qoelet. Tradizione, redazione, teologia, Paoline, Mila‐no 2001.
BONORA A., Qoélet, in A. BONORA ‐ M. PRIOTTO (edd.), Libri sapienziali e altri scritti (Logos 4), LDC, Torino‐Leumann 1997, 71‐83.
BONORA A., Qohelet. La gioia e la fatica di vivere (LoB 1,15), Queriniana, Brescia 1987. CRENSHAW, J.L., Ecclesiastes (OTL), Philadelphia 1987. D’ALARIO V., Il libro del Qoelet. Struttura letteraria e retorica, EDB, Bologna 1993. DI FONZO L., Ecclesiaste (BG), Marietti, Torino‐Roma 1967. FOX M.V., Qohelet and His Contradictions, Sheffield 1989. GORDIS R., Koheleth. The Man and His World, New York 31978. LAURENTINI G., Ecclesiaste o Qoelet, in T. BALLARINI (ed.), Ultimi storici, Salmi, Sapienziali (Intro‐
duzione alla Bibbia 3), EDB, Bologna 1978, 423‐442. LOHFINK N., Qohelet, Morcelliana, Brescia 1997. MAGGIONI B., Giobbe e Qoelet. La contestazione sapienziale nella Bibbia, Cittadella, Assisi
2002. MAZZINGHI L., Ho cercato e ho esplorato. Studi sul Qoelet, EDB, Bologna 2001. MORLA ASENSIO V., Il libro dell’Ecclesiaste, in IDEM, Libri sapienziali e altri scritti (Introduzione
allo studio della Bibbia 5), Paideia, Brescia 1997, 147‐174. PAHK, J.Y.‐S., Il canto della gioia in Dio. L’itinerario sapienziale espresso dall’unità letteraria in
Qohelet 8,16–9,10 e il parallelo di Gilgameš Me. iii (Istituto Universitario Orientale. Dipartimento di Studi Asiatici. Series Minor 42), Napoli 1996.
RAVASI G., Qoelet, il libro più originale e “scandaloso” dell’Antico Testamento, San Paolo, Cini‐sello Balsamo 2001.
RAVASI G., Qohelet, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Paoline, Cinisello Balsamo 1988, 1272‐1278.
SACCHI P., Ecclesiaste, Paoline, Roma 1971. VÍLCHEZ LÍNDEZ J., Qoèlet, Borla, Roma 1997. WHYBRAY R.N., Ecclesiastes, Grand Rapids 1989. WRIGHT A.G., Qohelet, in Nuovo Grande Commentario Biblico, Queriniana, Brescia 1997, 638‐
646. Infine, il numero unico di Parole di Vita, n. 3/2003: «Il libro di Qohelet».
18 GILBERT, La Sapienza del cielo, 111‐112.
CANTICO DEI CANTICI*
1. QUESTIONI STORICO‐LETTERARIE Il Cantico dei Cantici si apre con parole appassionate: «Baciami con i baci della tua bocca:
le tue carezze sono migliori del vino. I tuoi profumi sono soavi a respirare, aroma che si ef‐fonde è il tuo nome: per questo ti amano le fanciulle. Attirami a te, corriamo! Fammi entrare, o re, nelle tue stanze: esulteremo e gioiremo per amore tuo, celebreremo i tuoi amori più che il vino. Com’è bello amarti!» (1,2‐4). Palese e incalzante è il desiderio dell’incontro tra gli amanti che si cercano per consumare nell’intimità la propria unione. Questa è la peculiarità di una composizione breve ma intensa, che tanto ha influito su ebraismo e cristianesimo.
1.1. AUTORE, LINGUA E DATAZIONE
La tradizione ebraica attribuisce a Salomone la paternità dello scritto (1,1). Oggi lo si con‐sidera un anonimo, di cui però si può delineare un profilo: «è senz’altro un ebreo colto, aper‐to alla cultura greca, buon conoscitore della lirica alessandrina e della letteratura d’amore egiziana classica; il nostro poeta resta tuttavia un israelita profondamente ancorato alla pro‐pria tradizione».1
La sua raffinata formazione trova un riscontro nel suo vocabolario ricercato: il testo ebrai‐co del Cantico consta di appena 1250 parole (lo 0,42% dell’intera Bibbia ebraica); di queste una quarantina (per alcuni autori 37, per altri 49) sono hapax legomena, cioè ricorrono solo qui non attestandosi nel resto della Bibbia.
La presenza di aramaismi, grecismi e influssi persiani2 induce a collocare la stesura finale del libro in epoca postesilica (più probabilmente nel IV secolo a.C.). La scoperta di quattro manoscritti a Qumran (4Q106, 107, 108; 6Q6) composti tra il 30 a.C. e il 50 d.C. confermano sostanzialmente il testo masoretico che è giunto fino a noi e dimostrano che come opera esi‐steva già nel I secolo a.C.
1.2. STRUTTURA
Non è facile districarsi nella giungla delle proposte di strutturazione del Cantico dei Canti‐ci; le ipotesi in merito individuano un ventaglio di strutture che si distende da un minimo di 4 parti a un massimo di 52.3
La presenza di ritornelli che attraversano il libro (l’invito a non svegliare l’amore di 2,7; 3,5; 8,4; la dichiarazione dell’unione tra i due di 2,16; 6,3; 7,11; il richiamo alla «salita» di 3,6; 6,10; 8,5), l’attestazione di simboli costanti (il giardino in 4,12‐16; 5,1; 6,2; la vigna in 1,6; 8,11‐12; i fiori di papavero in 2,1.2.16; 4,5; 5,13; 6,2‐3; 7,3; il melograno in 4,3.13; 6,7.11; 7,13; 8,3), la reiterazione strategica di parole‐chiave («figlie di Gerusalemme» per 6 volte; «amore» per 18 volte; «amica» per 9 volte) e il dialogo tra la donna, l’uomo e il coro, sono i
* S. PINTO, Cantico dei Cantici, in S. PINTO, I segreti della Sapienza. Introduzione ai Libri sapienziali e poetici,
San Paolo, Cinisello Balsamo 2013, 275‐303. 1 L. MAZZINGHI, Il Cantico dei Cantici, San Paolo, Cinisello Balsamo 2012, 33. 2 Va segnalato il termine attestato nell’ebraico postesilico pardēs di 4,13 («giardino», anche in Gen 2,9; Qo
2,5; Ne 2,8) da pairi‐daēza («recinto» o «orto con mura di cinta») o para‐didam («dietro il muro») che i Settan‐ta hanno tradotto parádeisos (mentre la Vulgata mantiene il senso ebraico rendendo con hortum).
3 In proposito rimando al quadro riassuntivo offerto dal poderoso commentario di G. RAVASI, Il Cantico dei
Cantici. Commento e attualizzazione, EDB, Bologna 1992, 90‐91.
106 Cantico dei Cantici
chiari indizi di un’organizzazione testuale che ha voluto organizzare brani in origine indipen‐denti.
La nostra scelta, solo una tra le altre, accoglie la proposta di M.T. Elliot in quanto basata non solo su elementi contenutistici e tematici ma anche su espedienti letterari (ritornelli, termini iniziali e finali):4
Prologo: 1,2–2,7 («La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia»: 2,6; «Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle o per le cerve dei campi: non destate, non scuote‐te dal sonno l’amata, finché essa non lo voglia»: 2,7)
I Parte: 2,8–3,5 («Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle o per le cerve dei campi: non destate, non scuote‐te dal sonno l’amata, finché essa non lo voglia»: 3,5)
II Parte: 3,6–6,3 («Cos’è che sale dal deserto...?»: 3,6) a) 3,6–4,5 («... che pascolano tra i gigli»: 4,5) b) 4,6–6,3 («... che pascola il gregge tra i gigli»: 6,3)
III Parte: 6,4–8,4 («La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia»: 8,3; «Io vi scongiuro figlie di Gerusalemme, per le gazzelle o per le cerve dei campi: non destate, non scuotete dal sonno l’amata, finché non lo voglia»: 8,4)
Epilogo: 8,5‐14 («Chi è colei che sale dal deserto?»: 8,5).
Questo schema non individua delle chiare corrispondenze tra le parti: ci limitiamo a met‐tere in luce come la ripetizione di alcune frasi conferisca al testo del Cantico, che rimane composito, un’intelaiatura di fondo voluta da un redattore finale. L’unità del Cantico è impo‐sta dall’esterno e non può rintracciarsi dalla logica interna; se ci si sposta al contenuto del li‐bro allora si può dire che ciò che può unificare le diverse parti è la tematica amorosa. Non è neppure possibile cogliere la progressione di quest’amore (sebbene in 8,5‐7 sembri palesarsi un possibile vertice che però viene abbandonato nei versetti successivi): i due amanti si rin‐corrono ma non c’è una trama reale che unisce le scene.
1.3. GENERE LETTERARIO
Non si può legare il Cantico a un solo genere letterario. Tutt’al più si può supporre l’esi‐stenza di più generi che riguardano alcune sue parti.
a) Poesia nuziale. Coloro che rinvengono tale genere leggono in 3,6‐11 il Sitz im Leben di un matrimonio con la descrizione di un corteo nuziale (che, come nelle tragedie greche, fun‐ge da voce fuori campo e rannoda al poema successivo). Questi canti matrimoniali trovereb‐bero il culmine in 8,6‐7, in cui ci sarebbe lo scambio del dono dell’amore e della promessa di fedeltà.
L’ipotesi sarebbe avallata da almeno due brani (1,5‐6 e 8,8‐10) che rientrerebbero nel ge‐nere nuziale e che sarebbero da attribuire al sottogenere «auto‐descrizione», cioè la presen‐tazione che la sposa fa di sé all’interno di tale poesia d’amore. Più precisamente R.E. Murphy5 attribuisce 1,5‐6 al genere in questione. Gli elementi della struttura di tale genere che l’autore rintraccia in 1,5‐6 sono:
4 M.T. ELLIOT, The Literary Unity of the Canticle (Europäische Hochschulschriften 23), Peter Lang, New York
1989, 40. 5 R.‐E. MURPHY, The Song of Songs, Fortress, Minneapolis 1990, 60‐62.
Cantico dei Cantici 107
dichiarazione «io» («Bruna sono ma bella»: v. 5a); indirizzo, cioè a chi si parla («Oh figlie di Gerusalemme»: v. 5a); elemento di paragone («Come le tende di Kedar, come i padiglioni di Salma»: v. 5b); proibizione («Non state a guardare che sono bruna»: v. 6a); atteggiamento dei fratelli («I figli di mia madre si sono sdegnati con me»: v. 6b); cura per la propria vigna («la mia vigna, la mia, non l’ho custodita»: v. 6b).
Anche in 8,10‐12 comparirebbero quattro elementi di tale struttura e cioè la dichiarazione «io» («Io sono un muro»: v. 10a), l’indicazione di colui a cui si parla («Così sono io ai tuoi oc‐chi»: v. 10b), l’elemento di paragone («Come torri»: v. 10a; «Come colei che ha trovato pa‐ce»: v. 10b) e l’indicazione della cura della propria vigna espressa con l’affermazione della sua unicità («La mia vigna, proprio mia, mi sta davanti... »: v. 12a) e del suo valore superiore al denaro («A te Salomone i mille sicli, e duecento per i custodi del suo frutto»: v.12b).6
Se è possibile individuare uno schema formale di tale genere, più difficile è, tuttavia, rin‐tracciare la situazione concreta all’interno del quale collocare tale auto‐descrizione. Non possedendo ulteriori elementi per ragioni contenutistiche, possiamo ipotizzare che il canto nuziale fosse composto da una parte in cui la sposa (o qualcuno per lei) parlava in prima per‐sona di se stessa e delle difficoltà che aveva incontrato per custodire il suo amore fino al giorno del suo matrimonio.
b) Māšāl, la forma sapienziale più tipica. Sarebbe il genere di 8,5‐7. I motivi formali che avallano questa posizione sono i seguenti:
– ricorso a una struttura ritmica: nei versetti in questione si preferisce l’accento 3 + 3;7 – utilizzo del parallelismo, il ricorso stilistico più usato nel genere māšāl; nel nostro testo abbiamo un paral‐lelismo sinonimico e binario (forte‐insaziabile, morte‐še’ôl, amore‐gelosia, grandi acque‐fiumi, spegnere‐travolgere);
– assonanza vocalica e consonantica;8 – stile conciso e vivace.
Accanto a questi riferimenti, la dimensione sapienziale del Cantico emerge più diffusa‐mente nel momento in cui riporta l’amore di coppia alla sua dimensione secolare, sgancian‐dolo dai culti pagani (cananei e greci). Il passo di Pr 5,5‐19, in cui il padre‐maestro invita a godere della bellezza della propria moglie,9 trova infatti eco in quei passi del Cantico in cui si accosta la donna all’acqua (Ct 4,12.15) e si menzionano i suoi seni (Ct 4,5; 7,4.8‐9). Ma la co‐
6 Alcuni individuano il genere letterario wasf, legato alle descrizioni del corpo della donna, attestato nel
mondo arabo ma i cui antecedenti sarebbero egizi; oppure prendendo spunto dall’immagine della porta chiusa, il genere di derivazione ellenistica del paraklausithyron, assunto liberamente in 2,8‐17; 5,2‐8. Infine segnalo che, tra le descrizioni che rientrano nel procedimento poetico tipico del Cantico, c’è anche il travestimento del diletto che è presentato a volte come un re (1,4.12), a volte come un pastore (1,7).
7 Anche se tra gli autori non c’è accordo unanime sulla metrica di 6b, che per alcuni si presenta come 3 + 2,
per altri come 3 + 3 e 2 + 2, o, come il testo masoretico presenta, 3 + 2; mentre c’è accordo circa 7a visto come 3 + 2 + 2.
8 Il v. 5a presenta l’allitterazione con la consonante iniziale mem (mî zōt ‘ōlāh minhammidbār mitrappeqet);
in 5b troviamo il parallelismo tra šāmmāh ḥibbelatkā («lì dove ti ha concepito») e šāmmāh ḥibbelāh («lì dove ha concepito»); inoltre incontriamo il fenomeno della rima a causa del suffisso di 2a persona singolare maschile: ḥibbelatkā ’immekā šāmmāh ḥibbelāh yelādatkā. Nel v. 6 abbiamo i fenomeni dell’allitterazione con k/q e š, nonché dell’alternanza delle vocalia ed o: śîmēnî kaḥôtām ‘al‐libbekā kaḥôtām ‘al‐zerô‘ekā kî‐‘azzāh kammāwet ’ahăbāh qāšāh kiš’ôl qin’āh rešāfeyhā rišpê ’ēš šalhebetyāh. Infine nel v. 7 domina il suono della consonante b: mayim rabbîm lō’ yûkelû lekabbôt ’et‐hā’ahăbāh ûnehārôt lō’ yišiṭefûhā ’im‐yittēn ’îš ’et‐kōl‐hôn bêtô bā’ahăbāh bôz yābûzû lô.
9 «Bevi l’acqua della tua cisterna e quella che zampilla dal tuo pozzo. Non scorrano fuori le tue fontane né
sulle piazze i tuoi ruscelli. Siano per te soltanto e non per gli estranei insieme a te. Sia benedetta la tua sorgen‐te! Possa tu trovare la gioia nella donna della tua giovinezza, amabile cerbiatta e gazzella deliziosa. I suoi seni ti inebrino in ogni tempo: sii tu sempre attratto dal suo amore!».
108 Cantico dei Cantici
sa che più colpisce è il superamento di certi ammonimenti sapienziali a favore di una conce‐zione più libera dell’amore (e della donna). Per esempio, se in Pr 5,3 si mette in guardia dalla pericolosa dolcezza delle labbra della donna straniera, cioè delle sue parole («Veramente le labbra della straniera stillano miele e il suo palato è più molle dell’olio»), in Ct 4,11 tale con‐siglio è ripreso e riconsegnato con una valenza positiva in rapporto all’amata: «Nettare stilla‐no le tue labbra, o sposa, miele e latte sono sotto la tua lingua e la fragranza delle tue vesti è come la fragranza del Libano». Questa dolcezza è in contrasto, inoltre, con l’amarezza con cui la donna è presentata in Qo 7,26‐27, sebbene anche il disincantato Qoelet riconosca che l’amore verso la propria donna rientra tra le poche gioie della vita (Qo 9,9).
Il tratto sapienziale del Cantico si ravvisa, perciò, nella sua apparente profanità, frutto del suo radicamento in quelle realtà fondamentali e necessarie per la vita, com’è appunto l’amore; ed è precisamente questo radicamento nell’essere umano che porta con sé un forte rimando al divino.
c) Midrash. Altri autori vedono il Cantico come un midrash di Gen 1–3, sulla creazione dell’uomo e della donna. A proposito del midrash, più che un genere letterario sarebbe me‐glio considerarlo un procedimento (o un approccio) letterario d’interpretazione, perché non si rintracciano in esso dei motivi formali caratteristici che possano contribuire a determinare e catalogare il genere in modo chiaro e inequivocabile (vocabolario tipico, espressioni stereo‐tipate, formule fisse, con figure retoriche specifiche, temi tipici). Se, comunque, si intende ravvisare un midrash nel Cantico, esso sarebbe orientato alla redenzione di una storia d’amo‐re andata male, per così dare all’uomo la possibilità di ritornare alle sue origini, cioè all’ideale progetto voluto da Dio.
d) Poesia erotica. C’è chi ha ravvisato il genere letterario della lirica erotica: il Cantico è una trattazione sull’amore e la donna, che ne è protagonista (nelle tre tipologie della sposa, della donna libera e della prostituta), esprime la sua sessualità con totale libertà, sprezzante dei freni inibitori imposti dai maestri di Pr 1–9.10 Nel descrivere la carnalità e la sublimità dell’amore, l’autore ricorre a un ricco repertorio di immagini. Egli prende a prestito il mondo della natura, coinvolgendo il cosmo intero in questo risveglio dell’amore simbolizzato dalla primavera (2,11‐12). La rappresentazione coinvolge i cinque sensi umani facendo emergere la sensualità degli affetti: l’odorato («L’odore dei tuoi profumi sorpassa tutti gli aromi»: 2,10; «Il profumo delle tue vesti è come profumo del Libano»: 2,11), la vista («Come sei bella, amica mia, come sei bella! Gli occhi tuoi sono come colombe, dietro il tuo velo; le tue chiome come un gregge di capre»: 4,1), il gusto («Le tue labbra stillano miele vergine, o sposa, c’è miele e latte sotto la tua lingua»: 2,11), il tatto («La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia»: 2,6 e 8,3; «Trovandoti fuori ti potrei baciare e nessuno potrebbe disprezzarmi; ti condurrei, ti introdurrei nella casa di mia madre, mi insegneresti l’arte dell’amore»: 8,1) e l’udito («Una voce! Il mio diletto!»: 2,8; «Il tempo del canto è tornato»: 2,12).
Un aspetto particolare del genere «poesia erotica» è quello della ierogamia così come è stata descritta all’interno del culto mesopotamico. Il Cantico sarebbe una specie di libro litur‐gico che, sotto le spoglie dell’amore tra lui e lei, celebra il rito delle nozze divine tra due divi‐nità che presiedono alla fertilità e fecondità (Ištar e Tammuz, Astarte e Adone, Iside e Osiride, ‘Anat e Ba’al, Šalmit e Dôd, cioè tra le divinità che presiedono alla fertilità e alla fecondità). Un esempio di questa interpretazione, che chiamiamo mitico‐cultica, si trova nella posizione di M.H. Pope: egli classifica Ct 8,6 («Forte come la morte è l’amore, insaziabile come gli inferi è la gelosia») come genere letterario «canto funebre», in cui si esalta la vittoria dell’Amore sulla Morte secondo il modello caro al mondo greco di Eros e Thanatos; la dimensione eroti‐
10 G. GARBINI, Il Cantico dei Cantici, Paideia, Brescia 1992.
Cantico dei Cantici 109
ca che emerge dall’intero Cantico ben si accorderebbe con tali celebrazioni funerarie, che nell’Antico Oriente comprendevano anche banchetti con pratiche sessuali.11
Questa interpretazione tradisce chiaramente una pre‐comprensione ermeneutica dell’in‐tero Cantico incline al comparativismo, pregiudizio che ha dominato per diversi decenni nell’esegesi secondo il quale il paragone con le culture con cui Israele è venuto a contatto ha contribuito a determinare anche la sua religiosità. Difficilmente si può accettare una tale proposta in quanto non è facile immaginare un Sitz im Leben in Israele in cui tale letteratura possa essere concepita, vista anche la costante polemica che la Bibbia lancia nei confronti della sessualità legata a un culto della fertilità. Un’impostazione del genere comporta, inoltre, la svalutazione del testo biblico operando nei suoi confronti un riduzionismo che non lascia spazio all’originalità della tradizione biblica.
Sono convinto, in conclusione, che l’amore del Cantico sia quello tra un uomo e una don‐na: il genere nuziale, pur con i limiti segnalati, mi pare quello che maggiormente possa aiuta‐re a comprenderne il senso. Forse in origine tali poemi s’ispiravano ai canti d’amore egiziani con cui venivano istruiti i giovani di corte:12 nonostante la distanza temporale tra questi (1300‐1100 a.C.) e il Cantico, alcuni temi sono comuni (la reciprocità tra gli amanti, il ricorso alla metafora, il travestimento dei personaggi). Questo accostamento permetterebbe anche di precisare meglio, secondo G. Barbiero, la datazione del Cantico: «La collocazione del Canti‐co nell’epoca tolemaica può rendere conto della particolare vicinanza con i canti d’amore egi‐ziani; anche se anteriori di un millennio, è verosimile che essi fossero conosciuti nell’am‐biente raffinatamente culturale di Alessandria».13
1.4. CANONICITÀ DISCUSSA
La discussione rabbinica registra una pluralità di posizioni sulla canonicità del Cantico (perché ritenuto troppo scandaloso) riguardo alla sua «pesantezza» o «leggerezza», alla ca‐pacità di «sporcare le mani» o di «non sporcarle» e, in definitiva, alla natura di testo ispirato. La posizione di rabbì Aqiba alla fine prevale: «Dio ne scampi! Nessuno in Israele ha mai con‐testato che il Cantico dei Cantici sporchi le mani, perché il mondo intero non vale il giorno in cui il Cantico dei Cantici è stato donato a Israele».14
La celeberrima frase di Aqiba, secondo cui «tutte le Scritture sono sante, ma il Cantico dei Cantici è il Santo dei Santi» (Mishnà, Yadayim 111,5), pronunciata intorno al 90 d.C., durante il sinodo rabbinico di Yamnia, spinge nella direzione di una «canonizzazione»: la soluzione all’imbarazzo che la tradizione ebraica prova davanti all’eccessiva sensualità del Cantico viene risolta attraverso un’ermeneutica allegorica del testo.15 Analoga opzione sarà fatta dalla tra‐dizione cristiana.
11 M.‐H. POPE, Song of Songs, A New Translation with Introduction and Commentary, Anchor Bible 7C, Dou‐
bleday, New York 1977. 12 Cfr. E. BRESCIANI, Letteratura e poesia dell’Antico Egitto, Einaudi, Torino 1990, 452‐477. 13 G. BARBIERO, Cantico dei Cantici, Paoline, Milano 2004, 48. 14 Il rimando principale di questo capitolo sul Cantico è a S. PINTO, «La natura teologica dell’amore umano in
Cantico dei Cantici 8,5‐7», in Rivista di Scienze Religiose 37(2005), 5‐31. 15 Il Cantico fu inserito dalla tradizione liturgica ebraica nelle megillôt, cioè nei cinque rotoli destinati alla
lettura sinagogale (Rut, Cantico, Lamentazioni, Qoelet, Ester) e, probabilmente a partire dal V secolo, fu letto in occasione della festa di Pasqua.
110 Cantico dei Cantici
2. VISIONE TEOLOGICA GLOBALE: AMORE UMANO E/O DIVINO
Il tentativo di rintracciare uno o più generi nel Cantico fa emergere la complessità del libro stesso in rapporto alla natura dell’amore in esso descritto. Muovendo dall’interpretazione al‐legorica che ha segnato per secoli l’ermeneutica del Cantico, volgeremo la nostra attenzione al dato letterale, nel tentativo di evidenziare il senso teologico in esso presente senza neces‐sariamente mutuarlo dall’esterno.
a) L’allegoria dell’amore divino. Nella tradizione ebraica si opera un’interpretazione in chiave messianico‐escatologica del Cantico, tendenza già presente dalle prime battute del Targum in cui si enumerano i dieci cantici che sono stati formulati lungo la storia della salvez‐za, da Adamo fino all’ultimo, quello escatologico, il cantico dei redenti; il Cantico dei Cantici è il nono canto ponendosi immediatamente prima della parousía finale. In Ct 1,5, per esempio, si legge: «Io sono bruna ma graziosa, figlie di Gerusalemme, come le tende di Kedar, come le cortine di Salma». La donna si scusa per il colore della pelle che tradisce la sua bassa condi‐zione sociale (si è abbronzata lavorando all’aperto). Il Targum rilegge il versetto in chiave ido‐latrica collegandolo all’episodio del vitello d’oro di Es 32: «Quando i figli della casa d’Israele fecero il vitello, il loro volti divennero neri come quelli dei figli di Kush, che abitano nelle ten‐de di Kedar. Quando invece si pentirono e si convertirono, lo splendore della gloria del loro volto divenne come quello degli angeli: poiché essi fecero la cortina del tabernacolo».16 Op‐pure, la frase che descrive l’abbraccio amoroso tra il diletto e l’amata («La sua mano sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia»: 2,6) diventa la metafora della protezione assi‐curata al popolo nel deserto da parte di Dio: «Quando il popolo della casa d’Israele andava nel deserto, le nubi della gloria li abbracciavano. Quattro ai quattro venti del mondo, perché contro di loro non avesse forza il malocchio; uno sopra di loro, perché su loro non avessero forza né l’ardore e il sole, né la pioggia e la grandine; una sotto di loro, che li portava come il papà porta in braccio il suo bambino, e una che li precedeva di un cammino di tre giorni, per abbassare le montagne e innalzare le valli, e uccidere tutti i serpenti infuocati e gli scorpioni del deserto, e cercava per loro il luogo adatto per passarvi la notte».17 O, ancora, il versetto che recita «Vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle e per le cerve del campo: non svegliate, non risvegliate l’amore, finché non lo desideri!» (3,5), è collegato alla permanenza nel deserto: poiché gli abitanti di Canaan hanno distrutto il loro paese per renderlo inospita‐le, il Signore ha deciso di trattenere il suo popolo nel deserto, sia per concedere il tempo ne‐cessario per la ricostruzione sia perché la Legge possa impregnare il corpo degli israeliti; per‐ciò «Disse Mosè ai figli d’Israele: Io vi scongiuro, o assemblea d’Israele, per il Signore delle schiere e per il potente della casa d’Israele, che non osiate salire alla terra dei Cananei finché non siano compiuti quarant’anni e non sia beneplacito davanti al Signore di dare nelle vostre mani gli abitanti di quella terra».18
L’influsso dell’ermeneutica allegorica ha portato le versioni antiche (greca, siriaca e latina) a leggere il testo nella prospettiva della storia amorosa tra Dio e il suo popolo. Accanto ad armonizzazioni con i passi paralleli, espansioni testuali con l’intento di spiegare il senso oscu‐ro dell’ebraico, si nota, per esempio, che se nell’ebraico in 8,5 è la donna che sveglia, genera e partorisce l’uomo, la versione siriaca muta il genere dei suffissi facendo così della figura maschile (Dio o Cristo) il protagonista dell’azione. Da parte sua, in riferimento ai verbi «sve‐
16 U. NERI (a cura di), Il Cantico dei Cantici. Targum e antiche interpretazioni ebraiche, Città Nuova, Roma,
1987, 84‐85. 17 NERI (a cura di), Il Cantico dei Cantici, 99‐100. 18 NERI (a cura di), Il Cantico dei Cantici, 115.
Cantico dei Cantici 111
gliare, concepire e partorire» e al sostantivo «madre», la versione siriaca presenta un suffisso di seconda persona femminile singolare e non di seconda maschile singolare, come invece ha il testo masoretico; ciò può essere attribuito all’interpretazione allegorica che tale versione ha fatto del testo, ermeneutica che ha portato a individuare la donna come l’oggetto dei ver‐bi in quanto identificato con la fanciulla Israele, mentre il soggetto era maschile perché iden‐tificato con YHWH. Tale lettura si presterebbe a un’interpretazione mitologica in quanto ve‐drebbe la divinità maschile (Tammuz, Adone, Dôd in questo caso) mentre risveglia quella femminile (Ištar, Astarte, Šalmit in questo caso).
Anche in ambito cristiano l’esegesi patristica e spirituale ha operato la medesima «trasla‐zione» di senso, lasciando alla storia dell’interpretazione interessanti commenti morali e spi‐rituali del Cantico. Ricordiamo, per esempio, il commento di Origene (che giunge solo fino a 2,15), di Gregorio di Nissa (anch’esso incompleto perché commenta fino a 6,9) e di Teodoreto di Cirro. Menzioniamo anche il commento di Teodoro di Mopsuestia (IV secolo) che, fedele alla scuola antiochena, elabora un’esegesi letterale del testo biblico, arrivando alla conclusio‐ne che, poiché non compare mai nel Cantico né il nome del Signore né di YHWH, il libro non aveva la forza della profezia, cioè non era ispirato. La posizione «audace» di Teodoro fu con‐dannata nel II Concilio di Costantinopoli (553), che riaffermò l’ispirazione e la canonicità del Cantico.19
Ambrogio, sulla scia delle interpretazioni moralistiche, non ha un commento esplicito al Cantico dei Cantici, anche se nelle sue opere si attestano spessissimo dei riferimenti al libro (Le vergini del 377, La verginità del 386‐387, L’educazione della vergine del 393).20 Sappiamo che il vescovo di Milano è il primo a identificare ne L’educazione della vergine la sposa del Cantico con la Vergine Maria, la quale è vista anche come «tipo della Chiesa».21 Ma è soprat‐tutto in opere come Commento al Sal 118 e Isacco o l’anima che egli cita diversi passi del Cantico, al punto da permettere a Guglielmo abate di Saint‐Thierry (nel XII secolo) la minu‐ziosa raccolta di queste citazioni in un unico volume.22
In chiave ecclesiale sono interpretate anche le volpi di Ct 2,15: sono figura di coloro che creano divisioni e seminano menzogne nella Chiesa, ingannando i cristiani che non sono an‐cora saldi nella vera fede. Afferma Teodoreto di Cirro che «con il termine “volpi” si intendono gli eretici che portano guerra al popolo nella Chiesa e che tentano furtivamente e subdola‐mente di trarre in inganno coloro che non sono ancora saldi nella fede. Tramite una parola persuasiva e incalzante, e intricate argomentazioni essi ingannano i semplici e danneggiano le vigne».23
La «densa» ermeneutica rabbinica e patristica sviscera dal testo significati profondi che non gli appartengono immediatamente, anche se non gli sono del tutto estranei in una logica di senso pieno delle Scritture. Questa lettura del Cantico ha permesso, comunque, l’ampia fruibilità dell’opera e la sua larga diffusione.
19 Anche Girolamo testimonia il timore della lettura del Cantico: egli raccomanda alla giovane Melania di
iniziare a leggere i salmi e gli scritti morali dell’Antico Testamento (Proverbi), per poi continuare con i vangeli e gli scritti apostolici; successivamente si consigliano i libri profetici e storici dell’Antico Testamento e, solo alla fine, si permette la lettura del Cantico (Lettera 108,26).
20 SANT’AMBROGIO, Verginità e vedovanza, in F. GORI (a cura di), Biblioteca ambrosiana 14.2, Città Nuova,
Roma 1989. 21 SANT’AMBROGIO, Verginità e vedovanza, 173‐174. 22 Citiamo l’opera curata da G. Banterle nella collana delle opere di S. Ambrogio; GUGLIELMO DI SAINT‐THIERRY,
Commento ambrosiano al Cantico dei Cantici, Città Nuova, Roma, 1993. 23 TEODORETO DI CIRRO, Commento al Cantico dei Cantici, Città Nuova, Roma 2010, 103.
112 Cantico dei Cantici
b) La storia d’amore tra YHWH e Israele. Senza ricorrere all’allegoria è stata anche operata del Cantico una lettura teologica attraverso la tecnica dei parallelismi biblici, rintracciando i quali si può cogliere la descrizione del rapporto d’amore che vede protagonisti YHWH e il suo popolo. Lo scriba finale è ricorso a testi biblici più antichi in riferimento alla Legge, ai profeti, ai salmi, ai Proverbi per esprimere il suo pensiero. Ciò significa che in ogni frase e in ogni pa‐rola del testo è da ravvisare un luogo scritturistico a cui l’autore si è ispirato. Non si voleva, perciò, cantare l’amore umano ma quello tra Dio e Israele. Tuttavia, dichiarare che il Cantico presenta la storia d’amore tra YHWH e Israele sotto «mentite spoglie», se da un lato lo toglie dall’isolamento biblico a cui l’interpretazione mitologica lo ha relegato, dall’altro rischia di svuotare il valore dell’amore di coppia perché lo rende un pretesto per parlare di Dio. Detto in altri termini: l’amore umano, concretamente compreso, nella Bibbia non costituirebbe in sé un valore reale. È plausibile, pertanto, che il poeta nell’esprimere l’amore divino abbia così ben celato quello umano al fondo del suo pensiero, al punto da sembrare strano, inopportu‐no o una forzatura il riferimento a tale sentimento?
c) La natura teologica dell’amore umano. Con P. Grelot notiamo che a partire dal profeta Osea la teologia profetica ha visto nell’amore di YHWH per il suo popolo l’archetipo trascen‐dente del vero amore umano, proprio perché esso era il simbolo di quello divino. Per cui è molto probabile che ci sia stata un’influenza di tale concezione biblica dell’amore umano nel Cantico: se da un lato l’autore del Cantico ha voluto demitizzare il linguaggio dell’amore umano, dall’altro lo ha caricato di risonanze nuove proprio in ragione di questa interdipen‐denza dei due amori. Per cui il rapporto che lega l’amore umano a quello divino è di natura tipologica, cioè il primo ravvisa nel secondo il suo modello soprannaturale.24 Secondo questa prospettiva, emerge come siano proprie del senso letterale del Cantico le sfumature teologi‐che che esso presenta, senza mutuarle dall’esterno con una forzatura del testo e senza ope‐rare dei riduzionismi (sacrificare l’amore umano a quello divino, ravvisare nel Cantico solo un racconto di un amore umano tra un uomo e una donna o ridurlo a un racconto di una iero‐gamia). Il Cantico dei Cantici si offrirebbe, quindi, come testo sacro in quanto racconta l’amore umano che ha già in sé una valenza religiosa. È questo, dunque, il messaggio che l’autore del Cantico vuole lanciare: l’amore umano «è una realtà irresistibile e quasi fatale, una forza vitale e dinamica, un potere creativo e divino, che unisce un uomo e una donna in una esclusiva e duratura relazione».25
La dimensione teologica non è estranea all’amore umano né esterna ad esso ma è, con ta‐le dimensione, connaturata; possiamo dire che in ogni frammento d’amore risplende un bar‐lume della presenza divina. Questa dimensione teandrica dell’amore consente di meglio comprendere sia l’interpretazione allegorica (ebraica e patristica) sia la rilettura del Cantico alla luce dell’incarnazione del Verbo di Dio: la ricchezza del simbolo nuziale che il libro evoca, riecheggia nello sposalizio di Gesù con l’umanità, nell’indissolubilità del suo amore per l’uomo, nel mistero grande dell’unione Cristo‐Chiesa e marito‐moglie (Gv 2,1‐11; Ef 5,25‐27) e, infine, nel destino della nuova Gerusalemme che troviamo nel libro dell’Apocalisse, in cui l’intimità tra Dio e l’umanità viene descritta proprio attraverso l’immagine matrimoniale tra la Sposa e l’Agnello (Ap 21–22).
24 Cfr. GRELOT, «Le sens du Cantique des Cantiques», 54. 25 N.‐J. TROMP, «Wisdom and the Canticle. Ct 8,6c‐7b: Text, Character, Message and Import», in M. GILBERT
(ed.), La sagesse de l’Ancient Testament (BETL 51), University Press, Leuven 21990, 94.
Cantico dei Cantici 113
BIBLIOGRAFIA
ALONSO SCHÖKEL L., Il Cantico dei Cantici. La dignità dell’amore, Piemme, Casale Monferrato 1990.
BARBIERO G., Il Cantico dei Cantici (I libri biblici. Primo Testamento 24), Paoline, Milano 2004. BONORA A., Cantico dei Cantici, in A. BONORA ‐ M. PRIOTTO (edd.), Libri sapienziali e altri scritti
(Logos 4), LDC, Torino‐Leumann 1997, 135‐146. CHOURAQUI A., Il Cantico dei Cantici, Città Nuova, Roma 1980. CHRÉTIEN J.‐L., Simbolica del corpo. La tradizione cristiana del Cantico dei Cantici, Cittadella,
Assisi 2009. COLOMBO D., Cantico dei Cantici (LoB 1.16), Queriniana, Brescia 1985. COLOMBO D., Cantico dei Cantici (NVB 21), Paoline, Roma 1970. FOX M.V., The Song of Songs and the Egyptian Love Songs, Wisconsin 1985. GARBINI G., Cantico dei cantici. Testo, traduzione, note e commento, Paideia, Brescia 1992. GARRET D. ‐ HOUSE P.R., Song of Songs/Lamentations, T. Nelson, Nashville 2004. LAURENTINI G., Cantico dei Cantici, in T. BALLARINI (ed.), Ultimi storici, Salmi, Sapienziali (Intro‐
duzione alla Bibbia 3), EDB, Bologna 1978, 405‐422. LORENZIN T., Il Cantico dei Cantici, Messaggero, Padova 2001. MANNUCCI V., Sinfonia dell’amore sponsale. Il Cantico dei cantici, Gribaudi, Torino 1982. MAZZINGHI L., Il Cantico dei Cantici, San Paolo, Cinisello Balsamo 2012. MORLA ASENSIO V., Il Cantico dei Cantici, in IDEM, Libri sapienziali e altri scritti (Introduzione allo
studio della Bibbia 5), Paideia, Brescia 1997, 364‐392. MURPHY R.‐E., The Song of Songs, Fortress, Minneapolis 1990. MURPHY R.E., Cantico dei Cantici, in Nuovo Grande Commentario Biblico, Queriniana, Brescia
1997, 602‐607. NERI U. (ed.), Il Cantico dei Cantici. Targum e antiche interpretazioni ebraiche, Città Nuova,
Roma 1987. NOLLI G., Il Cantico dei Cantici (SBT), Marietti, Torino 1967. POPE M.H., Song of Songs (AB 7c), New York 1977. RAURELL F., Il piacere erotico nel Cantico dei Cantici, in IDEM, Lineamenti di antropologia bibli‐
ca, Piemme, Casale Monferrato 1986, 185‐226. RAVASI G., Il Cantico dei Cantici. Commento e attualizzazione, EDB, Bologna 1992. RAVASI G., Cantico dei Cantici, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Paoline, Cinisello Balsa‐
mo 1988, 237‐245. REALI A.V., Il Cantico dei Cantici. Trasposizione poetica dall’ebraico, Book Editore, Castel Mag‐
giore (BO) 1999. ROBERT A. ‐ TOURNAY R. ‐ FEUILLET A., Le Cantique des Cantiques, Paris 1963.
SIRACIDE*
1. PRESENTAZIONE D’INSIEME Con il Siracide passiamo dalla Bibbia ebraica alla traduzione greca cosiddetta «dei Settan‐
ta» (ma anche «la Settanta»). Questa traduzione della Bibbia venne realizzata, a partire dal III secolo a.C., dalla comunità giudaica di Alessandria, in Egitto. Il suo scopo continua a essere oggetto di discussione: se per far riconoscere dall’autorità dei Lagidi, che governavano il pae‐se, i libri regolatori della vita della comunità giudaica, oppure se per facilitare l’accesso dei libri santi a quei giudei alessandrini che non parlavano più l’ebraico. Comunque sia, una ca‐ratteristica della Bibbia alessandrina è che essa contiene dei libri che la Bibbia ebraica non accoglie. In particolare, ai tre libri sapienziali della Bibbia ebraica, la traduzione dei Settanta aggiunse in greco la Sapienza di Ben Sira e la Sapienza di Salomone.
1.1. DI QUALI TESTI DISPONIAMO?
1.1.1. L’originale ebraico
La Sapienza di Ben Sira passò per sorprendenti metamorfosi. In origine fu scritta in ebrai‐co. Lo dice il Prologo della versione greca (Prologo, versetto 22). Alcuni Padri della Chiesa, per esempio Girolamo, Ilario di Poitiers, Epifano, lo sapevano. Gli scritti rabbinici ne avevano già citato questo o quel versetto. Ma il testo in ebraico era considerato perduto fino al 1896, quando S. Schechter, a Cambridge, ne identificò un foglio proveniente dal deposito (ghenizà) della sinagoga dei Caraiti del Vecchio Cairo, in Egitto. A quella scoperta, altre seguirono, fino al 1900. In quella data erano stati ritrovati quasi i due terzi del testo ebraico. Alcuni comple‐menti vennero riportati alla luce fino al 1982. Al momento si dispone così di sei manoscritti dell’XI secolo, ma molto frammentari e assai deteriorati, i quali però, messi insieme, danno principalmente il testo ebraico di Sir 3,6–16,26 (manoscritto A) e Sir 30,11–51,30 (quasi per intero, grazie soprattutto al manoscritto B).
C’è chi ha dubitato dell’autenticità di questi testi: non potrebbero essere delle retroversio‐ni in ebraico, sulla base del testo greco o della versione siriaca? La risposta venne dalle sco‐perte di Qumran e della fortezza giudaica di Masada, sulla riva occidentale del mar Morto. Fra il 1956 e il 1964 vi furono scoperti dei frammenti in ebraico del libro di Ben Sira, che per forza sono anteriori al disastro in cui finì la rivolta giudaica contro i Romani, cioè anteriori al 68 d.C. per Qumran e al 73 per Masada. Ebbene, questi testi confermano quelli ritrovati nella sinagoga del Vecchio Cairo.
Sono scoperte d’importanza fondamentale per conoscere il messaggio originale del nostro autore. E tuttavia, le condizioni dei manoscritti ritrovati non permettono ancora, al momen‐to, d’avere un buon testo ebraico della Sapienza di Ben Sira. Un terzo del libro continua a mancare, e anche i testi recuperati non sono delle copie accurate. Confrontandoli con le ver‐sioni greca e siriaca, entrambe fatte su un testo ebraico di Ben Sira, gli esegeti hanno tentato di ricostruire l’originale. Il confronto ha anche permesso loro di riscontrare, nei manoscritti ritrovati, dei doppioni, delle aggiunte, senza poi contare gli errori dei copisti. Ma ci tornere‐mo.
* M. GILBERT, La Sapienza del cielo, Cinisello Balsamo 2005, 137‐147; A. BONORA, Siracide, in A. BONORA ‐ M.
PRIOTTO (edd.), Libri sapienziali e altri scritti (Logos 4), Torino‐Leumann 1997, 90‐96.
Siracide 115
1.1.2. La versione greca
Il Prologo del libro in greco venne redatto dal nipote dell’autore. Arrivato in Egitto nel 132 a.C. (vedi Prologo, versetto 27), costui lì scoprì l’opera del suo avo e decise di tradurla in gre‐co. Pare che il lavoro gli abbia preso una decina d’anni. Le difficoltà non mancavano (Prologo, versetti 15‐26): non è agevole trasporre il genio di una lingua in un’altra!
In genere si dà credito a questo Prologo, e il confronto, ormai possibile, fra l’originale ebraico e la versione greca permette d’intuire tutto un lavoro di trasposizione, perfino d’adat‐tamento alle circostanze nuove, fatto dal traduttore con grande intelligenza, sebbene poi più d’una volta, come pare, gli sia stato difficile ben capire l’ebraico del nonno.
Resta il fatto che questa versione greca (ed. A. Rahlfs, 1935) è al momento il miglior testi‐mone testuale dell’opera di Ben Sira, ed è essa che traducono le nostre Bibbie moderne. Qui il testo è completo, mentre dell’ebraico abbiamo soltanto un testo frammentario. Inoltre, questa versione greca venne trasmessa con grande cura. Prova ne è l’eccellenza dei manoscritti onciali – cioè in lettere greche maiuscole – del IV secolo. Si tratta soprattutto dei manoscritti cosiddet‐ti Vaticano, conservato nella Biblioteca vaticana, e Sinaitico, attualmente al British Museum di Londra. Sia l’uno che l’altro danno, di questo libro, come degli altri libri biblici, un testo greco di qualità, quello precisamente che traducono le più note Bibbie. Di fatto, il loro testo sembra provenire dalla scuola che Origene aveva creato a Cesarea nel III secolo.
1.1.3. Un’edizione riveduta e con aggiunte
Nell’epoca bizantina, alcuni manoscritti trasmettono, a partire dal IX secolo, un’altra ver‐sione greca dell’opera di Ben Sira, ma scritta questa volta in caratteri minuscoli (ed. J. Ziegler, 1965). Ebbene, questo testo differisce da quello dei grandi manoscritti onciali del IV secolo per modifiche che incidono anche sul senso stesso delle frasi e per un certo numero di ag‐giunte – si contano 135 stichi, o righe – che orientano il testo in una direzione nuova e pre‐sumono una teologia più recente di quella di Ben Sira e del nipote.
Tuttavia, queste modifiche e aggiunte non paiono d’una sola mano. I manoscritti greci non le trasmettono sempre alla stessa maniera. In più, alcune compaiono anche nei frammenti ebraici (per esempio in Sir 11,15‐16; 16,15‐16), ma anche nella versione siriaca, chiamata Pe‐shitta, che ne riporta a sua volta altre ancora (ad esempio, in Sir 1,22‐27), o anche nell’antica versione latina, cosiddetta Vetus Latina, che però traduce da un testo greco. Queste osserva‐zioni inducono a pensare che il libro di Ben Sira sia stato fatto oggetto di una rilettura non omogenea ma pluriforme, per un periodo che va dagli anni 80 a.C. a tutto il I secolo d.C. La maggior parte delle modifiche e aggiunte potrebbe essere d’origine ebraica, peraltro difficile da individuare; ma non tutte, dato che alcune sembrano ispirarsi alla cultura greca. In ogni caso, ben poche sono d’origine cristiana: nei casi in cui potrebbe parere, bisogna dimostrare che il testo non può provenire dal giudaismo.
1.1.4. L’antica versione latina
Venne fatta nell’Africa cristiana – attuali Algeria e Tunisia –, alla fine del II secolo, sulla ba‐se d’un testo greco già arricchito d’aggiunte. Questa versione è arrivata fino a noi, perché Gi‐rolamo, sulla svolta fra il IV e il V secolo, non volle ritradurre in latino un testo che non faceva parte della Bibbia ebraica. Ma questa Vetus Latina finì per entrare nella Vulgata, probabil‐mente già alla fine del V secolo, ed è ancora essa che si ritrova, appena ritoccata, nella Nova Vulgata che Paolo VI aveva chiesto alla fine del Concilio Vaticano II e che venne pubblicata nel 1979.
116 Siracide
1.1.5. La versione siriaca
Potrebbe datarsi intorno al 300 e sarebbe opera d’un cristiano che traduce da un testo ebraico della Sapienza di Ben Sira. Se egli ebbe accesso, come pare, all’opera nel suo stato originario in ebraico, pare però anche si sia servito di un’edizione ebraica rimaneggiata. Fu un lavoro difficile, e probabilmente il traduttore non era intenzionato a seguire scrupolosamen‐te i testi ebraici di cui disponeva. In questa versione, gli adattamenti sono innumerevoli.
Da tutto ciò possiamo ben vedere quanto l’approccio alla Sapienza di Ben Sira sia com‐plesso. L’originale ebraico non ci è stato trasmesso nei modi soliti. Del testo possediamo poi due versioni, una corta e una lunga. L’origine di quest’ultima è sconosciuta.
1.2. LA TRASMISSIONE DEL LIBRO
Nel giudaismo antico la Sapienza di Ben Sira era stata apprezzata, fino a quando, intorno agli anni 100 d.C., Aquiba ne vietò la lettura. Prima d’allora la si citava, la si tradusse in greco, se ne fece una nuova edizione rimaneggiata e a Qumran la leggevano.
Nel IV secolo il divieto di Aquiba venne rimesso in discussione e l’opera di Ben Sira in ebraico fu di nuovo letta, fino all’arrivo del Talmud nel VI secolo. Di nuovo abbandonata, non ricomparve che nella setta giudaica dei Caraiti. È probabile che costoro ne avessero trovato un esemplare in una delle grotte di Qumran, scoperte, come si sa, un poco prima dell’anno 800. Si spiegherebbe così l’origine dei frammenti ebraici ritrovati al Cairo. Ma questa ricom‐parsa fu soltanto momentanea.
Nel cristianesimo. Non si può documentare che il Nuovo Testamento abbia utilizzato la Sa‐pienza di Ben Sira. Eppure, sono stati i cristiani, senza discontinuità, a trasmettercela nelle varie lingue.
In greco. Già abbiamo detto che il testo breve tradotto in greco ci è pervenuto attraverso i grandi manoscritti onciali dei Settanta, del IV secolo, e che il testo lungo comparve invece in manoscritti bizantini scritti in minuscolo. Tuttavia, questa duplice versione del testo greco si lascia intuire già nei Padri greci. Alcuni utilizzano il testo lungo: per esempio Clemente d’Alessandria, all’inizio del III secolo, e Giovanni Crisostomo, nel IV secolo. Altri si attengono invece al testo corto, come Didimo il Cieco, di Alessandria, ancora nel IV secolo.
In latino. La versione latina trasmette il testo lungo ed è perciò quello che di norma citano i Padri latini; il primo fu Cipriano di Cartagine, nel III secolo. Ma vi sono due eccezioni: Giro‐lamo citò Ben Sira un’ottantina di volte, ma traducendo in latino un testo greco di tipo corto, e qualche volta anche Agostino fece la stessa cosa, benché in genere egli citi il testo lungo della Vetus Latina.
In siriaco. La versione siriaca, la Peshitta, è trasmessa da molti manoscritti, l’uno o l’altro dei quali è stato anche edito, ma un’edizione critica di questa versione si dimostra un’impresa tale che ancora nessuno è riuscito a portarla a termine. Questa versione fu a sua volta tradot‐ta in arabo fin dal Medioevo in due forme diverse, che molti manoscritti ci trasmettono. Una d’esse si trova nelle Bibbie poliglotte di Parigi e di Londra, edite nel XVII secolo.
Il cristianesimo, sia occidentale che orientale, ha dunque trasmesso e citato la Sapienza di Ben Sira, in traduzioni, utilizzando ora il testo corto e ora il testo lungo.
1.3. L’AUTORITÀ DEL LIBRO
1.3.1. Nel giudaismo
Nonostante l’interesse dimostrato in certe epoche e in taluni ambienti per il libro di Ben Sira, il giudaismo non lo riconobbe mai come un libro sacro. Nella Bibbia ebraica dunque non c’è: non ci fu mai e perciò mai ne è stato tolto. Il giudaismo alessandrino ne conobbe la ver‐
Siracide 117
sione greca; e tuttavia dobbiamo chiederci se la raccolta fatta dai Settanta dei libri biblici in greco, in cui anche la versione greca del nipote di Ben Sira venne inclusa, non sia stata essen‐zialmente un’iniziativa cristiana: i nostri grandi manoscritti onciali dei Settanta risalenti al IV secolo sono d’origine cristiana.
1.3.2. Nel cristianesimo
Un libro canonico? Nella Chiesa latina, la Sapienza di Ben Sira, chiamata (libro) Ecclesiasti‐co a motivo dell’uso che se ne faceva nelle comunità ecclesiali, a profitto forse dei catecume‐ni, venne accolta, pare, senza problemi, e nessuno dovrà perciò stupirsi di vederla citata nel canone delle Scritture fissato nel Concilio d’Ippona del 393, cui assisteva anche Agostino, e poi nei Concili di Cartagine del 397 e del 419, come pure nella lettera che papa Innocenzo I inviò nel 405 al vescovo di Tolosa, Esupero.
In Oriente le cose furono più complicate, a causa probabilmente della vicinanza con le comunità ebraiche, la cui Bibbia non comprendeva l’opera di Ben Sira. Già nel 170 il proble‐ma viene sollevato da Melitone di Sardi, che porta in Palestina una lista di libri biblici in cui Ben Sira non appare. All’inizio del III secolo, al contrario, Clemente d’Alessandria ammette l’autorità scritturistica della versione greca di Ben Sira, e verso il 240 Origene riconosce la dif‐ferenza che c’è fra la Bibbia ebraica e l’Antico Testamento cristiano: nel dialogo fra ebrei e cri‐stiani non si utilizzeranno perciò che i libri ammessi dai primi; anche se ciò non deve indurre a eliminare dalle nostre Bibbie cristiane i libri che il giudaismo non riconosce come Scrittura. La stessa differenza è percepita, ancora nel IV secolo, da Cirillo di Gerusalemme e Atanasio d’Alessandria, i quali non sanno bene quale collocazione dare ai libri che i Settanta avevano aggiunto alla Bibbia ebraica, come la Sapienza di Ben Sira e la Sapienza di Salomone. Ma per Giovanni Crisostomo e altri, Ben Sira fa parte delle Scritture. A Betlemme, Girolamo, deciso a tradurre in latino soltanto la Bibbia ebraica, esclude apertamente l’autorità canonica della Sapienza di Ben Sira e della Sapienza di Salomone, ma poi si comporta diversamente da que‐sta presa di posizione chiara e netta: a partire dal 404 gli accade di citare come Scrittura un versetto di Ben Sira, e così pure la Sapienza di Salomone. L’influenza di Girolamo fu duratura. Nel Medioevo, se Tommaso d’Aquino ammette la canonicità di Ben Sira e della Sapienza di Salomone, a motivo dell’uso corrente che ne fanno le Chiese, il grande commentatore Nicola di Lira la esclude. Le esitazioni perdurano in Occidente per tutto il XV e il XVI secolo, dato che il mistico Dionigi il Certosino e il cardinale Caetano, rifiutano la canonicità di tutti i libri ag‐giunti dai Settanta, dunque anche di Ben Sira. Con Lutero e Calvino, la Riforma protestante farà lo stesso, mentre nel 1545 il Concilio di Trento confermerà solennemente la lista dei libri canonici riconosciuti dalla Chiesa cattolica: l’opera di Ben Sira è fra essi.
Oggi la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse includono la Sapienza di Ben Sira, come an‐che la Sapienza di Salomone, nel canone delle Scritture. Le comunità della Riforma le esclu‐dono. Tuttavia, l’Antico Testamento della Traduzione ecumenica della Bibbia, pubblicato nel 1975, gli riserva un posto fra i libri aggiunti dai Settanta e che sono chiamati «deuterocanoni‐ci».
Ma quale testo di Ben Sira un cattolico deve ritenere canonico? La domanda pare perti‐nente, dato che l’originale ebraico non ci venne trasmesso nelle forme solite; ci sono poi ver‐sioni differenti e, infine, il testo si presenta sotto due forme, una corta e l’altra lunga. A mio parere, la risposta è questa: la Chiesa cattolica non ha mai definito la lingua né la forma, bre‐ve o lunga, del libro di Ben Sira, come, peraltro, di nessuno dei libri che essa ammette nel ca‐none. La tradizione ecclesiale è la prova, come minimo, che su questi due punti la Chiesa non intende prendere posizione, salvo a dire che non si può escludere la forma lunga della Volga‐ta. Lo si desume da una decisione del Concilio di Trento, che aveva anche richiesto una buona
118 Siracide
edizione dei Settanta, la quale venne effettivamente pubblicata nel 1587: lì il testo è quello del manoscritto Vaticano, cioè il testo corto! Nessuno perciò si stupirà di vedere le Bibbie moderne, cattoliche o ecumeniche, scegliere fra testi diversi. E neppure, a mio parere, si può escludere la canonicità, o perlomeno l’ispirazione, del testo ebraico, nei limiti in cui è recupe‐rabile.
1.4. LA PERSONALITÀ DI BEN SIRA
1.4.1. Il suo nome
Fra i sapienti di cui il nostro Antico Testamento conserva gli scritti, è il solo di cui cono‐sciamo il nome dalla stessa sua opera. In greco viene chiamato «Gesù, figlio di Sira», da cui Gesù Ben Sira (vedi Prologo, versetto 7; Sir 50,27 e la firma, dopo 51,30). Gesù dev’essere il nome e Ben Sira il cognome, cioè il nome della famiglia. Questi venne tradotto in maniera da indicare anche il titolo del libro: il Siracide. In ebraico, il manoscritto B del Cairo chiama l’autore «Simone, figlio di Gesù...», ma in genere si dà maggior credito alla tradizione greca.
1.4.2. La sua datazione
Se il nipote tradusse l’opera a partire dal 132 e il nonno non scrisse il libro che verso la fi‐ne della sua carriera (vedi Prologo, versetti 7‐12), possiamo presumere che l’autore compose il libro durante il primo quarto del II secolo a.C. e dovette nascere verso la metà del III secolo, nell’epoca in cui insegnava Qohèlet.
Ciò pare confermato ancora da altri indizi. In primo luogo, nell’opera di Ben Sira non si tro‐va alcuna allusione alla crisi provocata dall’ellenizzazione a oltranza di Antioco IV nel 167 a.C., cui si erano fieramente opposti i Maccabei. In secondo luogo, l’elogio del sommo sacerdote Simone il Giusto (Sir 50,1‐21) suppone la morte di costui; ebbene, egli morì certamente dopo il 198, probabilmente verso il 187. Infine, il testo ebraico di Sir 50,24 ancora non sa che la di‐scendenza del sacerdote Simone perderà il supremo sacerdozio nel 172, con l’ascesa di Me‐nelao (2Mac 4,23‐29); la versione greca dunque modificò il testo, dato che le circostanze non avevano permesso che l’auspicio dell’avo si realizzasse.
1.4.3. Il contesto storico
Gesù Ben Sira era maestro di sapienza a Gerusalemme. La Giudea e la Samaria facevano parte d’una regione, la Celesiria, che si trovava, nel III secolo a.C., sotto la dominazione dei Lagidi d’Egitto. Concupita dai Seleucidi d’Antiochia per il denaro che l’imposta avrebbe procu‐rato, nel 198 a.C. finì per passare sotto il controllo di Antioco. Antioco III concesse allora a Gerusalemme dei favori di cui resta eco nell’inizio dell’elogio del sommo sacerdote Simone il Giusto (Sir 50,1‐4).
A Gerusalemme, era una famiglia di finanzieri, quella dei Tobiadi, a riscuotere l’imposta, di cui naturalmente tratteneva per sé non piccola parte. Già sostenitori dei Lagidi, nel 198 erano poi passati a sostenere i Seleucidi; eccetto Ircano, il principale esattore, che, rifugiatosi in Transgiordania, restò fedele ai Lagidi. Ma la sua fortuna era custodita nel tesoro del tempio di Gerusalemme. Ebbene, nel 190 Antioco III era stato battuto dai Romani a Magnesia, presso Smirne, e i vincitori gli avevano imposto il pagamento d’una forte somma, che il suo succes‐sore, Seleuco IV, non aveva ancora finito di pagare. L’episodio di Eliodoro, del 175, narrato in 2Mac 3, va probabilmente messo in rapporto con questo debito verso i Romani: la fortuna d’Ircano avrebbe potuto fornire un bell’aiuto! A riguardo di questi avvenimenti, vedi Dn 11,10‐20.
Siracide 119
Ci si può dunque rendere ben conto come l’epoca di Ben Sira sia stata tutt’altro che tran‐quilla. Un testo come Sir 10,8 parla per esperienza: «La sovranità passa da una nazione all’al‐tra con ingiustizia, violenza e denaro!».
1.4.4. Il sapiente Ben Sira
È anche il solo sapiente del nostro Antico Testamento che abbia parlato di sé. Fin dalla giovinezza egli chiese, come Salomone (1Re 3,4‐15), la sapienza al Signore, che gliela conces‐se, e fedelmente si diede a seguirla (Sir 51,13‐17). Ripieno d’essa, decise allora d’aprire una scuola, o meglio un’accademia, in cui trasmettere la sua esperienza alla gioventù (Sir 51,23‐30). Dopo aver lungamente meditato la Torāh, i profeti e gli altri libri del patrimonio spirituale d’Israele, cominciò a mettere per iscritto l’essenza del suo insegnamento sapienziale (Prolo‐go, versetti 7.12). Ripieno della sapienza che Dio gli donava, la lasciava traboccare: attraverso lui, i suoi discepoli avrebbero avuto accesso alla sapienza, in lui l’avrebbero scoperta; più an‐cora, la sapienza, di cui egli non era che il canale di trasmissione, avrebbe poi valicato i limiti del tempo e dello spazio: avrebbe superato le frontiere e le generazioni. Aveva coscienza di prendere la staffetta dai profeti, di continuare la loro eredità, e forse si augurava che un gior‐no la sua opera venisse inserita fra i libri sacri (Sir 24,30‐34; 33,16‐18). Fu anche, lascia in‐tendere, il consigliere di principi (Sir 39,4), e ciò lo portò all’estero, esperienza ben utile per conoscere il cuore umano e la varietà del mondo, ma non senza rischi (Sir 34,12‐13). Dovette anche subire la calunnia, che stava per rovinarlo; soltanto la preghiera gli ottenne l’aiuto di‐vino, e di ciò ringraziò il suo Dio (Sir 51,1‐12).
L’opera permette d’intuire anche taluni aspetti della sua personalità. Da sapiente autenti‐co, cercò l’equilibrio e il buon senso. In un momento in cui la cultura greca cominciava ad ammaliare il Vicino Oriente, tentò di mostrare che il giudaismo non aveva da arrossire del proprio patrimonio. Restava aperto all’ellenismo, eccetto quando dei ricchi ne facevano pre‐testo per un’arroganza sprezzante dell’antica tradizione giudaica. Fu sedotto dalla liturgia del santuario e per i sacerdoti aveva un’autentica venerazione; era anche convinto del valore sa‐pienziale della Torāh; ma questi interessi non possono far concludere che dovesse per forza essere un sacerdote.
Più sereno di Qohèlet, trovava la pace nella sapienza e, di fronte al mistero, si rimetteva a Dio (vedi Sir 3,17‐24; 39,32‐34). Come Qohèlet, neanche lui aveva della luce sull’aldilà della morte. Una vita umana vissuta fino alla fine con dignità gli pareva eminentemente rispettabi‐le e fruttuosa, senza che l’angoscia della morte dovesse farne cosa gretta, lui che confessava: «la speranza dell’uomo: i vermi» (Sir 7,17b, ebraico). Nessun’altra retribuzione, pensava, se non il buon ricordo lasciato quaggiù dall’uomo giusto e onesto e una discendenza non meno giusta di lui (Sir 16,1‐3; 44,8‐15). Saranno le posteriori aggiunte della seconda edizione del libro ad aprire più incoraggianti prospettive sull’aldilà.
1.5. COME È STRUTTURATO IL LIBRO DI BEN SIRA?
La Sapienza di Ben Sira è il libro sapienziale più lungo del nostro Antico Testamento. È evi‐dente che l’autore avrà impiegato un bel po’ a scriverlo. Ne avrà egli stesso pubblicato una prima parte (Sir 1–24, o Sir 1–23), dando un testo completo più tardi? È un’ipotesi di cui si di‐scute. Alcuni passi come Sir 24,34; 33,16‐18; 49,14‐16; 50,27‐29 alimentano il dibattito. La questione più fondamentale è però sapere come Ben Sira abbia strutturato la sua opera. Ma su questo punto gli esegeti non hanno ancora una risposta soddisfacente. È chiaro che Ben Sira non scrisse dei semplici proverbi, alla maniera delle collezioni salomoniche di Pr 10,1–22,16 e Pr 25–29. Ben Sira propone invece delle riflessioni più o meno elaborate, alla manie‐ra di Pr 1–9; 30–31. È anche chiaro che l’opera di Ben Sira non è costruita come il libro di
120 Siracide
Giobbe, che presenta una trama fin nel modo di procedere. In Ben Sira è appunto l’ordine delle pericopi che il lettore non vede con chiarezza. Soprattutto prima di Sir 42,15, perché poi, da Sir 42,15 fino a Sir 43,43, il sapiente canterà le meraviglie della creazione, e poi anco‐ra da Sir 44,1 a Sir 50,24 ripercorrerà la storia biblica, sulla scorta del Pentateuco, del corpus profetico e di certi scritti più recenti, da cui estrae soltanto pochi grandi uomini che risolleva‐rono il tempio e la città di Gerusalemme, in particolare Simone il Giusto.
La questione dell’ordine delle pericopi si pone dunque per tutto il testo che precede Sir 42,15, ma anche per il capitolo finale Sir 51. Una prima risposta la dà l’importanza che Ben Sira attribuisce alle sue esposizioni sulla Sapienza e sul sapiente. La Sapienza ha il ruolo prin‐cipale in Sir 1,1‐30 (in relazione con il timore del Signore, necessario per accogliere il dono divino), Sir 4,11‐19 e Sir 6,18‐37 (sullo sforzo richiesto per procurarsi la Sapienza), Sir 14,20 ‐15,10 (sulla felicità di chi l’acquisisce), Sir 24,1‐29 (l’elogio della Sapienza). A partire poi dalla conclusione di quest’ultimo testo, collocato al centro del libro, è il sapiente stesso a presen‐tarsi sul proscenio: in Sir 24,30‐34 (Ben Sira trabocca di sapienza), Sir 37,16‐26 (sul vero sa‐piente), Sir 38,24–39,11 (la sapienza dello scriba in confronto con gli altri mestieri), Sir 51,13‐30 (Ben Sira, che ha chiesto e ricevuto la Sapienza, apre una scuola).
Questa prima risposta fa vedere che il rapporto fra la Sapienza e il sapiente scandisce tut‐to il libro, ma il problema resta: come Ben Sira ha organizzato le altre pericopi che si trovano fra l’uno e l’altro di questi passi dedicati alla Sapienza e al sapiente? È esattamente a questa domanda che al momento gli esegeti non sono ancora in grado di dare se non risposte par‐ziali.
È possibile che ci sia un rapporto d’inclusione fra Sir 1,1‐30 e Sir 51,13‐30 e che, allora, Sir 51,1‐12 (il ringraziamento di Ben Sira scampato a una prova) sia in relazione inclusiva con Sir 2,1‐18 (il sapiente deve prepararsi alla prova).
Altrove, sono soprattutto dei trattatelli che Ben Sira ha inserito. Eccone qui l’uno o l’altro: Sir 9,17–10,18 è un trattatello a riguardo di coloro che dominano i popoli con arroganza, cui fa eco Sir 10,19–11,6, che è un poema sulla vera felicità; Sir 15,11–16,14 e Sir 16,17–18,14 sono due discussioni complementari sulla responsabilità morale dell’uomo e sul perdono di‐vino; in Sir 22,27–23,27 una duplice preghiera introduce due esposizioni, l’una sulla maniera di parlare, l’altra sull’appetito sessuale; Sir 25,1–26,18 tratta dell’armonia coniugale; Sir 29,1‐20, della maniera d’usare il proprio denaro per rendere servizio al prossimo; Sir 31,12–32,13, del comportamento da tenere durante un banchetto; Sir 36,23–37,15, del discernimento cir‐ca la scelta d’una persona con cui confidarsi, sposa, amico o consigliere che sia.
Potremmo ancora individuare altri insiemi, ma al momento è ben difficile esplicitare in modo migliore l’ordine che Ben Sira intese mettere nel suo libro.
2. IL MESSAGGIO
Il Siracide non offre una teoria o una teologia sistematica, esposta con ordine e coerenza logica. I temi trattati sono quelli tradizionali delle Scritture sacre d’Israele, ripresi e variati in modi differenti. La prospettiva generale è conservatrice ed è pervasa dallo spirito e dalle idee deuteronomici. Ci limiteremo qui a enucleare ed evidenziare alcuni temi teologici portanti del libro.
2.1. TIMOR DI DIO E SAPIENZA
Il «timor di Dio», da intendersi come «rispetto di Dio», è senza dubbio una delle idee cen‐trali di Ben Sira. L’espressione o un suo equivalente ricorre circa 55/60 volte. Questo tema, che ricorre un po’ in tutta l’opera, è dominante nei cc. 1–2; anche nel c. 10 questo tema è ri‐
Siracide 121
levante, mentre è assente in alcune sezioni, come per es. in 3,17–6,4 e 11,1–14,19. J. Ha‐specker lo considera il tema centrale e decisivo di tutto il libro; ma altri (G. von Rad e J. Mar‐böck) sostengono che non il «timor di Dio» bensì la «sapienza» è il tema fondamentale, il soggetto del libro.
Il timor di Dio è un’intensa e viva relazione personale di amore con Dio (1,28–2,6; cfr. 32,14‐16), contrassegnata e pervasa da umiltà e sottomissione alla sua sovrana maestà (3,17‐20) e da fiducia nella sua bontà e misericordia (2,6‐14; cfr. 34,13‐17). Significativa è l’esor‐tazione, composta di due espressioni parallele e sinonimiche, di Sir 7,29‐30: «Temi Dio con tutto il cuore... Ama il tuo Creatore con tutte le tue forze». La spiritualità di «chi teme il Si‐gnore» appare in modo chiaro nel caloroso invito di 2,1‐18.
Non è esclusa l’accezione nomista di «timore di Dio» inteso come osservanza dei coman‐damenti, come appare da 2,15‐16. In 19,20 il timore di Dio è unito indissolubilmente con la sapienza e l’osservanza della Legge: «Il timore del Signore è sintesi della sapienza, nell’osser‐vare la sua Legge sta tutta la sapienza». Ben Sira non sembra affatto essere un pensatore su‐perficiale che propone una morale piatta e prosaica. Il suo modo di intendere il «timore del Signore» rivela un pensatore profondo, che dà un peso decisivo all’intimo, al cuore dell’uo‐mo. Questo primato dell’interiorità nel suo pensiero pedagogico assicura che egli, anche nel‐la sua dottrina spirituale, dà un peso peculiare all’intimo rapporto con Dio... rispetto ai com‐portamenti concreti che da esso fluiscono.
Il timore del Signore è l’inizio (1,14), la pienezza (1,16), la corona (1,18) e la radice (1,29) della sapienza: soggettivamente, la sapienza è in pratica identica al timore di Dio; oggettiva‐mente, la sapienza è il libro della legge di Mosè (c. 24). «Sapienza» è un termine che in Sira‐cide ricorre 55 volte (in greco); ben 11 volte solo in Sir 1. La vera essenza della sapienza è il timore di Dio, che dà all’israelita una saggezza superiore alla sophia della cultura ellenistica. Essendo dono di Dio, la sapienza può essere accolta soltanto con un atteggiamento di dispo‐nibilità che si concretizza nel timore di Dio e nell’osservanza della torāh. La tesi fondamentale del Siracide, infatti, può essere così formulata: la sapienza, che si identifica concretamente con la torāh, può essere «acquistata» soltanto da chi ha il timore di Dio e osserva i coman‐damenti.
2.2. L’UOMO (SIR 16,24–17,14)
Dopo una solenne introduzione (16,24‐25), seguono quattro strofe (a) 16,26‐30; b) 17,1‐4; c) 17,5‐10; d) 17,11‐14).
Questo brano offre una profonda visione dell’uomo in rapporto a Dio e al creato e ci aiuta a capire l’antropologia di Ben Sira.
Nella pericope l’autore risponde alle obiezioni avanzate in 16,17‐23 che tendono a negare che Dio si prende cura dell’uomo. Ben Sira afferma che Dio ha creato l’uomo dalla terra, mor‐tale come tutti gli altri esseri animati, ma vivente immagine di Dio e in quanto tale con il compito di dominare l’universo. La morte non è vista come castigo del peccato; l’uomo è mortale per la sua condizione di creatura terrena, secondo il limite fissato da Dio. L’uomo è un essere intelligente e responsabile, capace di scegliere liberamente (vv. 6‐7). Dio «ha posto il suo occhio nei loro cuori» (v. 8a), cioè ha comunicato all’uomo la conoscenza divina di tutte le cose; vi è quindi nell’uomo un sapere e un riconoscere che termina nella lode (vv. 9‐10). È compito dell’uomo lodare Dio nella contemplazione delle sue opere.
Nella quarta strofa l’orizzonte è israelitico. Dio ha dato una legge e stabilito un’alleanza: si tratta della Legge data al Sinai quando Dio manifestò la sua gloria, una legge valida per ogni uomo. Anzi, la legge data ad Israele è valida in quanto significa per l’uomo capacità di cono‐scenza e di scelta: essa è un modello indispensabile perché l’uomo non solo possa capirsi
122 Siracide
come creatura, ma perché possa realizzare il suo compito all’interno del cosmo. In altri ter‐mini, la legge è una forma di conoscenza e di sapienza.
Ben Sira parla dell’uomo in generale, ma dal punto di vista di Israele. Ciò significa due co‐se: a) In Israele ciò che fu dato all’inizio dell’umanità è realizzato di nuovo. Per mezzo di Israe‐le possiamo capire o percepire per noi quali furono gli inizi dell’umanità...; b) Una profonda tendenza ed esigenza dell’umanità si realizza in Israele per dono ed elezione divini, non come un monopolio, ma perché Israele possa condividerli con gli altri. La vicenda del popolo di Israele è un paradigma per capire l’uomo.
2.3. SAPIENZA E LEGGE (SIR 24,1‐34)
Questo capitolo è il centro e il culmine di tutto il libro e parte essenziale per la teologia della sapienza. Di questo capitolo non possediamo l’originale ebraico e quindi lavoriamo sulla versione greca. Circa la sua struttura letteraria sono state avanzate molte proposte. Noi se‐guiamo L. Alonso Schökel, che, dopo l’introduzione (vv. 1‐2) divide il capitolo in quattro strofe dove parla la sapienza (a. la sapienza cosmica [vv. 3‐6]; b. la sapienza storica [vv. 7‐11]; c. dieci comparazioni [vv. 12‐15]; d. invito agli uomini [vv. 16‐22]), e altre due nelle quali parla il sapiente (a. il saggio parla della Legge [vv. 23‐29]; b. il saggio parla di sé [vv. 30‐34]).
Il discorso della sapienza è pronunciato nel tempio di Gerusalemme («nell’assemblea dell’Altissimo», v. 2), dove si celebra il culto liturgico. Al popolo riunito la Sapienza rivolge il suo discorso, come fosse una signora, facendo conoscere la sua origine divina, la sua gran‐dezza e la sua dignità regale (vv. 3‐4). Essa si espande su tutto l’universo e domina su ogni popolo e nazione (vv. 5‐6). Pur avendo un dominio universale, la Sapienza cerca una dimora tra gli uomini (v. 7) e riceve dal Creatore l’ordine di stabilirsi in Israele (v. 8). Pur essendo crea‐ta «prima dei secoli, fin dal principio» (v. 9), cioè pur trascendendo il tempo, la sapienza si fa «storia» unendosi al popolo eletto e abitando al centro di esso, sul Sion, nel tempio di Geru‐salemme (vv. 10‐11). Qui essa esercita una funzione liturgica, sacerdotale; anzi, sembra iden‐tificarsi con lo stesso culto israelitico (v. 10). La Sapienza è «cresciuta» (verbo ripetuto 3 vol‐te) come albero in mezzo al popolo di Dio (vv. 12‐16): dieci paragoni presi dal mondo vegeta‐le descrivono il crescere di quest’albero nel giardino paradisiaco che è il paese di Israele, do‐ve sono prodotti gli elementi usati per il culto (olio, incenso, aromi).
Nei vv. 17‐22 la sapienza enumera i suoi deliziosi prodotti che essa offre a chi accetta il suo invito; anzi essa dona se stessa (v. 20). Poi l’immagine viene interpretata: la Sapienza è la stessa torāh, cioè il Pentateuco (v. 23). Per Ben Sira è la sapienza, che è diffusa e si espande nella creazione e nell’umanità quale ordine primordiale immanente al mondo e voluto da Dio, trova la sua migliore, concreta e visibile formulazione nella torāh data ad Israele; chi, dunque, cerca il senso del reale (la sapienza) deve leggere in profondità la torāh: il sapiente israelita non ha nulla da invidiare agli altri.
Nei vv. 24‐27 ritorna il tema del paradiso; ma qui è evidente che Ben Sira vede nella terra promessa il paradiso dove la sapienza fa abbondare i suoi frutti; la ricchezza della sapienza è tanto grande che essa è incomprensibile (vv. 28‐29).
Se questo è la sapienza, che cos’è il sapiente? Al v. 30 prende la parola il saggio. Il sapiente è come un canale (v. 31) o come una fonte di luce (v. 32) che illumina tutta la terra e le gene‐razioni future (v. 33): la sapienza oltrepassa i confini spaziali della terra di Israele e quelli del tempo. Il sapiente si mette al servizio di ogni uomo che davvero cerchi la sapienza (v. 34).
Siracide 123
2.4. LA PREGHIERA
Spesso e in varie forme Ben Sira parla della preghiera, almeno tanto quanto della Legge. C’è la preghiera del povero che Dio ascolta (35,14‐26) e la supplica dell’intero popolo per la propria liberazione (36,1‐22). L’uomo non può controllare tutto e perciò deve supplicare Dio, confidare in Lui che tutto dirige con misteriosa sapienza: «Al di sopra di tutto questo prega l’Altissimo perché guidi la tua condotta secondo verità» (37,15). Il malato prega per la guari‐gione (38,9) e il medico per far bene la diagnosi (38,14). Lo studente che vuole comprendere la sapienza, oltre che allo studio della Legge deve soprattutto dedicarsi alla preghiera (39,5‐6), perché la sapienza è dono di Dio. Un accento particolare è posto sulla preghiera che chie‐de il perdono dei peccati (17,25‐26; 7,10; 18,21; 21,1; 38,9‐10; 39,5). L’autentica conversione a Dio si concretizza nella preghiera (17,25‐26.29).
La lode di Dio è il senso ultimo della vita umana (17,10) e conviene al sapiente in modo particolare (15,9‐10). Ben Sira invita festosamente alla lode di Dio (39,14‐15); da 42,15 a 43,33 innalza un inno di lode a Dio per tutte le meraviglie che Egli compie nella natura e nella storia. La lode è il vero centro del culto (50,16‐24); nella liturgia convergono creazione, storia e timor di Dio.
Non tutti gli studiosi ammettono un atteggiamento positivo di Ben Sira verso la liturgia. Secondo J.G. Snaith, Ben Sira attribuirebbe importanza più alla giustizia sociale e alla legge morale che alla liturgia. A me non sembra che si debba sminuire l’importanza del culto in Ben Sira, che tra l’altro visse in un’epoca in cui il culto era praticamente l’unico mezzo per Israele di affermare la propria identità. Vedi anche quanto dice di Aronne (Sir 45,6‐22).
La preghiera di 36,1‐22 fa di Israele, Gerusalemme, Sion e del tempio il «luogo» dell’agire e del rivelarsi di Dio, il banco di prova della fedeltà di Dio alle sue promesse.
2.5. TEODICEA
Il problema della teodicea, tanto urgente per Ben Sira in un’epoca in cui il giudaismo era sfidato dall’ellenismo, resta attualissimo anche per noi. Il termine «teodicea» indica l’interro‐gativo che sorge quando dalla coscienza di ogni pur minima disarmonia dell’esistenza si im‐pone il problema più vasto di Dio; per Israele in particolare di quel Dio che si prende a cuore la sorte del suo popolo.
Nella creazione e tra gli uomini ci sono realtà e aspetti contrari (bene‐male, vita‐morte, lu‐ce‐tenebre, il buono‐il malvagio, ecc.): fin dall’inizio Dio ha creato tutte le cose a due a due, l’una di fronte all’altra (cf. 33,15). Ben Sira non considera la realtà ontologicamente e pertan‐to non scinde le creature su due fronti, contrapposti secondo i canoni di un dualismo deter‐ministico; ma ha una concezione dinamica, nella quale le cose si rivelano più per quello che valgono che per quello che sono. Gli elementi creati sono visti nella loro funzionalità storica. In questa prospettiva vanno considerate sia l’ambivalenza delle cose create, alcune delle qua‐li hanno una funzione punitiva (39,12‐35), sia i fenomeni naturali, come testimonianza della gloria del Creatore (42,15–43,33). Non c’è posto per un dualismo metafisico.
Anche l’esistenza umana è piena di antinomie e di miserie, e infine è soggetta alla morte (15,11–18,14; 40,1‐17; 41,1‐13). Ben Sira risponde alle obiezioni di coloro che attribuiscono a Dio il male dell’uomo o che giustificano il male con la noncuranza di Dio nei confronti del mondo. Per lui è chiaro che l’uomo è libero e responsabile. Il male è il rifiuto della Legge data da Dio, è insensatezza (16,23) non solo perché resta incomprensibile, essendo rifiuto di sa‐pienza, ma perché è un non‐operare secondo le vie concrete degli insegnamenti della legge e della storia. Il cosiddetto problema del male diventa allora una questione esclusivamente storica ed antropologica. Ben Sira non dice nulla in realtà sull’origine del male, limitandosi so‐
124 Siracide
lo ad affermare la libertà e la responsabilità umana. Dio non può essere la causa del male. La morte è la sorte comune a tutti gli uomini e rappresenta la fine normale cui ogni creatura è soggetta. Di essa non si può accusare Dio. Il sapiente è consapevole della complessità della vita umana e di fronte al mistero resta in silenzio adorante.
2.6. LE DONNE
Della donna si parla in molti testi, soprattutto nelle seguenti pericopi: 23,16‐27; 25,1–26,28; 41,14–42,14. Ben Sira è un uomo e si rivolge a uomini; egli si mette quasi sempre dal punto di vista dell’uomo, non della donna. Anche quando dà un giudizio negativo sulle rela‐zioni tra uomo e donna, Ben Sira giudica dal punto di vista dell’uomo, tenendo conto della sua debolezza e fragilità. I suoi consigli sono diretti a giovani orientati al matrimonio e perciò tutto quello che dice sulla donna è in funzione della vita coniugale.
La sposa può essere buona o cattiva. L’uomo può rovinare la famiglia, ma quando il male viene dalla sposa è la morte del focolare domestico: «A causa della donna l’inizio della colpa e a causa di essa periamo» (25,24). Secondo М. Gilbert questo difficile versetto significa: è la rovina di un focolare quando la sposa è fonte prima di malvagità.
Tuttavia Ben Sira non è affatto un misogino. In verità, egli dice molto poco della donna in sé, perché la vede in funzione della famiglia e di ciò che essa è per l’uomo. Non parla di ciò che ella può e deve attendersi dal marito; non parla di un vero dialogo coniugale, benché ri‐conosca il valore straordinario dell’armonia tra gli sposi (25,1). Ogni donna resta per l’uomo anche sposato una potenza di attrazione davanti alla quale egli deve riconoscere la sua debo‐lezza. Ben Sira resta naturalmente legato ai condizionamenti culturali e sociologici del suo tempo: la donna, per quanto responsabile dei suoi atti (23,22‐23) quanto l’uomo, non ha gli stessi diritti nella società e nella famiglia, in cui lo sposo è il ba‘al (padrone, capo).
2.7. ELOGIO DEI PADRI (CC. 44–49)
Questa sezione è un insieme letterariamente e contenutisticamente ben compaginato in unità. Qui è il «climax» dell’opera, cui tendono i capitoli precedenti. La «laus patrum» è an‐che la sezione più originale di tutta l’opera. Si tratta di una rilettura del passato nel genere del midrash haggadico.
Ben Sira traccia una galleria di «medaglioni» dei grandi eroi, buoni e malvagi, del passato con uno scopo didattico rivolto al presente. Il tema dell’alleanza percorre tutta la visione sira‐cidea della storia: nei cc. 44–49 il termine berît ricorre 11 volte. Il concetto di alleanza di Ben Sira si avvicina a quello della tradizione sacerdotale: l’alleanza è una benevola e libera dispo‐sizione della divina Provvidenza, una promessa fatta da Dio. Aronne è, tra i personaggi del‐l’alleanza, quello che ha maggior rilievo; appare così che per Ben Sira la liturgia, il culto pub‐blico reso al Dio di Israele è la gloria più grande della religione giudaica. Ma il culto non è af‐fatto separato dalla sapienza e dalla legge.
Stranamente, Ben Sira non parla dell’esilio; anzi, si può dire che egli implicitamente lo ne‐ga. Meraviglia anche il suo silenzio su Esdra. È di R.A.F. Mac Kenzie l’ipotesi che Ben Sira di‐scendesse da una famiglia che non aveva mai conosciuto l’esilio ed era rimasta in Palestina; ciò spiegherebbe anche la sua scarsa simpatia per l’opera di riforme radicali di Esdra.
Siracide 125
2.8. LE PROSPETTIVE FUTURE
Ben Sira ne parla poco. Per ciò che concerne la nazione, non pensa a un messia che possa un giorno stabilire un ordine nuovo1. Egli spera che il sacerdozio sadocita continui a mante‐nersi alla testa del suo popolo (50,24 ebraico). Prega per la restaurazione d’Israele, il compi‐mento delle profezie e l’unità del genere umano nel riconoscimento dell’unico vero Dio (36,1‐22). Egli è sicuro della perennità d’Israele (37,25).
Quanto al fine ultimo dell’individuo, Ben Sira non è un innovatore2. Parla della morte in un tono disincantato (14,11‐19; cfr. 40,1‐11; 41,1‐4). Per il dopo morte egli prevede solo lo šeol (14,16), dove nessuno loda il Signore (17,27‐28): «Ciò che attende l’uomo sono i vermi!» (7,17 ebraico). Di uno che è morto rimane solo il ricordo della sua saggezza (39,9‐11) o delle sue buone azioni (41,12‐13; 4,10‐15).
Alcune aggiunte del testo lungo hanno cercato invece di superare queste prospettive futu‐re abbastanza strette. Secondo queste aggiunte, dopo la morte ogni individuo avrà il suo giorno di giudizio, in cui Dio lo “visiterà” ed esaminerà tutte le sue azioni. Per i cattivi, sarà un giorno d’ira e di vendetta; essi saranno gettati nelle profondità della terrà per ricevervi la loro “sorte” di tenebre e di dolore. Per i giusti sarà l’ingresso nel mondo futuro, il mondo santo, la “parte” di verità; essi gioiranno della vita eterna, ricompensa senza fine che comporta l’onore ricevuto da Dio e una gioia perenne. Uno stadio intermedio tra la morte e la sorte finale della ricompensa eterna viene segnalata in Sir VL 24,32(45) e forse 44,16 (“nel paradiso”).
BIBLIOGRAFIA
AA. VV., Sefer Ben Sira, Yerushalaim 1973. ADINOLFI, M., Il medico in Sir 38,1‐15, in Anton 62 (1987) 172‐183. BOCCACCINI, G., Origine del male, libertà dell’uomo e retribuzione nella Sapienza di Ben Sira, in
Henoch 8 (1986) 1‐37. BOCCACCIO, P. ‐ BERARDI, G., Ecclesiasticus. Textus hebraeus secundum fragmenta reperta, Roma
1986. BONORA, A., Siracide, in A. BONORA ‐ M. PRIOTTO (edd.), Libri sapienziali e altri scritti (Logos 4),
Torino‐Leumann 1997, 85‐98. CALDUCH‐BENAGES, N., En el crisol de la prueba. Estudio exegético de Sir 2,1‐18 (Asociación
Bíblica Española 32), Estella 1997. CALDUCH‐BENAGES, N., Un gioiello di sapienza. Leggendo Siracide 2 (Cammini nello Spirito.
Biblica 45), Milano 2001. DI LELLA, A.A., Siracide, in Nuovo Grande Commentario Biblico, Brescia 1997, 647‐664. DI LELLA, A.A., The Hebrew Text of Sirach. A Text‐Critical and Historical Study, The Hague 1966. DUESBERG, H. ‐ FRANSEN, I. (edd.), Ecclesiastico (BG), Torino‐Roma 1966. LÉVI, I., L’Ecclésiastique ou la Sagesse de Jésus, fils de Sira, 2 voll., Paris 1898, 1901. MINISSALE, A., La versione greca del Siracide. Confronto con il testo ebraico alla luce
dell’attività midrascica e del metodo targumico (Analecta Biblica 133), Roma 1995. MINISSALE, A., Siracide (NVB 23), Roma 1980. MINISSALE, A., Siracide. Le radici nella tradizione (LoB 1,17), Brescia 1988.
1 Cfr. A. CAQUOT, Ben Sira et le messianisme, in Sem 16 (1966) 43‐68; J. D. MARTIN, Ben Sira’s Hymn to the Fa‐
thers. A Messianic Perspective, in OTS 24 (1986) 107‐123. 2 Cfr. V. HAMP, Zukunft und Jenseits im Buche Sirach, in Festschrift Nötscher (BBB 1), Bonn 1950, 86‐97; M. FANG
CHE‐YONG, Ben Sira de novissimis hominis, in VD 41 (1963) 21‐38.
126 Siracide
MORLA ASENSIO, V., Il libro dell’Ecclesiastico, in IDEM, Libri sapienziali e altri scritti (Introduzione allo studio della Bibbia 5), Brescia 1997, 175‐208.
MORLA, V., Eclesiástico, Salamanca‐Madrid‐Estella 1992. PETERS, N., Das Buch Jesus Sirach oder Ecclesiasticus übersetzt und erklärt, Münster 1913. PRATO, G.L., Classi lavorative e otium sapienziale. Il significato teologico di una dicotomia so‐
ciale secondo Ben Sira (38,24–39,11), in G. DE GENNARO (ed.), Lavoro e riposo nella Bib‐bia (Studio Biblico Teologico Aquilano), Napoli 1987, 149‐175.
PRATO, G.L., Il problema della teodicea in Ben Sira. Composizione dei contrari e richiamo alle origini (AnBib 65), Roma 1975.
RAVASI, G., Siracide, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello Balsamo 1988, 1490‐1496.
RÜGER, H.P., Text und Textform im hebräischen Sirach. Untersuchungen zur Textgeschichte und Textkritik der hebräischen Sirach fragmente aus der Kairoer Geniza (BZAW 112), Berlin 1970.
SEGAL, M.TS., Sefer Ben Sira haššalem, Yerushalaim 21958. SISTI, A., Riflessi dell’epoca premaccabaica nell’Ecclesiastico, in RivBib 12 (1964) 215‐256. SKEHAN, P.W. ‐ DI LELLA, A.A., The Wisdom of Beп Sira (AB 39), New York 1987. SMEND, R., Die Weisheit des Jesus Sirach, Berlin 1906. SMEND, R., Griechisch‐syrisch‐hebräischer Index zur Weisheit des Jesus Sirach, Berlin 1907. SNAITH, J.G., Ecclesiasticus, Cambridge 1974. VATTIONI, F., Ecclesiastico. Testo ebraico con apparato critico e versioni greca, latina e siriaco,
Napoli 1968. VIRGULIN, S., Ecclesiastico o Siracide, in T. BALLARINI (ed.), Ultimi storici, Salmi, Sapienziali (In‐
troduzione alla Bibbia 3), Bologna 1978, 443‐472. YADIN, Y., The Ben Sira Scroll from Masada, Jerusalem 1965. ZAPPELLA, M., Criteri antologici e questioni testuali nel manoscritto ebraico C di Siracide, in Ri‐
vBib 38 (1990) 273‐300. ZATELLI, I., Yir’at JHWH nella Bibbia, in Ben Sira e nei rotoli di Qumran: considerazioni sintatti‐
co‐semantiche, in RivBib 36 (1988) 229‐237. Infine, il numero unico di Parole di Vita, n. 4/2003: «Il libro del Siracide».
SAPIENZA*
Affascinante ed enigmatica, questa Sapienza di Salomone! È l’ultimo libro importante della sapienza dell’antico Israele, ma il primo a parlare in greco e a confrontarsi con la cultura el‐lenistica. Ponte gettato tra l’Antico Testamento e il Nuovo, quest’opera di un fedele giudeo ellenistico dovette vedere la luce quando stava per nascere il cristianesimo. Trasmesso dai cristiani, è riconosciuto come libro canonico dalla Chiesa cattolica.
Finora poco studiato, questo libro solleva molti problemi, soprattutto di ordine letterario. Per tale ragione, senza perdere di vista il messaggio dell’anonimo autore, la nostra attenzione si fermerà sull’analisi del libro.
1. IL LIBRO
1.1. CONTENUTO E STRUTTURA LETTERARIA DEL LIBRO
Per determinare la struttura letteraria del libro, cioè l’organizzazione e la disposizione del‐le sue diverse parti, l’esegeta può basarsi sugli indizi verbali offerti dal testo stesso. Si notano così le ricorrenze di parole o di espressioni e la loro collocazione; si individuano allora degli insiemi le cui estremità hanno, per esempio, le stesse parole; e se ne scoprono altri più lunghi la cui organizzazione si presenta sotto una forma detta concentrica (a‐b‐c‐b’‐a’, per esem‐pio).1
Per chiarezza presenteremo qui in modo schematico il piano delle grandi parti che costi‐tuiscono il Libro della Sapienza, ma cominceremo ogni volta col riassumere il contenuto del testo seguendo le indicazioni fornite dall’analisi della struttura letteraria.
1.1.1. Sap 1–6
In apertura del libro l’autore si rivolge direttamente ai lettori, considerati come principi del mondo, invitandoli ad «amare la giustizia» e a «cercare il Signore» (1,1), a evitare le recrimi‐nazioni, simili a quelle degli ebrei nel deserto, le parole empie e le azioni che meritano la morte (1,11‐12). Infatti i pensieri e i propositi perversi allontanano la Sapienza e il giudizio at‐tende i colpevoli (1,2‐10).
A titolo di illustrazione l’autore dà subito la parola agli empi: la vita appare loro senza alcu‐na prospettiva di un aldilà; al momento della morte lo spirito stesso si dissipa come l’aria; conviene perciò godere il più possibile del tempo presente (2,1‐9). Ma la sola presenza del giusto, la sua fedeltà alle tradizioni ancestrali e i rimproveri che egli rivolge agli empi spin‐gono questi ultimi a perseguitarlo: il giusto è convinto che Dio proteggerà la sua sorte finale; ebbene, «condanniamolo a una morte infame e vedremo» (2,10‐20).
Questo discorso, in cui gli empi oppongono la loro concezione della morte a quella del giu‐sto, è inquadrato da due riflessioni fondamentali dell’autore: le creature sono portatrici di salvezza e Dio ha creato l’uomo immortale, incorruttibile (1,13‐16; 2,21‐24).
Queste affermazioni sono allora applicate a tre categorie di giusti la cui esistenza, agli oc‐chi di questo mondo, sembra una sciagura: i giusti che muoiono nella sofferenza (3,1‐9), la donna sterile o l’eunuco, tuttavia fedeli (3,11‐15; 4,1‐2), infine il giusto che muore nel fiore degli anni (4,7‐14a); nessuno di essi avrà conosciuto quaggiù la felicità che si ritiene ricom‐
* M. GILBERT, La Sapienza di Salomone, in J. AUNEAU (ed.), I Salmi e gli altri Scritti (Piccola Enciclopedia Biblica
5), Roma 1991, 324‐355. 1 Cfr. A. G. WRIGHT, The Structure of the Book of Wisdom, in Bib 48 (1967) 165‐184; P. BIZZETI, Il libro della
Sapienza. Struttura e genere letterario, Brescia 1984, 49‐111; M. GILBERT, Sagesse de Salomon (ou Livre de la Sagesse), in DBS 11 (1986) 65‐77 (con bibliografia).
128 Sapienza
pensa della virtù, ma riceveranno la loro ricompensa in occasione della «visita» di Dio, cioè al di là della morte, quando gli empi, che sono confrontati con essi caso per caso (3,10.16‐19; 4,2‐6.14b‐20), saranno castigati.
L’autore immagina poi l’incontro nell’aldilà tra i giusti e gli empi (5,1‐3). Facendo eco al lo‐ro discorso‐programma, questi ultimi riprendono la parola, ma questa volta per esprimere il loro stupore per la felicità del giusto (5,4‐5) e riconoscere la vacuità della loro vita (5,6‐13). Infatti – commenta l’autore – Dio interverrà direttamente contro gli empi e in favore dei giu‐sti e prenderà come armi le forze del cosmo (5,14‐23).
A mo’ di conclusione l’autore si rivolge nuovamente ai re e ai principi perché ascoltino il suo messaggio (6,12.11.21.25): un giudizio più severo li attende perché sono più potenti degli altri (6,3‐10) e, d’altra parte, la Sapienza, garanzia di un regno immortale, non si rifiuta a colui che la cerca (6,12‐20).
Gli ultimi versetti (6,22‐24) servono da transizione, annunciando la seconda parte: qual è la natura della Sapienza, la sua origine, la sua storia?
Il piano di questa prima parte, visto schematicamente, appare concentrico: all’esortazione iniziale corrisponde l’esortazione finale che riprende gli stessi temi, ma in ordine inverso; al discorso‐programma degli empi fa eco quello che essi pronunceranno nell’aldilà, riprendendo le stesse idee, ma nuovamente in ordine inverso; infine nei tre dittici centrali, il contrasto tra virtù e morte inquadra quello della virtù nella sterilità.
Ecco i dettagli di questa struttura letteraria:
A. Esortazione ai principi (1,1‐12) la Sapienza non si rivela all’empio; egli non dimentichi che ci sarà un giudizio!
B. Progetto degli empi: Introduzione (1,13‐16): creazione e immortalità; critica degli empi. Discorso degli empi (2,1‐20): senso della vita e opzione per il piacere; complotto contro il giusto. Conclusione (2,21‐24): critica degli empi; creazione e incorruttibilità.
C. Tre tipi paradossali di esistenza e loro contrasto (3–4): il giusto che muore nella sofferenza – gli empi; la sterile e l’eunuco – la discendenza degli empi; il giusto che muore prematuramente – le folle degli empi.
B’. Bilancio degli empi: Introduzione (5,1‐3): il giusto di fronte agli empi. Discorso degli empi (5,4‐13): il trionfo del giusto; la loro opzione e il senso della vita. Conclusione (5,14‐23): l’empio e i giusti; Dio e il combattimento cosmico finale.
A’. Esortazione ai principi (6): non dimentichino che ci sarà un giudizio! La Sapienza si rivela a chi la cerca ed è garanzia di immortalità. Annuncio di ciò che segue (6,22‐25).
1.1.2. Sap 7–9
L’autore che, in questa nuova parte come in Sap 6, parla alla prima persona singolare, si presenta, senza dirlo, sotto i tratti di Salomone. Egli precisa, per cominciare, di essere nato come ogni altro uomo; non è quindi un dio e la sapienza non è una questione di eredità o di atavismo (7,16). Egli ha ricevuto la Sapienza perché l’ha domandata nella preghiera, prefe‐rendola a tutti i beni che sono appannaggio della regalità; riconosce pure di aver ricevuto ugualmente questi altri beni, grazie alla Sapienza da lui preferita (7,7‐12). Egli rinnova poi la
Sapienza 129
sua intenzione di parlare di essa e domanda a Dio la grazia di poterlo fare adeguatamente; ha ricevuto da Dio una vasta cultura: è ritenuto maestro in tutti i campi del sapere del suo tem‐po, ma in realtà è la Sapienza che l’ha istruito (7,13‐21).
Egli descrive allora questa Sapienza attribuendo allo spirito che è in essa una lista di ventu‐no qualità: di una purezza assoluta, la Sapienza penetra tutto, cercando solo di realizzare il bene. Queste qualità si giustificano per il fatto che la Sapienza emana da Dio di cui è il soffio, l’effluvio, il riflesso, lo specchio, l’immagine. Così si spiega la sua azione: essa regge l’universo in modo benefico e forma amici di Dio e profeti (7,22–8,1).
Essendo la Sapienza fin dall’origine del mondo l’intima di Dio, lo pseudo‐Salomone arriva a desiderare di averla come sposa poiché è più importante di qualsiasi altra cosa che possa formare un’autentica personalità: benessere, intelligenza, virtù, cultura (8,2‐8). Prendendo la Sapienza come sposa, le sue qualità di re saranno ancora più evidenti, nel consiglio come nel‐la guerra, e la sua vita privata sarà felice (8,9‐16). Per tale ragione, dotato di buone doti natu‐rali, ma consapevole che la Sapienza la si riceve solo domandandola, egli si decide a pronun‐ciare la sua preghiera (8,17‐21).
Possiamo presentare così in modo schematico la struttura di Sap 7–8:
A. Salomone nacque come ogni altro uomo (7,1‐6), B. ma domandò la Sapienza nella preghiera e ricevette con essa tutti i beni regali (7,7‐12); C. ricevette ugualmente tutti i beni di carattere culturale (7,13‐21). D. Descrizione della Sapienza: natura, origine e azione (7,22–8,1). C’. La Sapienza porta tutto ciò che forma una personalità (8,2‐8). B’. Con essa come sposa, Salomone si mostrerà un grande re (8,9‐16).
A’. Per l’uomo dotato di buone doti naturali, la Sapienza si ottiene solo con la preghiera (8,17‐21).
La preghiera di Sap 9 si divide in tre strofe2: la prima (9,1‐6) e la terza (9,13‐18) riguardano ogni uomo, mentre la seconda (9,7‐12) si riferisce a Salomone. L’insieme è strutturato in modo concentrico: la prima strofa trova un eco nella terza, ma nell’ordine inverso; la strofa centrale è anch’essa di struttura concentrica. Così la duplice richiesta della Sapienza appare al centro della preghiera (9,10), preparata da una prima richiesta al centro della prima strofa (9,4), alla quale fa eco il versetto centrale della terza (9,17). La struttura concentrica, già emersa in Sap 1–6 e 7–8, riappare quindi nella preghiera di Sap 9; eccone gli elementi principali:
I. a : Vocazione dell’uomo (9,1‐3) b : richiesta della Sapienza (9,4) c : a causa della fragilità umana (9,5‐6). II. d : Vocazione di Salomone (9,7‐8) e : La Sapienza presso Dio (9,9) b’ : richiesta della Sapienza (9,10ab). e’ : La Sapienza presso Salomone (9,10c‐11) d’ : realizzazione della vocazione di Salomone (9,12). III. c’ : A causa della fragilità umana (9,13‐17a) b’’ : richiesta implicita della Sapienza (9,17bc) a’ : realizzazione della vocazione umana (9,18).
1.1.3. Sap 10–19
Ricollegandosi all’ultimo versetto della preghiera di Sap 9 («essi furono salvati per mezzo della Sapienza»), si apre in Sap 10 un grande affresco in cui vengono evocati i principali per‐sonaggi e gli eventi fondatori dell’umanità e d’Israele; l’autore si ispira evidentemente alla Bibbia, in particolare a Gen, Es e Num.
Sap 10 passa in rassegna gli eroi biblici che si sono succeduti da Adamo fino a Mosè alla testa del popolo: essi dovettero tutti la loro salvezza alla Sapienza, mentre quelli che si se‐
2 M. GILBERT, La structure de la prière de Salomon (Sg 9), in Bib 51 (1970) 301‐331.
130 Sapienza
pararono da essa finirono male. Gli ultimi versetti (10,15‐21) ricordano brevemente i grandi eventi dell’esodo e terminano con un’allusione al cantico di Es 15. I primi versetti di Sap 11 situano gli ebrei nel deserto, dopo il passaggio del mar Rosso (11,1‐3).
I capitoli seguenti (11–19) presentano una struttura complessa. In breve l’autore, senza tuttavia seguire alla lettera i racconti del libro dell’Esodo, oppone un diverso beneficio accor‐dato da Dio a Israele a ciascuna piaga che colpisce gli egiziani. Questi dittici di contrari sono stabiliti sulla similitudine dell’elemento cosmico utilizzato dal Signore. Due digressioni inter‐rompono però questa lunga meditazione rivolta tutta quanta al Signore.
Primo dittico: avendo il faraone ordinato di gettare nel fiume i neonati maschi di Israele (11,6; cfr. Es 1,22), l’acqua del Nilo fu mutata in sangue e divenne imbevibile; invece, nel de‐serto, Israele ricevette l’acqua della roccia (11,7‐14)3.
Dittico seguente: le piaghe provocate da diverse bestiole sono dapprima segnalate rapida‐mente (11,14); saranno spiegate molto più a lungo solo più avanti nel libro (16,1‐14). Nel frattempo l’autore propone due digressioni.
La prima (11,15–12,27) spiega perché il Signore avesse deciso di punire con uno strumen‐to così ridicolo. Queste piaghe inflitte dalle bestiole inviate contro l’Egitto sono messe in pa‐rallelismo con il castigo dei Cananei per mezzo dei calabroni; secondo l’autore, Dio castiga in questo modo non per impotenza ma per preoccupazione di moderazione, perché egli ama le sue creature e vuole solo la conversione dei colpevoli (11,23–12,2); ma se costoro si ostinano egli proseguirà fino al castigo supremo (12,23‐27). L’autore ne trae la lezione che il giusto de‐ve imitare la misericordia di Dio (12,19‐22).
La seconda digressione (13–15)4 spiega la ragione per cui gli egiziani furono castigati proprio con degli animali. Il motivo è stato già brevemente annunciato in Sap 11,15‐16; 12,23.27, ma, analizzando i tre tipi fondamentali di culto praticati dai pagani del suo tempo – culto degli ele‐menti della natura (13,1‐9), culto degli idoli (13,10–15,13), culto degli animali viventi (15,14‐19) – l’autore sottolinea il carattere estremamente aberrante di questa zoolatria che gli egiziani praticavano da vari secoli (cfr. Es 8,22). Quando se ne presenta l’occasione, l’autore riprende la critica dell’idolatria, ma approfondendo le obiezioni di ordine teologico: all’inizio e alla fine (13,10‐19; 15,7‐13) egli mostra la follia dei fabbricanti di idoli, mentre al centro (14,11‐31) ana‐lizza il processo degradante inerente all’idolatria: il culto sbagliato genera le peggiori deprava‐zioni morali; invece la storia sacra dimostra che Dio salva senza gli idoli (14,1‐7) e che Israele, benché anch’egli peccatore, non è sprofondato nell’abisso dell’idolatria (15,1‐5). La struttura di questa seconda digressione è quindi la seguente:
I. culto della natura (13,1‐9). II. culto degli idoli (13,10–15,13): A. idoli d’oro, d’argento, di pietra e soprattutto di legno; ruolo del legnaiolo fabbricante di idoli (13,10‐19); B. riferimento alla storia sacra; invocazione; annuncio o transizione (14,1‐10). C. Castigo degli idoli; invenzione e conseguenze dell’idolatria; castigo degli idolatri (14,11‐31). B’. Riferimento alla storia sacra; invocazione; annuncio o transizione (15,1‐6). A’. Idoli di argilla; ruolo del vasaio che fabbrica idoli (15,7‐13). III. Culto degli animali viventi (15,14‐19).
3 Es 17,5‐6 avvicina già i due prodigi operati da Mosè con lo stesso bastone. 4 Cfr. M. GILBERT, La critique des dieux dans le Livre de la Sagesse (Sg 13–15) (AnBib 53), Rome 1973, 245‐
257.
Sapienza 131
Terminate queste digressioni, l’autore riprende il suo racconto degli eventi dell’esodo là dove l’aveva lasciato in 11,15, cioè alle piaghe inflitte dalle bestiole. Questa volta però ne di‐stingue due tipi: da una parte, alle rane che tolgono ogni appetito agli egiziani egli oppone le quaglie (16,1‐4); dall’altra, ai tafani e alle cavallette, contro i cui morsi non c’era rimedio (qui l’autore va oltre i racconti dell’Esodo), oppone il serpente di bronzo alla vista del quale Israele riceveva da Dio la guarigione (16,5‐14).
Il dittico seguente oppone i raccolti degli egiziani, distrutti dalla grandine e dalla tempesta, alla manna donata a Israele durante il suo soggiorno nel deserto (16,15‐29). Poi alle tenebre che avvolgono gli egiziani viene opposta la luce che illuminava Israele nel paese di Gošen, come pure in occasione del passaggio del mar Rosso (17,1–18,4).
Infine le piaghe degli ultimi due dittici vengono dapprima presentate insieme, la morte dei primogeniti degli egiziani e l’affogamento dell’esercito del faraone nel mar Rosso; esse furono motivate dal decreto infanticida del faraone (18,5; cfr. 11,6). Dopo di che l’autore distingue i due dittici. Alla morte dei primogeniti degli egiziani, quando Israele, riconosciuto figlio di Dio, celebra la pasqua e attende la salvezza (18,6‐19), l’autore oppone l’intercessione di Aronne che arrestò il flagello mortale che colpiva Israele nel deserto in occasione della rivolta di Core (18,20‐25; cfr. Num 17,11‐14). Infine, all’affogamento dell’esercito del faraone viene opposto il passaggio degli ebrei all’asciutto e ricorda il loro cantico di Es 15 (19,1‐9; cfr. 10,20).
Se ora, messe da parte le due digressioni (11,15–12,27; 13–15), guardiamo all’insieme del‐la struttura di tutti questi dittici, costatiamo che essi sono o del numero di cinque (in cifre ro‐mane), o del numero di sette (in cifre arabe), a seconda che si tenga conto o meno di 11,15 e di 18,5, in cui l’autore accosta da una parte tutte le piaghe per mezzo delle bestiole e dall’altra la morte che colpisce l’Egitto nei suoi primogeniti e nel suo esercito. Si ottiene allora lo schema seguente:
I = 1: acqua del Nilo – acqua della roccia (11,1‐14) II = 2: rane – quaglie (16,1‐4) = 3: tafani e cavallette – serpente di bronzo (16,5‐14) III = 4: raccolto distrutto dalla grandine – manna (16,15‐29) IV = 5 : tenebre – luce (17,1–18,4) V = 6: morte dei primogeniti degli egiziani – Israele risparmiato (18,6‐25) = 7: il mar Rosso uccide – libera (19,1‐9)
Inoltre delle allusioni al cantico di Es 15 appaiono in 10,20 e 19,9, che incorniciano l’in‐sieme del racconto. Similmente il decreto infanticida del faraone viene menzionato all’inizio di I (11,6) e di V (18,5): è una seconda inclusione dell’insieme. Inoltre, i dittici 1 e 7 fanno in‐tervenire entrambi lo stesso elemento, l’acqua. D’altra parte il dittico centrale, nell’uno e nell’altro sistema (III=4) offre l’occasione all’autore di precisare che il cosmo lotta con Dio contro i colpevoli e in favore dei giusti (16,24); ora questa affermazione centrale si trova ri‐presa in conclusione del libro.
Alle correlazioni di struttura indicate sopra per l’insieme dei dittici possiamo aggiungere le seguenti che abbiamo appena rilevato:
cantico di Es 15 (10,20) l’acqua (11,6) decreto infanticida (11,7) . . . manna; ruolo del cosmo (16,20.24) . . . decreto infanticida (18,5) l’acqua (19,1‐8) cantico di Es 15 (19,9)
132 Sapienza
Queste ultime osservazioni dimostrano che l’ultima parte del libro comporta anch’essa degli elementi di una struttura concentrica.
La conclusione riprende l’essenziale dei principali avvenimenti dell’esodo: il cosmo si tra‐sforma per meglio lottare in favore dei giusti (19,10‐12.18‐21) contro dei nemici peggiori dei sodomiti che avevano accolto male degli stranieri (19,13‐17; cfr. Gen 19,1‐11). Questo rias‐sunto si conclude con un richiamo alla manna, spiegata nel dittico centrale (III=4) e qualifica‐ta qui come ambrosia, cibo celeste degli antichi che assicurava l’immortalità.
Infine, secondo l’ultimo versetto del libro (19,22), ciò che il Signore aveva fatto in occa‐sione dell’esodo in favore del suo popolo, lo ripete in ogni tempo e in ogni luogo sotto forme diverse: Dio non manca mai di salvare i suoi.
L’insieme della struttura del libro denota delle caratteristiche presenti ovunque. Le strut‐ture concentriche sono individuabili in tutte le parti, anche nella presentazione degli avveni‐menti dell’esodo. Talvolta la struttura concentrica si rivela a tre rami: lo stesso tema appare tre volte, all’inizio, in mezzo e alla fine di un insieme e delimita così la sua struttura; tale è il caso in 1,16; 2,9.24 (la parte degli empi); in 6,1‐2.9‐11.21 (appello ai principi); 9,4.10.17bc (richiesta della Sapienza); in 11,15‐16; 12,23‐27; 16,1 (la piaga per mezzo delle bestiole).
Quanto ai dittici, caratteristici del richiamo agli avvenimenti dell’esodo (11–19), si trovano anche in 3–4 (i giusti e gli empi), in 11,15–12,27 (egiziani e cananei) e in 13–15 (gli idolatri e il popolo di Dio).
Infine tutte le parti appaiono fortemente legate tra loro. La seconda, che fa l’elogio esplici‐to della Sapienza, viene preparata in 6,12‐21 e annunciata in 6,22. La terza si lega molto na‐turalmente alla seconda in quanto sviluppa 9,18, l’ultimo versetto della preghiera, e la lunga meditazione sull’esodo è preparata dal riassunto di 10,15‐21; inoltre, la preghiera di Sap 9 si prolunga nel racconto che prende la forma di inno: da 10,20 fino alla fine del libro l’autore si rivolge il più delle volte al Signore stesso.
1.2. GENERE LETTERARIO
Qual è il genere letterario di questo libro preso nella sua totalità?5 Dopo Focke e soprattutto Reese6 si parla spesso di logos protreptikos, di discorso protretti‐
co. Ma questa ipotesi solleva due difficoltà: innanzitutto del Protreptico di Aristotele, l’esem‐pio tipo di questo genere letterario, sappiamo in realtà ben poco dai frammenti che ci sono pervenuti; inoltre, tutta la parte finale del libro della Sapienza, che sviluppa l’evocazione del‐l’esodo con un continuo riferimento alla storia, non rientra in questo genere letterario. Co‐munque sia, l’ipotesi offre il vantaggio di orientare la ricerca verso il mondo greco, dal mo‐mento che nessun genere letterario propriamente biblico rende conto della totalità del libro della Sapienza.
Sembra opportuno parlare, con P. Beauchamp, di encomium o di elogio. Accanto ai discor‐si deliberativi e giudiziari, Aristotele, nella sua Retorica, e, dopo di lui, Cicerone e Quintiliano, collocano il discorso epidittico: questo genere letterario non serve, come quello giudiziario, a giudicare il passato, né, come quello deliberativo, a favorire una decisione che deve orientare il futuro, ma cerca di incitare l’uditorio ad ammirare e a voler imitare una persona o a prati‐care una virtù, una precisa qualità. In quest’ultimo caso ci troviamo di fronte all’encomium. Le descrizioni che ne danno Aristotele e i suoi successori si adattano a quanto troviamo nel libro della Sapienza.
5 Cfr. BIZZETI, Il libro della Sapienza, 113‐180; GILBERT, DBS 11, 77‐87. 6 F. FOCKE, Die Entstehung der Weisheit Salomos, Göttingen 1913, 85 (per Sap 1–5); J. M. REESE, Hellenistic In‐
fluence on the Book of Wisdom and its Consequences (AnBib 41), Roma 1970, 117‐121.
Sapienza 133
Secondo Aristotele, l’esordio è analogo a un «preludio di un pezzo di flauto» (Retorica, 1414b). La materia è tratta dall’elogio o dal biasimo; interviene anche il consiglio. Si tratta di risvegliare l’attenzione e l’interesse degli ascoltatori ai quali ci si rivolge direttamente. Si pre‐senta loro brevemente il tema del discorso esortandoli a metterlo essi stessi in pratica. Per mostrarne la posta in gioco si cede la parola a coloro che rifiutano il valore di ciò di cui si vuol fare l’elogio; si critica questa opinione e, attraverso situazioni dolorose o sorprendenti in cui possono trovarsi implicati gli stessi ascoltatori, si fa percepire anche quanto sia utile l’oggetto dell’elogio. L’esordio si conclude con una breve descrizione di ciò che si vuole lodare e con una traccia del seguito del discorso. Sap 1–6 corrisponde a questa descrizione. Sap 1 e 6 sono delle esortazioni in cui il contenuto del consiglio è tratto anticipatamente dall’elogio. Sap 2 e 5 formano l’accusa di un’opinione avversaria e la sua critica. Sap 3–4 oppone al comporta‐mento degli avversari delle situazioni universali paradossali. Infine, a mo’ di argomentazione, viene «congetturato» l’avvenire: immortalità, incorruttibilità e intervento di Dio in favore dei giusti mediante le forze cosmiche.
L’elogio, nel senso stretto, deve allora mostrare tre cose: l’origine, la natura e le opere o i benefici di ciò che si intende lodare. È la parte più ardua sia per l’oratore o lo scrittore che per l’ascoltatore o il lettore al quale viene chiesto uno sforzo di attenzione. Sap 7–9, annun‐ciato al termine dell’esordio (Sap 6,22), corrisponde a questo progetto. Ma a proposito dell’origine della Sapienza vengono distinti due punti di vista: l’origine della Sapienza stessa e la sua origine in Salomone o nel cuore del saggio. L’autore inizia con questo secondo punto di vista: il saggio non ha ricevuto la Sapienza fin dalla nascita, ma perché l’ha domandata a Dio nella preghiera; solo la preghiera è all’origine della Sapienza nell’uomo (7,1‐7; 8,17‐21; 9). Quanto all’origine della Sapienza stessa, essa si situa in Dio, di cui la Sapienza è il riflesso, lo specchio, l’immagine e di cui condivide l’intimità (7,25‐26; 8,3). La natura della Sapienza vie‐ne descritta con ventuno attributi: è purezza assoluta, capace perciò di penetrare ogni cosa in vista del bene (7,22‐24). Questo porta a parlare della sua attività, in quanto questa deriva dalla sua natura: la Sapienza anima l’universo e forma gli amici di Dio e i profeti (7,27–8,1); è anche l’artefice di tutte le cose (7,21; 8,4‐6), la madre di tutti i beni, che essa porta con sé a colui che la riceve (7,12). La sua attività è perciò legata alla sua origine e alla sua natura; essa concede anche ogni cosa desiderabile (7,8‐12.17‐21; 8,5‐8.10‐18). Ma ciò che caratterizza questa parte del libro è il fatto che l’elogio della Sapienza, la sua origine, la sua natura e la sua azione esigono non soltanto che essa sia preferita a tutti i beni, ma che sia richiesta nella preghiera: questo è il motivo per cui l’elogio culmina in una preghiera (Sap 9). Così l’autore, facendo l’elogio della Sapienza, fa anche in qualche modo l’elogio di Salomone, il suo model‐lo, di cui vanta la nobiltà, la cultura, lo sfarzo e la stima di cui fu circondato: tutte queste cir‐costanze, che, secondo Aristotele, l’elogio deve esporre, trovano la loro ragion d’essere nel fatto che Salomone domandò prima di ogni cosa la Sapienza.
Per confermare l’ascoltatore o il lettore nel suo desiderio di praticare ciò di cui si sta fa‐cendo l’elogio, i maestri della retorica antica suggeriscono uno sviluppo fatto di esempi ben noti. Questa parte, più accessibile, può essere elaborata a piacimento dell’oratore o autore. Uno dei modi migliori per presentare questi esempi, sempre continuando a parlare implici‐tamente dell’azione o dei benefici di ciò di cui si fa l’elogio, consiste nel proporre dei con‐fronti in quanto dal contrasto emerge la luce. Questa «amplificazione», stando a quanto dice Aristotele (Retorica, 1392a), è il luogo comune più proprio dell’epidittico. Il confronto dev’essere fatto con dei personaggi molto famosi per far emergere la superiorità di coloro che si intende lodare (Retorica, 1368a): questo confronto si chiama in greco syncrisis. Inoltre questa parte deve trarre dagli esempi addotti una lezione morale per gli ascoltatori; l’oratore è del resto libero di introdurre delle digressioni il cui scopo sarà ancora quello di convincere
134 Sapienza
l’uditorio. Infine il discorso termina con un riassunto succinto di ciò che si può trarre dagli esempi addotti; viene scagliata un’ultima freccia contro gli avversari e si conclude rapida‐mente lasciando all’uditorio il compito di prendere una decisione. Sap 10–19 corrisponde an‐cora una volta perfettamente a questa descrizione dei maestri della retorica greca e latina. Gli esempi addotti sono a tal punto conosciuti dagli ascoltatori che non è necessario dire il nome proprio (eccetto per il mar Rosso, in 10,18 e 19,7). Sono famosi: sono alla base della tradizione religiosa propria degli ascoltatori. La syncrisis molto elaborata e due digressioni si inseriscono appropriatamente. Infine la conclusione del discorso, in particolare l’ultimo at‐tacco (19,13‐17), corrisponde anch’essa alla teoria di questo genere epidittico. La grande dif‐ferenza, in continuità con quella che caratterizzava l’elogio propriamente detto (7–9), deriva dal fatto che i paragoni che vengono addotti, pur traendo delle lezioni per l’uditorio, si rivol‐gono direttamente al Signore e non all’uditorio, eccetto quando si tratta di descrivere le col‐pe degli avversari e il loro castigo7.
Si può quindi costatare che il libro della Sapienza corrisponde nella sua totalità al genere letterario degli oratori antichi: è un buon esempio di encomium o elogio.
Questa è la ragione per cui non bisogna cercare di attribuire l’una o l’altra parte alla dia‐triba o al midraš, per la ragione fondamentale che né l’una né l’altra costituiscono un genere letterario propriamente detto. La diatriba8 infatti, più che un genere letterario, è un insieme di particolarità stilistiche od oratorie utilizzate dai cinici, e poi dagli stoici, allo scopo di far ac‐cettare dal loro uditorio popolare alcuni opzioni morali. Lo stile della diatriba è diretto e di una estrema vivacità: non costruzione rigida nel discorso, ma tutto ciò che è necessario per tenere in sospeso gli ascoltatori; interpellanza, dialogo, favola, un tono ora serio ora comico, o addirittura satirico, ecc. I temi sono nobili: superiorità della morale, che mira alla felicità dell’uomo; vita semplice e frugale; importanza del saggio per la società; la virtù si rivela nelle azioni, ecc. Alcune di queste caratteristiche stilistiche e tematiche si ritrovano qua e là nel li‐bro della Sapienza, senza tuttavia fornirne un genere letterario propriamente detto.
Lo stesso vale per il midraš; anch’esso può difficilmente essere chiamato un genere lette‐rario9. Sembra piuttosto una rilettura dei testi biblici per svelarne il significato e adattarlo ai bisogni della comunità attuale. Prima dei midrašim del III secolo della nostra era, si incon‐trano solo delle caratteristiche sparse di una tendenza che non è ancora un genere letterario. Del resto questa tendenza si nota in tutte le parti del libro della Sapienza, e non soltanto in Sap 10–19; Sap 7–9 dipende dai racconti concernenti Salomone in 1Re 3–5; 2Cr 1, ma anche dai testi di Pr e di Sir che trattano della Sapienza; non mancano rapporti tra i primi capitoli del libro e Is 52,13–53,12, il canto del servo sofferente. Come scrive C. Larcher10, attraverso tutto il libro si ritrova, tra l’altro, la «stessa forma di esegesi libera o midrašica».
1.3. UNITÀ DEL LIBRO11
A partire da Chr. Fr. Houbigant (1753), parecchi critici hanno attribuito le diverse parti del libro ad autori differenti. Tuttavia, dopo C. L. W. Grimm (1860), la maggior parte dei com‐mentatori del libro ne ha difeso l’unità. Sono stati utilizzati molti argomenti; quanto abbiamo
7 Cfr. M. GILBERT, L’adresse à Dieu dans l’anamnèse hymnique de l’exode (Sg 10–19), in El misterio de la Pala‐
bra. Homenaje a L. Alonso Schökel, Madrid 1983, 207‐225. 8 Cfr. A. OLTRAMARE, Les Origines de la diatribe romaine, Genève 1926, 9‐17; 43‐65. 9 Cfr. R. LE DÉAUT, A propos d’une definition du midrash, in Bib 50 (1969) 395‐413; REESE, Hellenistic Influence,
91‐99; nonostante G. M. CAMPS, Midras sobre la historia de las plagues (Ex 1–12), in Miscellanea biblica B. Ubach, Montserrat 1953, 97‐114, e R. T. SIEBENECK, The Midrash of Wisdom 10–19, in CBQ 22 (1966) 176‐182.
10 C. LARCHER, Études sur le Livre de la Sagesse (EtB), Paris 1969, 103. 11 Cfr. C. LARCHER, Le Livre de la Sagesse, I (EtB n.s. 1), Paris 1983, 95‐119; GILBERT, DBS 11, 87‐91.
Sapienza 135
cercato di spiegare nelle pagine precedenti va nella stessa direzione. Se il testo originale del libro è proprio quello greco che ci è stato trasmesso, se la struttura letteraria di questo libro è omogenea e corrisponde inoltre a un solo genere letterario, quello dell’encomium o elogio, allora bisogna ritenere che il libro costituisce un’autentica unità.
Sono state avanzate anche altre argomentazioni: 1. P. W. Skehan12 argomenta a partire dalla sticometria, cioè sulla base degli stichi nelle di‐
verse parti del libro. Ma, se è vero che Sap 1–9 comporta cinquecento stichi, non si può ar‐rivare a una conclusione certa per il numero degli stichi nei capitoli seguenti, in quanto que‐sto numero, checché ne dica Skehan, non è sicuro. Conviene perciò abbandonare questo tipo di argomento.
2. A. G. Wright13 ritiene, da parte sua, che Sap sia stato scritto rispettando le proporzioni indicate dal numero d’oro. Sappiamo che le Georgiche di Virgilio sono costruite sul numero d’oro. Tuttavia la dimostrazione è poco convincente in quanto alcune divisioni del testo pro‐poste da Wright sembrano artificiali.
3. J. M. Reese14 trova nelle diverse parti del libro la ripetizione di parole significative o di una stessa idea originale. I risultati di questo metodo sono molto più probanti; essi mostrano come Sap 10–19 sia legato a Sap 1–9.
4. Alcuni autori hanno dimostrato anche la coerenza del libro nel trattamento di alcuni temi. P. Beauchamp15 ha rilevato che, nelle tre parti del libro, il cosmo gioca continuamente un ruolo capitale. J. M. Reese16 aggiunge i temi seguenti ugualmente presenti in modo coe‐rente in tutto il libro:
– conoscenza religiosa di Dio; – interazione di malizia e ignoranza; – immortalità dell’uomo e temi connessi; – uso didattico della storia. 5. Un’ultima argomentazione condurrà al capitolo seguente. Secondo C. Larcher17, le diffe‐
renze nell’uso dei testi biblici anteriori nelle diverse parti del libro «non richiedono necessa‐riamente autori distinti in quanto il modo di trattare il testo biblico rimane identico: stessa discrezione nei riguardi delle citazioni implicite, stesso uso abituale della LXX, stesso proble‐ma posto dai passi in cui l’autore si allontana da questa stessa forma di esegesi libera o mi‐drašica».
1.4. IL LIBRO DELLA SAPIENZA E L’ANTICO TESTAMENTO
In quale misura il nostro libro ricorre agli scritti dell’Antico Testamento che lo precedono? Per rispondere a questo interrogativo sono possibili due metodi: o seguire l’ordine stesso del libro della Sapienza o seguire l’ordine dei libri dell’Antico Testamento. Seguiremo qui il primo metodo18.
Dobbiamo innanzitutto notare che l’autore non facilita la ricerca perché mai fa esplicito ri‐ferimento a un testo anteriore dell’Antico Testamento. Egli svolge il suo discorso senza alcuna
12 P. W. SKEHAN, Text and Structure of the Book of Wisdom, in Traditio 3 (1945) 2‐5. 13 A. G. WRIGHT, Numerical Patterns in the Book of Wisdom, in CBQ 29 (1967) 524‐538. 14 REESE, Hellenistic Influence, 123‐140. 15 P. BEAUCHAMP, Le salut corporel des justes et la conclusion du livre de la Sagesse, in Bib 45 (1964) 491‐526. 16 Hellenistic Influence, 140‐145. 17 Études, 103. 18 Già J. FICHTNER, Der AT‐Text der Sapientia Salomonis, in ZAW 16 (1939) 155‐192. Il secondo metodo è se‐
guito da P. W. SKEHAN. Studies in Israelite Poetry and Wisdom, Washington D.C. 1971, 149‐236 (Sal, Es, Pr, Gb, Qo) e da LARCHER, Études, 85‐103.
136 Sapienza
citazione esplicita, senza nemmeno fornire un nome proprio, ad eccezione del mar Rosso (Sap 10,18; 19,7), come abbiamo già notato. Ciò non impedisce che colui che conosce la sua Bibbia – e tali dovevano essere i primi lettori del libro – individui facilmente le allusioni e i ri‐ferimenti. Quali sono?
1.4.1. L’Antico Testamento in Sap 1–619
In questa prima parte del libro le influenze bibliche sono più difficili da individuare. L’inse‐gnamento dell’autore sull’escatologia emerge su uno sfondo in cui si situavano Giobbe e Qo‐helet con i loro interrogativi fondamentali. Ma l’autore di Sap supera anche tutta la dottrina classica della retribuzione affermando l’immortalità e la retribuzione nell’aldilà.
Tuttavia Sap 2,1‐9 non è un quadro ispirato a Qohelet che il nostro autore intenderebbe ri‐fiutare, in quanto ha di mira piuttosto delle correnti edonistiche e materialistiche della sua epoca.
Tra i testi biblici anteriori ai quali l’autore si ispira in modo particolare va annoverato so‐prattutto il Sal 2, dal quale Sap 1 e 6,1 prendono delle espressioni. Ma per l’affermazione di base concernente l’immortalità in Sap 1,13‐15 e 2,23‐24 punto di ancoraggio è Gen 1–3.
Quanto alla descrizione del giusto perseguitato, in Sap 2,10‐20 e 5,1‐6, essa si ispira in par‐te al Sal 22 e forse a Is 53. Tuttavia Is 53 evoca l’idea della sofferenza vicaria subita dalla mol‐titudine, il che non viene ripreso dall’autore di Sap, e il tema del silenzio di Dio che appare nel Sal 22 non figura in Sap. Inoltre in Sap 3,1‐9 si possono individuare delle allusioni a Dan 7,22‐27; 12,3.10.
In Sap 1–6 si riconoscono anche delle tracce di Is 40–66: Is 56,4‐5 in Sap 3,14 a proposito dell’eunuco; Is 57,1‐2 in Sap 4,14‐18 sull’indifferenza delle folle di fronte alla morte del giu‐sto. Dietro la descrizione di questa morte si riconosce invece la figura di Enoch di Gen 5,24 (LXX).
L’autore non segue perciò una sola fonte. Il suo discorso è nuovo e si basa su un’ampia tra‐dizione.
1.4.2. L’Antico Testamento in Sap 7–920
Una delle principali chiavi di letture di Sap 7–9 è da ricercare indiscutibilmente nelle tradi‐zioni bibliche concernenti Salomone, soprattutto in 1Re 3–11 e 2Cr 1–9. Ciò che costituisce il punto centrale di Sap 7–9 è la preghiera di Salomone per ottenere la Sapienza (1Re 3,5‐15; 2Cr 1,7‐12). La grande preghiera di Sap 9, annunciata in Sap 7,7 e 8,21, si ispira a questi due testi antichi. Anche l’insistenza di Sap 7,17‐21 e 8,8 sul grande sapere del saggio è un adat‐tamento di 1Re 5,9‐14. Ma, fatta eccezione di Sap 9,8, tutto ciò che si riferisce alla co‐struzione del Tempio viene passato sotto silenzio. Altro silenzio: i matrimoni di Salomone; in questo Sap si avvicina a 2Cr.
Il solo matrimonio di Salomone a cui fa riferimento il libro della Sapienza è quello del gio‐vane re con la Sapienza (Sap 8). Qui l’autore potrebbe ricordarsi del Cantico dei Cantici, attri‐buito dalla Bibbia proprio a Salomone. Ma è possibile che siano intervenuti degli intermedia‐ri, come Sir 6,26‐28 e 51,13‐22, come pure il ritratto della sposa perfetta di Pr 31, interpreta‐
19 Cfr. M. J. SUGGS, Wisdom of Solomon II,10‐V: A Homily Based on the Fourth Servant Song, in JBL 76 (1957)
28‐33; G. W. E. NICKELSBURG, Resurrection, Immortality and Eternal Life in Intertestamental Judaism (HThS 26), Cambridge, Mass. 1972, 61‐66; J. SCHABERG, Major Midrashic Traditions in Wisdom 1,1–6,25, in JSJ 13 (1982) 75‐101.
20 Cfr. LARCHER, Études, 329‐349; M. GILBERT, La figure de Salomon en Sg 7–9, in R. KUNTZMANN‐J. SCHLOSSER (ed.), Études sur le judaisme hellénistique (LeDiv 119), Paris 1984, 225‐249.
Sapienza 137
to allegoricamente in funzione della figura della Sapienza di Pr 8–9. Pr 31,11.12.23.28 descri‐ve già il marito felice.
Infine, per parlare della Sapienza stessa, l’autore del nostro libro si ispira a Pr 8 e in misura minore a Sir 24; l’insistenza sul ruolo attivo della Sapienza nell’azione creatrice (Sap 7,21; 8,5) richiama la lezione «architetto» di Pr 8,30.
1.4.3. L’Antico Testamento in Sap 10–19
In Sap 10,1‐14 viene sfruttato soprattutto il libro della Genesi. Ma se l’autore di Sap intra‐prende una rilettura sapienziale degli eventi passati, aveva un precursore in Sir 44–49.
A partire da Sap 10,15 fino alla fine del libro il nostro autore si ispira soprattutto ai libri dell’Esodo e dei Numeri per le sue descrizioni delle piaghe d’Egitto e dei benefici concessi a Israele nel deserto. I Sal 78 e 105 sono ugualmente tra le sue fonti preferite. Ma trova ispi‐razione anche in altri testi, come per esempio Dt 8,3 in Sap 16,26.
Alcuni passi vanno considerati a parte. Sap 17,3‐21, che descrive le angustie degli egiziani nelle tenebre, deve poco alla Bibbia. Nella conclusione, Sap 19,14‐17, sulla cattiva ospitalità degli abitanti di Sodoma, si riferisce a Gen 19,1‐11, mentre Sap 19,6‐21, secondo P. Beau‐champ21, non è senza analogie con Gen 1,1–2,4, l’azione creatrice di Dio in sette giorni.
Le due digressioni (Sap 11,15–12,27; 13–15) formano anch’esse un tutto a parte, dal pun‐to di vista che ci interessa qui. Le allusioni bibliche sono il più delle volte rapide e diversifica‐te: per esempio Gen 1,1‐2 in Sap 11,17; Is 40,15 in Sap 11,12; Is 44,9‐20 in Sap 13,10‐19, la descrizione del legnaiolo che fabbrica idoli; Sap 14,5‐7 fa allusione all’arca di Noè; Os 4,2, un catalogo di vizi che si ispira al Decalogo, sembra essere dietro a Sap 14,25; Es 34,6, la grande rivelazione della misericordia divina, traspare in Sap 15,1; Sal 115,5‐7 è alla base di Sap 15,1522.
Questi sono i dati principali. Aggiungiamo che il nostro autore segue abbastanza spesso, quando fa riferimento al testo biblico, la versione greca dei LXX, ma non si può escludere un ricorso, diretto o indiretto, al testo ebraico. Comunque sia, tenendo conto dei riferimenti pra‐ticamente obbligati a certi libri in Sap 7–9; 10; 16–19, il nostro autore utilizza quasi tutti i libri biblici anteriori, ma sfrutta le sue fonti con molta libertà.
1.5. IL LIBRO DELLA SAPIENZA E LA LETTERATURA GIUDAICA
Fermiamo ora la nostra attenzione su alcuni scritti del giudaismo anteriori al libro della Sa‐pienza che hanno presumibilmente esercitato un’influenza sul suo autore.
1.5.1. Libro di Enoch23
L’escatologia di Sap 1–6 attira l’attenzione sul libro di Enoch. Scritto in aramaico – alcuni frammenti sono stati trovati a Qumran –, il libro è conosciuto soprattutto nella sua versione etiopica, fatta sulla versione greca; di questa sono stati conservati parecchi frammenti, spe‐cialmente per la maggior parte dei capitoli che interessano l’escatologia.
Enoch 1–5 è un discorso di Enoch che fa da introduzione alla raccolta. Vi si annuncia il giu‐dizio: in esso gli empi riceveranno la punizione delle loro colpe e i giusti la luce, la gioia, la pace e la saggezza. L’autore di Sap ha forse conosciuto questa introduzione nella sua versione
21 Le salut corporel, 501‐508. 22 Per Sap 13–15, cfr. GILBERT, Critique des dieux. 23 Cfr. P. GRELOT, L’eschatologie de la Sagesse et les apocalypses juives, in Mémorial A. Gelin, Le Puy 1961,
165‐178 (= LeDiv 67, Paris 1971, 187‐199); LARCHER, Études, 103‐112 e 302‐305.
138 Sapienza
greca. «Ma egli avrebbe allora legato in un sistema molto più solido delle nozioni escatologi‐che abbastanza imprecise trasponendole su un altro piano»24, trascendente, sopratemporale.
Enoch 91–105, il «Libro dell’Esortazione e della Maledizione», scritto di andatura sapien‐ziale, rivela il «mistero» delle ricompense trascendenti che saranno accordate alle anime dei giusti. Con C. Larcher25, si può aggiungere Enoch 108, ultimo capitolo dell’appendice; esso ri‐torna sul castigo dei peccatori e la ricompensa dei giusti. È ancora Enoch che parla. Egli af‐ferma chiaramente la sopravvivenza dell’anima, ma mai la risurrezione dei corpi. A causa dell’ingiustizia e dell’empietà crescenti, il giudizio è vicino: gli empi scenderanno nello šeol e vi resteranno per la loro punizione, mentre i giusti, purificati dalle prove, si leveranno dal loro sonno nello šeol per prendere parte alla felicità degli angeli e brillare come i luminari del cie‐lo. È possibile che l’autore di Sap, la cui escatologia e antropologia si accostano a quelle di Enoch 91–105.108, abbia conosciuto questo scritto; non è però certo che ne abbia conosciu‐to la versione greca.
1.5.2. Gli scritti di Qumran26
Anche qui è il tema dell’escatologia di Sap 1–6 che viene confrontato con quella di Qum‐ran. Ma quest’ultima è mal conosciuta e le opinioni degli specialisti non sono concordi. La co‐munità di Qumran prevede sia la sopravvivenza dei giusti che degli empi: i primi godranno nella comunità degli angeli, mentre i secondi saranno gettati negli inferi prima di scomparire; ad ogni modo Dio procederà a un giudizio escatologico. Il punto controverso riguarda la ri‐surrezione dei corpi, contestata da alcuni autori, mentre altri ve ne vedrebbero degli indizi nei testi. A parte questo punto, si avvicinano a Sap la distinzione netta tra due partiti, giusti ed empi, il giudizio di Dio sugli uni e gli altri, l’associazione dei giusti con gli angeli (cfr. Sap 5,5) nella presenza senza fine di Dio, e la distruzione degli empi.
Ma la dottrina qumranica dei due spiriti divide il mondo tra buoni e cattivi, radicalmente distinti e sottomessi a un vero determinismo; non è pensabile allora nessuna conversione. Invece, per Sap, il Creatore non vuole la morte (Sap 1,14; 2,23), ma la conversione dei pec‐catori (Sap 11,23; 12,2.20) e sta all’uomo scegliere la vita o la morte (Sap 1,16; 2,21). D’altra parte la morte fisica preoccupa l’autore di Sap, che la supera con la sua riflessione sulla vita e la morte spirituali; a Qumran, invece, la morte fisica non riceve alcun rilievo. Infine, al contra‐rio di Sap, Qumran non accorda alcuna personificazione alla Sapienza e allo Spirito, soprattut‐to per un’azione di dimensione cosmica (cfr. Sap 7,24; 8,1; 12,1).
Pertanto, nonostante le differenze che abbiamo segnalato, è possibile che l’autore di Sap abbia conosciuto, se non i testi stessi di Qumran, almeno un ambiente simile, proveniente quindi dal giudaismo palestinese.
1.6. IL LIBRO DELLA SAPIENZA E LA CULTURA GRECA27
Scrivendo direttamente in greco, l’autore di Sap doveva essere naturalmente molto aperto alla cultura greca. Il suo vocabolario presenta già delle caratteristiche. Su 1734 parole diffe‐renti usate nel libro, 315, secondo C. Larcher28 che esclude 3‐4Mac, non appaiono nella LXX; e se si escludono le parole che si leggono solo in Sap e 2Mac, libro anch’esso fortemente se‐
24 LARCHER, Études, 106. 25 LARCHER, Études, 110‐111. 26 Cfr. A.‐M. DUBARLE, Une source du livre de la Sagesse, in RSPhTh 37 (1953) 425‐443; M. DELCOR,
L’immortalité de l’ame dans le livre de la Sagesse et dans les documents de Qumran, in NRTh 77 (1955) 614‐630; LARCHER, Études, 112‐119.
27 Cfr. LARCHER, Études, 179‐262 e 349‐361; REESE, Hellenistic Influence; GILBERT, DBS 11, 98‐100. 28 LARCHER, Études, 181.
Sapienza 139
gnato dalla cultura greca, la cifra delle parole non presenti nel resto della LXX è ancora più elevato. È possibile che il nostro autore abbia creato dei neologismi29. Talvolta delle parole greche prendono sotto la sua penna un significato inusitato, almeno per quanto ne sappiamo noi, e non sembra che egli usi il greco spigliatamente.
L’impatto con la cultura greca si può percepire più chiaramente nella scelta del genere let‐terario dell’opera. Abbiamo mostrato sopra che Sap corrisponde alle leggi dell’encomium o elogio, così come furono descritte dai maestri della retorica antica.
Seguendo l’ordine dei capitoli di Sap è possibile rilevare alcune precise influenze di questa cultura ellenistica:
– in Sap 2,1‐3, nella prima parte del discorso degli empi si notano delle tracce della dot‐trina degli epicurei; ma questi non sono gli unici ai quali si pensa, e in ogni caso non sa‐rebbero diventati dei persecutori30;
– in 7,17‐20, l’autore traspone secondo i gusti del suo tempo i dati tradizionali sul sapere enciclopedico di Salomone (specialmente 1Re 5,13);
– in 7,22‐23, la descrizione dello spirito della Sapienza con ventuno attributi ricorda la de‐finizione del bene dello storico Cleante31;
– in 7,24; 8,1, insistendo sull’idea che la Sapienza penetra tutto l’universo, l’autore le at‐tribuisce una qualità essenziale dello pneuma cosmico degli stoici (cfr. anche Sap 1,17)32;
– in 8,7, le quattro virtù che saranno poi chiamate «cardinali» sono enumerate secondo la formula tipicamente stoica;
– in 9,15 si riconosce una tesi di Platone: il corpo ostacola le aspirazioni dell’anima (cfr. Fe‐done, 79C ss);
– in 11,20, la triade «numero, pesi, misura» è un bene comune della cultura greca33; ma Filone l’utilizzerà, come il nostro autore, a proposito del Dio creatore;
– in 12,4‐6, nella sua descrizione dei cananei, l’autore ricorre, al di là della testimonianza della Scrittura, alla leggenda greca degli Atridi34; ciò facendo egli ha di mira sia i greci che i cananei;
– 12,19, il tema della «filantropia», nel senso di humanitas, ha conosciuto un ampio svi‐luppo nella letteratura greca e fu universalizzato dagli stoici. Ma la Lettera di Aristea ne aveva già fatto, nel giudaismo, una virtù regale35;
– in 13,1‐9, l’analisi del culto degli elementi della natura si spiega soprattutto con la teo‐dicea del giovane Aristotele, ripresa dagli stoici36;
– in 14,15, lo sviluppo dell’idolatria a partire dal culto di un defunto riprende verosimil‐mente una delle forme del mito di Dioniso secondo una fonte che si ispirava all’evemerismo. Il culto dei sovrani, stigmatizzato in 14,16‐20, ha anch’esso delle tendenze dionisiache, men‐
29 LARCHER, Études, 182, n. 1; D. WINSTON, The Wisdom of Salomon (AncB 43), Garden City 1979, 15, n 5. 30 Cfr. LARCHER, Études, 215‐216. 31 Cfr. È. DES PLACES, Épithètes et attributs de la "Sagesse" (Sg 7,22‐23) et SVF I 557 Arnim, in Bib 57 (1976)
414‐419. 32 Cfr. G. VERBEKE, L’Évolution de la doctrine du Pneuma du stoicisme à St Augustin, Paris‐Louvain 1945, 223‐
236. 33 Cfr. E. GENZMER, Pondere, numero, mensura, in Archives d’histoire du droit oriental – Revue internationale
des droits de l’Antiquité 1 (1952) 469‐494. 34 Cfr. D. GILL, The Greek Sources of Wisdom XII 3‐7, in VT 15 (1965) 383‐386. 35 C. SPICQ, La Philanthropie hellénistique, vertu divine et royale, in StTh 12 (1958) 169‐191; R. LE DÉAUT,
Philanthropia dans la littérature grecque jusqu’au Nouveau Testament, in Mélanges E. Tisserant, 1 (Studi e Testi 168), Rome 1964, 255‐294.
36 Cfr. GILBERT, Critique des dieux, 1‐52; A.‐M. DUBARLE, La Manifestation naturelle de Dieu d’après l’Écriture (LeDiv 91), Paris 1976, 127‐154.
140 Sapienza
tre in 14,23‐26 l’autore sembra fare allusione ai baccanali. Invece 14,22 parla forse dell’in‐ganno della pax romana37;
– in 15,12, le concezioni pagane della vita che sono evocate dipendono dal mondo greco‐romano;
– in Sap 17, nell’analisi psicologica della piaga delle tenebre si può riconoscere il gusto dei greci. In ogni caso, la descrizione della natura in movimento, in 17,17‐18, è più greca che bi‐blica;
– in 19,18, il confronto musicale è anch’esso molto greco; – in 19,21, infine, considerare la manna come ambrosia significa applicare ad essa l’idea
omerica di incorruttibilità e immortalità (Iliade 19,38; Odissea 5,93). A questi temi vanno aggiunte la dottrina dell’autore sull’immortalità. In ogni caso questi ri‐
lievi denotano una grande quantità di correnti greche ed ellenistiche. Non si può perciò dire che il nostro autore dipenda, per esempio, da una filosofia particolare. Appare piuttosto co‐me un eclettico, prendendo ciò che si adatta al suo scopo là dove lo trova e integrandolo nel‐la sua sintesi; ma, in compenso, non si può negare una reale influenza del mondo ellenistico.
2. IL MESSAGGIO
2.1. MORTE, IMMORTALITÀ ED ESCATOLOGIA
L’autore affronta queste tematiche soprattutto in Sap 1–638, ma il suo pensiero è ricco di sfumature e perciò difficile da esplicitare; dovrà essere completato alla luce del resto del li‐bro.
La morte, secondo lui, ha due livelli. C’è, naturalmente, la morte fisica. Gli empi danno ad essa un tale rilievo distruttore dell’uomo che, ai loro occhi, al di là di essa non c’è nulla (2,1‐5). Dalla loro tesi sulla morte fisica essi deducono la validità di un comportamento sulla terra totalmente immorale (2,6‐20): ciò che essi rivendicano come vita quaggiù è in realtà una morte spirituale, dove non c’è evidentemente alcun posto per Dio.
Ora, rileggendo Gen 1–3, il nostro autore è convinto che Dio, nel suo progetto iniziale, ab‐bia destinato l’essere umano all’immortalità (athanasía; 1,13‐16), all’incorruttibilità (aftharsía; 2,23‐24). Ciò suppone che l’essere umano rimanga in amicizia con il suo Creatore. Ma il diavolo, identificato per la prima volta con il serpente di Gen 3, introdusse la morte nel mondo (2,24). Questa ha nuovamente due livelli: disobbedendo, l’essere umano si separa da Dio – è la morte spirituale – e la morte fisica diventa di conseguenza il suo destino.
Questa morte fisica, che ora colpisce tutti, non è però l’ultima parola. Infatti, se il progetto iniziale del Creatore è stato svilito, non è stato totalmente abbandonato. I giusti, coloro che restano fedeli al Signore, passano come tutti attraverso la morte fisica, ma per essi questa morte è solo un passaggio verso la vera vita di amicizia con Dio (3,9; 4,14‐15; 5,5). Per il giu‐sto, la morte fisica non domina la vita spirituale: questa non sarà annientata, ma riceverà, al di là della morte fisica, la sua pienezza. Il progetto del Creatore non è caduco.
Praticando sulla terra la giustizia, l’essere umano si assicura l’immortalità (1,15). L’autore di Sap, quando parla di incorruttibilità, pensa anche alla risurrezione dei corpi? Esplicitamen‐te no39.
37 Cfr. GILBERT, Critique des dieux, 146‐149. 38 Cfr. M.‐J. LAGRANGE, Le Livre de la Sagesse, sa doctrine des fins dernièrs, in RB, n.s., 4 (1907) 85‐104; R.
SCHULZ, Les Idées eschatologiques du Livre de la Sagesse, Paris‐Strasbourg 1935; J. P. WEISENGOFF, Death and Immortality in the Book of Wisdom, in CBQ 3 (1941) 104‐133; R. TAYLOR, The Eschatological Meaning of Life and Death in the Book of Wisdom I–V, in EThL 42 (1966) 77‐137; LARCHER, Études, 237‐337.
Sapienza 141
Durante la vita terrena degli uomini Dio, onnipresente con la sua Sapienza e il suo Spirito, indaga con cura (1,6‐10). Al momento della resa dei conti, al di là della morte fisica, i giusti saranno ammessi alla corte divina (5,5), mentre contro gli empi Dio si armerà delle forze co‐smiche per annientare ogni potere terreno; affiora qui l’apocalittica. L’autore lega quindi l’escatologia a una cosmologia. Il mondo di quaggiù, regno degli empi, sparirà con essi; ma l’autore non si pronuncia sulla sorte finale degli empi. Rimarrà soltanto il regno dei giusti con Dio e i suoi angeli nell’aldilà.
Ma, se il dominio terreno degli empi sarà distrutto da Dio armato delle forze del cosmo, bisogna pensare che i corpi dei giusti sfuggiranno alla distruzione totale? Non viene detto, ma sembra essere suggerito implicitamente.
2.2. LA SAPIENZA E LO SPIRITO40
Per il nostro autore parlare della Sapienza significa collegarla allo Spirito e quindi a Dio, ma anche al saggio, al mondo e alla storia. Più di ogni altro testo biblico anteriore (cfr. Is 11,2; Sir 1,9‐10), Sap 1,6; 7,22 e 9,1741 accostano Sapienza e Spirito. Essendo abitata dallo Spirito (7,22), la Sapienza gode delle sue stesse prerogative. Il problema principale del nostro autore potrebbe essere stato quello di ogni pensiero religioso: come conciliare la trascendenza e l’immanenza di Dio? Accostare Sapienza e Spirito poteva aiutare a risolvere il problema. Da Pr 8 e Sir 1,10 e 24,3‐22, si sapeva che la Sapienza ha la sua origine in Dio. E l’autore di Sap 7 si sforza di situarla il più possibile nella sfera del divino (7,25‐26; 8,3). Ma per parlare della sua immanenza, la dottrina stoica dello pneuma o soffio cosmico offriva una delucidazione alla quale si rifà il nostro autore, senza però cadere nel panteismo del Portico (cfr. 1,7 e 12,1). Con queste due correnti, biblica e stoica, si spiega l’accostamento tra la Sapienza e lo Spirito operato dal nostro autore.
Di conseguenza la Sapienza esercita un’attività cosmica e storica. Nella creazione del mon‐do essa ha un ruolo attivo: ne è l’artefice (7,12.22a; 8,6; 9,1‐2) e continua a penetrarlo total‐mente (7,22‐24), a rinnovarlo (7,26), a reggerlo (8,1). Di conseguenza essa entra anche negli uomini se però questi non la rifiutano (1,4); offre se stessa e viene incontro a colui che la cer‐ca (6,12‐16); penetra nelle anime dei santi per farne degli amici di Dio e dei profeti (7,27). Es‐sa opera in loro la correzione morale di cui hanno bisogno (9,18–10,1); li salva da ogni perico‐lo (10,6.9‐14), li conserva irreprensibili davanti a Dio (10,5); fu essa a guidare Mosè e il popo‐lo ebraico nel deserto (10,15–11,1). Se il saggio domanda a Dio la Sapienza, gli sarà accorda‐ta, ed egli sarà allora in grado di realizzare la sua vocazione di uomo e la missione personale che ha ricevuto da Dio (9); essa lo aprirà a tutte le scienze il cui oggetto è il mondo che essa anima (7,17‐21; 8,8); gli accorderà i vantaggi della regalità (7,8‐11; 8,10‐15) e le virtù (8,7). Altro fatto, enigmatico: il saggio sarà il suo amante, il suo sposo (6,18; 8,2.9.16.18)42. Di con‐seguenza, l’immortalità, l’incorruttibilità saranno assicurate a colui che la desidera, l’ama e gli è fedele (6,17‐19).
39 Testi veterotestamentari sulla risurrezione dei corpi: Dan 12,2; 2Macc 7,11.14.23.29.36; 12.36‐46; 14,46. 40 Cfr. LARCHER, Études, 362‐414. 41 Cfr. M. GILBERT, Volonté de Dieu et don de la Sagesse (Sg 9,17s.), in NRTh 93 (1971) 145‐166. 42 Cfr. P. BEAUCHAMP, Épouser la Sagesse – ou n’épouser qu’elle? Une énigme du Livre de la Sagesse, in La
Sagesse de l’AT, 347‐369.
142 Sapienza
2.3. STORIA E COSMO43
La lunga rilettura in forma di preghiera degli episodi dell’esodo conferma le tesi principali del nostro autore. La particolare importanza dell’esodo sta nel fatto che quanto accadde in occasione dell’uscita dall’Egitto e nel deserto costituisce l’evento fondatore d’Israele. Ora, questo evento fondatore continua a segnare tutta la sua storia, anzi tutta la storia, a esservi presente, ed è alla luce dell’esodo che Israele può rileggere la sua storia e la sua situazione presente.
Al momento dell’esodo si trovarono a confronto due gruppi umani. L’uno per rifiutare il piano di Dio, disconoscerlo, o addirittura per travisarlo adorando gli elementi del mondo: questi sono gli empi (11,9). L’altro per sottomettersi alla pedagogia divina (11,10), accogliere le lezioni che offrono gli eventi (16,6.12; ecc.) e pentirsi delle loro colpe (16,5‐6, ecc.): questi sono i giusti (11,14; ecc.). Il vero combattente non è nessuno di questi due gruppi, ma il Si‐gnore (11,7‐14; ecc.).
Ora, il Signore prende le sue armi dal cosmo: alcuni elementi del cosmo diventano nella mano di Dio degli strumenti della sua lotta contro gli empi e in favore dei giusti. L’autore, ri‐flettendo sui racconti biblici dell’esodo, individua in essi due principi complementari dell’azione divina: 1) lo stesso elemento del cosmo serve a castigare gli empi e a salvare i giu‐sti (11,5); 2) gli empi vengono puniti con lo stesso strumento delle loro colpe (11,15). Questo secondo principio stabilisce un rapporto di causalità tra la colpa e la punizione; il primo vede un’antitesi tra le piaghe d’Egitto e i benefici accordati a Israele nel deserto. Questi due princi‐pi funzionano nella mano di Dio: per esempio, per aver deciso di annegare i primogeniti di Israele gli egiziani non poterono più bere l’acqua del fiume, mentre gli ebrei si dissetarono al‐la roccia (11,5‐14). Si può quindi vedere l’importanza dell’arma cosmica.
In effetti, in questo combattimento di Dio l’autore vede la nuova creazione (16,24, al cen‐tro del dittico e sviluppato in conclusione: 19,10‐12.18‐21). Ora, questa creazione nuova cul‐mina nel dono della manna agli ebrei, simbolo della Parola che nutre (16,25‐26), alimento di immortalità (19,21). La storia implica così una cosmologia e fonda nello stesso tempo una escatologia. Non sorprende allora vedere l’autore affermare, al termine del suo esordio (5,17‐23), che alla fine della storia umana Dio si servirà del cosmo per castigare gli empi e di‐fendere i giusti; questi beneficeranno dell’immortalità, il che implica probabilmente un ele‐mento cosmico nella linea di ciò che noi chiamiamo risurrezione dei corpi. L’azione di Dio alle origini è infatti esemplare di ciò che egli fa continuamente e farà alla fine.
3. L’AUTORE
Il libro della Sapienza è anonimo. L’attribuzione a Salmone, proposta dal titolo greco del li‐bro, è naturalmente fittizia.
Qual è allora il suo autore reale? Alcuni studiosi hanno cercato di dargli un nome. Si è pen‐sato al nipote di Ben Sira che, secondo il prologo del Siracide, avrebbe tradotto in greco l’opera del nonno; ma Sap non può essere stato scritto nel II secolo prima della nostra era, come vedremo. Fin dall’antichità cristiana alcuni, come per esempio Girolamo, hanno pen‐sato a Filone d’Alessandria; ma, anche se non mancano le corrispondenze tra Sap e le opere del filosofo alessandrino, quest’ultimo si interessa quasi esclusivamente al Pentateuco, men‐tre l’autore di Sap si ispira chiaramente anche ai profeti e agli «Scritti» dell’Antico Testamen‐
43 Cfr. H. EISING, Die theologische Geschichtbetrachtung im Weisheitbuche, in Vom Worl des Lebens. Fest‐
schrift M. Meinertz, Münster 1951, 28‐40; P. BEAUCHAMP, Le salut corporel; J. P. M. SWEET, The Theory of Mira‐cles in the Wisdom of Salomon, in C. F. D. MOULE (ed.), Miracles, London 1965, 115‐126; J. J. COLLINS, Cosmos and Salvation: Jewish Wisdom and Apocalyptic in the Hellenistic Age, in HThR 17 (1977‐1978) 121‐142.
Sapienza 143
to; inoltre, Filone suppone un’esegesi allegorica che non si incontra nel libro della Sapienza; infine, Filone attribuisce una grande importanza alla teoria platonica delle Idee, che invece è ignorata completamente da Sap44.
Appare molto probabile che l’autore di Sap, rimasto sconosciuto, sia un ebreo di Alessan‐dria. Ebreo, certamente, dato che nella sua opera non traspare niente di cristiano (Sap 2,10‐20 non è un’allusione alla passione di Gesù, almeno nelle intenzioni dell’autore). Ales‐sandrino, è verosimile, perché così si spiegherebbe la sua cultura ellenistica: la comunità giu‐daica di Alessandria era aperta all’ellenismo, come dimostra l’opera di Filone. Inoltre, Sap ac‐corda un posto del tutto particolare agli egiziani: la scelta stessa del suo soggetto in Sap 11–19 potrebbe rivelare la sua origine geografica.
4. DATAZIONE45
Se fino a poco tempo fa molti critici optavano per gli anni 100‐50 a.C., attualmente c’è la tendenza a situare la composizione di Sap o dopo il 50 a.C. o al più presto a partire dal 30, anno che segna l’inizio del trionfo di Augusto.
In effetti, anche se il libro forma un’unità organica in cui non si può vedere alcuna in‐terpretazione cristiana, il fatto che vi si incontrino delle parole come thrêskéia e sébasma, nel senso di venerazione cultuale e di oggetto di questa venerazione, è un principio sufficiente per datare il libro nel periodo augusteo dato che questi due termini conobbero la loro for‐tuna proprio sotto il regno di Augusto; l’allusione alla pax romana in 14,22 può essere una conferma46.
5. SCOPO E AMBIENTE
Anche per determinare l’intenzione dell’autore disponiamo solo degli indizi forniti dalla sua opera. Secondo Reese47, «il Saggio scrive con uno scopo ben preciso: permettere ai futuri leader intellettuali del suo popolo di sviluppare un atteggiamento positivo di fronte alla loro presente situazione». Cosa significa?
Il genere letterario scelto dall’autore lascia intendere che la sua opera voglia rivolgersi a un pubblico accademico. Come tutti i saggi dell’Antico Testamento, è possibile che egli abbia avuto il compito di preparare la gioventù migliore della sua comunità ad assumere un giorno le responsabilità in seno a questa comunità.
D’altra parte, da profondo credente, egli intende riformulare per il suo tempo e in piena fedeltà l’essenziale del messaggio ricevuto dagli antenati. Il suo ricorso a tante parti della Bibbia dimostra pure che egli intendesse offrire una specie di sintesi. Ciò risponde del resto ad alcune particolari preoccupazioni. La comunità è divisa (Sap 2). Alcuni sono a tal punto se‐dotti dalla cultura greca da rifiutare il patrimonio ancestrale; questi arrivano fino al punto di suscitare tumulti nella comunità. L’autore certamente non approva il loro atteggiamento e annuncia loro lo smacco finale. Egli non si chiude però all’ellenismo, al quale sa attingere con discernimento senza mai diventarne schiavo, non mancando di criticarlo quando lo ritiene opportuno. Questa apertura la insegna implicitamente col suo esempio all’altro gruppo di co‐loro che vogliono restare fedeli alla loro fede. Egli mostra loro anche il cammino della speran‐za nelle difficoltà e nelle sofferenze attuali. Il Signore non abbandona i suoi: restando fedeli a Lui, essi conosceranno la vita e la pace; la Sapienza non è forse una guida, come a suo tempo
44 Cfr. LARCHER, Études, 151‐178. 45 Cfr. LARCHER, Le livre de la Sagesse, 141‐161; GILBERT, DBS 11, 91‐93. 46 Cfr. GILBERT, Critique des dieux, 126‐173. 47 Hellenistic Influence, 148.
144 Sapienza
guidò gli antenati? E l’evento fondatore d’Israele, l’esodo, non è un puro avvenimento del passato: rimane come esempio per il presente perché ciò che il Signore ha fatto lo rinnova sempre e dovunque in favore dei suoi fedeli (Sap 19,22).
BIBLIOGRAFIA
Una bibliografia completa di M. GILBERT, in C. LARCHER, Le Livre de la Sagesse, 11‐48. BELLIA, G. ‐ PASSARO, A. (edd.), Il Libro della Sapienza. Tradizione, redazione, teologia (Studia Bi‐
blica 1), Roma 2004. BIZZETI, P., Il libro della Sapienza. Struttura e genere letterario (Supplementi alla Rivista Biblica
11), Brescia 1984. BONORA, A., Libro della Sapienza, in A. BONORA ‐ M. PRIOTTO (edd.), Libri sapienziali e altri scritti
(Logos 4), Torino‐Leumann 1997, 99‐114. BONORA, A., Proverbi‐Sapienza: sapere e felicità (LoB 1.14), Brescia 1990 CONTI, M., Sapienza (NVB 22), Roma 1975. DE CARLO, G., «Ami, infatti, gli esistenti, tutti». Studio di Sap 11,24, in Laur 36 (1995) 391‐434. DE CARLO, G., L’amore provvidente e universale di Dio in Sap 11,24–12,1, in G. BORTONE (a cura
di), La Provvidenza nella Bibbia (Studio Biblico Teologico Aquilano 21), L’Aquila 2001, 103‐142.
FABBRI, M. V., Creazione e salvezza nel libro della Sapienza. Esegesi di Sapienza 1,13‐15 (Studi di teologia 6), Roma 1998.
GILBERT, M., La critique des dieux dans le livre de la Sagesse (AnBib 53), Roma 1973. GILBERT, M., La Sapienza di Salomone, 2 voll., Roma 1995. GILBERT, M., Sagesse de Salomon (ou Livre de la Sagesse), in DBS 11 (1986) 58‐119. LARCHER, C., Études sur le livre de la Sagesse (EtB), Paris 1969. LARCHER, C., Le livre de la Sagesse ou la Sagesse de Salomon (EtB n.s.), Paris 1983‐1985. MACK, B.L., Logos und Sophia. Untersuchungen zur Weisheitstheologie im hellenistischen Ju‐
dentum (SUNT 10), Göttingen 1973. MAZZINGHI, L., Notte di paura e di luce. Esegesi di Sap 17,1–18,4 (Analecta Biblica 134), Roma
1995. MORLA ASENSIO, V., Il libro della Sapienza, in IDEM, Libri sapienziali e altri scritti (Introduzione
allo studio della Bibbia 5), Brescia 1997, 209‐230. OFFERHAUS, U., Komposition und Intention der Sapientia Salomonis, Bonn 1981. PRIOTTO, M., La prima pasqua in Sap 18,5‐25, Bologna 1987. RAVASI, G., Sapienza (Libro della), in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello Balsamo
1988, 1442‐1447. REESE, J.M., Hellenistic Influence on the Book of Wisdom and Its Consequences, Roma 1970. SCARPAT, G., Libro della Sapienza, 3 voll., Brescia 1989‐1999. SISTI, A., Il libro della Sapienza, Assisi 1992. VÍLCHEZ LÍNDEZ, J., Sapienza, Roma 1990. VIRGULIN, S., Sapienza, in T. BALLARINI (ed.), Ultimi storici, Salmi, Sapienziali (Introduzione alla
Bibbia 3), Bologna 1978, 473‐500. WINSTON, D., The Wisdom of Salomon (AB 43), Garden City, N.Y. 1979. WRIGHT, A.G., La Sapienza, in Nuovo Grande Commentario Biblico, Brescia 1997, 665‐681. Infine, il numero unico di Parole di Vita, n. 5/2003: «Il libro della Sapienza».