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GIANFRANCO DOSI
LE PROPOSTE DI RIFORMA IN MATERIA DI AFFIDAMENTO CONDIVISO
[IL DISEGNO DI LEGGE 957/S IN DISCUSSIONE IN COMMISSIONE GIUSTIZIA DEL SENATO]
PREMESSA
La riforma delle norme in materia di affidamento dei figli in sede di separazione è stata introdotta con
la legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento
condiviso dei figli) pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 1° marzo 2006 ed entrata in vigore il 16 marzo
2006. La legge ha riformulato l’art. 155 del codice civile – sede storica dei principi che regolano
l’affidamento dei figli in sede di separazione - aggiungendovi gli articoli 155-bis, 155-ter, 155-quater,
155-quinquies e 155-sexies, ha modificato alcune norme del codice di procedura civile, aggiungendo un
quarto comma all’art. 708 e l’art. 709-ter ed estendendo la nuova disciplina anche ai procedimenti di
nullità, di divorzio e di affidamento dei figli naturali.
Il principio della necessaria condivisione delle responsabilità genitoriali – da tempo presente nelle
legislazioni di molti Stati e richiamato dalle più importanti convenzioni internazionali (prime fra tutte la
Convenzione di New York del 28 novembre 1989 sui diritti dei minori – art. 9, comma 3 - ratificata
dall’Italia con la legge 27 maggio 1991, n. 176) - non era più rinviabile ed ha avuto un contenuto
promozionale che ha costituito in questi ultimi anni una sfida per l’intera società civile.
La sfida della bigenitorialità è consistita soprattutto nel ripensare all’educazione dei figli come ad un
compito di entrambi i genitori anche dopo la separazione.
E’ stato il numero crescente di separazioni in Italia - in pratica una separazione ogni tre matrimoni – a
rendere inevitabile un richiamo da parte del legislatore alla necessità di una corresponsabilizzazione dei
genitori verso i figli anche dopo la separazione. Per questo obiettivo non era più plausibile la
regolamentazione dell’affidamento contenuta nel codice civile, come riformato nel lontano 1975, che
faceva leva sul principio che soltanto uno dei genitori è affidatario del figlio mentre l’altro esercita
funzioni di controllo.
La legge vigente prevede ora l’affidamento dei figli minori ad entrambi i genitori e la potestà
esercitata da entrambi i genitori come modalità prioritarie attraverso le quali realizzare le
corresponsabilità educative e attribuisce, però, al giudice il potere di imprimere motivatamente correzioni
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d more: http://www.eius.it/giurisprudenza/2008/117.asp#ixzz1IrtEggvI
d more: http://www.eius.it/giurisprudenza/2008/117.asp#ixzz1IrtEggvI
al regime di affidamento ove queste modalità si presentino contrarie all’interesse del minore, per come
dovrebbero essere attuate o per come sono concretamente attuate.
La riforma interveniva nel momento giusto. Il 1° marzo 2006 entravano, infatti, in vigore le nuove
norme della fase di avvio del processo di separazione e di divorzio (D.L. 14 marzo 2005, n. 35, convertito
con modificazioni dalla legge 14 maggio 2005, n. 80; nonché ulteriori modifiche con la legge 28 dicembre
2005, n. 263) che hanno valorizzato la fase presidenziale del giudizio di separazione come momento nel
quale ai genitori si richiede uno sforzo massimo di concentrazione sui problemi dei figli nella prospettiva
di un accordo che rimane sempre l’esito più auspicabile, quando possibile, del contenzioso nella
separazione.
Da questo punto di vista si può dire certamente che le nuove disposizioni sul processo di separazione e
le nuove norme sull’affidamento dei figli hanno anche richiamato l’esigenza di una specializzazione di
tutti gli operatori della giustizia nel settore del diritto di famiglia ed anche di richiamo a nuovi profili
deontologici dell’agire professionale.
Il legislatore aveva discusso per anni i temi di questa riforma. Nonostante ciò, il testo della legge
54/2006 si presentava in molte parti confuso e di non lineare lettura. La fretta di fine legislatura e la
pressione dei movimenti di opinione avevano determinato alcune approssimazioni nel linguaggio e alcune
ambiguità alle quali in seguito si sono sforzati di porre riparo l’approfondimento indiscutibilmente ampio
operato ormai dalla dottrina e dalla giurisprudenza e il diffondersi di prassi sostanzialmente omogenee nei
tribunali.
II
L’AFFIDAMENTO CONDIVISO NELLA RIFORMA DEL 2006
Non si può fare a meno di ricordare come la riforma sia stata all’inizio accolta anche con un certo
scetticismo. Ci si è interrogati, infatti, su come è possibile condividere realmente – e non solo nelle
affermazioni di principio - le responsabilità educative verso i figli dopo la separazione, cioè proprio
quando si riduce (o scompare del tutto) nei rapporti coniugali la propensione o la volontà di dialogo e con
essi anche, inevitabilmente, la progettualità di coppia.
A tale proposito va detto, da un lato, che se l’obiettivo di una legge è anche quello di sollecitare
cambiamenti nel costume e nelle persone, si può dire che la legge di riforma del 2006 ha dato certamente
un contributo in questa direzione, dal momento che l’affidamento condiviso ha caratterizzato in questi
anni un dibattito molto ampio nella letteratura psicologica e giuridica, nell’opinione pubblica, nei media e
nei tribunali.
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Discorso diverso è, poi, se gli interessati abbiano saputo adeguare a questo obiettivo il proprio
comportamento. La separazione, infatti, non pone soltanto problemi di tipo cognitivo ma soprattutto
emotivo e relazionale. Pertanto l’obiettivo della corresponsabilità genitoriale, se anche conosciuto e
condiviso, non per questo può considerato di facile applicazione. E d’altra parte non in tutte le famiglie –
anche quando si vive insieme - i momenti decisionali e lo stile educativo sono necessariamente condivisi.
Non in tutte le famiglie, per esempio, le decisioni sui figli sono prese da entrambi i genitori; spesso uno
dei due genitori le delega all’altro; in molti casi uno dei genitori è incapace di prendere decisioni, in altre
situazioni l’uno o l’altro genitore sono del tutto assenti. Ebbene, in tutti questi casi, così come non si
riesce a condividere molto quando si vive insieme, come sarà possibile condividere l’educazione dei figli
dopo essersi separati?
La separazione, inoltre, costituisce un carico di eventi emotivi ad altissimo rischio di esplosione. Le
competenze intellettive possono essere sopraffatte. Il comportamento di ciascuno dei coniugi, anche di
quelli che nella vita comune hanno condiviso tutto, può improvvisamente degenerare. La condivisione può
diventare molto difficile se non impossibile.
Considerato tutto ciò, il richiamo del legislatore alla condivisione delle responsabilità educative verso i
figli potrebbe essere sembrato eccessivamente ottimistico. D’altro lato una riforma legislativa non può
certo avere l’effetto magico di eliminare le difficoltà delle dinamiche comportamentali e familiari.
Tuttavia è necessario riflettere sul fatto che, se è vero che la vita di coppia e la separazione sono eventi
che non hanno mai una loro linearità e una loro prevedibilità, è pur tuttavia necessario che il legislatore
indichi che l’interesse dei figli deve rimanere il punto di riferimento della vita dei genitori. La
constatazione che si tratta di un obiettivo difficile da raggiungere, quando si vive insieme e quando ci si
separa, non può essere l’alibi per ignorare il fatto che entrambi i genitori assumono verso la società il
dovere di educare, istruire e mantenere i figli (art. 30 Cost.) e, soprattutto, la constatazione che questo
dovere corrisponde ad un bisogno del figlio.
La scelta fondamentale che il legislatore ha fatto in questa riforma - di attribuire, cioè, ad entrambi i
genitori la potestà sui figli anche dopo la separazione - corrisponde perciò ad un dovere dei genitori e ad
una necessità del figlio. La riforma ha, in questo senso, un contenuto promozionale intrinsecamente
giusto. I bisogni del figlio, infatti, non cambiano per il fatto che i genitori si separano e quindi il figlio
continuerà ad aver bisogno di essere accudito e di essere sostenuto da entrambi i genitori nella sua
socializzazione.
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La regola primaria dell’accordo (art. 144 c.c.) - secondo cui entrambi i genitori concordano le decisioni
più importanti ma ciascuno ha, poi, il potere di darvi attuazione in piena autonomia – ha soppiantato,
quindi, la vecchia formula dell’affidamento congiunto che aveva l’ambiguo significato di pretendere una
necessaria codecisione su tutto: cosa che è assolutamente impossibile per due persone che si separano. La
nuova formula dell’affidamento e della potestà “esercitata da entrambi” ha il pregio di richiamare
l’esigenza di una condivisione soprattutto degli obiettivi. Sarà necessario, perciò, ragionare e riflettere
ancora sulla diversità tra le espressioni di “affidamento congiunto” e “affidamento condiviso” sulle quali
nella prassi c’è una interscambiabilità significativa ancora di una certa confusione esplicativa.
La condivisione delle responsabilità genitoriali avrebbe potuto forse essere meglio interpretata come
obiettivo irrinunciabile se il legislatore l’avesse raccolta nella sintesi espressiva del termine
“responsabilità genitoriale”, come da più parti si suggeriva, per soppiantare l’antica espressione della
“potestà genitoriale”. Era questa anche, l’opinione di chi riteneva che lo stesso termine “affidamento”
avrebbe meritato di scomparire.
La prassi nei tribunali ha fatto applicazione ragionevole di questi principi. Nella quasi totalità dei
provvedimenti di separazione, all’indicazione dell’affidamento condiviso (in molti tribunali ancora
erroneamente, come detto, chiamato congiunto) si accompagna l’indicazione che nell’esercizio della
potestà per le questioni ordinarie i genitori decidono separatamente, ciascuno quando ha il figlio con sé.
L’affidamento condiviso è andato cioè orientandosi come una necessità di condivisione degli obiettivi a
cui consegue una attuazione separata delle decisioni ordinarie e quotidiane.
La riforma ha saputo evitare anche impostazioni ideologiche ed estremiste. Ove, infatti, le esigenze del
figlio non siano adeguatamente soddisfatte – ove cioè i genitori non riescano a condividere gli obiettivi
educativi e le decisioni più importanti ovvero quando lo stile comportamentale di uno dei genitori si
presenta in contrasto con l’interesse del figlio – al giudice sono stati messi a disposizione strumenti di
limitazione della autonomia dei genitori perché la separazione non costituisca per i figli un evento
distruttivo. Non solo il potere di imprimere correttivi specifici al regime della condivisione, ma anche
quello di derogare alla regola stessa dell’affidamento condiviso quando questo appaia contrario
all’interesse dei figli.
III
IL PRINCIPIO DI PARIFICAZIONE DI TUTTI I FIGLI
NELLA LEGGE SULL’AFFIDAMENTO CONDIVISO
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Il principio di parificazione di tutti i figli rispetto ai principi dell’affidamento condiviso è contenuto
nell’art. 4, comma 2, della legge di riforma secondo cui “Le disposizioni della presente legge si applicano
anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai
procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati”.
La riforma trova applicazione perciò, in primo luogo nei procedimenti di divorzio. Il che comporta che
in sede divorzile non troveranno più applicazione, perché incompatibili, gran parte delle disposizioni
contenute nell’art. 6 della legge sul divorzio che vengono sostituite dalle nuove indicazioni contenute
nella riforma. Sarà sempre possibile al tribunale dare indicazioni sull’eventuale concorso di ciascun
genitore al godimento dell’usufrutto legale (comma 7) trattandosi di disposizione del tutto compatibile con
lo spirito della riforma. Analogamente continuerà ad essere possibile l’affidamento familiare (comma 8).
Così come è opportuno precisare che si applicheranno anche in sede divorzile le altre norme della legge di
riforma per esempio quella concernente il reclamo dei provvedimenti presidenziali (art. 2 della legge che
ha inserito il quarto comma all’art.708 ter c.p.c. in tema, appunto, di reclamo dei provvedimenti
presidenziali).
La legge di riforma trova applicazione anche nei procedimenti davanti ai tribunali ordinari conseguenti
alla nullità del matrimonio e concernenti l’affidamento dei figli minori. Le norme sulla nullità
matrimoniale prevedono espressamente che, successivamente alla sentenza civile di nullità o alla
delibazione della nullità ecclesiastica, il tribunale debba disporre provvedimenti concernenti i figli; in tal
caso il secondo comma dell’art. 129 c.c. rinvia appunto all’art. 155 c.c. per tutto ciò che concerne criteri e
presupposti in ordine all’affidamento e all’assegnazione della casa familiare. Anche in questa sede sarà,
quindi, possibile al giudice ordinario adottare i provvedimenti concernenti l’affidamento, il mantenimento
dei figli e l’assegnazione della casa familiare. Competente ad emettere i provvedimenti in questione è
sempre il tribunale ordinario.
La riforma troverà applicazione, infine, anche nelle procedure camerali di regolamentazione
dell’affidamento dei figli naturali previste nell’art. 317-bis del codice civile (art. 4, comma 2, della legge
di riforma). Come è noto la giurisprudenza, facendo applicazione dell’art. 38 delle disposizioni di
attuazione del codice civile, ritenuto non abrogato dalla riforma, si è orientata per ritenere sussistente la
competenza in materia del tribunale per i minorenni al quale, ragionevolmente, è stata anche attribuita la
competenza sulle contestuali domande concernenti il mantenimento (Cass. sez. I, 3 aprile 2007. n. 8362;
Cass. sez. I, 8 giugno 2009, n. 13183), essendo evidente che l’assetto dell’affidamento è anche
comprensivo delle questioni connesse al mantenimento. Il che significa che il tribunale per i minorenni
nelle procedure di regolamentazione dell’affidamento (cioè nei procedimenti aperti in seguito a ricorso ex 5
art. 317-bis c.c. da un genitore o dai due genitori che intendessero sottoporre al tribunale un accordo) potrà
disporre l’affidamento ad entrambi i genitori o l’affidamento esclusivo e dovrà indicare che l’esercizio
della potestà spetterà ad entrambi salve le eventuali indicazioni in ordine alla distribuzione tra i genitori
delle competenze relative all’ordinaria amministrazione (art. 155, commi 2 e 3 c.c Anche la soluzione
delle controversie che dovessero insorgere tra i genitori naturali sarà disciplinata dall’art. 709-ter c.p.c. di
fronte al tribunale per i minorenni (in corso di causa o quale giudice adito successivamente al
provvedimento definitivo di regolamentazione dell’affidamento).
La dottrina non ha affrontato il problema – al quale la giurisprudenza ha solo vagamente accennato –
della condizione in cui, in assenza di una regolamentazione disposta dal tribunale per i minorenni, si trova
il figlio naturale riconosciuto da entrambi i genitori ma convivente solo con uno di essi Se il figlio cioè si
trovi in seguito al solo riconoscimento nella condizione di affidamento condiviso o se, giusta il disposto
dell’art. 317 bis tale modalità di affidamento sia solo l’effetto di un provvedimento del giudice.
Quest’ultima soluzione sembra la più ragionevole e pertanto la normativa sull’affidamento condiviso
troverà applicazione solo allorché i genitori porteranno all’attenzione del giudice una domanda o un
accordo concernente l’affidamento e l’esercizio della potestà.
Poiché, inoltre, il rito camerale applicabile al procedimento ex art. 317-bis c.c. (ex art. 38 disp. att. c.c.)
lo prevede espressamente (art. 740 c.p.c.), anche al pubblico ministero minorile, oltre che alle parti, spetta
il potere di impugnare i provvedimenti in materia di affidamento dei figli naturali, ma a differenza di
quanto avviene in sede di divorzio e di separazione, non limitatamente agli interessi patrimoniali del
figlio, sebbene con riguardo a tutti i profili di ritenuto contrasto del provvedimento con l’interesse del
minore.
IV
LA BIGENITORIALITÀ DOPO LA RIFORMA DEL 2006
Dopo il primo quinquennio di applicazione, i principi che caratterizzano la legge di riforma del 2006
possono essere così riassunti:
1) Il figlio minore – secondo la chiara indicazione della riforma - ha diritto a mantenere un rapporto
equilibrato e continuativo con entrambi i genitori anche dopo la loro separazione e ha diritto a conservare
rapporti significativi anche con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale (art. 155, comma
q1, c.c.). Per realizzare questa finalità “il giudice che pronuncia la separazione personale dei coniugi
adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all'interesse morale e materiale di essa”
valutando in via prioritaria la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori (art. 155,
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comma 2, c.c.), obiettivo che il legislatore ha sintetizzato, nel titolo della legge, con l’espressione
“affidamento condiviso”. L’attuazione pratica di questi principi viene rimessa agli accordi dei genitori o,
in difetto, al provvedimento del giudice. A cinque anni dall’entrata in vigore della legge di riforma,
l’affidamento condiviso costituisce un principio pacifico ormai in tutti i tribunali. Non viene segnalato
alcun tribunale in cui il principio non trovi applicazione.
2) Il giudice può disporre che la potestà genitoriale, relativamente all’ordinaria amministrazione, cioè alla
vita quotidiana, possa essere esercitata da ciascun genitore separatamente. Affidamento condiviso ed
esercizio della potestà non coincidono necessariamente. Nella quasi totalità dei provvedimenti di
separazione, come si è già detto, alla indicazione dell’affidamento condiviso si accompagna, appunto,
l’indicazione che nell’esercizio della potestà per le questioni ordinarie i genitori decidono separatamente,
ciascuno quando ha il figlio con sé.
3) L’affidamento esclusivo dei figli minori ad uno solo dei genitori – con esclusione quindi del potere
dell’altro di assumere decisioni - può essere adottato, con provvedimento motivato del giudice, nei casi in
cui l'affidamento condiviso non appare soluzione praticabile perché contrasterebbe con l'interesse del
figlio minore. La giurisprudenza si è andata orientando per una interpretazione che limita l’affidamento
esclusivo solo ai casi di grave inidoneità dei genitori (Cass. sez. I, 19 giugno 2008, n. 16593; 17 dicembre
2009, n. 26587; Cass. sez. I, 2 dicembre 2010, n. 24526). Al fine di scoraggiare comportamenti
unicamente vessatori la legge prevede anche una sanzione (consiste nel potere discrezionale del giudice di
“considerare il comportamento del genitore istante ai fini della determinazione dei provvedimenti da
adottare nell’interesse del minore”) – di cui non vi è però traccia edita nell’applicazione della norma fatta
in questi ultimi anni - per il caso in cui la richiesta da parte di un genitore di affidamento esclusivo del
figlio sia manifestamente infondata. Inoltre vengono attribuite al comportamento consapevolmente
temerario del genitore conseguenze anche sul terreno della responsabilità aggravata ai sensi dell’art. 96
c.p.c.
4) Il giudice deve determinare i tempi e le modalità della presenza dei figli presso ciascun genitore. La
legge non prevede che il minore possa avere due residenze (o due domicili). Pertanto secondo la legge di
riforma del 2006 i genitori o il giudice dovranno stabilire sempre quale è la residenza (o il domicilio) del
figlio, in piena coerenza con le esigenze psicologiche di qualsiasi persona – soprattutto se minore - ad
avere una propria collocazione anche anagrafica.
5) La scomparsa nel nuovo articolato, del previgente sesto comma dell’art. 155 (“In ogni caso il
giudice può per gravi motivi ordinare che la prole sia collocata presso una terza persona o, nella
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impossibilità, in un istituto di educazione”) non impedisce al giudice – chiamato comunque ad adottare i
provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all'interesse morale e materiale di essa (art.
155, comma 2, prima parte) - di disporre il collocamento dei figli minori presso terze persone, per
esempio i nonni o altri parenti nell’eventualità che nessuno dei genitori sia in grado di occuparsi
adeguatamente dei figli. Ugualmente deve dirsi per la norma di cui all’art. 6 della legge sul divorzio (“In
caso di temporanea impossibilità di affidare il minore ad uno dei genitori, il tribunale procede
all’affidamento familiare...” ) che indica una eventualità certamente da considerare possibile sia in sede
divorzile che in sede di separazione.
6) Anche ammessa dalla ormai prevalente giurisprudenza è la possibilità che per esigenze di protezione
del minore possa essere disposto l’affidamento del minore ai servizi sociali sia pure mantenendone il
collocamento presso uno dei genitori o disponendone il collocamento etero familiare. Si tratta di una
misura largamente adottata anche in sede di separazione o divorzio, considerata legittima e plausibile
(Cass. sez. I, 28 maggio 2008, n. 14042), tutte le volte in cui il giudice lo ritenga opportuno per la
regolamentazione dell’esercizio della potestà. In tal caso – rimanendo integra la titolarità della potestà in
capo ai genitori (salvo provvedimenti del tribunale per i minorenni) - si ritiene che l’ente affidatario
acquisti esclusivamente poteri di controllo e di indirizzo secondo le indicazioni eventualmente date dal
giudice.
7) La riforma ha previsto che il giudice “prende atto, se non contrari all'interesse dei figli, degli
accordi intervenuti tra i genitori” in materia di affidamento. Sembrerebbe una norma pleonastica. In realtà
la riforma del 2006 aveva voluto dare una indicazione di promozione della negozialità tra i genitori in
ordine all’affidamento. Ove vi sia, quindi, un accordo sull’affidamento (permanendo un disaccordo sul
complessivo assetto post-coniugale) il giudice (presidente, giudice istruttore o tribunale) è chiamato a
recepirlo previo quel controllo giudiziario sulla non contrarietà all’interesse del figlio minore che
costituisce nel nostro ordinamento una clausola generale in materia di determinazione negoziale delle parti
in sede di separazione.
8) Il quarto comma dell’art. 155 c.c. – nel testo introdotto dalla riforma del 2006 - esprime innanzitutto
un principio generale molto chiaro affermando che, “salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle
parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio
reddito” (nuovo testo art. 155, comma 4, come modificato dall’art. 1, comma 1, della legge 54/2006). Il
che significa che la regola è che i genitori provvedono al mantenimento dei figli in modo proporzionale ai
loro redditi ma che possono sempre concordare modalità diverse. L’affermazione legislativa secondo cui i
genitori possono determinare nel modo che credono più adeguato l’obbligazione di mantenimento verso i 8
figli costituisce proprio applicazione dei principi in materia di condivisone delle responsabilità educative.
Per esempio i genitori possono concordare che uno di essi assolva all’obbligazione di mantenimento
assumendo l’onere di un assegno da versare all’altro mentre l’altro genitore si occupa dell’accudimento e
della cura quotidiana (Cass. sez. I, 22 maggio 2009, n. 11903), oppure possono concordare che a carico di
un genitore siano le spese scolastiche mentre a carico dell’altro restino quelle per i bisogni alimentari
anche se questa distribuzione dei compiti di mantenimento non è proporzionale ai rispettivi redditi. Nella
prassi applicativa di questa disposizione si ritiene attribuito al giudice ragionevolmente un compito di
controllo su questi accordi per la verifica della loro plausibilità rispetto all’interesse del minore, non
essendo concepibile che in materia di obbligazione di mantenimento possano essere recepiti accordi che
appaiono contrari all’interesse dei figli.
9) Sempre in ordine alle questioni connesse al mantenimento la riforma ha anche previsto che il
giudice può sempre stabilire, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico. La locuzione
ove necessario lascia intendere anche che le parti o il giudice potrebbero non disporre specifiche
obbligazioni a carico di un genitore, determinando diversamente la distribuzione delle obbligazioni di
mantenimento, per esempio in modo diretto e differenziato. Nella prassi applicativa di questi primi anni di
applicazione della legge 54/2006 è stata esclusa una lettura della norma, che preveda come del tutto
eccezionale il potere del giudice di determinare le modalità della contribuzione verso i figli o che guardi
con eccessiva fiducia alla capacità dei genitori di autoregolamentarsi equamente negli aspetti economici
dopo la separazione. I giudici hanno fatto ragionevole applicazione di questa norma, prevedendo quasi
sempre un’obbligazione di pagamento di un contributo di mantenimento a carico di uno genitori – ritenuta
espressamente “opportuna” (Cass. sez. I, 4 novembre 2009, n. 23411) - ma, d’altro lato, omologando
anche accordi in cui non apparivano ragioni ostative ad una diversa presa in carico da parte dei genitori
dell’obbligazione di mantenimento verso i figli.
10) Il legislatore del 2006 ha fornito anche indicazioni precise per realizzare il principio di
proporzionalità, già presente, come è noto, nel codice civile (art. 148 c.c.). In particolare la riforma ha
previsto parametri per il mantenimento molto specifici tra i quali le esigenze del figlio (bisogni
alimentari, bisogni scolastici e di socializzazione), il tenore di vita della famiglia (eventuale scuola
privata, eventuali spese per corsi di studio all’estero, vacanze) e le risorse economiche dei genitori
secondo il principio che il figlio ha diritto a quanto i suoi genitori gli possono garantire. Oltre a questo
criteri ve ne sono altri due che hanno costituito una vera novità: i tempi di permanenza del figlio presso i
genitori, e la “valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore”. Con questi
parametri l’accudimento dei figli - che la prassi giudiziaria ha finora ignorato circoscrivendo l’ammontare
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dell’assegno alle sole esigenze del figlio – è entrato a pieno titolo tra le mansioni da retribuire. In difetto di
un accordo tra le parti, il giudice dovrà, quindi, dapprima ipotizzare l’entità del diritto al mantenimento
del figlio o dei figli, considerando i redditi dei genitori (cioè le loro potenzialità economiche complessive,
come emergono dai redditi di lavoro subordinato o autonomo e da ogni altra forma di reddito o utilità ivi
compresi i cespiti patrimoniali produttivi o improduttivi di reddito, il valore dei beni mobili o delle
partecipazioni societarie nonché gli altri proventi) e, quindi, procedere alla distribuzione di tale
ammontare tra i due genitori in misura proporzionale ai redditi di ciascuno, tenendo presenti i tempi di
permanenza dei figli presso ciascun genitore e remunerando specificamente il lavoro di cura, cioè
prevedendo una maggiorazione a favore del genitore che si prende cura quotidiana del figlio. La
distribuzione degli oneri di mantenimento, come detto, potrebbe avvenire non necessariamente attraverso
la previsione di un assegno di mantenimento.
11) Un aspetto della riforma del 2006 che è stato oggetto di molte riflessioni in dottrina e in
giurisprudenza concerne i figli maggiorenni, nella parte in cui la legge ha previsto (art. 155-quinquies
comma 1, c.c.) che il contributo di mantenimento per i figli maggiorenni non indipendenti
economicamente “salvo diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all'avente diritto”. In
primo luogo la nuova disposizione è apparsa confermativa dell’orientamento affermatosi da anni in
giurisprudenza, in base al quale, secondo i principi generali in materia (art. 30 Cost, artt. 147 e 148 c.c.),
l'obbligo dei genitori di mantenere i figli non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore
età dei figli, ma si protrae fino a quando i figli non sono in condizione di realizzare la propria autonomia
economica (Cass. sez. I, 28 agosto 2008, n. 21773) e che, quindi, la posizione del figlio non ancora
indipendente dai genitori senza sua colpa è assimilata a quella del figlio minore. Pacifico è anche
l’orientamento che il figlio maggiorenne non ha acquista una propria legittimazione nel procedimento di
separazione e che pertanto per le questioni connesse al suo mantenimento i genitori nella causa di
separazione restano gli unici legittimati.
La novità della riforma, in sostanza, sta nell’indicazione che nel procedimento di separazione e di
divorzio l’assegno, salvo diversa indicazione del giudice, dovrebbe essere versato direttamente al figlio
maggiorenne. Finora questa possibilità non era espressamente prevista sebbene la prassi già la considerava
in alcuni casi possibile. Poiché il giudice, ove richiesto, ha il potere di disporre che l’assegno continui ad
essere versato al genitore già affidatario del figlio divenuto maggiorenne, si è in presenza di una vera e
propria obbligazione alternativa. La disposizione (tale assegno, salvo diversa determinazione del giudice,
è versato direttamente all'avente diritto) appare presentarsi con un contenuto prescrittivo che non sembra
lasciare dubbi sul fatto che la regola dovrebbe essere che l’assegno è direttamente attribuito al figlio
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maggiorenne mentre l’eccezione è che l’assegno può essere corrisposto al genitore con cui il figlio
maggiorenne coabita. Tuttavia le conseguenze di questa soluzione preferenziale sono state indubbiamente
sottovalutate dal legislatore dal momento che il figlio maggiorenne – magari ancora adolescente -
potrebbe trovarsi suo malgrado coinvolto in dinamiche conflittuali dalle quali sarebbe opportuno
preservarlo. Si consideri che ove il figlio ricevesse personalmente l’assegno, il genitore con cui egli
convive si potrebbe trovare nella spiacevole necessità di dovergli richiedere un contributo per le spese
della coabitazione. Con il rischio di una spirale di tensioni che il legislatore ha certamente sottovalutato.
Per questo la prassi si è orientata ragionevolmente per un esame caso per caso della situazione e non per
l’applicazione generalizzata del potere del giudice di disporre che il figlio maggiorenne in ogni caso
percepisca egli direttamente l’eventuale contributo di mantenimento.
12) La riforma, ha previsto, una speciale tutela penale delle obbligazioni di mantenimento
prevedendo che in caso di violazione degli obblighi di natura economica – così testualemte afferma l’art. 3
della legge 54/2006 – “si applica l'articolo 12-sexies della legge 1o dicembre 1970, n. 898”. L’art. 12-
sexies della legge sul divorzio prescrive che “al coniuge che si sottrae all’obbligo di corresponsione
dell’assegno dovuto a norma degli articoli 5 e 6 della presente legge, si applicano le pene previste
dall’art. 570 c.p.” e la Corte costituzionale interpretò il riferimento non alla norma penale per intero ma
solo alla sanzione (Corte cost. 31 luglio 1989, n. 472). Con la conseguenza che il genitore che si sottrae
agli obblighi di corresponsione del contributo di mantenimento o che comunque non assolve alle
obbligazioni di natura economica alle quali è tenuto, si applicano le pene previste nell’art. 570 del codice
penale (indicate nel comma 2 n. 2 : reclusione fino ad un anno e multa).
Nonostante questa chiara indicazione normativa la giurisprudenza continua a interpretare il riferimento
all’art. 570 codice penale, non come riferimento quoad poenam, ma come riferimento alla descrizione
della fattispecie penale, ritenendo sussistente la violazione solo ove il mancato adempimento
dell’obbligazione di mantenimento dei figli faccia venir meno i mezzi di sussistenza (Cass. pen. sez. VI, 4
aprile 2007, n. 14103; Cass. pen. sez. VI, 28 ottobre 2009, n. 42631).
13) Il nuovo testo dell’art. 155-quater c.c. ribadisce che l’assegnazione della casa familiare è
finalizzata all’attuazione dell’interesse dei figli (sia legittimi che naturali) e che di tale assegnazione il
giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l'eventuale titolo di
proprietà.
La novità introdotta dalla legge 54/2006 è contenuta nella previsione che il diritto al godimento della
casa familiare “viene meno nel caso che l'assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa
familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio”.
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Non cambia, perciò, il presupposto fondamentale dell’assegnazione costituito dall’interesse dei figli
ma questo presupposto sembra incrinato dalla previsione molto forte che il diritto al godimento della casa
familiare viene meno non solo quando - il che è del tutto condivisibile - l’assegnatario cessi di abitare
stabilmente nella casa familiare, ma anche quando “conviva more uxorio o contragga un altro
matrimonio”, situazioni che, se è vero che possono imporre una nuova sistemazione degli aspetti
economici tra le parti, non dovrebbero essere, però, considerati rilevanti rispetto all’assegnazione disposta
nell’interesse dei figli.
La Corte costituzionale (sentenza 30 luglio 2008, n. 308) ha adottato una interpretazione ragionevole
della norma indicando che la convivenza more uxorio o il nuovo matrimonio dell’assegnatario della casa
non sono circostanze idonee, di per se stesse, a determinare la cessazione dell’assegnazione – non
essendovi altrimenti coerenza rispetto ai fini di tutela della prole per i quali l’istituto è sorto – e che quindi
la eventuale revoca dell’assegnazione debba essere sempre subordinata ad una valutazione dell’interesse
del minore.
14) L’altra novità della riforma, in punto di assegnazione della casa familiare, sta nella previsione che
“il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili e opponibili a terzi ai sensi
dell'articolo 2643” (art. 155-quater c.c.) e non più, quindi, ai sensi dell’art. 1599 c.c. (come era indicato
nell’art. 6, comma 6, della legge sul divorzio, che la giurisprudenza costituzionale aveva esteso alla
separazione) con la conseguenza che nel conflitto tra l’assegnatario e l’eventuale terzo acquirente sarà
destinato a prevalere sempre e soltanto chi per primo trascrive il proprio titolo e non più l’assegnatario
quanto meno per nove anni se non ha trascritto l’assegnazione, come le Sezioni unite della Cassazione
hanno chiarito alcuni anni fa (Cass. sez. unite, 26 luglio 2002, n. 11096). Una concessione, quindi, alle
leggi della proprietà a discapito dell’interesse del minore.
La Corte costituzionale ha considerato trascrivibile anche il provvedimento di assegnazione della casa
familiare adottato a tutela del figlio naturale (Corte cost. 12 ottobre 2005, n. 394).
15) La riforma ha ribadito espressamente anche il principio di modificabilità di tutte le decisioni
prevedendo nel nuovo art. 155-ter c.c. che “I genitori hanno diritto di chiedere in ogni tempo la revisione
delle disposizioni concernenti l'affidamento dei figli, l'attribuzione dell'esercizio della potestà su di essi e
delle eventuali disposizioni relative alla misura e alla modalità del contributo. Si tratta, come è noto, di un
principio generale che trova applicazione processuale nelle norme che consentono in corso di causa di
richiedere sempre al giudice che procede la modifica dei provvedimenti (art. 709, comma 3, c.p.c. e art. 4,
comma 8, seconda parte, della legge sul divorzio) e, dopo il giudicato, nelle procedure di revisione di cui
all’art. 710 c.p.c. e all’art 9, comma 1, della legge sul divorzio.
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La competenza territoriale, per i procedimenti di modifica e di revisione delle condizioni di esercizio
della potestà e dell’affidamento introdotti dopo il giudicato, appartiene al tribunale del luogo ove è
residente il minore (art. 709 ter c.p.c. come modificato dall’art. 2 della legge 54/2006) dal momento che si
tende a mantenere la competenza nel luogo dove sono radicate le abitudini di vita del minore e dove sono
ubicati gli eventuali servizi territoriali che possono essere di ausilio nel procedimento.
16) Il nuovo art. 155-quater c.c. ribadisce un altro principio, già contenuto nell’art. 6 della legge sul
divorzio, prescrivendo che “Nel caso in cui uno dei coniugi cambi la residenza o il domicilio, l'altro
coniuge può chiedere, se il mutamento interferisce con le modalità dell'affidamento, la ridefinizione degli
accordi o dei provvedimenti adottati, ivi compresi quelli economici”. Meno perentorio, sulle medesimo
aspetto, si presentava il testo dell’ultimo comma dell’art. 6 della legge sul divorzio (da considerare ora
abrogato con tutto l’articolo) che prevedeva l’obbligo del genitore di comunicare all’altro entro trenta
giorni il cambiamento di residenza. La norma prevedeva, in caso di mancata comunicazione, il sorgere di
un’eventuale obbligazione risarcitoria tutte le volte in cui il trasferimento non concordato di residenza
comportava danni al diritto di frequentazione tra i figli e l’altro genitore. A quanto è dato sapere la
sanzione risarcitoria non ha mai trovato applicazione sebbene siano state frequenti nella prassi le istanze
di ridefinizione del regime di affidamento in seguito al trasferimento con il figlio del genitore affidatario.
17) La riforma del 2006 ha introdotto un apposito procedimento per la soluzione delle controversie
insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà o delle modalità di affidamento , escluse – si
ritiene - le questioni connesse agli spetti economici. Il procedimento è indicato nel nuovo art. 709-ter
c.p.c.
Su ricorso della parte il giudice convoca le parti e adotta i provvedimenti opportuni. In caso di gravi
inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto
svolgimento delle modalità dell'affidamento può modificare i provvedimenti in vigore e può, anche
congiuntamente: 1) ammonire il genitore inadempiente; 2) disporre il risarcimento dei danni, a carico di
uno dei genitori, nei confronti del minore; 3) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei
genitori, nei confronti dell'altro; 4) condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione
amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un massimo di 5000 euro a favore della Cassa delle
ammende.
In linea con le indicazioni che da anni i giuristi e la prassi vanno facendo in ordine alle problematiche
relative all’attuazione dei provvedimenti e nella direzione già a suo tempo indicata dalla legge sul divorzio
(art. 6, comma 10: “all’attuazione dei provvedimenti relativi all’affidamento della prole provvede il
giudice del merito...”), la riforma ha previsto, quindi, che la soluzione delle controversie tra i genitori in
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ordine all’esercizio della potestà, sono risolte dal “giudice del procedimento in corso” su ricorso di uno
dei genitori (art. 709 ter c.p.c.).
La prassi ha finora scarsamente utilizzato questa procedura tanto che ancora non è stato chiarito se il
ricorso debba sempre dare luogo ad un sub procedimento autonomo o se – come appare più ragionevole -
possa anche tradursi in una istanza portata direttamente all’attenzione del giudice ove sia in corso la causa
di separazione. Certamente la previsione di un apposito procedimento di risoluzione delle controversie
sulla potestà pone fine alla tradizionale funzione attribuita al giudice tutelare dall’art. 337 c.c. che in
proposito può considerarsi certamente abrogato, salvo verosimilmente il caso in cui la controversia
insorge dopo il giudicato di separazione o di divorzio e non richiede modifiche dei provvedimenti.
Il procedimento sarà sempre azionato dal genitore interessato con ricorso diretto al giudice del
procedimento in corso. Quando il procedimento non è più pendente davanti al giudice della causa, la
domanda si propone con un procedimento camerale di revisione ex art. 710 c.p.c. o ex art. 9 della legge
sul divorzio o, per i figli naturali, attraverso una procedura camerale ex art. 317 bis c.c. In tal caso la
competenza territoriale appartiene – come espressamente avverte la seconda parte del primo comma
dell’art. 709-ter c.p.c. - al giudice del luogo ove è residente il minore.
Il giudice – in corso di causa o in sede di modifica - non si limiterà, però, alla sola soluzione della
controversia portata alla sua attenzione. Qualora egli riscontri gravi inadempienze o atti che arrecano
pregiudizio al minore potrà anche adottare provvedimenti di tipo sanzionatorio. In dottrina il dibattito
sulla natura di questi provvedimenti è ancora aperto ma si ritiene pacifica la loro natura sanzionatoria.
I provvedimenti adottati dal giudice sono tutti impugnabili con la decisione finale o, in ogni caso, con
gli stessi mezzi di impugnazione previsti per la decisione finale.
18) Una disposizione importante introdotta dalla riforma è quella secondo la quale “Il giudice dispone
l'audizione del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di
discernimento” (art. 155-sexies, comma 1, seconda parte c.c.). La disposizione è collocata all’interno di
una norma dedicata ai mezzi di prova che il giudice ha il potere di assumere prima dell’emanazione dei
provvedimenti provvisori e urgenti di separazione ed appare quindi incoerente rispetto alle finalità
certamente non probatorie dell’audizione del minore.
A parte, però, la collocazione, si tratta di una indicazione, che era necessitata in base agli impegni di
carattere convenzionale e internazionale cui il nostro ordinamento doveva conformarsi. Specificamente
l’art. 12 della Convenzione di New York del 28 novembre 1989 sui diritti dei minori ratificata dall’Italia
con la legge 27 maggio 1991, n. 176 ; la Convenzione di Strasburgo sull’esercizio dei diritti del minore
del 25 gennaio 1996, ratificata dall’Italia con la legge 10 marzo 2003, n. 77. Secondo il Regolamento CE
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n. 2201/2003 del 27 novembre 2003, l’omessa audizione del minore nelle procedure di separazione
costituisce causa ostativa alla dichiarazione di efficacia negli altri Stati del provvedimento finale.
L’audizione del minore è adempimento prescritto con diverse sfumature già in molte parti del nostro
ordinamento giuridico (per esempio nell’art. 250 c.c., in svariate norme della legge 4 maggio 1983, n. 184
in materia di adozione, nella legge sul divorzio)
La giurisprudenza ha spesso fatto applicazione di tutte queste norme per richiamare l’esigenza che il
diritto del minore ad essere ascoltato abbia applicazione effettiva, anche se l’audizione del minore è stata,
quanto meno da parte della giurisprudenza maggioritaria, considerata quasi sempre una facoltà del giudice
e non un obbligo. Soltanto nei procedimenti de potestate (art. 330, 333, 336 c.c.) la Corte costituzionale è
intervenuta in passato per ricordare, nel contesto più generale di una riflessione sul contraddittorio nel
processo civile minorile, che l’audizione del minore costituisce un obbligazione da cui può derivare la
nullità del giudizio per difetto del contraddittorio, considerato che in tali procedimenti il minore è parte
(Corte cost. 30 gennaio 2002, n. 1). Ad analoga conclusione è pervenuta anche la Corte di Cassazione con
riguardo ai procedimenti di separazione (Cass. sez. Unite, 21ottobre 2009, n. 22238 ma con una
valutazione discutibile non essendo il minore parte nei procedimenti di separazione. Molto ampia, invece,
la riflessione contenuta in Cass. sez. I, 26 marzo 2010, n. 7282 che ha impostato il tema dell’audizione dal
punto di vista dei suoi contenuti sostanziali, escludendone la natura di atto istruttorio e conseguentemente
escludendo che la mancata audizione possa comportare effetti sulla validità del procedimento.
Così come formulata la norma sembra introdurre un obbligo di audizione (“Il giudice dispone...”)
anche se lascia libero il giudice di scegliere la modalità, diretta o delegata, dell’audizione. La prassi finora
ha dato una interpretazione ragionevole della norma, ritenendo in sostanza che ove l’audizione non si
presenti necessaria il giudice possa anche ometterla. Il dibattito sul punto è ancora aperto e sarà, quindi,
soprattutto la prassi dei prossimi anni, ad indicare le modalità e i contenuti dell’audizione.
19) Anche la mediazione familiare è stata opportunamente oggetto di attenzione nella riforma
introdotta con la legge 54/2006 la quale, in un apposito art. 155-sexies nel codice civile ha previsto che il
giudice “ sentite le parti ed ottenuto il loro consenso, può rinviare l'adozione dei provvedimenti di cui
all'articolo 155 per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino una mediazione per
raggiungere un accordo, con particolare riferimento alla tutela dell'interesse morale e materiale dei
figli”.
Il principio ha, evidentemente, carattere generale e non circoscritto alla fase presidenziale.
Effettivamente non poteva mancare in una legge sulla condivisione delle responsabilità genitoriali il
riferimento alla opportunità che i genitori possano avvalersi dell’aiuto di mediatori familiari per
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raggiungere accordi adeguati e il più possibile stabili nel tempo.
La giurisprudenza ha già accolto la possibilità di invio della coppia a servizi di mediazione familiare e
la prassi è molto diffusa. Resta il fatto che i servizi di mediazione familiare - ai quali già è stato fatto
riferimento normativo nell’art. 4 della legge 28 agosto 1997, n. 285 contenenti disposizioni per la
promozione di diritti e opportunità per l’infanzia e l’adolescenza e nella legge 4 aprile 2001, n. 154
contenente misure contro la violenza domestica – benché largamente diffusi ormai sia privatamente che a
livello dei servizi territoriali pubblici, non hanno ancora una loro disciplina normativa.
V
LE PROPOSTE DI MODIFICA DELL’AFFIDAMENTO CONDIVISO
Il disegno di legge n. 957 in discussione nella Commissione Giustizia del Senato propone le seguenti
modifiche dell’assetto stabilito nella riforma del 2006.
Testo vigente Proposte di modifica (disegno di legge 957)
Art. 1 - 5Art. 155 - (Provvedimenti riguardo ai figli). 1. Anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.
Art. 155 - (Provvedimenti riguardo ai figli).1. Anche in caso di separazione personale dei genitori il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno di essi, di ricevere cura, educazione e istruzione da entrambi pariteticamente, salvi i casi di impossibilità materiale e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale.
1
2. Per realizzare la finalità indicata dal primo comma, il giudice che pronuncia la separazione personale dei coniugi adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all'interesse morale e materiale di essa. Valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori oppure stabilisce a quale di essi i figli sono affidati, determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, fissando altresì la misura ed il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all'istruzione e all'educazione dei figli. Prende atto, se non contrari all'interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori. Adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole.
2. Per realizzare la finalità di cui al primo comma, il giudice che pronuncia la separazione personale dei coniugi dispone che i figli minori restino affidati ad entrambi i genitori, salvo quanto stabilito all’articolo 155-bis. L’età dei figli, la distanza tra le abitazioni dei genitori e il tenore dei loro rapporti non rilevano ai fini del rispetto del diritto dei minori all’affidamento condiviso, ma solo sulle relative modalità di attuazione. Determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore, stabilendone il domicilio presso entrambi, salvi accordi diversi dei genitori, e tenendo conto della capacità di ciascun genitore di rispettare la figura e il ruolo dell’altro. Fissa altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli. Prende
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atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori. Adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa.Agli ascendenti è data facoltà di chiedere al giudice che sia riconosciuta e disciplinata la propria possibilità di contatto con i minori
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3. La potestà sui figli è esercitata da entrambi i genitori. salvo quanto disposto all’articolo 155-bis le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all'istruzione, all'educazione e alla salute sono assunte di comune accordo. Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la potestà separatamente.
3. La potestà sui figli è esercitata da entrambi i genitori. salvo quanto disposto all’articolo 155-bis le decisioni di maggiore interesse per i figli relative all'istruzione, all'educazione e alla salute sono assunte di comune accordo. Limitatamente alle decisioni su questioni di ordinaria amministrazione, il giudice può stabilire che i genitori esercitino la potestà separatamente.
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4. Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando: 1) le attuali esigenze del figlio; 2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori; 3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore; 4) le risorse economiche di entrambi i genitori; 5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.
4. Salvo accordi diversi delle parti, ciascuno dei genitori provvede in forma diretta e per capitoli di spesa al mantenimento dei figli in misura proporzionale alle proprie risorse economiche. Le modalità sono concordate direttamente dai genitori o, in caso di disaccordo, sono stabilite dal giudice. Il costo dei figli è valutato tenendo conto:1) delle attuali esigenze del figlio;2) delle attuali risorse economiche complessive dei genitori.Quale contributo diretto il giudice valuta anche la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.
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5. Ove necessario al fine di realizzare il suddetto principio di proporzionalità, il giudice può stabilire la corresponsione di un assegno perequativo periodico.
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5. L'assegno è automaticamente adeguato agli indici ISTAT in difetto di altro parametro indicato dalle parti o dal giudice.
6. L’assegno è automaticamente adeguato agli indici ISTAT, in difetto di altro parametro indicato dalle parti o dal giudice.
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7. Qualora un genitore venga meno, comprovatamente, al dovere di provvedere alle necessità del figlio nella forma diretta per la parte di sua spettanza, il giudice stabilisce, a domanda, che provveda mediante assegno da versare all’altro genitore.
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6. Ove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate, il giudice dispone un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi.
ABROGATO
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Art. 155-bis (Affidamento a un solo genitore e opposizione all'affidamento condiviso). 1. Il giudice può disporre l'affidamento dei figli ad uno solo dei genitori qualora ritenga, con provvedimento motivato che l'affidamento all'altro sia contrario all'interesse del minore.
Art. 155-bis (Esclusione di un genitore dall’affidamento e disciplina dell’affidamento esclusivo).1. Il giudice può escludere un genitore dall’affidamento, con provvedimento motivato, qualora ritenga che da quel genitore, se affidatario, possa venire pregiudizio al minore. In ogni caso il giudice può per gravi motivi ordinare che la prole sia collocata presso una terza persona o, nell’impossibilità, in un istituto di educazione
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2. Ciascuno dei genitori può, in qualsiasi momento, chiedere l'affidamento esclusivo quando sussistono le condizioni indicate al primo comma. Il giudice, se accoglie la domanda, dispone l'affidamento esclusivo al genitore istante, facendo salvo, per quanto possibile, i diritti del minore previsti dal primo comma dell'articolo 155. Se la domanda risulta manifestamente infondata, il giudice può considerare il comportamento del genitore istante ai fini della determinazione dei provvedimenti da adottare nell'interesse dei figli, rimanendo ferma l'applicazione dell'articolo 96 del codice di procedura civile.
2. Ciascuno dei genitori può, in qualsiasi momento, chiedere l'affidamento esclusivo quando sussistono le condizioni indicate al primo comma. Il giudice, se accoglie la domanda, dispone l'affidamento esclusivo al genitore istante, facendo salvo, per quanto possibile, i diritti del minore previsti dal primo comma dell'articolo 155. Se la domanda risulta manifestamente infondata, il giudice può considerare il comportamento del genitore istante ai fini della determinazione dei provvedimenti da adottare nell'interesse dei figli, rimanendo ferma l'applicazione dell'articolo 96 del codice di procedura civile.
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3. Il genitore cui sono affidati i figli ha l’esercizio esclusivo della potestà su di essi; egli deve attenersi alle condizioni determinate dal giudice. Le decisioni di maggiore interesse per i figli sono adottate congiuntamente da entrambi i coniugi. Il cambiamento di residenza dei figli costituisce decisione di maggiore interesse e deve essere concordato. In caso di disaccordo la decisione è rimessa al giudice. Il coniuge cui i figli non siano affidati ha il diritto e il dovere di vigilare sulla loro istruzione ed educazione e può ricorrere al giudice quando ritenga che siano state assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse.
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4. Le norme sul mantenimento dei figli di cui al quinto comma dell’articolo 155 si applicano a prescindere dal tipo di affidamento; parimenti, la posizione fiscale dei genitori è la stessa
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Art. 155-ter (Revisione delle disposizioni concernenti l'affidamento dei figli). 1. I genitori hanno diritto di chiedere in ogni tempo la revisione delle disposizioni concernenti l'affidamento dei figli, l'attribuzione dell'esercizio della potestà su di essi e delle
Art. 155-ter (Revisione delle disposizioni concernenti l'affidamento dei figli). 1. I genitori hanno diritto di chiedere in ogni tempo la revisione delle disposizioni concernenti l'affidamento dei figli, l'attribuzione dell'esercizio della potestà su di essi e delle
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eventuali disposizioni relative alla misura e alla modalità del contributo.
eventuali disposizioni relative alla misura e alla modalità del contributo.
Art. 155-quater (Assegnazione della casa familiare e prescrizioni in tema di residenza). 1. Il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell'interesse dei figli. Dell'assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l'eventuale titolo di proprietà. Il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso che l'assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio. Il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili e opponibili a terzi ai sensi dell'articolo 2643.
Art. 155-quater (Assegnazione della casa familiare e prescrizioni in tema di residenza). 1. Il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell'interesse dei figli. Dell'assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l'eventuale titolo di proprietà. Nel caso in cui l’assegnatario della casa familiare non vi abiti o cessi di abitarvi stabilmente o contragga nuovo matrimonio o conviva more uxorio, la sua assegnazione in godimento, a tutela dell’interesse dei figli a conservare intatto il luogo di crescita, perde efficacia e il giudice dispone, a domanda, secondo i criteri ordinari Il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili e opponibili a terzi ai sensi dell'articolo 2643.
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2. Nel caso in cui uno dei coniugi cambi la residenza o il domicilio, l'altro coniuge può chiedere, se il mutamento interferisce con le modalità dell'affidamento, la ridefinizione degli accordi o dei provvedimenti adottati, ivi compresi quelli economici.
2. Nel caso in cui uno dei coniugi cambi la residenza o il domicilio, l'altro coniuge può chiedere, se il mutamento interferisce con le modalità dell'affidamento, la ridefinizione degli accordi o dei provvedimenti adottati, ivi compresi quelli economici.
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Art. 155-quinquies (Disposizioni in favore dei figli maggiorenni). 1. Il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale assegno, salvo diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all'avente diritto.
Art. 155-quinquies (Disposizioni in favore dei figli maggiorenni). Dell’assegno perequativo eventualmente stabilito per il mantenimento del figlio, o degli assegni che entrambi i genitori siano obbligati a versare in un conto corrente comune a favore del figlio, è titolare quest’ultimo quando diventa maggiorenne; il figlio maggiorenne è altresì tenuto a collaborare con i genitori e a contribuire alle spese familiari, finché convivente. Ove il genitore obbligato si renda inadempiente, in caso di inerzia del figlio è legittimato ad agire anche l’altro genitore, come persona che ne subisce un danno.
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2. Nel caso in cui un figlio sia già maggiorenne al momento della separazione personale dei genitori, ma non ancora autosufficiente economicamente, può essere chiesta l’applicazione del quinto comma dell’articolo 155 del codice civile dauno qualsiasi dei genitori o dal figlio
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2. Ai figli maggiorenni portatori di handicap grave ai sensi dell'articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, si applicano integralmente le disposizioni previste in favore dei figli minori.
3. Ai figli maggiorenni portatori di handicap grave ai sensi dell'articolo 3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, si applicano integralmente le disposizioni previste in favore dei figli minori.
19
Art. 155-sexies. - (Poteri del giudice e ascolto del minore). 1. Prima dell'emanazione, anche in via provvisoria, dei provvedimenti di cui all'articolo 155, il giudice può assumere, ad istanza di parte o d'ufficio, mezzi di prova. Il giudice dispone, inoltre, l'audizione del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento.
Art. 155-sexies. - (Poteri del giudice e ascolto del minore). 1. Prima dell'emanazione, anche in via provvisoria, dei provvedimenti di cui all'articolo 155, il giudice può assumere, ad istanza di parte o d'ufficio, mezzi di prova. Il giudice dispone, inoltre, l'audizione del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento e prende in considerazione la sua opinione, tenendo conto dell’età e del grado di maturità. Il giudice può disporre che il minore sia sentito con audizione protetta, in locali a ciò idonei, anche fuori dell’ufficio giudiziario, e che la medesima, oltre che verbalizzata, sia registrata con mezzi audiovisivi
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2. Qualora ne ravvisi l'opportunità, il giudice, sentite le parti ed ottenuto il loro consenso, può rinviare l'adozione dei provvedimenti di cui all'articolo 155 per consentire che i coniugi, avvalendosi di esperti, tentino una mediazione per raggiungere un accordo, con particolare riferimento alla tutela dell'interesse morale e materiale dei figli.
ABROGATO
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Art. 317 bis c.c. (Esercizio della potestà)1. Al genitore che ha riconosciuto il figlio naturale spetta la potestà su di lui.2. Se il riconoscimento è fatto da entrambi i genitori, l'esercizio della potestà spetta congiuntamente ad entrambi qualora siano conviventi. Si applicano le disposizioni dell'articolo 316. Se i genitori non convivono l'esercizio della potestà spetta al genitore col quale il figlio convive ovvero, se non convive con alcuno di essi, al primo che ha fatto il riconoscimento. Il giudice, nell'esclusivo interesse del figlio, può disporre diversamente; può anche escludere dall'esercizio della potestà entrambi i genitori, provvedendo alla nomina di un tutore.3. Il genitore che non esercita la potestà ha il potere di vigilare sulla istruzione, sull'educazione e sulle condizioni di vita del figlio minore.
Art. 6 Art. 317 bis c.c. (Esercizio della potestà)1. Al genitore che ha riconosciuto il figlio naturale spetta la potestà su di lui 2. Se il riconoscimento è fatto da entrambi i genitori, l’esercizio della potestà spetta congiuntamente a entrambi qualora siano conviventi. Si applicano le disposizioni dell’articolo 316. Se i genitori non convivono l’esercizio della potestà è regolato secondo quanto disposto dagli articoli da 155 a 155-sexies.
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Articolo 178 c.p.c. - Controllo del collegio sulle ordinanze.1. Le parti, senza bisogno di mezzi d'impugnazione, possono proporre al collegio, quando la causa è rimessa a questo a norma dell'articolo 189, tutte le questioni risolute dal giudice istruttore con ordinanza revocabile.
Art. 7.
Articolo 178 c.p.c. - Controllo del collegio sulle ordinanze.1. Le parti, senza bisogno di mezzi d'impugnazione, possono proporre al collegio, quando la causa è rimessa a questo a norma dell'articolo 189, tutte le questioni risolute dal giudice istruttore con ordinanza revocabile 2. L’ordinanza del giudice istruttore in materia di separazione e affidamento dei figli è impugnabile dalle parti con reclamo al collegio. Il reclamo deve essere proposto nel termine perentorio di dieci giorni, decorrente dalla pronuncia dell’ordinanza se avvenuta in udienza, o altrimenti decorrente dalla comunicazione dell’ordinanza medesima..
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Art. 8. 1. Dopo l’articolo 709.bis del codice di procedura civile è inserito il seguente: «Art. 709-bis.1. - (Mediazione Familiare). – In tutti i casi di disaccordo nella fase di elaborazione del progetto condiviso le parti hanno l’obbligo, prima di adire il giudice e salvi i casi di assoluta urgenza o di grave ed imminente pregiudizio per i minori, di acquisire informazioni sulle potenzialità di un eventuale percorso di mediazione familiare, rivolgendosi a un centro pubblico o privato, i cui operatori abbiano formazione specifica ed appartengano ad albi nazionali specifici pubblici o privati registrati nell’apposito elenco del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. Ove l’intervento, che può essere interrotto in qualsiasi momento, si concluda positivamente, le parti presentano al presidente del tribunale il testo dell’accordo raggiunto. Gli aspetti economici della separazione possono far parte del documento finale, anche se concordati al di fuori del centro di cui al primo comma. In caso di insuccesso le parti possono rivolgersi al giudice, ai sensi dell’articolo 709-ter. In ogni caso la parte ricorrente deve allegare al ricorso la certificazione del passaggio presso il centro di cui al primo comma o concorde dichiarazione circa l’avvenuto passaggio. In caso di contrasti insorti successivamente, in ogni stato e grado del giudizio o anche dopo la sua conclusione, il giudice segnala alle parti l’opportunità di rivolgersi ad un centro di mediazione familiare, di cui al primo comma. Se la segnalazione trova il consenso delle parti, il
24
21
giudice rinvia la causa ad altra data in attesa dell’espletamento dell’attività di mediazione».
Art. 709-ter.cpc – (Soluzione delle controversie e provvedimenti in caso di inadempienze o violazioni). 1. Per la soluzione delle controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità dell’affidamento è competente il giudice del procedimento in corso. Per i procedimenti di cui all’articolo 710 è competente il tribunale del luogo di residenza del minore.2. A seguito del ricorso, il giudice convoca le parti e adotta i provvedimenti opportuni. In caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento, può modificare i provvedimenti in vigore e può, anche congiuntamente:1) ammonire il genitore inadempiente;2) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore;3) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro;4) condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende.3. I provvedimenti assunti dal giudice del procedimento sono impugnabili nei modi ordinari.
Art. 9.
Art. 709-ter.cpc – (Soluzione delle controversie e provvedimenti in caso di inadempienze o violazioni). 1. Per la soluzione delle controversie insorte tra i genitori in ordine all’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità dell’affidamento è competente il giudice del procedimento in corso. Per i procedimenti di cui all’articolo 710 è competente il tribunale del luogo di residenza del minore.2. A seguito del ricorso, il giudice convoca le parti e adotta i provvedimenti opportuni. In caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento, il giudice emette prioritariamente provvedimenti di ripristino, restituzione o compensazione. In particolare, nel caso in cui uno dei genitori, anche se affidatario esclusivo, trasferisca la prole senza il consenso scritto dell’altro genitore in luogo tale da interferire con le regole dell’affidamento, il giudice dispone il rientro immediato dei figli e il risarcimento di ogni conseguente danno, valutando tale comportamento ai fini del’affidamento e delle sue modalità di attuazione. Il giudice, inoltre, può modificare i provvedimenti in vigore e può, anche congiuntamente:1) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti del minore;2) disporre il risarcimento dei danni, a carico di uno dei genitori, nei confronti dell’altro;3) condannare il genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da un minimo di 75 euro a un massimo di 5.000 euro a favore della Cassa delle ammende.3. Il comprovato condizionamento della volontà del minore, in particolare se mirato al rifiuto dell’altro genitore attivando la sindrome di alienazione genitoriale, costituisce inadempienza grave, che può comportare l’esclusione dall’affidamento.4. I provvedimenti assunti dal giudice del procedimento sono impugnabili nei modi ordinari.
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26 Art. 10. 26
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Art. 4. legge 54/2006 (Disposizioni finali) 1. Nei casi in cui il decreto di omologa dei patti di separazione consensuale, la sentenza di separazione giudiziale, di scioglimento, di annullamento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio sia già stata emessa alla data di entrata in vigore della presente legge, ciascuno dei genitori può richiedere, nei modi previsti dall’articolo 710 del codice di procedura civile o dall’articolo 9 della legge 1º dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni, l’applicazione delle disposizioni della presente legge. 2. Le disposizioni della presente legge si applicano anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati.
Art. 4.legge 54/2006 (Disposizioni finali) 1. Nei casi in cui il decreto di omologa dei patti di separazione consensuale, la sentenza di separazione giudiziale, di scioglimento, di annullamento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio sia già stata emessa alla data di entrata in vigore della presente legge, ciascuno dei genitori può richiedere, nei modi previsti dall’articolo 710 del codice di procedura civile o dall’articolo 9 della legge 1º dicembre 1970, n. 898, e successive modificazioni, l’applicazione delle disposizioni della presente legge. 2. Le disposizioni della presente legge si applicano anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati. La competenza è attribuita in ogni caso al tribunale ordinario».
VI
IL DISEGNO DI LEGGE 957
[I NUMERI TRA PARENTESI QUADRA FANNO RIFERIMENTO AI NUMERI ALLE DIVERSE PARTI DEL DISEGNO DI LEGGE]
Il disegno di legge di modifica della normativa sull’affidamento condiviso attualmente in discussione
nella Commissione Giustizia del Senato (n. 957/S primo firmatario sen. Giuseppe Valentino, relatrice
Maria Alessandra Gallone) è articolato in modo da ipotizzare alcune modifiche tendenti ad una asserita
maggiore rispondenza del quadro normativo all’interesse dei figli minori.
Nella relazione illustrativa al disegno di legge (cosiddetto affidamento condiviso bis) si legge che le
proposte di modifica si fondano “su uno studio dell’associazione nazionale Crescere Insieme, che dopo
avere partecipato alla stesura della legge ne ha monitorato le disfunzioni applicative ed elaborato i
correttivi”. Quindi le proposte di modifica attingono sostanzialmente alla riflessione dei movimenti
culturali e associativi che nel corso degli ultimi decenni hanno trattato il tema della paternità e del
rapporto tra padri e figli dopo la separazione.
Per quanto concerne le specifiche proposte di modifica la relazione le illustra in tal modo:
“Passando ad un’analisi puntuale dell’articolato, osserviamo che la lettera a) dell’articolo 1 intende mettere fine
alla non circoscritta tendenza, sopra accennata, a concedere l’affidamento condiviso svuotando lo al contempo dei
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suoi essenziali requisiti, come il diritto del minore ad un rapporto effettivamente equilibrato con entrambi i genitori,
in modo che ciascuno di essi si impegni quanto l’altro nel fornirgli «cura» oltre che educazione e istruzione:
condizioni che evidentemente non si realizzano se il figlio trascorre con uno di essi poco più di due fine-settimana al
mese, o se in sentenza si omette di stabilire per entrambi equivalenti compiti di accudimento. L’attenuazione «per
quanto possibile» va intesa, ovviamente, come dovuta alla necessità di considerare quei casi in cui condizioni di
salute, allattamento o particolari impegni lavorativi dei genitori rendano materialmente impossibile una gestione
paritaria; ma ciò non toglie che ovunque realizzabile questa debba essere assicurata al figlio.
La lettera b) sostituisce interamente il secondo comma dell’articolo 155 del codice civile. I primi due periodi del
comma così novellato esprimono più efficacemente la priorità dell’opzione bigenitoriale, quale mantenimento il più
possibile inalterato delle condizioni antecedenti la separazione, e rende più evidenti e inderogabili i limitati ambiti di
applicazione dell’affidamento esclusivo (articolo 155-bis). Ciò avviene anche attraverso l’eliminazione del generico
riferimento all’interesse del minore, del tutto fuori posto e fuorviante laddove una norma direttamente prescrittiva si
propone di assicurare al figlio l’affidamento ad entrambi i genitori, visto come aspetto prioritario della realizzazione
del suo diritto e del suo interesse («Per realizzare la finalità di cui al primo comma ...»). La modifica – o meglio,
come detto più avanti, il ripristino sul punto della formulazione del vecchio codice – assume particolare rilievo, tanto
da apparire indispensabile, ove si osservi che tale illogica collocazione dell’interesse del minore costituisce
attualmente in giurisprudenza la prevalente giustificazione formale della non applicazione dell’affidamento
condiviso a favore dell’esclusivo: ossia della mancata attuazione della riforma. Allo stesso modo e nel medesimo
spirito viene precisata l’irrilevanza di circostanze estranee alle caratteristiche dei genitori singolarmente considerati e
si elimina la possibilità di negare ai figli la tutela di uno dei genitori quale coaffidatario, utilizzando circostanze che
non possono porsi a suo carico.
Il terzo periodo del comma novellato si articola in due parti. Nella prima, alla pari del primo comma, sviluppa e
rende effettiva la doppia tutela a vantaggio dei figli. Poiché gli inconvenienti attuali sono conseguenza diretta
dell’attribuzione ai figli di un’unica appartenenza domiciliare, la nuova formulazione evidenzia la scelta a favore di
due case, purché ciò permetta di continuare ad avere due genitori. Nella seconda disincentiva la conflittualità
all’interno della coppia, stabilendo che il giudice nel decidere le modalità della frequentazione e nell’assegnare i
compiti di cura a ciascun genitore deve tenere conto della propensione di ciascuno a rispettare l’altro, dando la
preferenza, in nome dell’interesse della prole, a quel «fair parent», genitore corretto e leale, nel quale la
giurisprudenza anglosassone già da tempo individua quello meglio in grado di allevare i figli. Tutto questo dovrebbe
scoraggiare quella aggressività, soprattutto processuale, quella tendenza a denigrare gratuitamente l’altro che i
precedenti orientamenti viceversa premiavano allorché il giudice, di fronte a memorie vivacemente polemiche
presentate ad arte da chi non gradiva l’affidamento ad entrambi i genitori, concludeva che il livello di conflittualità
registrato non permetteva formule bigenitoriali e affidava i figli esclusivamente all’aggressore.
L’ultimo periodo del comma novellato riposiziona il riferimento all’interesse del minore, collocandolo
correttamente nell’ambito delle scelte non prevedibili, per le quali è logico che il giudice sia guidato da un principio
aspecifico. Questa, del resto, era esattamente la formulazione precedente alla riforma del 2006, che prima
24
prescriveva tassativamente l’affidamento esclusivo e poi, per le decisioni secondarie e particolari, dava al giudice un
criterio generale e generico, invitandolo ad adottare «ogni altro provvedimento relativo alla prole con esclusivo
riferimento all’interesse morale e materiale di essa».
La lettera c) si preoccupa di rendere effettivo il diritto dei figli a mantenere rapporti significativi con i due ambiti
parentali al completo, ovviando al problema di una lettura dell’articolato che sembrava voler riservare ai nipoti la
possibilità di tutelare il loro rapporto con i nonni a condizione di essere loro stessi ad attivarsi; cosa a dir poco
problematica, visto che manca loro la capacità di agire, nonché le risorse economiche per farlo.
La lettera d) è destinata a precisare che nei casi di affidamento esclusivo la potestà sarà esercitata solo dal genitore
affidatario; un aspetto che aveva fatto molto discutere.
La lettera e) rende del tutto inequivoca, e quindi ineludibile, la prescrizione a favore del mantenimento diretto,
che dovrà essere stabilito ogniqualvolta sia chiesto, anche da un genitore solo. Inoltre, mette ordine nell’elenco dei
parametri di cui il giudice deve tenere conto per fissare un eventuale assegno. La norma attuale, infatti, mescola ciò
che serve a stabilire il costo totale del figlio con quanto serve a scalare dall’assegno perequativo, se stabilito, forme
dirette di contribuzione (come il lavoro di cura). Viene anche eliminato il parametro relativo al tenore di vita
antecedente la separazione poiché tale evento ha, ovviamente, sconvolto il sistema economico familiare. Stabilisce,
infine, che in caso di trascuratezza da parte di uno dei genitori questi perda la possibilità del mantenimento diretto e
sia obbligato a versare un assegno all’altro.
L’articolo 2 sia nella rubrica che nel primo comma novellato dell’articolo 155-bis afferma in termini prescrittivi
che solo ove si verifichino determinate condizioni, l’onere della cui prova spetta all’accusa, si può escludere un
genitore dall’affidamento. Pertanto resta fuori discussione che al giudice non è data facoltà di scegliere a sua
discrezione tra due istituti, l’affidamento condiviso e quello esclusivo, ma solo di proteggere il minore da uno dei
genitori, ove essere a lui affidato possa arrecargli pregiudizio. La lettera b) determina le modalità di attuazione
dell’affidamento esclusivo precisando, tra l’altro, che il genitore che ne sia investito non per questo è legittimato a
trasferire quando e ovunque creda la residenza del figlio, sradicandolo dall’habitat di crescita. Inoltre si chiarisce
definitivamente che il mantenimento diretto è la forma da privilegiare anche in caso di affidamento esclusivo e che i
genitori hanno diritto, qualitativamente, al medesimo trattamento in termini di detrazioni, assegni familiari e
agevolazioni fiscali di ogni genere, a prescindere dal tipo di affidamento e dalla qualifica di genitore affidatario o
non.
L’articolo 3, coerentemente con l’orientamento della Corte di cassazione, (sentenza n. 26574 del 17 dicembre
2007), stabilisce che il cessato uso della casa familiare come abitazione, o l’introduzione in essa di un soggetto
estraneo al nucleo originario, fa venire meno quei requisiti di «nido», di habitat consueto dei figli che in via del tutto
eccezionale permette di superare le normali regole di godimento dei beni immobili. Pertanto, a domanda
dell’interessato, il giudice accerterà le nuove circostanze e assumerà le varie decisioni che competono alle diverse
situazioni di locazione, comodato o proprietà del genitore non assegnatario.
L’articolo 4 risolve un’altra questione oggetto di intenso dibattito: l’attribuzione al figlio maggiorenne della
titolarità dell’eventuale assegno che fosse stato stabilito per il suo mantenimento. La formulazione proposta permette
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di tutelare gli eventuali danni subiti dal genitore prevalentemente convivente, legittimando anche lui, in concorrenza
con il figlio, ad attivarsi in caso di inadempienza dell’altro. Al tempo stesso lo tutela disciplinando anche i rapporti
con il figlio, prevedendo che questi debba concordare con il genitore il proprio eventuale contributo alle spese e alle
cure domestiche.
L’articolo 5 al comma 1 rafforza la posizione del figlio minore, esaltando il peso delle sue parole ogni volta che è
disposto l’ascolto. Stabilisce anche le modalità consigliabili per procedere all’ascolto del medesimo. Il comma 2
permette di spostare le norme sulla mediazione dal codice civile a quello di procedura civile (articolo 8).
L’articolo 6 aggiorna alla nuova legge la formulazione dell’articolo 317-bis, secondo comma, del codice civile
relativo all’esercizio della potestà su figli di genitori non coniugati.
L’articolo 7 rende possibile reclamare i provvedimenti del giudice istruttore, che a volte creano situazioni
invivibili, per modificare le quali occorre attendere la sentenza, anche per anni. La scelta del reclamo al collegio è
dovuta al desiderio di tenere conto delle difficoltà logistiche che si potrebbero incontrare in talune zone optando per
il reclamo in corte d’appello.
L’articolo 8 restituisce alla mediazione familiare il riconoscimento pieno che aveva ricevuto nella penultima
stesura della legge n. 54 del 2006 da parte Commissione Giustizia della Camera. L’impoverimento di tale strumento
è stato concordemente biasimato da tutti gli operatori del settore, che hanno reiteratamente segnalato i vantaggi di
prevedere una informazione obbligatoria sulle potenzialità di un eventuale percorso di mediazione prima di qualsiasi
contatto con la via giudiziale.
L’articolo 9, integrando la precedente previsione dell’articolo 709-ter del codice di procedura civile, interviene
alla lettera a) in tutte quelle situazioni in cui un genitore compie unilateralmente atti che richiedono l’accordo con
l’altro (ad esempio, cambiando residenza e portando il figlio con sé, oppure iscrivendo il figlio ad istituti scolastici di
propria esclusiva scelta), azzerando tali iniziative, ovvero nel caso in cui abbia costruito ad arte situazioni ostative al
contatto del figlio con l’altro genitore. In questo caso si è ritenuto che non sia sufficiente la previsione di un
meccanismo punitivo o risarcitorio del danno, ma che andasse prioritariamente disposto, ove possibile, il ripristino
dello stato antecedente, ovvero interventi mirati alla restituzione o compensazione di quanto indebitamente sottratto
o negato (si pensi, ad esempio, a giorni di frequentazione saltati). Inoltre viene soppressa la possibilità di semplice
ammonizione: poiché si tratta di infrazioni gravi, se la segnalazione è falsa è da perseguire il denunciante, e se è
corretta limitarsi ad ammonire non può essere sufficiente.
La lettera b), di notevole portata innovativa, intende scoraggiare e bloccare quelle frequenti sottili manovre e
denigrazioni strumentali volte a indurre nei figli la Sindrome di alienazione genitoriale.
L’articolo 10, infine, risolve il dilemma dell’attribuzione della competenza per l’affidamento dei figli di genitori
non coniugati, inizialmente in dubbio tra il tribunale ordinario e il tribunale per i minorenni e che una ordinanza della
prima sezione civile della Cassazione (n. 8362 del 3 aprile 2007) ha attribuito al secondo. L’indicazione è a favore
del primo, in quanto si ritiene preferibile che il dibattito si svolga in luogo ove sono più ampie le garanzie per le
parti: una precauzione che appare necessaria, atteso il principio del rispetto dell’interesse del minore che informa
tutti i provvedimenti in materia”.
26
Le proposte di modifica possono essere valutate in modo differenziato.
I
Alcune di esse – ma non incidenti sul regime sostanziale dell’affidamento condiviso – potrebbero
incontrare accoglienza positiva trattandosi di norme tendenti ad una razionalizzazione processuale e
ordinamentale. Si tratta di questioni sulle quali il dibattito è ancora aperto e che si sostanziano nella
plausibilità della introduzione del reclamo al collegio avverso le ordinanze del giudice istruttore e della
trattazione davanti al giudice ordinario dei procedimenti di affidamento dei figli naturali.
[23] La proposta di introdurre la facoltà di reclamo al collegio avverso i provvedimenti del giudice
istruttore appare coerente con l’impostazione di parte della dottrina processualistica anche se in
dissonanza rispetto alla pressoché univoca prassi seguita nei tribunali di non ammettere (in assenza di
previsione espressa) questa forma di reclamo, sul presupposto che i provvedimenti in questione non
sarebbero omologabili ai provvedimenti di urgenza, non avendo natura cautelare e potendo sempre essere
modificati. Ove il legislatore introducesse questo mezzo di reclamo si potrebbe indebolire il principio di
libera modificabilità non essendo certo pensabile abbinare alla reclamabilità anche la libera modificabilità.
Il dibattito dei processualisti è sul punto ancora aperto.
[26] La disposizione che si ripromette di attribuire al tribunale ordinario la competenza su tutti i
provvedimenti in materia di affidamento condiviso si fonda sulla constatazione che una differenziazione
delle competenze fondata sul diverso status e sulla diversa origine della filiazione è un retaggio del
passato e non ha alcuna ragionevole motivazione.
II
Altre modifiche che il disegno di legge propone appaiono pleonastiche dal momento che il dibattito,
anche in giurisprudenza, sugli aspetti specifici cui si riferiscono, è orientato verso un’applicazione del
tutto ragionevole e condivisibile della normativa attuale che non è necessario, pertanto, modificare.
[2] L’elencazione all’interno dell’art. 155 secondo comma c.c. delle specifiche situazioni che non
consentono la deroga al criterio dell’affidamento condiviso dei figli è superata dal diritto vivente che ha
relegato pacificamente i casi di affidamento esclusivo a concrete situazioni di inidoneità genitoriale.
L’elencazione è pertanto del tutto inopportuna soprattutto perché i casi elencati – ed altri che potrebbero
aggiungersi - non sono di per sé mai indicativi di una necessaria deroga al criterio generale
dell’affidamento condiviso, dovendo al contrario l’affidamento esclusivo fondarsi sempre e soltanto sul
27
criterio dell’inidoneità genitoriale. [10] La previsione - già contenuta nella originaria formulazione
dell'art. 155 c.c. - che il giudice possa ordinare per gravi motivi che il minore sia collocato presso terzi o
presso quello che impropriamente viene chiamato nel disegno di legge 957 "istituto di educazione" (e cioè
presso strutture in genere individuate dai servizi socio-sanitari competenti), è già ampiamente utilizzata
dai giudici ordinari a tutela dei figli nel contenzioso di separazione. Si tratta di misure di protezione (in
genere collegate ad un provvedimento di "affidamento del minore ai servizi sociali") adottate non più
soltanto dal giudice minorile (come provvedimento di limitazione della potestà) ma anche dal giudice
ordinario, sulla base di un potere di intervento sull'esercizio della potestà, a riprova della avvenuta
sostanziale equiparazione dei giudici rispetto al problema delle forme dell'intervento di protezione.
[3] Alla separazione dei genitori si accompagna spesso la marginalizzazione per i figli minori delle
figure parentali di ciascun ramo genitoriale. L'enfasi particolare che la riforma del 2006 aveva dato al
tema del diritto del minore a conservare - quando, quindi, vi siano - rapporti significativi con gli
ascendenti, non ha prodotto prassi applicative significative ed anzi qualche decisione di merito ha escluso
il possibile ricorso all'istituito dell'intervento del terzo nel procedimento di separazione. Effettivamente la
possibilità per i nonni di intervenire nel processo per la disciplina dei contatti con il minore introduce il
rischio di un contenzioso allargato i cui benefici potrebbero essere assai più modesti delle tensioni che si
verrebbero a produrre. L’attuale procedimento di separazione consente certamente ai genitori (e al
Pubblico Ministero) di introdurre nel processo il problema del rapporto tra i minori e gli ascendenti.
Potrebbe, perciò, essere più utile promuovere prassi virtuose che inducano il giudice a prendere in
considerazione concreta il tema della conservazione dei rapporti tra il minore e i parenti che hanno con lui
rapporti significativi. Risolvendosi il problema del rapporto con i nonni in un problema di contrasto
sull'esercizio della potestà, il tema potrebbe essere introdotto dai genitori in corso di causa attraverso il
ricorso al procedimento di cui all'art.- 709-ter c.p.c. o, successivamente, attraverso il procedimento di
modifica delle condizioni della separazione.
Diverso è il caso in cui essendo venuto a mancare uno dei genitori, i nonni che lamentino un
ostruzionismo nei loro confronti (e quindi la perdita di contatto con il nipote) potrebbero agire nell'ambito
dei procedimenti de potestate per ottenere dal tribunale per i minorenni un provvedimento che ponga fine
a quell'ostruzionismo.
[19] La norma sull’audizione del minore appare sufficientemente chiara nel testo della legge attuale,
anche se i giudici nel loro complesso l’hanno finora interpretata nel senso riduttivo (ma forse inevitabile)
che l’audizione (diretta o indiretta da parte di esperti) è necessaria soltanto ove appaia necessario acquisire
il punto di vista del minore. Non c’è stato ancora nei tribunali e nella cultura giuridica un 28
approfondimento sufficiente per poter dirsi esaurita una prima inevitabile fase di riflessione su questo
punto. La prassi è ancora in formazione. Pertanto appare prematura qualsiasi operazione di risistemazione
del testo ed in ogni caso è certamente poco convincente, oltre che psicologicamente avventata, la proposta
di inserire, con riferimento all’audizione del figlio minore, l’indicazione che “il giudice prende in
considerazione la sua opinione”; potendo queste espressioni indurre l’opinione che secondo il legislatore,
dopo aver assolto al compito di acquisire il punto di vista del minore, il giudice vi si debba uniformare.
Spetterà al giudice, caso per caso, valutare in che modo dare seguito alle indicazioni fornite dal minore nel
corso della audizione, certamente considerando quanto emerge nel corso dell’audizione.
[13] Non si è mai dubitato del fatto che da un punto di vista delle obbligazioni di mantenimento
nessuna diversità sussiste tra i genitori nell'ipotesi di affidamento ad entrambi i genitori ed in quella di
affidamento esclusivo. Pertanto la previsione di una norma che estende anche al caso dell'affidamento
esclusivo i principi in materia di mantenimento nel caso di affidamento ad entrambi i genitori (peraltro
solo riferiti al quinto comma della proposta di riforma) è del tutto pleonastica.
IV
Le rimanenti proposte di modifica appaiono, invece, inaccettabili.
Esso solo il frutto di un errore di prospettiva. La condivisione delle responsabilità genitoriali verso i
figli deve rimanere – e in questo la legge 54/2006 ha avito una funzione promozionale fondamentale –
l’obiettivo di qualsiasi separazione. Per raggiungere questo obiettivo l’unica strada percorribile è quella di
individuare caso per caso l’assetto più adeguato, senza pregiudizi (da cui sono indubbiamente affetti
spesso provvedimenti presidenziali affrettati e sentenze poco motivate) ma anche senza interferenze
ideologiche. Compito dei genitori e del giudice è mettersi dal punto di vista del bambino, nelle condizioni
specifiche che lo riguardano, e valutare le sue esigenze e le sue necessità oltre che le risorse dei genitori e
le loro potenzialità. La legislazione attuale contiene tutti i principi sufficienti per costruire l’assetto
migliore relativo all’affidamento.
L’impegno responsabile dell’avvocatura e della magistratura saprà adeguare la prassi a questi obiettivi.
E poiché non ci sono affatto i segnali di quell’inquietante disapplicazione dei principi dell’affidamento
condiviso che i proponenti del disegno di legge paventano, non vi è nemmeno la necessità di un intervento
del legislatore. Al contrario le riforme annunciate darebbero, esse sì, nel loro rigido preconfezionamento
delle soluzioni proposte, spazio ad un contenzioso di cui non si avverte proprio il bisogno.
[1] La previsione che l’educazione dei figli deve essere una funzione assolta pariteticamente da
entrambi i genitori non aggiunge assolutamente nulla alle regole che già sono previste e si presenta perciò
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del tutto solo ideologica. Il concetto di pariteticità, anzi, si presenta confusivo ed ambiguò. Si collega alla
cultura della parità degli anni Settanta, allorché la bigenitorialità veniva letta nel quadro dei principi di
uguaglianza e di parità tra coniugi, ampiamente superata negli anni successivi dal principio che è
l’interesse del minore, e non la parità tra i genitori, che impone la condivisione delle responsabilità.
Il domicilio dei figli presso entrambi i genitori – non prevista, peraltro, dall’ordinamento anagrafico -
va esclusa in ragione della constatazione che l’indicazione di un domicilio del minore appare
corrispondere ad esigenze di habitat, stabilità e di rassicurazione psicologica di qualsiasi persona, a
maggior ragione di una persona minore di età. Il “doppio domicilio” avrebbe soltanto ricadute di
destabilizzazione psicologica e organizzativa per il figlio. Non è dato comprendere in che modo i diritti di
un figlio sarebbero mortificati dalla domiciliazione presso uno dei due genitori. Prevale, anche in questo
caso, la filosofia della parità formale tra genitori.
[5 - 8] Il mantenimento dei figli “in forma diretta e per capitoli di spesa” potrebbe essere una soluzione
in concreto adottabile ove l’età dei figli e lo spirito di collaborazione tra i genitori lo consentano e sempre
che sussistano le risorse economiche a disposizioni di ciascuno dei genitori.
E’ da escludere che tale modalità possa essere prevista in via generale come regola per tutte le
separazioni secondo il capovolgimento che la proposta di riforma propone tra regola generale
(mantenimento diretto) ed eccezione (mantenimento a mezzo di assegno perequativo). L’esperienza
insegna, infatti, che qualsiasi obbligazione di natura economica – soprattutto nella dinamica della
separazione coniugale - rappresenta un fattore ad alto rischio di utilizzazione strumentale. Il contenzioso
che ne deriverebbe sarebbe drammatico e difficilmente gestibile, considerata anche l’inesigibilità di
prestazioni pecuniarie non determinate nel loro ammontare.
Irragionevole è, poi, l’abolizione che il disegno di legge propone - ai fini della determinazione
dell’ammontare del mantenimento - del criterio costituito dal tenore di vita del figlio. Tale abolizione
rappresenta un ritorno al passato, quando l’unico parametro era costitutivo dai “bisogni alimentari” del
minore. Il parametro invece del “tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i
genitori” – introdotto espressamente con la riforma del 2006 – ha valorizzato il principio che, ove i
genitori abbiano durante il matrimonio garantito al figlio un certo tenore di vita (ed una più fortunata
socializzazione), questo tenore di vita deve tendenzialmente continuare dopo la separazione anche per il
figlio. Eliminare questo diritto per ripristinare il solo criterio alimentare (cui fa riferimento il criterio delle
“attuali esigenze del figlio”) mortifica la condizione del figlio di persone che si separano. Sarà il giudice o
la concorde volontà dei genitori a garantire, nella determinazione dell’ammontare del mantenimento per il
30
figlio, la correlazione tra l’obbligazione e il principio di necessaria proporzionalità rispetto alle risorse
economiche di ciascun genitore (art. 148 c.c.).
[9] Non è chiara la motivazione per la quale il disegno di legge 957 elimina la previsione del tutto
ragionevole relativa alla possibilità di accertamenti tributari sulle condizioni economiche dei genitori, ove
le informazioni fornite da essi al riguardo non siano sufficientemente documentate.
[12] Del tutto illogica è la previsione - contenuta nella proposta di introduzione di un terzo comma
all'art. 155-bis - secondo cui anche il genitore che viene escluso dall'affidamento ha potere di decisione
nelle questioni di maggiore interesse per i figli. Una volta escluso per inidoneità l'affidamento, l'unico
potere ragionevole del genitore non affidatario resta quello di richiedere l'intervento del giudice qualora
ritenga che siano state adottate dall'altro genitore decisioni pregiudizievoli per il figlio (secondo lo schema
del previgente art. 155 c.c. di cui viene proposta la reintroduzione espressa nella parte finale della nuova
norma). La riforma del 2006 non conteneva disposizioni che regolamentavano i poteri del genitore non
affidatario e questo aveva indotto alcuni a considerare che in tal caso la potestà sui figli non potesse essere
ugualmente esercitata da entrambi. Ed in effetti ritenere il contrario significherebbe svuotare di qualsiasi
ragionevole contenuto l'affidamento esclusivo. Dovrà quindi essere il giudice a dare indicazioni sulle
condizioni alle quali il genitore non affidatario si dovrà attenere.
[15] La proposta di una riformulazione dell'art. 155-quater c.c. nel senso contrario alla ragionevole
interpretazione data al problema dalla Corte costituzionale (sentenza 308/2008) è inaccettabile. La
disposizione introdotta nel 2006 prevede che in caso di nuovo matrimonio o instaurazione di una
convivenza more uxorio del genitore assegnatario “il diritto al godimento della casa familiare viene meno”
ma la Corte aveva escluso ogni automatismo attribuendo al giudice un potere di valutazione caso per caso
dell’opportunità o meno, in relazione all’interesse del minore, di modificare l’assetto determinato
dall’assegnazione. Ora il disegno di legge 957 – in dissonanza rispetto alle indicazioni della Corte
costituzionale – reintroduce l’automatismo (…l’assegnazione… perde efficacia”) e prevede, con
disposizione poco chiara, che in tal caso “il giudice dispone secondo i criteri ordinari”. La norma non è di
intellegibile interpretazione che sembra riproporre il primato della leggi della proprietà su quelle
dell’interesse del minore.
[17 - 18] L’art. 155-quinquies c.c. – nel testo introdotto nel 2006 - si occupa dei figli maggiorenni
non indipendenti economicamente, prevedendo che il contributo di mantenimento dei genitori nei loro
confronti “salvo diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all’avente diritto”. A modifica
di queste indicazioni il disegno di legge 957 propone che al compimento del diciottesimo anno di età il
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figlio diventa automaticamente titolare del credito di mantenimento e prescrive (ideologicamente e
inverosimilmente) che egli sia tenuto a contribuire alla spese familiari finché convivente. Egli sarà, altresì,
legittimato ad agire, in caso di inerzia dei genitori allorché l’obbligato si dovesse rendere inadempiente.
La norma legittima quindi il figlio maggiorenne – in concorso con i genitori – ad agire nella causa di
separazione. Il figlio maggiorenne, perciò, diventa di fatto con questo progetto di modifica, parte del
procedimento di separazione, potendo perfino, quindi, anche ad essere legittimato ad azionare un
procedimento di modifica delle condizioni di separazione. Una situazione inaccettabile che tra l’altro non
considera che un ragazzo di 18 anni è, sì maggiorenne, ma ancora adolescente, con tutto ciò che consegue
rispetto alle dinamiche familiari che questa norma, già nel testo attuale, può essere in grado di scatenare.
Proprio sulla base di queste considerazioni i giudici nel loro complesso non sono stati propensi, in questi
primi cinque anni di applicazione della normativa sull’affidamento condiviso, ad attribuire ai figli
maggiorenni la titolarità diretta del diritto al mantenimento. La proposta di modifica si presenta
largamente inaccettabile.
[22] L’esercizio della potestà da parte dei genitori naturali è attualmente regolamentato dall’art. 317-
bis c.c.. Con la modifica che il disegno di legge 957 propone si vorrebbe eliminare la disposizione –
contenuta all’interno dell’art. 317-bis - che attribuisce ex lege al genitore con cui il figlio convive
l’esercizio esclusivo della potestà, fino a diverso provvedimento del giudice pronunciato su ricorso
dell’altro genitore.
La proposta di modifica appare incomprensibile. Ed in effetti non si vede per quale motivo, non
essendo necessario per i genitori naturali ricorrere al giudice per la loro separazione, la disciplina della
normativa in materia di affidamento condiviso debba essere applicata automaticamente e senza il ricorso
del genitore che desidera una regolamentazione. Attivata la procedura il giudice applicherà, naturalmente,
la disciplina dell’affidamento condiviso.
[24] Il disegno di legge 957 vorrebbe introdurre una norma nel codice di procedura civile (art. 709-bis
1) dove si prevede l’obbligo, per i genitori in disaccordo sulla regolamentazione del regime di
affidamento, prima di adire il tribunale con il ricorso di separazione, di accedere a centri di mediazione
familiare. L’accordo eventualmente raggiunto è presentato al giudice mentre in caso di insuccesso sarà lo
steso giudice, con la procedura di cui all’art. 709 ter c.p.c. a dare indicazioni per risolvere il contrasto.
Analogamente ove in corso di causa o successivamente si presentasse un contrasto tra i genitori, il giudice
segnalerà alle parti l’opportunità di una mediazione familiare rinviando ad altra data in attesa dell’esito
della mediazione.
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A prescindere dal testo non lineare della norma proposta, il punto centrale che non può essere condiviso
è l’introduzione di una ipotesi di mediazione familiare obbligatoria che contrasta con i principi che gli
stessi mediatori familiari ritengono invalicabili. La mediazione familiare non è solo lo strumento di
negoziazione di un accordo (come la mediazione civile), bensì un vero e proprio processo teso al
cambiamento personale che presuppone la spontaneità dell’accesso. L’esperienza della mediazione
familiare di questi ultimi anni dimostra che la mediabilità di una coppia è direttamente proporzionale alla
volontarietà dell’accesso alla mediazione.
Pertanto, così come è congegnata la norma non ha alcuna plausibilità.
La mediazione familiare è una risorsa che va lasciata alla libera decisione delle parti.
Naturalmente ben venga un impulso alla maggiore diffusione della cultura e dei centri di mediazione
familiare non ancora regolamentati da nessuna normativa di settore.
[25] Inaccettabile è la proposta di modifica dell’art. 709-ter c.p.c. – disposizione introdotta proprio
dalla riforma del 2006 ma che non ha avuto ancora l’applicazione che meriterebbe – nella parte a) in cui si
attribuiscono al giudice non meglio specificati poteri di “ripristino, restituzione e compensazione”; b) in
cui si prevede l’ordine di rientro immediato dei figli nella originaria residenza nel caso di trasferimento di
residenza del minore senza il consenso dell’altro genitore;c) in cui si abolisce l’ammonimento; d) in cui si
sanzionano espressamente comportamenti tesi al rifiuto dell’altro genitore.
La giurisprudenza aveva accolto nel 2006 l’articolo 709-ter c.p.c. con un certo scetticismo determinato,
però, soprattutto dalla novità della norma. L’applicazione di queste disposizioni, in molti tribunali, è
ancora piuttosto ridotta o eccessivamente prudente. E’ quindi certamente prematuro indicare linee di
riforma di un istituto che non ha ancora un’applicazione chiara. In ogni caso le modifiche proposte non
sono certamente necessarie considerato che il contenuto precettivo dell’art. 709-ter c.p.c. è oggi
abbastanza chiaro.
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