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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI – Ver. 01 CAP. 19 -TRIBOLOGIA
Materiale didattico per uso personale degli studenti. Non è consentito l’uso di questo materiale a scopo di lucro. E’ vietato utilizzare dati, informazioni e immagini presenti nel testo senza
autorizzazione. Copyright Dipartimento Ingegneria Aerospaziale - Legge Italiana sul Copyright 22.04.1941 n. 633.
G. Sala, L. Di Landro, A. Airoldi, P. Bettini 1 Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale – Politecnico di Milano
CAPITOLO
19
19 TRIBOLOGIA
Sinossi
a tribologia è la scienza e la tecnologia dell’attrito,
usura e lubrificazione. Il presente capitolo
descrive quegli aspetti della tribologia che sono
rilevanti per i processi produttivi e per l’uso in servizio
dei manufatti. Prima di tutto verranno dati alcuni cenni
relativamente alle superfici, alla loro struttura e
rugosità. Poi verranno illustrati i problemi relativi
all’attrito ed all’usura ed il modo con cui essi sono
influenzati dalle variabili dei materiali e dei processi,
come la natura dei materiali coinvolti, le condizioni
delle superfici, gli sforzi di contatto, le velocità e le
temperature. La comprensione di tali correlazioni è
necessaria per una scelta corretta del materiale degli
utensili e degli stampi, come pure dei fluidi di
lubrificazione per un determinato processo produttivo.
L’impatto economico dell’usura diventa evidente
considerando che nei soli USA, il costo per la
sostituzione di componenti usurati supera i 100
miliardi di dollari all’anno. Nel settore aerospaziale,
stante gli stringenti requisiti di affidabilità e sicurezza,
l’incidenza relativa di tale costo è ancor maggiore. In
questo capitolo saranno altresì trattati gli aspetti
fondamentali dei fluidi di lubrificazione, senza
trascurare i problemi sanitari connessi con il loro uso e
smaltimento. Infine il problema tribologico verrà
contestualizzato in tre casi caratteristici delle
costruzioni aerospaziali: i motori, le trasmissioni ad
ingranaggi e l’ambiente in cui operano i veicoli spaziali.
19.1 Superfici
e superfici costituiscono il confine esterno di ogni
manufatto. Il progettista definisce le dimensioni dei
manufatti mettendone in relazione le superfici. Queste
sono però superfici nominali, che vengono rappresentate
da linee nei disegni tecnici. Le superfici non sono però
geometricamente perfette e la loro effettiva morfologia
dipende dalla tecnologia con cui sono state prodotte. Lo
stato delle superfici condiziona numerose proprietà:
precisione
sicurezza
attrito ed erosione
fatica e tenacità alla cricca
resistenza alla corrosione
possibilità di assemblaggio
conducibilità termica/elettrica;
estetica
costo.
La tecnologia delle superfici attiene a diversi aspetti:
struttura – l’analisi microscopica della superficie di un
metallo mostra la presenza di diversi strati (cfr. Figura
19.1):
L L
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il substrato, che costituisce il volume interno;
lo strato superficiale incrudito, la cui struttura
dipende dalla tecnologia di lavorazione;
uno strato di ossido (eventuale);
uno strato di gas adsorbiti (eventuale);
uno strato di contaminanti (eventuale).
Figura 19.1 - Rappresentazione microscopica
schematica della struttura superficiale di un metallo
Perciò la superficie ha caratteristiche molto diverse da
quelle del volume interno del materiale1. Tipicamente
la maggior durezza e abrasività influisce sull’attrito, il
rateo di erosione, le modalità di lubrificazione, nonchè
sulle tecniche di protezione superficiale (cfr. Cap.20).
integrità – descrive i difetti superficiali che
influiscono sulla funzionalità del componente. Essi
possono derivare dalla natura originaria del materiale,
essere intrinseci al processo produttivo o imputabili a
errori tecnologici. Tra i più comuni vengono di solito
annoverati:
cricche
crateri (avvallamenti estesi e poco profondi)
ripiegature (dette anche incollaggi)
zone termicamente alterate
inclusioni non metalliche
attacchi chimici intergranulari
trasformazioni metallurgiche
pitting (avvallamenti piccoli e profondi)
deformazioni plastiche
sforzi residui di origine termoelastica
depositi di particelle metalliche ri-solidificate
texture – è un termine non facilmente traducibile, che
sintetizza tutte le deviazioni sistematiche e
randomatiche della superficie reale dalla superficie
teorica ideale. Essa comprende quattro grandezze,
illustrate in Figura 19.2:
1 Per esempio gli ossidi sono quasi sempre molto più duri del materiale d’origine. Il rapporto tra le durezze dell’ossido e del
metallo vale rispettivamente: 90 per lo stagno, 70 per l’alluminio, 20
per il piombo 2 per il nickel, 1.6 per il rame, 0.6 per il tantalio, 0.3 per il molibdeno.
Figura 19.2 - Difetti, direzionalità, ondulazione, rugosità
superficiali
difetti: irregolarità occasionali (vedi sopra);
direzionalità o lay (cfr. Figura 19.3): orientazione
preferenziale della texture superficiale, dovuta al
tipo dell’utensile da taglio utilizzato;
ondulazione: irregolarità di lungo periodo, dovuta a
deformazione dell’utensile, vibrazioni o variazioni
termiche;
rugosità: irregolarità di corto periodo, di solito
sovrapposta all’ondulazione e dovuta alla natura
del materiale ed al tipo di processo produttivo.
Figura 19.3 – Orientazione preferenziale della texture
superficiale, in funzione dell’utensile utilizzato
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Figura 19.4 - Rugosità
rugosità – facendo riferimento alla Figura 19.4, la
rugosità si definisce come la media delle deviazioni
verticali dalla superficie nominale rispetto ad una certa
base di misura. Può essere utilizzata la media
aritmetica (AA), basata sui valori assoluti delle
deviazioni, espressa come:
Ra = (1/Lm)|y(x)|dx (integrato da 0 a Lm)
oppure:
Ra = (1/n)i=1 |yi| (sommato da 1 a n)
dove:
Ra = media aritmetica della rugosità
y = deviazioni verticali
Lm = base di misura
In alternativa può essere utilizzata la media quadratica
(RMS), che è la radice quadrata della media dei
quadrati delle deviazioni sulla base di misura, espressa
come:
Rq = [(1/Lm)y2(x)dx]
1/2 (integrato da 0 a Lm)
oppure:
Rq = [(1/n)i=1 yi2]
1/2 (sommato da 1 a n)
In alternativa, può essere utilizzata anche la rugosità
massima Rt, definita come la distanza tra il picco più alto e
la valle più profonda. Inoltre, esiste una relazione tra Ra e
Rq, come mostrato nella Tabella 19.1 seguente:
Tabella 19.1 - Relazione tra Ra e Rq per varie lavorazioni
Lavorazione Rq/Ra
Tornitura 1.1 Fresatura 1.1
Rettifica 1.2
Lappatura 1.4
relazione con i requisiti e con le tecniche produttive – i
requisiti in termini di rugosità per le tipiche applicazioni
ingegneristiche possono variare anche di due ordini di
grandezza, come esemplificato nella Tabella 19.2.
D’altra parte, i processi produttivi determinano finitura e
integrità superficiale. Alcuni processi sono intrinsecamente
in grado di fornire finiture migliori di altre. In generale, i
costi di processo crescono con il crescere dei requisiti di
finitura superficiale, in quanto sono richieste lavorazioni
aggiuntive e tempi-ciclo più lunghi. La Tabella 19.3
riassume i valori di rugosità superficiale per i principali
processi tecnologici.
Tabella 19.2 - Rugosità tipiche di alcune applicazioni
ingegneristiche
Applicazione Rugosità [m]
Dischi frizione 3.2 Tamburi freno 1.6
Supporti albero a gomiti 0.32
Sfere cuscinetti volventi 0.025
Tabella 19.3 - Rugosità tipiche di alcuni processi tecnologici
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Il compito del progettista tecnologo è perciò quello di
soddisfare i requisiti simili a quelli riportati in Tabella
19.2 scegliendo l’opportuno processo tecnologico,
riportato in Tabella 19.3, ottimizzando nel contempo il
costo produttivo.
19.2 Attrito
‘attrito è definito come la resistenza al moto
relativo tra due corpi in contatto, sotto l’azione di
un carico normale. Esso gioca un ruolo importante nei
processi produttivi a causa del moto relativo e delle
forze che sono sempre presenti sugli utensili, sugli
stampi e sui pezzi in lavorazione. L’attrito dissipa
energia, in genere sotto forma di calore, che può
influenzare negativamente il processo. Inoltre, siccome
l’attrito impedisce il libero movimento delle
interfacce, esso può anche influenzare
significativamente la deformazione ed il flusso dei
materiali durante la lavorazione. D’altra parte, l’attrito
non è sempre indesiderabile: per esempio, senza
l’attrito, non sarebbe possibile laminare i metalli,
staffare i pezzi su una macchina utensile o fissare una
punta a un mandrino. La teoria dell’attrito si fonda
sulla teoria dell’adesione, la quale si basa
sull’osservazione che due superfici pulite ed asciutte,
indipendentemente dalla loro rugosità, si toccano
solamente in corrispondenza di una ridotta frazione
della loro superficie di contatto apparente (cfr. Figura
19.5).
Figura 19.5 - Contatto tra due superfici reali. Il
rapporto tra le superfici di contatto apparente e reale
può essere di 104-105
In tale condizione, la forza normale N è supportata
solo dalle minuscole asperità: gli sforzi in
corrispondenza di esse sono perciò molto elevati. Si
verifica quindi una deformazione plastica e le asperità
generano delle micro-saldature. Lo scorrimento tra due
corpi che hanno una interfaccia è possibile allorché
viene applicata una forza tangenziale: questa è la forza
necessaria per rompere a taglio le micro-saldature ed è
chiamata forza d’attrito F. Il rapporto tra la forza
d’attrito e la forza normale F/N è il coefficiente
d’attrito . Oltre alla forza necessaria per rompere a
taglio le micro-saldature, può altresì essere presente
anche una forza di incisione, nel caso in cui una delle
due superfici incida l’altra. Tale meccanismo può
contribuire significativamente all’attrito interfacciale, in
quanto causa la rimozione di materiale e la generazione di
minuscoli trucioli. In dipendenza dei diversi materiali e
processi produttivi i coefficienti d’attrito possono variare
significativamente, come mostrato in Tabella 19.4.
Tabella 19.4 - Coefficienti d’attrito durante i principali
processi di lavorazione dei metalli
Quasi tutta l’energia dissipata in attrito viene convertita in
calore (solo una piccola frazione viene immagazzinata
sotto forma di energia di deformazione plastica), alzando
così la temperatura all’interfaccia. La temperatura
aumenta all’aumentare dell’attrito e della velocità relativa,
mentre si riduce all’aumentare della conduttività termica e
del calore specifico dei materiali affacciati. Essa può
diventare così alta da rammollire o addirittura fondere le
interfacce, provocando modificazioni micro-strutturali. La
temperatura può inoltre influire sulla viscosità e su altre
proprietà dei lubrificanti, i quali vengono degradati,
diventando meno efficienti e causando danni superficiali.
Sebbene la loro resistenza sia bassa al confronto di quella
dei metalli, i polimeri sono in genere caratterizzati da
bassi coefficienti d’attrito superficiale. Ciò li rende
preferibili ai metalli per realizzare supporti, ingranaggi e
guarnizioni: i polimeri vengono talvolta definiti materiali
auto-lubrificanti. Gli stessi fattori coinvolti nell’attrito e
nell’usura dei metalli sono presenti anche nei polimeri. Il
componente d’attrito per incisione negli elastomeri e nei
polimeri termoplastici riveste un ruolo fondamentale in
virtù del loro tipico comportamento viscoelastico e della
conseguente perdita isteretica. Un aspetto importante nelle
applicazioni dei polimeri è costituito dall’effetto
dell’aumento della temperatura all’interfaccia a causa
dell’attrito. I polimeri termoplastici perdono la resistenza
e rammolliscono all’aumentare della temperatura. Essi
sono affetti da bassa conducibilità termica e basso punto
di fusione, cosicché, se l’aumento di temperatura non
viene controllato, si possono verificare degrado termico e
deformazioni permanenti. L’attrito tra polimeri e metalli è
simile a quello tra metalli e metalli. Il ben noto basso
attrito del PTFE (Teflon) viene attribuito alla sua struttura
molecolare, che non reagisce con i metalli, cosicché
l’adesione è scarsa e l’attrito è basso. Il comportamento ad
attrito delle ceramiche in questo momento viene indagato
approfonditamente. I meccanismi sono simili a quelli che
presiedono all’attrito nei metalli: l’adesione e l’incisione
contribuiscono in maniera preponderante.
L
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L’attrito può essere limitato tramite l’opportuna
selezione di materiali a basso attrito, come i carburi e
le ceramiche, e attraverso l’uso di film e rivestimenti
superficiali (cfr. Cap.20). I lubrificanti (come gli olii)
o i film solidi (come la grafite) interpongono un film
aderente tra l’utensile, l’attrezzo ed il pezzo in
lavorazione. Il film minimizza l’adesione e
l’interazione di una superficie con l’altra, riducendone
così l’attrito. L’attrito può altresì essere grandemente
ridotto sottoponendo l’interfaccia tra utensile/pezzo o
tra stampo/pezzo a vibrazioni ultrasonore (circa
20kHz). Esse separano periodicamente le superfici,
permettendo al lubrificante di fluire liberamente tra
esse.
Il coefficiente d’attrito viene di solito determinato
sperimentalmente, sia durante il processo produttivo,
sia nel corso di esperimenti di laboratorio in scala
ridotta. Le tecniche usate per calcolare il coefficiente
d’attrito di solito comportano la misura della forza e
delle variazioni dimensionali del provino. I test di
laboratorio sono usati estensivamente (stante le
difficoltà di effettuare misure sugli impianti produttivi
reali e gli alti costi derivanti dal fermo-impianto),
sebbene talvolta essi non riproducano le esatte
condizioni del processo tecnologico, quali: a) le
dimensioni del pezzo in lavorazione e le sue
condizioni superficiali; b) l’entità delle forze in gioco;
c) le velocità operative; d) la temperatura. In ogni
caso, essi possono essere utili per confrontare materiali
o lubrificanti diversi.
Figura 19.6 - Curve per la determinazione dell’attrito
tramite il compression ring test
Il test più comunemente adottato è il ring compression
test, dove un anello viene deformato plasticamente tra due
superfici piane: poiché il suo spessore si riduce, esso si
espande radialmente verso l’esterno. Se l’attrito alla
interfaccia è nullo, il diametro interno e quello esterno si
espandono come se appartenessero ad un disco solido.
Con l’aumentare dell’attrito, il diametro interno si riduce
perché la riduzione del diametro interno comporta un’area
di contatto minore (perciò minore energia d’attrito)
rispetto ad un eguale aumento del diametro esterno. Per
una data riduzione di spessore, esiste un valore di attrito
critico cr in corrispondenza del quale il diametro interno
aumenta per valori di minori e si riduce per valori di
maggiori. Il coefficiente d’attrito viene determinato
misurando la variazione del diametro interno e usando le
curve di Figura 19.6 (ogni anello ha il proprio set di
curve).
19.3 Usura
‘usura è definita come la progressiva perdita o
rimozione di materiale da una superficie. L’usura
riveste una grande importanza tecnologica ed economica,
perché modifica la forma e le dimensioni degli utensili e
degli stampi, influendo conseguentemente sulla qualità dei
manufatti prodotti. Sebbene l’usura generalmente alteri la
topografia della superficie di un componente e possa dar
luogo a rilevanti danneggiamenti superficiali, essa può
anche portare a conseguenze benefiche. P.e., nel periodo
di rodaggio di un meccanismo o di un motore, l’usura
provvede a rimuovere i picchi delle asperità (cfr. Figura
19.7). Così, in condizioni controllate, l’usura può essere
considerata una specie di processo di lucidatura.
Figura 19.7 - Variazioni del profilo di rugosità a causa
dell’usura
Di solito l’usura viene classificata in una delle tipologie
descritte in maggior dettaglio qui di seguito:
L
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usura adesiva – come si è visto precedentemente,
quando viene applicata una forza di taglio a due
superfici reali unite da micro-saldature in
corrispondenza delle asperità, esse si separano
originando l’usura adesiva. Il percorso del cedimento
dipende dalla resistenza del legame adesivo rispetto
alla resistenza coesiva dei due materiali affacciati. A
causa di fattori quali l’incrudimento delle asperità, la
diffusione e la solubilità solida, spesso il legame adesivo è
più resistente di uno dei materiali di base. Così, durante lo
scorrimento, la frattura segue un percorso all’interno del
materiale più cedevole e viene generato un frammento
(cfr. Figura 19.8).
Figura 19.8 - Meccanismo dell’usura adesiva e della generazione delle particelle d’usura
Sebbene tale frammento resti attaccato al componente
più resistente, esso di solito si distacca nelle successive
fasi di sfregamento, producendo una particella d’usura.
Gli strati di ossido superficiale esercitano una forte
influenza sull’usura adesiva. Essi possono agire come
un film protettivo, il quale produce un’usura più
moderata ed una creazione di particelle d’usura2 di
dimensioni più piccole. Il problema dell’attrito adesivo
può essere ridotto tramite i seguenti accorgimenti:
selezione di materiali che non formino legami
adesivi forti;
utilizzo di un materiale più duro dell’altro;
utilizzo di materiali che si ossidino facilmente;
applicare rivestimenti superficiali duri.
La modellazione dei fenomeni di attrito è complessa,
ed è difficile formulare approcci analitico/numerici
veramente aderenti alle reali condizioni operative. Di
conseguenza, lo studio dell’attrito è generalmente
condotto con metodi sperimentali, attraverso
l’equazione di Archard:
V = kLW/H
che consente di determinare il coefficiente d’usura k,
una volta noti il volume dei prodotti d’usura V, la
lunghezza di strisciamento L, la forza normale tra le
superfici W e la durezza superficiale H dell’aderente
più tenero (misurata con una tecnica di indentazione).
Il coefficiente d’attrito varia fra una coppia assegnata
di materiali in dipendenza di carico, velocità e
temperatura. Perciò il coefficiente d’attrito viene
misurato sperimentalmente, in condizioni il più
possibile simili a quelle operative effettive;
2 Questo è il motivo per cui, in ambiente spaziale (trattato più oltre),
dove l’assenza di umidità comporta l’assenza di strati di ossidi superficiali, il problema dell’attrito adesivo è particolarmente
sentito.
usura abrasiva – l’usura abrasiva è causata da una
superficie dura e scabra (o da una superficie contenente
particelle dure e sporgenti) che striscia su di un’altra
superficie. Questo tipo di usura rimuove particelle sotto
forma di micro-trucioli e quindi provoca intagli e graffi
sulla superficie più tenera (cfr. Figura 19.9). La resistenza
all’usura abrasiva dei metalli puri e delle ceramiche è
direttamente proporzionale alla loro durezza. Perciò
l’usura abrasiva può essere ridotta aumentando la durezza
superficiale dei materiali (per esempio tramite trattamenti
termici, cfr. Cap.20) oppure riducendo il carico normale.
Figura 19.9 - Rappresentazione schematica dell’usura
abrasiva
Anche le gomme e gli elastomeri sono in grado di
resistere all’usura abrasiva, in quanto prima si deformano
elasticamente e poi recuperano la loro forma allorché la
particella abrasiva ha attraversato la superficie. Il miglior
esempio è rappresentato dai pneumatici, che possiedono
una lunga durata anche se utilizzati su superfici scabre e
abrasive: anche acciai induriti superficialmente non
avrebbero una pari durata nelle medesime condizioni;
usura corrosiva – conosciuta anche come ossidazione o
usura chimica, è causata da reazioni chimiche o elettro-
chimiche che avvengono tra la superficie e l’ambiente
circostante. Le polveri fini prodotte dalla superficie
costituiscono le particelle d’usura derivanti da questo tipo
di degrado. Quando lo strato corrosivo viene distrutto o
rimosso a causa dello strisciamento o dell’abrasione, si
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forma un altro strato e il processo di rimozione e di
formazione dello strato di corrosione si ripete. Tra gli
ambienti corrosivi vanno annoverati l’acqua, l’acqua
marina, l’ossigeno, gli acidi, i prodotti della
combustione, quali il solfuro di idrogeno e il biossido
di zolfo. L’usura corrosiva può essere ridotta: a)
scegliendo materiali che resistano all’attacco chimico
ambientale; b) controllando l’ambiente; c) riducendo le
temperature operative per ridurre la cinetica chimica
delle reazioni di ossidazione;
usura per fatica – detta anche fatica superficiale o
usura per frattura superficiale, si produce quando la
superficie di un materiale è sottoposta ad una
sollecitazione ciclica: l’esempio tipico è quello delle
piste di rotolamento dei cuscinetti volventi. Le
particelle d’usura generalmente derivano da
meccanismi di pitting. Un altro tipo di usura consiste
nella fatica termica, che vede il generarsi di cricche
superficiali causate dagli sforzi di origine termo-
elastica indotti da variazioni termiche cicliche:
esempio tipico è quello di uno stampo freddo che
viene a contatto ripetutamente con il materiale caldo
da lavorare. Poi le cricche coalescono fino a provocare
sfogliamento e usura per fatica. Quest’ultima può
essere ridotta: a) riducendo gli sforzi di contatto; b)
limitando la variazione termica ciclica; c) migliorando
le proprietà del materiale tramite la rimozione di
impurità, inclusioni e difetti che possano agire da punti
di innesco;
usura per impatto – consiste nella rimozione, da parte
di particelle impattanti, di piccole quantità di materiale
da una superficie: esempio tipico è quello delle pale
d’elica o dei rotori degli elicotteri operanti in ambienti
desertici, con presenza di granelli di sabbia in
sospensione. In tal caso l’usura viene limitata tramite
le fasce anti-abrasive;
erosione – è causata da un flusso di particelle libere
che abradono una superficie;
fretting corrosion – è un fenomeno molto comune
nelle costruzioni aerospaziali costituite da lamiere
metalliche chiodate: esso consiste nel danneggiamento
di parti in movimento mutuamente compresse e
comporta la com-presenza a livello microscopico di
fenomeni di:
saldatura
deformazione plastica
reazione chimica
abrasione
spesso il fretting è altresì associato a:
fatica
corrosione
usura
il fretting è influenzato da:
entità del moto relativo
entità e distribuzione delle pressioni di contatto
stato di tensione
numero di cicli di fatica accumulati
natura dei materiali a contatto
condizioni superficiali dei materiali a contatto
frequenza del moto relativo
temperatura
natura dell’ambiente circostante
Di solito l’azione del fretting induce danneggiamenti per
fatica attribuibili alla nucleazione prematura di difetti; di
conseguenza i processi che introducono tensioni residue di
compressione (come pallinatura e rullatura a freddo)
migliorano il comportamento a fatica in presenza di
fretting. L’abrasione prodotta dal fretting è pericolosa in
quanto riduce l’interferenza del collegamento; essa viene
valutata per mezzo di leggi semi-empiriche del tipo:
Wtot = (k0L1/2
– k1L)C/F + k2SLC
dove:
Wtot = perdita di peso totale del provino
k0, k1, k2 = costanti determinate empiricamente
L = forma di contatto normale
C = numero dei cicli di fretting
F = frequenza del fretting
S = scorrimento durante un ciclo di fretting
Anche i polimeri possono andare soggetti a fenomeni di
usura, con modalità simili a quelle tipiche dei metalli. Il
comportamento ad usura abrasiva dipende in parte dalla
capacità del polimero di deformarsi elasticamente e di
recuperare poi la propria forma, così come gli elastomeri.
Il parametro che presiede a questo comportamento è il
rapporto tra la durezza e il modulo elastico dei materiali
coinvolti: la resistenza dei polimeri all’usura abrasiva
aumenta all’aumentare di tale rapporto. I polimeri più
resistenti all’usura abrasiva sono i poli-imidi, poli-
ammidi, poli-carbonati, poli-propilene, acetali e poli-
etilene ad alta densità: per questo sono adatti per produrre
ingranaggi, pulegge e parti in movimento di meccanismi.
Essi possono anche essere miscelati con lubrificanti
interni, come il PTFE (Teflon), silicio, bisolfuro di
molibdeno, grafite e particelle elastomeriche.
Per quanto riguarda le plastiche rinforzate e i materiali
compositi, la loro resistenza all’usura dipende dalla
natura, percentuale volumetrica, orientazione del rinforzo
entro la matrice polimerica. Le fibre di carbonio, vetro e
aramidiche (Kevlar) migliorano la resistenza all’usura, ma
comportano un meccanismo di danno aggiuntivo: il pull-
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out (estrazione) delle fibre dalla matrice. L’usura è
maggiore quando la direzione di scorrimento è
parallela alle fibre, proprio perché esse possono essere
estratte più facilmente; inoltre le fibre continue
conferiscono maggior resistenza all’usura perché sono
più difficili da estrarre e prevengono la propagazione
delle cricche, fungendo da crack-stopper.
Infine l’usura delle ceramiche: quando esse strisciano
su un metallo, l’usura dipende da: a) deformazioni
plastiche su piccola scala e fratture superficiali fragili;
b) reazioni chimiche superficiali; c) indentazione; d)
fatica. I metalli possono essere trasferiti alle superfici
delle ceramiche, formando ossidi metallici: così, in
realtà, lo strisciamento avviene tra il metallo e la
superficie di ossido metallico. Per altro, le tecniche di
lubrificazione convenzionali non sono particolarmente
efficaci nel caso delle ceramiche.
L’usura può essere osservata e misurata tramite diversi
metodi: la scelta è dettata dal livello di accuratezza
richiesto e da eventuali vincoli esterni (p.e.
l’impossibilità di smontare il componente). Possono
essere messi in atto metodi visuali, tattili, basati sulla
misura dimensionale, sull’uso di profilometri o sulla
misurazione del peso del particolato prodotto. Talvolta
la rilevazione del livello di vibrazione o di rumore può
essere ricondotta al grado di usura del componente.
L’usura dei componenti dei motori a reazione viene
misurata tramite l’analisi spettroscopica delle
particelle contenute nel fluido lubrificante.
19.4 Lubrificazione
a lubrificazione è il processo di applicazione dei
fluidi lubrificanti allo scopo di ridurre l’attrito e
l’usura nei casi in cui questi fenomeni si manifestano.
Esistono quattro metodi di lubrificazione adottati nei
processi produttivi (illustrati in Figura 19.10a-d):
Figura 19.10 - Metodi di lubrificazione: a) a film spesso;
b) a film sottile; c) di tipo misto; d) superficiale.
a film spesso – le superfici sono completamente
separate e la viscosità del lubrificante costituisce il
parametro più importante. Tipica di operazioni ad
alta velocità, essa dà luogo a superfici a buccia
d’arancia, le dimensioni della cui granulosità
dipendono dalle dimensioni dei grani cristallini;
a film sottile – se il carico tra le due parti (pezzo da
lavorare e stampo) aumenta o la velocità e la
viscosità del fluido di lubrificazione si riducono, lo
spessore del meato di lubrificante diminuisce. Tale
situazione accresce l’attrito all’interfaccia e
comporta una leggera usura;
di tipo misto – nel caso, un’aliquota significativa
del carico viene sopportata dal contatto fisico tra le
superfici. La parte rimanente è sopportata dal
meato fluido intrappolato nelle tasche costituite
dalle valli tra un’asperità e l’altra;
superficiale – in questa situazione, il carico è
sopportato dalle superfici a contatto, ricoperte da
un film superficiale di lubrificante, di spessore
molecolare. I lubrificanti superficiali sono gli olii
naturali, i grassi, gli acidi grassi, gli esteri ed i
saponi. Questi strati superficiali si possono
rompere a causa di: a) de-adsorbimento causato
dall’elevata temperatura; b) asportazione durante lo
strisciamento. Private dello strato lubrificante, le
superfici possono così usurarsi gravemente.
Poiché le valli della rugosità superficiale possono fungere
da tasche ove il lubrificante si accumula, esse possono
trovarsi a sopportare un’aliquota rilevante del carico. Per
questo motivo è importante che il pezzo da lavorare abbia
rugosità maggiore dello stampo, altrimenti quest’ultimo
ne danneggerebbe la superficie. La rugosità raccomandata
per gli stampi è di circa 0.4m. Anche la geometria dei
pezzi interagenti è importante ai fini della lubrificazione:
il movimento del materiale da lavorare nella zona di
deformazione, come pure durante la trafilatura, estrusione
e laminazione deve consentire l’apporto di un film spesso
e stabile di lubrificante all’interfaccia tra stampo e pezzo.
I lubrificanti devono svolgere molteplici funzioni:
ridurre l’attrito
ridurre l’usura
migliorare lo scorrimento del materiale
fungere da barriera termica tra pezzo e stampo
fungere da coadiuvante alla sformatura
I lubrificanti fluidi che soddisfano questi requisiti sono:
L
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G. Sala, L. Di Landro, A. Airoldi, P. Bettini 9 Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale – Politecnico di Milano
olii – sono filmogeni e sono molto efficienti
nella riduzione di attrito e usura, ma possiedono
bassa conducibilità termica e calore specifico,
quindi non smaltiscono efficientemente il
calore; inoltre sono difficili da rimuovere dalla
superficie del pezzo finito. Possono essere di
origine minerale, vegetale, animale oppure
miscele di questi tipi3;
emulsioni – sono misture di fluidi immiscibili,
di solito olii, acqua e additivi; in particolare, gli
emulsionanti impediscono la coalescenza delle
goccioline in sospensione. Le emulsioni hanno
un aspetto lattiginoso e si differenziano in olii
solubili in acqua e refrigeranti a base acquosa.
Esistono le emulsioni dirette (olio disperso in
acqua) e le emulsioni indirette (acqua dispersa
in olio). Le prime sono efficaci anche come
refrigeranti nelle lavorazioni ad alta velocità;
soluzioni sintetiche e semi-sintetiche – le prime
sono fluidi costituiti da sostanze inorganiche
dissolte in acqua; le seconde sono simili alle
prime, ma con l’aggiunta di olii emulsionabili;
saponi, grassi e cere – i saponi sono i prodotti
di reazione dei sali di sodio e potassio con gli
acidi grassi. I saponi alcalini sono solubili in
acqua, non quelli metallici. Essi sono
particolarmente efficienti come lubrificanti
superficiali. I grassi sono lubrificanti solidi o
semi-solidi consistenti in saponi, olii minerali e
additivi. Essi sono molto viscosi e aderiscono
bene alle superfici. Le cere possono avere
origine animale o vegetale (paraffine), sono più
fragili dei grassi e trovano impiego solo nella
lubrificazione del rame, degli acciai inox e delle
leghe per alte temperature.
Inoltre i lubrificanti sono miscelati con additivi,
ciascuno dei quali aggiunge un’ulteriore particolare
funzionalità:
inibitori di ossidazione
agenti di prevenzione della ruggine
inibitori di schiuma
stimolanti della bagnabilità
agenti per il controllo dell’odore
antisettici e biocidi4.
Lo zolfo, il fosforo, le clorine (detti additivi per
pressioni estreme–EP), sono additivi molto efficaci:
essi reagiscono chimicamente, creando film di solfuri
o cloruri metallici.
3 Le miscele vengono formulate per ottimizzare le proprietà di viscosità-temperatura, tensione superficiale, resistenza al calore e
filmogenicità. 4 Per evitare la crescita di micro-organismi come alghe, batteri e virus.
In virtù delle loro peculiarità, vengono talvolta adottati
anche lubrificanti solidi, i più comuni tra i quali sono:
grafite – grazie alla sua cedevolezza a taglio
rispetto ai piani basali, la grafite è caratterizzata dal
basso coefficiente d’attrito in tale direzione e
perciò può diventare un buon lubrificante solido,
specie a elevata temperatura. L’effetto si esplica
però solo in presenza di aria/umidità: in assenza, la
grafite si comporta come un abrasivo. Nel settore
aerospaziale, la grafite è usata in forma di C60
(fullerene), le cui molecole sferiche si comportano
come sfere di cuscinetti volventi;
bi-solfuro di molibdeno – è un lubrificante solido
lamellare che funziona come la grafite, ma è
efficiente anche in condizioni ambiente. Il bi-
solfuro di molibdeno (MoS2), come la grafite, può
essere sfregato sulle superfici da lubrificare o
apportato da una soluzione colloidale in olio;
metalli – un film superficiale di metalli teneri
(piombo, indio, cadmio, stagno o argento), in virtù
della loro bassa resistenza, può fungere da
lubrificante, ma solo per bassi valori della forza di
contatto. Essi sono depositati chimicamente sulla
superficie di metalli duri (acciai, acciai inox, leghe
per alte temperature) e fungono da lubrificanti
solidi superficiali, così come alcuni tipi di ossidi;
polimeri – così come per i metalli, anche alcuni
polimeri (PTFE–Teflon, polietilene, metacrilati) in
forma di film superficiali, possono fare da
lubrificanti solidi, ma non per alte temperature;
vetri – pur essendo un materiale solido, esso
diventa viscoso ad elevata temperatura e può
quindi servire da lubrificante. La viscosità dipende
dalla temperatura e non dalla pressione. Inoltre il
vetro ha bassa conducibilità termica e funge quindi
da barriera tra pezzo e stampo.
Spesso i lubrificanti non aderiscono bene alle superfici e
vengono asportati dall’azione di sfregamento. In questi
casi, le superfici vengono trasformate per mezzo di una
reazione con acidi (conversione), diventando così rugose,
spugnose e facilmente bagnabili dai lubrificanti liquidi.
Esempi: strato di conversione di fosfato di zinco per gli
acciai al carbonio e di ossalati per gli acciai inossidabili.
Per scegliere il lubrificante liquido adatto ad una
particolare applicazione vanno considerati svariati fattori:
specificità del processo tecnologico
parametri tecnologici del processo
natura del materiale in lavorazione
natura del materiale dell’utensile o dello stampo
compatibilità del fluido con tali materiali
eventuale necessità di preparazione superficiale
metodo di adduzione del fluido
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modalità di rimozione del fluido
possibilità di contaminazione del lubrificante
requisiti di immagazzinamento del fluido
trattamento (o riciclaggio) dei lubrificanti reflui
considerazioni biologiche ed ambientali
fattori economici globali
Inoltre (per gli olii) va tenuta in conto la dipendenza
della viscosità dalla temperatura e dalla pressione.
Infine, si deve considerare qual è la funzione primaria
richiesta: lubrificante o refrigerante. Gli olii sono
buoni lubrificanti, ma scarsi refrigeranti; al contrario le
soluzioni acquose: la miglior soluzione di
compromesso (adottata nel 80-90% dei casi) consiste
in fluidi a base acquosa. Da ultimo va ricordato che i
lubrificanti:
non devono lasciare residui tossici e/o
pericolosi
non devono provocare effetti di corrosione
devono essere controllati periodicamente per
evitare il deterioramento dovuto all’accumulo
di batteri, ossidi e particelle d’usura.
19.5 Casi particolari di interesse
aerospaziale
el presente capitolo si sono trattati soprattutto gli
aspetti della tribologia legati a processi
tecnologici. In quest’ultimo paragrafo vengono invece
illustrate le problematiche tribologiche di alcune
condizioni di servizio tipiche del settore aerospaziale:
quelle dei motori, delle trasmissioni e dei veicoli
spaziali operanti nel vuoto:
motori – nei motori a combustione interna, un’aliquota
rilevante di energia viene dissipata a causa dell’attrito
meccanico; nei motori alternativi, circa il 50% di
questa deriva dall’accoppiamento pistoni-cilindri (cfr.
Figura 19.11). Invece nei motori a turbina le maggiori
perdite per attrito sono imputabili ai cuscinetti e
supporti degli alberi rotanti.
Come per tutti i sistemi progettati per funzionare con
un lubrificante liquido, il parametro tribologico chiave
è lo spessore del film lubrificante che separa le
superfici dei componenti interagenti. Più precisamente
è lo spessore del film lubrificante paragonato alla
combinazione delle rugosità delle superfici: il rapporto
di spessore del film :
= h/(Rrms(sup1)2 + Rrms(sup2)
2)
1/2
dove h è lo spessore del film lubrificante, mentre
Rrms(sup1) e Rrms(sup2) sono le rugosità quadratiche medie
delle due superfici.
Figura 19.11 - Dissipazione di energia dovuta agli attriti
meccanici
La Figura 19.12 mostra la correlazione tra ed il
coefficiente d’attrito ed evidenzia altresì i meccanismi di
lubrificazione e i regimi in cui funzionano rispettivamente
gli accoppiamenti pistone-cilindro (per motori alternativi)
e albero-supporto (per motori a turbina).
Figura 19.12 - Relazione tra ed il coefficiente d’attrito
Nel primo caso (illustrato in Figura 19.13), dal punto di
vista tribologico, i punti cruciali sono a) le fasce di tenuta
(in genere tre) che devono garantire la tenuta pneumatica e
la continuità termica tra pistone e cilindro; b) la parte di
pistone sottostante le fasce (skirt).
N
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Figura 19.13 - Rappresentazione schematica del contatto pistone-cilindro ai fini dello studio tribologico
Figura 19.14 - Variazione dello spessore del film
lubrificante al variare dell’angolo di manovella
A causa del moto del pistone, le fasce di tenuta possono
sperimentare lubrificazione a film spesso, sottile, mista e
superficiale, in conseguenza della variazione di spessore
del film durante il ciclo di combustione (cfr. Figura
19.14). Anche la skirt contribuisce (in ragione del 30%
circa) al totale dell’attrito dell’assieme pistone-cilindro;
per questo viene di solito realizzata (come il resto del
pistone) in una lega alluminio-silicio rivestita in PTFE o
grafite per ridurre l’attrito. Anche i cilindri sono realizzati
in lega di alluminio, con rivestimenti placcati per ridurre
l’usura. Le fasce sono prodotte in acciaio cromato o
rivestito per plasma-spray con molibdeno, ceramiche o
cermets. In ogni caso, la texture delle superfici deve
contemperare bassa rugosità e capacità di ritenzione del
lubrificante.
Nel caso dei motori a turbina, la criticità tribologica
risiede nell’accoppiamento albero-supporto. Il materiale
per i supporti deve essere scelto in maniera da soddisfare
requisiti che spesso sono contraddittori (cfr. Tabella 19.5):
Tabella 19.5 - Requisiti per i materiali dei supporti
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La soluzione di compromesso di solito consiste in
supporti tri-metallici (mostrati in Figura 19.15) con
struttura portante in acciaio, rivestimento in bronzo o
alluminio e finitura (per sputtering o elettroplaccatura)
in Pb-Sn-Cu o Sn-In. Oggigiorno non sono rari anche i
rivestimenti ceramici. Tutte le architetture devono
contemperare la riduzione di attrito, che porta ad un
risparmio energetico e deriva da finiture con materiali
teneri, e la durability, che viene massimizzata
dall’adozione di finiture con materiali duri.
Figura 19.15 – Supporti tri-metallici per il
soddisfacimento dei requisiti richiesti.
trasmissioni a ingranaggi – il contatto tra i denti degli
ingranaggi viene riconosciuto come una delle più
complicate applicazioni della tribologia: nonostante
l’estensiva ricerca sulla lubrificazione degli
ingranaggi, è stato sottolineato come non sia stato
ancora possibile trasformare l’arte della lubrificazione
degli ingranaggi in una scienza. La situazione sta
gradualmente cambiando, soprattutto grazie al rapido
sviluppo della lubrificazione elastoidrodinamica
(EHL). In ogni caso, il problema è di primaria
importanza nelle tecnologie delle costruzioni
aerospaziali, stante il fatto che l’affidabilità e la
sicurezza di alcune realizzazioni classiche, quali la
trasmissione degli elicotteri ed i motori turboelica, si
basano proprio sul buon funzionamento di sistemi di
ingranaggi e del loro sistema di lubrificazione. Tra le
molte tipologie di ingranaggi, quelle più comunemente
utilizzate sono:
a denti diritti (Figura 19.16a)
elicoidali (Figura 19.16b)
epicicloidali (Figura 19.16c)
a vite senza fine (Figura 19.16d)
Il processo di lubrificazione ed i cedimenti correlabili
con la lubrificazione di tutte queste tipologie hanno
molto in comune, poiché i carichi applicati a tutti
questi ingranaggi sono trasmessi attraverso contatti
Hertziani lubrificati, noti anche come contatti
elastoidrodinamici (EHL).
Figura 19.16 - a-d: Tipologie di ingranaggi: a) a denti diritti;
b) elicoidali; c) epicicloidali; d) a vite senza fine
Esistono almeno quattro modi principali di cedimento dei
denti degli ingranaggi che sono direttamente correlabili
con il deterioramento della lubrificazione o con il cambio
delle prestazioni della lubrificazione al contatto dei denti
degli ingranaggi, come l’annullamento dello spessore del
film lubrificante, l’aumento repentino della temperatura di
contatto e l’eccessiva presenza di particelle d’usura nel
lubrificante. Tali modi di cedimento sono:
macro-pitting, quando si formano crateri aventi
forma e dimensione uguali alla superficie del
contatto Hertziano;
micro-pitting, quando si formano crateri di piccole
dimensioni (dell’ordine del micron), ma fitti e
omogeneamente diffusi
scuffing, quando a causa dell’alta temperatura di
contatto le asperità superficiali si plasticizzano e si
trasferiscono sulla superficie accoppiata;
erosione diffusa, quando i classici fenomeni di
adesione, abrasione, corrosione e fatica danno
luogo ad una diffusa rimozione di materiale.
Per la maggior parte degli ingranaggi, la geometria del
contatto tra i denti in qualunque punto lungo il percorso di
contatto durante l’intero accoppiamento può essere
determinato dalla teoria Hertziana per due cilindri o due
ellissoidi. Le velocità di rotolamento e di strisciamento
possono pure essere determinate a partire dalle relazioni
cinematiche degli ingranaggi. Con tali dati d’ingresso e
tramite le teorie EHL possono essere determinate le
prestazioni della lubrificazione, con speciale attenzione a:
a b
c d
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G. Sala, L. Di Landro, A. Airoldi, P. Bettini 13 Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale – Politecnico di Milano
dove sono localizzate le aree di minimo
spessore del film lubrificante in corrispondenza
delle quali può avvenire la fatica per contatto e
quali sono i valori critici per questi spessori;
dove sono localizzate le aree di alta temperatura
di contatto in corrispondenza delle quali si
innesca lo scuffing e quali sono i valori critici
per queste temperature.
Una teoria completa della lubrificazione degli
ingranaggi, teoricamente, dovrebbe essere in grado di
determinare:
gli effetti transitori imputabili a carichi, raggi di
contatto, velocità di rotolamento e strisciamento
variabili;
effetti dell’accoppiamento temperatura/spessore
del film per determinare la distribuzione della
temperatura superficiale dei due ingranaggi;
effetti della rugosità sulla lubrificazione;
modelli accurati di attrito, tenendo conto del
film fluido e delle asperità di contatto.
Nelle applicazioni aerospaziali, generalmente, si
trovano ingranaggi che ruotano ad elevata velocità, nei
quali il parametro (definito precedentemente) è
maggiore di 3. In queste condizioni valgono due
assunzioni importanti:
le superfici di contatto sono perfettamente lisce;
la distribuzione dello spessore del film nella
regione di contatto non è influenzata da
rugosità, texture ed orientazione rispetto alla
direzione di flusso del lubrificante.
Tutto ciò non è più valido nella maggior parte delle
altre applicazioni, nelle quali è molto minore di 3 e
devono essere tenuti in conto anche gli effetti della
rugosità sulla lubrificazione. In questi casi deve essere
considerata la lubrificazione di modo misto, che
dipende dalla pressione del fluido generato
idrodinamicamente, e dalla pressione di contatto solido
in corrispondenza delle asperità.
In sintesi, possono essere tratte le seguenti conclusioni:
l’efficienza e la durabilità della maggior parte
dei tipi di trasmissione di potenza ad ingranaggi
(non solo nel settore aerospaziale) dipende
fortemente dalle prestazioni della lubrificazione
al contatto dei denti. La rugosità e la texture
delle superfici, le proprietà chimiche e fisiche
del lubrificante, ed anche i suoi additivi,
devono essere scelti attentamente, per dar luogo
a elevati valori di , bassi attriti di contatto e
temperature superficiali per allungare la vita
ante-pitting, per minimizzare le perdite di
potenza ed evitare le rotture per scuffing;
le teorie di lubrificazione elastoidrodinamica
(EHL) sono state attentamente sviluppate e poi
applicate con successo per prevedere le proprietà
del lubrificante per le più comuni tipologie di
ingranaggi. Cionostante, queste analisi ben si
applicano a superfici di contatto perfettamente
lisce5 (tipiche del settore aerospaziali): in tutti gli
altri casi si deve ricorrere a teorie di modo misto,
che tengono conto dell’effetto della rugosità;
la maggior parte delle attuali teorie predittive del
macro- e micro-pitting e dello scuffing dei denti
sono empiriche o semi-empiriche. Grazie allo
sviluppo di algoritmi computazionali avanzati in
grado di prevedere accuratamente i contatti tra le
asperità, la pressione del fluido e la temperatura al
contatto si hanno forti prospettive di sviluppare più
avanzati ed accurati modelli di cedimento dei denti
degli ingranaggi per pitting e scuffing.
sistemi spaziali – l’usura adesiva costituisce una forma di
usura molto grave, caratterizzata da elevati ratei di usura e
coefficienti d’attrito pure elevati, oltre che instabili. I
contatti striscianti possono essere rapidamente distrutti
dall’usura adesiva e, nei casi estremi, il movimento può
essere impedito da coefficienti d’attrito molto elevati. I
metalli sono particolarmente sensibili all’usura adesiva
che, in genere, rappresenta l’ultimo stadio di un processo
avviato dall’incapacità del lubrificante di mantenere
separate le superfici striscianti. La maggior parte dei solidi
aderisce ad un altro solido solo se talune condizioni sono
soddisfatte: di solito ciò non avviene grazie a strati
superficiali contaminanti costituiti da ossigeno, vapore
acqueo condensato, ossidi e residui di lubrificante.
L’atmosfera terrestre fornisce naturalmente questi strati
contaminanti, i quali impediscono molto efficacemente
l’adesione tra solidi. Ciò non accade nell’atmosfera dello
spazio: per tale motivo il problema dell’attrito adesivo è
particolarmente sentito nei veicoli e nei sistemi spaziali6 e
merita perciò in questa sede una speciale considerazione.
Per altro, l’adesione si riduce all’aumentare della rugosità
superficiale e della durezza delle superfici affacciate. Gli
esperimenti condotti in condizioni di alto vuoto mostrano
per quasi tutti i materiali un comportamento tribologico
totalmente diverso da quello mostrato in aria libera. Qui di
seguito vengono analizzati i meccanismi di adesione per
accoppiamenti tra materiali di diversa natura:
metallo-metallo – a parte i metalli nobili come l’oro ed il
platino, ogni altro metallo è sempre coperto da un film di
5 Questo deve essere tenuto in conto al momento della progettazione
delle lavorazioni di finitura dei denti degli ingranaggi delle trasmissioni 6 I casi di sistemi spaziali che implicano lo scorrimento di superfici sono
numerosi: si pensi alle articolazioni dei bracci robotici e agli snodi dei
sistemi di dispiegamento dei pannelli fotovoltaici e delle antenne. Caso curioso è rappresentato dal cavo del satellite tethered, costituito anche da
trefoli di fibre poli-aramidiche. Venne dimostrato che i modificati
meccanismi di attrito tra di essi influivano in maniera rilevante sulla dinamica globale del cavo.
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ossido, spesso così sottile (pochi nm) da essere
invisibile, che impedisce il vero contatto tra i metalli
ed impedisce l’usura, a meno che venga
deliberatamente rimosso. In questo caso si generano
forze di adesione anche 20 volte maggiori delle forza
di contatto, specie per coppie di metalli uguali.
Quando esiste una forte adesione avviene
trasferimento dal metallo più debole al metallo più
forte, come illustrato schematicamente nella Figura
19.17:
Figura 19.17 - Meccanismo di trasferimento del metallo in
conseguenza dell’adesione
Figura 19.18 - Relazione tra coefficienti di adesione e durezza per alcuni metalli
Il meccanismo di adesione tra metalli avviene a causa
del trasferimento di elettroni liberi tra le superfici a
contatto, da quella a maggiore a quella a minore
densità elettronica (modello Jellium). Il meccanismo
dipende dalla struttura cristallina del metallo (è minore
per quella esagonale compatta), dalla reattività, dal
modulo elastico e dalla durezza (cfr. Figura 19.18),
che riducono la plasticizzazione;
metallo-polimero – anche in questo caso si verificano
forti adesioni a causa della presenza nei polimeri di
non-metalli (come la fluorina) che danno luogo a
interazioni chimiche, in aggiunta a forze attrattive di
Van der Waals;
metallo-ceramica – in particolari condizioni si possono
verificare forti adesioni a causa di interazioni chimiche
tra gli ioni ossigeno contenuti negli ossidi superficiali del
metallo e la ceramica. Quindi solo i metalli nobili non
danno luogo a fenomeni di adesione con le ceramiche;
polimero-polimero – l’adesione è debole ed è dovuta a
forze attrattive di van der Waals;
ceramica-ceramica – l’adesione è debole, essendo dovuta
a forze di Van der Waals, e viene ulteriormente ridotta a
causa dell’elevata durezza superficiale delle ceramiche.
La forte adesione tra le asperità delle superfici a contatto
produce due effetti principali: viene generata una grande
componente di forza d’attrito e le asperità possono essere
rimosse dalla superficie per formare particelle d’attrito o
strati trasferiti. Di seguito si analizzano tali fenomeni:
crescita di giunzioni puntuali – se inizialmente è presente
una forza normale di contatto in grado di provocare la
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plasticizzazione delle asperità, l’area di contatto
aumenta, la pressione normale si riduce (cfr. Figura
19.19) e la forza tangenziale aumenta fino a
raggiungere lo sforzo di taglio di snervamento: di
conseguenza, il coefficiente d’attrito aumenta ed il
sistema può diventare instabile;
Figura 19.19 - Diagramma schematico della crescita di
giunzioni in corrispondenza delle asperità a causa della
forza d’attrito
deformazione delle asperità – quando non si
producono particelle d’attrito, il contatto può dar luogo
a rilevanti deformazioni, come quello mostrato in
Figura 19.20;
Figura 19.20 - Modello della deformazione delle asperità
a causa dell’attrito adesivo
Figura 19.21 - Diagramma schematico della formazione
di una particella d’attrito
formazione di particelle d’attrito – l’azione combinata
dell’adesione tra le asperità e del moto di scorrimento
provoca forti deformazioni delle asperità (vedi sopra):
il materiale delle asperità più cedevoli si deforma in
una serie di bande di scorrimento per adattare il moto
relativo: quando le bande raggiungono un valore limite, si
innesca una cricca che provoca la formazione di una
nuova banda fino alla separazione di una particella
d’attrito (Figura 19.21).
formazione di strati di trasferimento – la particella di
metallo staccatasi da una delle asperità rimane attaccata
all’altra superficie. In dipendenza delle condizioni, essa
può venir rimossa dai contatti successivi e divenire una
particella d’usura vera e propria, oppure può creare uno
strato di trasferimento, con il meccanismo di Figura 19.22:
Figura 19.22 - Formazione e rimozione di una particella di
trasferimento
Ciò accade tra metalli caratterizzati da mutua solubilità
(p.e. alluminio e rame), ma non tra metalli mutuamente
insolubili (p.e. ferro e argento). Quando metalli diversi
strisciano l’uno sull’altro ha luogo un tipo di alligazione
meccanica: si formano particelle di lega, che all’aumentare
delle dimensioni diventano delle lamelle (cfr. Figura
19.23).
A causa delle elevate deformazioni, le particelle di
trasferimento incrudiscono e diventano sufficientemente
dure da provocare delle rigature nell’aderente più tenero,
come mostrato nella Figura 19.24.
Teoricamente esistono diverse tecniche adatte a ridurre o
eliminare l’attrito adesivo, ovvero:
sfruttare l’azione degli strati contaminanti;
provvedere un’adeguata lubrificazione;
scegliere opportunamente gli accoppiamenti.
Nelle applicazioni spaziali le prime due soluzioni non
sono applicabili, in quanto l’atmosfera spaziale non è tale
da indurre la formazione di ossidi superficiali e perché i
lubrificanti sono proscritti dall’impiego spaziale7. Rimane
quindi attuabile la terza soluzione, evitando i seguenti
accoppiamenti:
tra metalli identici;
tra metalli mutuamente solubili;
tra un metallo chimicamente reattivo e uno inerte;
7 Per evitare pericoli di sublimazione e di out-gassing (cfr. capitolo sul degrado dei materiali in ambiente spaziale).
TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI – Ver. 01 CAP. 19 -TRIBOLOGIA
Materiale didattico per uso personale degli studenti. Non è consentito l’uso di questo materiale a scopo di lucro. E’ vietato utilizzare dati, informazioni e immagini presenti nel testo senza
autorizzazione. Copyright Dipartimento Ingegneria Aerospaziale - Legge Italiana sul Copyright 22.04.1941 n. 633.
G. Sala, L. Di Landro, A. Airoldi, P. Bettini 16 Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale – Politecnico di Milano
tra metalli puri (sono preferibili le leghe).
Sono invece raccomandabili gli accoppiamenti:
tra metalli e polimeri;
tra metalli nobili (oro e platino).
Figura 19.23 - Formazione di particelle di trasferimento a struttura lamellare
Figura 19.24 - Meccanismo di creazione di una rigatura da parte di una particella di trasferimento incrudita
Bibliografia
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TECNOLOGIE E MATERIALI AEROSPAZIALI – Ver. 01 CAP. 19 -TRIBOLOGIA
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G. Sala, L. Di Landro, A. Airoldi, P. Bettini 17 Dipartimento di Ingegneria Aerospaziale – Politecnico di Milano
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